sabato 12 dicembre 2015

Corriere 12.12.15
Il duello al sole con Picasso La regia è di Gertrude Stein Nel salotto parigino L’intellettuale gestì abilmente la rivalità. Finendo per stimolare il genio di entrambi
di Roberta Scorranese


Un gran freddo. La Rive Gauche che si quieta in un’alba brumosa di primo Novecento. Leo è di là che dorme. È in quest’ora solitaria che Gertrude Stein guarda il suo salotto in disordine e riflette: Braque è stato di umor nero tutta la sera, Matisse non ha detto una parola, un po’ tutti sono stati sopraffatti da quel ventiquattrenne di Malaga. Quel Picasso, piccolo, scuro e un po’ spaccone che va dicendo «Zitti tutti, sto inventando l’arte moderna».
Bene. Questa casa affollata in rue de Fleurus 27, questo caos fatto di parole, polemiche, alcol e fumo, rivalità eccellenti, questo mondo la contiene. È un personalissimo teatro che Gertrude aveva messo in piedi nel 1904, quando, trentenne, aveva lasciato San Francisco, gli studi pigri di medicina, la ricchezza di famiglia e aveva raggiunto il fratello Leo a Parigi. Com’è diverso Leo, pensa Gertrude sedendo alla scrivania. Lui, allievo di Bernard Berenson, nel 1902 ha comprato il suo primo Cézanne. E adesso segue con attenzione quel sempre meno silenzioso duello che ogni sabato sera, in rue de Fleurus 27, si consuma tra tappeti e stampe antiche: Matisse contro Picasso. No, anzi, riflette Gertrude: è Picasso che provoca, punzecchia (stimola?) Matisse.
Matisse, un gran signore: 36 anni, felicemente sposato, ha successo, sensibilità, il rigore della nordica Piccardia. Gertrude si guarda intorno: questa casa è piena di suoi quadri, il Fauvismo è una sua creatura. Che cosa pensa di fare quello spagnolo? Eppure quel Picasso le ha fatto un ritratto e quando lei gli ha detto che non le rassomiglia, lui non si è scomposto: «Non preoccuparti, sarai tu che presto comincerai ad assomigliargli».
Bene. Le piace tutto questo. Lei, Gertrude, non ama le rassicurazioni borghesi. Salvo quando pensa a Alice Babette Toklas: un’americana bruna, segaligna, intelligente, che si è appena trasferita a Parigi. Vorrebbe chiederle, magari con indifferenza, servendo il tè: «Vuoi sposarmi?» (lo farà: formeranno una delle prime serene, fedeli coppie apertamente lesbiche della storia).
E ben nascosto in un cassetto tiene un romanzo all’epoca impresentabile: la storia di un triangolo amoroso al femminile, da lei, peraltro, vissuto in prima persona all’università. Per il resto, «Gertrude è Gertrude è Gertrude» (sì, la questione della tripla rosa è sua, emblema dell’identità inconfutabile delle cose): ama sparigliare, dividere, nutrire un disordine che in realtà è orchestrato da una regia invisibile — la sua. Chissà, pensa, potrei far capire a Matisse che, in fondo, quel ritratto di Picasso mi è piaciuto.
Lo farà. E Matisse comincerà a cercare nuovi linguaggi, a studiare più a fondo Cézanne e l’arte africana: come estrarre dalle figure quella poesia scomposta e precaria che tanto rassomiglia al Novecento? Nel 1907 trova la chiave, peraltro bene illustrata nella mostra torinese: un’odalisca ( Nu bleu, souvenir de Biskra ). Una sensualità meno rarefatta, con i contorni definiti, la posa lasciva. Un timido affaccio verso quel mondo ostile che in fondo lui non voleva vedere.
Picasso risponde con la violenza dell’avanguardia: Les Demoiselles d’Avignon , dello stesso anno, sono la contraerea cubista con cui colpisce la «vecchia» ricerca formale. È come se, in quei sabato sera, tra i tappeti, i fumi e l’alcol lo spagnolo scuotesse il francese: «Ma come fai a non vedere che il mondo è già oltre — pare dirgli —? Che è ora di cambiare?». Ecco, forse Gertrude aveva capito questo: che quel duello era cruciale nell’arte moderna e che avrebbe trasformato per sempre i connotati non solo della pittura ma di un intero secolo (oltre che del conto in banca di famiglia: litigi futuri a parte, gli Stein, compreso l’altro fratello Michael, diventeranno tra i massimi collezionisti del ‘900).
Matisse ribatterà tempo dopo. Con la presenza-assenza che lascerà aleggiare dopo la sua morte sulle opere del rivale. Picasso dirà: «Lui mi ha lasciato in eredità le odalische. È tutto quello che so dell’Oriente, pur non essendoci mai stato». Forse è questa la lezione del borghese Matisse: una rivoluzione è una rivoluzione è una rivoluzione .
Corriere 12.12.15
i voli di matisse L’idea dei papiers Non tutto è finito. Il colore non finisce. Deve cominciare dal colore, fare il contrario
il carosello di vite dell’artista che fu capace di trasformare ogni dolore in una resurrezione
di Giovanni Nontanaro


Quanto tempo è passato. Più di cinquant’anni. Tutto era cominciato così, in fondo, e forse doveva finire allo stesso modo. Di nuovo inchiodato a un letto. Di nuovo malato, incapace di muoversi. O forse no, è tutto diverso. Allora era solo un ragazzino riflessivo, che si incantava a guardare le cose, e più di tutto i piccioni, come raccontava la madre alle amiche; un borghese di provincia, destinato a una solida, rigida carriera nei tribunali. Ma, all’improvviso, un’appendicite fulminante, due anni di convalescenza. In quel periodo era cominciato tutto; sua madre, che faceva cappelli e dipingeva porcellane, gli aveva portato i colori, tutti in una scatola. Quanto si era arrabbiato, il padre, che lasciasse la certezza delle corti per l’imprevisto della pittura!
A desso, invece, dopo cinquant’anni, è tutto finito. Un cancro all’intestino, un’operazione riuscita, ma troppe complicazioni. Non più di sei mesi di vita, il verdetto dei medici. Henri Matisse si guarda intorno. La stanza d’albergo è bella, profumata, diversa dalla clinica di Lione dove gli hanno fatto le cicatrici. L’Excelsior Hotel Regina è bianco, elegante. Le finestre sono grandi. Oltre, c’è la collina di Comiez, la sua città di Nizza, scelta per la vita, il Mediterraneo. Ma, da lì, dal letto, si vede solo il cielo.
È il 1941, la guerra sta vincendo, è arrivata fino al Sud, c’è il governo di Vichy, la Francia non c’è più. Quante cose non ci sono più. Non c’è più Amélie, hanno divorziato da poco, dopo 41 anni di matrimonio. E non ci sono più i suoi pennelli, le sue tavolozze, le sue tele; è tutto in un deposito giudiziario, per essere diviso. E nemmeno Marguerite, c’è; la figlia avuta prima del matrimonio si è unita alla resistenza, è in clandestinità, finirà in un campo di concentramento. Sì, viene ogni tanto Lydia Delektorskaya, la siberiana, la ragione del divorzio. L’aveva presa per accudire Amélie, ma aveva finito per fare un pasticcio, per farla diventare la sua modella e chissà cos’altro. Gliel’aveva detto, a sua moglie, che lui avrebbe amato sempre la pittura più di lei! E anche le donne. E così c’è anche Monique Bourgeois, che ha risposto al suo annuncio per trovare un’infermiera «giovane e bella»; le caratteristiche corrispondono, anche se la ragazza, perlopiù, prega e gli parla di Dio. È che la stanza è vuota, e sono più le cose che non ci sono di quelle che ci sono ancora. Non ci sono più le sue gambe, le mani. Non sono più le stesse. Potrà ancora dipingere le donne? E la musica, la gioia, le stanze rosse, il lusso, la voluttà, i cappelli? Se mai si alzerà dal letto, sarà in sedia a rotelle, non potrà stare davanti a un cavalletto.
Altro che selvaggio, «fauve», come lo chiamavano in gioventù! Un povero invalido. Ma, forse, non tutto è finito. Il colore non finisce. Deve cominciare dal colore. Fare il contrario. Se fa fatica a tenere in mano un pennello, se non può fare un contorno, deve fare come gli scultori. Partire dalla materia, e togliere. Ecco l’idea: grandi fogli colorati da ritagliare. Se li farà passare dai suoi assistenti, e se li terrà intorno, sparsi, finché non capirà cosa devono diventare: un occhio, una chitarra, un seno, una foglia. E poco importa se sarà chiuso in una stanza, in quella stanza, in altre stanze. I medici avevano torto. Matisse vivrà altri tredici anni, felici, esplosi di gioia, pieni di colori fatti con le forbici, di progetti nuovi, come la cappella del Rosario che farà per Monique, nel frattempo divenuta suora domenicana.
Forse il più bello dei suoi «papiers gouachés découpés» è del 1943. È La caduta di Icaro . C’è solo un uomo nero, con un cuore rosso, tondo come un pugno, in mezzo a un cielo di stelle che possono anche essere bombe, esplosioni, di quella guerra che non finiva, di quella vita che non finiva, che non dava riposo. Non ci sono le ali, ma braccia larghe, mai disperate. È solo un cadere. O, forse, no. L’uomo, ogni uomo, è in piedi, dritto, forse scende, forse sale ancora, o galleggia nell’infinito, torna alle stelle. È destinato al cielo, a starci dentro. Anche se è aggrappato a terra, anche se lo spostano delle ruote di metallo. È una bella suite, grande, quella dell’Hotel Regina, in fondo ci si sta bene.
Per Matisse, tutto comincia, ricomincia da lì. Da un altro letto. Da quelle finestre da cui, anche se uno non può alzarsi, si vedono i piccioni, e tutte le cose che volano.
Giovanni Montanaro (1983) è avvocato e scrittore. Per Feltrinelli ha scritto Tutti i colori del mondo (2012), premio Selezione Campiello, e Tommaso sa le stelle (2014)
La Stampa 12.12.15
Tra nebbie e biennali
Felice Casorati, come si forma un artista
Al Museo degli Eremitani di Padova gli anni giovanili seguendo il padre militare e il confronto con Boccioni
di Marco Vallora


Un luogo comune, sviante e superficiale, che ci auguriamo questa bellissima mostra, importante anche sotto il profilo filologico, aiuti a sfatare, è quello che Casorati sia un pittore automaticamente «torinese». Non è vero ed ecco qui le illuminanti prove indiziarie. È vero sì, che nasce a Novara, nel 1883, ma non passa (e approda) a Torino, che molti, molti anni dopo (e che riluttanza!). Segue il destino del padre militare e dunque le tappe sono, in ordine: Reggio Emilia, innocua per la sua formazione, Sassari e poi Padova, decisiva e nutritiva invece, come qui si evince. Ove giunge nel 1895, illudendosi di diventare musicista, dove studia e si laurea in giurisprudenza, per compiacere il padre, ma è qui che si scopre pittore, assorbendo la vivace cultura locale. Ma poi soprattutto sporgendosi verso la stimolante compagine «mobile» delle vivissime Biennali cosmopolite-veneziane, e delle Secessioni stile Ca’ Pesaro. Parallelamente, seguendo le orme del padre prefetto, anche Boccioni, che nasce a Reggio Calabria segue un altro percorso: Forlì, Genova, non Catania, perché decide di staccarsi dalla famiglia ed anche lui di fermarsi a Padova, dal 1897. Non che i due si guardino con grande simpatia: Boccioni, che come Casorati aveva la stessa abitudine, «spunta», con probabile ammirazione, un ritratto del «rivale», a una Biennale, ma non aggiunge altro. Casorati, che con la sua metafisica intemporale e assai «ritorno all’ordine», detesta il chiassoso Futurismo, ostenta semmai di preferirgli Prampolini, con cui collaborerà insieme, in molte giurie.
La buona idea di Virginia Baradel, studiosa di entrambi, è stata, per esempio, quella di metterli a confronto contrappuntistico, per dimostrare analogie e differenze, già indagate da Mimita Lamberti. Documentando, per esempio, la distanza di Casorati (pittore di macchia e d’impasti spesso pastosi, od improvvisamente glabri, magri di tempera gessosa) in contrasto con il piovigginoso divisionismo, filamentato e «francese», di Boccioni, allievo di Balla. Casorati è invece, altro luogo comune ma forse vero, maestro soltanto di sé stesso. Mentre quest’articolata rassegna tenta di evocare il brodo di coltura e cultura da cui comunque egli fiorisce, con stenta fertilità. Un’impresa impervia, perché nonostante la proficua scoperta d’inediti, il materiale d’epoca è scarso, avendo il perennemente scontento Casorati molto distrutto, di quel suo primo periodo, da lui ingiustamente svalutato. E poi c’è sempre da tener conto della miopia masochistica e stolta di istituzioni che non prestano opere, che invece avrebbero ricevuto qui un lustro di ritorno, anche scientifico, visto la serietà della ricerca e del catalogo Skira, ricco d’utili novità. Giustissima, per esempio, la presenza sorprendente d’un maestro «comunque», come l’eccentrico Giovanni Vianello (si veda per esempio il Prato della Valle di sera che annega Padova in una nebbia orientale, o quella punteggiata Festa del Redentore che si sposa con certi teleri di Galileo Chini): artista affermato, che permette a Casorati d’incontrare nel suo studio il visionario rovighese, di stigmate israelitiche, Mario Cavaglieri, anche lui in mostra. Senza contare poi la contiguità con un geniale «cartellonista», quasi spiritico, un poco in stile Viani, quale Ugo Valeri. Poi ci sarà la poco amata sosta napoletana (lui frigido, nordico, che non ama tutta quell’accecante luce mediterranea).
Ed infatti, sbagliando due volte la grafia, il poeta-critico torinese Thovez scrive di lui: «Casorato si innalza per un corteo di vecchie, accuratamente espressive, d’un comico freugheliano», che ovviamente sta per «breugheliano». Perché, per l’artista delle nebbie fiamminghe padovane, che ironicamente si proietta in quello zuzzurullone baudleriano, quasi autobiografico, del Bellisai la città partenopea non sarà tanto il ventre fangoso delle sordide viuzze assassine, o dei monelli cenciosi, ch’egli detesta, ma è la visita quotidiana al Museo di Capodimonte, ove scopre il fatale corteo dei Ciechi di Breughel. Ed allora la sua pittura, Le vecchie comari o Persone o Bambine nel prato, diventerà così: di concentrati gruppi campestri, ipnotizzati e spagnoleggianti, oppure ancora per un’ennesima volta nordici. Accorpati quasi secondo un montaggio cinematografico, di «tipi», che incarnano un’espressione, un’interiorità macilenta e melanconica, un’intensità introiettata. Perché è ovvio che alle Biennali, il prensile, non ha guardato solo il solito, ripetuto Klimt o il primo Kandinskji (lui stesso lo ammette) ma anche Slujters, Toorop, Zorn, e persino il Kokoschka dei Ragazzi sognanti. In particolare nella sua regale grafica lunare, bagnata dalla luce intermittente di Vie lattee, che figlieranno le sterili Parche dell’amica Carol Rama.
il manifesto 12.12.15
Robespierre
Il giacobino fedele a se stesso
Maximilien Robespierre. Fu uno dei maggiori «becchini» dell’Ancien Régime. Coltivò e impose una intransigente morale pubblica, ma in molte occasioni contenne il Terrore contro l’aristocrazia, rimanendo però travolto dalle stesse dinamiche da lui avviate. «Robespierre. Una vita rivoluzionaria» dello storico Peter McPhee per il Saggiatore
di Claudio Vercelli


