sabato 5 luglio 2008

l'Unità 5.7.08
Santino Spinelli. Professore di letteratura rom e fondatore dell’associazione «Thém Romanò»: in Italia c’è un’apartheid contro di noi
«Anche noi rom ci saremo, contro la vergogna delle impronte»
di Maristella Iervasi


A distanza esatta di un mese dalla grande manifestazione a Roma, il popolo Rom (ri)esce dai campi e dalle roulotte e dà voce al proprio disagio. Martedì 8 luglio anche i Rom e Sinti saranno in piazza Navona al fianco di Furio Colombo, Flores D’Arcais e Pardi contro le «leggi vergogna» del governo Berlusconi, impronte ai bimbi Rom compresi. Ne parliamo con Santino Spinelli, rom italiano, professore di lingua e letteratura rom all’Università di Trieste, nonchè musicista (in arte Alexian) e fondatore dell’associazione nazionale «Thèm Romanò».
Parlerà anche lei dal palco di piazza Navona?
«Prenderò il microfono per ribadire come facemmo già l’8 giugno scorso che stiamo tornando alle leggi razziali: oltre al commissario per i rom adesso vogliono le impronte. Altro che censimento come sostiene il ministro Maroni! È una schedatura bella e buona: riguarda una sola etnia, quindi è discriminazione».
E cosa pensate di fare?
«L’8 mattina ci incontreremo con il coordinamento nazionale antidiscriminazione e firmeremo un sorta di patto di gemellaggio. Poi andremo tutti a piazza Navona. L’8 luglio dovrà essere ricordato come la giornata del movimento di liberazione di Rom e Sinti».
In che senso?
«Via dai campi e stop alla segregazione razziale. Si è fatta passare l’idea che i Rom sono nomadi per cultura. Niente di più falso. Il primo campo rom è stato istituito a Colonia (Germania) dai nazisti nel ‘34. I rom che oggi continuano vivere nei campi, nella ex Jugoslavia e in Romania vivevano nelle case. I diritti dei rom, dunque, vengono palesemente violati. All’estero tutti se ne accorgono e la chiamano apartheid, in Italia invece continuano a chiamarla cultura. Così accade che l’errore di un rom viene elevato a modello culturale».
Come la molotov di Ponticelli per il presunto sequestro di una bimba italiana...
«Un capro espiatorio creato ad hoc per distillare paure mai esistite. Non c’è stato nessun sequestro di bimba. La magistratura può confermalo. Di certo invece c’è stato il lancio di una molotov contro donne e bambini inermi a Ponticelli ma nessun italiano è stato indagato. Contro i Rom è lecito buttare molotov?».
Chi vive nei campi che clima avverte al di fuori della sua roulotte?
«I Rom vivono in sofferenza e paura. Siamo un popolo pacifista: non siamo arrivati con le armi in Europa e non abbiamo creato un esercito. Siamo cittadini e come tali rivendichiamo diritti e sicurezza. Non siamo zingari, la nostra cultura è romanì. Vivere in un campo nomadi è illegale, è contro l’umanità. Non è una scelta dei Rom. Potrà mai diventare capo del governo o presidente della Repubblica un Rom in Italia, se gli si nega il diritto al lavoro, alla casa, all’assistenza sanitaria?»

l'Unità 5.7.08
Italia, settant’anni di razzismo


Il 14 luglio 1938 a Roma faceva molto caldo; il giorno seguente la temperatura sarebbe salita ancora, fino a superare i 33 gradi. Nella seconda parte della giornata, cominciò a circolare il nuovo numero de Il Giornale d’Italia, quotidiano pomeridiano della capitale, che recava già la data del giorno seguente. In prima pagina, le colonne di destra erano interamente dedicate a un lungo documento, articolato in dieci punti - come fosse una nuova esternazione divina - e intitolato Il fascismo e i problema (sic) della razza. Una breve premessa segnalava che il testo costituiva «la posizione del Fascismo nei confronti dei problemi della razza». Con ciò la popolazione italiana veniva pubblicamente informata (o meglio: notificata) che il fascismo (ossia: non semplicemente Benito Mussolini o il governo, ma l’intera struttura divinizzante partito-ideologia-Stato-Nazione) aveva una “posizione” ufficiale sui “problemi della razza”. Il carattere totalitario del regime la rendeva vincolante, quanto meno nei suoi principi generali. Il giorno dopo (il 15 luglio) il documento fu pubblicato da tutti gli altri quotidiani.
Poiché il 26 luglio i giornali riferirono i nomi di dieci professori e assistenti universitari che avevano “redatto o aderito” al decalogo, esso è stato spesso ridenominato «Manifesto degli scienziati razzisti». Questa definizione è però fuorviante, per via del fatto che, di là dalle responsabilità tecniche di scrittura, il documento fu appunto presentato come “posizione del Fascismo” e non come posizione di un gruppo di intellettuali. Oggi poi sappiamo con certezza che proprio Mussolini ne sollecitò la stesura e ne indicò la linea. Pertanto è di gran lunga più adeguato parlare di «Manifesto fascista della razza» o «Manifesto del razzismo fascista». Altrimenti, volenti o no, si depista la conoscenza e si nega la storia.
Secondo alcuni volumi e siti web, compreso it.wikipedia.org, ai dieci docenti universitari che avevano ufficialmente “redatto o aderito” al decalogo, vanno aggiunte alcune centinaia di personalità «che aderirono ufficialmente al manifesto oppure sostennero pubblicamente le leggi razziali fasciste». Questa affermazione è erronea, nella sua prima parte. All’epoca infatti non vi fu alcuna raccolta di sottoscrizioni al “Manifesto”. E però è vero che molti giovani e molti intellettuali (e in particolar modo tanti intellettuali giovani) scelsero di divenire, a seconda dei casi, teorici, o divulgatori, o propagandisti del razzismo e dell’antisemitismo.
In effetti il vocabolo “razza” aveva fatto la sua comparsa nel corpus legislativo nazionale almeno all’inizio del Novecento (ossia prima del fascismo), con riferimento alle popolazioni della colonia Eritrea. Esso dapprima aveva un significato quasi solo nomenclatore, ma ben presto iniziò ad avere un portato discriminatorio. Del 1921 - ossia sempre prima della “marcia su Roma” - è l’affermazione del governatore di quella colonia sul «prestigio che deve circondare la razza dominante di fronte all’elemento indigeno». Nel ventennio fascista il suo utilizzo si intensificò, dapprima connesso direttamente (ma non con esclusività) alla politica demografica e poi legato al primato dei bianchi sui neri e progressivamente a quello degli ariani-cattolici sugli ebrei (ma già nel giugno 1919 Mussolini si era già scagliato sul suo giornale contro gli ebrei capitalisti dell’ovest e bolscevichi dell’est, «legati da vincoli di razza ... contro la razza ariana»). Nel 1927 il dittatore annunciò di voler “curare” la “razza italiana”; nel 1935 scrisse: «Noi fascisti riconosciamo l’esistenza delle razze, le loro differenze e la loro gerarchia»; l’anno seguente (a Etiopia conquistata) il ministro della stampa e propaganda Galeazzo Ciano ricordò: «È necessaria una netta separazione fra razza dominante e razza dominata»; nei primi mesi del 1937, il decreto legge contro le convivenze “razzialmente miste” in Etiopia e i provvedimenti governativi con misure demografiche furono pubblicamente motivati con le dizioni interscambiabili di «per l’integrità della razza» e «per la difesa della razza». Il 5 gennaio 1937 il sottosegretario agli Esteri Giuseppe Bastianini chiese a tutte le rappresentanze diplomatiche italiane di riferire su «entità, ... caratteri, ... importanza, ... attività economiche, … tendenze politiche, … criminalità, … attività illecite, ... stampa» delle varie comunità ebraiche; e nel giugno di quell’anno il dittatore, in un articolo non firmato, tornò a presentare gli ebrei come una “razza”, nonché come «un riuscitissimo esempio di razzismo».
Il «Manifesto fascista della razza» del 14 luglio 1938 ebbe lo scopo di rafforzare il razzismo “anticamita”, dandogli una solida (così si riteneva) strutturazione ideologica, e di esplicitare quello “antisemita”, integrandolo con il primo. Ciascun punto del decalogo recava un titolo, la cui successione era: «1, Le razze umane esistono. 2, Esistono grandi razze e piccole razze. 3, Il concetto di razza è concetto puramente biologico. 4, La popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana e la sua civiltà ariana. 5, È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. 6, Esiste ormai una pura razza italiana. 7, È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. 8, È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra. 9 Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. 10, I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo». Con ciò il razzismo e l’antisemitismo iniziarono a far parte ufficialmente della vita del “bel Paese”. Seguirono le leggi antiebraiche e nuove leggi contro il temuto “meticciato” tra bianchi e neri e per la «difesa del prestigio di razza». L’Italia divenne insomma a tutti gli effetti uno Stato razziale, un Paese razzista.
Non sappiamo ancora se la temperatura romana di questo 14 luglio 2008 risulterà altrettanto bollente. Ma nulla può uguagliare il bollore suscitato, in questo anno settantesimo dal varo di quel decalogo razzista, dall’udire parlamentari italiani pronunciare frasi quali «l’associazione a delinquere tipica delle famiglie ebraiche», o «sono ancora alla ricerca, qualcuno me lo segnali se lo conosce, di un ebreo in Italia con un lavoro regolare». Scusate, mi accorgo di aver citato malamente: in verità le due frasi contengono il vocabolo “rom” e non le parole “ebraiche” o “ebreo”; ma vi è poi differenza?

l'Unità Roma 5.7.08
Impronte ai bambini rom, Mosca: non polemizzo, applico la legge
di Massimiliano Di Dio


L’aurea del prefetto ’ribelle’ non gli appartiene. Ma certo il suo no alle impronte sui bimbi rom ha lasciato il segno. Dentro e fuori il Viminale. «Prefetto Mosca, ci sono state reazioni alle sue parole?» gli chiedo mentre esce da Palazzo Valentini per un incontro con l’ex presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick. «Quello che voglio è lavorare - risponde Mosca con serenità - Non voglio avere contrasti con nessuno. L’importante è che le cose siano fatte nel rispetto della legge. E sapete bene che se ci sono delinquenti, vogliamo tutti che siano allontanati». Neppure una parola di rivalsa contro quanti, a partire dal ministro Maroni, avevano inizialmente cercato di tirarlo per la giacca sotto il diktat "Impronte per tutti". In perfetto stile Mosca. D’altronde, ogni volta che può, è lui stesso a sottolineare: «L’esercizio della democrazia è pazienza». E ora può dire di dettare la linea anche altrove, come dimostrano le scelte del collega milanese. «Raccolta delle impronte digitali solo se non sarà possibile identificarli con certezza in altro modo» faceva sapere ieri la Prefettura di Milano. «Mosca che si contrappone a Maroni? Merita un elogio» afferma Enzo Carra del Pd. Che poi azzarda anche il paragone: «È un italiano d’altri tempi - aggiunge - Ricorda ’il piccolo giudice siciliano di Porte Aperte, indimenticabile romanzo di Sciascia, che non si piegò al conformismo d’allora rifiutandosi di emettere una sentenza capitale».
Ieri il commissario straordinario ha incontrato Croce Rossa Italiana, forze dell’ordine e gli altri membri dello staff voluto per avviare le operazioni di censimento e risistemazione dei campi nomadi laziali. Un incontro tecnico diretto a meglio definire punto per punto il contenuto delle schede che serviranno a identificare i rom e valutare le proposte di documenti d’identità con fotografie. Quindi l’analisi anche della tessera sanitaria e degli obiettivi di integrazione sociale che dovranno accompagnare l’intero lavoro.
Sempre ovviamente secondo i poteri conferiti a Mosca dall’ordinanza del ministro Maroni. Il commissario capitolino l’ha studiata nei minimi dettagli (l’inizio del censimento è previsto per il 14 luglio, ma sono già iniziati i colloqui della Prefettura con le comunità dei campi). comprese le scelte in tema di identificazione. Frutto di attento esame giuridico, ora ripreso anche da altre città. «Il prefetto di Roma non ha minimamente messo in discussione la direttiva del Governo - sostiene Antonio Corona, presidente dell’Associazione Prefettizi - Si è semplicemente limitato a ragionare sulle modalità migliori per l’identificazione dei minori. Che per Mosca risulterebbero i rilievi fotografici mentre per il ministro le impronte. Tutto qui». Una attenzione, quella del prefetto che suscita ampi consensi: «Le impronte ai bimbi rom - ha detto il capogruppo del Pd in consiglio comunale Umberto Marroni - sono una discriminazione su base razziale verso un’etnia che comprende un cinquanta per cento di cittadini italiani».

l'Unità 5.7.08
Rapporto Censis: il telecomando della paura
di Silvia Garambois


RAPPORTO CENSIS Da dove arriva quella «percezione della paura» che allarma così tanto gli italiani? Da tv, tg, fiction e varietà, più che dal crimine: lo sostiene la ricercatrice Elisa Manna in uno studio che sarà presentato in un summit a settembre

Da dove arriva la nostra quotidiana paura? Quella «percezione della paura», spropositata rispetto ai dati del crimine, incomparabile nel confronto con le ansie dei cittadini americani o del resto d’Europa? Quella che - anche - ha aiutato il centro destra a vincere le elezioni? Su questa angoscia che corre sottopelle, hanno responsabilità i giornali, ha delle «colpe» la tv? Elisa Manna, ricercatrice del Censis, studiosa dei media e di come ne rappresentano la società, nella relazione che sta preparando per il World Social Summit che si svolgerà a settembre a Roma, ha abolito ogni punto di domanda.
Anzi, ci racconta «come» i media italiani amplificano la paura. Lo fa analizzando i telegiornali, i varietà, le fiction, e la loro rappresentazione della realtà. E non ci va leggera: «Una melma vischiosa e putrida di violenze familiari - scrive -, di raptus, di abusi su bambini indifesi, di "seminfermità mentali” inonda le televisioni ogni giorno, invade intere pagine di quotidiani, si installa saldamente nelle “fasce protette” della tv, assuefacendo piccoli telespettatori di ogni età alle nefandezze della vita più oscure e irriferibili».
Il summit mondiale, organizzato dalla Fondazione Roma con la collaborazione del Censis, ha convocato sociologi, economisti, scrittori, premi Nobel ai «Dialoghi per combattere le paure planetarie», e nella preparazione dell’evento - tra tanti temi - il ruolo dei media risulta assolutamente centrale. È vero che la cronaca nera suscita, da sempre, caldissime attenzioni nel pubblico; non c’è estate a memoria d’uomo in cui un «giallo» non abbia impegnato giornali, tv e chiacchiere da ombrellone; ma in questi anni - secondo la ricercatrice - il meccanismo è come impazzito, «e il giallo dell’estate ormai - ci dice - dura tutta l’anno».
Possibile che ci sia tanta colpa nella tv?
«In preparazione del summit abbiamo ripreso in mano, guardandole da un’altra angolatura, le ricerche di questi anni: in particolare una commissionata dalla Rai nel 2002 sulla rappresentazione dei bambini e del dolore in tv e un’altra, recentissima, realizzata con l’Unione europea su donne e media. Ebbene, nel 47,4% dei casi il bambino viene rappresentato come vittima di un omicidio, mentre la donna compare nei telegiornali prevalentemente come vittima di casi di cronaca nera, addirittura nel 67,8% dei casi. Questo utilizzo dell’immagine dei minori e delle donne veicola una dimensione di ansia sociale e di preoccupazione, per la sicurezza, per l’incolumità fisica. Trent’anni fa nessuna ragazza avrebbe mai detto "non posso andare nel tal posto perché è pericoloso". Oggi invece anche le più giovani hanno interiorizzato che c’è lo stupratore in agguato, l’extracomunitario pronto ad aggredirle. Per carità: gli stupri ci sono! Ma in tv e sui giornali, riguardo alle donne, si parla solo di quello».
Cioè una rappresentazione falsata della realtà…
«La donna-vittima intriga, incuriosisce; forse solo il bambino-vittima la batte in termini di appeal mediatico. Le donne nei media italiani sono particolarmente deformate rispetto a quel che avviene negli altri Paesi, ci se ne accorge persino girando l’Europa da turisti e guardando i cartelloni pubblicitari… Il primo dato che in Italia balza agli occhi è che alle donne patinate e rutilanti della pubblicità, giovani e belle (quando non volgari), dove si arriva all’azzeramento della figura femminile che diventa solo un oggetto, si affianca l’altra immagine della protagonista della cronaca nera, vittima di violenza e di stupro, o donna-strega, donna malefica. Le donne della realtà, invece, praticamente non esistono: non sono abbastanza spettacolari!».
E i bambini?
«Una situazione speculare: o bello, biondo e riccioluto o vittima. Nei fatti, sempre un ruolo sociale non riconosciuto. Addirittura l’analisi che abbiamo fatto sulle rubriche di approfondimento, che dovrebbe essere la programmazione più "nobile", ci ha mostrato nei numeri che quando viene invitata una donna come esperto - a parte quelle che appartengono a una "nicchia" professionale (sociologhe, psicologhe) - si tratta soprattutto di astrologhe o esperte di cucina: è l’archetipo della donna a contatto con la natura, della maga, che non ha niente a che vedere con quello che hanno rappresentato nella società le donne negli ultimi trent’anni. Se serve un esperto di biotecnologie, invece, si chiama un uomo… In tv si utilizzano parametri che non sono neppure "maschili", ma rivolti a un maschio mediocre, e che non rispondono alle esigenze e alle professionalità acquisite dalle donne».
Lei mette sotto accusa la tv anche per la ricerca dei particolari inquietanti.
«In certi casi le immagini danno senso alla notizia, ma la maggior parte è assolutamente strumentale, e spesso sono un vero colpo allo stomaco. C’è un salto di "anti-qualità" nell’informazione, con una morbosità sui dettagli sanguinolenti che a volte è veramente impressionante. Se si è solo un po’ distratti si salta dai Ris del telegiornale a quelli della fiction senza neppure rendersene conto».

