martedì 20 agosto 2019

il manifesto 20.8.19
La risposta cinese alle proteste: Shenzhen sarà la nuova Hong Kong
La Nuova Era di Xi Jinping . Il Pcc ufficializza la città come hub tecnologico e finanziario e «modello della Nuova Era»
di Simone Pieranni


Sulle proteste di Hong Kong il partito comunista cinese ad ora si è espresso attraverso il proprio ufficio politico presente nell’ex colonia.
Le manifestazioni in corso ormai da undici settimane sono state criticate in quanto violente ed eterodirette dagli Stati uniti; ai manifestanti è stato ricordato che attualmente è in vigore il cosiddetto status «un paese due sistemi» e che se le violenze di piazza proseguiranno il governo cinese le considererà alla stregua di atti di terrorismo. Si tratta di una posizione quasi dovuta, cui corrisponde per ora la decisione di Xi Jinping di aspettare prima di compiere qualsiasi mossa pratica e vedere che succede.
MA IL PARTITO COMUNISTA ha gli strumenti per mandare messaggi molto netti anche al di fuori della questione specifica delle proteste e soprattutto al di là dell’eventuale intervento dell’esercito che ad ora è parsa più una minaccia che una reale intenzione: domenica, il giorno della manifestazione pacifica che secondo gli organizzatori sarebbe stata partecipata da 1,7 milioni di persone, Pechino ha svelato il piano di sviluppo per Shenzhen, città confinante con Hong Kong, destinata, in pratica, a diventare non solo la «città modello della nuova era di Xi Jinping», ma anche l’hub tecno-finanziario preferenziale per la Cina.
Significa che Pechino manda un messaggio molto chiaro: ora come ora Hong Kong non è più fondamentale come prima e nel futuro potrebbe esserlo ancora meno.
Non è detto che questo lasci presagire un disimpegno nei confronti dell’ex colonia ma significa che Pechino valuterà la propria reazione anche in base all’importanza strategica che la città avrà nei propri progetti futuri; Hong Kong rimane infatti uno dei «quattro pilastri» del mega progetto della Greater Bay Area (una sorta di polo tecnologico e finanziario di caratura mondiale) insieme a Shenzhen, Macao e Canton, ma non sarà più la «numero uno».
Le note del partito comunista con le quali Shenzhen diventa l’esperimento «pionieristico del socialismo con caratteristiche cinese» ha avuto indubbiamente un tempismo micidiale anche se in realtà il progetto è in fase di studio, come capita a tutti i progetti cinesi, da molto tempo, così come da tempo Shenzhen è vista come la vera alternativa a Hong Kong, tanto più a questa recente caotica Hong Kong falcidiata, dal punto di vista cinese, da ormai tre mesi di proteste.
Il percorso che dovrà portare Shenzhen a diventare un città hi-tech e finanziaria «modello» per tutto il mondo nel 2050 (ricordiamo inoltre che la Cina ha in cantiere 500 smart city), vede due tappe intermedie da realizzarsi entro il 2025 e il 2030. Sui media cinesi si è sottolineata non poco l’importanza storica della città.
SUL MAGAZINE IN MANDARINO Ifeng un editoriale di un funzionario cinese ha sottolineato il peso «storico» della metropoli: Shenzhen solo 40 anni fa era un villaggio con un’unica strada e circa 70 mila abitanti. Oggi è una megalopoli con oltre 12 milioni di abitanti.
Il fatto è che proprio Shenzhen venne scelta da Deng Xiaoping all’inizio dell’epoca delle riforme per diventare una zona economica speciale. Fino a un po’ di anni fa – infatti – si diceva che per vedere la vera Cina bisognava andare a Shenzhen, una delle «capitali» della «fabbrica del mondo». Oggi potrebbe dirsi la stessa cosa ma per andare a vedere la nuova capitale «tecno-finanziaria» della Cina.
A SHENZHEN infatti sono nate le più importanti aziende tecnologiche cinesi, dalla Huawei alla Tencent, produttrice di WeChat. Secondo quanto riportato dal magazine cinese National Business Daily, Shenzhen è un punto di osservazione particolare anche per i funzionari cinesi: «Le statistiche riportano che almeno 300 quadri di partito si sono recati nella città negli ultimi cinque anni: i risultati hanno mostrato che Shenzhen è stata la città più visitata e studiata, per un totale di 55 delegazioni di partito e governo».
Un altro aspetto che sarà interessante verificare è quello relativo ai poteri «autonomi» della città: stando ai documenti anche l’amministrazione della metropoli potrà seguire un suo sviluppo autonomo.