Una vita durata trentasei anni, la cui fine è ben conosciuta: nata all’insegna della modestia, agli immediati margini della buona società dell’Artois, cresciuta sotto gli auspici di una condotta informata all’impegno nello studio e alla piccola promozione sociale derivante dal divenire avvocato, peraltro non privo di talento, ed infine culminata nel turbinio rivoluzionario, quando divenne protagonista quasi assoluto dei cinque anni che avrebbero sconvolto il mondo. Questa è stata la parabola di Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre, meglio conosciuto, all’epoca sua, come l’«Incorruttibile» e poi il «tiranno» o «despota». Non si sposò mai né ebbe figli. La sua esistenza era interamente proiettata verso la sfera pubblica, al punto di ritenere che potesse divenire, nel nome del «governo delle virtù», una materia da plasmare costantemente. Sulle donne pare esercitasse un discreto fascino ma non certo per il suo volto butterato quanto per quel rapporto di connubio tra potere e idealità che sembrava incarnare agli occhi di molte. La seduzione della forza e dell’intemperanza dialettica, che a lui piaceva invece pensare essere il prodotto di una morale profonda, rigorosa, imperturbabile, non poteva non attrarre una discreta schiera di astanti. Non di meno, facendo rifuggire molti altri da qualsiasi legame con la sua persona.
La sua traiettoria esistenziale, e con essa quella culturale e politica, è sufficientemente nota, andando a ricalco delle passioni di un’epoca di profondi cambiamenti. Se fosse nato in tempi diversi, in tutta probabilità sarebbe stato un buon giurista di periferia, destinato ad una qualche ascesa sociale nel momento in cui fosse entrato in rapporto con gli inamovibili centri del potere francese. Ma gli toccò in sorte di celebrare il tumultuoso declino dell’Ancien Régime, del quale fu uno dei principali becchini. Non a caso, al vitalismo che lo accompagnava, contesogli da personaggi della sua stessa indole, come un George Jacques Danton, alleato prima e antagonista poi, si accompagnò, negli anni del «terrore», un’aura di morte che anticipò la sua stessa dipartita.
L’onda tellurica degli eventi
Così ce lo racconta, tra le infinite cose e la miriade di aneddoti che sono offerti al lettore, Peter McPhee, Fellow professor all’Università di Melbourne, tra i maggiori specialisti della storia rivoluzionaria francese. L’edizione italiana del suo Robespierre. Una vita rivoluzionaria (il Saggiatore, pp. 358, euro 26) ripercorre non solo un’esistenza ma il suo farsi culturale prima, ideologico poi e, infine, politico, fino alla morte dettata, notoriamente, da quelle stesse circostanze di cui era stato promotore. Si tratta di un soggetto problematico, non solo perché vivacemente biografato ma per via della sua indole fortemente polarizzante e divisiva. Il suo solido razionalismo si incontrava con una propensione comunicativa che, dinanzi al tumulto dei cambiamenti intervenuti in rapida successione dal 1789 in poi, divenne impetuosa foga oratoria, spesso innamorata di sé e della sua abilità dialettica. La caratterialità, in origine mite e pacata, seguì quindi l’onda tellurica degli eventi. In parte ne fu travolta, in parte si fece travolgente.
La migliore definizione del capo giacobino è forse quella che diede di lui, a morte già avvenuta, tale Vilate, un giovane militante, a sua volta destinato alla ghigliottina, quando lo descriveva come «lucido, molto impegnato nel lavoro, irascibile, vendicativo e imperioso». In realtà Maximilien Robespierre incarnò dal 1789 in poi il permanente stato febbrile che una parte della società politica francese, emersa dalla disintegrazione del sistema di rappresentanza regale, aveva fatto proprio. Di questa condizione, dove il mutamento repentino e impetuoso costituiva l’indice più importante, raccoglieva tutti gli aspetti di contraddittorietà: contrario per principio alla pena di morte, da lui considerata «un delitto», ne autorizzò l’ampio ricorso per «salvare l’onore della Convenzione e della Montagna», ossia l’assemblea legislativa e la fazione politica di appartenenza; avverso alla guerra, patrocinò in tutti i modi il rafforzamento dell’esercito repubblicano; egualitario e contrario ad ogni forma di privilegio, si avventurò per una strada dove il livellamento politico si traduceva nella parziale disintegrazione delle strutture sociali del Paese; presentato e poi denigrato come dittatore, di fatto non andò mai oltre l’esercizio di un indiscutibile carisma morale e una robusta influenza politica nei confronti della componente giacobina, senza per questo arrivare a controllare completamente la complessa e convulsa struttura della politica nazionale nella stagione del Terrore, tra l’estate del 1793 e quella del 1794. A tale riguardo, non è un caso se a pagare pegno fu lui medesimo, divenendo il catalizzatore prima del malcontento e poi dell’avversione nei confronti del radicalismo assunto dalle istituzioni repubblicane, alla rincorsa, sempre più accelerata, di capri espiatori e, infine, di un lavacro collettivo dal quale illusoriamente rigenerare le fondamenta del patto sociale tra gruppi e ceti in forte tensione. Di qui a farlo vittima degli eventi, tuttavia, ne corre.
L’ossessione del complotto
Robespierre porta su di sé molte responsabilità nel deragliamento terroristico dei processi rivoluzionari. «Terreur jusqu’à la paix», si diceva allora. Cercò di mitigarne alcune estremizzazioni, soprattutto durante la prima guerra di Vandea, quando i massacri a danno dei civili compiuti dalla guardia nazionale repubblicana avviarono la lunga prassi di una politica di repressione indiscriminata contro gli insorgenti, la quale si sarebbe ripetuta nel corso del tempo, diventando una triste abitudine nel Novecento. Di tale condotta, peraltro, non se ne avvantaggiò mai, vedendo piuttosto crescere il capitale politico di credibilità dei suoi avversari che, nel mentre si davano alle violenze, ne riversavano la responsabilità su di lui, alternativamente accusandolo di debolezza e di inadeguatezza. Anche per tali ragioni, l’ossessione per la corruzione e il complotto, l’angoscia per la controrivoluzione incombente insieme all’esaltazione del governo dei virtuosi, espressione della volontà popolare, posero le basi per l’annichilimento delle potenzialità insite nel grande trapasso che la società francese stava vivendo in quegli anni.
Robespierre, che pure non era tra i più estremisti, si fece coinvolgere in un brutale gioco al ribasso, arrivando a licenziare la legge contro i «nemici della Rivoluzione e del popolo» del 10 giugno 1794, che cancellava di fatto il diritto degli imputati alla difesa, il ricorso in appello, il giudizio alternativo alla piena assoluzione o alla totale condanna e stabilendo, infine, che il mero sospetto fosse di per se stesso elemento sufficientemente probante. Dirà Saint Just che «tutto ciò che sta succedendo è orribile, ma necessario», inconsapevole che lui e Robespierre si stessero in tale modo scavando la fossa. Entrambi, infatti, non avevano capito che la battaglia per ristabilire la legalità, minacciata dalle congiure degli aristocratici, dalla mobilitazione di una parte della società rurale, in rotta di collisione con i centri urbani e metropolitani, dalle pressioni internazionali, non potesse esulare dalla questione della liceità delle condotte assunte. Più che una questione di ordine etico era un punto di natura politica.
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Robespierre, come racconta in più passaggi McPhee, stava perdendo la capacità sia di fare coalizione che di raccogliere consenso, due peccati capitali per un politico. Mentre invece pesavano sempre di più la sua crescente incapacità di confrontarsi con i dati dell’oggettività, tanto più se sgradevoli e quindi ineludibili. Un fatto, questo, che ne segnò definitivamente l’isolamento. Mentre il Comitato di salute pubblica, controllato dallo stesso Robespierre con Saint Just e Couthon, andava configurandosi come un circuito di potere dai tratti dittatoriali, l’aggressività degli atteggiamenti contro i suoi stessi interlocutori, il solipsismo e la fuga intellettuale in una concezione puramente astratta degli obblighi della Repubblica, erosero velocemente il residuo capitale di credibilità. Ne derivò il formarsi di una coalizione eterogenea di avversari, accomunati dalla volontà di ribaltare il governo giacobino.
I termidoriani, come sarebbero poi stati conosciuti, posero temine, il 28 luglio del 1794, all’esperienza politica di Robespierre così come alla sua stessa esistenza. Ghigliottinato nelle ore successive all’arresto, senza processo, tra il tripudio popolare, finiva la vita come l’aveva vissuta, in una sorta di accelerazione continua, fino alla perdita del controllo di se stesso e del suo destino. Per molto tempo la sua immagine, a quel punto dai più detestata, fu sottoposta ad una sorta di astiosa dannazione, attribuendo al personaggio politico più colpe di quante non gli appartenessero concretamente.
Una categoria controversa
Quello che era oramai divenuto un pregiudizio fu mitigato solo a più di cent’anni dalla morte quando una parte della storiografia, confrontandosi con il fenomeno del fascismo, ne recuperò l’intransigenza rivoluzionaria ma anche l’idea di democrazia dal basso. Così per autori come Albert Mathiez, Georges Lefebvre e Gerard Walter. Diverso è il richiamo che si è fatto in anni più recenti, dove la disinvolta equiparazione del passato francese ad alcune tragedie del Novecento ha portato ad accostare di nuovo il rivoluzionario alle peggiori vicende dello stalinismo, stabilendo un’arbitraria linea di continuità tra trascorsi differenti.
Il dibattito, condensatosi intorno alla controversa categoria del totalitarismo, è sufficientemente noto per essere anche solo richiamato. Peter McPhee non se ne occupa, peraltro, impegnato com’è a consegnarci una biografia non necessariamente inedita ma del tutto estranea a qualsiasi clamore, molto attenta a cogliere gli innumerevoli fili di un’esistenza breve, intensa e contraddittoria. Di sé, non a caso, Robespierre diceva, a titolo di inconsapevole epitaffio: «sono popolo io stesso! Non sono mai stato nient’altro, e voglio essere soltanto questo!». Il popolo non è detto che gliene sia stato riconoscente.
Corriere 12.12.15
La storia non si fa col calendario
Si pensi a Carlo Magno o a Giulio Cesare: le loro scelte incisero sui successivi secoli
Nel valutare lo spessore degli eventi la durata lunga o breve è un criterio molto debole
di Giuseppe Galasso