Corriere della Sera 5.7.08
Razzismo. Se ritorna il fantasma
Settanta anni dopo il varo delle leggi antisemite si parla nuovamente d'intolleranza e xenofobia
di Marco Gasperetti


La storia si riscrive nella pineta, tra i monti pisani e il mare ai confini con la Versilia. Si ripresenta, non immutabile, ma trasfigurata, guarita dai mali orribili e assoluti del fascismo e del nazismo, come un «eterno ritorno» purificato.
A San Rossore, un tempo residenza estiva di re e presidenti della Repubblica e oggi parco naturale, nell'estate del 1938 Vittorio Emanuele III promulgò le leggi razziali che seguirono la pubblicazione dell'odioso manifesto della razza sottoscritto da un gruppo di fascisti, sedicenti intellettuali. Oggi, esattamente 70 anni dopo, negli stessi luoghi, altri intellettuali dal pensiero libero presenteranno un altro manifesto sulla «razza umana», un decalogo contro il razzismo e l'intolleranza, un inno all'amore per i popoli e le genti.
Accadrà il 10 e l'11 luglio durante l'ottava edizione del Meeting, che ogni anno la Regione Toscana dedica a uno dei problemi mondiali. Un summit che chiama a raccolta politici, scienziati e artisti per una due giorni di discussioni e dibattiti senza «se e senza ma». Con nomi celebri. Tra questi Jolanda Betancourt, mamma della candidata alla presidenza della Colombia prigioniera dei guerriglieri, il cardinale Silvano Piovanelli, il nobel Dario Fo, Walter Veltroni, Emma Bonino, Erri De Luca, Moni Ovadia.
Nell'area delle Cascine Vecchie, sotto tendoni ribattezzati Gandhi, Anna Frank, Luther King, si parlerà di popoli e culture. Si affronteranno le problematiche legate alla genetica, ai flussi migratori, alle ideologie. Si discuterà di tecnologie, antropologia, sociologia.
Con uno sguardo profetico al futuro. «Perché razzismo e xenofobia si combattono anche ricordando il passato e allo stesso tempo guardando al domani — dice Claudio Martini, governatore della Toscana —. Oggi abbiamo nuove forme, insidiose e subdole da combattere, e settant'anni dopo il tema della razza è tornato di drammatica attualità. Non voglio fare esagerati parallelismi con fascismo e nazismo, ma quando le nostre società entrano in qualche difficoltà, scatta uno stesso meccanismo perverso: si scaricano i problemi su qualcuno, ci si inventa il nemico, che è il diverso, il più debole. E si generalizza, si spara sul mucchio. A San Rossore noi cercheremo di capire perché il 5% della nostra popolazione, gli immigrati, crea più apprensione di mafia, camorra e 'ndrangheta ».
Ricco il carnet di appuntamenti. Dalla presentazione del nuovo manifesto degli scienziati antirazzisti voluto dal governatore Martini e preparato dal genetista Marcello Buiatti, agli incontri con lo scienziato della politica Marco Revelli, l'antropologo Antonio Guerci, il genetista Lucio Luzzatto. Scienza e anche politica. Con Walter Veltroni e Claudio Martini. E pure con Emma Bonino e il ministro tunisino Mohamed Mehdi Mlika per un dibattito sullle ideologie del razzismo. E l'arte? Presente, anch'essa, come testimonianza di un antirazzismo imprescindibile dalla creatività. Al Meeting ci sono l'attore e musicista Moni Ovadia, il fotografo Oliviero Toscani, l'autore radiofonico Adulai Bah. Ci sarà pure lui, Nelson Mandela. Non nella realtà, ma in videomessaggio.

Corriere della Sera 5.7.08
L'analisi. Gli studiosi e la persecuzione degli ebrei
L'Italia dei «giusti» tra gli orrori della Storia
di Sergio Romano


Per studiare la svolta razzista di Mussolini gli studiosi non hanno atteso il settantesimo anniversario delle leggi razziali. Nella fase che ha preceduto e seguito la commissione di Tina Anselmi sulla confisca dei beni ebraici e la promulgazione di un giorno della memoria in ricordo delle vittime del genocidio, sono apparsi molti libri: alcuni di carattere generale, altri dedicati a temi specifici come quello degli scienziati che firmarono il manifesto della razza o dei professori che non esitarono a insediarsi nelle cattedre da cui i loro colleghi ebrei erano stati cacciati.
Non vi è quasi nulla, quindi, che il lettore desideroso d'informarsi non possa trovare nelle librerie e nelle biblioteche.
Ma la ricorrenza può servire per uno sguardo d'insieme allo spazio che le leggi razziali hanno occupato nella vita pubblica e nelle coscienza degli italiani dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi. Vedo almeno tre fasi distinte.
Nella prima fase, sino all'inizio degli anni Sessanta, il tema è continuamente evocato nei ricordi personali, nelle conversazioni private, nel racconto delle esperienze di coloro che hanno avuto la fortuna di sopravvivere. Ma il Paese è dominato dai problemi della ricostruzione e dello sviluppo, le sinistre non sono particolarmente interessate alle vicende dell'ebraismo europeo e gli ebrei preferiscono curare silenziosamente le loro ferite. La seconda fase comincia all'inizio degli anni Sessanta con due libri: La «Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo» di Renzo De Felice, pubblicato da Einaudi nel 1961, e la «Storia degli ebrei in Italia» di Attilio Milano, apparso presso lo stesso editore nel 1963. Le personalità degli autori sono molto diverse. De Felice è lo studioso che tutti conoscono, già allora impegnato nella sua monumentale biografia di Mussolini. Attilio Milano è un ebreo romano, nato nel 1907, emigrato in Palestina nel 1939, autore di studi sull'ebraismo mediterraneo.
Il primo è uno storico accademico, il secondo un appassionato cultore di «storia patria», preciso, scrupoloso e animato da un profondo sentimento di pietà per la tragedia dei suoi compagni di fede. Ma nella parte che concerne la politica razziale del regime i loro libri giungono grosso modo alle stesse conclusioni. Ambedue sanno che l'antisemitismo di Mussolini, sino alla seconda metà degli anni Trenta, fu generico, sporadico, non diverso da quello di altri esponenti della sinistra europea, spesso bruscamente interrotto da alcune sferzanti denuncie della politica anti-ebraica del nazismo. E ambedue sanno che molti aspetti della sua politica — il ritorno all'ordine negli anni Venti, le garanzie per gli ebrei all'epoca del Concordato, la protezione delle comunità ebraiche nel Mediterraneo, il nazionalismo — gli avevano procurato le simpatie della maggioranza dell'ebraismo italiano.
Occorre quindi spiegare le ragioni della svolta. Per De Felice e Milano esse vanno ricercate anzitutto nel desiderio di rendere «totalitaria» e «granitica » l'alleanza con la Germania. Ma De Felice sottolinea anche l'esperienza della guerra d'Etiopia dove la promiscuità sessuale dei vincitori suscita in Mussolini il timore che il colonialismo italiano produca un meticciato di massa. Occorreva educare gli italiani alla coscienza della propria identità, occorreva fare «l'italiano» contro la volontà degli italiani. Ma occorreva anche evitare eccessive somiglianze con la Germania.
Come ricorda Marie-Anne Matard- Bonucci in un libro appena pubblicato dal Mulino («L'Italia fascista e la persecuzione degli ebrei»), un bollettino politico, «L'Informazione diplomatica » del 5 agosto 1938, pubblicò un testo probabilmente scritto da Mussolini in cui si leggeva tra l'altro: «Discriminare non significa perseguitare ».
La terza fase comincia con la crescente importanza del genocidio hitleriano nella vita pubblica europea e americana degli ultimi trent'anni ed è anche il risultato di un certo «sessantottismo » della cultura italiana.
Nel grande filone della storiografia dell'Olocausto una nuova generazione di studiosi si concentra soprattutto sul tema della responsabilità collettiva della società nazionale, sull'antisemitismo che avrebbe caratterizzato il fascismo sin dalle sue origini, sulle colpe della Chiesa. Se confrontata all'opera di De Felice e Milano, questa impostazione illumina alcuni aspetti dimenticati o trascurati, ma presenta un inconveniente. Rende difficilmente comprensibile la disapprovazione della grande maggioranza degli italiani, l'aiuto offerto da rappresentanti della diplomazia e della pubblica amministrazione. E oscura quello che Attilio Milano definì «l'esempio di superiore umanità» delle autorità militari italiane nelle zone occupate della Croazia, della Dalmazia, del Montenegro, della Grecia centrale e di alcuni dipartimenti francesi; luoghi divenuti «per i molti ebrei che vi abitavano e per i più ancora che vi si erano rifugiati, un parco protetto contro le pressanti minacce » tedesche. Nel ricordare, settant'anni dopo, la più brutta pagina della storia nazionale italiana, non sarebbe giusto dimenticare i molti «giusti » a cui premeva dimostrare che vi era ancora un'Italia dell'onore e della pietà.

Corriere della Sera 5.7.08
Nel Paese di Pulcinella spaventato dalle lumache
di Erri De Luca


Da noi si perseguitano solo i poveri, che siano dirimpettai albanesi o remoti curdi. Se sono ricchi offriamo loro volentieri mogli e figlie

La paura in politica è un abbondante serbatoio di voti, come pure il coraggio. Durante tempi eroici diventa maggioranza chi fa leva sulla resistenza alle avversità, sul sentimento di sacrificio e di slancio solidale. Durante tempi vili vince chi aizza le paure, i rancori, circondando la vita civile di filo spinato. La povera nazionale di calcio ai campionati europei ha rappresentato bene il nostro blocco nervoso difensivo senza slancio in avanti La paura è una merce deperibile. Ci stanca, ci si abitua, perde presa, allora bisogna rinnovarla con stratagemmi. Ci si propone di schedare in massa gli zingari, rilevare impronte digitali anche ai bambini. La misura stuzzica l'immaginazione a fare di più: invece di far loro lasciare un'impronta, perché non provvedere piuttosto a mettere un'impronta su di loro? Un tatuaggio obbligatorio, magari un numero su un braccio? Sarebbe costoso. Ma si può imporre loro di portare sul risvolto del vestito, bene in vista, una zeta cucita, lettera ultima del nostro alfabeto, per loro lettera iniziale di riconoscimento. E poi buttarla anche sul ridere, come fece il film
La vita è bella. Il padre spiegherebbe al figlio che è la zeta di Zorro.
Il bello di chi sfrutta la paura, il suo vantaggio, è che procura amnesia. Dimentica il tempo precedente, dà a un paese invecchiato l'aria imbambolata di uno nato ieri. Le impronte digitali ai bimbi zingari sono razzismo? Ma no, sono gli zingari a voler essere una razza, è una scelta loro.
Da noi si mettono nei campi di concentramento migratori colpevoli di viaggio, madri e bambini inclusi se no è troppo poco. Da noi si chiamano Centri di Permanenza Temporanea: permanenza, un buon nome alberghiero per un posto con sbarre, filo spinato, guardie. Servono i campi di concentramento a fermare il flusso migratorio? No, ma servono molto a compiacere il sentimento di paura ben aizzato. È razzismo la caccia all'immigrato? Ma no, è opera di scoraggiamento a fin di bene. Il razzismo, come la mafia, non esiste. Il sospettato di esserlo nega come Totò Riina: «Tutte bugiarderie». La differenza sta solo nel fatto che uno sta in prigione e l'altro al potere.
Nella città della mia infanzia si usa un'espressione per la persona che si impaurisce facilmente: Pulcinella spaventato dalle lumache. Le vede nel cesto che tirano fuori le corna e se ne scappa. Il nostro è un paese spaventato dalle lumache. Non è il caso di chiamare razzista la sua paura e le meschine misure di compiacimento dei peggiori sentimenti. Razzismo è una parola tragica e seria, il razzista è uno che va a fondo della sua avversione e si permette di trascurare il suo vantaggio: il razzista azzanna e perseguita anche il ricco della specie odiata. Da noi invece si perseguitano solo i poveri, che siano dirimpettai albanesi o remoti curdi. Se sono ricchi offriamo loro volentieri mogli e figlie. Il razzismo è un odio disinteressato, il nostrano è una varietà condita di tornaconto.
Sono tempi per vili, orgogliosi di esserlo. Non mi auguro tempi eroici, non troverebbero personale di rappresentanza.

Corriere della Sera 5.7.08
Le razze umane non esistono


Il primo articolo del Manifesto degli scienziati antirazzisti, 2008, sottoscritto da diversi docenti (si può aderire via internet sul sito www.regione.toscana.it):
I. Le razze umane non esistono. L'esistenza delle razze umane è un'astrazione derivante da una cattiva interpretazione di piccole differenze fisiche fra persone, percepite dai nostri sensi, erroneamente associate a differenze «psicologiche» e interpretate sulla base di pregiudizi secolari. Queste astratte suddivisioni, basate sull'idea che gli umani formino gruppi biologicamente ed ereditariamente ben distinti, sono pure invenzioni da sempre utilizzate per classificare arbitrariamente uomini e donne in «migliori» e «peggiori» e quindi discriminare questi ultimi (sempre i più deboli), dopo averli additati come la chiave di tutti i mali nei momenti di crisi.

Corriere della Sera Roma 5.7.08
Nei campi Il capo dell'insediamento rom di Tor Vergata
«Contro le impronte ai nostri figli pronti a una causa legale europea»
di P. Br.


«La questione impronte l'abbiamo affrontata subito tra noi. Se fossero venuti a chiederle ai nostri figli e nipoti gli avremmo fatto trovare l'avvocato...».
Sono finite in Via Salamanca, a Tor Vergata, le roulotte cacciate poco tempo dal lungotevere di Testaccio dove stazionavano da una decina di anni. Eccoli i «Sinti», calderai, argentieri guidati da Aldo Hudorovich, 57 anni, portavoce dei trecento rom in grande maggioranza figli di famiglie giuliano-dalmate. Hudorovich ha appena riattaccato il telefono. Ha parlato ancora una volta con l'avvocato Fabrizio Consiglio. Due le formule più ripetute nel corso della breve conversazione: «Se vogliono le impronte, portiamo l'ordinanza davanti alla Corte Costituzionale». Oppure: «Sennò ricorriamo all'Alta Corte dell'Aia».
La linea di difesa è stata sistemata, ora alla luce degli aggiustamenti prodotti dalla Prefettura di Roma la tensione sulle impronte si smorza.
Ma non l'indignazione dei capi «sinti». Hudorovich è riunito con altri capofamiglia, intorno vanno e vengono ragazzini, sono quaranta i loro adolescenti, uno indossa la maglia azzurra col numero 10 e il nome di Totti. «Io sono nato a Milano nel 1951 — spiega il portavoce —. La mia famiglia veniva sì da Fiume, come tante altre, ma da allora viviamo, nasciamo, cresciamo in Italia. Qui siamo tutti italiani, tra gli adulti molti sono quelli che hanno prestato servizio militare, riceviamo i certificati elettorali per votare, in tasca abbiamo i documenti come ogni altro italiano, i morti li seppelliamo qui in Italia e non nell'ex Iugoslavia. Siamo stati censiti, certo, non una ma più volte. Però mai ci è stato chiesto di dare le nostre impronte digitali, mai di sottoporre i nostri figli a questa umiliazione incredibile...".
Hudorovich aggiunge: «I nostri bambini sono perfettamente inseriti, andavano fino a giugno in due scuole come la Regina Margherita di Trastevere e la IV Novembre di Testaccio, vorremmo continuare a farli frequentare lì e assicurazioni in questo senso ci sono state date. I nostri ragazzi non sono mai stati trovati ad elemosinare o a compiere furti. La nostra comunità si occupa di metalli, pulisce l'argento, fabbrica argenteria. Siamo evangelici di religione, il credo ci impone di non rubare. Abbiamo lavorato anche per importanti alberghi del centro. Dunque, noi pensiamo che se vogliono identificare i piccoli rom che compiono malefatte questi dati ce li hanno già. I piccoli che vengono portati al centro antimendicità di via Vinovo, a Roma, sono conosciuti. Quelli che vengono arrestati sono fotosegnalati. Dunque, di che altro c'è bisogno?». Il più vecchio aggiunge: «Noi siamo in Italia da moltissimi anni, la metà dei rom è fatta di sinti, saremo 70 mila...Siamo o non siamo italiani?».

Repubblica 5.7.08
La memoria
Quel censimento etnico di settanta anni fa
di Gad Lerner


Cominciò con un inaspettato censimento etnico, nel mezzo dell´estate di settant´anni fa, la vergognosa storia delle leggi razziali italiane. Alle prefetture fu diramata una circolare, in data 11 agosto 1938, disponendo una «esatta rilevazione degli ebrei residenti nelle provincie del regno», da compiersi «con celerità, precisione e massimo riserbo». La schedatura fu completata in una decina di giorni.
Furono 47.825 gli ebrei censiti sul territorio del regno, di cui 8.713 stranieri (nei confronti dei quali fu immediatamente decretata l´espulsione). Per la verità si trattava di cifre già note al Viminale. «Il censimento quindi fu destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare», scrive la storica francese Marie-Anne Matard-Bonucci ne L´Italia fascista e la persecuzione degli ebrei (il Mulino). Naturalmente, di fronte alle proteste dei malcapitati cittadini fatti oggetto di quella schedature etnica fu risposto che essa non aveva carattere persecutorio, anzi, sarebbe servita a proteggerli.
Nelle diversissime condizioni storiche, politiche e sociali di oggi, torna questo argomento beffardo e peloso: la rilevazione delle impronte ai bambini rom? Ma è una misura disposta nel loro interesse, contro la piaga dello sfruttamento minorile!
Si tratta di un artifizio retorico adoperato più volte nella storia da parte dei fautori di misure discriminatorie: «Lo facciamo per il loro bene». A sostenere la raccolta delle impronte sono gli stessi che inneggiano allo sgombero delle baracche anche là dove si lasciano in mezzo alla strada donne incinte e bambini. Ma che importa, se il popolo è con noi? Lo so che proporre un´analogia fra l´Italia 1938 e l´Italia 2008 non solo è arduo, ma stride con la sensibilità dei più. L´esperienza sollecita a distinguere fra l´innocenza degli ebrei e la colpevolezza dei rom. La percentuale di devianza riscontrabile fra gli zingari non è paragonabile allo stile di vita dei cittadini israeliti, settant´anni fa.
Eppure dovrebbero suonare familiari alle nostre orecchie contemporanee certi argomenti escogitati allora dalla propaganda razzista, circa le "tendenze del carattere ebraico". Li elenco così come riportati nel libro già citato: nomadismo e «repulsione congenita dell´idea di Stato»; assenza di scrupoli e avidità; intellettualismo esasperato; grande capacità ad adattarsi per mimetismo; sensualismo e immoralità; concezione tragica della vita e quindi aspirazioni rivoluzionarie, diffidenza, vittimismo, spirito polemico e così via.
Guarda caso, per primo veniva sempre il nomadismo. Seguito da quella che Gianfranco Fini, in un impeto lombrosiano, ha stigmatizzato come «non integrabilità» di «certe etnie»; propense – per natura? per cultura? per commercio? – al ratto dei bambini. Il che ci impone di ricordare per l´ennesima volta che negli ultimi vent´anni non è stato mai dimostrato il sequestro di un bambino ad opera degli zingari.
Un´opinione pubblica aizzata a temere i rom più della camorra, si trova così desensibilizzata di fronte al sopruso e all´ingiustizia quando essi si abbattono su una minoranza in cui si registrano percentuali di devianza superiori alla media. Tale è l´abitudine a considerare gli zingari nel loro insieme come popolo criminale, da giustificare ben più che la nomina di "Commissari per l´emergenza nomadi", incaricati del nuovo censimento etnico. Un giornalista come Magdi Allam è giunto a mostrare stupore per la facilità con cui si è concesso il passaporto italiano a settantamila rom. Ignorando forse che si tratta di comunità residenti nella penisola da oltre cinquecento anni: troppo pochi per concedere loro la cittadinanza? Eppure sono cristiani come lui…
Il censimento etnico del 1938, «destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare», come ci ricorda Marie-Anne Matard-Bonucci, in ciò non è molto dissimile dal censimento dei non meglio precisati "campi nomadi" del 2008. In conversazioni private lo confidano gli stessi funzionari prefettizi incaricati di eseguirlo: quasi dappertutto le schedature necessarie erano già state effettuate da tempo.
L´iniziativa in corso riveste dunque un carattere dimostrativo. E i responsabili delle forze dell´ordine procedono senza fretta, disobbedendo il più possibile alla richiesta di prendere le impronte digitali anche ai minori non punibili, nella speranza di dilazionare così le misure che in teoria dovrebbero immediatamente conseguirne: evacuazione totale dei campi abusivi e di quelli autorizzati ma fuori norma; espulsione immediata dei nomadi extracomunitari e, dopo un soggiorno di tre mesi, anche dei nomadi comunitari. Si tratta di promesse elettorali che per essere rispettate implicherebbero un salto di qualità organizzativo e politico difficilmente sostenibile. Dove mandare gli abitanti delle baraccopoli italiane – pochissime delle quali "in regola" – se venissero davvero smantellate tutte in pochi mesi? Chi lo predica può anche ipocritamente menare scandalo per il fatto che tanta povera gente, non tutti rom, non tutti stranieri, vivano fra i topi e l´immondizia. Ma sa benissimo di alludere a una "eliminazione del problema" che in altri tempi storici è sfociata nella deportazione e nello sterminio.
Un´insinuazione offensiva, la mia? Lo riconosco. Nessun leader politico italiano si dice favorevole alla "soluzione finale". Ma la deroga governativa al principio universalistico dei diritti di cittadinanza, sostenuta da giornali che esibiscono un linguaggio degno de "La Difesa della razza", aprono un varco all´inciviltà futura.
Negli anni scorsi fu purtroppo facile preconizzare la deriva razzista in atto. Per questo sarebbe miope illudersi di posticipare la denuncia, magari nell´attesa che si plachi l´allarmismo e venga ridimensionata la piaga della microcriminalità. Gli operatori sociali ci spiegano che sarebbe sbagliato manifestare indulgenza nei confronti dell´illegalità e dei comportamenti brutali contro le donne e i bambini, diffusi nelle comunità rom. Ma altrettanto pericoloso sarebbe manifestare indulgenza riguardo alla codificazione di norme palesemente discriminatorie, che incoraggiano l´odio e la guerra fra poveri.
Non si può sommare abuso ad abuso di fronte ai maltrattamenti subiti dai bambini rom. Quando i figli degli italiani poveri venivano venduti per fare i mendicanti nelle strade di Londra, l´esule Giuseppe Mazzini si dedicò alla loro istruzione, non a raccogliere le loro impronte digitali. L´ipocrisia di schedarli "per il loro bene" serve solo a rivendicare come prassi sistematica, e non eccezionale, la revoca della patria potestà. Dopo le impronte, è la prossima tappa simbolica della "linea dura". Siccome i rom non sono come noi, l´unico modo di salvare i loro figli è portarglieli via: così si ragiona nel paese che liquida l´"integrazione" come utopia buonista.
A proposito del sempre più diffuso impiego dispregiativo della parola "buonismo", vale infine la pena di evocare un´altra reminescenza dell´estate 1938. Chi ebbe il coraggio di criticare le leggi razziali fu allora tacciato di "pietismo". Con questa accusa furono espulsi circa mille tesserati dal Partito nazionale fascista. E allora viva il buonismo, viva il pietismo.