https://spogli.blogspot.com/2019/08/il-manifesto-20.html

domenica 18 agosto 2019

il manifesto18.8.19
Il team segreto d’Israele che svuota gli archivi di Stato
Nakba fantasma. Il Malmab, squadra della Difesa, da anni nasconde le prove dell’espulsione palestinese. Lo scopo: minare la credibilità di ricerche storiche attraverso la scomparsa dei documenti declassificati
sono spariti centinaia, forse migliaia di fil
di Michele Giorgio


TEL AVIV «La legge in Israele è chiara, afferma che ogni individuo può avere libero accesso agli archivi e può consultare i documenti divenuti disponibili dopo essere stati declassificati, come accade negli altri paesi. Nei fatti solo una percentuale irrisoria dei documenti è accessibile».
A spiegarcelo è Lior Yavne, direttore di Akevot, piccolo e combattivo istituto di ricerca che individua, digitalizza e cataloga varie forme di documentazione sul conflitto israelo-palestinese.
IL FINE È AIUTARE difensori dei diritti umani, ricercatori e docenti attraverso il libero accesso ai file negli archivi israeliani, governativi e privati. E non è facile. «Nell’archivio delle forze armate, il più grande di Israele – ci dice Yavne – sono disponibili solo 50mila dei 12 milioni di documenti che contiene. Negli archivi dello Stato appena l’1% dei file. E restano ancora inaccessibili gli archivi dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno».
Per questo motivo, prosegue, i ricercatori consultano gli archivi privati: «È quella l’arena in cui illegalmente il ministero della difesa agisce per rendere inaccessibili i documenti riguardanti le attività nucleari di Israele o di altri Stati, le relazioni con una serie di nazioni, i palestinesi cittadini di Israele, la Nakba e le comunità palestinesi durante e dopo il 1948. Il ministero della difesa chiede o intima ai responsabili degli archivi di celare alcuni file. Spesso si tratta di documenti che non rappresentano alcun rischio per la sicurezza nazionale ma che hanno un significato politico e storico».
Akevot, grazie ai rapporti che mantiene con ricercatori, docenti e gli impiegati degli archivi, ha scoperto che ci sono «individui» che si muovono da un ufficio all’altro ordinando di far sparire determinati documenti.
«Sappiamo che queste persone si presentano come funzionari degli archivi di Stato ma in realtà non lo sono. Riteniamo che facciano parte degli apparati di sicurezza, più precisamente del Malmab, un dipartimento speciale della difesa», dice Yavne, rivelando che il suo istituto è stato in grado di ottenere le copie di alcuni file spariti. Tra questi un documento di 29 pagine, del 30 giugno 1948, redatto dai servizi di intelligence sui motivi dell’«emigrazione» dei palestinesi dal territorio controllato dal neonato Stato di Israele.
«È UN DOCUMENTO di eccezionale importanza che contraddice totalmente la narrazione ufficiale con cui sono cresciuti gli israeliani a proposito della Nakba («catastrofe») e le cause dell’esodo di centinaia di migliaia di palestinesi durante la guerra del 1948». Non furono – come da sempre vuol far credere la storiografia ufficiale israeliana e quella in Occidente – gli appelli lanciati dai leader arabi a lasciare la Palestina e ad attendere per rientrarvi la fine «dello Stato ebraico» che spinsero i palestinesi ad abbandonare 219 villaggi, quattro città e a cercare riparo in Libano, Siria, Giordania, Cisgiordania e Gaza.
