sabato 9 gennaio 2010

Repubblica 9.1.10
Saviano: gli africani contro i clan sono sempre più coraggiosi di noi

ROMA «Contro le mafie gli immigrati sono più coraggiosi di noi». Lo ha detto Roberto Saviano a proposito degli scontri di Rosarno, ricordando che quella calabrese «è la quarta rivolta degli africani in Italia contro le mafie: per questo non vanno criminalizzati ma scelti come alleati contro l’illegalità». «La prima rivolta ricorda lo scrittore a Villa Literno nel 1989, la seconda a Castelvolturno nel 2008 e le ultime due a Rosarno, sempre dopo aggressioni subite da membri della comunità africana. Gli immigrati sembrano avere un coraggio contro le mafie che gli italiani hanno perso poiché per loro contrastare le organizzazioni criminali è questione di vita o di morte».

l’Unità 9.1.10
La rivolta degli schiavi
di Moni Ovadia

Doveva succedere! Quanto tempo può sopportare senza reagire un essere umano schiavo, che lavora come una bestia, per poco più di un tozzo di pane, che vive nel degrado peggio di una bestia, che subisce violenze, ricatti, che viene violentato, abusato dal padrone e dalle mafie, che è privo del più elementare diritto, che non accede neppure alla dignità dell’esistenza? Non c’è che una risposta per una persona decente. No! Non può sopportare. E noi dovremmo reagire a ciò che è accaduto a Rosarno interrogandoci. Che razza di paese è il nostro che permette una simile vergogna? Che razza di ministro è quello che accusa gli schiavi e propone un’ulteriore repressione nei loro confronti? La logica dell’intolleranza ha mai giovato alla convivenza civile? Credere di fermare l’immigrazione clandestina combattendo gli immigrati è una pia illusione ed è un atto vile. Non è l’immigrato che sollecita la malavita, è la malavita che incrementa e orienta l’immigrazione clandestina ed è interessata a creare condizioni esasperate, anche attraverso la guerra fra poveri, per potere vendere a maggior prezzo e con più alto profitto la povera carne umana su cui riesce a mettere le mani. E che dire degli imprenditori schiavisti? Perche non si propone contro di loro e la loro infamia tolleranza zero? L’arresto dei mafiosi a che serve se non viene prosciugata la palude che alimenta la criminalità? Oggi il Presidente della Camera Fini per l’ennesima volta ha preso la parola in difesa degli immigrati dicendo che non si combatte contro gli schiavi, si combatte la schiavitù. Il leader di An vuole evidentemente dare voce a un centro destra civile ed europeo. È ora che si trovi il coraggio di costituire su tali questioni un ampio fronte che superi gli schieramenti per salvare l’Italia dal baratro.❖

il Fatto 9.1.10
Ci trattano come bestie, non ho paura di morire

“Non ho paura di morire. Se Dio vuole, la mia vita finisce qui, altrimenti tornerò a casa e rivedrò i miei figli". Ahmed è un po' il capo, qui nella "rognetta", il rifugio dei braccianti africani che raccolgono mandarini in giro per le campagne di Rosarno. Ventitré euro al giorno netti. Cinque li pagano al caporale, "che è uno di noi", raccontano. "E due euro li paghiamo di benzina". Dopo essersi spaccati la schiena nei campi, per 14 ore al giorno, tornano alla "rognetta", o alla "ex Sila", che sono i due accampamenti nei quali dormono. Intorno a loro c'è puzza di urina, bucce di arancia che fermentano, una decina di
bagni chimici, neanche un posto dove fare la doccia. Quasi nessuno parla l'italiano. Ahmed il marocchino è uno dei pochi. Anche per questo sembra il capo. "Ho due figli", racconta. "E non li vedo da cinque anni. Se torno a casa non mi riconoscono neanche più. Ma spedisco loro soldi ogni mese". A modo suo, è un imprenditore. "I soldi che guadagno qui, in campagna, li reinvesto in costumi e asciugamani da bagno, che rivendo d'estate, quando lavoro sulle spiagge. Però non è più possibile sopportare tutto questo. Io lavoro, punto. Tutti, qui lavoriamo. E non vogliamo altro. Ci sta bene pure dormire in queste
condizioni, non importa, l'importante è lavorare onestamente e spedire i soldi a casa. Ma non possiamo essere sparati, come è successo al mio amico Babou, e non reagire. Non abbiamo più niente da perdere. La gente deve capire un concetto semplice: io sono sbarcato a Lampedusa, ho rischiato di morire in mare, per venire qui. Credevo di trovare il paradiso e ho trovato l'inferno. Ho rischiato di morire già una volta, non mi fa paura rischiare di morire adesso, perché so di essere nel giusto".
Babou lo guarda e annuisce. Mostra il braccio ferito dal proiettile di gomma, che gli hanno sparato l'altro giorno: "Non sono una bestia", dice in francese, perché non parla una parola d'italiano. È arrivato pochi giorni fa da Brescia e vuole ripartire. "Provo soltanto dolore", racconta in francese, "e non riesco neanche a pensare che sia razzismo. Sono arrivato il 21 dicembre, e voglio essere onesto, posso parlare soltanto per me, per quello che ho visto, e in due settimane non posso dire che Rosarno è razzista. Posso soltanto dire che c'è tanta, troppa violenza, e io devo sfamare i miei due figli, che sono in Costa d'Avorio, non appena mi aiutano a partire, vado via, per cercarmi lavoro altrove". an. ma.

il Fatto 9.1.10
Profondo Italia: il tiro a segno sulla carne nera
Braccia nei campi, nulla fuori. Dove il sogno del lavoro è incubo
di Mimmo Calopresti

Rosarno, uno svincolo della ormai inutile ed impercorribile Salerno-Reggio Calabria, il pezzo di autostrada che mai nessun governo è riuscito a terminare e che rende la parte bassa della Calabria il luogo più lontano dal resto dell’Italia. Non mi viene in mente un altro modo di definire quel luogo. Un nome che sfugge dallo sguardo subito dopo averlo messo a fuoco, mentre stai andando da qualunque altra parte. È un non luogo: da quello svincolo o ci si addentra nella Piana di Gioia Tauro, fino ad arrivare al porto, o si imbocca la superstrada che porta all’altra costa, venti minuti per passare dal mar Tirreno al mar Jonio, e in mezzo il nulla. In quella parte della Calabria non c’è che il nulla e, in più, d’inverno fa freddo, niente a che vedere con l’immaginario classico del sud: sole, mare e tutto il resto. Nella Piana gli agrumeti e gli uliveti fanno da padroni. La raccolta, prima dei mandarini e poi delle arance, è un lavoro duro, ma è ancora un buon modo di fare soldi. Chi ha ereditato un pezzo di terra dai genitori ha evitato quell’emigrazione di massa che ha coinvolto i più e ora ha qualcosa di cui occuparsi. I più capaci hanno sviluppato un sistema semi industriale per riuscire a sviluppare la commercializzazione del loro prodotto, gli altri debbono accontentarsi, usando manodopera a basso costo, di rivendere il raccolto sul territorio. Lavoro duro e malpagato che nessuno vuol più fare. Eppure qualcuno che ancora può fare quel lavoro c’è: sono gli stranieri, gli immigrati, quelli dalla pelle scura (ma più scura di quella dei ragazzotti del luogo), i neri, i negri. Proprio i negri, quelli che arrivano dall’Africa nera, quelli che non hanno niente, che non hanno ancora capito se sono arrivati in Italia oppure chissà dove, che si illudono di essere lì solo di passaggio, prima di approdare nei luoghi della ricchezza e delle comodità. I negri che si accontentano di vivere come bestie. Quelli che, d’altronde, ci sono abituati, quelli che si fanno la capanna con il cartone nei casolari abbandonati o, peggio, per paura di essere derubati dormono tutti insieme, per terra, in una fabbrica abbandonata e data al fuoco qualche anno fa. Gli unici rapporti sono quelli con un parroco di buona volontà. Gli unici luoghi di contatto con il resto del mondo: i supermercati, dove comprare il minimo indispensabile per sopravvivere. Lì c’è l’incontro, lì c’è lo scambio. Ma non ti venga in mente di rivolgere qualche parola di più alla cassiera, altrimenti scoppia il casino: se fino a quel punto, in quel mare di desolazione, i ragazzi del luogo ti avevano solo preso in giro e quando ti incontravano in paese ti scansavano perché i negri puzzano, a quel punto fanno il salto di qualità e ti sparano. Per carità niente colpi di lupara, basta un fucile ad aria compressa ed eccoti umiliato, non si parla e non si scherza con la donna bianca. Allora non sopporti più, ti sembra troppo, hai voglia di alzare la testa, di dirlo in faccia a quei quattro ragazzotti che tu hai gia abbastanza cazzi per riuscire a sopportare quella vita di merda, che quando ti svegli al mattino non riesci a lavarti perché l’acqua è gelida, che durante il giorno, mentre lavori, hai le mani e i piedi rattrappiti dal freddo e, quando hai finito di lavorare, non c’è niente intorno a te che ti renda la vita sopportabile tranne un improvvisato fuoco intorno a cui passare la serata. Non hai più la forza di pensare e sognare una vita migliore di questa, sei solo incazzato con te stesso per esserti infilato, senza sapere come, in un inferno senza vie d’uscita. Il casino, a quel punto, sei tu a cominciarlo, perché – come diceva Fabrizio De Andrè – chi non terrorizza si ammala di terrore. Cerchi di farti sentire. Vuoi far sapere a tutti che non sei più disponibile a fare quella vita; che, anche se hai accettato un lavoro da schiavo, se non sai che cos’è un contratto di lavoro, se non sai che esiste il sindacato, se non pretendi di essere tutelato da uno Stato di diritto che in una parte del suo territorio accetta che esista la schiavitù, hai comunque una dignità e una vita da difendere. Vuoi affermare che non puoi essere scambiato per un tiro a segno, che la tua carne brucia non solo per il freddo che accumuli durante le troppe ore di lavoro, ma perché da troppo tempo il tuo cuore non riesce ad essere riscaldato dai suoni, dagli odori e dagli affetti della tua terra e quindi pompa in circolo solo sangue avvelenato. Rosarno brucia. Il resto dell’Italia è lontana, irraggiungibile.

l’Unità 9.1.10
Lavoro da schiavi e regole imposte dalle ‘ndrine

La sera di giovedì a Rosarno alcune centinaia di immigrati, in prevalenza irregolari, si sono riversatati nelle strade rovesciando cassonetti e incendiando automobili. La protesta è nata nel pomeriggio, dopo che colpi di fucile ad aria compressa avevano fatto una decina di feriti: una “spedizione punitiva” che li ha raggiunti nei capannoni dove vivono. La protesta è continuata ieri. Ma chi sono questi manifestanti? Uomini, sotto i 30 anni, provenienti da paesi africani. Si stima che siano dai 3 ai 5mila, lavoratori stagionali che raccolgono uva, arance, olive e pomodori. A seconda della stagione, si spostano dalla Puglia alla Campania dalla Calabria alla Sicilia. Le condizioni di vita non cambiano: non hanno casa, vivono in edifici fatiscenti, senza materassi, acqua e bagni; guadagnano dai 20-25 euro per 12/14 ore al giorno e, di questa paga, sono costretti a versare una “quota” ai soprastanti che li ingaggiano. È un lavoro semi-schiavistico e, talvolta, schiavistico in senso proprio (controllo “militare” sull’attività svolta, organizzazione gerarchica, trasferimenti coatti, punizioni crudeli). Il quadro di riferimento in cui tutto ciò si colloca non è, in primo luogo, quello razzismo-antirazzismo: è, piuttosto, quello del lavoro servile all’interno di un’organizzazione criminale (in Calabria, nelle mani delle’ndrine). E il razzismo aggiunge un elemento di oppressione e discriminazione. I fatti di questi giorni sono tutt’altro che imprevisti: già nel dicembre 2008, a Rosarno, due immigrati erano stati feriti da una analoga “spedizione punitiva”. Allora la reazione fu sostanzialmente pacifica.❖

l’Unità 9.1.10
Sfruttati e vessati
la vita infame dei «neri» nella terra dei caporali
Venticinque euro al giorno per spezzarsi la schiena e raccogliere arance nei campi controllati dalla ’ndrangheta. Tutti sanno e in troppi tacciono
di Marco Rovelli