Torniamo a parlare della «durata», la categoria che tanta parte ha avuto, e continua ad avere, negli studi storici dalla metà del Novecento in poi. Non per parlare, però, ancora una volta, del peso che l’adozione di questa categoria ha avuto rispetto alla storia politica e alla massiccia «invasione» (come alcuni la definiscono) del suo campo da parte delle discipline sommariamente (e approssimativamente) indicate come «scienze umane». Un peso certamente non fausto, e ancor più fuorviante, se si considera il dato incontestabile che quella che si intende per «storia politica» non ha mai presentato una tipologia unica. Ognuno dei suoi grandi autori differisce dall’altro, in una varietà impressionante e altamente istruttiva di moduli euristici e narrativi, che formano l’incommensurabile ricchezza, non solo culturale, della storiografia occidentale (per stare solo a essa) dai tempi di Erodoto a oggi. Quando si parla quindi della storia politica come pura storia degli eventi, dei fatti militari, politici, diplomatici, istituzionali e simili, bisognerebbe, quindi, avere ben chiaro che questa storia è stata l’opera di autori che nei loro rispettivi moduli storiografici e letterari, e per i valori e le idee che li hanno ispirati, rappresentano ciascuno un mondo diverso. Tanti storici politici, insomma, tanti tipi o casi di storia politica.
Ma — ripetiamo — non è di questo che vogliamo parlare qui, bensì della famosa «durata». La sua distinzione in breve e lunga è di immediata percezione. L’alternativa posta dai due aggettivi sembra non lasciare spazio alcuno a una composizione della loro così netta antinomia. A guardare le cose più da vicino si scopre, però, che non è del tutto così, e per almeno due serie di ragioni.
La prima serie dovrebbe essere di più semplice approccio. Si tratta della facile constatazione che lunga e breve durata non sono due universi chiusi in se stessi, incomunicanti e incomunicabili nella loro azione e proiezione storica. In altre occasioni ho parlato di Alessandro Magno, di Giulio Cesare, di Carlo Magno, ma sono innumerevoli gli esempi possibili di condottieri, guerre, conquiste, dominazioni che dimostrano quanti e quali possano essere i rapporti, non sospettabili di primo acchito, tra lunga e breve durata. In questi casi l’azione di breve durata — una guerra, una conquista, l’avvio o le variazioni di dominazioni e imperi o regni di nuova istituzione, l’imposizione di determinate leggi e ordinamenti, e così via dicendo — pone le premesse e stabilisce le condizioni per svolgimenti e realtà della lunga durata.
Bisogna, inoltre, precisare che, quando parliamo qui di lunga durata, non ci riferiamo, come dovrebbe essere ovvio, alle lunghe durate di imperi e di Stati o di determinati equilibri politici. Ci riferiamo ai processi strutturali, antropologici etc. che in quei dati politici hanno solo una premessa o condizione. Tali processi — nella teorizzazione più autentica della lunga durata — si svolgono, infatti, sostanzialmente per propria natura e con propria logica; e sono essi a imporsi, in ultima analisi, nel fluire sotterraneo di mentalità e atteggiamenti, ai quadri politici in cui si ritrovano.
Più complessa e, soprattutto, più importante è la seconda serie di ragioni. La durata, lunga o breve che sia, è sempre un elemento temporale. Il tempo storico non è, però, il tempo del calendario. Non si misura, cioè, solo con il numero dei secoli o degli anni o dei giorni. Il tempo storico ha misure ancora più essenziali nella densità, nella qualità, nella velocità, nella complessità, negli effetti, nel tono, nella rilevanza degli eventi che in esso hanno luogo e nella sensibilità e mentalità con la quale il tempo è percepito e vissuto.
Perciò anche nel linguaggio corrente si dice spesso che certi giorni contano più di molti anni. Perciò uno storico del valore di Jacques Le Goff distinse acutamente fra il «tempo della Chiesa» e il «tempo del mercante». Perciò Adolfo Omodeo amava parlare di «primavere storiche». Perciò parliamo immaginosamente di «secoli bui» e di «secoli d’oro». Perciò la mentalità economica moderna ha introdotto la massima che «il tempo è denaro». Perciò una volta si sproloquiava sulla differenza fra la concezione orientale del tempo (incline più alla meditazione che all’azione) e quella occidentale (attivistica, rapida, frenetica: si ricordi il persiano di Montesquieu a Parigi).
Sono modi — questi, e gli altri, numerosissimi, citabili al riguardo — più o meno stringenti e pertinenti di considerare ed esemplificare questa materia. Valgono, comunque, indubbiamente, a darne un’idea schietta e sintetica. Soprattutto, poi, permettono di affermare e provano che l’antinomia di breve e lunga durata è più parziale e meno sostanziale di quanto si pensi. In quell’antinomia irrompe sempre, sottomettendola a sé, la forza discriminante del tempo storico in tutta la complessità degli aspetti che sono suoi.
Ciò significa, in ultima analisi, che il tempo non è determinato dal calendario, ma dalla storia. E non soltanto questo. Anche per il tempo storico vale, infatti, ciò che del tempo ci hanno detto da due secoli a questa parte filosofi come Kant, scienziati come Einstein e coloro che hanno sviluppato o modificato le loro vedute (non molto, comunque, né sostanzialmente, a mio sommesso avviso). In altri termini, e un po’ alla grossa, il tempo storico è puramente e semplicemente tempo, ma diventa un tempo particolare non tanto perché è teatro di «quella guerra illustre contro il tempo», che, secondo lo pseudo-anonimo manzoniano, impone alla caducità del tempo nella sua successione calendariale la memoria imperitura della storia. Lo diventa perché è una dimensione essenziale e primaria, costitutiva e imprescindibile — non calendariale e non filosofico-scientifica — del mondo umano nel suo divenire storico.
Da questo punto di vista l’antinomia di breve e lunga durata è un criterio di merito e di metodo assai debole rispetto alla essenzialità del tempo storico, che le compenetra entrambe, ed entrambe piega alle sue logiche e alle sue dinamiche. Né, con ciò, quell’antinomia perde tutto il suo senso e la sua utilizzabilità. Viene soltanto ricondotta nei limiti che sono suoi, mentre una terza durata non c’è, e terza durata non è in alcun senso il tempo storico in cui sia la breve che la lunga sono inscritte.
Repubblica 12.12.15
Ho fatto pace con papà Dürrenmatt
A 25 anni dalla morte la figlia Ruth ricorda l’autore svizzero “Era sigillato nel suo mondo ma adesso l’ho capito”
di Concetto Vecchio


ZURIGO «Non fu mai facile per mia madre essere la moglie di Friedrich Durrenmatt, non fu facile per niente. Era sempre immerso nei suoi pensieri, come sigillato nel suo mondo. Nelle cose della vita quotidiana poi era maldestro, perdeva la pazienza facilmente. Quando ero ragazza capitava di parlare con mia madre, e poi come un fulmine irrompeva papà, con lo sguardo chino su un testo da correggere, s’intrometteva senza chiedere permesso: «Lotti, ho un dubbio»; allora mia madre subito troncava la conversazione, e insieme cominciavano a esaminare quel foglio. Discutevano accanitamente su ogni parola, su ogni riga, e io d’improvviso non esistevo più».
Ruth Dürrenmatt assomiglia al padre. Ha 64 anni, è musicista. Venticinque anni fa (14 dicembre 1990) se ne andava Friedrich Dürrenmatt, il grande drammaturgo svizzero, l’autore del Giudice e il suo boia (ora ripubblicato da Adelphi) e de La promessa, due romanzi che hanno scardinato il genere giallo. In 32 cinema svizzeri, da qualche settimana, si può vedere il film-documentario Dürrenmatt- Eine Liebesgeschichte,
(Dürrenmatt – Una storia d’amore), sul rapporto tra il maestro e la moglie, Lotti Geissler, che fu qualcosa di più complesso di un semplice matrimonio, un sodalizio intellettuale fortissimo. Lo ha realizzato una cineasta di Zurigo, Sabine Gisiger, che per la prima volta ha convinto anche la sorella dello scrittore Verena, 91 anni, e due dei tre figli, Peter, 66, sacerdote protestante, e Ruth, a parlare della loro famiglia. Il film contiene pezzi d’archivio indimenticabili, come l’ultimo discorso pubblico di Durrenmatt, quello dove descrive la Svizzera come una prigione – dove gli svizzeri sono allo stesso tempo secondini e carcerati.
Signora Ruth, com’era Dürrenmatt da padre?
«Lui di sé diceva sempre di essere stato un cattivo genitore, per tutta la vita fu tormentato dai sensi di colpa. Non fu semplice essere sua figlia. Ma adesso lo capisco, e lo amo senza rancore: era uno scrittore di successo, pubblicava un libro all’anno. Insomma non faceva l’impiegato delle poste che alle 5 torna a casa e si mette a giocare con i figli. Ogni suo pensiero era dedicato ossessivamente alla scrittura. Lavorava senza soste. Era capace di riscrivere anche cento volte una pagina».
Colpisce l’episodio di lui che irrompe e tronca la conversazione con sua madre.
«Una volta, avrò avuto 17 anni, ebbi un bellissimo scambio con lui. In genere teneva un tono sempre oggettivo, una certa distanza dalle cose, quella volta fu finalmente personale, e io ero felice di potergli parlare un po’ di me. Poi d’un tratto lui guardò l’orologio, e disse: “Sono le 14, devo tornare a scrivere”. Lo pregai di rinunciarvi, almeno per una volta. “Non posso”, ribatté. E si rinchiuse nello studio. Per farmi notare, prendevo i piatti della cucina e li scaraventavo sul pavimento».
Suo fratello Peter nel film racconta che quando scriveva, voi figli dovevate rimanere nel silenzio più assoluto.
«E non capivamo perché, eravamo solo dei ragazzini! A scuola, quando facevo un bel tema, i compagni mi dicevano: “Eh, certo, glielo ha scritto il padre”».
Era autoritario?
«Sì, certo. Ma soprattutto era un affabulatore. Quando era rilassato, dopo cena mi portava con sé nel bosco, a spasso con il cane. E allora iniziava a raccontare storie di fantasmi. Era divino. Alcuni editori gli diedero spontaneamente degli anticipi solo dopo avere sentito i suoi racconti; naturalmente lui non scrisse una riga».
Che tipo era sua madre?
«Da giovane era stata attrice, una donna bellissima. All’inizio non avevano un soldo. Mio padre scrisse i romanzi polizieschi per denaro. Lui le chiese di rinunciare alla carriera, e da allora tutta la vita di mia madre girò attorno a lui. Al primo posto c’era Friedrich, e poi venivamo noi figli. Lei lo seguiva alle prove nei teatri, alle conferenze in giro nel mondo, correggeva i suoi testi, a volte criticava dei passaggi nei suoi manoscritti. “Non funziona!” gli diceva. Allora lui si inalberava, se ne andava furioso, e dopo un po’ ricompariva e seguiva il suo consiglio. La mamma era totalmente assorbita da lui».
E poi all’improvviso, nel 1983, Lotti muore.
«Fu una tragedia enorme. Consideri che mio padre era convinto di morire giovane. E con qualche ragione, dacché dall’età di 26 anni era gravemente malato di diabete. Intorno ai 50 anni aveva subito già due infarti. Diceva: “Voglio essere seppellito dentro una tomba piena di salsicce e spaghetti e tante tante patate!”. Aveva aperto un contocorrente alla moglie: era angosciato dal fatto che la famiglia rimanesse senza reddito. E poi lei si spense, e lui ereditò quello che le aveva versato in tutti quegli anni».
Eppure, un anno dopo, si risposò con un’altra attrice, Charlotte Kerr. Come andò?
«Mio padre aveva 62 anni. Non riusciva più a scrivere. Commise delle stupidaggini. Non era più lui. Poi un giorno arrivò la Kerr, e disse che voleva fare un film su di lui. Papà si innamorò: “È come la Lotti”, diceva. Ma non era vero. Come la mamma anche la Kerr era stata molto bella, ma era un’attrice capace di recitare un solo ruolo, ed era davvero troppo concentrata su stessa ».
Sua zia Verena sostiene che Dürrenmatt grazie a questo amore rifiorì. È così?
«Charlotte era gelosa di Lotti. Capiva che il rapporto con mio padre non avrebbe mai potuto raggiungere la stessa simbiosi che c’era con lei. Non volle avere rapporti con noi figli. Lui le tacque dove aveva conservato le ceneri di mamma».
In che senso?
«Non le disse mai che aveva tumulato le ceneri della prima moglie sotto l’albero in giardino. Mio padre non era tipo da funerali, non amava la Chiesa. Prima di morire diede disposizione di seppellire le proprie ceneri sotto lo stesso albero. E Charlotte eseguì. Quando lei morì, nel 2011, ordinò di poter essere seppellita nello stesso posto, insieme a Friedrich, mai immaginando che là già riposava Lotti».
Quindi ora riposano tutti e tre sotto lo stesso albero?
«Sì, non è un tipico finale da Dürrenmatt?» (Ruth scoppia a ridere fragorosamente).
Perché ha taciuto finora?
«Tutti mi chiedevano di mio padre. Ma io ero Ruth, e avevo la mia di vita. Ora posso fare i conti con me stessa e la mia famiglia. Domani, a Neuchatel, suonerò per papà in occasione delle celebrazioni del venticinquesimo».
IL LIBRO Il giudice e il suo boia di Friedrich Dürrenmatt ( Adelphi, trad. di Donata Berra, pagg. 121, euro 15)
Repubblica 12.12.15
I demoni del terrore dalla P38 al Califfo
Quel filo insanguinato che lega i kamikaze ai populisti russi dell’800
di Benedetta Tobagi