Determinanti nella maggior parte dei casi furono le intimazioni e gli attacchi armati ai civili lanciati dalle forze ebraiche, regolari e irregolari. Si potrebbe dire, riassume ad un certo punto l’intelligence, «che l’impatto delle azioni militari ebraiche sulla migrazione è stato decisivo, in quanto circa il 70% degli abitanti ha lasciato le proprie comunità ed è emigrato in conseguenza di queste azioni».
IL FILE PRECISA il numero di abitanti in ogni villaggio e città e poi elenca la ragione dello spopolamento. Ad esempio: «Ein Zaytoun, distruzione del villaggio da parte nostra; Qabbaa, nostro attacco contro di loro». E precisa anche la direzione dell’esodo.
Ne esce fuori un quadro che accredita ampiamente la tesi della pulizia etnica della Palestina esposta da Ilan Pappè e avvalora gli studi e le ricerche condotte negli ultimi 30-40 anni da altri «nuovi storici» israeliani: Benny Morris, Hillel Cohen e Avi Shlaim.
Il rapporto diffuso da Akevot ha dato il via all’inchiesta svolta dalla giornalista Hagar Shezaf pubblicata il 5 luglio dall’edizione in lingua inglese del quotidiano Haaretz con il titolo Burying the Nakba: How Israel Systematically Hides Evidence of 1948 Expulsion of Arabs. Inchiesta che include un’intervista con Yehiel Horev, l’ex capo del Malmab incaricato di far sparire i documenti che danneggiano l’immagine di Israele e che potrebbero indebolire il via libera internazionale, dal 1948 a oggi, alle sue azioni e la negazione dei diritti politici (e non solo) dei palestinesi.
HOREV, RISPONDENDO alle domande della giornalista, spiega che il compito del Malmab è fare in modo che la credibilità di determinate ricerche sia compromessa attraverso la scomparsa di documenti ufficiali sulla Nakba che gli storici hanno consultato in passato.
Un chiaro riferimento a chi grazie alla declassificazione di un certo numero di file è stato in grado di confutare la versione ufficiale degli eventi prima, durante e dopo la nascita di Israele e di illustrare le vere ragioni della «miracolosa partenza» dei palestinesi dalla loro terra.
Alcuni di quei file, resi disponibili in passato, sono stati fatti sparire allo scopo, spiega Hover, di rendere inattendibile quanto si legge in un buon numero di libri. Lo spiega bene Hagar Shezaf riferendo un episodio di quattro anni fa. La storica Tamar Novick rimase colpita da documento trovato nell’Archivio Yad Yaari del partito Mapam relativo al massacro di 52 palestinesi e ad abusi gravi avvenuti a Safsaf, in alta Galilea, conquistato dalle forze della Settima Brigata israeliana durante l’operazione Hiram verso la fine del 1948.
NOVICK DECISE di consultare alcuni colleghi, tra cui Morris che in una nota del suo libro The Birth of the Palestinian Refugee Problem, 1947-1949 afferma di aver trovato lo stesso documento nell’Archivio Yad Yaari. Ma quando Novick tornò per esaminare il documento, non c’era più. Alla storica fu poi spiegato che era stato fatto sparire per ordine del ministero di difesa.
«Dall’inizio dell’ultimo decennio – ci dice Hagar Shezaf – i team del Malmab hanno rimosso dagli archivi numerosi documenti che erano stati declassificati, nel quadro di uno sforzo sistematico per nascondere le prove della Nakba». Malmab ha nascosto le testimonianze di generali sull’uccisione di civili e la demolizione di villaggi, oltre alla documentazione dell’espulsione dei beduini durante il primo decennio dello Stato.
SONO SPARITI CENTINAIA, forse migliaia di file che scrivono la storia della Nakba, la vera storia del 1948. Una storia che i palestinesi da 71 anni tentano invano di far emergere in un mondo sempre più indifferente che non vuole più ascoltarli.