La rivolta di Rosarno non desta alcuna sorpresa.È una conseguenza naturale entro una catena di eventi. Una presa di parola di esseri muti e invisibili, naturale e giusta. I braccianti in rivolta a Rosarno sono i soggetti più sfruttati, vero e proprio sottoproletariato moderno, e si rivoltano contro condizioni di vita intollerabili e vessazioni continue – e quando la rabbia esplode, allora non c'è più spazio per la gentilezza. Occorrerebbe pensarci prima: ma nessuno ha voluto vedere, anche se tutto era già evidente. Sono stato a Rosarno tre anni fa, avevo parlato con molti di quei braccianti, ero entrato nei luoghi dove dormono – se si può dire “entrare” in relazione a capannoni semi-diroccati e con coperture precarie. Mi raccontarono di italiani che entravano nel piazzale della vecchia cartiera di via Spinoza a pistole spianate, e sparavano colpi in aria o ad altezza d'uomo. Racconti di brccianti africani rapinati dei loro pochi averi, o lasciati come morti sui bordi della strada, aggressioni diurne e notturne, sia in paese che fuori. «Noi rispettiamo gli italiani ma loro ci trattano come animali», dice uno di loro in un video che si trova su youtube, girato in quella cartiera, spettrale terra desolata, all'indomani dell'incendio della scorsa estate. Anni di vessazioni finalizzate a tenerli al loro posto – che poi è il posto dei servi. Si trattava, dunque, di vedere quale sarebbe stata la scintilla nella polveriera. E la scintilla è arrivata.
Nei braccianti della piana di Gioia Tauro mi si è reso visibile, incarnato, il doppio ruolo del migrante: da una parte macchina produttiva sfruttabile in quanto ricattabile (e la maggior parte di loro sono clandestini, dunque l'apice della ricattabilità), dall'al-
tra capro espiatorio da perseguitare, su cui scaricare le tensioni irrisolte della società. A Rosarno i braccianti subsahariani sono l'ultimo anello di una catena di sfruttamento, che su di loro si riversa. 25 euro a giornata, con 5 euro da dare al caporale: è così anche per esteuropei e maghrebini, ma i subsahariani sono quelli – per la loro nerezza – meno voluti, quindi sono i primi a soffrire la crisi e fanno più fatica a trovare il lavoro a giornata. Braccia macchinali senza diritti né identità, che all'ennesimo sparo decidono di prendersi le strade, e uscire dal margine – con la furia di chi deve vivere nascosto e ha sempre gli occhi bassi e la schiena china sulla terra. Senza di loro, arance e mandarini marcirebbero sulle terre di piccoli agricoltori e latifondisti, devastando una terra già devastata dal dominio criminale. A Rosarno ci sono una ventina di 'ndrine, è cosa nota, com'è noto che la famiglia Pesce, la cosca più potente, ha pagato l'impianto di condizionamento della chiesa parrocchiale. Le cosche si sono arricchite col traffico di droga e armi, hanno reinvestito in attività immobiliari e finanza, e sono diventate i nuovi baroni, comprando terre a prezzi imposti grazie alla forza e alle minacce, e gestendo il mercato degli agrumi. Questo predominio ha determinato una crisi economica generalizzata sul territorio, e perciò si rende necessaria una manodopera servile e sottopagata come quella dei braccianti africani. Come il liberiano Michael, che avevo incontrato anche nelle campagne foggiane: sì, perché la grande maggioranza di questi ragazzi africani non risiede a Rosarno, ma dimora lì solo per il tempo della raccolta. Per il resto, si muove nel circuito degli stagionali, e dunque i pomodori in Puglia, le patate in Sicilia, e la base in Campania (dove Castelvolturno è la capitale residenziale, per così dire).
Alcuni cittadini di Rosarno dicono che non vogliono più immigrati, adesso. Non si interrogano però su quello che gli immigrati hanno fatto servilmente per l'economia della loro zona in tutti questi anni, che si è sostenuta sulle loro spalle, le loro schiene, le loro braccia, la loro miseria. (Del resto ce ne serviamo tutti di quel sudore, visto che il prezzo basso delle arance che compriamo è dovuto proprio alla manodopera servile). E viene da chiedersi come mai quei rosarnesi non alzino invece la voce contro la 'ndrangheta, e non dicano che è la 'ndrangheta la rovina della loro terra, e che è la 'ndrangheta a dover sparire. Sono vittime anche loro, certo: ma allora perché prendersela con altre vittime ancora più vittime? Ecco, forse dovrebbero prendere esempio proprio dai braccianti immigrati, che – come a Castelvolturno hanno avuto il coraggio di scendere in strada e far sentire a tutti che non ci stanno a subire ancora.❖

Repubblica 9.1.10
Scuola, tetto per gli stranieri Gelmini: 30% in ogni classe
Stefano Merlini, docente di diritto a Firenze: umiliato il federalismo caro al governo
"Lesa l’autonomia degli istituti si rischia l’incostituzionalità”
di Vladimiro Polchi

Lo Stato può dettare norme generali sull´istruzione, ma deve rispettare le decisioni a livello territoriale

ROMA «Il tetto agli alunni stranieri è lesivo dell´autonomia scolastica e del principio di eguaglianza». Stefano Merlini, docente di diritto costituzionale a Firenze, boccia senza appello il provvedimento della Gelmini, «che oltretutto umilia lo sviluppo del federalismo così caro a questo governo».
Professore, secondo il ministro la percentuale di studenti stranieri non potrà superare il 30 per cento. Cosa dice al riguardo la Costituzione?
«Innanzitutto questa disposizione è lesiva dell´autonomia della scuola e della libertà d´insegnamento, garantiti dai primi due commi dell´articolo 33. Lo Stato può dettare norme generali sull´istruzione, ma deve rispettare l´autonomia degli istituti. Fissando un tetto a livello nazionale, non si indica una finalità educativa, ma si stabilisce un mezzo apodittico e immotivato. Spetta invece all´autonomia della scuola e alla libertà di insegnamento dei docenti individuare i mezzi attraverso i quali realizzare le finalità educative richieste dal ministero. Non è tutto».
Cos´altro?
«L´intervento del ministro dell´Istruzione rischia anche di violare gli articoli 2 e 3 della Costituzione. Rischia cioè di essere una norma discriminante. Un limite puramente numerico agli alunni stranieri per classe presuppone infatti che il semplice status di non cittadino dia luogo di per sé a una non omogeneità culturale e scolastica, cosa che invece andrebbe accertata caso per caso, dando luogo ad azioni di recupero mirate da parte della scuola. Mi sembra infine che ci troviamo davanti a un paradosso».
Paradosso, quale?
«Questi atteggiamenti centralisti e neoautoritari mi pare contrastino nettamente con quello sviluppo del federalismo così caro alla maggioranza di governo».

Repubblica 9.1.10
Presidi e direttori didattici: "Gli studenti imparano presto la lingua. E poi che cosa significa straniero?"
"Integrazione, problema reale ma non si risolve con le quote"
I dubbi del mondo scolastico. "Iniziativa ingestibile, servono risorse"
di Marina Cavalieri

"Dove li mandiamo quelli che ‘avanzano´ e con che criterio? In giro per la città?"
"La direzione a chi deve dire di no? Chi non rientra nella quota? Esiste una graduatoria?"

ROMA Un provvedimento ingestibile. Superficiale. Inadeguato. Ideologico. Forse giusto in linea di principio, corretto nella sostanza, ma non praticabile. La nota del ministro Gelmini sulla quota di alunni stranieri nelle classi arriva in una scuola che si sente abbandonata a se stessa e priva di risorse. Cala dall´alto, senza confronti. E più che dare delle risposte, dicono gli insegnanti, crea ulteriori problemi. Più che facilitare l´integrazione pone altri faticosi ostacoli.
«Questa mattina ho inserito tre bambini macedoni, non hanno nessuna conoscenza della lingua italiana ma per mia esperienza la cosa migliore è mandarli direttamente in classe. Valutare la loro competenza linguistica e decidere di conseguenza dove "smistarli", come dice la nota, magari mandandoli ad una classe inferiore per la loro età, mi lascia perplessa, non serve perché i bambini nel giro di pochi mesi parlano italiano. Magari con un appoggio esterno, ma per quello ci vogliono risorse. Che non ci sono più. Ed è questo il vero problema». Mariuccia Zavattoni è dirigente scolastico del terzo circolo didattico di Piacenza, un istituto dove arrivavano molti bambini stranieri durante la guerra nell´ex Jugoslavia. Ha esperienza d´integrazione e sa che il mondo dell´infanzia è più semplice di quello degli adulti, che i bambini magicamente, misteriosamente, si "mescolano" senza bisogno di quote, senza pregiudizi. «Il provvedimento mi sembra soprattutto ingestibile: dove li mandiamo quelli che "avanzano" e con che criterio? Non mi sembra corretto che li distribuiamo in giro per la città. La verità è che per una reale integrazione ci vogliono risorse, risorse umane. Una volta avevamo un´insegnante che si occupava solo dell´integrazione, seguiva i bambini all´interno delle classi, faceva momenti di recupero linguistico ma ora non abbiamo più soldi».
Mancanza di risorse, e là dove c´è da investire si taglia. E la scuola rimane da sola, isolata, con il suo carico di problemi. «Ci occupiamo da anni del problema degli alunni stranieri, da noi sono circa il 40 per cento, una media tendente a crescere», dice Anelia Cassai, insegnante alla scuola media "Gandhi" di Firenze, nelle classi bambini cinesi, filippini, marocchini. «La direzione didattica a chi deve dire di no? Chi non rientra nel 30 per cento? Esiste una graduatoria? E con che criterio? Si rischia di stimolare l´abbandono scolastico, di non garantire un diritto».
Ma poi chi sono i bambini stranieri, solo quelli di prima generazione o anche di seconda? Quanto sono stranieri bambini nati in Italia che parlano italiano? «C´è una grossa questione: chi considerare straniero», dice Fabiana Fabiani, maestra in una scuola della periferia romana, Laurentino 38. «Mi sembra un provvedimento tautologico, che non entra nel merito dei problemi, come sempre si pensa ad una situazione omogenea che invece non c´è. In classe ho bambini che parlano benissimo italiano, con una conoscenza della lingua che i nostri non hanno ma che italiani non sono perché non hanno la cittadinanza. La verità è che per evitare classi-ghetto dovrebbero evitare quartieri-ghetto e per questo ci vogliono politiche territoriali non didattiche».
Senza servizi, incentivi, risorse, il discorso delle quote rischia di essere solo un provvedimento che genera discriminazione. Uno slogan ideologico. «L´indicazione del ministro Gelmini è corretta ma servono politiche territoriali», spiega Simonetta Salacone, combattiva preside della scuola Iqbal Masiq, a Roma. «È ragionevole dal punto di vista dell´integrazione, ma va governato e adattato soprattutto nei quartieri di periferia o nei piccoli centri dove la maggior parte dei residenti è straniero. Bisognerebbe accorpare le scuole in modo tale da omogeneizzare i plessi che hanno molti stranieri con quelli che ne hanno meno. Vanno fatti incentivi, con buone offerte formative, nelle scuole ad alto tasso di stranieri per non far fuggire gli italiani. Invece a volte accade il contrario. Comunque il tetto nelle scuole dove le percentuali sono altissime è inapplicabile».

il Fatto 9.1.10
Sempre più Bonino
di Stefano Felri

I l Partito democratico è sempre più vicino a sostenere la candidatura della radicale Emma Bonino alla guida della Regione Lazio. Ma non è ancora chiaro in che modo, se sarà necessario il passaggio delle primarie oppure se la leadership di Pier Luigi Bersani sarà abbastanza forte da imporre una scelta dall’alto. In Puglia le primarie sono lo strumento invocato dal governatore uscente Nichi Vendola per legittimarsi contro il tentativo del Pd di scegliere da Roma un candidato (prima Michele Emiliano, ora, forse, Francesco Boccia). Ma nel Lazio la situazione è diversa.
Dopo lo scandalo che ha portato Piero Marrazzo, governatore del Pd, alle dimissioni, il partito non è stato finora in grado di esprimere una linea netta sulla successione. Martedì prossimo si riunirà la direzione del Pd del Lazio per esprimersi ufficialmente sull’ipotesi di sostegno alla Bonino. Per allora Bersani dovrà aver chiaro l’impatto dell’eventuale endorsement. Prima di tutto dentro al partito: ci sono alcuni cattolici che continuano a non gradire il nome della Bonino, ma l’apertura dell’ex popolare Franco Marini potrebbe essere un viatico sufficiente per superare le perplessità. Poi ci sono i sostenitori delle primarie, come Stefano Ceccanti, che sostengono la necessità di consultare la base. Anche se con un candidato forte e molto attivo come Renata Polverini dall’altra parte procedere alle primarie potrebbe significare prolungare un impasse del Pd laziale che dura da almeno tre mesi.
D a ieri iniziano a essere più evidenti le ripercussioni a livello nazionale. L’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, che in materia di giustizia ha posizioni opposte a quelle dei Radicali: “Non abbiamo critiche da muovere alla Bonino o ai radicali, ma chiediamo ai nostri alleati del Pd di costruire alleanze omogenee”. Il leader radicale Marco Pannella, invece, ha auspicato ieri che l’eventuale intesa sul nome della Bonino non sia un episodio isolato, ma venga accompagnata da un “patto di consultazione” con il Pd. Bersani si prepara quindi alle Regionali con tre alleati decisivi, l’Udc, i Radicali e l’Idv tutti, per ora, non troppo soddisfatti delle contropartite ottenute dal Pd.

il Riformista 9.1.10
Con Emma Bonino e senza la Binetti perdo contento
di Diego Bianchi