l'Unità 5.7.08
Il pm accusa: «Alla Diaz fu un massacro»
La requisitoria al processo per il G8 di Genova: «Nella scuola 93 vittime innocenti»
di Maria Zegarelli


«Fu un massacro». Questa è l'unica cosa che unisce gli occupanti della Diaz di Genova durante il G8. Non i reati che la polizia tentò di addebitare loro. Non l'associazione per delinquere. Il pestaggio da parte dei poliziotti che quella notte del 21 luglio fecero irruzione è l'unica vicenda che rese tutti uguali.
«Volevano ammazzarli tutti Alla Diaz fu un massacro»
Gli agenti gridavano «nessuno sa che siamo qui, ieri vi sentivate forti oggi state male»
Ragazze nel sangue Capelli tagliati, sputi e gesti coitali nei confronti delle giovani ormai a terra
Le immagini choc. Le riprese video non mostrano un solo manifestante che picchia. Solo manganelli alzati
Il racconto di Valeria Bruschi: «Dopo i pestaggi in palestra hanno preso quelli dai piani superiori e hanno continuato»
Quando i pm chiesero le foto degli agenti per i riconoscimenti arrivarono scatti anche di 15 anni prima...

IL PROCESSO AI POLIZIOTTI Quello andato in scena nella scuola la notte del 21 luglio del 2001 «fu un pestaggio e non venne mai fornita alcuna prova che vi fosse una giustificazione al comportamento degli uomini che entrarono alla Diaz». Nella requisitoria del pm il racconto della «macelleria messicana» di quel maledetto G8

Uomini e donne, giovani inermi, in ginocchio con le mani alzate in segno di resa colpiti con calci e manganellate. Insultati, umiliati. «Nessuno sa che siamo qui, vi eliminiamo tutti. Ieri vi sentivate forti, oggi state male». Capelli tagliati, sputi, «gesti coitali», nei confronti delle ragazze a terra in un lago di sangue. «Bastardi» urlavano con i manganelli in pugno. Il pubblico ministero Francesco Cardona Albini apre la seconda udienza per la requisitoria in corso all'aula bunker del tribunale di Genova definendo un massacro l'operazione di «messa in sicurezza» della scuola dove dormivano i no global. Sei ore di ricostruzione minuziosa delle prove raccolte, dei verbali, degli interrogatori. E dei filmati (questo è il primo processo che raccoglie una quantità enorme di materiale girato da telecamere di operatori tv) per dimostrare che così come non ci fu l'assalto alle pattuglie della polizia la sera 21 luglio (quello preso a pretesto dalle forze dell’ordine per decidere l'irruzione), non ci fu neanche la «massiccia resistenza» da parte dei no global ai pattuglioni della polizia che cercarono di entrare nella scuola. I 29 alti funzionari e agenti accusati di reati che vanno dalla falsa testimonianza, al porto d'armi da guerra, alle lesioni gravi, alla calunnia, alla violenza privata, quella notte non erano uomini dello Stato. E non lo furono in seguito, quando omisero di riferire quanto accaduto, fornendo una versione dei fatti che non ha trovato riscontro alcuno durante le indagini e nel racconto dei testimoni.
«Fu un pestaggio - dice il pm - e non venne mai fornita alcuna prova che vi fosse una giustificazione al comportamento degli uomini che entrarono alla Diaz. Non fu posta alcuna resistenza da parte dei manifestanti, non ci fu alcun lancio di oggetti e non c'è alcuna prova sul luogo specifico del ritrovamento di armi all'interno della scuola». L'unica cosa trovata sono due molotov, quelle portate dagli agenti per poter accusare i manifestanti. Quelle grazie alle quali questo processo probabilmente resterà in piedi, malgrado l'emendamento voluto da Berlusconi per bloccare tutti procedimenti in corso. Cardona smonta anche la tesi sostenuta dagli imputati secondo cui le ferite diagnosticate alle vittime del pestaggio erano pregresse. Quella ipotesi contrasta con «le migliaia di immagini e con la documentazione medica prodotta dalle parti offese». Non c'erano armi e bastoni, o oggetti contundenti, nella scuola. Se non quelli introdotti dagli agenti. Dagli uomini del VII nucleo del reparto della squadra mobile di Roma, condotti da Canterini e da quelli degli altri reparti intervenuti.
Il pm elenca i referti medici dei manifestanti e quelli degli agenti. Ai primi vengono riscontrate fratture e rottura di ossa, traumi cranici,caduta di denti, squarci sul corpo. 79 feriti,in totale.Molti gravi. Ai secondi, vengono repertati: traumi distorsivi alle mani, alle ginocchia, alle spalle. Lividi, dita sbucciate. Le prognosi non superano gli otto giorni. Gli agenti feriti sono 11 in tutto. Su oltre 150 impegnati nell'azione. Come si concilia tutto questo con la tesi della «forte resistenza agli operatori e alle colluttazioni?». Non si concilia.
Come si concilia la tesi del lancio di oggetti pesanti, come sedie e scrivanie dalle finestre della Diaz con quei 58 secondi che separano lo sfondamento del cancello da parte degli uomini di Canterini - alle 23.59 - a quello in cui sfondano il portone? Non si concilia. «Dov'è la resistenza?», chiede il magistrato. La resistenza di cui parla Canterini in quella prima «relazioncina» che gli chiese il suo superiore Gratteri, di fatto, sostiene Cardona, non ci fu. Canterini quando stese il rapporto non sapeva che le telecamere dei cineoperatori piazzati nell'edificio di fronte avevano ripreso tutto, lo sfondamento del cancello e quello del portone. In quei documenti non c'è traccia di oggetti che volano. Si vedono chiaramente, invece, agenti che entrati nella scuola pestano persone buttate a terra. Non c'èun manifestante in piedi che lotta con gli agenti. Ci sono solo divise e manganelli che si alzano e si abbassano.
Ed eccola la ricostruzione di quei dieci minuti che sembrano un secolo, durante i quali «il codice penale non vigeva più». Dentro la scuola, nella palestra, al pian terreno, ci sono un gruppo di 11 spagnoli, dei giovani turchi, dei tedeschi che stanno dietro un muretto, alcuni italiani. Sentono i tre colpi con cui viene sfondato il portone, uno soltanto,cerca di mettere un divano dietro la porta. Gli altri decidono di mettersi in ginocchio con le mani alzate. C'è chi dorme e si sveglia all'improvviso, chi ha lo spazzolino dei denti in mano. Chi tenta di fuggire. Fuori, nella serra, alcuni giovani,intanto, vengono trascinati nel cortile e picchiati. Mark Covell, il reporter inglese, viene quasi ammazzato. La telecamera riprende.
Dentro la palestra arrivano i primi agenti che «iniziano a lanciare contro gli ospiti della Diaz sedie e mobilia.Vengono raggiunti da altri colleghi e parte il pestaggio». Una giovane, viene colpita da un calcio sul volto, cade. L'agente infierisce. Tra di loro c'è un giornalista, cerca di soccorrere la ragazza, viene colpito anche lui. Da tre, quattro agenti. «Un poliziotto entra urlando, saltellando - racconta un altro giovane -. "bastardi", gridava». Ecco la testimonianza di Valeria Bruschi. «Dopo il pestaggio in palestra non è finita. Trascinavano giù quelli dai piani superiori e picchiavano. I funzionari erano lì, assistevano, qualcuno si girava, come se volesse chiudere gli occhi su una marachella». «Siete bambini cattivi», dice uno di loro. Ai piani superiori Melanine viene picchiata fino ad avere le convulsioni, gli occhi girati, spasmi. Stesso trattamento per Manfredi, Provenzano… Decine di nomi, uno dopo l'altro, di vittime inermi. Melanie viene «salvata» da un funzionario, Michelangelo Fournier, il vice di Canterini, quello che - ricorda il pm - «in aula squarcia il velo di silenzio durato sei anni» e dice che quella notte alla Diaz fu «una macelleria messicana». Quello che racconta ai giudici di «aver taciuto per carità di Patria», perché alcuni degli episodi accaduti «erano infamanti per tutte le forze dell'ordine». Perché un poliziotto non può tirare fuori il coltello e tagliare i capelli alla vittima,come un trofeo da portarsi a casa. Non può sputare e urlare «vi ammazziamo tutti». Fouriner squarcia il velo, ma dà una versione dei fatti che poi corregge, cerca di tirarsi fuori da ogni responsabilità, ma ci sta dentro fino al collo. «I racconti delle vittime sono terrificanti» dice Cardona. E ciò che «sembrava impossibile si rivelato possibile». Ce ne sono di ossa rotte in questo processo. Forse anche grazie all'uso di mazze di baseball portate dagli agenti per colpire.
Che dire poi delle difficoltà incontrate durante le indagini per identificare i poliziotti che avevano partecipato? Quando i pm chiesero a tutte le questure di Italia di inviare le foto degli agenti per poi procedere al riconoscimento da parte delle vittime, in procura arrivarono fotografie scattate anche quindici anni prima. Quando ne chiesero di più aggiornate non ne arrivarono o arrivarono con una lentezza sospetta. Che dire di tutti i nomi dei picchiatori rimasti ignoti? Che dire delle molotov, illecitamente introdotte dagli agenti e poi misteriosamente scomparse dalle prove a carico dei funzionari? Quella è stata davvero una pagina nera della storia della Seconda Repubblica. «Urgente accertare la verità» dicono da Roma Giovanna Melandri, Ermete Realacci, Paolo Cento. Mercoledì l'accusa ricostruirà un altro pezzo di quella storia. Giovedì chiederà le condanne per i 29 imputati.

l'Unità 5.7.08
Quella notte alla Diaz. Macelleria messicana
di Oreste Pivetta


Sette anni dopo si deve ancora chiedere chi diede licenza al peggio, chi ispirò e consentì quei comportamenti che non sarebbero dispiaciuti a Videla o a Pinochet
La definizione del pubblico ministero, ad apertura di requisitoria, ieri, è stata: «Un massacro». Al grido: «Adesso vi finiamo, bastardi. Morirete tutti!». «Macelleria messicana» aveva già spiegato un funzionario di polizia.

Esattamente un anno fa, Michelangelo Fournier, all’epoca vice questore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, aveva raccontato così: «Arrivato al primo piano dell'istituto ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana. Sono rimasto terrorizzato e basito quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: “basta basta” e cacciai via i poliziotti che picchiavano. Intorno alla ragazza per terra c’erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale. Ho ordinato per radio ai miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze». Le macchie di sangue sulle parenti o sul pavimento della palestra, le ciocche di capelli strappate sui gradini tra il primo e il secondo piano le ricordiamo anche noi.
Come sia andata, sette anni fa, durante la notte dell’irruzione nella scuola Diaz a Genova, come sia andata nei giorni del G8, nelle ore e nei giorni prima e dopo la morte di Carletto Giuliani, non è un mistero e non lo è mai stato. Un massacro, una macelleria, una violenza assurda contro i manifestanti, una violenza di cui si era persa traccia, almeno da decenni, almeno in Italia. Di fronte a tanti, vittime e testimoni, migliaia di testimoni. In quegli stessi giorni cominciò l’innarrestabile e assai rozza corsa alla falsificazione e alla mistificazione, a sminuire, a rimpicciolire. Cominciò sui tavoli di una caserma dei carabinieri imbandita di magliette nere (quelle dei black blok), di assi e di chiodi da carpentieri (quelli raccolti nel cantiere che era la scuola in restauro proprio appresso alla Diaz), di bottiglie incendiarie confezionate per la mostra ad uso dei cronisti. Continuò oscurando responsabilità o indicando colpevoli che non avrebbero avuto nulla da dire, come il prefetto Arnaldo La Barbera, nel frattempo deceduto, o come il prefetto Ansoino Andreassi, teste giudicato “inattendibile” per la semplice ragione che s’era sempre schierato contro l’intervento alla Diaz... Gli altri erano “buoni”, invece, per la semplice ragione che s’erano presentati davanti ai magistrati dopo aver studiato verbali, dopo aver aggiornato e concordato versioni, dopo aver dimenticato quello che andava dimenticato. La procura, nella richiesta di rinvio a giudizio per Gianni De Gennaro, l’ultimo commissario all’immondizia napoletana, prima dell’arrivo (o del ritorno) di Bertolaso, scrisse chiaro: «L’operazione è stata semplice. Si è trattato di eliminare gli accenti sui ruoli di responsabilità degli imputati». Ma non si può occultare e mistificare all’infinito. Che il capo della polizia qualche colpa l’avesse avuta nella gestione dei giorni terribili di Genova sarebbe apparso a chiunque inevitabile. Ma una volta, davanti ai parlamentari, De Gennaro ebbe la sfrontatezza di negare tutto: non so nulla, disse. Come sarebbe stato possibile: il capo della polizia che non sa nulla della Diaz e del resto, di piazze e di strade, di una gestione dell’ordine pubblica che si dovrebbe definire folle, se non si sapesse che i folli non esistono, mentre si sa dell’esistenza ai vertici della polizia di gente istruita di tattiche militari, che sa pensare e riflettere, di lunga esperienza.
Ancora, sette anni dopo, si chiede di “fare luce”. È urgente, dice l’onorevole Melandri, arrivare rapidamente ad accertare le responsabilità di coloro che parteciparono o rivestirono un ruolo nell'irruzione nella scuola Diaz. È uno scandalo che si debba ancora chiedere chi comandava, chi decideva, chi partecipava. Chi organizzava, secondo un piano, non certo sospinto dagli ipotetici furori della “piazza”, l’assalto alla Diaz, di nottetempo, o i pestaggi della caserma Bolzaneto, ore e ore dopo.
Ma la curiosità dovrebbe riguardare anche chi ispirò e chi alla lontana consentì quell’improvviso incrudelirsi dei comportamenti, chi diede licenza al peggio, a un ripiegare in atteggiamenti che non sarebbero dispiaciuti a Videla o a Pinochet.
Il G8 e la sua gestione furono le prime prove del nuovo governo Berlusconi, del nuovo centrodestra, di una cultura. Castelli, allora ministro della Giustizia (dal cui ministero dipendeva la polizia penitenziaria vista all’opera a Bolzaneto) disse che le violenze viste anche in tv e quelle denunciate erano tutte favole. Ammise soltanto al più episodi isolati o fatti «equivocati dagli imputati». Rimanere in piedi otto ore di fila, le botte o altro di peggio erano solo un equivoco. Del resto, spiegò l’allora ministro, anche i metalmeccanici restano i piedi otto ore di fila. Castelli dimostrò per tutti che non esisteva voglia di capire, di chiarire: altro che rispetto istituzionale e costituzionale o semplicemente rispetto “umano”. Quella affidata a Castelli fu la risposta della politica. Gli altri si accodarono. Per il futuro potrebbe provvedere la norma blocca processi, che, se ci sarà, bloccherà anche Genova e la Diaz.