il manifesto18.8.19
«Sulla Nakba Tel Aviv corre ai ripari, ma è troppo tardi»
Nakba fantasma. Intervista allo storico palestinese Salim Tamari: «Le autorità israeliane comprendono che l’immagine di Israele si sta incrinando, non presso i governi stranieri quanto nel mondo accademico internazionale»
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Delle rivelazioni fatte da Akevot e Haaretz abbiamo parlato con lo storico palestinese Salim Tamari, dell’università di Harvard, autore di testi sulla Palestina e i palestinesi prima e durante la creazione di Israele, tra i quali The Great War and the Remaking of Palestine.
È rimasto sorpreso dalla scomparsa di documenti ufficiali israeliani sulla Nakba?
In passato più volte si è saputo della sparizione di un certo numero di file sulla Nakba. Stavolta è davvero preoccupante. Abbiamo appreso dell’esistenza di un dipartimento, il Malmab, della Difesa israeliana incaricato di occultare certi documenti, evidentemente ritenuti molto compromettenti. Una parte rilevante dei materiali scomparsi riguardano le vicende di palestinesi, in prevalenza contadini, che subito dopo la nascita di Israele provarono a tornare (dall’esilio) per coltivare i loro campi, per controllare lo stato delle proprietà. Persone convinte che presto sarebbero rientrate nelle case da cui erano state cacciate o che avevo dovuto abbandonare. Israele non lo ha mai permesso. Moltissimi di loro furono uccisi senza tanti scrupoli dalle forze armate israeliane. Lo affermano anche i documenti fatti sparire. Nei suoi primi anni di vita lo Stato ebraico usò il pugno di ferro contro quelli che definiva «infiltrati», ma che quasi sempre erano civili che provavano a tornare nella loro terra.
Lo storico palestinese Salim Tamari
Quei documenti e tanti altri negli archivi israeliani smentiscono la narrazione tradizionale del 1948. Il mondo però non pare interessato ad accertare la verità storica sulla Nakba.
Questo atteggiamento è vero. Già trent’anni fa i nuovi storici israeliani avevano messo in discussione la narrazione ufficiale della nascita dello Stato ebraico. E i palestinesi sono stati in grado di fare altrettanto con la storia orale, le testimonianze di chi ha vissuto in prima persona la Nakba. Ma la reazione politica e diplomatica della comunità internazionale è stata molto limitata. Quest’ultima vicenda aggiunge nuovi particolari a una storia che tutte le persone di buon senso e obiettive conoscono o che hanno ricostruito da tempo e che invece resta ancora oggi coperta da un pesante velo.
Nel mondo accademico si storce ancora il naso di fronte alla affidabilità della testimonianza orale.
Le cose stanno cambiando. Tanti nuovi ricercatori, palestinesi e non solo, uno di questi è Adel Manna, autore del saggio Nakba e sopravvivenza, stanno irrobustendo la credibilità della storia orale perché dimostrano in vari modi l’autenticità e la sincerità del racconto del testimone, della vittima di crimini e abusi. Tanti studiosi che prima rifiutavano in linea di principio la storia orale perché non fondata su prove materiali, adesso comprendono che ha un fondamento e deve essere considerata con attenzione.
Perché l’occultamento di certi documenti si è accelerato in questi ultimi anni?
Le autorità politiche israeliane comprendono che l’immagine di Israele si sta incrinando, non tanto presso i governi stranieri quanto nel mondo accademico internazionale, tra gli intellettuali, coloro che guardano con obiettività alla vicenda. E corrono ai ripari, ammesso che sia ancora possibile. Lo storico israeliano Benny Morris, che pure non è un progressista, ha scritto un lungo articolo in cui ridicolizza la decisione di alcuni funzionari statali di far sparire ora documenti che sono stati disponibili per anni, lui stesso li ha usati per i suoi studi, e che tanti ormai conoscono.
Quanto è libero l’accesso agli archivi israeliani per gli studiosi e i ricercatori palestinesi?
Per i ricercatori stranieri gli archivi israeliani sono accessibili ma con limitazioni. Per i palestinesi non è mai semplice. Quelli con la cittadinanza israeliana sono facilitati ma anche loro hanno problemi. Quelli che vivono in Cisgiordania e Gaza devono fare i conti tra le altre cose con l’obbligo di avere un permesso per entrare in Israele o a Gerusalemme. Di grande aiuto è la possibilità di consultare gli archivi online ma i documenti disponibili sono pochi.