AL TERRORISMO si adatta quanto sant’Agostino diceva del tempo: se non mi chiedi cos’è lo so, se devo spiegarlo cominciano i problemi. Ne parliamo di continuo, ma non esiste, ad oggi, una definizione condivisa del fenomeno. A complicare le cose, il terrorismo è sempre negli occhi di chi guarda (o, meglio, subisce): chi lo pratica si definisce piuttosto giustiziere, combattente per la libertà, martire, guerriero. I terroristi si ritengono più puri degli altri (che siano i corrotti “socialdemocratici” o i musulmani moderati) e, per contro, sovente bollano come “terroristi” i propri obiettivi (lo facevano, per esempio, le Brigate Rosse).
La sparatoria di San Bernardino, esempio inquietante di azione ibrida, mostra che il terrorismo è come un’ombra, per la società contemporanea: segue l’evoluzione delle sue forme, ne rivela le contraddizioni, cavalca i suoi virus endemici (nel 2015 le “semplici” sparatorie negli Usa sono state più di 300), strumentalizza l’immaginario cine-televisivo globalizzato, perverte gli strumenti più seducenti e comuni, come internet, Twitter, i videogiochi. È il ritratto deforme che, come Dorian Gray, abbiamo cercato di nascondere in soffitta. I terroristi non sono pazzi né diabolici: sono giovani, escono anche dalle nostre periferie, talvolta dalle università.
IN PAESI come il nostro, poi, con una lunga storia di terrorismo autoctono, si riaffacciano fantasmi ingombranti. Il terrorismo islamista e internazionale di oggi ha qualcosa in comune con quelli del passato? Cosa accomuna i ragazzi con la P38 ai populisti russi di fine Ottocento, ai militanti dell’Eta, agli uomini-bomba che si fanno esplodere in Israele, in Cecenia, fuori dallo Stade de France? I confini sfumano e si mescolano di continuo; tuttavia è possibile tracciare alcune distinzioni e linee di continuità, per provare a comprendere (e affrontare) meglio i fenomeni.
Mi limito al “terrorismo dal basso”, ossia praticato da soggetti non statuali, com’è anche lo Stato Islamico a dispetto delle proprie ambizioni. Sono i mezzi, non i fini, a fare il terrorista: entro la definizione accademica diffusa, “uso illegale della forza e della violenza, minacciato o attuale, per conseguire scopi politici, economici, sociali o religiosi attraverso paura, coercizione o intimidazione” (così nel Global terrorism database), distinguiamo, da una parte, i terrorismi che portano avanti rivendicazioni nazionali, politiche o identitarie frustrate, comunque obiettivi circoscritti, definiti. Olp, Ira, Eta, il terrorismo in Sudafrica durante l’Apartheid, quello anticoloniale in Algeria, appartengono a questa famiglia. Traggono forza dal radicamento popolare, dalla lunga catena di violenza che chiama vendetta e rende inaccettabili per molti gli “sporchi compromessi”, come li chiama il filosofo Margalit, che sono l’essenza della democrazia. La via d’uscità, la storia insegna, è pervenire, prima o poi, a una tregua e al negoziato.
Dall’altra, terrorismi “totalitari”, con obiettivi “smisurati”: l’annientamento del nemico, l’abbattimento dell’ordine (politico, economico, sociale) esistente, l’affermazione dell’unica verità o della vera fede (politica o religiosa che sia). Questo tipo di terrorismo è figlio dello sradicamento tipico dell’età moderna, che rende più tanto attraenti le fedi assolute. Laddove l’impeto verso la distruzione catartica prevale sulla visione utopica (dei terroristi), sconfina nel nichilismo: uccido per esistere, per affermarmi. In questi casi, quale base c’è per negoziare? Nell’Is, forse chi è orfano dei gradi dell’esercito di Saddam potrebbe “trattare”, per ricollocarsi in uno stato sunnita — e converrebbe far emergere simili spaccature. Ma il Califfato ha ben altre ambizioni ed è la jihad totale a sedurre i foreign fighters.
Si può riconoscere una linea di continuità tra le prime manifestazioni di terrorismo nella Russia zarista dalla seconda metà del XIX secolo (fucina dell’estremismo tristemente anticipatore di Necaev, col Catechismo del rivoluzionario) e i terroristi islamisti, passando attraverso gruppi come le Brigate Rosse e la Raf. I terroristi si considerano una “avanguardia armata” che attraverso azioni provocatorie ed esemplari trascinerà le masse in una rivoluzione o una guerra santa totale. Questa visione si trova anche negli scritti (1988) di Abdallah Azzam, ideologo islamista padre di Al Qaeda. La repressione, la reazione militare, i bombardamenti in risposta agli attentati da parte del nemico colpito, hanno un ruolo centrale nella loro strategia: esasperando la popolazione civile, la portano a simpatizzare per i terroristi: il “tanto peggio, tanto meglio” è una costante.
Quanto ai meccanismi di radicalizzazione, molti elementi accomunano i terrorismi degli ultimi 150 anni. Le dinamiche di condizionamento reciproco tipiche dei “gruppi chiusi” sono indispensabili per spiegare come tanti ragazzi “normali” siano arrivati a uccidere, o uccidersi, per una “causa”. Il terrorismo suicida (affermatosi in Libano negli anni Ottanta, poi mutuato dai palestinesi) porta all’estremo tendenze già presenti: la vocazione al sacrificio; la ricerca di mezzi d’attacco sempre più economici ed efficaci, sia in termini materiali che psicologici; la deumanizzazione che, insieme alla vittima, qui lambisce del tutto anche il carnefice: si riduce a “cosa”, arma, per dare un senso alla vita, per diventare eroe agli occhi degli altri militanti (dunque anche strumento di propaganda). Cruciale, da sempre il peso delle figure carismatiche di ex combattenti, spesso “ricollocati” come reclutatori e addestratori: di volta in volta reduci di Salò o della Legione Straniera, fedayn palestinesi, ex partigiani, mujaheddin vittoriosi dall’Afghanistan. Ricorrente la fascinazione “machista” per le armi e l’ostentazione di forza e coraggio fisco: evidente nei video di propaganda dell’Is, era diffusa anche tra i militanti del terrorismo politico nostrano, amanti di film come Mucchio selvaggio.
Sconcerta, ieri come oggi, scoprire che tanti terroristi non vengono dalla miseria, dai campi profughi o dai territori bombardati: figli di immigrati benestanti che si radicalizzano; studenti universitari nella Russia zarista; figli di notabili e ricchi ragazzi-bene nel terrorismo italiano. Il terrorismo contemporaneo è anche figlio del narcisismo, del deserto di speranze nel benessere, di ambizioni che cozzano con volontà o talento limitati, della smania di affermarsi in modo veloce e clamoroso. Per sondare questi abissi, resta insostituibile il microcosmo rappresentato da Dostoevskij nei Demoni (ripreso e arricchito da Camus): le meschine ambizioni di dominio del manipolatore Verchovenski, la violenza come fuga da un angoscioso vuoto interiore di Stavrogin, la purezza fanatica di Kirillov, pronto a uccidersi per fare l’uomo uguale a Dio, i meccanismi di ricatto e di seduzione psicologica. Il romanzo di Dostoevskij non è solo un grande affresco storico: l’analisi psicologica dei giovani terroristi resta, dopo 142 anni, ancora attuale. Ripartiamo da lui, e dai pochi altri artisti che hanno osato affrontare il tema (penso, ad esempio, al drammaturgo libanese Wajdi Mouawad in Incendi, del 2003), per pensare il nostro impensabile terrore quotidiano.
il manifesto 12.12.15
La lezione di Gallino e l’alternativa possibile
L’affascinante affresco sul capitalismo malato nell’ultimo libro di Luciano Gallino
E la difficile strada per costruire un nuovo soggetto politico
di Antonio Bevere


Nel futuro dell’economia è assai probabile il verificarsi di una stagnazione senza fine, prolungamento della crisi iniziata nel 2008. Dunque un incremento modesto o nullo del Pil, prezzi fermi o in calo, salari e stipendi in diminuzione, chiusura di imprese piccole e grandi. Così Luciano Gallino ci introduce, nel suo ultimo libro (Il denaro, il debito, la doppia crisi spiegata ai nostri nipoti), alle diverse facce di questa crisi, e alla reazione del capitalismo che risponde accrescendo lo sfruttamento irresponsabile del sistema ecologico, tutto con il ferreo sostegno di un’ideologia, il neoliberismo, fondata su alterate rappresentazioni della realtà.
Le distorsioni , finalizzate a legittimare l’ordine esistente, sono sotto i nostri occhi: convegni, uffici studi, giornalisti di ufficiale saggezza, accademici, governanti in quotidiana presenza nella Tv di Stato diffondono incontrastate verità: le classi sociali non esistono più; la funzione dei sindacati, residui ottocenteschi, si è esaurita; la perenne emergenza ci rende tutti uguali; licenziare crea posti di lavoro e benessere; il privato è più efficiente del pubblico in ogni settore ( energia, acqua, trasporti, scuola, sanità); il mercato, libero da intralci burocratici, fa circolare e crescere capitale e lavoro.
Questo modo di governare il conflitto di classe, camuffandolo e non risolvendolo, è respinto in maniera semplice e lineare da Luciano Gallino, rilevando l’apporto della dose massiccia di stupidità dimostrata dai governanti. Basti pensare a quanto è avvenuto nell’autunno del 2014: i disoccupati sono oltre tre milioni; i giovani senza lavoro sfiorano il 45%; la base produttiva ha perso un quarto del suo potenziale; il Pil ha perso 10–11 punti rispetto all’ultimo anno prima della crisi . «E che fa il governo ? Si sbraccia per introdurre nuove norme che facilitino il licenziamento, riprendendo idee e rapporti dell’Ocse di almeno vent’anni prima», come il sociologo sottolinea nelle pagine del libro.
Chi voglia pensare e vivere senza prestar fede alle verità di classe deve prendere atto che oggi manca un punto di riferimento di qualche peso e visibilità sociale(un partito, una fondazione, una scuola, un organo di rilievo dei media) dal quale emerga un pensiero critico, patrimonio della cultura e dei partiti di sinistra . («Ma da noi la cultura di sinistra, quale cultura diffusa di ampie formazioni politiche, è morta, insieme ai partiti che la divulgavano»).
Questo quadro di pessimismo è vitalizzato e illuminato dallo stesso autore, laddove rileva che tutto ciò che è può essere diversamente e si adopera per tener fede a questo ideale: chi voglia cambiare il capitalismo in un sistema migliore, a prescindere da titoli tradizionali, deve prendere atto della necessaria radicalità di ogni percorso di reale trasformazione: occorre cambiare il modo di produrre, di lavorare, di consumare , il sistema finanziario, l’organizzazione del processo politico, la distribuzione delle risorse, le strutture e le funzioni delle associazioni intermedie.
In questo affascinante affresco politico, mi limito a evidenziare l’immediata esigenza di riportare la normativa lavorista nella realtà dei sistemi che sostengono la vita, concetto che l’espressione sistema ecologico vuol riassumere. Crisi del capitalismo e crisi ecologica sono due facce della stessa medaglia: la guerra del capitalismo contro la Terra è un aspetto della sua necessità di perseguire l’accumulazione del capitale attraverso la trasformazione di ogni elemento della natura in denaro e questo in capitale. Gallino fa questo esempio: se la scarsità di acqua potabile in una regione rischia di provocare milioni di morti, come si determina il valore di scambio dell’acqua o, sotto altro profilo, dei milioni di vittime? Nel campo del lavoro si può fare questo esempio: se la scarsità di occupazione aumenta lo sfruttamento della mano d’opera e il rischio di morti bianche, come si determina il valore di scambio della forza lavoro non tutelata o, sotto altro profilo, delle centinaia di vittime nei cantieri? Problema drammatico in Italia, con l’aumento degli incidenti mortali sul lavoro, tra gennaio e ottobre 2015, si contano 100 caduti in più.
E Gallino arriva alla domanda: «Se la politica la fa il capitale, come si può fare politica per opporsi al capitale?». A partire dagli anni ’80, le maggiori innovazioni del sistema finanziario funzionali alla sua crescita smisurata sull’economia e sulla società, sono state introdotte dai governi, cioè dalla politica: «Di fatto la legislazione e l’indicazione delle azioni sottoposte o meno a disciplina giuridica sono state privatizzate. I ministeri delle Finanze sono stati ridotti ad altoparlanti del settore finanziario». E’ da escludere una ribellione della pubblica opinione, con giornali e reti televisive controllati da imprese a loro volta condizionate dai politici associati alla finanza e da imprese pubblicitarie.
In un quadro così nero, nelle sue conclusioni Gallino intravede la luce del consolidarsi, tra la fine del 2014 e i primi mesi del 2015 «qualcosa che assomiglia a una forma organica di opposizione» che può dar vita a un nuovo soggetto politico, capace di ricondurre il capitalismo entro argini limitativi della sua attività predatoria , «pur continuando a guardare alla meta lontana del suo superamento». A fronte di un governo che, seduto su un vulcano, gioca a fare “riforme” che peggiorano la situazione, crescono in ampiezza e vigore manifestazioni contro i deleteri interventi di Renzi in tema di lavoro, scuola, pensioni, sanità. Alla possibile obiezione che queste riforme sono fatte in esecuzione dei Trattati Ue, Gallino risponde che l’art. 48 prevede che «i trattati possono essere modificati conformemente a una procedura di revisione ordinaria». E ancora: «Il governo di qualsiasi Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione possono sottoporre al Consiglio progetti intesi a modificare i trattati». Eppure, amara constatazione, «nessuno ha mai sentito esprimersi al riguardo un solo politico che mostri di avere una conoscenza minimale dei Trattati Ue e ammetta che non sono scolpiti nel granito».
Repubblica 12.12.15
Stefano Boeri
“I governi favoriscano il mercato dell’affitto”
“Ci sono anche negozi e uffici inutilizzati che potrebbero diventare spazi misti sul modello dei loft newyorchesi”
intervista di Alessia Gallione