Ciao Diego, ma tu cosa ne pensi di questa nuova figura dell’esploratore democratico? Hai capito concretamente Boccia e Zingaretti cosa abbiano fatto?
Circolo Pd Vasco de Gama
L’esploratore democratico in effetti mancava alla galleria di cariche e profili che in questi due anni si sono affastellati nel Pd. Se si pensa che quella dell’esploratore è mansione totalmente antitetica nella sostanza alla mai troppo apprezzata e sempre temuta prassi delle primarie (un uomo indicato dal partito individua il candidato migliore anziché farlo scegliere dal corpo elettorale del partito stesso), davvero risulta difficile capire, e poi metabolizzare, quale sia la schizofrenica logica che guida la selezione della classe dirigente. Inoltre, il cappello d’esploratore messo in testa a Zingaretti (incaricato di trovare qualcuno che gli levasse di torno definitivamente la questua di fan adoranti che lo reclamano ogni volta si voti per qualcosa intorno al Gra) e Boccia (incaricato di trovare qualcuno che lo convinca di essere l’uomo giusto per prendere un’altra tranvata da Vendola) è cosa quanto meno bizzarra, per non dire offensiva, agli occhi di chi ha partecipato alle primarie del 25 ottobre. Oltre ad eleggere Bersani, le primarie erano servite anche ad eleggere svariati segretari regionali, tra cui Mazzoli, nel Lazio, e Blasi, in Puglia. Ora, un segretario regionale fresco di mandato popolare, se non viene giudicato idoneo a ricevere il mandato di esplorare nel partito e intorno al partito della sua regione, che mandati potrà mai ricevere in futuro? E che autorevolezza potrà mai avere sul territorio? Fossi uno di loro, ora come ora, esplorato nell’intimo per ragioni di forza maggiore, mi sentirei più in imbarazzo che se mi passassero addosso un body scanner.
Caro Zoro, cosa ne pensi della candidatura di Emma Bonino a governatore del Lazio? Il Pd deve appoggiarla oppure no? La Polverini è un osso durissimo, secondo me la Bonino non ce la fa.
Circolo Pd Radicali Per Radicarsi Nel Territorio
La cosa divertente di questa stramba strategia delle alleanze portata avanti dalla segreteria Bersani è l’apparente botta di culo che si sta per verificare nel Lazio. Qui, per provare a vincere dando la sensazione di crederci, pur con tutte le alleanze del caso e tutti i moderati contenti e tutta la compagnia delle tele del dialogo ebbra di felicità, sarebbe probabilmente bastato che uno come Enrico Letta o una come Rosy Bindi si fossero spesi in prima persona contro l’invincibile Polverini, eroina di Ballarò diventata mostro di carisma, spessore politico e sex appeal quale neanche lei ha mai saputo di essere, una specie d’incrocio tra Nilde Jotti, Rosa Luxembourg, Evita Peron e Monica Bellucci che anima gli incubi dei succedanei di Marrazzo ogni notte di più. Visto che però i leader del Pd di sporcarsi
la leadership non ne vogliono sapere, meglio della Bonino non ci poteva oggettivamente capitare. Perdere perderemo, forse. Ma siccome di recente ho già perso con Rutelli, almeno stavolta perdo contento. Se poi a corredo ci si mette pure l’ipotesi che si concretizzi finalmente la minaccia binettiana di abbandondare il Pd, non ci starei troppo a pensare su.
Ma tu hai capito quante regioni dobbiamo tenere delle undici vinte cinque anni fa per poter essere soddisfatti della tornata elettorale prossima ventura?
Circolo Pd Barra Storta
Bersani ha chiaramente detto che con i risultati delle ultime europee di regioni se ne tengono sì e no tre, plagiando in tutto e per tutto l’adagio bipartisan di ogni neoeletto per cui le responsabilità dei predecessori non finiscono mai, e le proprie non si capisce mai bene quando comincino. Se questo modo di raccontare le cose sia parte dell’abc del professionismo della politica lo ignoro, ma se fosse questo un parametro per capirlo, si può tranquillamente dire che al Pd, contrariamente a quanto sostenuto fino alle ultime primarie, i professionisti non sono mai mancati. È tuttavia vero che, a differenza di tanti suoi colleghi, Bersani ha stupito i giornalisti presenti alla sua ultima conferenza stampa dicendo che lui non intende partecipare alla chiacchiera quotidiana e che parlerà meno di altri. Temo di non reggere il momento in cui comincerà, tra una mela e una stella cometa,
tra uno tsunami e una barra dritta, a parlare anche lui di fuoco amico. Ad un coniatore di metafore creativo come lui dovrebbe risultare particolarmente banale e abusata, sebbene sempre utile a pararsi il culo.
Ciao Diego, hai visto ieri AnnoZero? Ti è piaciuto Vendola? Lo voteresti?
Circolo Pd Ave Nichi
Sì, ieri ho visto Santoro e Vendola e tutto il resto, e nonostante la trasmissione fosse più o meno consapevolmente congegnata per spingere la candidatura del leader di SeL a tal punto da farla risultare insostenibile, confesso che su di me Vendola esercita un fascino tutto particolare, mi affabula, mi frega, e probabilmente, vivessi in Puglia, lo voterei. Detto ciò, non nego il disappunto provato ad inizio programma quando Santoro ha spiegato che la Bonino non era andata perché «ora che fa audience non va dove non la invitavano prima». Ho pensato amareggiato che non appena mi sento contento di votare qualcuno, questo mi frega in meno di un’ora, ma tant’è, c’è di peggio. Per esempio c’è che in quel salotto lì, che può piacere o meno ma a qualche milione di persone vagamente di sinistra piace e non poco, a rappresentare il Pd ci fosse nientemeno che Alba Parietti, una che vanta nel cv di essersi fatta fare la tessera del Pci da Fassino e che ha recentemente dichiarato che quando lei entra in un ristorante, Berlusconi si alza subito e Prodi no. Poi dice che uno rimpiange Prodi.

l’Unità 9.1.10
Il «popolo viola» torna a riunirsi. Per organizzarsi
Assemblea oggi a Napoli. Si parlerà di regole: come prendere le decisioni, quali iniziative intraprendere e quali sostenere
di Francesco Costa

Forse la politica si è dimenticata di loro, avvolta com’è dalla campagna elettorale in vista delle elezioni regionali. Di certo loro non si sono dimenticati della politica, e un mese dopo il No Berlusconi Day tornano a incontrarsi, per discutere e ragionare del loro futuro.
L’appuntamento è fissato per oggi a Napoli, saranno presenti gli organizzatori della manifestazione del 5 dicembre e decine di rappresentanti dei gruppi locali sparsi provenienti da tutta l'Italia. Il tema della discussione è ineludibile: se organizzare una manifestazione nazionale senza un’organizzazione collaudata è un'impresa non indifferente, creare una struttura capace di darsi degli obiettivi politici e lavorarci sul lungo periodo è affare che richiede molta più fatica, intelligenza e pazienza. E anche qualche regola. Alcune sono già state decise: tenere le riunioni nei fine settimana per garantire la massima partecipazione, rendere pubblici verbali e interventi, impostare una rotazione di chi partecipa a trasmissioni radiofoniche e televisive, così da «evitare l’identificazione del Popolo Viola con una sola persona o con un gruppo ristretto di individui».
Altre regole saranno discusse e decise quest’oggi: come prendere le decisioni, quali iniziative organizzare e quali sostenere, come gestire i rapporti con i gruppi locali. Con la speranza che servano e bastino a superare definitivamente la polemica interna emersa tra gli organizzatori nelle settimane successive al No B. Day, che ha determinato il rinvio del meeting nazionale, inizialmente previsto per l’ultimo fine settimana di gennaio, e reso necessario l’incontro di oggi.
«Una rete ampia e variegata come la nostra rende complicata la perfetta circolazione delle informazioni in circostanze convulse come quella del mese scorso», spiega Gianfranco Mascia, tra gli organizzatori della manifestazione del 5 dicembre. «Qualcuno ha erroneamente pensato che alcuni promotori si fossero autonominati portavoce del movimento, a causa dell’inevitabile visibilità dei giorni del No B. Day».
«In più spiega Anna Mazza, organizzatrice della riunione nazionale di oggi la comunicazione su internet ha tanti pregi ma anche il difetto di rendere facile la vita di ogni genere di disturbatori e paranoici». Polemiche, accuse sulla gestione dei rapporti con i partiti, lunghi scambi di email e messaggi su Facebook, poi un chiarimento e l’accordo per incontrarsi oggi e sciogliere tutti i nodi. Prima che a incidere sulla politica italiana, il popolo viola è chiamato a vincere una sfida ricorrente per la sinistra italiana: emanciparsi dalla cultura del sospetto, guarire dai vizi della litigiosità e del frazionismo.❖
IL POPOLO VIOLA: www.ilpopoloviola.it

Repubblica 9.1.10
L’Onda Viola arriva a San Pietro
"Noi trasversali ai partiti, dal Papa per la pace". E oggi primo raduno a Napoli
L´idea lanciata da un italiano che vive in Finlandia. Un nuovo passo dopo il corteo di dicembre
di Alessandra Longo

ROMA Domenica 10 gennaio, piazza San Pietro. Una delegazione del popolo viola, quello del No Berlusconi Day, partecipa, «mischiata alla folla», alla Santa Messa, capo chino, segno della croce, massimo rispetto. Una «presenza silenziosa», in attesa dell´Angelus di Benedetto XVI. Alle 11.30 in punto ecco l´evento: «Ci togliamo la giacca o il soprabito e sfoderiamo i nostri maglioni o felpe viola e lanciamo in cielo centinaia di palloncini viola...». Non è uno scherzo, non è una provocazione. E´ il copione che gira in queste ore nella rete, la chiamata a raccolta delle «anime cattoliche» del movimento che cercano «visibilità». Un evento che si sovrappone casualmente alla giornata di oggi quando, a Napoli, altri viola daranno vita al primo raduno nazionale. Per trovarsi, annusarsi, anche fisicamente. Per decidere che cosa fare del patrimonio acquisito con la megamanifestazione del 5 dicembre scorso.
Oggi quasi un «congresso» (ma loro non lo chiamerebbero mai così), domani tutti da Ratzinger. Non c´è un cervello unico che pensa e decide. C´è quella che i viola chiamano «intelligenza collettiva». L´idea di andare alla «Santa Messa» è venuta a tal Bruno Marone, un italiano che vive e lavora in Finlandia. Lui l´ha lanciata ma non ci sarà. Ci si potrebbe chiedere che cosa c´entra il Papa con la comunità del No Berlusconi Day. Fabrizio, uno dei coordinatori romani del popolo viola, riassume quasi sorpreso: «Siamo trasversali ai partiti e, ovviamente, anche le nostre anime sono multicolori. A San Pietro ci sarà quella componente cattolica che condivide con la Chiesa gli ideali di fratellanza, uguaglianza degli individui, libertà e pace dei popoli, il rispetto dei diritti umani. A San Pietro i viola cattolici andranno a chiedere la benedizione per il nostro cammino verso una società più equa».
Sì, la «benedizione» del Papa. Difficile imbrigliarli, dare loro un´identità. Chi aspetta l´Angelus, chi suggerisce di impegnarsi per la candidatura di Emma Bonino nel Lazio. Un magma stordente, un fiume carsico che segue percorsi non prevedibili. Ieri, per esempio, quasi introvabili le notizie sul raduno dell´Angelus. Poi, verso sera, brandelli di organizzazione online: «Ore 11.35: lanceremo centinaia di palloncini viola in aria... avremo un sacco di visibilità visto che la Messa è trasmessa in tutto il mondo!». A seguire dettagli pratici come il costo delle bombole d´elio, il prezzo dei cartoncini viola «Formato A4», da riempire con «una scritta o un´immagine visibile dall´alto». Abbigliamento? «Il più viola possibile». Pioverà? «Ombrelli viola, sempre per questioni di visibilità».
«Flash mob» in piena regola. Che cos´è il flash mob? Un evento che coinvolge in maniera fulminea un gruppo di persone che «si riuniscono all´improvviso in uno spazio pubblico», convocandosi via internet e con i cellulari. Questo è il popolo viola, un esercito senza generali, in cui ognuno dice la sua. Su San Pietro non tutti, per esempio, sono d´accordo. «Non mi sembra una cosa di buon gusto dice Dario, simpatizzante viola e "amico di Beppe Grillo" e potrebbe rivelarsi controproducente...». E altri: «Se si facesse una bella manifestazione anticlericale contro il Vaticano Spa, allora potrebbe essere condivisibile la location. Ma così sembra più un appuntamento per la serie "Tutti a piazza Navona a prendersi a cuscinate"». Chissà come faranno oggi, a Napoli, quando dovranno necessariamente raggiungere una sintesi rispettosa di tutte le anime.

Repubblica 9.1.10
Carceri, record di suicidi nel 2009 settantadue decessi e quest’anno già quattro casi
di Enrico Bonerandi

L’ultimo morto a Sulmona, dove un altro detenuto è stato salvato nelle stesse ore
Sotto accusa la condizione disumana in cella e la carenza di guardie

MILANO Antonio Tammaro si è impiccato l´altra sera nel carcere di Sulmona legando le lenzuola alla grata della finestra. Tornava da un permesso premio. Un altro detenuto ci ha provato, tagliandosi le vene e cercando di impiccarsi, nelle stesse ore e sempre a Sulmona, ma è stato salvato. «Qui è peggio dello Spielberg di Silvio Pellico», commenta Leo Beneduci, segretario del sindacato degli agenti penitenziari Osapp: a Sulmona ci sono stati 10 suicidi in 15 anni. Nel carcere di Verona si è tolto la vita Giacomo Attolini, 48 anni, che è la vittima numero quattro in questo scorcio di 2010. Nel 2009 i suicidi tra i reclusi sono stati 72, il massimo storico nel nostro Paese.
Nessuno si stupisce di questa strage. Le carceri sono sovraffollate, con organici carenti di guardie e strutture sanitarie inadeguate, dopo il passaggio delle competenze dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale. Mancano psicologi ed educatori. Detenuti ammassati come bestie 22 ore su 24, lontani dalle famiglie nonostante la promessa «regionalizzazione». Tossicomani in crisi di astinenza abbandonati a se stessi. La percentuale di suicidi è 20 volte superiore a quello che accade tra le persone libere.
«Non è così anche in Paesi ritenuti meno civili dell´Italia. In Romania ci sono 5 suicidi l´anno su 40mila detenuti, in Polonia la metà che da noi, con una popolazione carceraria più vasta segnala l´Osservatorio permanente sulle morti in carcere Eppure il 90 per cento di chi vuol togliersi la vita viene salvato. Sette volte su 10 ci pensano i compagni di cella, per il resto intervengono le guardie». Dice un altro sindacalista della polizia penitenziaria, Donato Capece: «È un´emergenza quotidiana. Ogni mese arrivano tra mille e 1600 detenuti, per qualsiasi reato, e si sta creando una pattumiera in cui si butta di tutto».
«I poliziotti penitenziari si accollano responsabilità non proprie per il degrado esistente aggiunge Beneduci Ma sono ogni giorno di meno e non possono più prevenire alcuna forma di violenza». Una beffa le promesse del ministro Alfano, che annunciò lo scorso dicembre 2mila agenti carcerari in più: «Di tale provvedimento non c´è traccia nella nuova legge finanziaria». Non c´è che aspettarsi il peggio? «Una speranza c´è afferma invece la radicale Rita Bernardini, prima firmataria di una mozione sulla situazione carceraria che andrà in discussione martedì prossimo, con il supporto di un sit-in davanti a Montecitorio Lo dico per una sola ragione: altrimenti c´è lo sfascio. Le carceri stanno diventando ingestibili».
La mozione radicale ha tra i propri firmatari numerosi esponenti del Pd, e anche alcuni della maggioranza. Il Pd stesso ne ha presentata una propria, e così faranno forse l´Udc e l´Idv. Molti punti coincidono: misure alternative, tossicodipendenti in strutture di cura, rinforzo del numero degli agenti. «Se tutto resta com´è, lo sfoltimento delle carceri avverrà con i suicidi commenta Rita Bernardini Improponibile, anche in quest´epoca forcaiola».