il manifesto18.8.19
La strage di Safsaf tra memoria orale e diari israeliani
Nakba fantasma. La nonna di Dareen Tatour e le note delle Haganah: «Legarono più di 50 abitanti insieme e gli spararono, poi li seppellirono in una buca». E un file dell'intelligence del 1948 ammette: «Il 70% dell'intera popolazione palestinese fuggì a causa dei nostri attacchi»
di Chiara Cruciati


La nonna di Dareen Tatour le ha raccontato la sua Nakba: il massacro di Safsaf, villaggio palestinese in Galilea attaccato dal neonato esercito israeliano il 29 ottobre del 1948.
È DAI RACCONTI della sua teta che la poetessa palestinese (detenuta nel 2018 dalle autorità israeliane per una poesia) ha conosciuto la storia di quel villaggio scomparso dalle mappe. Al suo posto fu costruito il kibbutz Moshav Safsufa. Lo Stato di Israele era sta già nato, cinque mesi prima, ma il trasferimento forzato della popolazione palestinese non era terminato.
I soldati circondarono il villaggio, uccisero oltre 50 persone e gettarono i corpi in una fossa. La nonna di Dareen aveva 16 anni, era già sposata. Ha assistito al massacro. Safsaf fu svuotato, i suoi abitanti scapparono nei paesi vicini. Non lei, che viveva già con il marito nella vicina cittadina di al-Jesh.
Memoria orale (come spiega nell’intervista accanto lo storico Salim Tamari) che nel caso di Safsaf si intreccia ai documenti di Stato israeliani. Quel massacro è custodito nell’archivio Yad Yaari del partito di sinistra Mapam. O meglio era: è tra i file fatti sparire dal Malmab.
«Safsaf – 52 uomini catturati, legati uno all’altro, scavata una buca, uccisi. Dieci ancora si contorcevano. Le donne sono venute, hanno chiesto pietà. Trovati corpi di sei anziani. C’erano 61 cadaveri, tre casi di stupro. Una ragazza di 14 anni e quattro uomini uccisi. A uno di loro sono state tagliate le dita con un coltello per prendere l’anello». Queste le note del membro del comitato centrale del Mapam, Aharon Cohen, riportate a Israel Galili, l’allora capo delle Haganah.
NOTE CONFERMATE da un comandante delle Haganah, Yosef Nahmani, che nel suo diario scrisse: «A Safsaf dopo che gli abitanti sventolarono la bandiera bianca, raccolsero uomini e donne in due gruppi, legarono 50 o 60 abitanti e gli spararono, li hanno seppelliti nella stessa buca. Dove hanno imparato questo comportamento, crudele come quello dei nazisti?».
***
«L’evacuazione britannica ci ha dato via libera. Almeno il 55% di tutta la migrazione fu motivata dalle nostre azioni. L’azione dei dissidenti (paramilitari, ndr) come fattore dell’evacuazione degli arabi da Eretz Yisrael ha avuto un 15% di impatto diretto. In conclusione l’impatto delle azioni militari ebraiche è stato decisivo: il 70% dei residenti ha lasciato le proprie comunità come risultato di queste azioni».
COSÌ L’INTELLIGENCE del neonato Stato d’Israele, il 30 giugno 1948, in un dettagliato rapporto spiega la diaspora palestinese da 219 villaggi e quattro città spopolate e le ragioni della fuga. Che non fu volontaria. Quel rapporto è uno dei documenti fatti sparire dal ministero della Difesa.
«È ragionevole assumere che la migrazione non fu economicamente motivata – continua il rapporto – L’economia araba non era stata danneggiata tanto da impedire alla popolazione di sostenersi».
In quel rapporto c’è tanto: c’è l’ammissione della responsabilità nell’esodo dell’80% della popolazione palestinese dell’epoca (dai registri Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi nata pochi anni dopo, si parla di oltre un milione di persone); c’è l’ammissione che la Palestina non era «una terra senza popolo», ma aveva città, villaggi, un’economia viva. E c’è, seppur in forma indiretta, la descrizione del Piano Dalet.
Redatto a inizio ’48 dalle Haganah, in 75 pagine descrive la strategia bellica per «assumere il controllo dello Stato ebraico». Tra le operazioni: «pressione economica assediando alcune città»; «distruzione dei villaggi (fuoco, dinamite, mine)»; «accerchiamento del villaggio e nell’eventualità di una resistenza la forza armata deve essere distrutta e la popolazione espulsa»; «isolamento delle vie d’accesso e blocco dei servizi essenziali (acqua, elettricità, carburante)».
AL DALET È DOVUTA la geografia dell’esodo, massacri in certi villaggi come monito e assalti su tre lati. L’unico aperto era la via di fuga: per le comunità a nord Libano e Siria, a est Giordania, a sud Gaza ed Egitto. E in molti casi, come a Jaffa, bombardamenti che spinsero i palestinesi verso il mare e le navi che li costrinsero in esilio.