Tenere insieme «questione sociale» e «difesa» di una «democrazia a rischio». Veltroni non aspetta l’autunno e non offre campo libero a Di Pietro e ai “nuovi girotondi”. All’8 luglio di Piazza Navona il leader Pd risponde lanciando la raccolta di «cinque milioni di firme» per dire «no al governo che forza la mano sulla giustizia e non fa nulla per salari e pensioni, né per le famiglie in affanno». La manifestazione Pd annunciata per il dopo estate si organizza già da subito, in sostanza. Sulla base di una “iniziativa di massa” che incalza il governo. Cinque milioni di firme, numeri nettamente superiori alle adesioni su cui potrà contare la manifestazione dell’8 luglio, anche se questa non rappresenterà sicuramente un flop. II Pd, tuttavia, è attento a non contrapporre la sua petizione su economia e giustizia all’appuntamento al quale ha aderito anche Di Pietro. Veltroni, anzi, propone un Partito democratico «non ostile» a Piazza Navona, ma che marca il proprio profilo d’opposizione scegliendo strade diverse da quelle neo girotondine. E leggendo le parole del leader Idv - «l’8 luglio non sarà il giorno della conta contro il Pd» - o ricordando i toni con i quali ha stemperato interpretazioni anti loft dell’appuntamento di Piazza Navona, si comprende che nessun destino rende ineluttabile la rotta di collisione tra opposizione riformista e opposizione “radicale”. O la demonizzazione reciproca sulla scelta di date diverse per scendere in piazza. Dipende anche dagli organizzatori, e dallo stesso Di Pietro, la possibilità che l’8 luglio non divenga una scadenza lacerante, a vantaggio di Berlusconi. Che ieri, dopo le firme anti-governo annunciate da Veltroni, ha accusato «la sinistra riformista» di aver siglato «un patto scellerato con l'ala giacobina e giustizialista della società italiana». Toni belligeranti che contraddicono i fatti concreti sui quali sta ragionando il premier su input di Gianni Letta. Il Sottosegretario alla presidenza del Consiglio avrebbe sondato anche la disponibilità di Veltroni per un percorso di «rasserenamento politico e istituzionale» che possa permettere di rilanciare il dialogo sulle riforme, sul quale insiste il Quirinale. Il tragitto parte dal «mezzo passo indietro» (parole di Vannino Chiti) del governo sulle intercettazioni e proseguirebbe con il ritiro della norma salva-premier dal decreto sicurezza (il ministro ombra Pd, Tenaglia, ricorda che bloccherebbe «il 30% dei processi»). E ciò potrebbe avvenire all’interno di uno scambio che consentirebbe alla maggioranza di approvare il lodo Alfano in tempi rapidi (prima dell’estate, come legge ordinaria e sondando la disponibilità dell’opposizione a non ricorrere all’ostruzionismo). L’immunità per le Alte cariche dello Stato, poi, potrebbe diventare oggetto di una legge costituzionale da inserire nell’agenda delle riforme. Un percorso che sconta le diffidenze dell’opposizione, ma anche quelle di Berlusconi. Il Cavaliere pretenderebbe una sorta di salvacondotto d’impunità da far valere a Milano con i giudici del processo Mills o, in alternativa, un rallentamento dei procedimenti giudiziari - anche di quello napoletano - che investono l’inquilino di Palazzo Chigi. Richieste che, evidentemente, il premier ritiene praticabili, nella logica della giustizia uguale per tutti ma non per lui. E che dovrebbero «rasserenarlo» ancor di più dopo la distruzione di intercettazioni - più o meno imbarazzanti - considerate dai magistrati «irrilevanti ai fini del processo». Il Cavaliere abbassa i toni - e non procede per decreto - perché punta a ottenere per vie più morbide ciò che dovrebbe incassare a prezzo di uno scontro con il Capo dello Stato? Ieri, in realtà, Berlusconi si è scagliato ancora contro giudici e pm. «Avrà abbassato i toni - commenta Veltroni - ma ha rivolto accuse che il premier di un altro Paese non avrebbe mai fatto». È «il problema del rapporto con la magistratura», in realtà, «a dominare il governo».

l'Unità 5.7.08
8 luglio, i promotori «Sarà protesta civile»
Sul palco Travaglio, Colombo, Parisi, Sabina Guzzanti
Fava: se ci sarà un attacco al Colle ce ne andiamo via
di Giuseppe Vittori


«Non abbiamo il complesso di piazza San Giovanni. Meglio esserci»
Pannella non ci sarà. Parteciperanno Sinistra critica e i comunisti di Ferrando

BEPPE GRILLO non potrà esserci perché impegnato lontano da Roma, però interverrà a piazza Navona in videoconferenza. E Arturo Parisi sarà sul palco. I promotori dell’iniziativa dell’8 luglio contro le «leggi canaglia», vale a dire i provvedimenti del governo in materia di sicurezza e intercettazioni, hanno spiegato in una conferenza stampa a Montecitorio il senso della manifestazione. Paolo Flores d’Arcais, Pancho Pardi e Furio Colombo hanno negato che ci sia alcuna divisione con il Pd.
Anche Antonio Di Pietro ha in parte tentato di gettare acqua sul fuoco delle polemiche, dicendo: «Non posso immaginare guerre fratricide al nostro interno quando l’opposizione, in questo momento, deve essere unita più che mai»; in parte ha lanciato altri messaggi al Pd e alle altre forze che hanno deciso di non aderire: «La conta non ci interessa, e invito coloro che stanno all’opposizione a non tifare che il proprio elettorato non venga».
L'elenco delle adesioni lo fa Flores: sul palco si alterneranno Marco Travaglio, Sabina Guzzanti, Ascanio Celestini, Andrea Camilleri, Rita Borsellino, Moni Ovadia, Lidia Ravera e Arturo Parisi. «Ci sarà anche il professor Alexian Spinelli, rappresentante del popolo Rom, e molti militanti del Pd - sostiene il direttore di “Micromega” - che si stanno organizzando per essere presenti. Oltre a semplici cittadini».
Tre gli slogan scelti: «L’articolo 3 della Costituzione - spiega ancora Flores - che parla dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; poi, secondo slogan, la scritta che campeggia in tutti i tribunali, “la legge è uguale per tutti”. Infine, il terzo: la frase di una sentenza della Corte Suprema degli Stati uniti del 1972 che sembra scritta per l’Italia di oggi».
A citarla è Furio Colombo: «Nessun governo potrà censurare la libertà di stampa affinché la stampa sia libera di censurare i governi». Su quanti saranno in piazza martedì prossimo, Pardi sottolinea: «Non abbiamo il complesso di piazza San Giovanni. Anche se non ci sarà un milione di persone, l’importante è esserci e lanciare un messaggio. Questa è un’iniziativa civile che punta a riaprire un nuovo ciclo», a dimostrare anche che «piazza e riformismo vanno perfettamente d’accordo».
In un’intervista a Tv7 anticipata dal Tg1 della sera Walter Veltroni fa sapere che non ci sta «ripensando» sull’adesione del Pd: «Io ho rispetto per gli organizzatori, per chi ha dato vita ai girotondi. In questi giorni ho letto tante cose. Non condivido». E a quella che Marco Pannella definisce «la saga dei moralisti» non ci saranno neanche i Radicali. Saranno invece in piazza Sinistra critica e il Partito comunista dei lavoratori di Marco Ferrando.
Sinistra democratica ha deciso di partecipare all’iniziativa già al congresso di Chianciano dell’altra settimana, ma il movimento politico guidato da Claudio Fava precisa che «non può essere una manifestazione polemica verso altre forze del centrosinistra bensì un atto di protesta civile e di rinnovata adesione ai principi della nostra Costituzione e delle sue Istituzioni», che avrebbe preferito un’iniziativa «senza interventi di esponenti politici», e soprattutto avverte: «Sarebbe un errore gravissimo se dal palco venisse attaccata la Presidenza della Repubblica, se così fosse ce ne andremmo cercando di convincere più gente possibile a fare altrettanto».

l'Unità 5.7.08
«Il Psoe si batterà per maggiori diritti eutanasia inclusa»
Intervista a l’Unità di Jesus Caldera sui socialisti spagnoli da ieri a congresso
di Toni Fontana


SI È APERTO ieri a Madrid il 37° Congresso del Psoe. Jesus Caldera, già ministro del Lavoro, è uno dei principali protagonisti. Ha redatto il documento congressuale e Zapatero lo ha incaricato di unificare le fondazioni socialiste per dare vita ad un «centro del
pensiero progressista». «Il pensiero riformista non è in c risi – afferma – in Spagna concederemo il diritto di voto amministrativo agli immigranti, estenderemo la legislazione sull’aborto e l’eutanasia, difenderemo la libertà di pensiero e di espressione abolendo tutti i simboli religiosi dai luoghi pubblici. Il capitalismo selvaggio ha fallito, noi guardiano a Barack Obama, e al rilancio di una strategia riformista nel mondo».
Il 22 luglio saranno trascorsi 100 giorni della nascita del secondo governo Zapatero. Pochi per fare un bilancio, ma sufficienti per trarre alcune indicazioni. La «desaceleracion» economica rischia di tenere banco anche al Congresso...
«La situazione economica è preoccupante, ma la società spagnola è matura e sa che la crisi è planetaria, le difficoltà finanziarie provengono dagli Stati Uniti, dalla restrizione dei crediti, dall’aumento dei costi energetici. Noi siamo prepararti, possiamo contare su un disavanzo di bilancio, il nostro debito pubblico è certamente inferiore a quello dell’Italia, possediamo gli strumenti per uscire dalla crisi, per sviluppare politiche attive in un anno, un anno e mezzo. Non corriamo il rischio di fare marcia indietro, di rinunciare alle conquiste ottenute. Le protezioni sociali non sono in discussione. Se avesse vinto la destra i diritti sociali sarebbero già stati tagliati. Nel Congresso stiamo discutendo soprattutto dei diritti sociali, ci proponiamo di migliorare la legislazione sull’aborto, di introdurre il diritto di voto per gli immigranti nelle elezioni municipali, di estendere i principi di laicità, di affermare il diritto e la tutela di tutte le convinzioni religiose».
In che modo?
«Abolendo nei luoghi pubblici ogni simbolo di carattere religioso. Intendiamo affermare la piena tutela delle libertà individuali e collettive e proseguire nel cammino della precedente legislatura nella quale sono state approvare le leggi sull’assistenza, contro la violenza sulle donne, sull’eguaglianza».
Sono strati presentati più di 5000 emendamenti, la base vuole discutere. La stampa sostiene che l’apparato del partito cercherà di frenare il dibattito.
«Gli emendamenti sono quasi 6000. Le linee essenziali che emergono sono molto chiare: la crisi economica non deve pregiudicare la protezione sociale. La base chiede di rafforzare i diritti individuali e dei lavoratori. Per questo ci siamo opposti alla direttiva europea che permette di estendere a 60 ore l’orario lavorativo. Nel Congresso discuteremo sui mutamenti climatici, sulla lotta alla fame nel mondo che, per noi socialisti, è una priorità; noi ci schieriamo per uno sviluppo sostenibile e rispettoso dell’ambiente, per un nuovo modello di produzione. La base pretende che il governo segua una politica progressista. Aborto, laicità, eutanasia, diritti sono i nostri cavalli di battaglia. La maggioranza degli spagnoli ci appoggia».
Ci sarà un rinnovamnento della classe dirigente?
«Ci saranno più donne e più giovani, il rinnovamento sarà profondo».
Lei sta unficando le fondazioni del Psoe per dar vita ad un unico centro di pensiero.
«Zapatero mi ha incaricato di unificare le fondazioni d’ ispirazione socialista per incrementare la nostra presenza all’estero e diffondere le idee progressiste. La Spagna rappresenta un buon esempio di integrazione tra modernità, crescita economica, diritti sociali ed eguali opportunità. Questi punti cardini possono essere diffusi anche al di fuori dei confini. Sono stato incaricato di creare un “centro di pensiero progressista”». Sto organizzando un’èquipe internazionale di lavoro sulle cause e le possibili soluzioni della crisi alimentare che sta affliggendo molte zone del pianeta. Intendiamo presentare una piattaforma di avanguardia nel movimento progressista internazionale. Sono stato a Londra, Parigi e Bruxelles e sto intensificando i contatti con i progressisti italiani. Ho partecipato alla campagna elettorale di Walter Veltroni e siamo fortemente interessati a collaborare e rafforzare la collaborazione con i riformisti italiani. Ciò che sta accadendo nel mondo non è determinato da cause tecniche ma rappresenta la crisi di un modello globale di pensiero fondato sui valori della conservazione, sostenuto dai repubblicani americani. Se gli Usa avessero controllato e diretto il mercato finanziario non vi sarebbe stata la crisi dei mutui subrprime. Ciò accade perché prevale un capitalismo senza limiti che punta solo sul profitto, senza curarsi dei danni ambientali, sociali ed economici. Anche Banca Mondiale e Fondo monetario ammettono che sono stati fatti errori. La divisione internazionale del lavoro ha condannato alcune regioni al sottosviluppo, l’agricoltura è stata penalizzata, sono state imposte regole del commercio ingiuste. Noi progressisti abbiamo un obbligo “etico” a presentare un programma per un diverso ordine mondiale fondato sul principio della solidarietà e sulla rinuncia ad un capitalismo senza regole».
In Europa però spira un altro vento…
«Noi siamo ottimisti. La globalizzazione può essere positiva, sappiamo di avere regione, guardiano a Omaba e alla sua nuova semsibilità. Bush ha fatto molti danni, dall’Iraq alla gestione finanziaria. Occorre cambiare strada: possibile».
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l'Unità 5.7.08
Ismail Kadaré. L’Albania di Hoxha? Un paese ermafrodita
di Maria Serena Palieri


«La figlia di Agamennone» prima parte del dittico arrivò clandestina in Francia nel 1986. Doveva fungere da testamento nel caso di morte sospetta dello scrittore

Dal 70 al 90, quando sono espatriato a Parigi, il mio status era surreale: ero «lo» scrittore amato dall’Occidente nel paese nemico numero uno dello stesso Occidente

Il nostro pianeta è troppo piccolo per permettersi il lusso di ignorare Dante Alighieri. Sfuggire a Dante è impossibile come sfuggire alla propria coscienza

ISMAIL KADARÉ arriva oggi in Italia per ricevere il Premio Flaiano. In due romanzi da poco usciti per Longanesi il grande scrittore albanese, più volte candidato al Nobel, offre un magnifico e cupo ritratto del totalitarismo

Ci sono immagini che, terminata la lettura di un libro, te ne restano in mente come emblemi. Nel Successore, l’ultimo romanzo di Ismail Kadaré, è quella della «Guida» - ovvero Enver Hoxha, il dittatore che tenne in suo potere l’Albania per quarant’anni, dalla fine della guerra alla morte, avvenuta nel 1985 - che fa ingresso all’inaugurazione della nuova casa del suo delfino. Col suo fasto, la dimora sembra prefigurare il passaggio di poteri tra i due uomini, che dovrebbe avvenire alla morte della Guida. Ma ecco l’anziano dittatore, ormai quasi cieco, in lungo mantello nero, che gioca con l’interruttore modernissimo che spicca su una parete del salone: da un lato è luce sempre più piena, ma dall’altro, clic, la stanza precipita nel buio. Con lo stesso ludico arbitrio, il «Prijs», la Guida, deciderà della vita del suo fedelissimo: gli succederà davvero o sarà lui a morire prima, andandosene in circostanze misteriose? Terminato nel 2004, Il successore è la seconda parte d’un dittico che Kadaré avviò tra il 1984 e il 1986 con il romanzo La figlia di Agamennone. Sulla falsariga della tragedia eschilea dell’Atride, di sua figlia Ifigenia e della moglie Clitennestra, ecco la vicenda di una fanciulla, Suzana, immolata sull’altare della ragion di Stato: non potrà sposare l’amante cui - con innocente fame di eros - ha concesso la propria verginità, perché andrà a nozze con un altro, in apparenza più consono alla dimensione di potere teocratico cui è vocato suo padre; ma nel secondo volume si scopre che il promesso sposo è figlio di «nobilastri», accusa infamante nell’Albania comunista, da qui la caduta in rovina del Successore e della sua famiglia. Il primo libro, racconta nella postfazione Claude Durand, editore di Fayard, arrivò in Francia, da Tirana dove lui si era appositamente recato, dissimulato tra le sue carte, insieme con un altro romanzo, L’Ombre, con L’envol du migrateur e delle raccolte di versi. Depositati alla Banque de la Cité, gli scritti fungevano da assicurazione sulla memoria: Fayard aveva l’incarico di tradurli e pubblicarli se Ismail Kadaré fosse morto, magari in modo «accidentale». Il dittico è il più spietato ed esplicito atto d’accusa che lo scrittore di Gjirokastra abbia mosso al regime di Hoxha - la monarchia comunista che aveva trasformato l’Albania, scrive, in un «paese ermafrodita» - senza più i veli dell’allusione utilizzati altrove, per esempio nel Palazzo dei sogni. Dunque, era lo scudo da utilizzare se il regime avesse tentato, post-mortem, di manipolare la sua memoria. Kafkiano (per una volta l’aggettivo non è un abuso), cupamente magnifico, di una potenza, a tratti, quasi intollerabile, il dittico, - specie nel secondo romanzo - certifica di nuovo la grandezza dello scrittore del Generale dell’armata morta, più volte candidato al Nobel. Mentre, in contemporanea, escono da noi anche due suoi saggi. Uno su Eschilo, l’altro su Dante. Quest’ultimo con una tesi assai interessante: che l’Alighieri, col suo Inferno, abbia prefigurato il mondo fino a oggi, un mondo, il nostro, «dantesco» nella labirintica claustrofobia delle sue metropoli.
«La figlia di Agamennone» e «Il Successore» è un dittico che merita d’essere definito non un romanzo, ma «il» romanzo, del totalitarismo. Cos’è, signor Kadaré, il totalitarismo?
«È un forma di potere ben conosciuta nel mondo, che si è evoluta per millenni, ma i cui dati sono ricorrenti. È un potere totale che non sopporta falle. Il complesso del totalitarismo, la sua malattia mortale, è che la prima falla che si apre in esso ne determina la fine. Perciò non sopporta incrinature».
L’idea corrente è che sia stato il Novecento a inventare i totalitarismi, cioè i fascismi e il comunismo. Quali ne sono stati, prima, i prototipi?
«Il sistema di potere degli Egizi, per esempio. I Greci, loro, ne hanno scritto, la tragedia greca ne parla, ma essa riportava ciò che avveniva nel mondo intorno. Perché la “tirannia” greca era piuttosto un’oligarchia, di tiranni ce ne furono trenta, e questo cambia parecchio. Pensi se ci fossero stati trenta Stalin o trenta Mussolini...».
Però la memoria del totalitarismo, quel controllo che esso esercitava fino nel profondo delle coscienze, sembra scomparsa nel sentire di chi, oggi, persone comuni e non intellettuali, arriva qui dai paesi dell’Est Europa. Russi, romeni, albanesi, raccontano quel passato con nostalgia per il modello di giustizia sociale al più lamentandone la mancanza di libertà. Come mai la memoria del totalitarismo sfuma così facilmente?
«La macchina dell’oblio non è assurda, è necessaria. Senza l’oblio non potremmo avere memoria. Ma a volte si dimentica troppo. La macchina perde colpi, funziona male».
Si dice «comunismo», al singolare. In realtà ciascuno aveva il proprio. Quello albanese quali caratteristiche aveva?
«Era il peggiore. O meglio, il peggiore dopo quello cambogiano e quello cinese. Subito dopo ecco il nostro e quello romeno. Era un mosaico di due fasi, quella stalinista e quella post-stalinista. Il comunismo asiatico era più duro, lì la persecuzione di scrittori e intellettuali è arrivata a livelli inimmaginabili, la Rivoluzione culturale cinese è stata, in questo senso, la più grande ecatombe della storia, però il comunismo cinese non è stato ancora studiato bene».
Forse perché la Repubblica Popolare esiste ancora?
«Anche perché in Occidente c’erano dei maîtres-à-penser che, la Cina, la sostenevano».
Rispetto a questo scenario, lei ritiene di aver sperimentato, in Albania, maggiore libertà?
«Nel 1980 se non altro ho potuto scrivere un romanzo di 600 pagine, Il concerto, dove raccontavo un’ecatombe di intellettuali e la morte che correva dentro la cupola del potere. Facevo un paragone tra Macbeth che, nella tragedia di Shakespeare, uccide il re, e la Cina dov’era stato il re, Mao Tse Tung, ad aver fatto uccidere il candidato alla successione Lin Piao. Scrivevo nomi e cognomi. Finii il romanzo mentre Enver Hoxha liquidava, lui, il suo delfino, Mehmet Shehu. Hoxha lo ebbe in visione e il romanzo non uscì fino alla sua morte. Ma insomma, avevo potuto scriverlo».
Lei ha lasciato l’Albania nel 1990, cinque anni dopo la morte di Hoxha. Come mai non l’aveva fatto prima? E lì di quale statuto godeva? Viveva del suo scrivere? Era amato o messo al bando?
«Lasciare una dittatura è difficile, c’era il rischio di rappresaglie per la mia famiglia. In Albania ero molto amato dai progressisti, studenti e professori, ma anche gente semplice, ed ero odiato dai militanti fanatici del regime e tenuto d’occhio dalla polizia segreta. Il mio status, dopo il 1970, era davvero strano, perché in quell’anno cominciarono a tradurre le mie opere in una quantità di lingue, e così ero amato sia in patria, nel paese che era il nemico numero uno dell’Occidente, che nell’Occidente stesso. Ero un paradosso, ero “lo” scrittore di un paese stalinista amato all’Ovest. Sapevo di avere due tipi di lettori, gli albanesi indottrinati e i lettori di là, internazionali, liberi. E, sì, vivevo del mio scrivere».
In contemporanea con la seconda parte del dittico romanzesco escono in Italia due suoi saggi, «Dante, l’inevitabile», per Fandango Libri, ed «Eschilo, questo grande perdente», per un’etichetta neonata, Controluce. Il richiamo alla tragedia classica è, in questi due romanzi, esplicito fin dal titolo del primo. E l’aggettivo «dantesco» descrive il cupo inferno in cui si erge la figura del «Prijs», la Guida, il dittatore. Quale ruolo hanno avuto i Greci, da un lato, e Dante, nella sua formazione?
«Un’influenza profonda, costituiscono il sommo dell’arte. È questo che, nei saggi, ho cercato di esprimere. Che il testo su Dante appaia ora in Italia è un piacere, è un onore».
La vicenda che lei narra nei due romanzi è calcata sull’«Orestea». Ma ciò che il Successore/Agamennone immola per far carriera non è il semplice corpo di sua figlia, Suzana/Ifigenia. È, più in profondità, la sua sessualità. È al suo eros che la ragazza deve rinunciare. Perché ha circoscritto il sacrificio di Suzana a questa sfera e non ha parlato invece d’amore, di cuore, di sentimenti?
«Volevo dare al sacrificio una connotazione “genetica”, qualcosa che parlasse della possibilità di cambiare la natura umana in profondità. E accentuare questo lato dell’amore: il totalitarismo riduce l’amore, come tutte le passioni, a uno stato molto povero, primitivo».
Dopo il crollo del regime lei è potuto tornare in Albania. L’ha fatto subito? E oggi com’è il paese, rispetto al passato?
«Non è un paese né ricco né felice. Io, qui, sono tornato subito, appena ho potuto, me l’ero ripromesso e ho mantenuto la parola. Trascorro metà dell’anno vicino a Durazzo, sul mare, in una località il cui nome è arcaico e significa “la montagna dell’uomo”. L’Albania oggi potrebbe essere felice, per via della libertà conquistata. Ma pretende di più. E se lo merita, io credo».

