sabato 23 dicembre 2006

il Riformista sabato 23 dicembre 2006
Heidegger proto-sessantottino, l'ultima trovata di Nolte
di Livia Profeti

Ernst Nolte, una delle figure più emblematiche del revisionismo storico, è stato protagonista il 14 dicembre scorso a Bologna del convegno «Martin Heidegger trent'anni dopo», organizzato dall'Università in collaborazione con il Centro italo-tedesco di Villa Vigoni e l'Associazione italiana studiosi di Estetica.
Allievo di Heidegger ed intimo della sua famiglia, Nolte ha elaborato il nucleo della sua posizione revisionista sin dal 1963, con il maestro ancora in vita. Ne I tre volti del fascismo, com'è noto, i crimini del nazionalsocialismo vengono inquadrati nell'ambito di una reazione “legittima”, sebbene forse esagerata, all'esistenza della Russia staliniana e più in generale all'“aggressione” dell'utopia del comunismo. Successivamente, in risposta alle rivelazioni di Farias e Ott sul periodo nazionalsocialista di Heidegger, Nolte scrive nel '92 una biografia autorizzata dal figlio di questi, Hermann, nella quale giustifica e approva tale coinvolgimento nei termini di un “diritto storico”, concetto che verrà esplicitato sei anni dopo ne L'esistenza storica. Emmanuel Faye rileva che in questo testo Nolte, definendo l'unicità della Shoah un “dogma” della sinistra, mira a trasformare l'Olocausto da verità storica in partito ideologico preso, quasi religioso (Religionsersatz) arrivando, con il concetto di diritto storico, a giustificare l'ingiustificabile: lo sterminio degli ebrei non è stato un orrendo crimine contro l'umanità bensì, in cupi e fumosi termini, la battaglia politica guarda caso «finale», che tale «esistenza storica» si è trovata costretta a combattere perché «minacciata» (E. Faye, Heidegger, l'introduction du nazisme dans la philosophie, in corso di traduzione in Italia). In questa collaudata strategia per riabilitare il nazismo e difendere il maestro, l'intervento di Bologna, dal titolo «Quotidianità e il quotidiano nel pensiero e nella vita di Martin Heidegger», ha presentato alcune sbalorditive novità ed un notevole passo in avanti in senso revisionista.
È noto, ha dichiarato Nolte, che nella filosofia esistenziale heideggeriana la vita autentica non è quella della quotidianità e dei rapporti tra le persone ma quella del «solitario precorrimento verso la morte», però non è detto che su questi temi Essere e tempo abbia esaurito tutti gli argomenti. Sicuramente non ha affrontato quelli della sessualità, che invece può riservare la possibilità di esperienze “autentiche” come nel caso della storia tra Heidegger e la Arendt. È infatti proprio nella vita privata del filosofo che Nolte cercherà numi per “migliorare” Essere e tempo affrontando, dopo la sessualità, il tema dell'azione politica e quindi dell'adesione di Heidegger al nazionalsocialismo. Su questo fronte Bologna non riserva grandi novità rispetto alle tesi collaudate, salvo lasciare nell'ascoltatore una vaga immagine di Heidegger affetto da mania di persecuzione quando viene citata una lettera del '50 dove il filosofo dichiara, a proposito di Stalin: «non mi lascio ingannare sul fatto che io e il mio pensiero siamo tra i più minacciati, quelli che vengono eliminati per primi». Interessante in questo senso la tesi di Denis Trierweiler il quale, oltre a notare che per Nolte la volontà di annientamento del nazismo non è stata altro che la risultante del terrore di subirlo, scorge sotto questo schema reattivo un'idea ossessiva di autodistruzione
Tornando a Bologna, dopo la parentesi politica Nolte passa a magnificare la vita familiare di Heidegger, a suo parere ben diversa dalla sua apparenza borghese. La moglie Elfride viene infatti definita «un'attiva femminista e riformatrice degli stili di vita (Lebensreformerin)», senza mancare al contempo di sottolineare che ella «poi divenne un altrettanto convinta nazionalsocialista». Quindi vengono ricordate le tante altre relazioni extraconiugali di Heidegger avute dopo la fine della guerra, delle quali Elfride era al corrente. Per finire poi con la “rivelazione” del 2005, quando è divenuto noto che Heidegger non era il vero padre del figlio Hermann, frutto in realtà di un tradimento di lei. Tutto ciò per arrivare ad appellare i due come «pionieri della “rivoluzione sessuale”», favorevoli alla «liberazione di tutte le inclinazioni», veri e propri sessantottini ante litteram.
Una sorta di prolusione allo sbalorditivo finale nel quale Nolte esprime il desiderio che in futuro possa essere scritto un “analogo” di Essere e tempo nel quale il matrimonio di Heidegger, il suo coinvolgimento nel nazionalsocialismo, nonché i suoi “festivi” rapporti erotici, non vengano più relegati «nell'ambito del non filosofico». Tradotto in termini più espliciti Nolte è passato dal difendere il nazionalsocialismo di Heidegger al proporlo, assieme al resto della sua vita privata, addirittura come filosoficamente esemplare!
Il salto di Nolte era stato quasi prefigurato nel recente libro di Franco Volpi insieme ad Antonio Gnoli: L'ultimo sciamano. Conversazioni su Heidegger. In questo testo, infatti, gli autori assumono una posizione inversa a quella sostenuta in passato, con la quale minimizzavano il nazismo del filosofo sostenendo che i fatti personali dovevano essere separati dal pensiero. Al contrario, ne L'ultimo sciamano - che è stato anche il titolo della relazione di Volpi allo stesso convegno di Bologna - ad essere centrale non è la filosofia di Heidegger ma la sua dimensione umana che, come il titolo metaforicamente suggerisce, viene proposta come “terapeutica”. Ma se la vita personale di Heidegger diventa “filosofica” essa stessa e quindi non è più separata dalla sua filosofia, allora come è possibile escludere che anche quest'ultimo non sia “coinvolto” con il nazismo e proporlo come “insegnamento” per il pensiero?
Quale che sia la risposta a questa domanda, la particolare sintonia tra Volpi e Nolte si è manifestata nell'appendice pirotecnica a questo già stupefacente finale. Nella sessione delle domande, Volpi, riallacciandosi alla proposta finale di Nolte, è intervenuto per suggerire il titolo di questo fantomatico nuovo libro: Critica della ragione erotica e Nolte, per nulla scandalizzato, ha rilanciato affermando di preferire Elogio della sragione erotica (Lob der erotischen Unvernunft), specificandone il senso di riabilitazione di tale “irragionevolezza”.
Dunque, nel finale della giornata bolognese si rivela che questa apologia di un nazismo sessantottino, “gioioso” e “libero” si lega alla proposizione di un certo tipo di “irrazionale”. Particolarmente infida, perché il '68 si ribellò all'identità della ragione senza riuscire a trovare una nuova identità nella non ragione: libertà senza identità. Ora invece Nolte e seguaci, cogliendo l'eredità di Heidegger, cercano di proporre un'identità per questa libertà: l'identità nazista dell'onnipotenza che pretende di distruggere il “male”: ebrei, comunisti, zingari, omosessuali, malati di mente.

il Riformista sabato 23 dicembre 2006
TESTIMONIANZA Ho versato il sangue per votare quattro sì
di Piergiorgio Welby


Ho versato il sangue per la Repubblica! Non è stata, lo devo ammettere, quell'effusione sanguinis tanto cara a qualcuno; è stata una sbucciatura alla tibia con effusione di poco sangue, ma la Repubblica, nella persona del ministro Pisanu, per me, non ha effuso nemmeno l'inchiostro di una Biro usa & getta.
E sì, che, insieme all'associazione Luca Coscioni, avevo chiesto, per tempo, al ministro di rendere possibile l'esercizio del diritto di voto per quei 100.000 disabili gravi che non possono spostarsi se non a rischio di molte sofferenze o della stessa vita (in Ucraina per i disabili gravi erano stati istituiti dei seggi volanti…Evidentemente in Ucraina c'è una democrazia matura e in Italia c'è una democrazia troppo…matura!). Il ministro non ha risposto, forse era occupato a lavarsi le mani, o a fare la doccia. A dire il vero, la vita del ministro è troppo differente da quella di un disabile grave perché io possa immaginare come passi la giornata. Non molto tempo fa, con una lettera al Foglio, avevo chiesto, sempre come membro dell'associazione Luca Coscioni, a Ferrara e a Socci di scrivere almeno un articoletto sul diritto dei disabili gravi a leggere le novità editoriali in formato digitale. Non conosco come trascorra la giornata il ministro, ma credo di non essere lontano dal vero, se immagino che Socci passi la giornata a intervistare chi ha visto la Madonna e Ferrara a dilettarsi con gli orgasmi plurimi che gli procurano i discorsi di Rutelli. Perché dico questo? Perché né Socci, né Ferrara mi hanno risposto. Lo so lo so, in questi casi c'è sempre qualcuno che ti dice: non chiederti cosa gli altri possono fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per gli altri.
Ero uscito dal coma da tre giorni, non sapevo se ci sarei rientrato per sempre, quando si avvicina al mio letto il professor Arcangeli, primario del reparto di rianimazione del Santo Spirito e mi dice: «Il dottor Ricci del Gemelli vorrebbe prelevarti alcune provette di sangue per spedirle a Torino dove si sta cercando il gene della tua malattia che è molto rara. Se accetti batti una volta le palpebre. Se rifiuti battile due volte. Non sei tenuto ad accettare». Io pensai agli altri, battei una volta le palpebre e…versai il sangue.
Ieri, il sangue l'ho versato per andare a votare. Stavo per “versare” qualche altra cosa; il ventilatore polmonare dal quale mi ero dovuto staccare per poter entrare nell'ascensore, una volta arrivato al pianterreno, non si voleva riaccendere. Ho pensato - il ventilatore è in panne, se l'ascensore, come spesso accade, si rifiuta di partire, faccio la fine di un pesce rosso saltato fuori dal vaso. Sarei morto tra rantoli e colpi di tosse, come Violetta nell'ultimo atto della Traviata. A tenermi la mano ci sarebbero stati Marco Pannella, Emma Bonino, Sergio Stanzani, Daniele Capezzone, Rita Bernardini. Che cosa ci facevano lì? Erano venuti per rendere possibile il mio voto e per far sentire ai 100.000 disabili gravi una voce che rompesse il silenzio delle autorità. Ecco, già vedo i risolini furbetti, le ammiccatine ironiche, il darsi di gomito degli apoti. Ma sì, questo è il paese dei furbi di tre cotte, siamo tutti smagati, adulti e vaccinati. Questo è il paese dove, se una donna ha le ovaie bruciate dalla radioterapia o un uomo i testicoli asportati per un tumore e, nonostante tutto, vogliono, grazie all'eterologa, un figlio loro, i furbastri si danno di gomito e pensano che lei sia un po'«mignotta» e lui un po' cornuto; questo è il paese dove, se una madre portatrice di una malattia genetica spera che suo figlio, grazie alla selezione pre-impianto, non debba nascere con la stessa patologia conclamata, i furbastri si danno di gomito e le dicono in faccia che è peggio di Mengele; questo è il paese dove, se i malati distrutti dalla Sla invocano una ricerca a tutto campo, i soliti furbastri si danno di gomito e gli dicono in faccia che non sono altro che degli assassini disposti a strappare il cuore ai bambini per poter guarire.
In questo paese un uomo, Umberto Veronesi, che ha dedicato la vita a salvare le donne dal tumore, viene sbertucciato dai versi sciolti degli editoriali di un Elefantino, o due Premi Nobel per la medicina, Renato Dulbecco, premio Nobel 1975 per la Medicina per le sue scoperte in materia di interazione tra virus tumorali, e Rita Levi Montalcini, Premio Nobel 1986 per la Medicina per la scoperta dei “fattori di crescita” del sistema nervoso, vengono annichiliti da una battutina più stupida che velenosa: «Io dei Nobel non mi fido», o il dottor Vescovi, che notoriamente è retribuito con acqua San Pellegrino e pane e cicoria, mette in guardia quei mammozzi un po' ebeti che sono i ricercatori di mezzo mondo, dagli interessi malvagi della Spectre delle multinazionali.
Questo è il paese dove il cardinal Ruini predica: « […] Non siamo contro la scienza e i suoi progressi: al contrario, ammiriamo e sosteniamo i frutti della ricerca e dell'intelligenza, che è il segno dell'immagine di Dio nell'uomo. Vogliamo dunque che la scienza sia al servizio del bene integrale dell'uomo: non si tratta, pertanto, di arrestare od ostacolare il cammino della scienza, ma di orientarlo […] » e nessuno delle pere furbastre di tre cotte osa ricordare che «l'orientamento» a cui allude il cardinale si «orientava» a perseguitare Andrea Vesalio perché dissezionava i cadaveri e a «censurare» Christian Barnard perché trapiantava gli organi.
Per contrastare questo orientamento, ho votato 4 Sì, ho versato il sangue, ho riportato uno stiramento allo sternocleidomastoideo e un arrossamento all'osso sacro…no, all'osso laico! (la sola cosa laica su cui Ruini non può mettere le mani!).
VHS Aula Magna 24 giugno 2000

VHS Aula Magna n° 1 del 2001

VHS dell'Aula Magna 8 marzo, 15 marzo, 16 marzo, 13 aprile, 19 aprile, 20 aprile, 2002

VHS incontro a Villa Piccolomini

DVD Analisi Collettiva Incontri

DVD La psichiatria esiste?