il manifesto18.8.19
Il massacro di Deir Yassin nelle voci di chi lo perpetrò: «Fu un pogrom»
Nakba fantasma. La strage simbolo dell'espulsione palestinese: il 9 aprile 1948 i paramilitari sionisti assaltarono «come monito» il villaggio a Gerusalemme, 110 uccisi. «I miei uomini hanno impilato i corpi e gli hanno dato fuoco. Hanno iniziato a puzzare»
di  Chiara Cruciati


La storia sa essere dolorosamente ironica, giochi di tempi e spazi che si sedimentano su esistenze che furono e le occultano. La strada che da Tel Aviv arriva alle porte di Gerusalemme è la Highway 50, meglio nota come Begin, quel Menachem che, prima di diventare alla fine degli anni ’70 premier israeliano (e premio Nobel per la Pace nel 1978), fu il leader indiscusso della milizia paramilitare sionista Irgun. La milizia responsabile di crimini di guerra, acclarati, tra cui il massacro che più di altri è simbolo della Nakba palestinese: il massacro di Deir Yassin.
DA 71 ANNI DEIR YASSIN non si chiama più così. È Givat Shaul, quartiere di Gerusalemme ovest tra i primi che si incontrano arrivando da ovest sulla Begin. Toponomastica amara: ci si entra grazie alla superstrada intitolata a colui che spazzò via il villaggio palestinese, insieme a più di 110 persone, donne, uomini, bambini massacrati dalle Irgun, la gang Stern e le Lehi, con la complicità delle Haganah, la milizia che dopo il 1948 sarà colonna vertebrale del neonato esercito israeliano.
Appena tre anni dopo, su quel che restava delle case in pietra di Deir Yassin è sorto il centro di igiene mentale Kfar Shaul. Nuova amara ironia: l’ospedale ha curato nei suoi primi anni sopravvissuti all’Olocausto nazista e, dopo, pellegrini colpiti dalla cosiddetta «sindrome di Gerusalemme». Quelli che, persi nei vicoli della città (solo in teoria) più spirituale della terra, si credono il nuovo messia.
DELLA MEMORIA di Deir Yassin restano le pietre delle tipiche case arabe e i fichi d’india. Rischiano di non restare più i documenti d’archivio che nascosero – prima di esseri desecretati – le testimonianze dei paramilitari sionisti che quel massacro lo compirono. Anche quelli spariti nell’occultamento appena scoperto del ministero della Difesa.