In libreria non solo romanzi. Anche i saggi su Eschilo e Dante
Con «Il Successore» (pp. 149, euro 12,60) romanzo appena uscito, sono arrivati a tredici i titoli di Ismail Kadaré pubblicati da Longanesi.
In questa stagione è uscito anche La figlia di Agamennone (pp. 109, euro 13). La traduzione di entrambi, a opera di Francesco Bruno, è dalla versione francese, anziché dall’originale albanese,
Tea ha da poco rimandato in libreria, in tascabile, Chi ha riportato Doruntina? (pp. 142, euro 8, trad. F. Bruno) una vicenda dai toni da thriller ambientata nell’Albania medievale, composta da Kadaré nel 1980.
Per Fandango Libri Francesca Spinelli ha tradotto il saggio Dante, l’inevitabile (pp.53, euro 9). La neonata editrice salentina Controluce pubblica invece Eschilo, il gran perdente (pp. 140, euro 13) nella traduzione, qui, dall’albanese, di Adriana Prizreni.

l'Unità 5.7.08
Appelli. Lo lanciano lo scrittore e il regista
Tabucchi e de Oliveira: «Basta ai doppiaggi»


Un appello all'Unione europea: smettiamola di doppiare i film, proiettiamoli in lingua originale con sottotitoli! L’appello lo hanno lanciato giovedì sera lo scrittore Antonio Tabucchi e il regista portoghese Manoel de Oliveira (100 anni a dicembre) in un incontro alla Cinemateque francaise di Parigi. «È anche una questione di diritto d'autore - ha detto Tabucchi - Non possiamo proteggere un corpo mettendogli in bocca le parole di un altro. È peccaminoso!». «Anch'io non sopporto il doppiaggio dei film. E secondo me anche Michel Piccoli che è qui in sala con noi tra il pubblico si aggiunge a questo appello», ha continuato il regista applaudendo l'attore francese. In Italia, Spagna e Germania - ha spiegato Tabucchi - si continuano a doppiare i film perchè nel '39 Hitler e Mussolini lo avevano stabilito in un patto per ragioni nazionalistiche. La serie di incontri con gli artisti e di proiezioni di film d'autore alla Cinematheque si inseriscono nella stagione culturale europea organizzata in Francia in occasione della presidenza dell'Unione europea. La serata ha proiettato il primo film di Oliveira del 1929, Douro, Faina Fluvial, un muto in bianco e nero di 18 minuti. «Avevo vent'anni - ha raccontato il regista - e fu mio padre a finanziarlo». E, parlando di religione, ha detto: «La cosa più sexy per me è la religione. l'universo è sexy. Amare la religione o la scienza è la stessa cosa. Io sono di tradizione cattolica, diciamo che non credendo credo».

venerdì 4 luglio 2008

l'Unità 4.7.08
«Alla Diaz la vendetta dei Poliziotti»
«Diaz, dai poliziotti un muro d’omertà»
Processo agli agenti, i pm: la vicenda della pattuglia «assalita» a sassate fu un pretesto per il blitz
di Maria Zegarelli


Omertà. Come nei processi contro i mafiosi. O per violenza sessuale. Così è andata anche con le indagini sul massacro alla scuola Diaz durante il G8 di Genova nel 2001. Omertosi gli agenti, i dirigenti della polizia,chiunque sapeva e ha omesso di dire. Il pubblico ministero Enrico Zucca apre la requisitoria contro i 29 poliziotti coinvolti nei fatti. Parole pesanti come pietre: l'irruzione alla scuola Diaz fu decisa perché la Polizia voleva riscattare la sua immagine, offuscata dai giorni del G8 e dall'omicidio di Carlo Giuliani. Il quadro probatorio, oggi, dice il pm, è più chiaro che durante l’istruttoria.

L'ASSALTO alla pattuglia della polizia davanti alla scuola, la presunta sassaiola che ha dato il via all'irruzione che sfociò nell'arresto di 93 manifestanti e nella «macelleria messicana», non ci fu. «La sera del 21 luglio in via Cesare Battisti e nelle vie limitrofe della scuola non vigeva neppure il codice penale».
Insiste il pm, pubblica accusa insieme a Francesco Albini Cardona, quel lancio di oggetti fu un episodio minore. «Si evince dalle tante testimonianze di tante persone diverse. Su un punto tutte concordano: nessuno bloccò le auto delle forze dell'ordine,nessuno lanciò sassi. Forse una bottiglia». Nell'aula bunker del Tribunale di Genova si riapre una delle pagine più inquietanti della storia della Seconda Repubblica, esordio al governo di Silvio Berlusconi.
Giorni di guerriglia e pestaggi, di polizia cilena e troppi responsabili mai identificati. 29 tra poliziotti e funzionari con accuse che vanno dal porto di armi da guerra al pestaggio al falso ideologico, alle lesioni, circondati dall'omertà. Omertà che ha impedito, come ha sostenuto il vicequestore aggiunto di Genova, Salvemini, di risalire ai componenti della pattuglia che quella sera del 21 luglio passò sotto la scuola, dove erano alloggiati i ragazzi del Genoa Social Forum.
Nessun imputato presente in aula. Nel lungo elenco nomi eccellenti: Spartaco Mortola, all'epoca capo della Digos genovese, Francesco Gratteri e Giovanni Lunari, rispettivamente direttore dello Sco e vicedirettore dell'Ucigos; Gilberto Caldarozzi, vicedirettore dello Sco e Vincenzo Canterini, comandante del VII Nucleo sperimentale del I reparto della Squadra mobile di Roma. Assenti in aula anche Pietro Troiani, vice questore e l'autista Michele Burgio. È grazie a quello che - secondo l'accusa - fecero quella sera i due poliziotti se questo processo non si fermerà per effetto del decreto blocca processi.
Quella sera Troiani e Burgio - dice il pm - entrarono nella scuola con due molotov, per creare «una falsa prova» contro i manifestanti, le «zecche», come vennero definiti durante i colloqui tra gli agenti in strada e quelli della centrale operativa quella notte. Troiani e Bugio sono accusati di porto d'arma da guerra. Un reato grave, che non rientra tra quelli previsti nell'emendamento al decreto sicurezza. Un reato salva-processo. Ironia della sorte.
In aula ci sono Heidi Giuliani, madre di Carlo, e Mark Covell, reporter inglese massacrato di botte dalla polizia. Il magistrato descrive la scena di un uomo a terra, inerme, tanti agenti che picchiano a sangue. Fino a quando arriva il poliziotto «buono» che interviene e salva la vita al reporter.
«I processi alla polizia sono sempre difficili, perché c'è il timore di mettere in discussione le istituzioni», ma questa vicenda - dice Zucca - si può accostare ai processi per violenza sessuale e a quelli contro la criminalità organizzata. Ai primi perché la tentazione è quella di colpevolizzare la vittima, ai secondi perché «è difficile indagare a causa di comportamenti di omertà». «Riteniamo - dice - di aver usato prudenza nelle indagini, ma ora chiediamo alla giustizia rigore».
Fu il prefetto Ansoino Andreassi a rivelare che fu deciso dall'alto di dare un segnale. Arrestare i responsabili dei disordini, riabilitare l'immagine andata in pezzi con i disordini in città e l'omicidio di Giuliani. Durante le quattro ore di udienza il pm ripercorre con dovizia di particolari quanto avvenne quando passarono le pattuglie della polizia sotto la scuola. Dagli elementi probatori non si può che dedurre «il sostanziale ridimensionamento di quell'episodio».
La perquisizione nasce ufficialmente con l'obiettivo di colpire i responsabili della sassaiola. Mortola nella sua relazione racconta di aver trovato un gruppo di persone vestite di nero che bevevano birra. «Suggestivo l'accoppiamento birra-bottiglia-lancio». Il dirigente era convinto - malgrado nel corso di una telefonata Kovac, responsabile del dormitorio, avesse garantito che lì c'erano solo i ragazzi del Gsf - che la Diaz ospitasse i sovversivi.
La difesa mostra segni di impazienza. Che c'entra, tutto questo con i capi d'accusa? È di fondamentale importanza per il pm quell'episodio. Da lì parte tutto. Due pattuglioni distinti che si incontrano davanti ai cancelli della scuola. Buio, urla, ragazzi spaventati che fuggono. Il massacro. Da oggi si ricomincia da lì. Si entra nella Diaz, la «macelleria messicana». Per arrivare a Bolzaneto. Alle torture. Reato non previsto dal codice.

l'Unità 4.7.08
Il reporter pestato: «Berlusconi e Fini responsabili»

MARK COVELLIl giornalista di Indymedia Uk e collaboratore della Bbc, c’è un processo per tentato omicidio ai suoi danni: assurdo, voglio la verità

Calci, manganellate,un polmone perforato,denti rotti. Un litro e mezzo di sangue trasfuso. Arrestato con l'accusa di essere un black block. «You are black block, we kill black block». Noi uccidiamo i black block. Questo urlavano gli agenti mentre in gruppo picchiavano senza pietà Mark Covell, ormai a terra. Mark era un reporter di Indymedia Uk, un network, collaboratore della Bbc, inviato a Genova per seguire il G8 del 2001. Non stava scappando,quando arrivò la polizia: stava cercando di raggiungere il terzo piano della scuola degli orrori, dove era stato sistemato il «New dispatch», la sua postazione di lavoro. Agitava la sua tessera di giornalista, l'accredito stampa. Niente da fare. Quelli picchiavano a sangue. Da allora sono passati sette anni. Da allora chiede giustizia. C'è un processo per tentato omicidio ai suoi danni, ma è contro ignoti perché finora nessuno è riuscito a identificare i responsabili di quel pestaggio. «Considero responsabili il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e quello della Camera Gianfranco Fini, allora ministro in carica, per il mancato accertamento della realtà», dice con la voce rotta dall'emozione. Nel processo in corso contro i 29 poliziotti si è costituito parte civile, perché ingiustamente arrestato. «Human football», così sentì quella notte. «Un pallone umano» a cui ognuno a turno tirava un calcio. Le forze dell'ordine chiamarono l'ambulanza dopo 40 minuti dal pestaggio. Un carabiniere quando arrivò lo scambiò per un «fantoccio». Oggi è di nuovo a Genova, per il processo.
Covell, oggi il pm ha ricostruito i passaggi di quella sera e il pestaggio di cui sei stato vittima. Cosa hai provato?
«Una grande emozione, molta sofferenza, ma nello stesso tempo mi sento sollevato perché in un'aula di giustizia si racconta quella terribile storia. Ancora oggi non ci sono responsabili, si procede contro ignoti. Di questo considero responsabili il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi e quello della Camera Gianfranco Fini».
Cosa ti aspetti da questo processo?
«Spero che venga fuori la verità, vorrei vedere puniti i responsabili dell'irruzione nella scuola Diaz. Quella sera lì dentro era una macelleria. Ho visto donne e giovani picchiati a sangue, a terra».
Si interrompe. L'emozione ha il sopravvento.Questione di minuti,poi il reporter, il suo essere inglese, hanno la meglio.
Hai sentito che il processo rischia la sospensione a causa del decreto salva-processi?
«Il pubblico ministero mi ha spiegato che se l'emendamento resta così come è il processo dovrebbe andare avanti. Ma nel caso in cui si fermasse ricorrerebbe immediatamente alla Corte di Giustizia europea. Quello che è successo qui a Genova nel 2001 è gravissimo. Mi rendo conto che questo processo potrebbe essere uno degli obiettivi di quel decreto che il governo vorrebbe approvare, ma sono fiducioso».
m.ze.

l'Unità 4.7.08
Ferrero-Vendola, separati in casa: verso un congresso con due distinte platee
Rifondazione. Partito sempre più spaccato, anche se il governatore della Puglia dice «nessuna scissione». Ma la tenzone rischia di finire in tribunale
di Simone Collini


Annullato congresso di circolo in Calabria favorevole a Nichi
Ferrero: le tessere non erano in regola
La risposta: quei voti sono regolari faremo disobbedienza
Nessuno scambio segretario-segreteria

La parola «scissione» andrà pure «bandita», come dice Nichi Vendola, ma la scena è decisamente da separati in casa. Dopo che la commissione congressuale in mattinata annulla un congresso di circolo di Reggio Calabria, finito 345 a 2 per la mozione che candida a segretario del Prc il governatore della Puglia, nel pomeriggio l’attività ferve a via del Policlinico, sede del partito. Vendola convoca una conferenza stampa per far sapere che per quanto li riguarda «l’annullamento è un atto illegale», che «quei voti sono validi» e che la sua mozione praticherà «un atto di disobbedienza per difendere il partito». Neanche il tempo di uscire dalla Sala Libertini che nella stessa stanza entra Paolo Ferrero per raccontare la sua versione dei fatti: «La legalità va tutelata sempre, nel Paese come nel partito, e le decisioni prese dalla commissione congressuale vanno rispettate», dice l’ex ministro spiegando che all’organismo di garanzia (nel quale sono rappresentate tutte e cinque le mozioni) risulta che di quegli oltre trecento votanti «nessuno aveva la tessera del 2008» e che nel tesseramento di altri circoli «si sono riscontrate delle anomalie», tanto che in alcune zone sarebbero quasi più gli iscritti al Prc che i votanti della Sinistra arcobaleno alle elezioni di aprile. Vendola è in un corridoio poco distante, dice che «non c’è nessun tesseramento drogato», che i sostenitori della mozione Ferrero-Grassi «ci vogliono impedire una vittoria praticamente ormai certa con interventi chirurgici ai nostri danni» e che non accetterà «una militarizzazione per cui l’espulsione di una parte va a vantaggio dell’altra parte».
Il bilancio a fine giornata è che a Chianciano magari ci arrivano pure, ma con due platee congressuali diverse. E che quindi l’assise nazionale del Prc finirà prima ancora di cominciare. Vendola infatti non accetta il verdetto su Reggio Calabria perché sa che è soltanto il primo annullamento, a cui seguiranno quelli di Portici, Castellammare di Stabia, Brescia e di tutti gli altri contestati per troppi nuovi iscritti dalla mozione Ferrero-Grassi. Ed è un primo annullamento pesante quello di ieri, visto che con una platea congressuale di 45mila votanti i 345 voti azzerati rappresentano da soli quasi un prezioso 1% (finora le prime due mozioni sono staccate di poco). «Noi vogliamo che finisca in politica e non in tribunale», risponde il governatore pugliese a chi gli domanda se si andrà davanti ai magistrati. E «in politica» non vuol dire accettare la proposta (a sentire i bertinottiani) ventilata dai ferreriani (che però smentiscono) di chiudere il congresso a tavolino con la vittoria al 49% di Vendola, al quale andrebbe l’incarico di segretario, mentre la segreteria sarebbe di nomina dell’area Ferrero-Grassi-Mantovani.
Con i suoi Vendola è stato chiaro: gli iscritti, anche quelli nuovi, hanno il diritto di veder riconosciuto il loro pronunciamento, e quindi al congresso nazionale di Chianciano (24-27 luglio) andranno tanti delegati della mozione quanti risulteranno dal calcolo totale dei voti, non da quelli registrati o invalidati dalla commissione congressuale.
Nel ‘21 finì con i comunisti che abbandonarono la sala del teatro Goldoni intonando l’Internazionale. Questa volta potrebbe finire con due gruppi di delegati che si contestano l’un l’altro il diritto di accedere nella stessa sala.