MILANO Architetto Stefano Boeri, cosa si può fare per curare i vuoti urbani creati dalle case sfitte?
«Prima di tutto bisogna prendere atto di un fenomeno evidente soprattutto in Italia, Spagna, Grecia e nell’Europa del Sud: gli appartamenti vuoti non appartengono a grandi realtà immobi-liari, ma a piccoli proprietari che in passato hanno investito nel bene casa e oggi, magari perché non si fidano del mercato dell’affitto o perché li considerano un investimento, a volte scelgono di tenerli liberi. La soluzione è la costruzione di Agenzie della casa sostenute dalla pubblica amministrazione ».
Cosa dovrebbero fare?
«Svolgere un ruolo di mediazione, dando garanzie ai proprietari e facendoli incontrare con una domanda di affitto che è fortissima e proviene soprattutto dalle giovani coppie e da chi ha redditi considerati troppo alti per entrare nelle graduatorie degli alloggi popolari, ma troppo bassi per il mercato».
È un modello che già esiste?
«In Danimarca esistono esempi molto buoni e anche in Francia e Spagna si sta tentando questa strada».
Ci sono altri modi di riuso?
«Il problema non riguarda solo le case, anzi. Ci sono negozi vuoti e soprattutto edifici di uffici non utilizzati che potrebbero essere trasformati in spazi misti: residenze e insieme luoghi di studio, lavoro, laboratori per giovani artigiani. Penso a loft che possano richiamare il modello storico di New York, ma anche ad alcune parti di Shanghai che stanno cambiando in questa direzione».
Repubblica 12.12.15
Europa, record di case sfitte e una su tre è abitata da single
La fotografia di Eurostat Nei 28 Paesi dell’Unione il 17% degli alloggi è vuoto A Copenaghen i palazzi più vecchi, a Bucarest i più giovani. E il 3% è senza bagni
di Enrico Franceschini


LONDRA L’Europa vive in una casa di proprietà, costruita prima della seconda guerra mondiale, con uno o nessun inquilino dentro e in qualche caso senza gabinetto. È la fotografia, non troppo rassicurante, scattata da Eurostat, l’agenzia di statistiche della Ue, sulle abitazioni nel vecchio continente, basata su un sondaggio del 2011. Un’immagine che non dice necessariamente come” viviamo”, ma illustra “dove” e già questo fornisce dati su cui riflettere. La maggior parte dei cittadini dell’Unione sono proprietari della residenza in cui abitano, e questo è un segnale positivo. Ma molti alloggi sono disabitati, molti europei vivono soli, la maggioranza delle case ha più di settant’anni e forse bisogno di un restauro — per non parlare della necessità dei servizi igienici per la minoranza, esigua ma pur sempre allarmante, che non li ha.
Un’abitazione su sei, in Europa, è disabitata. Il record va al Sud: spesso sono alloggi per le vacanze, dunque “seconde case”. L’emergenza abitativa, verrebbe da dire, si potrebbe risolvere più in fretta se le case non occupate venissero date a chi non ne ha. E in tema di alloggi sfitti l’Italia è sul podio. Secondo gli ultimi dati Istat, basate sul censimento del 2011, le case vuote sono oltre 7 milioni, il 22,7%, con picchi del 40% in Calabria e del 50 in Val d’Aosta. Di queste, più di metà sono case vacanza; le altre (2,7 milioni, stima l’Istituto di statistica) sono semplicemente disabitate.
Complessivamente, lo stivale è diviso a metà tra chi abita in appartamento (il 50%, contro una media europea del 41,1%) e chi ha scelto una soluzione indipendente o semi-indipendente. Ma non mancano le ombre: il 27,3% degli italiani vive in alloggi sovraffollati, e quasi una persona su 10 sperimenta il disagio abitativo.
Guardando ai 28 Paesi dell’Unione, il 70% dei cittadini è proprietario della casa in cui vive, percentuale che sale al 90% o quasi in Romania, Ungheria, Lituania e Slovacchia. L’Italia si colloca poco sopra la media, al 73%. La nazione con più case in affitto è invece la Germania, motore economico della Ue, con il 47 %, seguita dall’Austria (43%). Altro dato illuminante: più di 4 europei su dieci vivono in una casa di proprietà senza mutuo da pagare, cioè l’hanno comprata già tutta (o l’hanno ereditata). Il quinto Paese europeo per numero di case di proprietà è la Gran Bretagna: non a caso qui si dice che «la casa di un inglese è il suo castello».
Altro fenomeno di rilievo: quasi un terzo delle case dell’ Unione ha un solo inquilino, una fenomeno che cresce al ritmo del 2% all’anno. La capitale della Norvegia, Oslo, è anche la capitale europea di chi vive solo: il 53% degli abitanti. E in Danimarca la percentuale è appena più bassa, il 47%, per scendere al 40 nel resto della Scandinavia e in Germania. La maggioranza di questi europei che abitano in solitudine sono donne. D’altra parte, Londra è la città europea con più case in coabitazione (per forza, con quello che costano); ed è anche la città dove convivono più coppie dello stesso sesso, il 13 per cento.
Il primato delle case più vecchie spetta a Copenhagen: il 68 per cento è stato costruito prima del 1946. Risale a prima della guerra anche un terzo delle abitazioni in Danimarca, Belgio e Regno Unito, mentre in Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo e Cipro il 43 per cento è stato eretto dopo il 1980. I più nuovi in assoluto sono i sobborghi di Bucarest, dove il 37% degli alloggi è venuto su dopo il 2000. Ma la Romania ha anche un record meno confortante: il 38% delle abitazioni non ha il bagno. E la toilette manca, in tutta la Ue, in 3 case su cento, una minoranza neanche tanto piccola per il mondo del 2015.
Corriere 12.12.15
La sinistra lontana dal popolo demonizza il front national
L’affermazione lepenista non è figlia della strage di Parigi ma di un percorso trentennale in cui si è costruito il consenso
Si tratta di un fenomeno francese, difficile da esportare, ma l’allarme suona anche per noi Non va liquidato come antipolitica
Il partito suscita aspettative, anche se irrealizzabili, e produce una forte identità
di Paolo Franchi


Il terrorismo dell’Isis e tutto quello che ne consegue, certo. Ma i parigini, e in particolare gli elettori dell’undicesimo arrondissement , quello più bestialmente colpito dal nuovo stragismo, a madame Le Pen non hanno dato retta. È nel resto della Francia che il Fronte Nazionale è diventato il primo partito, grosso modo con le percentuali che i sondaggi gli pronosticavano da tempo. Non ci ha messo qualche mese: ci ha messo trent’anni. Trent’anni in cui, come scrive su Liberation Laurent Joffrin, «la grande orchestra repubblicana… giocando sui sentimenti o sulla ragione, invocando ricordi storici o minacce future» ha suonato senza successo l’allarme per impedirne l’ascesa. E alla vigilia del secondo turno delle regionali Manuel Valls, imperterrito, insiste con questo spartito. Anzi, alza oltre misura i toni. Se si affermasse il Fronte, dice, la Francia sarebbe a rischio guerra civile: francesi di sinistra e francesi della destra «classica» unitevi e votate, in nome dello spirito di rassemblement dell’una e dell’altra per respingere la minaccia.
Il Fronte Nazionale «nemico interno»? La politica, quando non sa più parlare, straparla. Forse domani Marine Le Pen vincerà meno di quanto sperasse, probabilmente (ma nessuno può giurarlo) non diventerà mai presidente. Di certo, però, ha messo solide e ramificate radici nella Francia più penalizzata dal presente e più spaventata dal futuro: tra i lavoratori e tra i loro figli, e più in generale in quello che una volta si chiamava, senza troppi timori di vedersi accusati di populismo, il popolo. Quel popolo al quale la droite sarkozysta ha poco da dire e dal quale la sinistra, non solo in Francia, ha divorziato da un pezzo, anche con una punta di fastidio per la sua volgarità; che detesta le élite, o presunte tali, chiede loro, non senza qualche ragione, il conto, e vuole mandarle quanto prima gambe all’aria. Quello per il Fronte non è più, se mai lo è stato, un voto di protesta. I francesi che hanno scelto zia e nipote Le Pen non lo hanno fatto per sfregio, ma per una convinzione che difficilmente questi socialisti e questa destra (non troppo) moderata che le insegue senza successo sul loro stesso terreno riusciranno a scalfire.
Populista, xenofobo, razzista? Certo il Fronte Nazionale è anche questo, eccome, anche se la signora Marine ha messo da tempo un freno, uccidendo simbolicamente il padre, agli estremismi, è favorevole ai Pacs, canta la Marsigliese, inneggia pure lei, facendo appello ai francesi perché la riconquistino, alla Republique. E il suo largo seguito popolare (Benito Mussolini, Adolf Hitler e, in Francia, il maresciallo Petain ne avevano, se è per questo, uno ben maggiore) non basta ad assolverlo dal suo peccato originale. Definirlo come una riedizione moderna di antichi orrori, però, è una semplificazione indebita, proprio come sostenere che non è né di destra né di sinistra: qualcuno ricorderà, d’altra parte, che Ni droite ni gauche era il titolo di un famoso libro di Zeev Sternhell sul fascismo francese. Il fatto è che il Fronte non si lascia rappresentare ricorrendo, quasi per un riflesso condizionato, a questa vecchia coppia, della cui crisi è, semmai, il prodotto più significativo. Si nutre anche di residuati degli armamentari ideologici d’antan dei duellanti di un tempo, e li combina spregiudicatamente (il no all’immigrazione come condizione per la difesa strenua dello Stato sociale nazionale, per fare l’esempio più classico). Ma suscita aspettative, per quanto irrealizzabili, e produce politica in proprio. In un mondo in cui gli attori tradizionali non ne producono più.
Altro che «antipolitica». Tutto questo non basterà, domani, per governare la Francia restituendole, nell’età della mondializzazione, la grandezza perduta. È bastato e basta, però, per produrre identità quando le identità degli altri si facevano a dir poco flebili, e addirittura ideologia, trasformandola, avrebbe detto il vecchio Marx, in forza materiale, mentre la destra e la sinistra classiche (non solo in Francia) proclamano che le ideologie sono bubbole del passato. Ed è bastato e basta per costruire e portare alla vittoria qualcosa di simile a un partito, in tempi in cui i partiti, in particolar modo quelli identitari, sono considerati degli inservibili attrezzi novecenteschi.
Il Fronte Nazionale è un fenomeno molto, molto francese. Spaventa le classi dirigenti europee, che pure hanno fatto tutto quel che potevano per rafforzarlo. Anche noi, però, dovremmo avere di che preoccuparci. Il lepenismo, proprio come la rivoluzione, non si esporta. Ma la Francia, con tutte le sue differenze, è vicina. E le frontiere europee, per le nuove destre, restano aperte. Anzi, apertissime.
Corriere 12.12.15
I curdi del Levante Una nazione senza Stato
risponde Sergio Romano


Mi piacerebbe sapere sulla base di quali presupposti Inghilterra e Francia disegnarono i confini dei nuovi Stati scaturiti dalla dissoluzione dell’Impero Ottomanno. Già allora si valutò l’opportunità di creare un Kurdistan autonomo e indipendente, ma poi, forse per l’opposizione degli Stati che avrebbero dovuto cedere parte dei loro territori, non se ne fece nulla.
Ora, in questo sconvolgimento territoriale, dove già il Kurdistan iracheno gode di un’amplissima autonomia e la Siria non esiste praticamente più come Stato, potrebbe sorgere un Kurdistan indipendente formato, per ora, solo dai territori curdi di Iraq e Siria. Mentre per la parte turca e iraniana abitata dai curdi penso che il percorso verso l’indipendenza sarà molto più difficile...
Pierluigi Ziliotto