DVD Lezioni 7-8 marzo 2003

Atti Incontri ricerca psichiatrica 1997-2001-2002

Libretti Aule Magne 2003-2004-2005 tutte le date

Il sogno della farfalla n° 2 2006 e n°3 2006

Immagine della linea

Architettura e la morte dell'arte

L'invenzione della psicologia

Crisi del freudismo

Analisi collettiva incontri

I primi tre volumi di Storia Criminale del cristianesimo

Madri assassine

La casa sul terrazzo, poesie

Laici in ginocchio, di Augusto Viano

Bestiario senese di Sabrina Dainelli e Francesco Burroni
il Riformista 22.12.06
«Devo concentrarmi, è la prima volta che muoio»
di Tommaso Labate


«Non posso più stare nel braccio della morte. Non ce la faccio più, fate presto». E poi, «devo concentrarmi per bene sulla mia morte. D’altronde è la prima volta che muoio». Lo diceva da giorni, Piergiorgio Welby. In modo netto, chiaro, inequivocabile. Ripeteva «fate presto», ripeteva «non ce la faccio più». Prima di ieri, ci aveva provato e una volta c’era anche riuscito, qualche tempo fa, a staccare il respiratore dal suo corpo.
È stato Welby stesso a decidere di svestire l’armatura del guerriero, del simbolo, e di deporre le armi della lotta politica. È stato lui stesso a decidere che fosse mercoledì, il giorno. Non c’entrava niente l’ultima sentenza, il parere del Consiglio superiore di sanità. Né la politica del tutti insieme accanitamente contro di lui. Ha deciso così e così è stato. Anche perché nella sua vita era entrato, da pochi giorni, un anestesista lombardo di nome Mario Riccio.
C’era Riccio, mercoledì sera, di fronte al letto di Welby. E la moglie Mina, la sorella Carla, Marco Cappato, Rita Bernardini. Oltre, naturalmente, a Marco Pannella. «Sei qua anche tu, vecchio bestione», ha sussurrato Welby alla vista dello storico leader radicale. Quello che avrebbe annunciato la sua morte urbi et orbi, così come era avvenuto per la scomparsa di Luca Coscioni. Nella sera di mercoledì Piergiorgio ha una parola, un messaggio, un grazie per tutti. E un pensiero, raccolto dalla moglie Mina in una lettera, per Ignazio Marino, il chirurgo e senatore dei Ds che aveva incontrato giorni prima e di cui aveva apprezzato l’intervento su Repubblica.
In quei momenti, probabilmente, il dottor Riccio ha pensato e ripensato al codice deontologico dei medici, in calce al quale c’è anche la sua ideale firma. Un codice che all’articolo 34 obbliga il medico ad «attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona».
Non ha sofferto, Piergiorgio Welby. Nel momento in cui Riccio ha sospeso la ventilazione si era già addormentato. Il sedativo, un cocktail di farmaci, gli è stato somministrato nelle vene, e non per via orale. È morto alle 23,40 per arresto cardiorespiratorio. «Con Cappato - ha detto Riccio - abbiamo preparato tutto, cercando di evitare che ci fossero pressioni su di me e sui familiari. Eravamo pronti a partire appena Piergiorgio ce l’avesse richiesto. Io sono venuto lunedì a Roma, dove ho conosciuto di persona Welby. Prima avevo letto il suo libro. Lunedì abbiamo avuto un lungo colloquio. È stata confermata ampiamente la sua volontà di interrompere la terapia». L’anestesista dell’ospedale di Cremona ha poi aggiunto: «Ho preso coscienza piena della sua volontà, a me personalmente espressa. Lui aveva riflettuto sulla lettera di Marino, aveva saputo del pronunciamento del tribunale civile. Gli ho richiesto se il ricorso della Procura modificava qualcosa ma lui ha detto che non cambiava il suo proponimento». Desiderava di «essere sedato» e di «interrompere la sua terapia». È notte...


il Riformista 22.12.06
Il suo diritto di scegliere, il nostro dovere di rispettarlo
di Orlando Franceschelli

«Io amo la vita». È con queste parole semplicissime e toccanti che Piergiorgio Welby ha sempre accompagnato la sua decisione di porre fine alla sua lunga sofferenza. Amore per la vita, libertà di poterne disporre, pene divenute non più tollerabili: dimenticare uno solo di questi tre punti, significa precludersi ogni comprensione rispettosa, solidale e costruttiva della vicenda umana e pubblica di Piergiorgio. Qualcuno che si eserciterà in una simile dimenticanza, certo non mancherà. Ma con la sua vita e la sua morte, Welby ci ha offerto una testimonianza che veramente non suscita soltanto umana partecipazione. Richiede di più: ci impegna a rimuovere le intolleranze ideologico-religiose e le strumentalizzazioni politiche che ancora impediscono di affrontare con la necessaria laicità il punto decisivo e ormai ineludibile di tutto il confronto su questi temi eticamente sensibili: il riconoscimento del diritto all’uscita volontaria dalla vita. Quello che Piergiorgio si è ripreso. Pur amando la vita. Pur essendo amato con dedizione estrema. Quella con cui la moglie Mina l’ha saputo accompagnare per anni. E fino all’ultimo addio.
Per chi è credente, la vita è un dono del Creatore. È qualcosa di sacro, che non ci appartiene e di cui non si può disporre. Al punto che l’uscita volontaria dalla vita è la ribellione estrema all’ordine della stessa creazione divina. Giuda, diceva già Agostino, nel momento in cui si è tolto la vita, ha peccato contro Dio perfino più di quando ha tradito Gesù. Da qui anche da parte della chiesa cattolica la condanna dei suicidi. Inappellabile al punto da negare loro perfino funerale e sepoltura religiosi. Ma, come riconoscono non pochi ed eminenti teologi, solo un estremo furore integralista potrebbe indurre a non riconoscere i propri convincimenti etico-teologici debbano valere anche per quei cittadini che alla vita e alla morte guardano al di fuori di ogni logica religiosa o di sacralità. A cosa pensano dunque i nostri cattolici anche impegnati in politica: a far passare per una colpa morale la mancanza di fede religiosa? Oppure a provare effettivamente a dialogare non con l’arbitrio relativistico, ma con le umanissime e solide ragioni di altri protagonisti della sfera pubblica, che si sentono responsabilmente titolari anche della libertà di morire, del diritto di poter ritenere ormai non più sopportabile, non più vita, la condizione di sofferenza o di umiliazione nella quali si trovano?
La predisposizione degli opportuni strumenti giuridici che rendano finalmente praticabile sia il testamento biologico, sia il potersi sottrarre ad ogni forma di accanimento terapeutico, è auspicata da più parti. E nessuno ovviamente propone che venga riconosciuto a qualcuno il diritto a sopprimerne con una morte dolce e dignitosa la vita di un altro...

il Riformista 22.12.06
La questione è se siamo oppure no padroni del nostro stare al mondo
conversazione con Giulio Giorello
di Luca Mastrantonio

Il primo pensiero di Giulio Giorello, che approva il testamento biologico e più che di eutanasia parla di “libertà di suicidio”, è alle sofferenze di Welby. Aggravate dalla spettacolarizzazione della sua vicenda politico-mediatica: «Mi dispiace che la vicenda si sia conclusa in questo modo, con una tensione psicologica e fisica molto pesante, che si è riverberata anche sui familiari. Detto questo, sono contrario all’uso dei casi personali come bandiere. Nessuno ha diritto di sindacare sulla vita delle persone, entrando nel loro cuore. La vicenda è stata un po’ troppo spettacolarizzata, l’ho detto ai Radicali. Ovviamente rinnovo l’iscrizione alla fondazione Luca Coscioni, ma sono contrario a usare le sofferenze delle persone come vessillo. Come filosofo morale, sono portato a discutere e migliorare gli argomenti a sostegno di certi diritti che riguardano le nostre scelte future. Clienti dell’istituzione medica siamo tutti. Non stiamo parlando di Welby. O almeno non di lui soltanto. Stiamo parlando di noi».
Giulio Giorello, ordinario di Filosofia della scienza all’università degli studi di Milano, rilancia e sviluppa alcuni concetti già espressi nel libro scritto con Veronesi, La libertà della vita: «O noi pensiamo che non siamo padroni di noi stessi e del nostro corpo, e allora in questo caso rimettiamoci alla volontà dell’Onnipotente. Oppure, se siamo padroni del nostro corpo, non è una questione di legislazione. Il diritto a morire non è questione di legge. Non è che gli altri possano decidere per noi. Io questo diritto me lo prendo. Su questo punto differisco da Veronesi. Ovviamente ben vengano legislazioni eventuali. Mi auguro che in questo Parlamento approvino il living will, ma nessuna legge ci può espropriare una nostra decisione. Lo stato non ha il diritto di impicciarsi di come voglio vivere e morire. Io e solo io sono il giudice delle mie azioni. Come diceva l’irlandese John Mitchel, se io ho saldato i miei debiti e provveduto ai miei figli, posso fare quello che voglio».
Giorello torna su alcune critiche che gli sono state mosse da Avvenire. «Sostengono che io abbia teorizzato la libertà assoluta, ma non è vero. C’è un forte vincolo di rispetto verso altri. Dopo tante letture, battaglie culturali e politiche, ho ritrovato il mio eroe in un vecchio signore: Thomas Jefferson, il ribelle della Virginia, poi divenuto terzo presidente Usa. Questo per sgombrare anche il campo da quanti, a sinistra, prendono con il contagocce la grande democrazia americana. Jefferson diceva che un vicino di casa può credere in chi vuole e agire di conseguenza, purché non mi azzoppi o derubi. Ecco questo è il grande messaggio del libertarismo americano. Dico libertarismo e non liberalismo perché in Italia oggi si dicono tutti liberali. Le persone devono essere responsabili del proprio destino. Lo stato è come il guardiano notturno di Locke, deve controllare che non entrino i ladri in casa, ma non deve impicciarsi negli affari miei. I credenti obiettano che i diritti devono essere fondati su principi divini, ma io sono stanco di fondare o ridondare norme o codici morali, penso che si debbano migliorare quelle che ci sono».
A Giorello non piacciono le battaglie vetero-anticlericali: «Purtroppo questa è una battaglia di retroguardia, la difesa di un cittadino di uno stato, siamo costretti a combatterla perché siamo di fronte a un montante neofondamentalismo. Non so se sia peggio, a questo punto, quello islamico o quello papista. Io non ce l’ho con i cattolici ma, diciamo, con i papisti. Sia destra che sinistra fanno a gara per andare appresso al papa. Ratzinger teme che gli esseri umani decidano in base alle loro voglie, che io chiamo preferenze, come scrivono i teorici dell’economia del benessere come Stuart Mill e John Harsanyi». L’esempio negativo portato da Giorello è la Binetti, «è sconcio il discorso dell’obiezione di coscienza, ci sono ospedali laici dove una donna non può interrompere la gravidanza perché sono tutti obiettori di coscienza».
Per Giorello, Welby ha dato una «grande lezione» con il suo libro e le lettere, quella a Napolitano e quella ai direttori. «Sono state azioni ammirevoli, perché penso alla sofferenza, fisica e psicologica, che ha avuto. Mi sento schiacciato dall’idea di quanto deve essergli costata».
Tornando alle leggi, Giorello sostiene la posizione di Giuseppe Pisapia sul living will, ossia il testamento biologico, andando oltre alcuni rischi dell’eutanasia, fermo restando che considera il diritto al suicidio inalienabile: «Un living will potrebbe eliminare alcune perplessità anche legittime sull’eutanasia. Mi riferisco al rischio dell’abuso eventuale dell’eutanasia su coloro che non sanno esprimere in modo chiaro la propria volontà. Non amo l’eutanasia passiva e l’idea che qualcun altro decida per me. E poi ci sono casi di minori, bambini malformati e simili».
Una legge con il living will «liberalizza» il paese, continua Giorello, è «una buona prospettiva riformista. Ma non basta. Quando si ha a che fare con uomini e donne adulte, lo Stato non ha il diritto di mettere le sue zampacce. Anzi, come diceva Cromwell, non deve mettere le sue adunche unghie nella coscienza dell’individuo. Chi è religioso e vede la vita come un dono di Dio, come un affitto, scelga pure di soffrire, anche stoicamente. È un diritto sacrosanto, come è sacrosanto e inalienabile il diritto di scegliere diversamente. Non c’è burocrazia della morte che tenga, la scelta del vivente è libera. La modernità si apre con una battuta del filosofo ebreo e olandese Spinoza: a nulla pensa meno che alla morte l’uomo saggio, ma la sua è una meditazione non della morte bensì della vita. E Welby ha lottato per la vita, con coraggio, non possiamo che riconoscerglielo, con grande affetto e solidarietà. E soprattutto rispetto».

il manifesto 23.12.06
Benedetto XVI

«Preoccupato dai Pacs»
mi.de.ci.

Roma
. Coppie gay, assenza di Dio, positivismo, secolarismo: Benedetto XVI nel discorso di fine anno ai suoi più stretti collaboratori, i membri della curia romana, torna a contare i mali dell'Europa e della cultura occidentale. E' una sorta di discorso di un capo di governo di fronte al suo esecutivo: e infatti Benedetto lo ha concepito come un bilancio delle principali attività del 2006, passando in rassegna i suoi viaggi e i temi principali che lo hanno coinvolto. Balza all'occhio il fatto che il papa si sia mosso prevalentemente nella vecchia Europa, il continente culla del cristianesimo: dalla Polonia alla Spagna, dalla Germania alla Turchia, che pure si può considerare «una parente stretta», protesa verso l'Ue, e pone comunque seri interrogativi di carattere politico e sociale al vecchio continente.
Dell'Europa Ratzinger ha apprezzato la vitalità e la fede entusiasta ritrovata nei polacchi, visti come alveoli di un polmone sano, in grado di ossigenarle l'intero organismo che in tante membra (vedi Francia, Italia, Germania, Spagna) sembra avvizzire. «Per l'estraneo - sottolinea Ratzinger - quest'Europa sembra essere stanca, anzi sembra volersi congedare dalla storia»: proprio perché sta abdicando ai suoi valori, perché sta abbandonando il modello di famiglia fondata sul matrimonio, perché si sta lasciando morire crogiolandosi nel crollo demografico, perché sta cedendo alle coppie di fatto e alle unioni gay. Proprio sul valore della famiglia il papa si sofferma condannando senza appello le «nuove forme giuridiche relativizzano il matrimonio» e che mettono un sigillo giuridico sulla rinuncia a un legame definitivo. E, per le coppie che «non si sentono in grado di accettare il matrimonio», «decidersi diventa ancora più difficile», nota Ratzinger, intendendo così che le coppie vadano in qualche modo necessariamente indirizzate sulla scelta matrimoniale. Ma il peggio, per il pontefice, viene dopo: «Si aggiunge poi la relativizzazione della differenza dei sessi», che assimila le coppie uomo-donna a quelle gay. E qui il papa sfodera l'antropologia cristiana, che combatte contro alcune «teorie funeste che tolgono ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona umana; teorie secondo cui l'uomo - cioè il suo intelletto e la sua volontà - deciderebbe autonomamente che cosa egli sia o non sia». In questo Ratzinger stigmatizza il tentativo dell'uomo di «emanciparsi dal suo corpo». Rivendicando, poi, di fronte a queste mostruosità, una legittima ingerenza, perché «è nostro dovere alzare la voce per difendere l'uomo», immagine di Dio. Ratzinger ha detto poi del viaggio in Germania e Turchia, ricordando altri due temi: quello del sacerdozio (con la conferma assoluta del celibato) e quella del dialogo con l'islam, ma sulla base di un rapporto con la ragione (vedi Ratisbona) e di un cammino di razionalizzazione che la religione di Maometto deve ancora compiere.