il Fatto 9.1.10
Sulmona. Ecco il carcere dei suicidi
Un morto giovedì: è il quindicesimo in dieci anni
di Rita Di Giovacchino

Quattro detenuti suicidi in otto giorni. La tragica sequenza è culminata nelle ultime 24 ore
con due impiccati alle sbarre della cella e un terzo, salvato in extremis dagli agenti di custodia. Il primo suicidio a Verona, gli altri due a Sulmona nel tristemente noto “carcere dei suicidi”. La nostra piccola Guantanamo. Qui, negli ultimi dieci anni, si sono tolti la vita in quindici. Anonimi pregiudicati, boss famosi, picciotti pentiti. Ma anche il sindaco di Roccaraso Camillo Valentini, politico locale emergente, trovato morto in cella il 16 agosto del 2004 soffocato da un sacchetto di plastica. Era stato arrestato poche ore prima per una storia di mazzette. Ma a Sulmona, record dei record, si è uccisa anche la direttrice, Armida Miserere. Alla vigilia di Pasqua, il 19 aprile 2003, si è chiusa nell'appartamento di servizio e dopo essersi stesa sul letto si è sparata in bocca una pallottola calibro nove. Anche in questo caso l'inchiesta fu chiusa in fretta addebitando il tragico gesto alla “depressione”. La morte è tornata a bussare in via Lamaccio alle 17,45 di giovedì. Il carcere di Sulmona è un brutto cubo di cemento grigio, che riflette i bagliori della montagna innevata. Il detenuto suicida si chiamava Antonio Tammaro, 28 anni, di Villa Literno. Non si sa perché sia finito lì, non aveva alcuna pena da scontare, era soltanto un “soggetto socialmente pericoloso”. Il carcere di Sulmona ospita invece ergastolani, boss, terroristi, assassini, gente da “fine pena mai” o sottoposta al 41 bis. Il povero Tammaro aveva solo qualche disturbo psichico, niente a che fare con terroristi come Nadia Lioce, transitata qui un paio di anni fa. O mafiosi come quel Guido Cercola, condannato all'ergastolo per la strage di Natale del 1984. Anche lui si è tolto la vita il 4 gennaio 2005 impiccandosi alla spalliera del letto. Tammaro, ad onta della pericolosità, era appena rientrato da un permesso premio. Forse non ce l'ha fatta a riaffrontare via Lamaccio. La notizia è rimbalzata da un braccio all'altro e, poche ore dopo, un altro detenuto ha provato a togliersi la vita. Per fortuna questa volta gli agenti sono arrivati in tempo.
L'altro detenuto, suicida nelle ultime ore, si chiamava Giacomo Attolini, aveva 48 anni, era un pizzaiolo di origini siciliane residente da tempo a Villafranca di Verona. Il 2 gennaio, ad Altamura, vicino Bari, si è ucciso Pierpaolo Ciullo, 39 anni. E tre giorni dopo si è impiccato nel carcere Buoncammino di Cagliari, Celeste Frau, 62 anni. Tutti italiani. “Adesso è davvero emergenza”, denuncia l'Osservatorio permanente sulle carceri. Se nel 2009 i suicidi nelle prigioni sono stati 72, una media degna dello Spielberg di Silvio Pellico, nel 2010 potrebbe andare peggio. Questo il giudizio unanime dei sindacati degli agenti penitenziari. La frequenza dei suicidi in carcere è in Italia 20 volte più alta rispetto ad altri paesi, anche meno “'democratici”. In Romania, ad esempio, dove ci sono 40mila detenuti i suicidi non più di cinque l'anno. In Polonia, su 80mila, è meno della metà. E negli Stati Uniti il numero dei suicidi si è ridotto del 70 per cento grazie al lavoro di una sezione ad hoc del Dipartimento federale. Dice Donato Capece, segretario del Sappe che “quattro suicidi in otto giorni sono cosa indegna di un paese civile”. Per Luigi Manconi , presidente dell'associazione Buon Diritto, “bisogna fermare questa strage”. Ma sono davvero tutti suicidi? L'interrogativo si è più volte proposto soprattutto a Sulmona, dove ieri sera i detenuti hanno dato vita a proteste battendo con le pentole contro le sbarre, chiedono che sia aperta un'inchiesta sulle condizioni di vita interne al carcere. Perché si è suicidata Armida Miserere? Cosa aveva scoperto? In verità i casi più sospetti avvennero dopo la sua morte: nel 2005 Nunzio Gallo, camorrista con la passione di fare il cantante, aveva in effetti cominciato a “cantare”. Pochi giorni dopo lo trovarono impiccato. Poi toccò a Cercola, che in quel carcere ci stava da 20 anni, un detenuto “stabilizzato”, tranquillo. Ma pochi mesi dopo sarebbe cominciato il processo Calvi e lui era stanco di stare in carcere. Il primo a manifestare dubbi sul suicidio del sindaco Valentini fu Ottaviano Del Turco: “Camillo non era uno che si ammazzava”. Poi toccò a lui di finire in quel carcere e a preoccuparsi fu Marco Pannella: “Bisogna trasferire Del Turco, quando in un carcere ci sono stati troppi suicidi, vuol dire che ci sono omicidi”. Ma per molti la storia del carcere di Sulmona è solo un caso limite. Una maledizione nella maledizione che incombe su tutte le carceri d'Italia.

Repubblica Firenze 9.1.10
Si parte agli Innocenti con foto e dibattito
Pitti Uomo si annuncia anche con una mostra fotografica e un dibattito su «La condizione maschile», organizzati dall´azienda di calzature Manas. Allo Spedale degli Innocenti, da lunedì 11 gennaio (fino al 17 gennaio ore 10-20) saranno esposti oltre 250 ritratti di uomini realizzati dai ragazzi de La Sterpaia, Bottega dell´Arte della Comunicazione diretta da Oliviero Toscani: in piazza Santissima Annunziata saranno allestiti 20 totem a tre facce, con riproduzioni in scala gigante, alti circa 3 metri con ritratti maschili, mentre nella Sala del Brunelleschi e nel Cortile degli Uomini, verranno esposte oltre un centinaio di immagini. Bambini, vecchi, ragazzi, poveri, ricchi, alti, bassi, magri, grassi: foto di italiani scattate in giro per la penisola dal 2007 ad oggi. E sempre lunedì 11 gennaio, all´inaugurazione della mostra (ore 18) all´Istituto degli Innocenti, a parlare di "condizione maschile" ci saranno Paolo Crepet, Philippe Daverio, Raffaello Napoleone, Cleto Sagripanti, e i due candidati alla presidenza della Toscana e del Lazio per i radicali, Oliviero Toscani ed Emma Bonino. (m. a.)

venerdì 8 gennaio 2010

l’Unità 8.1.10
Bonino: «Corro anche senza il Pd. Le primarie? Non c’è tempo per farle»
La lunga giornata della leader radicale. Bersani appoggia ma non dà il via libera e i cattolici mugugnano. «Solo i bigotti e i clericali hanno problemi su di me...»
di Andrea Carugati

Bersani
«Ora tocca a lui risolvere le
contorsioni del Pd. Se ci
stanno bene, altrimenti
amici come prima. Io sto
già preparando il comitato»
Il veto della Binetti
«Non mi passa per il
cervello l’idea di dire “o me
o lei”». Franco Marini le dà
una mano: candidatura
forte, non vedo problemi»

Una giornata nel limbo, in attesa di una chiamata che non è ancora arrivata, iniziata a Repubblica tv con un’intervista da candidata in pectore alla regione Lazio, e poi sfumata in una lunga serata alla storica sede dei radicali a Torre Argentina, tra sigarette, firme da raccogliere e le torrenziali parole di Marco Pannella. No, il via libera di Bersani non c’è stato, quel «non abbiamo pregiudiziali» è pochino, non è quel mandato pieno che ormai Emma Bonino si aspettava.Bersani ha preso ancora tempo, ieri nessun contatto con il leader Pd. Ma Emma va avanti lo stesso: «Ci sono delle contorsioni nel Pd, spetta a Bersani risolverle, la palla ce l’ha lui. Qualunque cosa decidano io sono comunque candidata con la lista Bonino-Pannella. Se ci stanno bene, altrimenti amici come prima. Io la mia decisione l’ho presa, mi sono esposta, ho detto “ci sono”. E ci sono».
Nessuna retromarcia, tanto che ieri sera a Torre Argentina già si lavorava sul comitato «Emma for president» e sulle firme da raccogliere, «tutte legali, noi non facciamo come gli altri partiti», 11mila solo nel Lazio, 160mila in tutta Italia, «perché le nostre liste ci saranno in tutte le regioni,e il Pd deve dirci se vuole allearsi con noi non solo nel Lazio, ma in tutta Italia». «Noi in Piemonte vorremmo sostenere la Bresso. Ci dicano se ci vogliono...», insiste la Bonino. Confessa di aver deciso di correre nel Lazio per lo «slabbramento», per «il vuoto che ho visto intorno». Ma le resistenze sul suo nome non mancano. Ci sono vari cattolici del Pd che mugugnano, ma anche a sinistra della coalizione non mancano i mal di pancia. Ieri alla riunione del Pd del Lazio in tanti, di varie anime (da Roberto Morassut a Ileana Argentin alla sinistra di Vita e Nerozzi), hanno chiesto le primarie. «Non ci stiamo coi tempi», replica lei. «Si vota a marzo di quest’anno, non del prossimo...». Solo una battuta, ma che la dice lunga: è molto difficile che la Bonino accetti di confrontarsi ai gazebo. Oggi l’incontro tra la leader radicale e una delegazione del Pd del Lazio (ci sarà anche Maurizio Migliavacca) per sbloccare l’impasse. Poi c’è la “questione cattolica”. «Forse sono i clericali e i bigotti ad avere qualche problema. Le nostre battaglie, come aborto e divorzio, le abbiamo vinte grazie al voto dei credenti, a un sentire comune sui temi della libertà e della responsabilità». E la Binetti che minaccia di lasciare il Pd per protesta contro di lei? «A me non è mai venuto in mente di dire “o io o la Binetti”, non mi passa per l’anticamera del cervello. È un modo di vivere la politica che non mi appartiene per niente». Un sostegno di peso le arriva da Franco Marini, padre nobile dei cattolici Pd: «La Bonino è una candidatura forte, non vedo alcun problema. E poi non stava con noi già nel 2008?». E i dubbi a sinistra? «Ho fatto lealmente parte del governo Prodi e avevo come collega ministro Ferrero», risponde lei. Si definisce una figura «aggregante, la mia storia lo dimostra», e, dati alla mano, «capace di pescare consensi anche a destra». «L’Istituto Cattaneo ha dimostrato che, alle ultime europee, i flussi di voti verso i radicali sono venuti più da destra che da sinistra, da un elettorato che non si ritrova nelle posizioni della Lega». Le incertezze di queste ore non le piacciono, le ricordano i riti della vecchia politica, della partitocrazia che tanto ha combattuto. E si rivolge a tutti gli
I Verdi: «È la candidata di tutti Può battere la Polverini»
«Ormai i giochi sono fatti: è Emma Bonino la candidata e di grande prestigio e di qualità di tutto il centrosinistra alle prossime elezioni regionali nel Lazio. Può battere la Polverini. Adesso il Pd esca dagli indugi». Lo dichiara il presidente dei Verdi Angelo Bonelli.
elettori: «La degenerazione dello stato di diritto e della democrazia riguarda tutti, la mia candidatura è un’alternativa e un’opportunità».
A chi le chiede dei programmi risponde con il menù tradizionale della bottega radicale: carceri, ammortizzatori sociali, stato di diritto, integrazione rigorosa degli immigrati, famiglia e trasparenza della pubblica amministrazione. Alla Polverini, nonostante il fair play, prende le subito le misure. A partire dal nucleare. «Io faccio una scelta di campo differente, per me non porta vantaggi sul lato dei costi-benefici». Poi c’è tutta la questione delle nomine in Regione: «L’unico strumento efficace per me è la trasparenza, l’indipendenza delle giurie sulle gare d’appalto, rendere pubblici i curriculum dei componenti delle gare aggiudicatrici». No al quoziente familiare, uno dei pilastri dell’accordo Udc-Polverini: «Mi sembra uno strumento per inchiodare ancora di più le donne a casa». Una stoccata a «Renata» anche sul suo supporter Storace: «È lui che ha fatto ereditare una voragine finanziaria spaventosa alla Regione Lazio, 10 miliardi di debiti». Ma anche a sinistra c’è un’eredità pesante...«La vicenda Marrazzo ha dato un duro colpo al centrosinistra, non sarà una partenza facile...». Sui temi etici nessuna marcia indietro, anzi. «Sulla vita ci deve essere una libertà di scelta personale, non c’è nulla di estremista nel dirlo, mia madre che è cattolica mi ha insegnato il libero arbitrio». Parole nette anche sulle coppie di fatto: «Ognuno organizza i propri affetti come può. Non dare un riconoscimento alle coppie di fatto che vivono insieme, etero e omosessuali, è non voler riconoscere i diritti della persona e soprattutto un’evoluzione della società, che c’è ed è sotto i nostri occhi. È come chi non vuole riconoscere la necessità di una politica di integrazione per gli immigrati». Due stoccate all’Udc: «Molti di loro di famiglie ne hanno tre. L’ipocrisia deve avere qualche limite». E ancora, sulle alleanze: «Credo che molte delle contorsioni del Pd dipendano dalle geometrie variabili dell’Udc, un meccanismo un po’ opaco. A Casini vorrei chiedere: perché sostiene Mercedes Bresso e non me?».❖

l’Unità 8.1.10
«Mille volte Emma»
«Macchè, è la prova che il Pd è morto»
Le voci del web: molto entusiasmo, qualche mugugno ma più sullo stato del centro sinistra che sulla candidata «Ma così il mio voto cattolico ve lo scordate...»
di Mariagrazia Gerina