il Riformista 4.7.08
I senza Fausto: si rischia un congresso sub judice
Vendola e Ferrero, un altro passo verso il tribunale
di Alessandro Calvi


Rischia di essere un congresso sub judice quello che a fine luglio eleggerà il successore di Fausto Bertinotti alla guida di Rifondazione comunista. Ma potrebbe anche andare peggio. C'è chi parla di scissione, anche soltanto per negarla. E, per quanto nessuno la voglia considerare una possibilità praticabile, esiste il rischio che il risultato del congresso lo possa decidere un tribunale. Intanto, mentre Rifondazione si avvita in uno scontro interno dall'esito imprevedibile, Antonio Di Pietro chiama il popolo in piazza. E anche su questo nel Prc ci si divide. «Noi l'8 ci saremo», ha annunciato Paolo Ferrero, mentre, a proposito dell'ex pm, Niki Vendola, ha affermato: «È solo invettiva, così non si costruisce l'opposizione».
L'ultima novità, quella che ieri ha fatto esplodere platealmente lo scontro interno al Prc - provocando la convocazione di due conferenze stampa gemelle, l'una dopo l'altra, presso la sede nazionale del partito - è l'annullamento del voto di un circolo calabrese, quello di Reggio Calabria Centro, dove aveva prevalso la mozione che sostiene Vendola. Alla base della decisione presa dalla Commissione congressuale, c'è ancora il tesseramento sul quale è ormai guerra aperta tra le diverse mozioni in corsa per la segreteria, soprattutto tra la 2, quella di Vendola e dei bertinottiani, e la 1 che vede schierati Paolo Ferrero e Ramon Mantovani. Cuore del problema, la regola secondo cui possono votare ai congressi tutti coloro che si sono iscritti al partito almeno 10 giorni prima. Proprio sul possesso dei requisiti per il voto è scattato l'annullamento del congresso reggino.
Se la questione in altri tempi sarebbe rimasta un fatto tutto interno al partito, ora diventa invece un fatto politico. Ferrero ha richiamato tutti al rispetto delle regole. Vendola ha annunciato la disobbedienza civile: si considerano validi i voti annullati. E ciò getta un'ombra sull'esito finale del congresso, soprattutto nel caso di una vittoria sul filo di lana per cui fosse decisivo anche l'ultimo voto.
«Non accettiamo questo annullamento», ha attaccato Vendola che ha definito «atto grave e illegale» la decisione della commissione congressuale che, ha spiegato, impedisce la possibilità di ripetere il congresso di Reggio Calabria. «Di fronte ad un atto così grave - ha annunciato - confermiamo la nostra cultura della disobbedienza, questa volta per difendere il partito da un atto burocratico, autoritario e arbitrario». Insomma, si va avanti come se quei voti fossero validi. Vendola ha quindi definito «insopportabile» il fatto che nel Prc si sia «introiettato un sentimento leghista» e che dunque si guardi con sospetto al fatto che nel sud vi sia stato un aumento degli iscritti. «Non c'è nessun tesseramento drogato - ha concluso - Ci vogliono impedire una vittoria praticamente ormai certa con interventi di censura chirurgica ai nostri danni».
Di tutt'altro tenore è stata la risposta di Ferrero che ha invitato al rispetto delle regole e ha spiegato che il congresso di Chianciano dovrà decidere la linea politica del partito che poi dovrà avere una gestione unitaria. Quindi è tornato sul tesseramento. Secondo Ferrero, i numeri relativi al 2008 sarebbero superiori a quelli del 2007. Ciò sarebbe però avvenuto soltanto in alcune zone - «a macchia di leopardo», ha detto - spiegando che ciò produce un «elemento di preoccupazione» perché «per un partito piccolo come Rifondazione il rischio è quello dello snaturamento della comunità». «Il nostro - ha aggiunto Mantovani - è un partito di iscritti e militanti, qualcuno vorrebbe che il nostro congresso assomigliasse alle primarie del Partito democratico». Infine, Ferrero ha fornito qualche dato secondo il quale a ieri la mozione numero 1 avrebbe ottenuto 9560 voti contro i 9489 della mozione numero 2, con poco più della metà dei congressi già conclusi.
La strada verso Chianciano si annuncia in salita. Soprattutto se dovessero saltar fuori altre contestazioni sul tesseramento. Quello di Reggio Calabria potrebbe infatti non essere l'ultimo caso. Il prossimo, forse, addirittura Roma.

l'Unità 4.7.08
D’Alema: Berlusconi ha demolito se stesso
«Il decreto sulle intercettazioni è inaccettabile, la Costituzione non prevede urgenze personali»
di Simone Collini


«BERLUSCONI era riuscito a dare un'immagine, in parte accreditata dalla stampa, di un suo profilo nuovo, di uomo attento ai problemi del Paese. In pochi giorni è riuscito, anche con una certa furia, a demolire questa immagine e a ripresentarci quella di uomo
di potere dominato da problemi suoi, e che concepisce l'uso del governo come funzionale a risolverli». Massimo D'Alema parla alla Festa dell'Unità di Roma negli stessi minuti in cui sarebbe dovuta andare in onda la puntata di Matrix con il premier come ospite. «Importante - dice rispondendo ad Antonio Padellaro che lo intervista - non è la rinuncia a una trasmissione televisiva, ma se verrà confermata la rinuncia all'uso del decreto legge per affrontare una questione che per sua natura non può essere affrontata con un simile strumento». L'oggetto della discussione è un provvedimento legislativo sulle intercettazioni (e D'Alema sottolinea che «la sistematica pubblicazione di materiali coperti da segreto istruttorio e' un problema in uno Stato di diritto») in una giornata in cui le indiscrezioni su colloqui pruriginosi riguardanti il premier si sprecano. «La Costituzione non prevede urgenze personali, quelle ognuno se le risolve da sé. Altre sono le urgenze del Paese, e l'uso di un decreto legge per regolamentare le intercettazione sarebbe inaccettabile e gravissimo, il rischio di un conflitto istituzionale sarebbe molto forte. Se sarà confermata la marcia indietro di Berlusconi sarebbe segno di saggezza».
D'Alema difende il dialogo sulle regole tra maggioranza e opposizione, dice che è "obbligatorio" con chi rappresenta la maggioranza degli elettori e che «se la destra dice no se ne deve assumere la responsabilità», e però precisa che il dialogo è «uno strumento, non una politica». Poi una frecciata a Gianfranco Fini: «faccia il presidente della Camera anzichè continuare a fare il leader della maggioranza». Critica l’”orribile" proposta di Maroni di prendere le impronte digitali ai bambini rom e il reato di immigrazione clandestina, che «mina i fondamenti costituzionali perché la legge punisce degli atti, non delle condizioni», insiste sul concetto che l'opposizione «si fa con grandi campagne popolari» e sul fatto che «il Pd ha dimostrato di essere forte ma per ora è largamente ancora soltanto un progetto, bisogna radicarlo». Il che vuol dire, aggiunge l'ex vicepremier, procedere rapidamente col tesseramento: «Attendo trepidamente la tessera. Per ora in mano ho soltanto un attestato. Ecco perché ho fatto la battuta: sono un simpatizzante del Pd. Altro che partito liquido. Io sono per la rapida solidificazione».
L'area dibattiti della Festa dell'Unità (nome difeso da D'Alema) è affollata. In prima, seduto sul prato, l’ex esponente di An Gustavo Selva. Anche quando l'ex ministro degli Esteri dice che il governo ombra del Pd «è un modo di organizzare l'opposizione» e che però «c'è un problema»: «Il governo ombra siamo solo noi, mentre non solo noi siamo all'opposizione», dice ribadendo la critica alla tentazione all'autosufficienza, in cui può sconfinare l'impegno nella vocazione maggioritaria. «Dobbiamo studiare forme di collaborazione tra tutte le forze dell'opposizione». Stando attenti, aggiunge però, a non farsi trascinare da altri partiti in "risse" che alla fine dei conti avvantaggiano Berlusconi e la destra, non il centrosinistra. Il riferimento tutt'altro che casuale è alla manifestazione dell'8 luglio e alle esternazioni di Antonio Di Pietro. «Non si può fare il giochino di convocarsi a vicenda. E non ci si può fare attirare da Berlusconi nell'ennesima rissa sulla giustizia, sentendoci poi dire proprio da lui che non sono questi i problemi del Paese» (sorriso sul palco e risata della platea). «Conosciamo il piazze piene urne vuote. Una manifestazione serve non per far sfogare gli umori, ma se il giorno dopo almeno un italiano in più viene convinto delle nostre ragioni».

l'Unità 4.7.08
«Alleanze sui programmi da Udc a Rc»
Intervista a Bettini: alleanze larghe
Dall’Udc a Rifondazione
di Andrea Carugati


«La situazione è pesantissima, il premier e il governo ormai hanno sotterrato ogni intenzione di dialogo e dichiarato guerra a Veltroni e al Pd, scegliendo la strada dei colpi di mano per difendere ancora una volta interessi personali. Sarà opposizione dura». Goffredo Bettini, coordinatore politico del Pd e braccio destro di Walter Veltroni, pone una domanda a palazzo Chigi: «Il decreto blocca-processi toglie la possibilità di avere giustizia per reati gravissimi come rapina, stupro, corruzione, frode fiscale. Si parla di 100mila processi che saranno sospesi: è questa la sicurezza di cui parlavano? In realtà è un indulto mascherato».
Alla luce di tutto questo, è pentito dei mesi di dialogo con Berlusconi, prima e dopo il voto?
«Assolutamente no. Berlusconi all’inizio fece dichiarazioni di grande apertura e disponibilità a costruire almeno sulle regole un dialogo con l’opposizione. Un nostro rifiuto pregiudiziale sarebbe stato un errore. Ora che Berlusconi capovolge totalmente la sua posizione noi abbiamo ancor più legittimità nel dare a lui ogni responsabilità della rottura e dello scontro e abbiamo più forza nel dimostrare alla maggioranza degli italiani quanto le sue promesse siano state vane».
E il Pd come deve reagire a questi colpi di mano sulla giustizia? Giusto non partecipare alla piazza girotondina dell’8 luglio?
«La nostra opposizione sarà molto forte e visibile e costruita su tempi medi e lunghi, con due obiettivi: convincere la maggioranza degli italiani e unire i temi della giustizia alla grande priorità che investe il Paese, e cioè la drammatica riduzione del valore degli stipendi e delle pensioni. Una vera alternativa riformista non si può accontentare di lanciare grida d’allarme ma deve mettere in campo proposte meditate e persuasive».
E la piazza?
«È per le ragioni che ho appena illustrato che non abbiamo condiviso la piattaforma della manifestazione dell’8 luglio. Il messaggio di quella iniziativa ci appare estremista, urlato, e anche un po’ confuso. Alla fine tendono a restringere il consenso e le alleanze e sbagliano i bersagli, tant’è che alcuni dei promotori se la prendono soprattutto con il Pd e con Veltroni, che sono la vera alternativa a Berlusconi, e attaccano anche il presidente Napolitano, un adamantino democratico impegnato a garantire il rispetto delle regole».
Insomma, per voi niente da spartire con Flores?
«Ci sono modi diversi di protestare. Quello non è il nostro, non è adatto a una grande forza riformista, anche se a quella manifestazione hanno aderito tanti amici per i quali nutro una grandissima stima e che considero compagni di lotta. Penso a Furio Colombo, che peraltro ha espresso forti perplessità sugli atteggiamenti più esasperati».
In piazza però ci saranno anche dirigenti del Pd, come Parisi...
«Ognuno è libero di manifestare la sua voglia di opposizione nelle forme che crede, ma nel gruppo dirigente nazionale del Pd c’è stata una valutazione unanime su quella iniziativa».
Niente piazza, dunque. Come si vedrà la vostra dura opposizione?
«Con una nettissima battaglia parlamentare. Se si confermeranno le scelte annunciate, a partire dal decreto sulle intercettazioni, utilizzeremo tutti gli strumenti regolamentari per rendere difficile la strada al governo e per segnalare il punto di guardia a cui si è arrivati. E poi pensiamo a forme di petizione popolare da far firmare ai cittadini nelle nostre feste, nei tanti incontri che organizzeremo prima della grande manifestazione di popolo di fine ottobre».
E il vostro rapporto con Di Pietro? Temete che punti ai vostri voti, quelli più “radicali” sui temi dell’antiberlusconismo?
«Se il Pd avesse ancora il complesso di una critica alla sua sinistra dimostrerebbe di essere immaturo. Il semplice antiberlusconismo non ci ha mai fatto vincere. Il nostro compito è di essere noi, proprio noi, credibili agli occhi degli italiani per guidare il Paese. Il viaggio in campagna elettorale con Di Pietro è stato proficuo, in quella fase è stato leale e collaborativo. Poi ha cambiato linea. In parte lo capisco, stando all’opposizione ha voluto riconquistare uno spazio di manovra e di visibilità che si raccorda meglio alla sua storia politica. Ciò non toglie che in ogni occasione possibile le opposizioni devono collaborare e unirsi».
L’asse tra Veltroni e Casini può aprire all’Idv nuovi spazi?
«Di fronte agli strappi e alle prepotenze della maggioranza è utile allargare e unire il fronte di chi si oppone. Usciamo dall’assillo se dialogare di più da una parte o dall’altra. Dobbiamo dialogare con tutti e per quanto riguarda le future alleanze per il governo costruire il fronte più ampio sulla base di una seria coesione programmatica».
Una alleanza con Idv, Udc e la sinistra? Non rischiate di rifare l’Unione?
«Il punto è costruire il campo più largo possibile di alleanze a partire, come dice sempre Veltroni, da una rigorosa verifica di convergenze sui programmi, che poi devono essere rispettati quando si governa. Non è un processo che si verifica a priori, ma nel fuoco della dinamica politica».
E la vocazione maggioritaria?
«La sfida che abbiamo lanciato affermando la nostra vocazione maggioritaria non significa autosufficienza, e lo abbiamo ripetuto fino alla noia, ma ambizione di mettere in moto e di innovare tutto il campo delle forze di centrosinistra per spingerle a mettere al primo posto la coerenza tra le promesse agli elettori e i comportamenti che poi si perseguono dal governo».
Dunque non vedrebbe come fumo negli occhi una coalizione dall’Udc al Prc?
«Oggi sarebbe davvero irrealistica. Se poi si creano le condizioni di innovazione che ho indicato non vedrei come fumo negli occhi nessuna alleanza nel campo democratico. Ma non sarebbe la vecchia Unione, bensì un nuovo centrosinistra più coeso e credibile con un forte baricentro riformista».
Torniamo alle intercettazioni. Lei come le regolamenterebbe?
«È un tema delicatissimo che investe una giusta esigenza di privacy dei cittadini da tutelare integralmente senza rendere più difficili le indagini dei magistrati. È evidente che mancano del tutto i requisiti di necessità e urgenza per un decreto. Ma sono per arrestare una diffusione barbara di conversazioni private che non hanno rilievo penale».
Se si tratta di conversazioni in cui un leader politico raccomanda delle attrici è giusto che i cittadini sappiano?
«Se sono conversazioni private e senza rilievo penale, no».
Se Berlusconi dovesse rinunciare al decreto potreste dialogare su questo tema?
«Si tornerebbe a un normale confronto parlamentare per regolamentare questa materia».
Lei dopo il voto aveva proposto un congresso anticipato del Pd. È ancora di questa opinione?
«Se la spinta sincera alla costruzione comune del Pd dovesse venir meno perché covano prospettive politiche legittime ma diverse, allora sarebbe meglio il congresso. È una mia opinione personale: in quel caso sarebbe meglio una discussione franca e democratica che ridia la parola ai cittadini e agli iscritti. Non ho mai paura del confronto in mare aperto, temo lo sfarinamento e la opacità delle manovre di potere».

l'Unità 4.7.08
Rom, la sfida del prefetto «Niente impronte ai bimbi»
Roma, Carlo Mosca: non servono, è solo una discriminazione
Sì a foto e accertamenti con la procura minorile. S. Egidio: no al razzismo
di Massimiliano Di Dio


SULLE impronte ai bimbi rom, il prefetto di Roma Carlo Mosca è categorico. «Non è accettabile - dice - che possano essere fatte discriminazioni. Per i bambini non bisogna arrivare all'identificazione con le impronte digitali». Piuttosto fotografie e accertamenti
d'intesa con la Procura nei casi di dubbi sulla paternità di un minore. E comunque evitare rilievi non dattiloscopici anche per tutti gli altri nomadi. Perché, afferma ancora il commissario straordinario del Lazio, «non sono necessari». Non demorde Mosca. Anzi va per la sua strada nel censimento dei senza fissa dimora laziali, confermando il suo ruolo di «garante dei diritti civili e sociali» che sono «il lavoro, la scuola e la salute». Lontano quindi dalle indicazioni almeno iniziali del ministro Maroni: «Impronte per tutti». E più cauto rispetto a un altro prefetto interessato dall'emergenza, quello di Napoli, dove si è già iniziato a prendere le impronte a tutti i minori al di sopra dei 14 anni. «Sarebbe una pratica umiliante e degradante. Inutile al fine della definizione del rapporto di parentela» denuncia la Comunità di Sant'Egidio pronta a scendere in campo contro un censimento discriminatorio perché legato all'etnia e alla religione con una manifestazione dal titolo «Diamoci la mano, non le impronte». «Non siamo contrari all'identificazione - aggiunge il portavoce Marazziti - ma come avviene per i bambini italiani è il genitore che ne deve dichiarare l'identità. Ancora non è tardi per cambiare. Occorre una piattaforma del buonsenso per affrontare seriamente la questione zingari».
Oggi in Prefettura saranno definite le linee di intervento del censimento romano. L'inizio delle operazioni, che riguarderanno oltre 9mila rom che vivono nei 50 campi abusivi e nei 20 regolari della capitale, continua a slittare. Prima dal 6 al 10 luglio. Ora sembra fissato al 14 luglio. La Croce Rossa ha proposto al prefetto Mosca un sistema impiegato in Albania. E quindi una scheda con nome, cognome ed età presunta - da accertare in casi dubbi con esami a raggi x - di ogni rom. Ancora informazioni su fabbisogni, vaccinazioni obbligatorie, esperienze lavorative e la consegna ai nomadi di un tesserino sanitario da usare per l'accesso ai servizi medici. Una copia della scheda rimarrà al soggetto censito, l'altra finirà nelle mani delle autorità. Ovviamente nel rispetto della privacy.
Resta tuttavia un'incognita: il ruolo delle forze dell'ordine nel censimento. Carabinieri, poliziotti, finanzieri e vigili dovrebbero affiancare il personale della Cri. «Magari in borghese» sollecitavano gli stessi volontari. E comunque con funzioni legate all'identificazione anagrafica dei rom. Senza prendere le impronte, come da un lato hanno chiesto Caritas, Comunità di Sant'Egidio, Arci e gli stessi rom. «Non permetteremo a nessuno di toccare i nostri figli» ha ripetuto ieri Najo Adzpovic del campo Casilino 900, uno dei più grandi della capitale. E dall'altro ha ribadito ieri lo stesso commissario straordinario. «Se i nomadi si rifiutano di farsi identificare - ha precisato Mosca - sarà necessario ricorrere ai rilievi segnaletici ma senza arrivare al rilievo dattiloscopico». Quindi foto e rilievi antropometrici (peso, altezza e così via) da decidere caso per caso. Facendo salva la possibilità in situazioni estreme di ricorrere anche ad accertamenti d'intesa con il Tribunale per i minorenni e alla Procura. «Il problema dei minori rom esiste - ha concluso ancora Marazziti della comunità di Sant'Egidio - ma si tratta di migliorare le loro condizioni di vita, di battersi per la loro scolarizzazione».