giovedì 21 dicembre 2006

Aprileonline.info 20.12.06
Una regalia inaccettabile
di Pino Sgobio


100 milioni alle università private? Come si concilia tale elargizione con il taglio alla scuola pubblica che, dal 2009, ammonterà a 1.402 milioni di euro? Perché questa forzatura?
In periodi di vacche magre, c'è qualcuno che, evidentemente, ingrassa sempre e comunque. I 100 milioni di euro in tre anni, contenuti nei commi 603 e 604 del maxiemendamento alla Finanziaria, destinati all'università privata, vale a dire, nella grande maggioranza dei casi, ad istituti di enti ecclesiastici, rappresentano un nuovo e inaspettato "buco nero" di questa difficile e complicata manovra di bilancio, che si va ad aggiungere al famigerato comma 1.346 sulla prescrizione breve per i danni allo Stato. E' la seconda volta che una misura mai discussa all'interno delle tante riunioni di maggioranza, che sul tema della Finanziaria sono state fatte, entra a far parte di questa legge in modo surrettizio e subdolo.
Questa regalia alle università private è un provvedimento che non capiamo affatto. Non se ne avvertiva l'urgenza e non se ne sentiva l'opportunità. Inserire questa vera e propria elargizione di soldi pubblici a strutture private fa a pugni, non solo con il dettato costituzionale, ma con il richiamo al rigore e ai sacrifici, che, continuamente, un giorno sì e l'altro pure, viene fatto da autorevoli esponenti di governo ai cittadini. Difficile capirla questa norma, così come è difficile, adesso, spiegarla agli italiani. Qualcuno del governo dia chiarimenti al riguardo! Non ci sono soldi per l'Università, che avrebbe bisogno, come hanno denunciato i Rettori, di 350 milioni di euro ed invece se ne ritrova solo 78, e per la Ricerca pubblica, cui, alla fine, sono stati concessi solo 20 milioni di euro grazie all'emendamento cosiddetto "Montalcini", e poi si finanzia l'università privata... mah, questo ci appare davvero una cosa inaccettabile!
Così come il Ministro Di Pietro ha chiesto a Prodi un'indagine interna all'Unione per capire come sia stato possibile collocare l'odiosa norma sulle prescrizioni ai reati contabili nella Finanziaria, allo stesso modo, adesso, noi chiediamo al Presidente del Consiglio di conoscere tutto il retroscena di questo intollerabile espediente, che mette sullo stesso piano i collegi universitari gestiti da privati con quelli pubblici. Come si concilia tale elargizione ai privati con il taglio alla scuola pubblica che, dal 2009, ammonterà a 1.402 milioni di euro? Perché questa forzatura? Vuoi vedere che per tenere calme e buone le gerarchie ecclesiastiche, troppo indispettite in questi ultimi tempi di dibattito interno all'Unione su coppie di fatto ed eutanasia, qualcuno ha pensato bene di somministrare un sedativo doppiamente tranquillizzate? E' proprio il caso di scriverlo: come dice il detto popolare "a pensar male si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca".
100 milioni di euro? Molti erano i settori sociali ai quali potevano essere destinati. Non si capisce la ratio del perché, ad esempio, si è preferito mantenere i ticket al codice bianco del pronto soccorso, che andranno ad incidere sui portafogli dei cittadini, soprattutto di quelli meno abbienti, e poi si stanziano fondi per i collegi universitari privati.
Tutto questo poi, come se non bastasse, si aggiunge al malcelato fastidio nei confronti di chi, come noi, rivendica il rispetto del programma elettorale. Qualcuno non lo reputa ‘il vangelo', qualcun altro lo vorrebbe funzionale alla costruzione del Partito Democratico. Ma andando avanti così si rischia di far saltare la coalizione e si crea solo confusione nel popolo del centrosinistra, che ha dato mandato all'Unione di ‘cambiare passo' rispetto al disastro del centrodestra. C'è chi ci definisce, con spregio, gli ‘adoratori del programma'. Visto quello che è successo negli ultimi giorni la cosa ci inorgoglisce.
La "faccenda" inquietante di questa norma, infine, dimostra che è necessario riproporre con forza e determinazione una battaglia politica e culturale antica e tuttora moderna: quella per la laicità dello Stato.

* Presidente Gruppo PdCI Camera dei Deputati


Repubblica 21.12.06
L'amore e la pietà del figlio dell'uomo
di Eugenio Scalfari


La Natività di Gesù di Nazareth dispone gli animi (dovrebbe disporli) all´ascolto di se stessi e degli altri, sia da parte dei credenti nella sua origine divina sia da quanti lo considerano un figlio dell´uomo dotato di virtù profetiche sulle quali è stata costruita una delle grandi religioni, fondata sull´amore, sulla pace, sulla giustizia.
Non è dunque tempo di affrontare altri temi, che pure incalzano e preoccupano ma che riguardano il commercio degli interessi e la gestione del potere, fosse pure nel senso più alto e nobile e non sordido e ottuso come molte volte accade. Rinviamo perciò ad altre prossime occasioni questi argomenti e ascoltiamo invece ciò che la mente e il cuore ci suggeriscono su questioni che riguardano i rapporti tra le persone e tra queste e le istituzioni, la vita buona e la buona morte, la com-passione e la pietà. Gli spunti attuali non mancano ed anzi abbondano in un´epoca di contrasti, incertezze, paure, fobie e crescenti egoismi.
Mi hanno colpito in questi giorni due interventi che toccano tasti estremamente sensibili: un articolo di Claudio Magris sul "Corriere della Sera" del 18 dicembre, intitolato "L´ingerenza dell´ipocrisia" e una lettera a Welby scritta da Ignazio Marino, cardiochirurgo e presidente della commissione parlamentare della Sanità, pubblicata sulla "Repubblica" del 19. Di questo mi occuperò e dei complessi problemi che pongono alla nostra attenzione.
***
L´articolo di Magris mi ha lasciato assai perplesso. È la prima volta che mi accade; di solito condivido interamente i suoi pensieri. Questa volta no e mi è riuscito difficile anche cavarne un senso. Per chi non l´avesse letto cercherò di riassumerne le tesi.
Comincia deplorando le ingerenze di chi - persona o istituzioni - invada campi altrui per imporvi il proprio dominio. E poiché l´oggetto dell´articolo riguarda il rapporto tra la Chiesa e lo Stato, fa proprio il motto evangelico del «date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Una regola perfettamente equilibrata nella forma come nella sostanza, ma talmente evocata e ripetuta da esser diventata luogo comune, interpretato e stiracchiato in tutte le direzioni fino a perdere ogni significato.

Lo stesso Magris del resto ne fornisce la prova quando osserva che la Chiesa ha diritto di sostenere in tutte le sedi l´etica che deriva dalla religione, aggiungendo che l´etica e la politica sono intimamente intrecciate tra loro sicché la Chiesa legittimamente finisce per entrare nel dibattito politico, nell´amministrazione della cosa pubblica e infine nell´attività legislativa, con tanti saluti alla teorica distinzione tra le competenze di Cesare e quelle di Dio.
Volete forse mettere il bavaglio al Papa e ai vescovi? si domanda e ci domanda Magris. Volete ridurli ad una qualsiasi associazione di bocciofili e di cacciatori? È mai possibile espellere la Chiesa dallo spazio pubblico che le spetta in materie come la bioetica, la fecondazione assistita, l´educazione dei bimbi e dei ragazzi, il finanziamento delle scuole cattoliche, il regime carcerario? Certo che no, nessuno pensa questo, caro Magris. Anzi. I laici, credenti e non credenti, hanno da tempo rinunciato a confinare la religione nello spazio privato. Non solo accettano ma addirittura incoraggiano la gerarchia ecclesiastica ad esprimere pubblicamente le sue convinzioni. Purché sia lasciata al laicato, cattolico e non cattolico, la piena autonomia e responsabilità dei comportamenti politici e legislativi. Si tratta di un´assurda pretesa? O non piuttosto del tentativo estremo di salvare almeno qualche lembo del mantello di Cesare, ormai ridotto a brandelli dalle martellanti ingerenze della "lobby" episcopale e vaticana?
Ma – incalza Magris – spesso accade che i laici rimproverino le ingerenze della Chiesa quando esse siano contrarie alla loro parte politica ma le approvino invece a gran voce quando l´ingerenza giochi a loro favore. Se si è contrari alle ingerenze, questa contrarietà va sostenuta sempre e comunque, indipendentemente dal contenuto.
Parole sante che personalmente condivido e che, per quanto mi riguarda, ho sempre applicato e sostenuto. Se non che Magris si impiglia in una esemplificazione assai poco pertinente a proposito del pacifismo. L´esempio addotto riguarda la guerra in Iraq, sia la prima che la seconda, entrambe deplorate da papa Wojtyla e poi da papa Ratzinger in nome della pace. La sinistra, ricorda Magris, plaudì alla posizione del Vaticano in difesa della pace ma sbagliò. In quel caso infatti il Vaticano si era ingerito indebitamente nel comportamento di governi sovrani e democratici che, magari sbagliando, avevano tuttavia legittimamente portato in guerra i loro paesi. La sinistra perse dunque l´occasione di criticare le ingerenze indebite.
Ecco dove il ragionamento mi sembra completamente sbagliato e fuorviante. La Chiesa predica la pace e si dichiara contro la guerra, specie se si tratti di guerra offensiva e non difensiva. Non si tratta d´una ingerenza ma di un diritto-dovere della religione e di chi la rappresenta. Caro Claudio, tu vorresti che la Chiesa si possa schierare contro una legge in favore per esempio dell´eutanasia, ma non tolleri che parli contro la guerra preventiva di George Bush e di Tony Blair. Quale coerenza è mai questa?
Ma tu, trasportato da una tua logica che a me risulta a questo punto incomprensibile, vai anche più oltre. Rievochi il (colpevole) silenzio di Pio XII sul nazismo e qualche (timida) protesta del Vaticano nei confronti della politica hitleriana e sostieni che pure quelle proteste, ancorché cautissime, erano un´ingerenza, anche se definita auspicabile, contro il governo legittimo della Germania. Qui proprio non ti capisco più.
Il finale di questo strano testo di Magris è invece condivisibile: sarebbe meglio se la Chiesa rinunciasse al Concordato per esser più libera di parlare di tutto senza più dover osservare la distinzione di competenza fra Cesare e Dio.
Giusto. Ma la Chiesa parla già di tutto e si tiene per sovramercato, ben stretta al suo Concordato per i vantaggi cospicui che esso le assicura. Allo stato dei fatti la formula cavouriana della libera Chiesa in libero Stato ha perso ogni significato come l´altro luogo comune di Cesare e Dio. Tutte le modeste difese poste dai Patti Lateranensi sono state smantellate da un pezzo. Quei Patti servono soltanto a garantire gli interessi finanziari della Santa Sede; il resto è silenzio.
Mentre scrivo queste note leggo un articolo di Galli Della Loggia sul "Corriere" del 20 dicembre, intitolato «Una società senza cattolici». Il testo svolge fedelmente il tema enunciato nel titolo, sostenendo che il dibattito culturale e politico in Italia è monopolizzato dai laici laicisti. A me pare incredibile che si possa stravolgere la realtà fino a questo punto. Ognuno ha diritto di dire la sua, naturalmente. Può un vecchio laicista deplorare tesi così lontane dai dati di fatto?
* * *
Vengo ora alla lettera a Welby, di Ignazio Marino. Qui la materia è ancor più sensibile e dolente perché si tratta della sofferenza d´un malato terminale che invoca la morte, chiede d´essere aiutato a morire e ottiene una risposta che dà i brividi.
Ho vissuto in questi giorni un´esperienza dolorosa con la morte d´una persona a me carissima; ho assistito alla sua sofferenza. Mi sono venute in mente le parole di Giobbe:
«Pesate i miei spasimi
E sul piatto mettete la mia cancrena
Peseranno più che le sabbie
Di tutti i mari
Perciò barcollano le mie parole».
Ebbene, Marino riconosce che Welby, come qualunque malato terminale in preda ad una sofferenza atroce, ha il diritto di chiedere una morte assistita. Ma non si può, non c´è una legge che lo consenta. La deontologia medica – ricorda Marino – lo vieta perché il medico deve curare e mantenere in vita, non può e non deve curare la morte. Invita Welby a stringere i denti e andare avanti. Gli propone addirittura di accettare di esser sedato per quarantott´ore al fine di riacquistare le forze e poi, così rinforzato, riprendere a soffrire. Qualora il suo male diventasse ancor più doloroso e richiedesse nuovi interventi e qualora Welby, come suo diritto, li rifiutasse, lo avverte che i medici non potrebbero neanche in quel caso estremo procurargli una buona morte ma assisterebbero impotenti alla sua fine straziante pur di non interrompere "anzitempo" una vita.
Nelle stesse ore il Papa ribadiva, parlando ai giuristi cattolici, il fermo divieto all´eutanasia. C´è da giurare che il cosiddetto laicato cattolico impegnato politicamente farà rispettare in Parlamento i dettati vaticani.
Che dire di quella lettera a Welby dal presidente della commissione parlamentare Sanità, eletto nelle liste dell´Unione? Che dire della crudeltà mentale di cui è intrisa?
Le sofferenze di Welby e dei tanti che si trovano nelle sue condizioni pesano come la sabbia di tutti i mari. E le parole barcollano.
* * *
Gesù di Nazareth, figlio dell´uomo, fece risorgere Lazzaro dal sepolcro e sciolse le bende funebri che lo avvolgevano. La vita buona e la buona morte erano il messaggio che ha lasciato al mondo. Un messaggio di misericordia e di pietà. Accettò d´esser crocifisso affinché nessun altro uomo lo fosse, né nell´anima né nella carne.
Noi vorremmo che il Papa parlasse di questo con parole d´amore e di pietà, non di divieto. Vorremmo che invitasse a sciogliere le bende di Welby e non che gliele stringesse intorno al corpo. Vorremmo che ricordasse dall´alto del suo magistero che Gesù di Nazareth profetizzò la resurrezione dei corpi, per dire che il corpo d´un uomo è sacro e dev´essere rispettato nella sua sacralità e dignità e non inchiodato ai suoi dolori. Vorremmo infine che fosse il capo d´una religione d´amore e non di un´ideologia che esalta il dolore inutile e dissacrante.
Noi non credenti a questo crediamo e per questo ci battiamo nei giorni della Natività di Gesù di Nazareth.