Donna capace e intellettualmente onesta: perché non sostenerla?». Oppure: «Con la Bonino si ricomincia a sperare». Dunque: Bonino for president?
Aspettando la decisione del Pd, lo abbiamo chiesto ai lettori dell'Unità. Gli entusiasti sono tanti. D’altra parte a lanciare la sua candidatura, prima ancora dei radicali, sono stati i gruppi Pd su facebook. «C'è Emma Bonino? Bene! Avanti tutta. Convinzione, chiarezza con i cittadini, programma, e...responsabilità per vincere!», scalda il tifo Adriano. «Sì mille volte Emma», rilancia la ola Ettore. «Con la Bonino e senza Udc e Binetti. Mi associo al plebiscito», taglia corto Augusto. La leader radicale spopola tra i delusi: «Uno dei politici di razza, ha segnato un gol all’attonita e scombinata difesa del Pd con un perfetto contropiede», si entusiasma Humfrey.
Ma non a tutti il nome della leader radicale va giù. «No la Bonino No», grida Aldo, che avrebbe visto meglio l’economista Loretta Napoleoni («Via la foto di Emma e su quella di Loretta», rilancia un altro supporter). «L’unica per me in grado di battere la Polverini è e rimane la Rosy Bindi», prova a suggerire l’alternatica Gianfranco. C’è chi ironizza: «Non sapete quanto mi piacerebbe averla come avversario» (Massimo
Canario). «Perfetto: ora non saprò più quale candidata di destra votare» (Stefano). Chi, vedendo in lei l’antica avversaria, la prende come una sconfitta in partenza per la sinistra. O per il Pd. «La candidatura della Bonino scandisce Silvia è la riprova che il Pd è morto, non voterò mai una liberista, una che voleva affossare il sindacato, che promuove la deregulation del lavoro e privatizzazioni a gogo... senza contare che è una guerrafondaia!». Chi più moderatamente, avverte: «Sicuramente la Bonino è persona seria e onesta. Ma attenti, ai radicali». «E comunque se si vuol candidare deve prima dimettersi da senatrice». E poi ci sono i cattolici o quelli preoccupati del voto cattolico: «Nel Lazio con la Bonino perdiamo, non prendiamo un voto cattolico, nemmeno il mio», avverte Emilio. Enzo prova a riassumere così le ragioni degli uni e degli altri: «In Vaticano la vedono come fumo agli occhi. Neanche io, ex militante del Pci, la voterò». Nessuno invece pare disperarsi se per sostenere la Bonino il Pd perderà la Binetti. Anzi: «Stracontento di una persona tanto per bene», dice Max di Emma. «E se si aggiunge che così facendo la Binetti davvero se ne va, come dice, allroa si che sarebbe fantastico?».
Emma saprà far tesoro di tanto entusiasmo e convincere gli scettici? Intanto, nel tam tam dei nostri lettori finisce anche il commento di un elettore del centrodestra: «Io voto a destra, ma stavolta mi schiero con la Bonino, persona la cui nobiltà politica e morale è indiscussa».❖

l’Unità 8.1.10
La doppia forza di Emma
La candidatura della Bonino nel Lazio può avere due vantaggi: raccogliere ampi consensi a sinistra e attirare chi sta dicendo “quasi quasi Polverini”
di Luigi Manconi

Qui – e grazie al cielo, non solo qui, anzi... ci auguriamo con tutte le forze che Emma Bonino sia la candidata dell’intero centrosinistra alla presidenza della regione Lazio. Può vincere, la Bonino? Certo, può vincere pur in una competizione che si annuncia assai difficile. La Bonino ha due vantaggi: a) può raccogliere i consensi più ampi all’interno della sinistra fino alle componenti estreme, sollecitando al voto settori tentati dall’astensionismo o spazientiti (e come potrebbero non esserlo?) dalle infinite vicissitudini che travagliano il Pd; b) può attrarre i voti di tutti coloro che “ma la Polverini non è poi così male”. Sì, la Polverini “non è poi così male”: ed è il miglior frutto dell’ormai avvizzito campo della destra italiana. E allora? La fine delle ideologie e la crisi delle categorie classiche di destra e di sinistra solo ai superficiali, o agli imbroglioni, può apparire come il declino di qualunque differenza tra due aree che restano in conflitto, quella di centrodestra e quella di centrosinistra. E solo i neofiti di tutte le mode ̆ possono credere che “trasversale” sia un concetto da enfatizzare acriticamente, quasi fosse, che so, la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva. Certo, le posizioni della Polverini sull’immigrazione o sugli ammortizzatori sociali non sono incomparabilmente diverse dalle mie: ma so che è la candidata di uno schieramento, dove le sue opzioni sono irreparabilmente minoritarie e le posizioni lì prevalenti sono, su altre questioni, nemiche (sì, nemiche) delle mie. E quelle posizioni del centrodestra hanno a che fare con il governo della regione? Hai voglia che ce l’hanno. Dunque, cosa si aspetta a indicare Emma Bonino come candidata? Si decida, insomma.
A proposito di Radicali. Qualche tempo fa Nichi Vendola, li definì “incompatibili” con il proprio schieramento. È un giudizio che sento ripetere da decenni all’interno della sinistra. Chi lo formula, in genere, contesta le posizioni dei Radicali in materia di politica estera oppure in materia di politica economica. Queste ultime sono le posizioni che una certa sinistra come scrive Daniela Preziosi in una bella intervista a Emma Bonino sul Manifesto definisce ultraliberiste.
Confesso di aver avuto anch’io qualche pregiudizio in tal senso, ma ho dovuto ricredermi analizzando più a fondo le scelte dei Radicali, che sono semplicemente liberali, ma collocate all’interno di una concezione che prevede un sistema di welfare non solo più moderno (più adeguato alla nuova composizione sociale), ma soprattutto più universalistico di quello attuale. In ogni caso, che vi siano differenze rilevanti è un elemento naturale, e ineludibile, di tutte le coalizioni. Ma c’è il rischio che quelle differenze siano frutto esclusivo di stereotipi. Si prenda la questione dell’immigrazione. L’intera sinistra e, in particolare, le sue componenti estreme, sono state completamente assenti e silenziose di fronte alle radicali (in tutti i sensi) vertenze sul tema, condotte nello scorso anno dai Radicali. In ultimo, lo sciopero della fame, attuato da centinaia di immigrati regolari, perché i tempi previsti dalla legge (45 giorni) per il rilascio o il rinnovo del titolo di soggiorno, siano rispettati (oggi l’attesa arriva fino a 15 mesi). Come si vede, si tratta di una battaglia tipicamente di sinistra, anche secondo i più classici canoni: e questo consente di leggere il repertorio di obiettivi e di metodi dei Radicali sotto una luce diversa. Si può scoprire, così, che forse si tratta proprio della più efficace e coerente, matura e intransigente politica di sinistra oggi praticabile: e proprio perché affonda le sue radici nelle contraddizioni più acute e qualificanti del sistema di cittadinanza contemporaneo e delle attuali relazioni tra individuo e Stato. Testamento biologico e diritti dei detenuti, condizione dei migranti e critica dei proibizionismi sono altrettanti temi che rimandano direttamente alle questioni cruciali del rapporto tra autodeterminazione individuale e diritto alla cura, tra libertà personale e sicurezza collettiva, tra inclusione e marginalità, tra proibizione e responsabilità. Queste contraddizioni unitamente a quelle derivanti dalla nuova stratificazione del lavoro e del non lavoro, pongono su basi diverse le questioni di sempre dell’eguaglianza e della libertà. E allora, delle due l’una: o si rinuncia a qualunque idea di sinistra, oppure dove altro mai fondare quell’idea se non sui temi radicali dei Radicali?
In una prossima rubrica argomenterò perché, a mio avviso, la candidatura di Emma Bonino non allontana “il voto dei cattolici”. Anzi.❖

il Fatto Quotidiano 8.1.10
Bersani senza Udc non sa proprio stare
di Caterina Perniconi

V a’ dove ti porta l’Udc. Questo è il motto che guida il Partito democratico nella partita delle elezioni regionali che non è ancora chiusa. I candidati si scelgono “con un filo logico che porti a rendere più competitivo il centrosinistra” ha detto ieri il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Ovvero: più siamo, contro Berlusconi, meglio stiamo. E il peso dell’Udc, forza parlamentare che dialoga a de- stra e sinistra, è più importante di quello espresso dalle minoranze. Perciò se Pier Ferdinando Casini in Puglia preferisce Boccia a Vendola, sarà quello il candidato. Mentre nel Lazio, dove l’Udc appoggerà Renata Polverini, “via libera anche ad un candidato non Pd”. E allora ecco che l’ipotesi Emma Bonino torna in campo co- me candidatura di tutta la coalizione e il partito si divide: perché i cattolici ritengono l’esponente ra- dicale “anticlericale” e temono che una sua candi- datura non allargherà il consenso, trasformando il confronto elettorale in uno scontro ideologico con inevitabili riflessi sulla dialettica interna al partito. Del resto l’incapacità di esprimere un candidato de- mocratico per il Lazio, regione perno dello scac- chiere politico nazionale, ricalca le difficoltà che ha avuto anche Berlusconi nell’individuare un “fede- lissimo”, sacrificando la poltrona ad un accordo che tenesse insieme sia Fini che Casini. Emma Bonino non è però l’unico fronte caotico nel Pd. Il sacrificio di una vittoria in Puglia, ma anche solo delle primarie, in nome di un’alleanza moderata Pd-Udc fa tremare i polsi dei molti che non vogliono un lega- me esclusivo. Fino ad Arturo Parisi, che promuove la Bonino e scarica la colpa di questa situazione di stallo sulle scelte di Massimo D’Alema, invitandolo a confes- sare che per lui “le primarie, il maggioritario e la democrazia dei cittadini, sono tutte boiate”.
Il clima che si respira non è dei migliori e Pierluigi Bersani deve averlo registrato rientrando dalla sua vacanza americana. Infatti ci ha tenuto a precisare, a chi lo ha accusato di scarsa presenza, che ci devono prendere l’abitudine, perché “chi ha maggiori re- sponsabilità non deve per forza partecipare alle chiacchiere quotidiane, perciò parlerò meno di al- tri e sarà così nel futuro”. Ma non sarà facile per lui, nell’era dell’informazione continua, convincere il partito che questa scelta sia giusta. E ieri anche il sindaco di Venezia non si è risparmiato un commen- to al vetriolo sul segretario definendo il partito “in una crisi drammatica di leadership e di strategia”. Critiche alle scelte di Bersani anche da Antonio Di Pietro, che si ritiene incapace di capire le lotte in- testine che si consumano all’interno del Pd. Uffi- cializzata ieri, per esempio, la candidatura alle pri- marie in Umbria di Mauro Agostini (tesoriere Pd in quota Franceschini) contro la bersaniana Maria Rita Lorenzetti. Dal leader Idv è arrivato anche un ul-
timatum per Bersani, al quale Di Pietro ha comu- nicato di aver già pronte le sue liste e di non essere disposto a offrire altro tempo all’indecisione dei de- mocratici.
Eppure in Puglia la situazione non si definirà prima di lunedì, giorno in cui è prevista l’assemblea re- gionale del Pd che, come ha ribadito anche Bersani, “è l’unico organo che può decidere”. Nichi Vendola ha definito “fallito” il mandato esplorativo affidato a Francesco Boccia di verificare una alleanza possi- bile che andasse da Casini a Vendola. Boccia a sua volta ha dichiarato pubblicamente di non volere le primarie che servirebbero a spaccare la coalizione e non a unirla. E’ bastata una frase di Roberto Ruocco, capogruppo del Pdl in Puglia, a spiegare la situa- zione: “Di fronte a quel che sta accadendo a sinistra, a noi verrebbe da ringraziare Sant’Antonio per la troppa grazia. Francamente non potevamo nemme- no immaginare che l’avversario contro il quale ci apprestavamo a combattere, con la credibilità di cinque anni di dura opposizione, ci si squagliasse dinanzi prim’ancora dell’inizio della battaglia”.

l’Unità 8.1.10
Lo sciopero del primo Marzo
Il lavoro ai fianchi degli immigrati
di Khalid Chaouki

L a giornata di sciopero dei lavoratori immigrati proposta per il primo marzo da un gruppo spontaneo attraverso la Rete è una bella provocazione. Ma è anche una difficile prova per chi conosce da vicino il mondo dell’immigrazione in Italia. Gli immigrati nel nostro Paese sono divisi tra loro, intimoriti da qualsiasi autorità, ancora poco (e a volte male) rappresentati nelle massime organizzazioni sindacali, ricattati a causa del contratto di soggiorno introdotto dalla famigerata Bossi-Fini e non hanno ancora, in larga parte, sviluppato la cultura della lotta democratica. Per giunta vivono in un Paese in cui le forze della società civile sono sempre più indebolite e poco connesse alla realtà degli immigrati e dove manca tuttora una condanna netta e trasversale di tutte le forme di discriminazione e razzismo a differenza di tutti gli altri maggiori Paesi europei.
Un quadro italiano quasi tutto negativo in cui risulta difficile affiancare la pur lodevole iniziativa italiana per lo sciopero dei lavoratori immigrati alla gemella manifestazione francese, che si terrà sempre il primo marzo e che sta sempre più diventando uno sciopero contro i consumi e una grande mobilitazione di tutti i lavoratori. In Francia esiste da anni un movimento misto per i diritti degli immigrati e contro il razzismo ben più radicato del nostro, dove anche le persone senza permesso di soggiorno scendono nelle piazze rivendicando la loro regolarizzazione e i loro diritti in quanto esseri umani. Qui da noi gli irregolari urlano la loro disperazione nei corridoi e dietro le sbarre dei Cie, e qualcuno di tanto intanto muore senza che se ne accorga nessuno.
La manifestazione italiana dovrebbe porsi l’obiettivo di sensibilizzare tutti i lavoratori, italiani doc compresi, rispetto alla deriva xenofoba di alcune realtà politiche e quanto questa tendenza possa risultare pericolosa per tutti i lavoratori senza distinzioni. In questo modo si rafforzerebbe una maggiore coesione tra tutti i lavoratori, duramente minata alla luce della crisi economica in atto, dove in certi casi i primi a finire sul marciapiede sono stati i lavoratori immigrati, anche su richiesta esplicita dei loro colleghi italiani. Il motto leghista “Prima gli italiani” in quei casi evidentemente si era invertito. Il secondo obiettivo è l’avvio di un dibattito sulle modalità organizzative interne alle comunità di immigrati. Altrimenti il rischio è che si torni a logiche da archiviare in cui un gruppo di bianchi buoni, in buonissima fede, tenta di mobilitare intere comunità di immigrati assegnando loro il compito di urlare slogan e battere tamburelli colorati. Se vogliamo realmente chiudere quella fase, l’unica stada è la partecipazione responsabile degli immigrati. In cui, anch’essi si sentano realmente compartecipi di una lotta e di un obiettivo comune. Si sentano davvero cittadini.❖

l’Unità 8.1.10
Permessi di soggiorno in tempi biblici
Il mio digiuno contro la burocrazia
di Shukri Said