Nel censimento indicata etnia e religione del soggetto fermato
Ecco (a sinistra) una delle prime schedature di rom. Questa è stata fatta a Napoli. Nella riproduzione la copia di un documento di identità utilizzato per il censimento. Essere identificati in base alla etnia o alla religione è una cosa «sbagliata e discriminatoria» ha denunciato ieri Sant'Egidio, che ha mostrato la copia del censimento fatto a Napoli, a un cittadino serbo di etnia rom. Nel documento, su carta intestata del «Commissario delegato per l'emergenza insediamenti comunità nomadi nella regione Campania», dopo le generalità solite c'è anche la dicitura «religione» e l’etnia. Sotto la foto, le impronte digitali.

l'Unità 4.7.08
Una vergogna morale, un’idiozia giuridica
di Giancarlo Ferrero


La sola idea che si imponga a dei bambini la schedatura mediante impronte digitali provoca una reazione di disgusto interiore in chiunque non abbia completamente perso il senso dell’umanità. Non si tratta, infatti, di un’operazione psichicamente e socialmente indolore: nell’immaginario collettivo e nella coscienza dei cittadini l’impronta digitale è una macchia nera sull’immagine e l’onorabilità della persona, un segno visibile e permanente di biasimo per la cattiva condotta di chi è costretto a rilasciarla, una sorta di condanna per il reprobo, tanto è vero che le si prende all’ingresso nelle case di reclusione (nel nostro caso si prescinde persino da un provvedimento giurisdizionale). È' vero che in genere i bambini degli zingari sono abituati all’emarginazione sociale ed al disprezzo della gente per bene, ma forse non è il caso di infierire ulteriormente con operazioni fortemente diseducative. La circostanza poi che i destinatari appartengano ai “Rom”, cioè ad un gruppo ben determinato di individui con caratteristiche proprie che li distinguono e separano dagli altri, sempre specie umana, ma di razza diversa, lascia poco spazio alla qualificazione della manovra, dagli splendidi precedenti storici. Se poi questi bambini sono anche cittadini italiani, è bene apportare qualche ritocco all’art. 3 della Costituzione che pretende l’eguaglianza tra loro (ma la Costituzione è ormai ridotta dalla maggioranza politica ad un mero ruolo celebrativo, come la regina d’Inghilterra, anche se molto più povera). Per evitare noie ed accuse da parte di quella sottocategoria di intellettuali chiamati giuristi e sempre che Tramonti sia d’accordo (il costo sarebbe alto) l’operazione potrebbe essere estesa a tutti gli italiani, iniziando dai parlamentari, notoriamente affetti da scoordinamenti digitali (gentilmente ribattezzati pianisti).
Di certo la coraggiosa manovra (c’è sempre il rischio che qualche protervo bambino dia uno schiaffo allo schedatore) non va a beneficio dei bambini più diseredati che difficilmente recepiscono la cattura della fotografia del dito come primo passo verso l’integrazione con gli altri bambini perbene. Ovviamente non servono neppure ad aumentare la sicurezza della massa dei cittadini che possono passare l’intera loro vita senza imbattersi in un “Rom” (di sicuro in un numero inferiore ai candidati al prossimo concorso in magistratura)
Oltre alla vergogna che ci sta screditando agli occhi del mondo, l’operazione “macchia” (che impegnerà un po’ di uomini delle nostre forze dell’ordine) è giuridicamente inutile. Non solo è superata da altri strumenti di identificazione e può anche rivelarsi poco sicura nel futuro (la dolorosa alterazione dei polpastrelli non è una pratica sconosciuta), ma si pone in concorrenza con specifiche e più civili disposizioni normative. L’art. 671 del nostro stagionato e ritoccato codice penale esplicitamente prevede come reato «Chiunque si vale per mendicare, di una persona minore degli anni 14 ... ovvero permette che tale persona mendichi ... è punito con l’arresto ... La condanna comporta la sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori».
Se veramente si volessero proteggere i bambini più sfortunati e per giunta “Rom” sarebbe sufficiente una sorveglianza attiva da parte delle varie polizie e la conseguente individuazione degli sfruttatori. Oltretutto si ridurrebbe la gravissima piaga della violazione dell’obbligo scolastico, agevolando veramente l’integrazione che non si avrà mai senza un minimo di scolarizzazione. Le leggi, e non solo questa, ci sono, ma “chi pon mano ad elle?”. Non certo uno Stato che giorno per giorno si allontana dalla civiltà di una nazione moderna ed efficiente e che ignora o disattende le leggi scomode e non ha alcuna idea di come si organizzino gli uffici pubblici si impieghino in modo corretto ed umano le forze dell’ordine.

l'Unità 4.7.08
Il viaggio di Eugenio
di Sergio Zavoli


Anche il libro di Scalfari può contribuire al risveglio di cose lasciate andare

L’articolo dedicato da Walter Veltroni, su l’Unità, al libro di Eugenio Scalfari, «L’uomo che non credeva in Dio», ha dato un risalto nuovo all’attualità delle questioni non strettamente letterarie e filosofiche di cui si nutre la prova dello scrittore, ispirata a una “confessione” coraggiosa e complessa. Veltroni, che ha una particolare sensibilità per le pieghe psicologiche, morali e civili dei testi in cui alla modalità espressiva di segno linguistico si aggiunge una sorta di controcanto esistenziale e di filigrana interiore, è andato direttamente alla vera natura del volume, pensato secondo la maniera del ricordo e della coscienza, del percepito e del taciuto, fino a quando non dichiara, senza le soggezioni di prima, la consapevolezza dell’irrisolto e forse dell’irrisolvibile in una materia controversa, che non si esaurisce con risposte soltanto razionali o soltanto canoniche. Credo di conoscere, dopo averla colta anche nelle attitudini del padre, la vocazione di Veltroni per la drammatica dualità del fondere, ma anche del separare, la vecchia nozione e la nuova lettura del dilemma di fondo: la fides et ratio, cioè la presenza di Dio in sé, nel suo proprio arbitrio e dominio, e in noi, nella nostra facoltà di intenderlo e viverlo. A questa distinzione, sebbene per merito anche suo appaiano evidenti gli aspetti pretestuosi dell'inconciliabilità, Veltroni contrappone la problematicità e il realismo di chi designa nel futuro il nostro vero scopo: quello di spendersi sempre e comunque per il dopo, dove ci aspetta tutta la curiosità, l’amore e la sofferenza intrinsechi nell’esser nati per vivere, non solo per esistere, cioè per fare della nostra anche la vita altrui, e di questa la nostra stessa. Si può dunque capire come un libro che fin dalla sua premessa, cioè dal titolo, affronta innumerevoli percorsi di segno così personale e così pubblico possa creare tra due persone assai diverse una condivisione non solo metaforica del “viaggio” su questa terra, cioè procedendo, anziché solo per frammenti, secondo quanto ci tiene insieme, la vita, il cui senso “altro non è che viverla”. E che per Walter comincia - ecco l’esca struggente che il libro offre ai suoi ricordi - dalla più incolmata delle giovinezze: la scomparsa prematura del padre e la filialità dimezzata. Ricordo come Scalfari si era espresso, in un editoriale di limpida ispirazione laica, sull’immagine estrema, addirittura metafisica, della paternità, e fu quando vennero proposti - non saprei quanto introdotti e osservati - alcuni emendamenti, nientemeno, al Pater Noster. In quell’articolo, molto riguardoso del sentimento dei credenti, egli riconosceva la ragionevolezza e persino l’utilità di modificare talune espressioni della preghiera insegnata da Gesù. E rimasi colpito, ricordo che ne scrissi, dal suo consenso alla decisione dei vescovi di lasciarne intatto l’incipit, cioè le quattro parole che con quella premessa celeste, qui es in coelis, fondano il senso dell’adesione al cristianesimo, dopo tremila anni di storia mediterranea e occidentale, soprattutto nella parte scientificamente e tecnologicamente più evoluta del mondo. Scalfari, da uomo anche di filosofia, metteva mano a categorie riconducibili alla storia e alla metafisica, credo assumendo il principio secondo cui, liberi da ogni enfasi mistica, diventa retorico, e comunque inutile, chiedersi quale sarà il destino dell’uomo, essendo l’uomo stesso il proprio destino. Ed ecco che le domande, sciolte dall’intoccabilità delle “quattro parole”, dovute al mistero della fede, venivano a toccare questioni concrete del pensare, del sentire e dell’agire d’oggi. Un esempio: se al progredire della scienza fa riscontro il disincanto, o la delusione, o addirittura la perdita di Dio, dovremmo dedurne che la prima tentazione cui siamo indotti è di credere soltanto in qualcosa di visibile, desunto dal nostro sempre più temerario contestare il ruolo del Padre? Oppure in una religione invisibile, nascosta da un creatore geloso, pronto a lasciarsi negare piuttosto che essere discusso? Ma c’è anche chi pensa di poter porre altrimenti, cioè radicalmente, il dilemma: domandandosi se le proprie sconfitte non siano anche la sconfitta di Dio. D’altronde, se Dio si è fatto uomo e nulla, o ben poco, è cambiato nell’indole e nella storia dell’umanità, il fallimento non è anche suo? E se la ragione non riuscisse a fare il gran salto, quale significato assumerebbe, in rapporto a Dio, tutta la grandiosità e tutto l’orrore messi insieme dalle cinquantamila generazioni che ci dividono dal primo homo sapiens? Vivere, propone qualcuno, come se Dio non ci fosse: ma non centuplicheremmo le nostre responsabilità morali, ha detto Dietrich Bonhoeffer, il pastore e teologo protestante impiccato nel campo nazista di Flossenburg, ricordandoci che Cristo aveva affrontato il mondo, e ne era morto, per salvarlo? E poi, perché cercare pretesti nelle difficoltà che questa materia ancora ci pone proprio in tempi nei quali scienza e umanesimo hanno ogni giorno un motivo in più per confrontarsi e cercare un’intesa? L’odierno dibattito sull’etica, fondato sulla domanda se tutto ciò che è possibile è sempre anche lecito, non postula forse questa attesa di credenti e non credenti: che dopo gli oscurantismi, in cui per paradosso è il Dio nascosto a primeggiare, si faccia largo la nuova alleanza tra una fede e una ragione illuminate proprio dalla modernità? La fede, che ci prolunga dopo la morte, può portarci dove la scienza non può? Oppure sarà negli alambicchi, o sotto la lente di un microscopio, la spiegazione di tutto?
A volte penso, da cronista, che molte risposte non siano venute - e non solo quelle alte, perpendicolari - perché non erano state fatte le domande. Il libro di Scalfari, anche in questo senso, interpreta una crescente esigenza di attenzione a tali problemi. Lo scenario in cui Veltroni li colloca gli fa dire con Roland Barthes - facendo il verso, parrebbe, alla realtà di questi stessi giorni - che «la fotografia è rivoluzionaria non quando spaventa, sconvolge o anche solo stigmatizza, ma quando è pensosa»! Cioè quando la realtà “pensa la vita”, per cambiarla. Veltroni non inclina a credere alle conclusioni dogmatiche, e forse non rifiuta del tutto la convinzione di Scalfari secondo cui «la verità assoluta non esiste e quella soggettiva, e relativa, dipende dal punto di vista con cui guardi te stesso e il mondo»; in ogni caso sa che «non c’è un’alternativa alla vita», che tutto è sempre davanti, dove abita, laicamente, il destino dell’uomo. Dove ci giochiamo tutto, per chi crede anche il dopo.
Su questi temi, in un dialogo che presuppone un progetto anche civile, Scalfari e Veltroni si scambiano una vocazione che gli scettici considerano poco politica: l’ottimismo. Mentre, proprio quando la politica sembra non avere più la forza di credere in ciò che si può fare, e perciò stesso va fatto, occorre ricondurre pensieri e azioni all’incontro, sí, dei “frammenti”, ma prima ancora degli archetipi, cioè dei valori su cui convenire, e impegnarsi, esplicitando la necessità di opporsi alla tentazione degli egoismi e delle negazioni meramente opportunistici. Occorrerebbe invece essere tutti persuasi che, al di là di ogni eccesso di semplificazione, ci intenderemmo meglio, credenti, agnostici e non credenti, se alla cultura ideologica cominciassimo a opporre la cultura dell'etica, la quale non ha né potrebbe usare linguaggi teorici o teologici per difendere una subdola visione strumentale delle rispettive identità.
Se è vero che questa modernità pone sempre più il problema del consenso interiore a ciò che l’intelligenza è in grado di sprigionare, dovremmo collocare il dibattito in un terreno aperto alla sensibilità di ognuno e quindi di tutti, guidati dall'idea che l'uomo non è qui per rifare l’uomo - un progetto a cui credo non penserebbe neppure Dio - ma perché l’uomo non sia o non diventi meno di un uomo.
Non si tratta di consegnarci a una sorta di estasi della storia, né andrebbe intesa come un privilegio laico una cultura che inseguisse il mito euforico della sola ragione: sono molte le osservazioni di Veltroni, e talune coincidono con «L’uomo che non credeva in Dio» collegandosi a un momento cruciale della sua stessa, personale, complessità. Non gli è nuovo, al pari di tanti altri, il doverla affrontare: seppe presto che Mosca non sarebbe più stata la Gerusalemme del proletariato, - «... perché il cielo e la terra di prima sono scomparsi...», si legge nell’Apocalisse di Giovanni - e oggi ha sufficiente realismo per capire che a Pechino, a Tokio, a Delhi, cioè nell’Oriente estremo, sta nascendo il credo, questa volta economicistico e finanziario, del riscatto globale. Finito, insomma, il tempo di un mito, stiamo vivendone un altro: votato, sebbene premano immani problemi, a una astratta conquista della felicità - con il richiamo d'obbligo all’atto fondativo degli Stati Uniti d’America - pur sapendo che dall’Occidente non possiamo più attenderci, oggi, annunci di palingenesi. Non a caso si vive con la sensazione di progredire camminando su qualcosa d’irreale, comunque di fragile, di minato. E a parer mio non è affatto singolare che anche questo libro e la recensione da cui ho preso le mosse - apparentemente estranei alle durezze della realtà - possano contribuire al risveglio di qualcosa di lasciato andare e persino di perduto; presupposto dei desideri e delle speranze da collocare dentro la più incontestabile e coinvolgente delle identità: la nostra vita. Un filosofo di questo tempo, Ernst Bloch, ha detto: «La ragione non può fiorire senza la speranza, la speranza non può parlare senza la ragione». Teniamolo a mente, per il giorno già annunciato in cui ci rimetteremo in “viaggio”.

Corriere Fiorentino 4.7.03
Parla Paul Ginsborg alla vigilia della due giorni che prende il via oggi in Palazzo Vecchio
«Sinistra unita, ma senza rompere col Pd»
di M.F.


Di nuovo a Firenze, dove si era incontrata subito dopo il tracollo elettorale, la sinistra cerca di ritrovare se stessa. Due giorni di incontri e seminari , dal pomeriggio di oggi a Palazzo Vecchio, promosso dall'associazione per la Sinistra unita e plurale, di cui fa parte il professor Paul Ginsborg, «agitatore» dei movimenti. «Vogliamo ripensare i modi e le forme delle politica, dopo la batosta elettorale. Ci possono esser forme di democrazia partecipata, avanzata che possono sostenere la democrazia rappresentativa? Qual è l'azione riformista nel 2008. Ci sono riforme che aiutano a alimentare la partecipazione e l'attività della cittadinanza: le "rolling reform", che come una palla di neve, accumulano in sè la partecipazione della cittadinanza, non come scende dall'alto».
Ma, dopo il pessimo risulatto elettorale dell'aprile scorso, c'è ancora vita a sinistra?
«Il 19 aprile, subito dopo i risultati elettorali, abbiamo visto al Palacongressi tante persone partecipare per capire gli errori e guardare al futuro. Non solo a livello fiorentino, ma anche nazionale. Il seminario di oggi e domani è indirizzato a quelle persone, che credono nelle necessità di una sinistra su base moderne. Sindacalisti, attivisti della società civile. anche nei partiti Appunto, i partiti. I 4 ex Sinistra arcobaleno, stanno commettendo gli stessi errori che li hanno portati fuori dal Parlamento?
«Penso che la loro reazione alla sconfitta elettorale è stata sbagliata. Profondamente. Penso che manca in Italia una sinistra rinnovata e riunificata presente in parlamento, una sinistra sinistra. Per me sarebe stato molto importante proseguire con tutta la nostra forza nella strada dell'aggregazione e dell'unità. Proprio per la necessità di avere delle voci a livello istituzionali. Non solo mettere insieme 4 sigle, ma un rinnovamento e discussione per l'aggregazione. Invece i partiti sono andati nella frammentazione ulteriore».
E il Pd? Rottura definitiva?
«La strategia di Veltroni di andare da solo è stata un errore: in realtà significava andare senza la sinistra, perché poi con Di Pietro ci è andato. Ora tutti si rendono conto che è stato sbagliato: in questa situazione di emergenza democratica è molto importante cercare le basi di azioni che uniscano il Pd con la sinistra. Non perché penso che la sinistra sia incapace di rientrare in parlamento: ma perché dobbiamo trovare accordi sui contenuti, lavorare assieme. Senza pregiudizi. Non solo contro Berlusconi».