Repubblica 21.12.06
L'ansia di sentirsi normali
L'omosessualità oggi
di Luciana Sica


A lungo la psicoanalisi ha alimentato l'omofobia, ma ora nuovi studi cambiano la situazione Ne parliamo con due analisti
Lingiardi: "L'etichetta dell'immaturità come foglia di fico per coprire il pregiudizio"
Thanopulos: "Attenzione a non perdere di vista il senso profondo delle differenze"

Perché siamo eterosessuali, omosessuali o bisessuali, in realtà nessuno può dirlo, e chi presume di farlo è con tutta probabilità in preda a un delirio di onnipotenza. Nei gusti erotici c´è un po´ di tutto: storie individuali, desideri, tenerezze, tormenti, "affetti" che sfuggono alle spiegazioni generalizzanti, a quella tentazione di costruire delle gabbie identitarie basate su un modo ormai improponibile d´intendere la differenza tra i sessi - il maschile e il femminile come equivalenti di attivo e passivo - senza tenere in nessun conto la "varietà" sempre più vistosa nella declinazione dei generi.
A creare inquietudine sono ancora gli omosessuali - gli eterni "devianti" falsamente tollerati, prima schiacciati dalla vergogna e dallo scandalo, oggi dall´impossibilità di essere normali. La "patologizzazione" dei loro orientamenti è solo in parte una storia non edificante del passato, e per lungo tempo il mondo psicoanalitico non si è sottratto ad alimentare ondate a volte anche crudeli di omofobia.
Ma oggi, ci sarà ancora qualcuno che presuma di sapere come debba essere la sessualità di una persona normale? Su questo "punto", molto in odore di moralismo, interroghiamo Vittorio Lingiardi, psichiatra e analista di formazione junghiana, ordinario di Psicopatologia alla "Sapienza" di Roma. È lui a dire: «La psicoanalisi contemporanea è caratterizzata da un panorama teorico variegato e attraversato da domande senza risposta. Non sappiamo, per esempio, come le forze biologiche, le identificazioni, i fattori cognitivi, l´uso che il bambino fa della sessualità per risolvere i conflitti dello sviluppo, le pressioni culturali alla conformità e il bisogno di adattamento contribuiscano alla formazione del soggetto e alla costruzione della sua sessualità. Né sappiamo se sarà mai possibile rispondere a queste domande. Quello da cui sarebbe opportuno partire, sempre e comunque, è una declinazione plurale delle sessualità: poco alla volta è la tendenza che va prevalendo, seppure con qualche sacca di resistenza».
Si può anche dire che nel passato gli analisti siano stati più realisti del re. Di Freud, che più volte si è riferito all´omosessualità come a «un mistero» o anche a «un problema», e nella celebre Lettera a una madre americana scriveva: «l´omosessualità non è certo un vantaggio, ma non è nulla di vergognoso, non è un vizio, né una degradazione, e non può essere classificata come malattia: noi la consideriamo una variante della funzione sessuale causata da un certo arresto dello sviluppo sessuale». E senz´altro più conformisti di Jung, così attento ai percorsi simbolici della sessualità, che nella conferenza sul Problema amoroso dello studente pronunciò una sua celebre frase: «Non domandate mai che cosa uno faccia, bensì come lo fa».
Lingiardi: «Quando parliamo di "come sono" e di "come amano" gli uomini e le donne, ci troviamo inevitabilmente nel territorio della cultura, del resoconto e della lingua. La teoria psicoanalitica ha invece ecceduto nel generalizzare e universalizzare, presupponendo che mascolinità e femminilità fossero categorie anziché dimensioni. Per molti anni il discorso psicoanalitico sull´omosessualità ha riguardato la sua eziologia, riferibile a un arresto o a una regressione alla fase edipica o pre-edipica, ipotizzando l´esistenza di una linea di sviluppo che tendeva al raggiungimento di un culmine eterosessuale e assicurava la maturità e la salute mentale... È chiaro che l´etichetta dell´immaturità, come quella del narcisismo, per gli orientamenti omosessuali si è andata sempre più rivelando una foglia di fico pseudoscientifica usata per coprire il pregiudizio».
Del resto, quanto la psicoanalisi - la ricerca psicoanalitica - può non essere influenzata dai valori culturali dominanti, dallo spirito del tempo, quanto insomma può davvero sfuggire ai pregiudizi? Non si sottrae a questa domanda, che a noi sembra di buon senso e lui giudica "insidiosa", Sarantis Thanopulos, greco di origine, brillante cinquantenne della Società psicoanalitica italiana: «Il lavoro dell´analista è costruito attorno alla necessità di sospendere il suo giudizio per restituire la parola all´interiorità dei suoi pazienti: i cambiamenti nella società e nella cultura tendono a entrare nella psicoanalisi soprattutto attraverso i loro "casi". E poiché l´interiorità, in ognuno di noi, trova la sua dimensione più privata nelle sfasature con i tempi della vita, la psicoanalisi è dentro e fuori il suo tempo, rimane sempre "intempestiva". Del resto, se perfino le idee dei fisici e dei matematici sono in stretta correlazione con la cultura del loro tempo, come potrebbe la psicoanalisi essere immune ai mutamenti culturali, non esserne influenzata?».
Quello che invece Thanopulos esclude è un´assenza sospetta di "problematizzazione" quando si parla di sessualità in generale, e di omosessualità in particolare. Quel politically correct che tende a banalizzare, appiattire, e soprattutto dissimulare le diffidenze, il sarcasmo, certe forme più o meno sottili di rifiuto.
Dice: «Trovo infondata l´idea che l´erotismo omosessuale sia patologico, ma non mi sembra il caso d´impegnarsi a fare la conta tra gli "innovatori" e i "conservatori", perché in realtà ogni posizione è legittima e problematizza l´altra. Soprattutto non dimenticherei che un certo aspetto "eretico", una certa "devianza" dell´omosessualità ha sempre avuto una funzione molto importante: quella di destabilizzare lo statuto normativo della sessualità. Certo, non è possibile inchiodare eternamente gli omosessuali al polo trasgressivo della sessualità, ma bisogna stare attenti - nel passaggio verso la "normalizzazione"- a non perdere di vista il senso profondo delle differenze, a cancellare le tensioni che ci sono. Il nostro mondo interno è abitato da fantasie eterosessuali e omosessuali - per quella bisessualità psichica di cui parlava già Freud. Credo che smettere di promuovere questa dialettica dentro di noi, anche con i conflitti che comporta, sarebbe una semplificazione e un impoverimento della vita interiore».
Molto interessante è la posizione di Thanopulos su quella che definisce la componente omosessuale nelle relazioni tra uomo e donna, «laddove - si legge in Ipotesi gay - la differenza dei sessi è insieme desiderata e ripudiata». Qui spiega: «Lo statuto della sessualità è sempre antinomico perché l´incontro con un altro corpo consente sia di perdere sé stesso sia di ritrovarsi. È un´antinomia molto accentuata nell´adolescenza, perché la diversità dell´altro attrae, ma ferisce anche, rende vulnerabili, spaventa: la paura è quella di perdersi senza più ritrovarsi. Qui una corrente "omofilica" viene in soccorso dell´eterosessualità, perché smorza e insieme protegge l´incontro con l´altro sesso. Quando però nella vita adulta permane la ferita adolescenziale, nell´incontro erotico tra uomo e donna una certa componente omosessuale può dominare la scena».
Più in generale - dice Thanopulos - il vero rischio oggi «è la sempre più diffusa presenza di "autoerotismo" staccato dal resto della sessualità, che colpisce in egual misura relazioni omosessuali ed eterosessuali. In questa deriva, l´altro diventa uno strumento di piacere: non è più un soggetto, non è una persona intera e autonoma, in realtà non ti coinvolge, non può entrare nella tua vita».
Il vero spartiacque nella sessualità umana non sarebbe allora tra eterosessualità e omosessualità, ma piuttosto tra un autoerotismo di segno narcisistico e la capacità di riconoscimento profondo dell´altro: quella che gli analisti definiscono "scelta oggettuale" e noi, più semplicemente, diremmo: amare davvero qualcuno, uomo o donna che sia.
In ogni caso gli analisti di oggi sembrano ormai molto lontani dal considerare gli omosessuali come dei "malati". Magari un po´ perversi, compulsivi, immaturi, narcisisti, regressivi, forse sì, ancora. E purtroppo non può far testo la citazione di un grande come Christopher Bollas, che già nel ´92 scriveva: «ogni tentativo di costruire una teoria generale dell´omosessualità può essere soddisfatto solo al prezzo di gravi distorsioni delle discrete e importanti differenze tra omosessuali, atto che potrebbe costituire un "genocidio intellettuale"».
Come a dire: se spostiamo l´attenzione sulla qualità e le dinamiche delle relazioni, si può parlare ancora di omosessualità al singolare? Ci saranno gli omosessuali capaci di amare e quelli che ancora saltabeccano da un corpo all´altro, forse più disperati che "gai": in fondo, niente di così tanto diverso da quello che accade negli incontri raramente idilliaci degli eterosessuali, in tante loro storie non si sa se più aride o sgangherate.

il Riformista 21.12.06
Con Rodotà, Flamigni, Marramao
Una sola terra e un solo orizzonte, il Pse
E' nata la fondazione della sinistra Ds
di Ettore Colombo


Olof Palme, Francois Mitterrand e Willy Brandt a livello europeo. Antonio Gramsci, Riccardo Lombardi e i fratelli Carlo e Nello Rosselli in quello italiano. Pensatori come John Rawls, l'economista Amartya Sen ma soprattutto il sociologo Zygmunt Baumann e il pensatore francese Marc Augé (quello della teoria dei «non luoghi»), per non dire del «nuovo pensiero critico della globalizzazione nordamericano, del suo filone ecologista e della società dal lavoro sostenibile».
Eccolo, il pantheon della nuova sinistra interna ai Ds che ha già lanciato il suo manifesto, prima a Bruxelles e poi a Roma, ma anche e soprattutto una Fondazione («Una sola terra. Fondazione culturale per la democrazia e il socialismo») e che, presto, entro febbraio del 2007, sfornerà anche una rivista. Dal titolo, molto evocativo, Cercare ancora, che parafrasa un noto lead dell'economista Claudio Napoleoni, il quale - citando l'ultimo Heidegger che parlava di «fine della politica» nell'era contemporanea e secondo cui «solo un dio ci potrà salvare» - invitava a «cercare ancora», appunto, uno spazio politico e una progettualità sociale. Spazio (e progetto) che cerca anche l'ex correntone, oggi nuova sinistra Ds, stretto com'è tra la Scilla del Partito democratico - che ancora non c'è ma intorno a cui sono già iniziati i lavori per la rivista (Pd), la scuola di formazione politica e, come si sa, il «manifesto dei valori» - e la Cariddi del “Bertinotti pensiero”, nel cui bacino d'utenze, fatto da Prc e sinistra sparsa, si darà vita ad una vecchia/nuova rivista, Alternative, diretta dall'ex Dp Domenico Iervolino ma soprattutto a un think tank «per il socialismo» sotto i numi tutelari di Riccardo Lombardi e Lelio Basso e la direzione dello stesso presidente della Camera.
Saranno due, invece, i presidenti della Fondazione «Una sola terra» e di Cercare ancora, l'economista Paolo Leon e l'europarlamentare francese del Pse Martine Roure, ma uno solo il dioscuro (e il condirettore) politico, il ministro Fabio Mussi, anche se gli altri tre membri del quartetto di corrente di minoranza diessina (Cesare Salvi, Valdo Spini e Fulvia Bandoli) vi sono coinvolti a pieno titolo. Uno solo è anche il diessino che «tira le fila» di tanto lavorìo cultural-intellettuale, il vice responsabile nazionale dell'organizzazione della Quercia Gianni Zagato. Il quale, però, ci tiene a sottolineare, parlandone con il Riformista, che «non si tratta del cavallo di Troia della mozione di minoranza in vista del congresso. Un conto è la nostra battaglia politica per far cambiare direzione ai Ds, rispetto al Pd, un conto la necessità di ripensare il socialismo alla luce dei nuovi orizzonti del Pse: lavoro, laicità, diritti». Non a caso, nella Fondazione sono entrati anche nomi affatto scettici verso il Pd, come Laura Pennacchi, o super-partes come Stefano Rodotà, Carlo Flamigni (autore di quel «Manifesto dell'etica laica» che sarà presto ripubblicato) e Giacomo Marramao, mentre «ci stanno pensando» l'economista Luciano Gallino e lo storico Massimo Salvadori. Sono oltre una cinquantina, comunque, i nomi (tra loro filosofi, sociologi, storici, ma anche glottologi e fisici) finora coinvolti e tre i campi di lavoro: lavoro e lavori (in stretto legame con la Cgil, grazie al ruolo-cerniera di Paolo Nerozzi), diritti (con un forte accento sui temi della laicità, della ricerca scientifica e del confronto con fede e religione, al centro di diversi convegni che la Fondazione terrà a Genova, Napoli e Roma nei primi mesi del 2007), qualità della vita e sviluppo sostenibile. I rapporti con quanto si muove nella galassia del Pd (più dalle parti dell'Istituto Gramsci che della «Vedrò» di Enrico Letta o dell'«Ulibo» di Filippo Andreatta) come in quella della «destra» di Rifondazione («Uniti a sinistra» di Folena, che a sua volta sta pensando a una rivista, in collaborazione con l'Ars di Tortorella) saranno «a 360 gradi», spiega Zagato, che spera anche di «lanciare presto un appello per mettere attorno a un tavolo e far lavorare assieme le tante Fondazioni della sinistra, dalla Basso alla Di Vittorio alla Rosselli».
Certo è che la nuova sinistra Ds punta a ricollegarsi in modo sempre più stretto con il nuovo Pse, quello di Porto e delle sue nuove o rinnovate issues in nome del binomio mitterandiano «più Europa e più socialismo». Un politico-pensatore attento come Valdo Spini, animatore della Fondazione e dei Quaderni Rosselli invita però la sinistra bertinottiana «a non fare i conti solo con Lombardi e il suo socialismo autonomista, che va benissimo, ma anche col socialismo liberale posto in primis proprio dai fratelli Rosselli». In attesa che i rapporti con Bertinotti migliorino e stante che, per ora, l'orizzonte resta la Quercia, anche se «socialista all'europea e federata con la Margherita nell'Unione», Zagato punta tutto sui giovani: «Faremo anche noi una scuola di formazione permanente, a Orvieto, con tanto di lezioni live e su Internet, non per formare élites ma giovani appassionati di politica».
Aprileonline.info 20.12.06
Una regalia inaccettabile
di Pino Sgobio