Uno sciopero della fame non è una cosa da prendere alla leggera. Si mette a rischio la propria salute, il proprio fisico. Chi lo fa crede fortemente nella giustizia, chi lo fa crede negli altri. Io sono in sciopero della fame da una settimana e comincio ad sentirne gli effetti: mi muovo più lentamente, ho capogiri, faccio fatica anche a scrivere questo articolo. Ma sono serena, perché sento di fare la cosa giusta, perché voglio denunciare un’ingiustizia. Sì, perché con lo sciopero della fame voglio denunciare un clima intollerabile verso gli immigrati, una situazione che crea una discriminazione inaccettabile per un paese civile. Il mio paese, l’Italia.
Ci sono tre elementi che hanno creato una miscela esplosiva: la legge Bossi-Fini, il pacchetto sicurezza, la sanatoria. Si voleva frenare la clandestinità, il risultato è l’opposto. Parliamo di permessi di soggiorno: bene, la Bossi Fini ha moltiplicato la burocrazia, dilatando a dismisura i tempi per il rinnovo. Il risultato è che se entro sei mesi non riesci ad ottenere il rinnovo, diventi clandestino. La conseguenza? Che diventa illegale anche chi illegale non è, chi illegale non vuole essere, chi illegale ha il diritto di non esserlo. Il secondo e il terzo punto sono legati tra loro: parliamo del cosiddetto «Pacchetto sicurezza» e della sanatoria conseguente: tutto ciò doveva servire a perseguire la criminalità e l’illegalità. Quello che accade realmente è che invece vengono colpiti gli immigrati regolari e attaccati i diritti naturali dell’individuo: il matrimonio, il riconoscimento dei figli. La sanatoria, inoltre, ha creato una grave discriminazione tra colf e badanti (ammesse) e tutti gli altri lavoratori (esclusi). Il risultato è la confusione più totale, con il rischio di un pericoloso scivolamento verso l’illegalità di migliaia di individui che lavorano, producono, versano contributi. Venti anni fa era meglio. Prima, per ottenere il rinnovo del permesso, se avevi il lavoro dovevi sottoporti solo ad una lunga fila. Oggi, non basta più. Giri di ufficio in ufficio, di timbro in timbro, un supplizio... e la risposta ti arriva in un periodo che varia dai 7 ai 13 mesi. Nel frattempo sei già diventato clandestino e rischi di essere licenziato ed espulso. Molti ottengono il permesso quando sta per scadere di nuovo, altri addirittura quando è già scaduto. Naturalmente, però, i soldi vanno versati prima... Ho visto gente piangere, lavoratori vessati, umiliati. Così come Sher Khan morto (ucciso, io dico) dopo che, a 21 anni di residenza in Italia, scaduto il suo permesso era stato recluso nel Cie di Ponte Galeria, malato e cardiopatico, e ne era uscito a pezzi. Ecco perché faccio lo sciopero della fame: voglio che il governo rispetti la legge che prevede che il rinnovo (se tutto è in regola) sia rilasciato entro 20 giorni; voglio lo smaltimento delle pratiche arretrate, voglio che si superi la discriminazione; voglio che il mio paese sia civile, moderno, europeo. Non chiedo la luna, solo diritti. Di cittadino.❖

l’Unità 8.1.10
Rosarno, scoppia la rivolta dei braccianti africani
La città calabrese è precipitata nel caos dopo che qualcuno ha sparato contro gli immigrati. Circa in 1500 si sono riversati nelle vie con bastoni e hanno distrutto auto e tutto ciò che hanno trovato sulla loro strada.
di Felice Diotallevi

Gli spari Qualcuno ha sparato contro i lavoratori ammassati in una ex fabbrica in disuso
Condizioni disumane quelle in cui vivono gli immigrati agricoli della Piana di Gioia Tauro
di Felice Diotallevi

Condizioni di vita disumane e un atto di violenza razzista che ricorda quello avvenuto a Castel Volturno, dove un gruppo di immigrati senegalesi fu bersaglio del volume di fuoco malavitoso dei casalesi, sono stati la miccia di una rivolta senza precedenti a Rosarno.
Centinaia di auto distrutte, cassonetti divelti e svuotati sull'asfalto, ringhiere di abitazioni danneggiate. Scene di guerriglia urbana a Rosarno, per la rivolta di alcune centinaia di lavoratori extracomunitari impegnati in agricoltura e accampati in condizioni inumane in una vecchia fabbrica in disuso e in un'altra struttura abbandonata.
Le cifre
Sono oltre 1500 i lavoratori immigrati nella piana
A fare scoppiare la protesta il ferimento da parte di persone non identificate di alcuni cittadini extracomunitari con un'arma ad aria compressa. I feriti, tra i quali c'è anche un rifugiato politico del Togo con regolare permesso di soggiorno, non destano particolari preoccupazione, ma la volontà di reagire che, probabilmente, covava da tempo fra i lavoratori ammassati nella struttura di Rosarno in condizioni ai limiti del sopportabile, e di altri nelle stesse condizioni a Gioia Tauro in locali dell'Ex Opera Sila, non ci ha messo molto ad esplodere.
Armati di spranghe e bastoni,
Rosarno, un’immagine degli scontri gli immigrati in larga parte prove-
nienti dall'Africa hanno invaso la strada statale che attraversa Rosarno mettendo a ferro e fuoco alcune delle vie principali della cittadina. Tutto ciò che si è trovato alla portata dei manifestanti, dalle auto, in qualche caso anche con persone a bordo, alle abitazioni, a vasi e cassonetti dell'immondizia che sono stati svuotati sull'asfalto, nulla è stato risparmiato.
A nulla è valso l'intervento di polizia e carabinieri schierati in assetto antisommossa davanti ai più agguerriti, un centinaio di persone tenute sotto stretto controllo.
RINFORZI
Nel corso della serata sono arrivati rinforzi e, in un clima di palpabile tensione, si è intavolata una trattativa nel tentativo di fare rientrare la protesta. Anche la popolazione ha
Foto Ansa
reagito davanti alla situazione di caos venutasi a creare e, in queste ore, alcuni giovani di Rosarno, circa un centinaio, stanno seguendo l'evolversi della situazione ad alcune centinaia di metri dalle forze dell'ordine.
Tra Rosarno, l'ex fabbrica in disuso, e Gioia Tauro in un immobile dell'ex Opera Sila sono circa 1.500 gli extracomunitari che lavorano come manodopera nell'agricoltura. ❖

l’Unità 8.1.10
All’ospedale no se sei una ragazza nera
di Dario Voltolini

L’anticipazione Un testo dello scrittore torinese sulla condizione degli immigrati nel nostro Paese: se malati o feriti hanno paura di rivolgersi al pronto soccorso e preferiscono andare a casa. La «storia» di un incontro...

Avevo già aperto il cancello, stavo entrando, spingevo, e quello che è di ferro, alto e vecchio, cigolava. Era notte, l’incrocio con il semaforo giallo che lampeggiava era in pendenza, tutto normale: le prime foglie per terra, un po’ di vento che le spostava. Forse passava una macchina. Ma era tardi, il traffico svanito. Scendeva lungo il corso una figura scura, confusa nella notte. Mentre richiudevo il cancello vedevo che era una ragazza, ormai era vicina. Si teneva il ventre come se fosse stata accoltellata e impedisse alle budella di uscire. Trascinava la gamba destra.
Me ne frego, ho pensato subito. E voltandomi verso l’interno dell’androne ho fatto un passo verso la porta della scala A. Ma poi non me ne sono fregato, e sono tornato indietro: vedevo la ragazza rallentare, dirigendosi oltre il chiosco del giornalaio, nero nella notte, con le locandine sventolanti.
Uscivo dal cancello, lo richiudevo alle mie spalle, ero di nuovo in strada. Qualcosa non va? chiedevo alla ragazza, che non sentiva, ehi qualcosa non va? Niente, si trascinava. La raggiunsi, qualcosa non va? Stai male?
Non ho niente, diceva piegandosi in due, guardava per terra. Invece non va niente bene, le dicevo, stai male, hai male, cosa è successo?
Ho male, mi diceva mentre non riusciva più a camminare.
Qualcuno ti ha picchiata?
Non l’avevano picchiata, sosteneva, diceva che non era niente, però non si muoveva più, così le ho detto
Era notte
Una donna si teneva il ventre come se fosse stata accoltellata
che l’avrei portata all’ospedale. C’è un ospedale proprio qui vicino, le dicevo, l’isolato prima di questo, con un pronto soccorso, andiamo subito lì, persino a piedi ci possiamo andare, torniamo indietro e siamo al pronto soccorso, ma certo che non poteva camminare, era meglio se prendevo la macchina e facevo il giro dell’isolato entrando poi così con lei a bordo nell’ingresso per le ambulanze.
Continuava a dire di no, cioè a fare segno di no con la testa, perché non riusciva a parlare. Ricordo che guardavo il punto che si teneva, per capire se ci fosse del sangue, perché l’idea di una coltellata non mi era mica passata per la testa, la vedevo già svenuta sullo spiazzo, tra il chiosco del giornalaio e il telefono pubblico, rimasto lì come un reperto d’epoca.
Avevo l’idea della coltellata perché era molto giovane, nera, e quindi il mio film mentale era che si fosse beccata una rasoiata da qualcuno, o da qualcuna, perché così capita di notte alle ragazzine che battono, non potevo fare a meno di pensare. Ma per fortuna non c’era stata nessuna coltellata se non nel mio film privato. Però stava per cedere, per lasciarsi scivolare per terra.
Mentre la sostenevo con un braccio per portarla in macchina avevo appena parcheggiato proprio lì vicino sentivo che si rianimava un poco, si rimetteva a camminare, quantomeno. Ma continuava a fare no con la testa, no che cosa? pensavo. No all’ospedale? Infatti era quello, no all’ospedale, mi diceva, non ho permesso, non ho documento, no all’ospedale. Ma tu hai male, le dicevo io, e quindi ti porto sì all’ospedale, per forza.
Faceva no con la testa
«Non ho permesso, non ho documento, no all’ospedale...»
No. E dove ti porto allora? A casa. Ma quale casa, ma dove? Le chie-
devo dove stesse e lei mi rispondeva con un nome di via che avevo presente, sì, e sapevo che era lì vicino, però non esattamente dove. E cosa ci fai a casa, pensavo e glielo domandavo anche, mentre saliva faticosamente in macchina. In quella casa che mi diceva, c’era qualcuno, qualcuno che potesse prendersi cura di lei, qualcuno che magari la convincesse a ritornare indietro verso il pronto soccorso, magari che ce la portava?
C’era sua sorella, mi diceva. Ma io lo sapevo che la parola sorella voleva dire tutto e niente, poteva voler dire che non c’era nessuno, o che c’era un uomo enorme, o che c’erano due donne incazzate con lei, o una ragazzetta come lei, diventata sorella sua a Torino, dove si erano viste per la prima volta, anche se erano connazionali. Sorella, ma quale sorella? Tutte che hanno la sorella, che abitano dalla sorella, che vanno dalla sorella, e chi cazzo è questa sorella?
Ma niente da fare, come rinata mi indicava dove svoltare, di qui, di là, verso la casa. Infine ci troviamo all’angolo con la piazza del mercato, dove potevo parcheggiare, visto che la casa della sorella era proprio lì, a una decina di metri dall’angolo.
Ma quando stava scendendo dalla macchina il dolore doveva stare aumentando a picco, perché era nuovamente piegata in due con la mano e anzi con tutto l’avambraccio a premersi tra l’inguine e l’ombelico, dalla parte destra. Hai un attacco di appendicite, pensavo rivolto a lei. Mi guardava, non capiva, a casa, diceva.
Abbiamo fatto quei dieci quindici metri così lentamente che non potevo pensare di stare facendo una cosa sensata, perché anche se fossimo arrivati a questa casa che diceva, poi cosa sarebbe successo? Sarebbe svenuta? L’avrebbero presa in consegna priva di sensi? Intanto ci eravamo trascinati fino a una porticina sperduta nella facciata grigia di un condominio afono apparentemente deserto, come se fosse stato abbandonato tanti anni prima, un posto che non è possibile notare di giorno perché non ha niente, ma proprio niente che salti all’occhio. E la porticina l’aveva aperta lei con una chiave che stava nel mazzo con altre chiavi, pensavo che erano chiavi di tante porticine sparse per la città, tutte che portavano a stanze con qualche sorella.
© Dario Voltolini. Tutti i diritti riservati trattati da Agenzia Letteraria Internazionale, Milano

giovedì 7 gennaio 2010

il Fatto Quotidiano 7.1.10
Gli esploratori del Pd cercano ma il faro è sempre lo stesso Casini
Nel Lazio e in Puglia l’obiettivo è trovare un accordo con l’Udc
I centristi bocciano sia Vendola sia la Bonino E contro la Polverini si fa il nome di Letta
di Enrico Fierro