Caro Ziliotto,
La lunga agonia dell’Impero Ottomano fu rallentata dalle gelosie delle grandi potenze, tutte egualmente assillate dal timore che la sua disgregazione alterasse a vantaggio di una di esse gli equilibri della regione. Dopo lo scoppio della Grande guerra, tuttavia, fu chiaro a tutti che il grande Stato turco, alleato degli Imperi centrali, non sarebbe sopravvissuto a una sconfitta. Fu questa la ragione per cui Francia e Gran Bretagna decisero di giocare d’anticipo. Anziché attendere la fine del conflitto e le trattative al tavolo della pace, due diplomatici — François Georges Picot per la Francia e Sir Mark Sykes per la Gran Bretagna — si accordarono tra la fine del 1915 e l’inizio del 1916 sui confini delle rispettive aree d’influenza. Alla Russia fu detto che sarebbe stata consultata dopo la fine della guerra, all’Italia, con un accordo dell’aprile 1917, fu promesso che avrebbe avuto una grande parte dell’Anatolia meridionale con Smirne, Adalia e Konieh.
Vi furono ancora negoziati dopo la fine della guerra per dare soddisfazione ad altre rivendicazioni, ma queste furono, per grandi linee, le basi del trattato di pace con la Turchia, firmato a Sèvres il 10 agosto 1920. I vincitori, tuttavia, avevano fatto i conti senza un generale quarantenne che si era distinto a Gallipoli combattendo contro le forze britanniche e australiane. Si chiamava Mustapha Kemal, ma sarebbe diventato Kemal Atatürk («vero turco») dopo la fondazione, sulle macerie dell’Impero Ottomano, di una coraggiosa e spavalda Repubblica turca. Caddero così, una dopo l’altra, tutte le clausole del trattato di Sèvres che spezzettavano il cuore anatolico dell’Impero Ottomano, fra cui le pretese della Grecia e dell’Italia sulla Anatolia.
Scomparve anche l’articolo che prevedeva la costituzione di un Kurdistan nella regione sud orientale della Turchia, dove vive una forte comunità curda (oggi circa 12 milioni). Quel piccolo Stato, se fosse nato, avrebbe probabilmente attratto a sé i curdi dell’Iran (6 milioni), dell’Iraq (4 milioni) e della Siria (un milione), modificando i confini di quattro Paesi. Non è difficile immaginare quali e quanti ostacoli il nazionalismo curdo abbia trovato da allora sulla propria strada. La guerra irachena del 2003 e la guerra civile siriana del 20011 hanno acceso, per i curdi, nuove speranze, ma anche creato nuove preoccupazioni nei Paesi dove le comunità curde sono meglio organizzate e intraprendenti. Dietro le ambiguità e le reticenze con cui la Turchia ha affrontato la minaccia dell’Isis vi è certamente il timore che dalla crisi i curdi possano uscire più forti e meglio in grado di ottenere ciò che desiderano da quasi cento anni.
il manifesto 12.12.15
Tre palestinesi uccisi, è Intifada
Territori Palestinesi. Morto ieri Oday Irsheid, fratello della giovane Dania uccisa dalle forze israeliane ad ottobre
Hebron resta l'epicentro della protesta. Da Roma il capo negoziatore dell'Anp Erekat avverte Israele: «Se ci delegittimate al nostro posto arriverà l’estremismo dell’Isis».
di Michele Giorgio


Oday Irsheid, 22 anni, è stato ucciso ieri, raggiunto in pieno petto da un proiettile calibro 22 sparato da soldati israeliani a Ras al Jura. Dania Irsheid, 17 anni, era stata falciata il 25 ottobre da una raffica di mitra, sospettata di nascondere un coltello nella borsa. La scena è sempre quella di Hebron, stessa la famiglia dove una madre in 45 giorni ha perduto una figlia e un figlio. Un destino amaro che ieri ha riempito le pagine dei media elettronici palestinesi. I volti dei due ragazzi sono apparsi centinaia di volte su Facebook e Twitter.
Di Dania si racconta ancora tanto a Hebron. I palestinesi parlano di un’uccisione a sangue freddo, ripetono che non aveva alcuna intenzione ostile verso i soldati che avrebbero fatto fuoco senza pensarci due volte. Il suo caso è tra quelli presi in esame da Amnesty International che nelle settimane passate ha denunciato tante uccisioni “immotivate” di palestinesi da parte delle forze israeliane.
La vicenda di Oday e Dania Irsheid ha segnato una giornata che ha visto l’uccisione di altri due palestinesi e il ferimento di altri 70, 58 dei quali a Gaza. Omar al Hroub, 55 anni, secondo il portavoce militare, avrebbe cercato, nei pressi di Halhul (Hebron), di investire con la sua auto alcuni soldati che hanno reagito facendo fuoco.
Hebron è diventata l’epicentro dell’Intifada. Circa il 30 per cento dei circa 120 palestinesi morti dal 1 ottobre abitavano nella città cisgiordana o nei villaggi vicini. A Gaza Sami Madhi, 41 anni, è stato ucciso sul colpo da proiettili sparati dalle torrette di sorveglianza israeliane a est di al Burej, durante un corteo di protesta lungo le linee di confine. Ieri migliaia di palestinesi sono scesi in strada in varie città della Cisgiordania contro l’occupazione militare per l’anniversario della fondazione del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (sinistra marxista) e, in anticipo di due giorni sulla data effettiva, di quella del movimento islamico Hamas.
Ormai lo pensano anche i comandi militari israeliani: la nuova Intifada, la terza, pur avendo dimensioni contenute rispetto alle prime due, non è una escalation di breve durata, come si era pensato in un primo momento, ed è destinata ad andare avanti nel tempo.
Una Intifada che mette in discussione l’occupazione che il governo israeliano in carica e quelli precedenti guidati dai leader della destra Netanyahu, Olmert e Sharon, credevano di poter normalizzare. Ma che erode anche la base di consenso dell’Autorità nazionale palestinese di Mahmud Abbas (Abu Mazen). Ieri il capo dei negoziatori dell’Anp, Saeb Erekat, dal Forum Med di Roma, ha detto senza giri di parole che le politiche di occupazione di Israele hanno innescato una forte reazione popolare nei Territori, con la conseguente delegittimazione politica anche dell’attuale dirigenza dell’Anp.
Il futuro, ha previsto Erekat, sarà «cupo» se la comunità internazionale non imporrà a Netanyahu la nascita dello Stato palestinese indipendente già riconosciuto da gran parte della comunità internazionale. Se l’Anp sarà ulteriormente indebolita da Israele, avverte, «al nostro posto arriverà l’estremismo dell’Isis e il conflitto, tenuto finora su binari politici, diventerà religioso: tra uno Stato ebraico e uno Stato islamico».
La Stampa 12.12.15
Lavrov a Roma offre aiuto
“Ma niente truppe sul campo”
Putin avverte gli islamisti: ho 35 nuovi missili nucleari
di Antonella Rampino


«Non abbiamo progettato raid in Libia, lavoriamo con il governo italiano per la soluzione della crisi». Il biglietto da visita col quale si presenta Lavrov a Roma, al bilaterale con l’omologo Gentiloni e poi nel botta e risposta con la platea di decisori e studiosi di tutta l’area del Mediterraneo alla conferenza Med2015 di Rina, rimette la Russia al centro delle crisi. È appena arrivata la notizia che il 16 in Marocco verrà firmata l’intesa tra Tobruk e Tripoli, nonostante i dissensi forti interni a entrambe le «capitali» libiche su un nuovo governo di unità nazionale, secondo il piano Leon appena passato intonso nelle mani del successore Kobler, che sarà a Roma con John Kerry proprio per il vertice convocato domenica sulla crisi libica. E quella frase di Lavrov significa una cosa chiara: il futuro governo di unità nazionale chiederà all’Onu la missione che la comunità internazionale attende da tempo, la Russia è favorevole. Ma da qui a pensare a un intervento militare, ce ne corre.
I piani, e di certo se ne saprà di più domenica, prevedono un intervento di stabilizzazione cui anche gli italiani parteciperanno, ma solo attraverso il supporto alla sicurezza. Stati Uniti e Gran Bretagna (qualcuno sussurra anche Italia) hanno già intelligence sul terreno, con il via libera dell’Onu arriveranno militari che aiuteranno le forze di Tobruk e Tripoli a stabilizzare il Paese. «Certo, quella in Libia è una scommessa», commenta con realismo una fonte diplomatica. Gentiloni ha sottolineato che l’avanzata dell’Is a Sabrata al momento non è confermata e Lavrov ha aggiunto che anche le informazioni da Sirte sono «conflittuali», l’Is nell’analisi del capo della diplomazia russa starebbe volutamente esagerando la portata della propria espansione in Libia «per reclutare sostenitori». Un po’ come quando Vladimir Putin evoca le armi nucleari (ieri ha parlato di «35 nuovi missili atomici»). Ma dal punto di vista della narrazione anche l’Occidente commette non pochi errori, come qui a Med2015 è stato spiegato in una delle più interessanti sessioni di lavoro.
Nessun intervento militare diretto è previsto in Libia, come dice Lavrov, né cambia la strategia per quel che riguarda la lotta all’Isis: anche lì, forze speciali e raid, ma a sostegno di forze locali sul campo. Ma niente «boots on the ground» occidentali: come ha lasciato intendere un paio di giorni fa il capo del Pentagono Ashton Carter, una battaglia è proprio quello che Isis vorrebbe: usa la guerra con l’Occidente per rafforzarsi nel mondo sunnita.
Disgelo Russia-America
Si intensificano invece, sperando che «la diplomazia sia più veloce dell’Isis» come dice Gentiloni, le trattative diplomatiche. Un vertice sulla Siria è in agenda lunedì sera a Parigi, in attesa che il tavolo sulla transizione siriana sia riconvocato (se tutto fila liscio, prima di Natale a New York), in vista del summit anti Isis di Roma all’inizio di febbraio. Ma intanto oggi arriva a Roma Kerry, che il 15 sarà a Mosca da Putin. La primavera nei rapporti russo-americani sbocciata al vertice di Vienna continua, ieri Lavrov concedeva perfino che «gli accordi di Minsk devono essere applicati, non può continuare la crisi profonda dello Stato ucraino». Di certo, se non si esce dalla Guerra Fredda a pezzi, difficile vincere quella vera contro l’Isis.
La Stampa 12.12.15
Il vessillo nero sventola per noi
di Stefano Stefanini


La bandiera nera dello Stato Islamico sventola fra Tripoli e il confine tunisino. I fuoristrada di Isis sono entrati a Sabrata, come a Raqqa e a Ramadi, fra la passiva accoglienza dei locali, rassegnati al peggio.
Può darsi che l’anfiteatro romano affacciato sul mare rischi ora gli stessi scempi e commerci di Palmira e di altri siti siriani. Certo Isis non si farà scrupolo di rimpinguare le casse con la vendita di reperti archeologici e di un po’ propaganda col piccone.

L’Italia ha messo la cultura al centro dello schermo anti-Isis. La preoccupazione di perdere un altro pezzo del patrimonio dell’umanità tocca pertanto una corda sensibile. Non deve però distrarre dal nocciolo: cosa significa l’improvvisa comparsa di Isis 500 km a Est dalla roccaforte di Sirte? C’è una strategia di controllo del territorio o è succo di limone jihadista che scorre liberamente? È uno spostamento di baricentro verso il Nord Africa oppure un semplice proliferare di operazioni e affiliazioni che, nella debolezza delle fazioni libiche in guerra fra loro, favorisce lo Stato Islamico?
Con la stessa rapidità con cui è spuntato, Isis potrebbe ritirarsi e dileguarsi. Qualche decina di pick-up, su un terreno senza ostacoli naturali, si muove senza le pesantezze delle colonne militari convenzionali. I cieli sono sgombri: l’avanzata delle bandiere nere negli spazi libici non ha da temere i bombardamenti, che magari non sconfiggeranno Isis, ma l’hanno certo fermata in Iraq e in Siria. Così lo Stato Islamico è arrivato a Sabrata e presenta oggi più di una minaccia.
Innanzitutto, per la Libia e per le tenui prospettive di dialogo fra i due governi, quello di Tobruk e quello di Tripoli, e fra le varie fazioni. L’iniziativa dell’inviato speciale dell’Onu, Kobler, punta a dar vita a un governo d’unità nazionale che poi la comunità internazionale sosterrebbe. È quanto l’Italia attende dalla scorsa primavera. Con Isis sempre più forte sul terreno, il già fragile edificio della riconciliazione avrebbe le fondamenta nelle sabbie mobili. Bisognerebbe prima sradicare Isis – esattamente come in Siria. Più Isis allarga il controllo del territorio più il problema aumenta. Se la presenza a Sabrata diventa permanente, lo Stato Islamico si sarebbe piazzato a Ovest oltre che a Est dei centri di resistenza, Tripoli e Misurata.
Sulla linea del fuoco anche la Tunisia. Sabrata è a meno di 100 km dal confine; a meno di 200 da Djerba. La Tunisia, colpita quest’anno da due attentati che ne hanno scientemente preso di mira il potenziale turistico, è l’unica storia di successo delle primavere islamiche. Sta faticosamente e coraggiosamente costruendo democrazia ed istituzioni, con un’economia che stenta a riprendersi. Non è immune al fondamentalismo e al terrorismo dall’interno. Quanti turisti occidentali torneranno sulle spiagge tunisine con Isis al di là del confine? Se il contagio tracima in Tunisia, dove Isis ha quasi certamente simpatizzanti e quinte colonne, il Nord Africa si trova con un altro Stato a rischio.
Sulla carta geografica, l’arrivo di Isis a Sabrata non cambia molto per l’Italia. L’avvicinamento alla coste siciliane è trascurabile. Lo Stato Islamico non ha flotta; la minaccia terroristica non viaggia per mare. Cambia molto sul piano politico e strategico. Per tre motivi. Primo, mette in discussione la filosofia dell’attesa perché il passar del tempo non fa che rafforzare Isis: qual è la soglia che non gli si può permettere di superare? L’ingresso di pick-up a Tripoli? Il controllo di grandi tratti della costa? O nessuna è considerata tale da mettere a rischio l’Italia, protetta dal controllo del mare?
Secondo, cambia completamente lo scenario di qualsiasi futura operazione internazionale in Libia. La presenza di Isis sul terreno costringerà a robuste operazioni militari di «bonifica» (se non le vorremo chiamare di guerra).
Terzo, l’Italia va dicendo da mesi di essere pronta ad assumere la guida internazionale «per la Libia» e, a tal fine, di tenere in riserva le proprie risorse. Vi è una forte aspettativa internazionale di «cosa farà l’Italia in Libia». Come, quando e con chi: Nato, Ue o coalizione ad hoc? Improbabile che possa essere da sola, come fece la Francia in Mali, in una situazione molto meno critica di quella libica. Altre formule non esistono. È ora di pensarci. Non sono domande di oggi. Ma lo sventolare del vessillo nero di Isis sull’anfiteatro di Sabrata le rende più pressanti.
La Stampa 12.12.15
Kobler all’Onu
“Tempo scaduto bisogna agire”
di Paolo Mastrolilli