Ma occultare Deir Yassin è pressoché impossibile. Sarebbe necessario per negare che un piano di espulsione di massa della popolazione palestinese abbia mai avuto luogo: il 9 aprile 1948 il villaggio fu attaccato con una violenza inaudita e un obiettivo preciso.
Non solo la «mera» eliminazione dei suoi abitanti: Deir Yassin doveva fare da monito per il resto della Palestina. Andatevene prima che a cacciarvi siano le armi. Strategia calcolata che rientrava nel cosiddetto Piano Dallet: «Lo scorso venerdì insieme alle Irgun il nostro movimento ha compiuto una tremenda operazione di occupazione del villaggio arabo Deir Yassin. Ho partecipato all’operazione nel modo più attivo – scrive in una lettera Yehuda Feder della Stern – Ho ucciso un arabo armato e due ragazze arabe di 16 o 17 anni. Li ho messi al muro e li ho colpiti con due giri di pistola».
Storie custodite negli archivi, accompagnate da altre svelate a giornalisti e registi che si sono dedicati a Deir Yassin, come Neda Shoshani: «Correvano come gatti – le racconta un comandante delle Lehi, Yehoshua Zettler – Casa per casa, mettevamo esplosivo e loro scappavano. Un’esplosione e poi avanti, metà del villaggio non c’era più. I miei uomini hanno preso i corpi, li hanno impilati e gli hanno dato fuoco. Hanno iniziato a puzzare».
«A ME È PARSO UN POGROM – il racconto di Mordechai Gichon, delle Haganah – Se attacchi una postazione militare e ci sono cento uccisi, non è un pogrom. Ma se vai in una comunità civile, quello è un pogrom. Se si uccidono civili, è un massacro». Che si tentò di occultare, raccontò l’ex ministro Yair Tsaban, giunto a Deir Yassin il 10 aprile per seppellire i cadaveri: «La Croce Rossa poteva arrivare in ogni momento, era necessario nascondere le tracce».

il manifesto18.8.19
Sulle proteste di Hong Kong è piombata l’offensiva mediatica cinese
Ieri si è anche tenuta una manifestazione a favore del governo di Hong Kong e Pechino
di Simone Pieranni


  In questo modo Pechino ha tentato di veicolare una narrazione più omogenea e facilmente comprensibile rispetto alla complessità di quanto sta accadendo a Hong Kong: la città è stata descritta come un luogo di perdizione e decadenza, in preda ai criminali e come un ricettacolo di mafiosi e businessmen senza scrupoli.