Getta la spugna Nicola Zingaretti. L'Udc non sosterrà mai Emma Bonino nella corsa alla Presidenza della Regione Lazio. Pierferdinando Casini è stato chiaro: “Se i nomi sono questi allora appoggiamo la Polverini”. Parole che costringono il numero uno della Provincia di Roma, incaricato da Bersani di sondare Udc e Idv, rimanda la palla al suo partito. “O individuiamo una novità forte da cui ripartire, una autorevole candidatura di livello nazionale, o sosteniamo con tutte le forze Emma Bonino”. Perché, ha spiegato Zingaretti, allo stato delle consultazioni “non esistono le condizioni per una candidatura che coinvolga tutte le forze di una coalizione così ampia”. Partita conclusa in Lazio? Forse. Perché è proprio Casini a lasciare aperto un piccolo spiraglio. La riunione del vertice dell'Udc prevista per domenica che dovrebbe concludersi con la decisione definitiva sulle alleanze nel Lazio, forse sarà rinviata. In attesa della proposta-choc del Pd. Un nome nazionale che non dispiacerebbe a Casini? Negli ambienti del Pd ieri sera si faceva quello di Enrico Letta, anche se non è un mistero che proprio una eventuale candidatura del Presidente della Provincia di Roma potrebbe convincere l'Udc a cambiare idea. “Al punto in cui sono arrivate le cose Nicola resta dov'è: fa l'esploratore e basta”, dicono però i suoi. “Si sono fatti troppi errori e si è perso troppo tempo”. Sotto accusa è il vertice laziale del Pd e il suo segretario Alessandro Mazzoli che ha gestito “male,anzi malissimo tutta la partita”. Il ragionamento è questo: il 17 dicembre, all'assemblea degli eletti del Pd, Zingaretti offre la sua disponibilità a candidarsi, ma pone due condizioni, la prima è quella di costruire una coalizione allargata a Udc e Idv, la seconda è quella di proiettare la stessa alleanza per la Provincia. Da allora fino ad oggi Mazzoli non avrebbe fatto granché, lasciando aperto quel vuoto politico colmato da Emma Bonino. “Ed ora – dicono i fedelissimi del Presidente – è difficile tornare indietro”. Anche perché gli ultimi sondaggi, autore “Crespi Ricerche”, danno Zingaretti perdente col 48% e la Polverini al 51, e riservano una sorpresa. Se a scontrarsi con la sindacalista indicata da Fini dovesse essere Emma Bonino, non è escluso un ribaltamento delle posizioni con la vicepresidente del Senato al 51 e la Polverini al 49%. Se il Pd sarà costretto ad accettare la candidatura Bonino per mancanza di alternative forti, dovrà anche scontare le fortissime contestazioni dei cattolici all'interno del partito. Paola Binetti, esponente dell'ala teodem, è stata nettissima: “Se candidano Emma Bonino vado via e voto per la Polverini”. Caos totale anche in Puglia. Francesco Boccia, l'altro “esploratore” incaricato da Bersani, sta continuando le sue consultazioni. Le primarie sono in forse (l'Udc non le vuole e
Casini ha comunque già scelto Boccia), e senza consultazione popolare Vendola presenterà una propria lista che i sondaggi valutano intorno al 10%. In queste condizioni la sconfitta del centrosinistra allargato all'Udc è certa, anche perché il Pd è dilaniato tra vendoliani e seguaci di Boccia, tra ultras delle primarie e fautori del primato degli accordi tra le segreterie. Una realtà che fa dire a Pierluigi Castagnetti che “al punto in cui siamo le primarie mi sembrano una soluzione quasi obbligata”. Boccia, stando ai rumors che circolano a Bari e dintorni, non le ama, forse ricordando l'esito catastrofico del 2005, quando fu sconfitto da Nichi Vendola, allora considerato poco meno di un outsider.
Il governatore, che ieri ha seccamente smentito di avere in calendario incontri con il candidato-esploratore del Pd, ha ribadito la sua posizione. “Politicamente non ho molto da dire a Boccia: aspetto di sapere se ci saranno le primarie, fuori da questo schema è impossibile ogni tipo di convergenza”. Boccia ieri ha continuato il tour de force degli incontri. “Stiamo mettendo insieme tutti i tasselli, domani tireremo le somme”. E anche sulle primarie il pupillo di Enrico Letta è costretto ad essere possibilista. “Se lo decide l'intera coalizione vanno anche bene”. Sulla sua candidatura la prende da lontano: “I nomi vengono dopo, molto dopo la costruzione di una coalizione ampia che ci consenta di fermare la destra in Puglia”. Infine conclude con una espressione tipicamente barese: “Se la processione è andata bene si vede al ritorno in Chiesa”.

il Fatto Quotidiano 7.1.10
In Toscana spunta l’accusa di Soviet

L a corsa alle elezioni è già cominciata in tutte e 13 le regioni dove si vota, con sorprese e polemiche. In Toscana l’ultimo a salire sul ring è stato Oliviero Toscani per i Radicali: “Mi batto contro un regime di stampo sovietico”. Il Pd ha schierato, con l’appoggio delle sinistre, l’attuale potente assessore alla sanità Enrico Rossi. Pdl ancora in silenzio, mentre l’Udc si prepara alla corsa solitaria: probabile la candidatura di Carlo Casini, ultracattolico del Movimento per la vita. La Liguria cerca l’Udc, tutti vogliono i cattolici, sia lo schieramento di centrosinistra del presidente uscente Claudio Burlando, ricandidato, sia Sandro Biasotti, già governatore dal 2000 al 2005, appoggiato da Pdl e Lega. In Veneto il Pd cerca di comporre un fronte anti-Lega, che presenta il ministro Luca Zaia, provando a imbastire un’alleanza con l’Udc. I cattolici hanno già proposto un candidato: Antonio De Poli. L’Italia dei Valori rompe momentaneamente i rapporti con il Partito democratico in Emilia, in attesa di un chiarimento. Qui Vasco Errani prova l’assalto al terzo mandato, il suo sfidante è Giancarlo Mazzucca, ex direttore del Resto del Carlino di Bologna. L’Udc corre da solo, con l’onorevole Gian Luca Galletti. Nelle Marche il Pd ripropone Mario Spacca, incognita sugli alleati: Udc o sinistra? Primarie in Umbria, dove Mauro Agostini sfiderà la presidente uscente Maria Lorenzetti. Per il Pdl è pronto a correre il sindaco di Assisi Cluadio Ricci, ma anche la consigliera regionale Fiammetta Modena e l’imprenditrice Luisa Todini. In Campania, invece, per il dopo-Bassolino il Pdl punta su Stefano Caldoro, anche se rimangono ancora in pista anche il ministro Gianfranco Rotondi e l’industriale Gianni Lettieri. Per il Mpa già candidato Riccardo Villari, mentre il Pd deve scegliere tra il sindaco di Salerno Enzo De Luca e il rettore di Salerno Raimondo Pasquino (in caso di accordo con l’Udc). L’unica certezza della Basilicata è Vito De Filippo candidato per il Pd. In Lombardia a sfidare Roberto Formigoni (Pdl) c’é Filippo Penati (Pd).

l’Unità 7.1.10
Per 24 ore fate a meno di noi
Dalla Francia all’Italia il primo marzo badanti, operai, autisti di autobus incroceranno le braccia
L’idea è di quattro donne. «Il Paese funziona ogni giorno grazie al loro lavoro. Ma se ne vergogna»
Un giorno senza immigrati Il primo sciopero degli stranieri
di Cesare Buquicchio

Già diecimila contatti su Facebook e web (http://primomarzo2010.blogspot.com) e decine di comitati che stanno nascendo in tutta Italia per sostenere lo sciopero del 1 ̊ marzo: «24h senza di noi».

Si sono dette: «Proviamoci». Sono quattro donne e stanno cercando di fermare l'Italia. La data è il primo marzo 2010 e, se il lavoro di Stefania, Daimarely, Nelly e Cristina avrà successo, quella sarà una data da ricordare. «Ventiquattro ore senza di noi», una giornata senza immigrati. Senza badanti per i nostri anziani, senza operai nei cantieri edili. Ma anche senza migliaia di autisti di autobus, impiegati delle poste, medici. Una giornata con gli alimentari vuoti, i bar deserti, le linee telefoniche mute. L'idea è arrivata dalla Francia: «Le nostre società vivono grazie al lavoro di migliaia di stra-
nieri. L'Italia funziona ogni giorno grazie a loro ma se ne vergogna. Così cerca di ignorarli, chiuderli fuori, annegarli in mare come si fa con le cucciolate di gattini troppo numerose. Si vergognano di noi? Bene vediamo che succede se per un giorno noi non ci siamo».
Ecco come è nato lo sciopero degli stranieri del primo marzo prossimo in Francia. «Appena ho saputo la notizia – racconta Stefania Ragusa, giornalista di Glamour e da sempre attiva su questi temi – ho chiamato la mia amica Daimarely Quintero (arrivata da Cuba nel 1995 e impiegata nel sociale). Da molti anni pensavamo di fare una cosa del genere, ma le difficoltà organizzative ci hanno sempre scoraggiate». Questa volta è diverso. Sull'onda dell'iniziativa francese e con la stretta collaborazione con Nadia Lamarkbi, organizzatrice del primo marzo d'oltralpe, le ventiquattro ore senza stranieri non sembra più una utopia. Quasi diecimila iscritti su Facebook (alla pagina Primo marzo 2010), adesioni di esponenti politici, docenti universitari e associazioni, comitati locali che nascono in tutte le città italiane a sostegno del coordinamento nazionale, formato dalle fondatrici Stefania Ragusa e Daimarely Quintero, a cui si sono aggiunte Nelly Diop e Cristina Seynabou Sebastiani. «Ora le difficoltà principali sono due – spiega Daimarely – far conoscere l'iniziativa a tutti gli stranieri che non hanno accesso a Internet (e sono tanti) e creare degli eventi da qui al primo marzo che possano dare l'occasione a chi non potrà astenersi dal lavoro, perché un lavoro non ce l'ha, perché lavora in nero oppure perché è troppo ricattabile, per partecipare comunque alla protesta. Per questo stiamo pensando anche allo sciopero dei consumi».
A boicottare gli acquisti qualcuno ci sta già provando. Ousmane Condè è il presidente dell’Unione degli immigrati di Vicenza, una realtà che raccoglie diciotto associazioni di stranieri, e sta organizzando uno sciopero in massa degli acquisti per la fine di gennaio, una sorta di prova generale del primo marzo: «Se noi stranieri non andremo a fare la spesa i supermercati della zona ne risentiranno sicuramente». «Ma il principio non sarà quello di danneggiare le aziende – ci tiene a precisare Stefania –, anche perché in un giorno non danneggi nessuno. Vorremmo solo far percepire l'importanza che hanno gli stranieri per tutti gli aspetti della vita del nostro Paese». E, tra le iniziative in questo senso, c'è da segnalare quella del comitato di Palermo: nel capoluogo siciliano prima delle ventiquattro ore senza stranieri vogliono organizzare ventiquattrore «con gli stranieri» portando le scolaresche in giro per gli alimentari degli immigrati per scoprire le loro tradizioni culinarie.❖

l’Unità 7.1.10
Cari sindacati, la proposta non è banale
La massima parte dell’ assistenza alle persone anziane come la ristorazione, la pesca, l’edilizia dipendono dal lavoro straniero Sostenere la protesta è un piccolo passo, ma un buon inizio
di Luigi Manconi

Insostituibili. Gli immigrati sono parte insostituibile della forza lavoro
Le iniziative. Potreste promuovere iniziative, assemblee campagne informative

Cara Renata Polverini e cari Angeletti, Bonanni, Epifani, so bene che organizzare uno sciopero degli immigrati che lavorano nel nostro Paese è un’impresa ardua, che richiede molto tempo. E che, oltretutto, solleva una questione di unità: è giusta una mobilitazione dei soli immigrati, molti dei quali già iscritti ai sindacati? E, tuttavia, non possiamo ignorare che in Francia il primo marzo 2010, vi sarà un’iniziativa esattamente di tale natura. Lo slogan è semplice: “24h sans nous” (un giorno senza di noi), ma tutt’altro che banale. Esso allude a una realtà a dir poco sottovalutata, ma in verità rimossa. Ov-
vero il ruolo che il lavoro straniero svolge nella produzione di merci, beni e servizi e, in sostanza, della ricchezza nazionale.
Finalmente, i dati relativi a tale importantissimo contributo cominciano ad affiorare: di recente ne ha evidenziato alcuni, il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi. E, così, si prende coscienza del fatto che quote significative del Pil e della contribuzione previdenziale, la massima parte del lavoro di cura (attività domestiche, baby-sitter, badanti, infermiere), le mansioni essenziali in alcuni settori (agropastorizia, ristorazione, pesca, ma anche edilizia e siderurgia) dipendono dal lavoro straniero. E che “un giorno senza” quel lavoro infliggerebbe un danno rilevante alla nostra economia.
Insomma, gli immigrati rappresentano una parte insostituibile della forza lavoro di questo paese e degli altri Paesi europei e, dunque, la loro assimilazione a una minaccia sociale e la loro riduzione a un problema criminale, prima che un’infamia, è un’immensa sciocchezza. Autolesionistica, per giunta.
È vero, poi, che ci sono molti stranieri che delinquono, molti irregolari e molti altri che lavorano “in nero”. Mentre per i primi, è sufficiente l’attuale codice penale, per il secondo e per il terzo gruppo sono fondamentali le politiche di integrazione, capaci di sottrarre quei lavoratori alla doppia condizione di irregolarità (del soggiorno e del lavoro). Qui il ruolo del sindacato è a dir poco essenziale. Cgil, Cisl, Uil e Ugl non sono stati con le mani in mano, ma moltissimo resta da fare. Anche per evitatare che i lavoratori stranieri, compresi quelli regolari, si sentano più deboli degli italiani, sotto il profilo dei diritti sindacali; e perché tra gli stranieri e gli italiani non si sviluppino forme di concorrenza. E si tratta di un pericolo di cui già si vede qualche traccia: e di cui i movimenti operai di altri paesi hanno fatto dolorosa esperienza.
Per affrontare tutto ciò, non è necessario proclamare uno sciopero destinato a risultati assai esili: ma l’occasione della mobilitazione in Francia deve essere comunque colta. Per quel giorno, 1 marzo, i vostri sindacati potrebbero promuovere iniziative in tutta Italia, in particolare in quelle aree dove la convivenza tra stranieri e ita-
liani è in atto da anni e risulta più faticosa. Assemblee, diffusione di materiale informativo, incontri aperti ai cittadini, campagne di tesseramento tra i lavoratori stranieri, “feste del lavoro”. Può apparire un piccolo passo, ma un buon inizio è già molto.❖

l’Unità 7.1.10
L’ex Miss Somalia: «Da noi il 10% del Pil» Scego: «Anche io ci sarò»