La Libia si avvia verso la creazione di un governo di unità nazionale, che metta fine alla guerra, consenta di scacciare l’Isis, e contrasti il traffico di esseri umani. Per realizzare questi obiettivi servirà una missione di pace internazionale, che l’Italia spera di guidare.
È stato lo stesso inviato dell’Onu, Martin Kobler, a riferire ieri al Consiglio di Sicurezza l’esito delle trattative condotte negli ultimi due giorni a Tunisi: «I membri del dialogo politico si sono accordati per firmare l’intesa il 16 dicembre». Quindi il diplomatico tedesco ha aggiunto: «La Libia è impegnata in una corsa contro il tempo, non ci sarà un’altra occasione così per la pace. Ho sentito un grande consenso. C’è urgenza perché il tempo sta scadendo, per la pace, la sicurezza e la prosperità del Paese. L’urgenza è basata su vari fattori. Uno è il pericolo crescente del terrorismo, che hanno menzionato tutti i membri, cioè l’espansione dell’Isis e altri gruppi: ora è il momento di agire. Il secondo fattore è la tragica situazione umanitaria».
La conferenza di Roma
Il percorso auspicato adesso passa per tre appuntamenti chiave. Il primo è la conferenza di Roma, che dovrebbe sancire l’intesa, confermare la data della firma, e concretizzare il sostegno internazionale. Il secondo sarebbe l’atto formale di riconciliazione il 16 dicembre, la sottoscrizione del piano, e il varo del governo di unità nazionale. Il terzo poi una nuova riunione del Consiglio di Sicurezza, intorno a Natale e forse proprio il 24 dicembre, per recepire l’accordo con una risoluzione, e sollecitare la creazione di una missione di pace internazionale per stabilizzare il paese. Il varo della missione avverrebbe in un secondo momento, se l’accordo sarà applicato, e l’Italia ambisce al comando. È vero che siamo l’ex potenza coloniale, ma conosciamo la Libia meglio di tutti e abbiamo il candidato perfetto nel generale Serra.
Già apprezzato comandante della missione Unifil in Libano, Serra è stato appena nominato dal segretario generale Ban Ki-moon come suo consigliere militare per la Libia, affiancando l’inviato politico Kobler. L’intervento dovrà essere autorizzato dal Consiglio di Sicurezza, ma competerà a Ban di sceglierne il leader, e puntare su Serra sembrerebbe la strada più pratica e logica da seguire. La missione non avrebbe grandi dimensioni perché le forze locali, se vogliono, sono considerate in grado di garantire l’ordine nel Paese e combattere l’Isis. Però avrebbe un ruolo chiave tanto per la stabilizzazione, quanto poi per favorire l’azione di contrasto dei terroristi e dei trafficanti di esseri umani, diretti in genere verso l’Italia. Un nuovo governo di unità nazionale, infatti, potrebbe invitare quegli interventi finora vietati sulle coste libiche, proprio per collaborare nel fermare la tratta dei migranti.
Il Fatto 12.12.15
La bibbia della finanza
Il Ft attacca il premier: “Sul contante fa un regalo agli evasori”


IL FINANCIAL TIMES in un editoriale critica Matteo Renzi sulla lotta all’evasione fiscale dopo la decisione di alzare il limite delle transazioni in contanti da 1.000 a 3.000 euro. “Dovrebbe essere obiettivo di ogni primo ministro italiano quello di contrastare” il mondo dell’economia sommersa, sottolinea il quotidiano della City, ma il governo Renzi a suo parere “stranamente ha fatto un passo nella direzione opposta”. Il giornale ricorda come la misura sia stata motivata come mezzo per favorire la crescita e rendere più facili, in particolare, le spese dei turisti. Ma per il Ft, “è molto più difficile risalire alle transazioni in contanti rispetto a quelle fatte con carta di credito o bonifico bancario”. E “Renzi offre così una maggiore libertà d’azione a chi è intenzionato a evadere il fisco”.
Stando all’editoriale, questa potrebbe essere peraltro una decisione “determinata dalla necessità politica”, in una fase in cui il premier ha bisogno di sostegno poiché “sta portando avanti un difficile programma di riforme, in primo luogo per la liberalizzazione del mercato del lavoro, che ha causato un aspro scontro con i sindacati”.
il manifesto 12.12.15
È scomparsa la proposta che criminalizza la tortura
Non c’è traccia alla Commissione giustizia
di Patrizio Gonnella
Presidente di Antigone


Meglio pagare piuttosto che fare una legge contro la tortura. Scompare dai lavori parlamentari la proposta di legge che criminalizza la tortura. Desaparecida. Non c’è traccia all’ordine del giorno della Commissione Giustizia del Senato. Era il 9 aprile 2015 quando la Corte Europea dei diritti umani nel caso Cestaro (torturato alla Diaz) nel condannare l’Italia stigmatizzava l’assenza del crimine di tortura nel codice penale italiano. Renzi aveva promesso che la risposta italiana alla Corte di Strasburgo sarebbe stata la codificazione del reato. Da allora è accaduto qualcosa di peggio che il consueto niente.
Le forze contrarie hanno trovato buoni alleati al Senato. La Commissione Giustizia di Palazzo Madama avvia la discussione di in testo già di per sé non fedele al dettato delle Nazioni Unite. A maggio calendarizza una serie di audizioni. Sono tutte di natura istituzionale. Vengono auditi, in modo informale, i capi delle forze dell’ordine e l’associazione nazionale magistrati. Manca un resoconto stenografico degli incontri. Non vengono sentite le ong, gli avvocati, gli accademici. Così, nonostante le prese di posizione favorevoli al reato da parte dell’Anm, il risultato — prevedibile — è l’approvazione di un testo che pare pensato in funzione della non punibilità dei torturatori.
Un esempio: per esservi tortura le violenze devono essere più di una. Colui che tortura una volta sola pertanto la può scampare. La lettura degli interventi dei parlamentari lascia inebetiti. La pressione istituzionale esterna ha funzionato: viene prima concordato un testo di bassissimo profilo e poi viene messo in naftalina. Siamo quasi alla fine del 2015 e la melina continua senza tema di sottoporsi al ludibrio pubblico. Ma non è finita. C’è qualcosa di peggio che il nulla.
Il governo italiano si rende disponibile a pagare fior di soldi pur di evitare una nuova condanna dei giudici europei. È notizia fresca dei giorni scorsi. Meglio pagare piuttosto che fare una legge contro la tortura. Ricapitoliamo: era il 2004, tre anni dopo Genova, quando nel carcere di Asti due detenuti vengono torturati. L’indagine questa volta va avanti. Ci sono le intercettazioni telefoniche e ambientali. Antigone attraverso il proprio difensore civico Simona Filippi si costituisce parte civile nel processo.
Si arriva al 2012.
Così scrive il giudice nella sentenza: «Dal dibattimento emergono alcuni elementi che possono essere ritenuti provati aldilà di ogni ragionevole dubbio. In particolare, non può essere negato che nel carcere di Asti sono state poste in essere misure eccezionali (privazione del sonno, del cibo, pestaggi sistematici, scalpo) volte a intimorire i detenuti più violenti. Tali misure servivano a punire i detenuti aggressivi…e a dimostrare a tutti gli altri carcerati che chi non rispettava le regole era destinato a subire pesanti ripercussioni…I fatti in esame potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura…ma non è stata data esecuzione alla Convenzione del 1984…né sono state ascoltate le numerose istanze (sia interne che internazionali) che da tempo chiedono l’introduzione del reato di tortura nella nostra legislazione…in Italia, non è prevista alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere i comportamenti che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura».
Così il giudice è costretto a non sanzionare gli agenti di polizia penitenziaria. I reati lievi per cui è costretto a procedere sono oramai prescritti. Tutti assolti ma tutti coinvolti e responsabili.
La Cassazione conferma la sentenza. Questa volta Antigone (con il proprio difensore civico) in collaborazione con Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International e con gli avvocati dei due detenuti reclusi ad Asti, presenta ricorso alla Corte europea dei diritti umani. E qui arriviamo ai giorni scorsi. Il ricorso è dichiarato ammissibile. Il Governo, pur di evitare un’altra condanna che stigmatizzi l’assenza del delitto di tortura nel codice penale (dopo il caso Cestaro-Diaz), chiede la composizione amichevole e offre 45 mila euro a ciascuno dei detenuti ricorrenti. Dunque sostanzialmente ammette la responsabilità ma preferisce pagare piuttosto che farsi condannare ed essere costretta ad approvare una legge contro la tortura. Che ne pensano il premier Renzi e il ministro della Giustizia Orlando? Che ne è della promessa del Presidente del Consiglio?
Repubblica 12.12.15
Il caos giustizia
di Gianluigi Pellegrino


DA QUI a fine mese la giustizia rischia di trovarsi nel caos totale. Ben maggiore del solito. E il ministro Orlando lo ha denunciato. Una riforma che era ormai attuata rischia infatti l’improvviso azzeramento per un parere di poche righe emesso da una sezione consultiva del Consiglio di Stato, contro plurimi precedenti delle più attente sezioni giurisdizionali di Palazzo Spada. La riforma è quella fortemente voluta dal Governo relativa al ricambio generazionale pure in magistratura. Per controversa che fosse almeno era pronta per entrare in vigore. Si tratta molto semplicemente dell’abolizione di una delle tante norme ad personam forgiate dall’ineffabile Berlusconi. Nel 2002 infatti da Palazzo Chigi il cavaliere, nel trasparente, quanto vano, tentativo di ingraziarsi gli allora vertici della Cassazione che dovevano decidere sulla pretesa di sottrarre a Milano i suoi processi, infilò nel calderone di una finanziaria il codicillo che consentiva ai magistrati di rinviare la pensione rimanendo in carica fino a 75 anni, in difformità da quello che avviene nella gran parte dei paesi europei.
E così nel 2014 il nuovo governo in uno dei suoi primi provvedimenti di auspicata ripartenza del paese, ha abolito la deroga. La decisione se mai peccava di qualche difetto di gradualità tant’è che si concordò una proroga per abbattere i rischi di vuoti di organico e consentire all’organo di autogoverno lo svolgimento delle procedure per la sostituzione dei pensionandi.
Questo è avvenuto. Con grande impegno del Csm, tra le consuete agitazioni correntizie e la difficoltà di far digerire ai giudici più anziani una norma per loro chiaramente indigesta, decine di concorsi sono stati effettuati. Ovviamente magistrati che vi hanno partecipato hanno dovuto rinunciare a candidarsi ad altri incarichi; e così via. Insomma si era pronti, almeno per questa piccola novità, a metterla in pratica. Ognuno certo rimaneva delle sue idee. Chi apprezza lo svecchiamento, chi lamenta un qualche eccessivo cedimento ad un messaggio giovanilista. E però per una volta, tutti si concordava che “cosa fatta capo a”.
Troppo facile. Perché come ogni buon colpo di scena, arriva venerdì la bomba di una decisione della seconda sezione consultiva presso il Consiglio di Stato che prima ancora di garantire il contraddittorio al Ministero ha espresso avviso che non se ne faccia nulla e che i pensionandi ricorrenti debbano invece, per ora, restare in carica.
Se ciò venisse davvero attuato le ripercussioni sarebbero a valanga: paralisi di concorsi già espletati, compromissione di tutte le altre procedure dove risulterebbe viziata la platea dei concorrenti. E addio allo sbandierato ricambio. Incertezza assoluta su chi e per quanto debba decidere questa o quella causa. Insomma una gran caos proprio ai vertici della magistratura, in ogni Procura e in ogni Corte d’appello. Per non parlare delle somme e delle risorse umane spese inutilmente.
La soluzione c’è ma si deve essere rapidi e determinati nel volerla.
E infatti proprio per insegnamento dello stesso Consiglio di Stato i pareri sulle istanze cautelari emessi nell’ambito dei cosiddetti ricorsi straordinari non sono per nulla efficaci se assunti senza previo ascolto delle ragioni del ministero. Quindi, nel caso, il dicastero della giustizia può e deve rifiutare l’emissione del decreto che dovrebbe dare vigore alla sospensiva. Nel frattempo anche una sola delle parti interessate può chiedere che le cause siano trattate nelle ordinarie aule giudiziarie a cominciare da quelle dei Tar che già in più occasioni hanno respinto analoghe istanze che volevano fermare la riforma; come pure hanno fatto le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato con pronunce attente alla forza della legge che dovrebbe essere rispettata da tutti.
In questo modo il caos sarebbe evitato, concorsi e ricambi sarebbero salvi e al 31 dicembre vedremmo almeno un piccolo cambiamento attuato.
Del resto c’è un principio da riaffermare. In uno stato di diritto tutti, anche i giudici, sono soggetti alla legge. E quindi anche alle piccole o grandi riforme; soprattutto se li riguardano. Sono pure liberi di criticarle e sollevare ipotesi di incostituzionalità, ma devono rimetterne l’esame alla Consulta, giammai disapplicarle sostituendosi agli apprezzamenti che il legislatore ha compiuto. Altrimenti salta ogni sistema, proprio a cominciare da chi della forza della norma, uguale per tutti, dovrebbe essere il custode.
Repubblica 12.12.15
“Evita l’aborto, assurdo negarla”
Il ginecologo: può aiutare soprattutto le giovanissime
intervista di C. Sal.