100 milioni alle università private? Come si concilia tale elargizione con il taglio alla scuola pubblica che, dal 2009, ammonterà a 1.402 milioni di euro? Perché questa forzatura?
In periodi di vacche magre, c'è qualcuno che, evidentemente, ingrassa sempre e comunque. I 100 milioni di euro in tre anni, contenuti nei commi 603 e 604 del maxiemendamento alla Finanziaria, destinati all'università privata, vale a dire, nella grande maggioranza dei casi, ad istituti di enti ecclesiastici, rappresentano un nuovo e inaspettato "buco nero" di questa difficile e complicata manovra di bilancio, che si va ad aggiungere al famigerato comma 1.346 sulla prescrizione breve per i danni allo Stato. E' la seconda volta che una misura mai discussa all'interno delle tante riunioni di maggioranza, che sul tema della Finanziaria sono state fatte, entra a far parte di questa legge in modo surrettizio e subdolo.
Questa regalia alle università private è un provvedimento che non capiamo affatto. Non se ne avvertiva l'urgenza e non se ne sentiva l'opportunità. Inserire questa vera e propria elargizione di soldi pubblici a strutture private fa a pugni, non solo con il dettato costituzionale, ma con il richiamo al rigore e ai sacrifici, che, continuamente, un giorno sì e l'altro pure, viene fatto da autorevoli esponenti di governo ai cittadini. Difficile capirla questa norma, così come è difficile, adesso, spiegarla agli italiani. Qualcuno del governo dia chiarimenti al riguardo! Non ci sono soldi per l'Università, che avrebbe bisogno, come hanno denunciato i Rettori, di 350 milioni di euro ed invece se ne ritrova solo 78, e per la Ricerca pubblica, cui, alla fine, sono stati concessi solo 20 milioni di euro grazie all'emendamento cosiddetto "Montalcini", e poi si finanzia l'università privata... mah, questo ci appare davvero una cosa inaccettabile!
Così come il Ministro Di Pietro ha chiesto a Prodi un'indagine interna all'Unione per capire come sia stato possibile collocare l'odiosa norma sulle prescrizioni ai reati contabili nella Finanziaria, allo stesso modo, adesso, noi chiediamo al Presidente del Consiglio di conoscere tutto il retroscena di questo intollerabile espediente, che mette sullo stesso piano i collegi universitari gestiti da privati con quelli pubblici. Come si concilia tale elargizione ai privati con il taglio alla scuola pubblica che, dal 2009, ammonterà a 1.402 milioni di euro? Perché questa forzatura? Vuoi vedere che per tenere calme e buone le gerarchie ecclesiastiche, troppo indispettite in questi ultimi tempi di dibattito interno all'Unione su coppie di fatto ed eutanasia, qualcuno ha pensato bene di somministrare un sedativo doppiamente tranquillizzate? E' proprio il caso di scriverlo: come dice il detto popolare "a pensar male si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca".
100 milioni di euro? Molti erano i settori sociali ai quali potevano essere destinati. Non si capisce la ratio del perché, ad esempio, si è preferito mantenere i ticket al codice bianco del pronto soccorso, che andranno ad incidere sui portafogli dei cittadini, soprattutto di quelli meno abbienti, e poi si stanziano fondi per i collegi universitari privati.
Tutto questo poi, come se non bastasse, si aggiunge al malcelato fastidio nei confronti di chi, come noi, rivendica il rispetto del programma elettorale. Qualcuno non lo reputa ‘il vangelo', qualcun altro lo vorrebbe funzionale alla costruzione del Partito Democratico. Ma andando avanti così si rischia di far saltare la coalizione e si crea solo confusione nel popolo del centrosinistra, che ha dato mandato all'Unione di ‘cambiare passo' rispetto al disastro del centrodestra. C'è chi ci definisce, con spregio, gli ‘adoratori del programma'. Visto quello che è successo negli ultimi giorni la cosa ci inorgoglisce.
La "faccenda" inquietante di questa norma, infine, dimostra che è necessario riproporre con forza e determinazione una battaglia politica e culturale antica e tuttora moderna: quella per la laicità dello Stato.

* Presidente Gruppo PdCI Camera dei Deputati


Repubblica 21.12.06
L'amore e la pietà del figlio dell'uomo
di Eugenio Scalfari


La Natività di Gesù di Nazareth dispone gli animi (dovrebbe disporli) all´ascolto di se stessi e degli altri, sia da parte dei credenti nella sua origine divina sia da quanti lo considerano un figlio dell´uomo dotato di virtù profetiche sulle quali è stata costruita una delle grandi religioni, fondata sull´amore, sulla pace, sulla giustizia.
Non è dunque tempo di affrontare altri temi, che pure incalzano e preoccupano ma che riguardano il commercio degli interessi e la gestione del potere, fosse pure nel senso più alto e nobile e non sordido e ottuso come molte volte accade. Rinviamo perciò ad altre prossime occasioni questi argomenti e ascoltiamo invece ciò che la mente e il cuore ci suggeriscono su questioni che riguardano i rapporti tra le persone e tra queste e le istituzioni, la vita buona e la buona morte, la com-passione e la pietà. Gli spunti attuali non mancano ed anzi abbondano in un´epoca di contrasti, incertezze, paure, fobie e crescenti egoismi.
Mi hanno colpito in questi giorni due interventi che toccano tasti estremamente sensibili: un articolo di Claudio Magris sul "Corriere della Sera" del 18 dicembre, intitolato "L´ingerenza dell´ipocrisia" e una lettera a Welby scritta da Ignazio Marino, cardiochirurgo e presidente della commissione parlamentare della Sanità, pubblicata sulla "Repubblica" del 19. Di questo mi occuperò e dei complessi problemi che pongono alla nostra attenzione.
***
L´articolo di Magris mi ha lasciato assai perplesso. È la prima volta che mi accade; di solito condivido interamente i suoi pensieri. Questa volta no e mi è riuscito difficile anche cavarne un senso. Per chi non l´avesse letto cercherò di riassumerne le tesi.
Comincia deplorando le ingerenze di chi - persona o istituzioni - invada campi altrui per imporvi il proprio dominio. E poiché l´oggetto dell´articolo riguarda il rapporto tra la Chiesa e lo Stato, fa proprio il motto evangelico del «date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Una regola perfettamente equilibrata nella forma come nella sostanza, ma talmente evocata e ripetuta da esser diventata luogo comune, interpretato e stiracchiato in tutte le direzioni fino a perdere ogni significato.

Lo stesso Magris del resto ne fornisce la prova quando osserva che la Chiesa ha diritto di sostenere in tutte le sedi l´etica che deriva dalla religione, aggiungendo che l´etica e la politica sono intimamente intrecciate tra loro sicché la Chiesa legittimamente finisce per entrare nel dibattito politico, nell´amministrazione della cosa pubblica e infine nell´attività legislativa, con tanti saluti alla teorica distinzione tra le competenze di Cesare e quelle di Dio.
Volete forse mettere il bavaglio al Papa e ai vescovi? si domanda e ci domanda Magris. Volete ridurli ad una qualsiasi associazione di bocciofili e di cacciatori? È mai possibile espellere la Chiesa dallo spazio pubblico che le spetta in materie come la bioetica, la fecondazione assistita, l´educazione dei bimbi e dei ragazzi, il finanziamento delle scuole cattoliche, il regime carcerario? Certo che no, nessuno pensa questo, caro Magris. Anzi. I laici, credenti e non credenti, hanno da tempo rinunciato a confinare la religione nello spazio privato. Non solo accettano ma addirittura incoraggiano la gerarchia ecclesiastica ad esprimere pubblicamente le sue convinzioni. Purché sia lasciata al laicato, cattolico e non cattolico, la piena autonomia e responsabilità dei comportamenti politici e legislativi. Si tratta di un´assurda pretesa? O non piuttosto del tentativo estremo di salvare almeno qualche lembo del mantello di Cesare, ormai ridotto a brandelli dalle martellanti ingerenze della "lobby" episcopale e vaticana?
Ma – incalza Magris – spesso accade che i laici rimproverino le ingerenze della Chiesa quando esse siano contrarie alla loro parte politica ma le approvino invece a gran voce quando l´ingerenza giochi a loro favore. Se si è contrari alle ingerenze, questa contrarietà va sostenuta sempre e comunque, indipendentemente dal contenuto.
Parole sante che personalmente condivido e che, per quanto mi riguarda, ho sempre applicato e sostenuto. Se non che Magris si impiglia in una esemplificazione assai poco pertinente a proposito del pacifismo. L´esempio addotto riguarda la guerra in Iraq, sia la prima che la seconda, entrambe deplorate da papa Wojtyla e poi da papa Ratzinger in nome della pace. La sinistra, ricorda Magris, plaudì alla posizione del Vaticano in difesa della pace ma sbagliò. In quel caso infatti il Vaticano si era ingerito indebitamente nel comportamento di governi sovrani e democratici che, magari sbagliando, avevano tuttavia legittimamente portato in guerra i loro paesi. La sinistra perse dunque l´occasione di criticare le ingerenze indebite.
Ecco dove il ragionamento mi sembra completamente sbagliato e fuorviante. La Chiesa predica la pace e si dichiara contro la guerra, specie se si tratti di guerra offensiva e non difensiva. Non si tratta d´una ingerenza ma di un diritto-dovere della religione e di chi la rappresenta. Caro Claudio, tu vorresti che la Chiesa si possa schierare contro una legge in favore per esempio dell´eutanasia, ma non tolleri che parli contro la guerra preventiva di George Bush e di Tony Blair. Quale coerenza è mai questa?
Ma tu, trasportato da una tua logica che a me risulta a questo punto incomprensibile, vai anche più oltre. Rievochi il (colpevole) silenzio di Pio XII sul nazismo e qualche (timida) protesta del Vaticano nei confronti della politica hitleriana e sostieni che pure quelle proteste, ancorché cautissime, erano un´ingerenza, anche se definita auspicabile, contro il governo legittimo della Germania. Qui proprio non ti capisco più.
Il finale di questo strano testo di Magris è invece condivisibile: sarebbe meglio se la Chiesa rinunciasse al Concordato per esser più libera di parlare di tutto senza più dover osservare la distinzione di competenza fra Cesare e Dio.
Giusto. Ma la Chiesa parla già di tutto e si tiene per sovramercato, ben stretta al suo Concordato per i vantaggi cospicui che esso le assicura. Allo stato dei fatti la formula cavouriana della libera Chiesa in libero Stato ha perso ogni significato come l´altro luogo comune di Cesare e Dio. Tutte le modeste difese poste dai Patti Lateranensi sono state smantellate da un pezzo. Quei Patti servono soltanto a garantire gli interessi finanziari della Santa Sede; il resto è silenzio.
Mentre scrivo queste note leggo un articolo di Galli Della Loggia sul "Corriere" del 20 dicembre, intitolato «Una società senza cattolici». Il testo svolge fedelmente il tema enunciato nel titolo, sostenendo che il dibattito culturale e politico in Italia è monopolizzato dai laici laicisti. A me pare incredibile che si possa stravolgere la realtà fino a questo punto. Ognuno ha diritto di dire la sua, naturalmente. Può un vecchio laicista deplorare tesi così lontane dai dati di fatto?
* * *
Vengo ora alla lettera a Welby, di Ignazio Marino. Qui la materia è ancor più sensibile e dolente perché si tratta della sofferenza d´un malato terminale che invoca la morte, chiede d´essere aiutato a morire e ottiene una risposta che dà i brividi.
Ho vissuto in questi giorni un´esperienza dolorosa con la morte d´una persona a me carissima; ho assistito alla sua sofferenza. Mi sono venute in mente le parole di Giobbe:
«Pesate i miei spasimi
E sul piatto mettete la mia cancrena
Peseranno più che le sabbie
Di tutti i mari
Perciò barcollano le mie parole».
Ebbene, Marino riconosce che Welby, come qualunque malato terminale in preda ad una sofferenza atroce, ha il diritto di chiedere una morte assistita. Ma non si può, non c´è una legge che lo consenta. La deontologia medica – ricorda Marino – lo vieta perché il medico deve curare e mantenere in vita, non può e non deve curare la morte. Invita Welby a stringere i denti e andare avanti. Gli propone addirittura di accettare di esser sedato per quarantott´ore al fine di riacquistare le forze e poi, così rinforzato, riprendere a soffrire. Qualora il suo male diventasse ancor più doloroso e richiedesse nuovi interventi e qualora Welby, come suo diritto, li rifiutasse, lo avverte che i medici non potrebbero neanche in quel caso estremo procurargli una buona morte ma assisterebbero impotenti alla sua fine straziante pur di non interrompere "anzitempo" una vita.
Nelle stesse ore il Papa ribadiva, parlando ai giuristi cattolici, il fermo divieto all´eutanasia. C´è da giurare che il cosiddetto laicato cattolico impegnato politicamente farà rispettare in Parlamento i dettati vaticani.
Che dire di quella lettera a Welby dal presidente della commissione parlamentare Sanità, eletto nelle liste dell´Unione? Che dire della crudeltà mentale di cui è intrisa?
Le sofferenze di Welby e dei tanti che si trovano nelle sue condizioni pesano come la sabbia di tutti i mari. E le parole barcollano.
* * *
Gesù di Nazareth, figlio dell´uomo, fece risorgere Lazzaro dal sepolcro e sciolse le bende funebri che lo avvolgevano. La vita buona e la buona morte erano il messaggio che ha lasciato al mondo. Un messaggio di misericordia e di pietà. Accettò d´esser crocifisso affinché nessun altro uomo lo fosse, né nell´anima né nella carne.
Noi vorremmo che il Papa parlasse di questo con parole d´amore e di pietà, non di divieto. Vorremmo che invitasse a sciogliere le bende di Welby e non che gliele stringesse intorno al corpo. Vorremmo che ricordasse dall´alto del suo magistero che Gesù di Nazareth profetizzò la resurrezione dei corpi, per dire che il corpo d´un uomo è sacro e dev´essere rispettato nella sua sacralità e dignità e non inchiodato ai suoi dolori. Vorremmo infine che fosse il capo d´una religione d´amore e non di un´ideologia che esalta il dolore inutile e dissacrante.
Noi non credenti a questo crediamo e per questo ci battiamo nei giorni della Natività di Gesù di Nazareth.