Repubblica 4.7.08
Picco all´inizio di settimana per il contraccettivo d´emergenza
Boom tra le ragazzine della "pillola del lunedì"
di Laura Pertici


Ogni giorno in Italia cinquecento giovanissime fanno uso del contraccettivo d´emergenza. Con un picco all´inizio della settimana perché nel weekend i rapporti sessuali sono più frequenti

Una ricerca dell´Aied rivela: le figlie sono più informate delle madri
I ginecologi: per le giovani non sostituisce gli anticoncezionali, per le over40 sì

È la pillola del lunedì. È la pillola delle ragazzine. Ogni ventiquattr´ore cinquecento giovanissime mandano giù una pasticca per paura di rimanere incinta. Ma è soprattutto dopo il fine settimana che la cercano, quella pillola. Le richieste schizzano ogni lunedì. In Italia è boom della contraccezione d´emergenza, si sta diffondendo soprattutto tra quante hanno tra i 14 e i 20 anni. Sono le adolescenti le più informate, coloro che consumano la metà delle confezioni vendute di Norlevo e Levonelle, ovvero i due marchi che nel nostro Paese rappresentano il farmaco con prescrizione obbligatoria arrivato nel novembre del 2000. Da allora si è sempre registrato un aumento di richieste. Ma nel 2007 c´è stato il salto: 370mila confezioni (anche se la stima si spinge oltre le 400mila) distribuite in farmacia, 53mila in più del 2006. È stato doppiato l´aumento medio di tutti gli altri anni. I dati sono della Sigo, la Società italiana di ginecologia ed ostetricia. È allarme rosso? Affacciandosi sull´Europa sembrerebbe di no. Nella cattolica quanto moderna Spagna di pillole se ne vendono 600mila. In Francia oltre un milione. In Gran Bretagna due milioni. Ma qui da noi il levonorgestrel, il principio attivo della pillola del giorno dopo, è comunque affare che riguarda un´adolescente su dieci. Meglio approfondire.
L´Aied, l´Associazione italiana per l´educazione demografica, ha messo a confronto la conoscenza di donne di tutte le età per capire il fenomeno contraccezione d´emergenza. «Abbiamo realizzato questo lavoro nella primavera del 2007 - spiega Luigi Laratta, presidente dell´Aied - ma avevamo il timore che fotografasse solo una parte della popolazione femminile, perché ai nostri centri si rivolgono in prevalenza donne del ceto medio-alto». Chiedendo però alle giovanissime, parlando con le ginecologhe nei consultori delle Asl e con i medici che nei week end presidiano i pronto soccorso (uniche strutture cui ci si può rivolgere per avere una ricetta nel fine settimana), si riceve lo stesso tipo di risposte contabilizzate nel sondaggio Aied (l´inchiesta video si trova sul sito tv. repubblica. it).
Così si constata che le ragazzine non si sorprendono. Sono quasi spavalde. «Io l´ho presa - confessa una quindicenne - mi ha accompagnata in consultorio mia sorella. I miei non lo sanno, figurati». «Ho chiesto la ricetta al medico di mia madre - dice una ragazza di 17 anni - È stato imbarazzante, ma si era rotto il preservativo, che dovevo fare?». «A me non è mai servita - afferma una sua coetanea - la prima volta ne ho sentito parlare alle medie». Quindi le figlie sono molto più informate delle madri sui luoghi deputati all´assistenza, in caso di rapporto a rischio. Sanno benissimo che la pillola del giorno dopo va presa entro 72 ore e preferibilmente nelle prime dodici. I genitori sono quasi sempre all´oscuro dell´attività sessuale che le riguarda. Mamma e papà neanche immaginano del ricorso al Norlevo.
Frammenti di vita reale che si specchiano nei numeri dell´Aied: il 93 per cento delle ragazze tra i 15 ed i 19 anni (contro il 90 per cento delle over 40) conosce le finalità della pillola: evitare una fecondazione in seguito a un rapporto sessuale considerato non protetto. Otto ragazzine su dieci (il doppio delle ultraquarantenni) sanno che in caso di bisogno possono rivolgersi a un consultorio. Le signore mature sono ben più legate all´idea del medico di famiglia, tanto che solo 1,5 adulte (tre su dieci tra le adolescenti) pensa all´ospedale. Nove teenager su dieci sono coscienti che la pillola del giorno dopo vada assunta entro tre giorni, mentre lo ricordano sette donne adulte su dieci. Eppure, quando serve, sono le over 40 le più tempestive: il 78 per cento delle adulte contro il 56 per cento delle giovani ingoia il Norlevo nelle prime 24 ore.
Se ne deduce che il levonorgestrel viene utilizzato dalle ragazze con eccessiva leggerezza? «Direi proprio di no - afferma Daniela Fantini, ginecologa che da trent´anni lavora sia nella Asl Provincia Milano sia nel consultorio privato e laico Cemp - io intervengo quasi sempre dopo la rottura di un preservativo, soprattutto il lunedì mattina, visto che i rapporti si fanno più frequenti nel week end. E che le giovani non mentano lo dimostra il fatto che devo estrarre loro dei pezzetti di condom». Eppure la Sigo all´inizio di giugno denunciava: la pillola del giorno dopo sta diventando l´unica forma di contraccezione usata dalle giovani. Come dire niente condom, niente spirale, niente pillola contraccettiva, niente cerotto, ormai le ragazze trasformano in emergenza anche la routine. «Dalle mie visite non risulta - osserva la ginecologa del centro adolescenti Aied di Roma, Paola Piattella - le ragazze, pure le giovanissime, in prevalenza chiedono aiuto se c´è stato un incidente». «Casomai sono le signore ad usare il Norlevo come contraccettivo - aggiunge Daniela Fantini - quando hanno rapporti sessuali tanto saltuari da non voler far ricorso ad altri metodi». C´è da chiedersi se l´assunzione di levonorgestrel sia pericolosa, quando frequente. «Prendere la pillola del giorno dopo anche ogni due mesi non comporta conseguenze serie - puntualizza Paola Piattella - Ma questa è un´informazione che alle adolescenti va data con parsimonia, perché è bene che mantengano il timore nei confronti di un farmaco di emergenza. Meglio investire sull´incontro in consultorio. E su una contraccezione regolare».

Repubblica 4.7.08
Rifondazione, bagarre sul congresso e Vendola annuncia disobbedienza


ROMA - La rottura definitiva dentro Rifondazione sembra ormai questione di ore. Perché le mozioni di Paolo Ferrero e Nichi Vendola si giocano la leadership sul filo del rasoio e proprio ieri è stato annullata la votazione del circolo di Reggio Calabria che vale quasi l´1% del totale. In Calabria avrebbe vinto Vendola, ma la commissione regolamento ha cancellato il risultato. Ora il governatore pugliese annuncia una «campagna di disobbedienza» contro la decisione. Tradotto: porterò comunque al congresso nazionale (24-27 luglio) i delegati di Reggio. Il rischio è che alle assise si arrivi con due platee contrapposte. E che una scissione diventi più probabile.

Repubblica 4.7.08
Il Papa leggerà la Bibbia in tv, il via a ottobre


ROMA - Benedetto XVI aprirà la straordinaria maratona biblica che per sette giorni e sei notti sarà dedicata alla lettura completa dell´Antico e del Nuovo Testamento nella suggestiva basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Dal 5 all´11 ottobre si alterneranno al leggio milleduecento persone fra operai, studenti, scolari, agenti, sportivi, politici, militari.
Cattolici, protestanti, ortodossi ed ebrei. Chiuderà il segretario di Stato Bertone con la lettura dell´Apocalisse. Ogni novanta minuti ci sarà un intermezzo musicale. Gli interventi del Papa e di Bertone andranno in onda su Raiuno. L´intero progetto, nato su iniziativa della strutturai Rai Vaticano, diretta da Giuseppe De Carli, e intitolato "La Bibbia, giorno e notte" sarà trasmesso nello spazio gestito da Rai Educational sul satellite. Il primo libro della Genesi sarà declamato in italiano da Benedetto XVI e poi in ebraico dal rabbino capo di Roma, Di Segni. L´inizio del vangelo di Giovanni sarà letto in greco. A convincere Ratzinger - spiega il ministro della Cultura vaticano mons. Ravasi - è stata la suggestione di un «puro annuncio della Parola». Non si sa ancora se il pontefice verrà o sarà trasmessa una registrazione.
Protestano per l´iniziativa gli atei dell´Uaar, precisando che «le altre confessioni non hanno spazi simili nelle reti di stato italiane, per non parlare degli atei». Gli evangelici ricordano, invece, che il progetto si fonda anche sulla collaborazione della Società Biblica Italiana.
(m. pol.)

Corriere della Sera 4.7.03
Contro il ministro Facci («Vada via») e il dipietrista Donadi
Carfagna sotto attacco Ma la solidarietà è bipartisan
Armeni e Gagliardi: nel mirino perché donna. Carra: fango giustizialista
Santanché: «Se una cretina arriva in un posto importante c'è vera parità. Non dico che la Carfagna sia cretina ma se lei è inadeguata lo sono anche tanti ministri uomini»
di Lorenzo Salvia


ROMA — «Mara Rosaria Carfagna dovrebbe dimettersi perché tutto sommato è un danno per il governo cui appartiene». D'accordo, le pagine sono quelle del Riformista,
quotidiano di sinistra anche se mai ortodosso. Ma a scrivere è Filippo Facci, che di sinistra certo non è. Firma del Giornale,
volto di Mediaset, autore della rubrica che sul quotidiano di Antonio Polito prende significativamente il nome di «Destri ». Fuoco amico. Sostiene Facci che le intercettazioni non c'entrano, ma che il ministro per le Pari opportunità rappresenta il «punto di non ritorno per un elettorato cui puoi propinare quasi tutto ma non tutto. Ha cominciato a fare politica nel 2006 e a metà del 2008 è diventata ministro: è troppo, punto». Via dal governo non per quelle telefonate che si addensano sul Palazzo ma perché inadeguata. Nello stesso giorno c'è anche il fuoco nemico. Arriva dal partito di Di Pietro con la firma di Massimo Donadi: «Se Bill Clinton avesse fatto Monica Lewinsky ministro la vicenda sarebbe diventata di rilevanza politica oppure no?». Non fa il nome della Carfagna, la donna che Berlusconi avrebbe voluto sposare, parole sue, se non ci fosse stata già Veronica. Ma di cosa parla si capisce benissimo. E a chiarire il tutto ci pensa Antonio Di Pietro in persona: «Sarebbe immorale se il presidente del Consiglio avesse nominato ministro una persona per ragioni diverse da quelle politiche». E aggiunge «il gossip politico fa male anche agli interessati, ma soprattutto ai coniugi degli interessati». Mara Carfagna è a Napoli e non risponde: «Non mi occupo di intercettazioni, di gossip, di stupidaggini. Non fanno parte della delega del mio ministero ». Ma incassa la solidarietà di molte donne, anche a sinistra.
Alessandra Mussolini se la ride: «Ricordo più di un ministro per le Pari opportunità che scippava i disegni di legge a noi parlamentari. Noi studiavamo, e quelle si pigliavano gli applausi. Mara no. Ci ascolta, è umile. E poi fare il ministro è come fare la mamma: all'inizio non sai fare nulla, ma giorno dopo giorno impari». A colpire la Mussolini è stata una riunione che pochi giorni fa il ministro ha fatto alla Camera con tutte le parlamentari del Popolo della Libertà. «Ci ha illustrato — racconta Margherita Boniver — un eccellente progetto contro la prostituzione che, ispirato al modello britannico, vieta l'adescamento in luogo pubblico. Intelligente, equilibrata. Attenta ai suggerimenti e senza la falsa forza di chi vuole imporre la propria opinione».
Certo, è anche solidarietà di parte. Verso una collega di partito e, di riflesso, verso il grande capo. Ma pure attraversando il fossato che un tempo divideva destra e sinistra c'è chi la Carfagna la difende. «Il paragone con la Lewinsky è una volgarità gratuita» dice la giornalista Ritanna Armeni che pure del ministro non ha condiviso tante cose, a partire dall'esternazioni sui gay. «E chiederne le dimissioni perché non ha esperienza — aggiunge — significa essere davvero strabici. Se andiamo a guardare gli ultimi governi non ricordo presidi al ministero dell'Istruzione, professori alla Giustizia o espertoni vari alla Difesa». Alla fine la storia è sempre quella: «Prendersela con le donne è sempre facile». Condivide e sottoscrive Rina Gagliardi, ex parlamentare di Rifondazione: «Non ho alcuna ragione specifica per esprimere la mia solidarietà a questa signora ma sono sempre un po' sospettosa quando si attacca una donna. Non è adeguata al ruolo? Probabile. Ma perché, il ministro della Giustizia, che si occupa peraltro di cose un tantino più importanti, non è ornamentale anche lui?». Non sparate sulle donne. La scrittrice Lidia Ravera la pensa diversamente: «È un bersaglio fin troppo facile. La stellina tv diventa ministro perché cara al presidente, uno stereotipo, un po' mi fa pena poverina». Ma la sua è solo una premessa: «Va bene svecchiare la classe politica. Ma farlo cooptando le amiche e i figli degli amici è un insulto alle istituzioni».
La leghista Carolina Lussana invita ad aspettare: «Non conta da dove si viene, conta quello che si fa. Ed è ancora troppo presto per giudicare il lavoro della Carfagna. Lasciamola in pace e, per favore, evitiamo scivoloni come quel paragone sulla Lewinsky: è la dimostrazione che quando si arriva in un posto importante la tentazione della battuta facile e del pregiudizio non muoiono mai». Chiara Moroni, invece, se la prende con Facci, che è pure amico suo: «Liberissimo di pensare che un ministro non sia adeguato. Ma che per questo il ministro medesimo si debba dimettere, beh, mi sembra davvero che abbia una considerazione troppo elevata del proprio ruolo. Mara è brava e alla lunga tutti lo capiranno». Daniela Santanché, come capita spesso, sceglie la provocazione: «Quando una cretina arriva in un posto importante vuol dire che c'è vera parità. Non dico che la Carfagna sia cretina ma se lei è inadeguata lo sono anche tanti ministri uomini, presenti e passati. Solo che di loro nessuno dice niente. È il solito tiro al piccione contro le donne». Ecco, e gli uomini che ne pensano? «Tutti i ministri di questo governo — dice il giornalista Marco Travaglio — sono scelti con lo stesso criterio, il totale servilismo verso il capo. Sono fotocopiatrici e almeno lei è una fotocopiatrice carina. O si dimette in blocco il governo oppure viva la Carfagna». Antonio Martusciello, di Forza Italia e campano come la ministra, torna alle origini del partito: «Siamo nati proprio per portare nel Palazzo chi non aveva a che fare con le vecchie liturgie della politica. Perché questo deve essere un difetto solo per lei?». Anche Enzo Carra torna indietro con la memoria. A quando lui, all'epoca portavoce della Dc, fu portato in manette in tribunale: «Poveretta, qua si mesta nel fango. E questo è giustizialismo. Anzi, se permettete, manettismo».

Il Mattino 4.7.08
La battaglia degli eroi anonimi
di Aurelio Lepre


«MOSCA 1941». Tra l’estate e l’autunno i nazisti conquistavano ampie zone dell’Urss ma la resistenza delle grandi città rappresentò il primo forte contributo alla caduta e alla sconfitta di Hitler
L’ANALISI STORICA. Braithwaite esamina le ragioni che portarono a questo risultato e il ruolo ricoperto da Stalin Soprattutto risalta l’immagine di un conflitto visto dalla trincea

La seconda guerra mondiale è stata un avvenimento centrale nella storia del XX secolo e ancora oggi ne risentiamo, per molti aspetti, le conseguenze. Finora essa è stata rivissuta nel ricordo, ma la generazione che l’ha conosciuta si va sempre più assottigliando e presto anche questa forma di conoscenza finirà. Si tratta di una forma molto ingannevole, forse non quanto lo sono le ricostruzioni storiche dovute a motivazioni ideologiche e politiche a cui assistiamo spesso. Nell’ambito di una condanna del nazismo e del fascismo diventata ormai generale, è sempre più alto il numero di chi, per ragioni politiche, sottovaluta il ruolo avuto dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. Anche per questo motivo bisogna accogliere con favore la traduzione di un’opera come Mosca 1941 di Rodric Braithwaite (Mondadori, pagg. 394, euro 22), che studia una delle battaglie decisive per le sorti della seconda guerra mondiale. Nell’estate e nell’autunno del 1941 i tedeschi conquistarono vastissime regioni europee dell’Unione Sovietica. Le loro truppe assediarono Leningrado, mentre i loro carri armati arrivavano alla periferia di Mosca. La resistenza delle due città fu il primo, fondamentale contributo che i sovietici diedero alla sconfitta di Hitler. Senza la coatta, ma non per questo meno decisiva, alleanza tra Urss, Gran Bretagna e Stati Uniti, è probabile che la Germania nazista avrebbe vinto la guerra o, quanto meno, che essa sarebbe durata molto più a lungo e con esiti imprevedibili. Per questo, se si vuol parlare del secondo conflitto mondiale, occorre farlo tenendo conto di tutti i fatti - come, appunto, la battaglia di Mosca -, anche se essi danno un’immagine oggi poco gradita a questa o a quella parte politica. Senza peraltro enfatizzarli o trascurandone gli aspetti più oscuri. In Mosca 1941 appaiono evidenti sia le colpe di Stalin, nell’impreparazione ad affrontare la guerra con Hitler, che era stato considerato meno pericoloso dell’«imperialismo borghese» nel periodo precedente l’invasione, sia la sua capacità di reagire dopo il crollo psicologico alla notizia che le truppe tedesche, considerate se non proprio amiche almeno non ostili, avevano cominciato ad attraversare le frontiere dell’Urss. Non si tratta, beninteso, nemmeno per questo aspetto, di una rivalutazione del dittatore e del comunismo, ma solo della ricostruzione di ciò che realmente avvenne, del significato e del peso che ebbe allora. Braithwaite si serve sia della documentazione d’archivio (e anche di quella più recente), sia delle testimonianze degli uomini che furono protagonisti di quegli avvenimenti. Ne viene fuori l’immagine molto viva di una guerra vista con gli occhi di coloro che combatterono o ne subirono gli effetti, delle loro vicende quotidiane, dei piccoli, sconosciuti eroismi e delle piccole vigliaccherie. Sullo sfondo però di una società in cui la miscela di un antico nazionalismo (che poteva richiamarsi alla lotta contro Napoleone) e della più recente ideologia comunista, in cui il patriottismo assumeva la nuova veste della resistenza popolare all’attacco «imperialista», creava condizioni di guerra diverse da quelle conosciute da altri paesi europei. Anche nell’Unione Sovietica il ricordo della guerra e della battaglia di Mosca, sebbene i governanti facessero il possibile per tenerlo vivo, andò lentamente svanendo. Nella Russia odierna resta, nei sopravvissuti, nostalgia per giorni che appaiono nella memoria ancora più eroici di quello che furono in realtà. Una di loro ha detto: «Credevamo tutti nella vittoria, credevamo l’uno nell’altro, non sentimmo quell’amarezza e ahimé quella solitudine che si prova oggi». La lettura dell’opera di Braithwaite mostra che amarezza e solitudine ci furono anche allora. Ma questo è uno dei principali problemi che devono essere affrontati dagli storici della seconda guerra mondiale. Se ci si affida troppo alla memoria, si corre il rischio della mitizzazione, positiva o negativa. Se si ricorre solo ai documenti, c’è il pericolo di tenere sullo sfondo quelli che la subirono nella loro carne. Anche i ricordi dei sopravvissuti di Mosca, non sempre coincidenti con ciò che dice la documentazione scritta, ne sono una prova.