Un video di un paio di minuti nel quale sono state montate scene di film ambientati a Hong Kong e immagini delle recenti proteste. Un montaggio da kolossal e un’atmosfera epica e finale. Lo scopo del video: dimostrare al pubblico cinese il supporto del governo centrale alla polizia dell’ex colonia britannica alle prese con le proteste in corso da ormai undici settimane. Si tratta di uno dei metodi con i quali Pechino prova a dare la propria versione dei fatti accaduti a Hong Kong in Cina e non solo.
SE NEI PRIMI GIORNI delle manifestazioni a Hong Kong gli accadimenti erano stati silenziati sulle reti sociali cinesi, ben presto invece Pechino ha cambiato strategia, inondando WeChat e Weibo di messaggi a favore del governo e della polizia della città e sottolineando le «violenze» dei manifestanti che poi lo stesso governo ha bollato come prodromo di «terrorismo».
Ma la potenza degli uffici della propaganda di Pechino è arrivata anche in Occidente, dove ormai il peso dei media cinesi non è più ininfluente come qualche tempo fa. I network televisivi e informativi cinesi sono ormai in grado di fare breccia anche nel panorama mediatico occidentale, spesso anche grazie a collaborazioni con importanti media e agenzie, fornendo strumenti sia ai cinesi all’estero che mal hanno sopportato le manifestazioni a Hong Kong sia agli occidentali che parteggiano, come se fosse una partita di calcio, con la Cina contro i manifestanti di Hong Kong (naturalmente c’è anche chi «tifa» allo stesso modo contro la Cina).
I MANIFESTANTI sono stati rappresentati come studenti benestanti e inglese-parlanti (quindi «privilegiati») e in balia dell’ingerenza americana, quando non direttamente sospettati di esserne «agenti» con finalità anti cinesi.
Questo sforzo riguardo ai fatti di Hong Kong da parte dell’apparato statale cinese – comprese alcune ambasciate, come quella di Roma che ha organizzato una conferenza ad hoc sui fatti dell’ex colonia britannica, conseguenza di una tendenza generale, iniziata da alcune ambasciate in Africa capaci di usare i media con molta sicurezza –  costituisce comunque una novità e dipende da alcuni elementi fortemente radicati nel sentimento più nazionalista cinese: una diffidenza ovvia, storica, nei confronti dei media occidentali e la sensazione – spesso giustificata – che in ogni diatriba che coinvolga la Cina, gran parte della stampa occidentale sia pervasa da sentimenti anti-cinesi pregiudiziali e per interesse o in ogni caso si dimostri acriticamente favorevole a qualsiasi richiesta di democrazia arrivi da una piazza contrapposta a Pechino (da qui lo sforzo attuale di penetrazione nel sistema dei media occidentali, dopo aver provato a comprarsi direttamente gruppi editoriali stranieri).
Da parte loro i manifestanti oltre ad aver dimostrato la propria variegata composizione, scegliendo anche di manifestare in zone più periferiche per non incorrere in divieti ma anche per sensibilizzare altre fasce di popolazione (operazione riuscita) hanno attivato diversi canali su Telegram e hanno cercato di gestire l’impatto mediatico come meglio hanno potuto, chiedendo perfino scusa a seguito di alcuni eventi cavalcati dalla propaganda cinese, come il caso del giornalista del Global Times (quotidiano costola del partito comunista e su posizioni ultra nazionaliste) bloccato e malmenato dai manifestanti all’aeroporto.
Un’altra chiave con la quale la Cina ha provato a fare pressione sulle proteste è stata la minaccia più o meno velata di un intervento dell’esercito. Dopo alcuni articoli allarmistici sulla stampa internazionale è stato proprio il Global Times a escludere, per ora, l’eventualità, dimostrando quanto in realtà in tanti avevano scritto: siamo di fronte a qualcosa di diverso da quanto accaduto trent’anni fa a Pechino, a Tiananmen.
LA CINA È PIÙ POTENTE di allora, ma ha anche molti più strumenti per reagire. Uno di questi è la tattica utilizzata ad ora da Xi Jinping: non fare niente, se non utilizzare minacce verbali e aspettare che tutto quanto sta accadendo finisca per spegnersi da solo.
Il problema di questa opzione è la straordinaria capacità della mobilitazione a Hong Kong: anche ieri la città è stata percorsa da tre diverse manifestazioni, una delle quali organizzata dagli insegnanti a dimostrare l’ampio fronte anti Pechino.
Si è trattato di una giornata di proteste pacifiche, ennesimo tentativo dei manifestanti di mostrare che le proprie ragioni non hanno bisogno di violenza, almeno se non a seguito di provocazioni e violenti pestaggi come quelli messi in atto dalla polizia di Hong Kong (guidata, per altro, da due ufficiali britannici). Insieme alle proteste contro il governo della città e Pechino, si è svolta anche una manifestazione contro le proteste e a favore del governo di Carrie Lam.

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