Repubblica 21.12.06
L'ansia di sentirsi normali
L'omosessualità oggi
di Luciana Sica


A lungo la psicoanalisi ha alimentato l'omofobia, ma ora nuovi studi cambiano la situazione Ne parliamo con due analisti
Lingiardi: "L'etichetta dell'immaturità come foglia di fico per coprire il pregiudizio"
Thanopulos: "Attenzione a non perdere di vista il senso profondo delle differenze"

Perché siamo eterosessuali, omosessuali o bisessuali, in realtà nessuno può dirlo, e chi presume di farlo è con tutta probabilità in preda a un delirio di onnipotenza. Nei gusti erotici c´è un po´ di tutto: storie individuali, desideri, tenerezze, tormenti, "affetti" che sfuggono alle spiegazioni generalizzanti, a quella tentazione di costruire delle gabbie identitarie basate su un modo ormai improponibile d´intendere la differenza tra i sessi - il maschile e il femminile come equivalenti di attivo e passivo - senza tenere in nessun conto la "varietà" sempre più vistosa nella declinazione dei generi.
A creare inquietudine sono ancora gli omosessuali - gli eterni "devianti" falsamente tollerati, prima schiacciati dalla vergogna e dallo scandalo, oggi dall´impossibilità di essere normali. La "patologizzazione" dei loro orientamenti è solo in parte una storia non edificante del passato, e per lungo tempo il mondo psicoanalitico non si è sottratto ad alimentare ondate a volte anche crudeli di omofobia.
Ma oggi, ci sarà ancora qualcuno che presuma di sapere come debba essere la sessualità di una persona normale? Su questo "punto", molto in odore di moralismo, interroghiamo Vittorio Lingiardi, psichiatra e analista di formazione junghiana, ordinario di Psicopatologia alla "Sapienza" di Roma. È lui a dire: «La psicoanalisi contemporanea è caratterizzata da un panorama teorico variegato e attraversato da domande senza risposta. Non sappiamo, per esempio, come le forze biologiche, le identificazioni, i fattori cognitivi, l´uso che il bambino fa della sessualità per risolvere i conflitti dello sviluppo, le pressioni culturali alla conformità e il bisogno di adattamento contribuiscano alla formazione del soggetto e alla costruzione della sua sessualità. Né sappiamo se sarà mai possibile rispondere a queste domande. Quello da cui sarebbe opportuno partire, sempre e comunque, è una declinazione plurale delle sessualità: poco alla volta è la tendenza che va prevalendo, seppure con qualche sacca di resistenza».
Si può anche dire che nel passato gli analisti siano stati più realisti del re. Di Freud, che più volte si è riferito all´omosessualità come a «un mistero» o anche a «un problema», e nella celebre Lettera a una madre americana scriveva: «l´omosessualità non è certo un vantaggio, ma non è nulla di vergognoso, non è un vizio, né una degradazione, e non può essere classificata come malattia: noi la consideriamo una variante della funzione sessuale causata da un certo arresto dello sviluppo sessuale». E senz´altro più conformisti di Jung, così attento ai percorsi simbolici della sessualità, che nella conferenza sul Problema amoroso dello studente pronunciò una sua celebre frase: «Non domandate mai che cosa uno faccia, bensì come lo fa».
Lingiardi: «Quando parliamo di "come sono" e di "come amano" gli uomini e le donne, ci troviamo inevitabilmente nel territorio della cultura, del resoconto e della lingua. La teoria psicoanalitica ha invece ecceduto nel generalizzare e universalizzare, presupponendo che mascolinità e femminilità fossero categorie anziché dimensioni. Per molti anni il discorso psicoanalitico sull´omosessualità ha riguardato la sua eziologia, riferibile a un arresto o a una regressione alla fase edipica o pre-edipica, ipotizzando l´esistenza di una linea di sviluppo che tendeva al raggiungimento di un culmine eterosessuale e assicurava la maturità e la salute mentale... È chiaro che l´etichetta dell´immaturità, come quella del narcisismo, per gli orientamenti omosessuali si è andata sempre più rivelando una foglia di fico pseudoscientifica usata per coprire il pregiudizio».
Del resto, quanto la psicoanalisi - la ricerca psicoanalitica - può non essere influenzata dai valori culturali dominanti, dallo spirito del tempo, quanto insomma può davvero sfuggire ai pregiudizi? Non si sottrae a questa domanda, che a noi sembra di buon senso e lui giudica "insidiosa", Sarantis Thanopulos, greco di origine, brillante cinquantenne della Società psicoanalitica italiana: «Il lavoro dell´analista è costruito attorno alla necessità di sospendere il suo giudizio per restituire la parola all´interiorità dei suoi pazienti: i cambiamenti nella società e nella cultura tendono a entrare nella psicoanalisi soprattutto attraverso i loro "casi". E poiché l´interiorità, in ognuno di noi, trova la sua dimensione più privata nelle sfasature con i tempi della vita, la psicoanalisi è dentro e fuori il suo tempo, rimane sempre "intempestiva". Del resto, se perfino le idee dei fisici e dei matematici sono in stretta correlazione con la cultura del loro tempo, come potrebbe la psicoanalisi essere immune ai mutamenti culturali, non esserne influenzata?».
Quello che invece Thanopulos esclude è un´assenza sospetta di "problematizzazione" quando si parla di sessualità in generale, e di omosessualità in particolare. Quel politically correct che tende a banalizzare, appiattire, e soprattutto dissimulare le diffidenze, il sarcasmo, certe forme più o meno sottili di rifiuto.
Dice: «Trovo infondata l´idea che l´erotismo omosessuale sia patologico, ma non mi sembra il caso d´impegnarsi a fare la conta tra gli "innovatori" e i "conservatori", perché in realtà ogni posizione è legittima e problematizza l´altra. Soprattutto non dimenticherei che un certo aspetto "eretico", una certa "devianza" dell´omosessualità ha sempre avuto una funzione molto importante: quella di destabilizzare lo statuto normativo della sessualità. Certo, non è possibile inchiodare eternamente gli omosessuali al polo trasgressivo della sessualità, ma bisogna stare attenti - nel passaggio verso la "normalizzazione"- a non perdere di vista il senso profondo delle differenze, a cancellare le tensioni che ci sono. Il nostro mondo interno è abitato da fantasie eterosessuali e omosessuali - per quella bisessualità psichica di cui parlava già Freud. Credo che smettere di promuovere questa dialettica dentro di noi, anche con i conflitti che comporta, sarebbe una semplificazione e un impoverimento della vita interiore».
Molto interessante è la posizione di Thanopulos su quella che definisce la componente omosessuale nelle relazioni tra uomo e donna, «laddove - si legge in Ipotesi gay - la differenza dei sessi è insieme desiderata e ripudiata». Qui spiega: «Lo statuto della sessualità è sempre antinomico perché l´incontro con un altro corpo consente sia di perdere sé stesso sia di ritrovarsi. È un´antinomia molto accentuata nell´adolescenza, perché la diversità dell´altro attrae, ma ferisce anche, rende vulnerabili, spaventa: la paura è quella di perdersi senza più ritrovarsi. Qui una corrente "omofilica" viene in soccorso dell´eterosessualità, perché smorza e insieme protegge l´incontro con l´altro sesso. Quando però nella vita adulta permane la ferita adolescenziale, nell´incontro erotico tra uomo e donna una certa componente omosessuale può dominare la scena».
Più in generale - dice Thanopulos - il vero rischio oggi «è la sempre più diffusa presenza di "autoerotismo" staccato dal resto della sessualità, che colpisce in egual misura relazioni omosessuali ed eterosessuali. In questa deriva, l´altro diventa uno strumento di piacere: non è più un soggetto, non è una persona intera e autonoma, in realtà non ti coinvolge, non può entrare nella tua vita».
Il vero spartiacque nella sessualità umana non sarebbe allora tra eterosessualità e omosessualità, ma piuttosto tra un autoerotismo di segno narcisistico e la capacità di riconoscimento profondo dell´altro: quella che gli analisti definiscono "scelta oggettuale" e noi, più semplicemente, diremmo: amare davvero qualcuno, uomo o donna che sia.
In ogni caso gli analisti di oggi sembrano ormai molto lontani dal considerare gli omosessuali come dei "malati". Magari un po´ perversi, compulsivi, immaturi, narcisisti, regressivi, forse sì, ancora. E purtroppo non può far testo la citazione di un grande come Christopher Bollas, che già nel ´92 scriveva: «ogni tentativo di costruire una teoria generale dell´omosessualità può essere soddisfatto solo al prezzo di gravi distorsioni delle discrete e importanti differenze tra omosessuali, atto che potrebbe costituire un "genocidio intellettuale"».
Come a dire: se spostiamo l´attenzione sulla qualità e le dinamiche delle relazioni, si può parlare ancora di omosessualità al singolare? Ci saranno gli omosessuali capaci di amare e quelli che ancora saltabeccano da un corpo all´altro, forse più disperati che "gai": in fondo, niente di così tanto diverso da quello che accade negli incontri raramente idilliaci degli eterosessuali, in tante loro storie non si sa se più aride o sgangherate.

mercoledì 20 dicembre 2006

La Stampa 19.12.06
Nascere è come un sogno
di Rosalba Miceli


La nascita comporta una moltitudine di transizioni. I meccanismi che intervengono al momento del parto sono in gran parte sconosciuti. Cosa succede al bambino che sta per nascere? Come riesce a superare lo stress del travaglio? Sembra che alcuni segnali molecolari tra madre e feto abbiano lo scopo di preparare il cervello del feto alla nascita e di aumentare la resistenza al trauma. L’ossitocina materna, oltre ad indurre le contrazioni uterine, potrebbe avere il ruolo di sedare l’attività neuronale del feto poco prima e durante il parto, proteggendone il cervello dagli effetti di una ipossia transitoria. E’ quanto emerge dai risultati di uno studio realizzato in collaborazione tra l’Istituto di neurobiologia dell’INSERM di Marsiglia e l’Università di Amburgo, pubblicato sulla rivista “Science” del 15 dicembre.
Il feto umano è costretto entro il canale del parto per alcune ore, durante le quali la testa sopporta una notevole pressione e il nascituro subisce a intermittenza una privazione di ossigeno per la compressione della placenta e del cordone ombelicale in seguito alle contrazioni dell’utero. Il cervello deve essere difeso in qualche modo. I ricercatori franco-tedeschi hanno individuato un legame tra l’ossitocina e le variazioni di eccitabilità neuronale. Il processo è mediato dal GABA (acido gamma-aminobutirrico), un neurotramettitore il quale normalmente ha una funzione eccitatoria sui neuroni fetali e inibitoria una volta che essi maturano. L’esposizione all’ossitocina materna nelle fasi del parto agisce da interruttore molecolare che cambia il segnale del GABA da eccitatorio ad inibitorio, quietando il cervello del feto e mantenendolo in una sorta di “standby”. Un effetto opposto si verifica quando poco prima della nascita viene somministrato un antagonista che annulla l’azione dell’ossitocina. In questo caso si aggravano anche gli effetti degli episodi di ipossia sui neuroni fetali.
Gli esperimenti sono stati condotti sui ratti seguendo i protocolli standard sull’uso degli animali di laboratorio. Le tecniche adoperate prevedevano l’impiego di strumentazioni sofisticate per studiare la cascata di eventi che si realizza a livello cellulare e molecolare e la messa a punto di algoritmi per l’ottimizzazione delle analisi. Con le dovute cautele, è possibile ipotizzare che un meccanismo simile funzioni anche negli altri mammiferi, uomo compreso. I neuroscienziati sanno da tempo che l’ormone ossitocina è fondamentale per la sopravvivenza del feto e del neonato perché interviene direttamente nel travaglio e nell’allattamento e media il complesso meccanismo dell’attaccamento tra madre e figlio che si va organizzando in carezze, abbracci e una miriade di altre interazioni fisiche e simboliche. Sembra che la natura abbia predisposto anche un sistema per proteggere il bambino nel momento più rischioso e per far sì che la nascita assomigli il più possibile ad un sogno.

l'Unità 20.12.06
Il «caso Massimo» e Welby: le leggi ci sono
di Mariella Immacolato


Gli stralci della motivazione, riportati dalla stampa, con cui il giudice Angela Salvio ha respinto il ricorso di Piergiorgio Welby che chiedeva la sospensione della ventilazione assistita sotto sedazione, suscitano sorpresa e perplessità. Si legge che Welby non può far valere il diritto di rifiutare le cure che la Costituzione gli riconosce con ben due articoli, 13 e 32, perché manca nel nostro ordinamento una legge che preveda e tuteli tale diritto. Non è condivisibile questa impostazione, perché le leggi ci sono ma si tratta di darne applicazione. Ci si riferisce alla legge 833 del 1978, che ha istituito il sistema sanitario italiano, e alla legge 180 sulla salute mentale, sempre richiamate quando si parla di consenso informato, che all’art. 33 e all’art.1 stabiliscono, senza possibilità di equivoci, che i trattamenti sanitari sono di norma volontari. Per potere imporre un trattamento occorre, sempre secondo quanto previsto dalle leggi citate, dal nostro ordinamento più in generale e dal codice di deontologia medica, che questo sia previsto obbligatorio da una legge. E non risulta che vi sia una legge che imponga a Welby di proseguire la ventilazione assistita contro la sua volontà.
Si legge anche che nel momento in cui la coscienza di Welby si spegne nessun medico può essere obbligato a seguire la volontà del paziente precedentemente espressa. Vale a dire che le quattro sentenze del “caso Massimo” che nel ’92 hanno di fatto introdotto il consenso informato nella pratica clinica non hanno più alcun valore giuridico.
A chi avesse dimenticato quel leading case italiano, si rammenta che il chirurgo Massimo fu condannato per omicidio preterintenzionale perché durante l’intervento chirurgico aveva cambiato il tipo di operazione concordato precedentemente con la paziente. I giudici allora ritennero che il fatto che la paziente fosse addormentata non toglieva valore alla sua volontà e che il medico era tenuto a rispettare proprio per l’inviolabilità della persona umana sancita dalla Costituzione. Sentenza Corte di Cassazione n. 699 del 1992 «...la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere o, peggio, dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto, trattandosi di una scelta che (...) riguarda la qualità della vita e che pertanto lui e lui solo può legittimamente fare».
Ritornare a discutere su principi che con tanta fatica si sono affermati è doppiamente colpevole. Perché così si rischia di farli rientrare di nuovo tra i principi “di carta”, cioè tra quelli previsti dalle norme ma disattesi nella pratica. Perché si arresta il faticoso cammino della affermazione del linguaggio dei diritti in sanità.