ROMA. «Con la pillola dei cinque giorni dopo l’obiezione di coscienza non ha senso perché non interrompe la gravidanza, anzi: è un farmaco contraccettivo che evita l’aborto». Il professore Nicola Surico, primario della clinica ostetrica dell’ospedale Maggiore di Novara ed ex presidente della Società italiana di ginecologia, è un medico cattolico e obiettore.
Come funziona esattamente ellaOne?
«Previene la gravidanza perché ritarda l’ovulazione: in pratica rende l’uovo incapace di essere fecondato. È simile alla pillola del giorno dopo, ma agisce fino a cinque giorni dopo il rapporto sessuale. Prima viene presa, più è efficace».
Quali sono i vantaggi e gli svantaggi?
«Naturalmente sarebbe meglio ricorrere sempre meno ai contraccettivi d’emergenza e fare una contraccezione programmata con il medico. Ma è un bene che questo farmaco ci sia perché, soprattutto per le giovanissime che vi fanno ampio ricorso, evita l’interruzione volontaria della gravidanza, che per la donna rappresenta sempre un trauma fisico e psicologico, sia che venga eseguita chirurgicamente sia che avvenga con la pillola abortiva».
Allora perché spesso è difficile acquistarlo?
«C’è ancora la convinzione diffusa che questa pillola possa essere abortiva, ma non è così. La reticenza di medici e farmacisti che sollevano l’obiezione di coscienza non ha senso».
In ospedale viene richiesta molto?
«Sempre di più, le donne ne fanno un ampio uso e questo sta comportando una deciso calo degli aborti, soprattutto al Nord. Il che vuol dire che è un contraccettivo, seppur d’emergenza, che funziona».

Su Repubblica.it il video: “Caccia alla pillola dei cinque giorni dopo”, videoreportage firmato da Giulia Costetti e Alberto Marzocchi
Repubblica 12.12.15
“La pillola dei 5 giorni dopo è introvabile nelle farmacie”
Da Milano a Palermo percorso a ostacoli per comprare il contraccettivo I pretesti al bancone: da “serve la ricetta” a “siamo obiettori di coscienza”
Federfarma: “La legge prevede la vendita alle maggiorenni senza bisogno di prescrizione”
di Cristiana Salvagni


ROMA «È finita». «Per comprarla serve la ricetta medica». «Non ce l’abbiamo perché è un farmaco abortivo e qui facciamo obiezione di coscienza». Le motivazioni sono le più diverse ma il risultato, per la donna al banco della farmacia, è sempre lo stesso. Quello di non poter comprare ellaOne, il farmaco contraccettivo d’emergenza meglio conosciuto come “la pillola dei cinque giorni dopo” perché è efficace nel prevenire una gravidanza indesiderata fino a 120 ore dopo il rapporto sessuale ritenuto a rischio.
In Italia l’ulipristal acetato (questo il suo nome tecnico) è in vendita dall’aprile del 2012. Ma dal 9 maggio scorso si può acquistare anche senza ricetta medica: la prescrizione resta obbligatoria per le ragazze che hanno meno di 18 anni, mentre è necessario presentare una delega dell’interessata se a fare l’acquisto è un uomo. Eppure la difficoltà a procurarsela, da Treviso a Palermo, resta.
Lo denuncia una videoinchiesta di Repubblica. it nelle farmacie di Milano: «Qui non ce l’abbiamo e non so se le altre farmacie ce l’abbiano: se sono obiettori possono rifiutarsi di venderla », spiega ai cronisti una farmacista. «Cinque giorni dopo è tanto, ha già le braccine!» le fa eco un’altra.
Lo conferma l’associazione onlus Vita di donna. «Ogni giorno riceviamo da tutta Italia tra le sei e le dieci chiamate di donne in difficoltà: tre su quattro ci dicono che in farmacia ellaOne non c’è, che non gliela vogliono dare, che serve la prescrizione medica», accusa la presidente Elisabetta Canitano, ginecologa della Asl di Roma. «L’altro giorno al consultorio di Fiumicino si è presentata una ragazza di trent’anni, neanche una bambina, cui il farmacista aveva risposto “Non sarà meglio presentarsi con una ricettina del medico?”. Un’altra, al telefono da Palermo, mi ha detto di aver girato cinque farmacie, che non c’era verso di averla».
Che si fa in questi casi? «Noi sproniamo tutte a far valere i propri diritti: a presentarsi con il documento, citare la legge 105 dell’8 maggio 2015, e chiedere la pillola senza esitazioni. In questo modo la reticenza dei farmacisti spesso viene superata. Ma se neanche questo basta, allora bisogna chiamare i carabinieri », continua Canitano. «Il problema è che le donne vanno a chiedere aiuto, sperano che il farmacista sia solidale, metre molti di loro pensano che vendere un contraccettivo senza ricetta sia cedere al libertinaggio. Si sentono i custodi del buon costume. Ma non possono appellarsi all’obiezione di coscienza, perché ellaOne non è un abortivo».
Non sta comunque al farmacista, dice Federfarma, decidere se dispensare o meno un medicinale. «Nel caso di ellaOne il suo compito è solo accertarsi che l’acquirente sia maggiorenne o, se minorenne, che abbia la prescrizione. Se non ce l’ha disponibile, deve procurarselo il prima possibile», spiega la presidente Annarosa Racca. «Se poi c’è un obiettore di coscienza, deve esserci anche un’altra persona che non lo sia. Il farmacista ha un ruolo di riferimento, spesso dà consigli e risolve i problemi delle persone. Ma comunque non spetta a lui stabilire se un medicinale sia abortivo o meno: siamo il primo presidio sul territorio del sistema sanitario nazionale. Dobbiamo dispensare ciò che viene richiesto».
Sulla riluttanza a vendere la pillola dei cinque giorni dopo si è espressa, più volte, anche la Federazione ordini professionali dei farmacisti. È di due mesi fa una circolare che chiede di rispettare «scrupolosamente» la legge sulla vendita di ellaOne, così come prescritto dal ministero della Salute. «Ma se il messaggio non è passato — commenta il presidente Andrea Mandelli — manderemo un’altra comunicazione per ribadire il concetto».
Il Fatto 12.12.15
Domani a Verona c’è l’Italia Possibile di Pippo Civati


È stato insieme a Renzi il protagonista della prima Leopolda, ormai sei anni fa. Adesso Pippo Civati, fuori dal Partito democratico, lancia da Verona il suo movimento: “L’Italia Possibile è quella che vorremmo per i prossimi vent’anni, è un progetto di governo che parte e si costruisce dal basso, mobilitando le competenze diffuse, ed è il titolo dell’evento in cui discuteremo di tutto questo domani, con tanti ospiti e compagni di viaggio, alla Fonderia Aperta di Verona dalle 10 del mattino”. A differenza della Leopolda, la convention civatiana ha un programma già ben definito. Interverranno: Vincenzo Visco (già ministro delle Finanze), Mario Seminerio (economista), Gianfranco Pasquino (politologo), Vito Gulli (imprenditore), Francesca Coin (sociologa), Camilla Seibezzi (attivista per i diritti civili), Veronica Caciagli (presidente di Italian Climate Network), Maurizio de Giovanni (scrittore), Peppe Allegri (autore de Il quinto stato), Gianfranco Viesti (docente di Economia), Maurizio Franzini (docente di Economia), Michele Raitano (ricercatore di Politica economica), i Diavoli (Il progetto collettivo di cronaca finanziaria fondato da Guido Maria Brera).
il manifesto 12.12.15
Il soccorso arancione
L'appello dei sindaci. Se quel perno (il Pd) ci porta fuori strada
di Paolo Favilli


Ha ragione Fausto Bertinotti quando dice che la cosiddetta «provocazione» del ministro del lavoro, Giuliano Poletti, cioè la sostanziale riproposizione del cottimo nella dinamica salariale, «va presa sul serio». È la «spia», per dirla con Carlo Ginzburg, di quanto la «nuova ragione del mondo» sia elemento consustanziale del Pd, della sua struttura portante come «perno» (direbbero i sindaci arancioni) dell’attuale establishment di potere.
È la «spia» di quanto lungo e profondo e dunque radicato, sia stato il percorso di acquisizione della «nuova ragione» che consiste, appunto, nel dispiegamento pieno della logica secondo la quale «il mercato il principio del governo degli uomini e del governo di sé» (Dardot, Laval 2013).
Radicamento dunque; Poletti, infatti non è Renzi, che, tramite consolatorio errore, può essere considerato un recente ed estraneo invasore calato improvvisamente come gli Hyksos sul terreno incontaminato degli eredi di quella che fu la grande sinistra italiana.
L’attuale ministro del lavoro è da sempre una componente di quel terreno, un agente primario della sua organica trasformazione in un elemento fondamentale dell’humus di quella «crisi organica» (Gramsci) che è la vera cifra interpretativa del «momento attuale».
L’humus da cui sono germogliati tutti gli atti, corposi e coerenti, che in un periodo non breve hanno tradotto in decisione politica le suddette logiche della «nuova ragione del mondo». Un universo fattuale così denso e significativo che può sfuggire solo a chi guardi (non analizzi) la realtà, con le lenti della ideologica «falsa coscienza».
L’humus ha prodotto, come reazione agli effetti economici e sociali di una «crisi organica» che ha moltiplicato le forme di esclusione tra ceti subalterni divenuti sempre più ampi, proprio quelle orribili risposte che, in maniera riduttiva, chiamiamo di «destra».
Stupisce, allora, la rimozione totale di qualsiasi dimensione davvero analitica dal cosiddetto appello dei tre sindaci arancioni per un fronte comune che possa efficacemente opporsi alla montante marea di destra.
Innanzitutto chi dovrebbe fare barriera, quali forze? «Quelle forze –dicono i sindaci –sono principalmente il Partito Democratico, perno e componente maggioritaria, e Sel». Cioè il «perno» sarebbe costituito da una delle forze politiche costitutive dell’humus sul quale la «destra» ha germogliato. E il ruolo di Sel? Pungolo? Mosca cocchiera? Costola esterna del Pd? In sostanza un’opera di soccorso arancione.
Quali sarebbero le possibilità di modificare il ruolo del Pd negli attuali equilibri di potere, un ruolo che ha profonde ragioni strutturali? Con tutta evidenza nessuna.
«Qui la gente non ha paura dell’Isis, la gente ha paura di Renzi perché non c’è lavoro», avrebbe detto un lavoratore petrolchimico al segretario della Fiom (Huffington post, 10 dicembre). A Piombino, dove la classe operaia ha avuto per decenni un ruolo davvero dirigente, oggi tra le centinaia di cassaintegrati con prospettiva di mobilità (licenziamento) che lo spegnimento dell’altoforno ha sparso nella città, circola sempre più forte la voce di chi è contrario a iniziative di lotta «perché se no il padrone non investe, il padrone se ne va».
Non credono i sindaci arancioni che sia questo il terreno di cultura dei nuovi barbari? Non credono che sia questa la realtà nella quale qualsiasi soggetto politico «di sinistra» debba fare immersione totale?
La deindustrializzazione, del resto, non era un destino, la deindustrializzazione è stata, è, il frutto di scelte politiche.
Un economista non certo radicale, Pierluigi Ciocca, nel volume conclusivo della monumentale Storia dell’Iri, si chiede: «Avrebbe giovato conservare l’Iri? Ovvero (…) potrebbe giovare una nuova Iri? La risposta è positiva, qualora si spinga l’immaginazione a un controfattuale che includa l’ Iri nella sua migliore stagione». Di fronte ad una deindustrializzazione «drammatica», dice ancora Ciocca, si impone nei fatti «una qualche forma di ricostituzione di un’industria manifatturiera pubblica».
Cosa ne pensa Marco Doria?
A suo tempo ho caldeggiato la candidatura di Doria, collega all’Università di Genova, a sindaco della città. Ebbene credo che come professore di storia economica non possa non valutare con tutta serietà le considerazioni di Pierluigi Ciocca. E come sindaco arancione? È convinto che il «perno» dell’alleanza che propone, che è stato anche il «perno» intorno a cui ha ruotato e ruota la dissoluzione dell’industria pubblica italiana, possa essere recuperabile per l’indispensabile inversione strategica?
In realtà il testo dei sindaci arancioni non si pone assolutamente alcun obiettivo conoscitivo-propositivo. Si propone solo come segnale di posizionamento di una parte di ceto politico, nella continuità di quella «miseria della politica» che è una delle facce della «crisi organica».