Consulta di Bioetica
Direttore Unità operativa di medicina legale Asl 1
di Massa e Carrara


il manifesto 20.12.06
l'opinione
Strappi continui alla laicità dello stato
di Vera Pegna
*


Un concetto quasi del tutto assente nel dibattito che riguarda la richiesta di Piergiorgio Welby di porre fine alla propria vita di intollerabili sofferenze è quello della laicità dello stato. Eppure se la richiesta di Piergiorgio Welby non viene accolta è perché la nostre legge in materia di eutanasia, lungi dall'essere laica, è basata su pregiudiziali di carattere religioso. Così come lo sono le attuali insulse elucubrazioni sulla famiglia e le coppie di fatto, persino in materia di successione. Nel caso di Welby basta chiedersi a chi appartenga la vita di ciascuno di noi, se a noi stessi o allo stato e che cosa significhi la libertà di coscienza sancita dalla nostra Costituzione per capire che la nostra legge conculca la libertà di coscienza di chi è perfettamente in grado di intendere e di volere.
Purtroppo non credo che le posizioni accomodanti dei nostri politici verso le gerarchie vaticane siano interamente dettate da opportunismo. Temo siano il frutto di una cultura intrisa di confessionalismo che non discerne il primo dei diritti umani che è la libertà di decidere della propria vita da un'inconsapevole subalternità ideologica ai precetti della dottrina morale cattolica. In questo senso le dichiarazioni rilasciate dal Presidente della repubblica in queste ultime settimane sono emblematiche, ma non sorprendenti. Non sorprendenti dato che Giorgio Napolitano ha fatto parte della Convenzione dell'Unione europea che ha redatto la bozza del trattato costituzionale europeo la quale tace sul principio della laicità delle istituzioni e riconosce alle chiese un ruolo istituzionale. E Benedetto XVI giustamente se ne rallegrò. Non sorprendenti poiché Napolitano si rivolge al Papa chiamandolo «Santità», appellativo nient'affatto protocollare e tanto meno laico che denota particolare riverenza e soggezione.
Lo stato e la chiesa dovrebbero ricercare «soluzioni ponderate e condivise sulla libertà di ricerca, sui suoi codici, sulle regole e i più complessi temi bioetici», ha dichiarato Napolitano in occasione della «Giornata per la ricerca sul cancro», riconoscendo pertanto alla chiesa cattolica - entità non eletta quindi non rappresentativa - la dignità di interlocutrice su temi di pertinenza parlamentare. Tale affermazione disturba gli equilibri democratici dato che fa pesare il piatto della bilancia a favore dei cittadini cattolici.
«Chiesa e stato sono chiamati a servire gli stessi valori di moralità e di equità» ha dichiarato il nostro Presidente, forse non pensando che lo stato non difende valori ma principi, quelli sanciti dalla Costituzione della repubblica, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, peraltro non sottoscritta dalla Santa sede. In sintesi: per lo stato la pedofilia è reato, per la chiesa (e per Ratzinger in persona) non lo è: è solo peccato. Per lo stato la contraccezione è lecita, mentre la chiesa condanna l'uso del profilattico anche nel caso di popolazioni decimate dall'aids come quelle del Ruanda: per noi tale condanna è assimilabile all'istigazione a delinquere. L'Italia ha firmato le convenzioni del Consiglio d'Europa che vietano la discriminazione delle donne, mentre la Santa sede non le ha firmate e discrimina le donne anche al suo interno. Per lo stato, le coppie di fatto non vanno discriminate, per la chiesa sì e lo stesso dicasi per gli omosessuali e per i non credenti i quali, per la chiesa, sono persone «senza fondamento». Lo stato vuole eliminare, almeno in teoria, privilegi e discriminazioni. La chiesa invece esige i primi e pratica le seconde.
Grave anche l'affermazione di Giorgio Napolitano secondo cui la chiesa e lo stato hanno una «comune missione educativa». La missione dello stato è di unire tutti i cittadini, di educarli allo spirito critico e alla libertà di coscienza. La chiesa cattolica divide, intimorisce, assoggetta.
Mi domando se davanti a tanti e tali strappi alla laicità dello stato non sia il caso di parlare di emergenza democratica.
* rappresentante federazione umanista europea presso l'Osce

il manifesto 20.12.06
bioetica
Quella politica della vita che invoca la giusta morte
La richiesta di Piergiorgio Welby mette in evidenza la pretesa dello stato di regolare vita e morte dei suoi sudditi. Un tema ampiamente discusso dalla filosofia contemporanea e che va al di là della contrapposizione tra cattolici e laici Un percorso di lettura a partire dalla riflessione di Michael Foucault, dove diritto statale e affermazione dell'autonomia individuale incontrano ciò che la norma non può regolare
di Roberto Ciccarelli


In un sondaggio condotto nel 2002 dal Centro di Bioetica dell'Università Cattolica di Milano tra 259 rianimatori, operatori di prima linea che curano persone la cui sopravvivenza è affidata a macchine, il 3,6% dei medici dichiarò di aver somministrato volontariamente farmaci letali (eutanasia attiva). Il 96,4% negò di averlo mai fatto. Il 15,8% degli intervistati considerò tuttavia questa iniziativa accettabile. Ma il dato più interessante fu senz'altro un altro: il 19,3% del campione negò di aver mai attuato la sospensione delle cure (ad esempio staccare il respiratore, interrompere l'erogazione dell'ossigeno). Il 38,6% riconobbe di averlo fatto almeno in un'occasione, il 42% «più spesso». In nessun caso questo «atto medico» è stato riportato sulla cartella clinica per il timore di essere denunciati dai parenti e finire in tribunale.
Nel 2004, in Gran Bretagna, 2865 malati terminali sono stati aiutati a morire dai medici. E' il risultato di un sondaggio condotto anonimamente tra 857 specialisti lo scorso gennaio. Tra questi decessi assistiti, 936 furono provocati a seguito di una domanda esplicita del malato. Gli altri (1929 casi) non hanno fornito istruzioni specifiche sulla modalità della loro morte a causa del coma sopraggiunto. La pratica della «morte opportuna» è illegale in Gran Bretagna come nella maggior parte dei paesi europei, salvo Olanda, Belgio e Svizzera, ma sembra che questi dati siano addirittura inferiori alla media europea.

La sovranità sulla vita
Queste informazioni sono tornate d'attualità dopo che Piergiorgio Welby, co-presidente dell'associazione Luca Coscioni, affetto da distrofia muscolare progressiva, ha riportato l'attenzione sul continente sconosciuto dei malati terminali in Italia, evidenziando la difficoltà delle istituzioni di affrontare il problema in maniera chiara e definita. La sentenza del Tribunale di Roma che il 16 dicembre scorso ha definito «inammissibile» il suo ricorso, ha riconosciuto allo stesso tempo il suo diritto di chiedere l'interruzione della respirazione assistita. Il «vuoto legislativo» che la giudice Angela Savio ha riscontrato nella legislazione ha evidenziato un corto circuito nella prerogativa «biopolitica» e costituzionale degli stati di diritto occidentali che impone la protezione della vita, anche a costo di separarla dalla persona che la detiene. Davanti alla richiesta di Welby di interrompere le cure e scegliere la morte piuttosto che continuare a vivere in maniera disumana, lo stato non può autorizzare alcuna forma di «accompagnamento alla morte» che mette fine all'esperienza di una vita che vegeta artificialmente negli ospedali o nel buio delle nostre case, pena la legittimazione dell'eutanasia.
Nei gioni scorsi, molti degli interventi di commento attorno al «caso Welby», hanno sostenuto che è la difficoltà di distinguere tra eutanasia e accanimento terapeutico ad impedire una definizione normativa della situazione delle persone come Welby. Se fosse solo così, duplice sarebbe la soluzione: «staccare la spina» come atto di disobbedienza civile in mancanza di una legge. Oppure attendere l'elaborazione di linee guida da parte del Comitato di bioetica. Nel primo caso, avremmo una disobbedienza civile che mette a un nudo non l'insopportabilità di una legge, bensì la sua assenza. L'attesa di un pronunciamento del Comitato di bioetica congela una situazione, quella di Welby, e rinvia ogni decisione a tempi futuri. Ma uno degli aspetti rilevante di questa vicenda e che radicalizza un tema molto rilevante nella discussione filosofica di questi anni. Il «caso Welby» porta infatti alle estreme conseguenze la prerogativa «biopolitica» che Michel Foucault attribuiva ai moderni stati di diritto costituzionali: la presa del potere sull'uomo come essere vivente e la «statalizzazione» della sua vita biologica.
Quella di Welby, e di coloro che la sostengono, è infatti la rivendicazione più estrema del ruolo biopolitico dello stato: difendere la vita sino in fondo, sia che si tratti di garantirne le prerogative più alte, sia che si tratti di impartirle una «buona morte». Da questo punto di vista, è comprensibile la reazione di chi negli ultimi giorni ha respinto l'accusa secondo la quale si vuole attribuire per legge al paziente, o ai suoi familiari, un potere «tanatopolitico» che stabilisce, in base alla contingenza di un dolore proprio o altrui, quale vita sia degna di essere vissuta. A loro avviso, deve essere lo stato ad occuparsi di un problema che riguarda la vita dei suoi cittadini, dato che è la sua stessa costituzione repubblicana a prevederlo all'articolo 32.

La sacralità della tecnica
Il Tribunale di Roma, il ministro della Sanità Livia Turco e il Comitato di bioetica sono dunque in imbarazzo perché il caso di Welby ha portato alla luce una crepa nella biopolitica statale. La richiesta di ricevere una «morte dignitosa» rivela infatti la difficoltà delle autorità politiche a riconoscere quello che è il rovescio della loro logica, oppure la sua logica continuazione. Il potere biopolitico non dovrebbe infatti occuparsi solo della vita, ma anche della sua parte oscura, quella che si manifesta nella malattia, nella sofferenza e porta anche alla morte. La morte rimane però un oggetto sul quale la biopolitica sembra esitare, quasi fosse estraneo alla materia che intende amministrare, sebbene le sue prerogative dicano esattamente il contrario.
Né rivendicazione al suicidio, né invocazione di un dovere dello stato ad impartire la morte, l'azione di Welby può essere tuttavia intesa come un potenziamento della biopolitica contemporanea, ma è anche il suo punto massimo di crisi. Sebbene questi diritti siano stati sanciti dalla Convenzione europea di biomedicina sottoscritta dall'Italia nel 2001, dalla Carta dei diritti dell'Unione Europea, dalla Convenzione sulla biomedicina, dal Codice di deontologia medica del 1999, come ha ricordato Stefano Rodotà nel suo La vita e le regole. Tra diritto e non diritto (Feltrinelli, pp.288, € 19), la vita che s'intende proteggere manifesta un carattere inquietante e irregolare che rende manifesto un limite non giuridico e non politico oltre il quale anche il potere politico più attento ai diritti delle persone preferisce non avventurarsi.
Il problema è dunque più ampio di un scontro tra cattolici e laici. I primi, è noto, sostengono che nessuno può sottrarre la vita al suo decorso naturale, anche quando essa va incontro a sofferenze indicibili, perché rischia di ledere la «dignità inviolabile della vita umana». «La vita è un dono di cui il soggetto non ha completa disponibilità», ha affermato Benedetto XVI nel messaggio per la «Giornata della Pace» del 12 dicembre scorso, un discorso teso a stabilire vincoli all'azione del governo e a bloccare ogni possibile apertura del parlamento alle richieste di Welby. I secondi sono invece portati a «moralizzare» la natura umana attraverso la creazione di «nuovi tabù artificiali» che legano la vita al rispetto dei valori stabiliti dalle autorità (la chiesa o lo stato). Entrambe queste posizioni si scontrano in un dilemma altrettanto gravoso: la sacralità della vita chiede al malato di dipendere dalla macchina o di dire no? A questa domanda il filosofo cattolico Giovanni Reale ha risposto con parole sagge: «Dobbiamo guardarci dal pericolo di trasferire l'idea di sacralità della vita nella sacralità della tecnica».
Una posizione di mediazione tra la rivendicazione della «sacralità», fatta dai cattolici, e dell'«intelligenza» della vita, fatta dai laici, è stata proposta da Umberto Veronesi nel dialogo con Giulio Giorello, La libertà della vita (a cura di Chiara Tonelli, Raffaello Cortina Editore, pp. 115, euro 9). Il direttore dell'«Istituto Europeo di Oncologia» di Milano e il filosofo della scienza della Statale di Milano hanno il merito di avere portato alla luce l'elemento inquietante che tormenta la biopolitica contemporanea. A destare il disagio degli ambienti teologici, come di quelli laici, è infatti una certa idea della «natura umana»: crudele, imprevedibile e spaventosa alla quale si cerca di rimediare mediante un'ortopedia medica o giuridica. Con il risultato, talvolta paradossale, di separare la «vita» dal vivente, considerandola un valore morale o giuridico trascendente alle sue condizioni oggettive. Capita così di considerare intoccabile la vita della persona, ma tecnicamente modificabile il Dna dei vegetali (come ritiene la Chiesa). Oppure di estenuare la vita con le tecnologie alla ricerca di un rimedio impossibile ad una malattia cronica (il dilemma che ossessiona i medici davanti a casi di particolare gravità). Il risultato, possibile ma non certo, che entrambe queste visioni possono trasformarsi in una tirannia: teocratica o tecnica. Contro questi paradossi, l'appello di Veronesi e di Giorello a ciò che unisce scienza e religione: la tutela della dignità umana.
Roberto Mordacci, docente di filosofia morale al San Raffaele di Milano, autore, tra l'altro, di Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica (Feltrinelli, pp.410, €26) ha condotto una riflessione utile per definire il contenuto della dignità umana dal punto di vista della bioetica. A differenza di Veronesi e di Giorello, Mordacci attribuisce alla bioetica un contenuto normativo che la distingue tanto dall'etica medica, il cui scopo è di orientare il giudizio morale nel contesto delle scelte cliniche, quanto dal bio-diritto che mira alla definizione della vita in ambito giuridico. La bioetica è una teoria morale di stampo kantiano che vincola il trattamento medico e giuridico della vita alla massima kantiana del rispetto: «agisci in modo da rispettare ogni persona come fine in sé». Da questo punto di vista, il bene del paziente è ritenuto superiore al «bene medico» e costituisce una sorta di ammonimento contro il «paternalismo» dello stato che intende occuparsi della sua vita fino al punto di portarla alla morte.
Davanti ai «casi cronici», scrive Mordacci, lo stato deve rispettare la dignità umana ed evitare di espropriare il bene di un paziente imponendogli l'obbligo della cura. In questo caso il rischio è di separare la protezione dei diritti della persona da quelli del suo corpo, considerando la vita come uno strumento del potere e non il suo fine. Casi come quelli di Welby, conclude Mordacci, dovrebbero essere trattati seguendo l'articolo 32 della Costituzione italiana: «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario». All'individuo viene riconosciuto il diritto di decidere quando una cura diventa accanimento terapeutico e, nel nome del rispetto di sé, di rifiutarla senza per questo arrivare al suicidio o invocare l'eutanasia.
Non c'è dubbio che è proprio la rivendicazione della «dignità umana» ad avere provocato un cortocircuito nella biopolitica statale. Per il filosofo tedesco Ernst Bloch, di cui l'editore torinese Giappichelli ha di recente tradotto il classico Diritto naturale e dignità umana (Giappichelli, pp.327, euro 30, a cura di Giovanni Russo), la dignità invocata dagli «oppressi» e dagli «umiliati» è una richiesta non assimilabile ai criteri statali che regolano la «giustizia», cioè l'adeguazione di una situazione ad una norma universale. Oggi questa rivendicazione, che per Bloch indicava una via d'uscita dalla società borghese, fa capolino nelle nuove battaglie per i diritti dei malati e, più in generale, per i cosiddetti diritti di «quarta generazione» che fanno attenzione alla vita dei singoli.
Per Bloch, la dignità umana non è una norma universale ratificata dallo stato, ma un fine da raggiungere che muove il desiderio di ciascuno. Per questa ragione è impossibile fornirne una definizione precisa. La dignità resiste allo sfruttamento economico, non si piega al bisogno e all'umiliazione, sfugge alla gabbia d'acciaio della legge. La giustizia è invece la manifestazione autoritaria di un comando dello stato e le sue disposizioni sono sempre autoritarie. Un cortocircuito che illustra la ragione per cui, quando si parla di «diritto alla morte dignitosa», lo stato erge quasi sempre le barriere protettive della giustizia contro la richiesta di riconoscimento della dignità personale. Per Bloch la dignità è invece l'espressione di una solidarietà più ampia degli esseri umani, e non solo del diritto soggettivo che lo stato riconosce ad un singolo. L'individuo non è una monade responsabile e autonoma, ma è un soggetto sociale che si affida alla solidarietà dei suoi simili quando si tratta di stabilire i confini politici e giuridici di una «vita dignitosa».

Diritto di resistenza
La lettura di Diritto naturale e dignità umana può tornare utile per neutralizzare il conflitto tra la legge e la morale, la sindrome che colpisce laici e neoconfessionali quando si tratta di legiferare sulla vita e, in generale, sulle questioni bioetiche. Qualcuno, forse a ragione, potrebbe lamentarsi del giusnaturalismo blochiano che attribuisce all'«umano» un valore superiore alle umane leggi. In parte è così, ed è un rischio che corrono tanto le vie laiche quanto quelle neo-confessionali alla biopolitica. Ma Bloch attribuisce a questa «umanità» il significato storico ed immanente di una costruzione condivisa che deriva da un atto politico: il diritto di resistenza.
In principio diritto liberale rivendicato durante le rivoluzioni europee tra il XVIII e il XIX secolo per resistere ai soprusi del governo nella sfera personale e associativa degli individui, oggi quello della resistenza è un diritto comune evocato da chi chiede più dignità per sé e per gli altri nella malattia. Per usare il linguaggio di Bloch, la solidarietà umana che va oltre i legami parentali e si afferma come legame politico. Davanti alla crisi della biopolitica contemporanea, chi afferma la solidarietà tra gli uomini sani o malati, normali o anormali, auspica la prevalenza dei diritti soggettivi su quelli oggettivi, della dignità sulla giustizia, della vita sul potere normativo della legge.

lettera a "Liberazione"
di Carlo Patrignani


Caro Piero,
Appena tre mesi fa a 'Liberafesta' c'e' stato un animato confronto (davanti ad un folto pubblico, attento e preparato, colto ed intelligente, tanti giovani e soprattutto tante donne, cosa rarissima da vedere in giro.. ecco queste righe sono state tagliate.. ) sull'informazione in generale e di sinistra in particolare. Sarebbe bello non disperderne il ricordo ed il significato. Tre mesi dopo, una strage, tre donne e un bambino di due anni uccisi spietatamente, un tunisino di 25 anni, marito di una delle tre donne e padre del piccolo, e un indigesto indulto, generano un pericoloso 'corto circuito' nei maggiori mass media: il magrebino e' l'assassino, l'autore della strage che ha potuto compiere grazie all'indulto. Passano poche ore e i fatti smentiscono l'assurdo teorema: non e' stato il 25enne tunisino a compiere la strage e l'indulto non c'entra nulla come in altre occasioni. Quale sia il meccanismo mentale per cui certi mass media ma anche certi benpensanti costruiscono un falso, il Mostro che uccide grazie all'indulto, non lo so compiutamente: mi viene in mente 'volere che sia' che diventa 'sapere che e''. Ossia, il tunisino, in quanto extracomunitario, di altra cultura e altro colore della pelle, e' di per se un pericolo, una minaccia, e’ vissuto come il Mostro (il Male), (per l'occidentale, l'italiano che, evidentemente, crede, si considera 'Superiore' o, viceversa, ritiene l'altro, il tunisino, 'Inferiore'. Un tempo, si comportava cosi’ un certo Adolf Hitler, ma anche un certo Giuseppe Stalin: non a caso fecero il ben noto patto del 1939 per dividersi la Polonia: altro pezzo tagliato). L'orrenda strage familiare (si dimenticano le 450 vittime l’anno all'interno della 'Sacra Famiglia') da esorcizzare subito, ha pronto l'autore, il Mostro, (Il Male) che ha potuto agire grazie all'indulto: e il gioco e' fatto, salvo esser sonoramente smentito dai fatti. Si e' stravolta la realta', dunque: e forse non per disattenzione ma deliberatamente. Se questo e' il modo di fare informazione in generale, e lo e' anche se non sempre cosi' evidente e trasparente, l'informazione di sinistra puo' dirsi immune e fuori pericolo? Se volere che sia, lo si applica, che so io, alla politica o alla psichiatria, puo' accadere che si da' per scontato e certo che Marx e il comunismo non hanno fallito l'emancipazione e la liberazione dell'Uomo o che la legge 180 e il freudismo hanno risolto il problema della malattia mentale perche' e' stata trovata la cura e quindi la guarigione: dal volere che sia, si passa, allora, al sapere che e', che, ovviamente, non corrisponde alla realta' dei fatti. (Mi fermo qui, perche’ dovrei dire della Religione, del Papa: mi limito solo a rilevare che ogni giorno Sua Santita’ ci dice quello che e’ Bene e quello che e’ Male e i mass media dietro a ripetere… altre righe tagliate) Vorrei che non ti scordassi l'incontro di tre mesi fa e sia possibile proseguire quella "ricerca sulla realta' umana, sulla mente umana" che il tuo giornale ha, laicamente e coraggiosamente, avviato senza preoccuparsi del 'quieto vivere'.
Carlo Patrignani




Corriere della Sera 20.12.06
Alternativa socialista: la svolta di Bertinotti
Svolta di Bertinotti: un think tank «per il socialismo»
Il presidente sarà il direttore della rivista


ROMA — Da presidente della Camera non ha mai smesso di essere un leader politico, e se tutti si sono ormai abituati al suo «doppio ruolo», nessuno si sarebbe aspettato che Fausto Bertinotti decidesse di diventare anche il direttore di una rivista: «Alternative per il socialismo».
Già dal nome del periodico s'intuisce l'obiettivo che sta dietro il progetto editoriale, fa capire il motivo per cui Bertinotti ha deciso di guidarlo: perché «Alternative per il socialismo» non sarà solo un bimensile, ma soprattutto l'arma culturale di un disegno politico, la risposta al Partito democratico, il tentativo di costruire a sinistra un'area capace di raccogliere quanti non accettano di confluire nella nuova formazione riformista.
L'idea della rivista risale alla scorsa estate, quando venne sottoposta a Bertinotti, che sulle prime si mosse con grande prudenza, perché temeva di entrare in conflitto con la carica che ricopre di presidente della Camera. Sciolse la riserva appena seppe di un «illustre precedente», quello di Giovanni Spadolini che da presidente del Senato dirigeva anche «Nuova Antologia». Da quel momento si è gettato nell'impresa, e ha contribuito in prima persona a scrivere il piano editoriale. «Mi sento istituzionalmente coperto», sostiene Bertinotti, che si dice «affascinato» dal progetto, tanto da aver presieduto ieri la prima riunione di redazione del periodico.
Il nome incrocia da una parte l'esperienza di «Alternative», foglio culturale del Prc, dall'altra richiama lo storico giornale «Problemi del socialismo» fondato da Lelio Basso, uno dei fondatori del Psiup. Ovviamente si tratta di riferimenti non casuali, segnano il profilo dell'intrapresa, ne lasciano intravedere il percorso culturale. Ed era scontato che per realizzare il bimensile Bertinotti volesse al suo fianco persone di fiducia. Il nucleo della redazione è stato infatti affidato alla senatrice Rina Gagliardi e al sottosegretario Alfonso Gianni, e comprende il dirigente sindacale Tiziano Rinaldini, l'ex direttore di «Aprile» Aldo Garzia, e due giornalisti di «Liberazione»: Anubi Lussurgiu Davos e Angela Azzaro. Il direttore responsabile sarà Domenico Iervolino, professore di Filosofia teoretica all'Università di Napoli, che aveva già guidato «Alternative».
Il presidente della Camera ha impostato la linea editoriale della rivista, che dovrà essere «coraggiosa» e «assai poco ortodossa». L'ambizione è quella di far diventare «Alternative per il socialismo» ciò che furono i «Quaderni Rossi» alla vigilia del '68, un laboratorio di idee e dunque un punto di riferimento culturale. Per riuscirci, il «coraggio» a cui si riferisce Bertinotti sarà quello di avviare un processo di «revisione da sinistra e non da destra del comunismo»: «Solo così ci apriremo al nuovo». Ecco la sfida che intende avviare l'ex segretario del Prc, l'intento di una «nuova svolta», pari a quella del congresso di Venezia, quando portò Rifondazione ad abbracciare le tesi della non violenza. L'obiettivo politico è evidente. Nel nome della rivista quel richiamo esplicito al «socialismo» serve da magnete, riporta a un concetto assai caro a Bertinotti: «È ora che il comunismo libertario si riunifichi con il socialismo radicale». Non è il preannuncio di un cambio di nome del Prc, anche perché il presidente della Camera — sebbene coltivi da anni in cuor suo questo pensiero — sta attento a non pregiudicarlo, e si muove con la logica dei piccoli passi. Ma che qualcosa sia in incubazione lo si capisce dai ragionamenti svolti attorno alla rivista, che dovrà essere «un luogo dove si mettono a confronto non solo le esperienze del comunismo, ma anche quelle del socialismo e del cattolicesimo democratico».
A fronte della crisi identitaria che ha provocato a sinistra il Partito democratico, Bertinotti contrappone dunque un progetto alternativo, tanto ambizioso quanto difficile. Per riuscirci ha deciso di usare anche la rivista, così potrà piantare il seme di una nuova formazione politica, darle il tempo di mettere le radici sotto il profilo culturale, e poi lavorare per farla crescere, per arrivare a quel «quindici per cento» che il capogruppo di Rifondazione, Gennaro Migliore, definisce come «un obiettivo realizzabile».
Il «direttore» ha indetto una nuova riunione di redazione subito dopo le feste, per stilare la lista dei collaboratori: Pietro Ingrao sarà invitato a scrivere, e c'è chi pensa anche di coinvolgere Achille Occhetto, l'uomo della Svolta del Pci. Ci saranno poi economisti neo-keynesiani come Riccardo Bellofiore, esponenti del mondo ambientalista e femminista. Ma il fiore all'occhiello saranno i contributi internazionali. Su quelli sta lavorando Bertinotti in persona, sfruttando il suo ruolo di presidente della Sinistra Europea: sul primo numero, in programma tra febbraio e marzo, è previsto un contributo di Oskar Lafontaine, leader della Linke tedesca. Si parte e non solo per arrivare nelle edicole...