Lei, prima di arrivare allo sciopero del primo marzo, è già in sciopero della fame per protestare contro i ritardi nella concessione dei permessi di soggiorno. L'attrice Shukri Said, trentacinquenne ex miss Somalia, non ha dubbi: «Noi stranieri in Italia dobbiamo imparare a fare da soli. Dobbiamo organizzare nostre iniziative. Grandi partiti e sindacati, al di la delle dichiarazioni di principio, non ci sostengono fino in fondo. Ben venga, quindi lo sciopero del 1 ̊ marzo. Dopo tutto solo gli stranieri regolari producono il 10% della ricchezza italiana...».
Sulla stessa linea anche la scrittrice Igiaba Scego: «La politica è bloccata, anche a sinistra, siamo noi che dobbiamo dare un segnale forte. Spesso le iniziative organizzate dai partiti si riducono a cose folcloristiche sull’immigrazione, mentre ci sarebbero tante persone da consultare per fare delle campagne utili. Il primo marzo io sogno una grande mobilitazione di stranieri e di italiani al loro fianco. Da scrittrice io non posso scioperare e anzi, mi sento chiamata a raccontare una grande giornata di riappropriazione di diritti». CE.BU.

l’Unità 7.1.10
E se si fermassero? A perdere saremmo solamente noi
Il lavoratore straniero è sempre più importante nell’economia italiana. Secondo i dati di Unioncamere producono un decimo del nostro Pil ma sono anche quelli che ricevono di meno dal Welfare.
di Roberto Rossi

Due milioni di immigrati lavoratori contribuiscono al 9,5% del Pil: circa 134 miliardi di euro
Senza contare poi che sugli stranieri si reggono anche i conti dell’Inps. Versano circa 7 miliardi

E se a un certo punto di fermassero? Se l’Italia dovesse rinunciare all’apporto degli immigrati? Cosa succederebbe? Di certo saremmo più poveri. Molti più poveri. I due milioni di immigrati lavoratori (di cui la metà iscritta ai sindacati) contribuiscono al 9,5% del prodotto interno lordo. In valori assoluti, secondo le stime di Unioncamere, si tratta di 134 miliardi di euro. All’incirca come tredici leggi finanziare targate Tremonti. Saremo più poveri noi, ma anche i nostri figli. Perché sul lavoro degli immigrati si reggono anche i conti dell’Inps. I versamenti contributivi effettuati all’Istituto nazionale di previdenza sociale sono stimati in oltre 7 miliardi di euro, dei quali oltre 2,4 pagati direttamente dai lavoratori stranieri e la restante quota dai datori di lavoro.
OCCUPATI
Gli stranieri al lavoro dunque sono una risorsa. E sono ogni anno di più. Nel 2008, certifica il rapporto Caritas sull’immigrazione, il loro numero tra gli occupati è salito di 200 mila unità. Del resto, nel mercato occupazionale italiano i lavoratori nati all’estero sono il 15,5% del totale. Tra questi una buona fetta sono gli italiani di ritorno, ma la maggioranza sono stranieri. Che presentano caratteristiche ben precise. La prima, secondo sempre il dossier Caritas, è l’estrema motivazione a riuscire, per il fatto che per loro la migrazione rappresentauna scelta esistenziale forte. La seconda è la disponibilità a svolgere un’ampia gamma di lavori, da cui deriva anche la loro alta concentrazione nei settori meno appetibili per gli italiani e anche la più alta esposizione a rischio sul lavoro (143.651 infortuni nel 2008, dei quali 176 mortali). Un’altra caratteristica, oltre al fatto di avere meno gratifiche rispetto agli omologhi italiani è la necessità di sostenere i familiari rimasti in patria (ai quali nel 2008 hanno inviato 6,4 miliardi di euro con le rimesse).
Questo spiegherebbe anche un elevato dinamismo imprenditoriale. Attualmente si contano 187.466 cittadini stranieri titolari di impresa, in prevalenza a carattere artigiano, che garantiscono il lavoro a loro stessi e anche a diversi dipendenti (attorno ai 200 mila, secondo la stima riportata nel libro ImmigratImprenditori della Fondazione Ethnoland).
DEBITO
Se sono i più motivati, se lavorano di più, e in condizioni peggiori rispetto ai colleghi italiani, sono anche quelli che ricevono di meno. La stima del gettito fiscale, includendo le tasse più rilevanti, è di oltre 3,2 miliardi di euro. Ne deriva che, direttamente dalle buste paga dei lavoratori immigrati, provengono in totale 5,6 miliardi di euro (ma secondo la Cgia di Mestre sono anche di più). E quanto rendiamo loro? Per i servizi sociali rivolti direttamente agli immigrati (centri di accoglienza, progetti di integrazione, ecc.), i Comuni italiani hanno speso, nel corso del 2005, 136 milioni di euro. E cioè il 3,7% delle entrate fiscali. Anche ipotizzando che parte delle altre spese dei servizi sociali (asili nido, accoglienza per minori, assistenza ai poveri) coinvolga stranieri, l’ammontare delle risorse dallo Stato si aggirerebbe attorno ai 700 milioni. Poco.❖

l’Unità Firenze 7.1.10
«Ho battuto la Chiesa in Europa per la libertà»
Intervista a Luigi Lombardi Vallauri
di Valentina Grazzini

Il risarcimento Nel ‘98 il filosofo fu sospeso dalla Cattolica di Milano per tesi considerate eterodosse. La Corte europea gli ha dato ragione

Non nomina il premier Berlusconi, parlando di lui come «l’omunculus bandana» e nitrendo ogni qualvolta lo sente nominare (come accade ai cavalli al nome di Frau Blücher in Frankestein Junior di Mel Brooks), perché dice di aver fatto voto di non turpiloquio. È vegetariano convinto, veganiano, visto che «una delle più grandi esigenze dell’etica contemporanea, forse la numero uno, è occuparsi dei diritti degli animali». È un misto di dottrina e spirito caustico Luigi Lombardi Vallauri, studioso piemontese ordinario di filo-
sofia del diritto all’Ateneo di Firenze. Un personaggio coraggioso e controcorrente, che difficilmente lascia una causa a metà. La sua ultima vittoria, la più grande, l’ha festeggiata poche settimane fa, quando la Corte dei diritti umani di Strasburgo ha condannato lo Stato italiano a risarcirlo con 10mila euro, a conclusione di una delle vicende più esemplari in materia di libertà di insegnamento (e di pensiero) degli ultimi decenni. Ce la racconta. Professore, ci parli dell’«Affaire Lombardi Vallauri c. Italie», come recita la sentenza...
«Nel ‘98 fui sospeso dall’attività didattica dell’Università Cattolica di Milano, dove insegnavo da 21 anni, a causa della mia dottrina sull’Inferno: come filosofo del diritto osservavo che il peccato originale è contrario al principio della responsabilità personale della pena. Una pena eterna è sproporzionata a qualunque delitto uno possa aver compiuto. Questo fu considerato eterodosso e il cardinale Pio Laghi, prefetto per l’educazione cattolica, avviò il processo. Non vi fu né quel che si dice “giusto processo” né dibattito intellettuale. Il Tar Lazio rigettò il ricorso, il Consiglio di Stato anche. Nel 2005 facemmo ricorso alla Corte europea, che con i suoi 47 rappresentanti di altrettanti Stati dell’Unione, considero la cattedra giuridica dell’umanità. Ho vinto 6 a 1, un ottimo punteggio tennistico che ho preferito all’unanimità: è più trasparente».
Guardando indietro qual è la cosa che le ha fatto più male e quella che le ha dato al contrario maggior gioia in tutta la vicenda?
«Sul piano psicologico ha fatto male l’atteggiamento di indifferenza in Cattolica: non certo di Pio Laghi, nunzio dei colonnelli argentini, citato in giudizio dalle madri di Plaza de Maio e soprannominato in Argentina Pio Lager: esser processato da lui è stato un onore. Quanto da parte dei colleghi, il preside, il rettore: hanno dimostrato di non capire che il problema della mia libertà era anche il loro, che l’Università Cattolica, prima di essere cattolica è un’università, che non si può essere dipendenti dal Vaticano. La più bella? Le testimonianze intorno a me, soprattutto di credenti, che mi hanno dato la precisa sensazione di aver distribuito gioia. La vittoria di Strasburgo me l’hanno comunicata i miei studenti, al Polo di Novoli, accogliendomi festanti. L’avevano saputo dalla rete ancor prima dei miei avvocati».
Ha festeggiato?
«Facendo voto di dilapidazione: ho deciso che neanche un euro della cifra (faccio conto di averla, anche se
non è così, ci sono tre mesi di comporto nel corso dei quali potrebbe esserci un improbabile ricorso dello Stato alla Grande Charmbre della Corte) dovrà essere spesa per riparare un rubinetto. Ho prediletto lo champagne francese, per omaggio alla corte francofona, intonando “Tanti auguri a te, tanti auguri diritto, tanti auguri a te...”. Il pensiero che a pagare sia Tremonti mi dà piacere».
Cosa ne pensa della vicenda fiorentina di Don Santoro, allontanato dalla sua comunità per aver celebrato l’unione tra un uomo e una donna, “rea” di aver cambiato sesso? «Abbiamo qualcosa in comune, siamo entrambi privati di qualcosa dalla Chiesa... Il problema è che esiste una mancanza di dialogo, se non un’ostilità, tra la gerarchia cardinalizia e le comunità di base: io simpatizzo per le seconde, che realizzano la religione civile dei diritti dell’uomo, ma trovo che sul piano teorico non hanno tutta la probità intellettuale necessaria. Come esiste il «wishful thinking» (quei tipi di ragionamenti in cui cui si inferisce che qualcosa è vera perché vorremmo che fosse tale, ndr), le comunità creano un «wishful Jesus», insomma ognuno si plasma il Gesù che vuole, facendogli ignorare troppi problemi, per esempio l’esistenza dell’Inferno. Per semplificare, si tratta di un esempio di come la Chiesa pretenda di gestire i nostri corpi, e non riguarda solo i gay. Di questo paternalismo etico del tutto inaccettabile parlo nel mio saggio pubblicato da Le Lettere Nera Luce».
E l’arcivescovo Betori che condanna l’idea di Renzi di allargare le facilitazioni sui mutui alle coppie gay? «Mi viene in mente una vignetta del Male, dove si presentavano ad un tavolo di fronte ad un funzionario comunale varie coppie di postulanti diversamente assortite: lui e lei, lui e lui, alla fine un uomo solo. Che dice: «Io faccio tutto da solo, posso avere un monolocale?».
Torniamo seri: nuove frontiere del suo pensiero? «Far dichiarare incostituzionali gli articoli 7 e 8 della Costituzione, perché riservano agli enti religiosi alcuni privilegi come l’8 per 1.000. Sono contrari al principio supremo di laicità dello Stato. E se io lo volessi elargire l’8 per 1.000 ad un Club Med o all’Uaar (l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti)?» Lasciamoci parlando di animali... «Papa Pio XII tranquillizzò gli operai dei mattatoi dicendo loro di “non doversi considerare i gemiti degli animali diversi dai clangori dei metalli nelle officine”. Gli animali sono 60 miliardi di vittime l’anno, l’etica ci impone di occuparci di loro».❖


Repubblica 7.1.10
Trovato l'Eldorado la civiltà perduta non era una leggenda
di Enrico Franceschini

Ecco il mondo perduto che innumerevoli esploratori hanno cercato per secoli, con il sogno di impossessarsi dei suoi segreti e soprattutto dei suoi tesori. Dai conquistadores spagnoli fino ai moderni avventurieri del Novecento, in tanti sono partiti per il cuore dell´Amazzonia, attirati dalla leggenda di un Eldorado nascosto, una civiltà tenuta nascosta dal fitto della foresta tropicale: molti non sono più tornati indietro, inghiottiti dalla giungla, qualcuno è riapparso parlando di "città scintillanti nel buio". Finora nessuno li aveva mai presi sul serio: l´Eldorado sembrava soltanto una leggenda, una delle favole tramandate dalla storia, come Atlantide il continente scomparso, di cui non esistevano prove tangibili. Ma ora la tecnologia del ventunesimo secolo ha rivelato che il mito raccontava una storia vera: la civiltà perduta esisteva realmente, celata e protetta dagli impenetrabili tentacoli amazzonici.
Immagini riprese via satellite e confermate da foto scattate da droni, aerei con pilota automatico come quelli usati in guerra, hanno fatto emergere più di 200 enormi disegni geometrici, cerchi, rettangoli e un dedalo di strade e fortificazioni, scavate nella parte settentrionale del bacino del Rio delle Amazzoni, vicino al confine del Brasile con la Bolivia. Con un´estensione di oltre 250 chilometri quadrati, le strutture individuate dal cielo e in parte già esplorate al livello della terraferma sono considerate dagli studiosi come la prova definitiva dell´esistenza di una vasta e sofisticata civilizzazione, sviluppatasi in quella inaccessibile regione del globo tra il 200 e il 1283 dopo Cristo, vale a dire molto prima che Cristoforo Colombo mettesse piede nelle Americhe. E´ presumibile che esistessero ancora intorno al 1513, quando i conquistadores spagnoli, tra cui Vasco Núñez de Balboa, si spinsero ai limiti dell´Amazzonia, cercando un "nuovo mondo" in Sud America.
Le figure scoperte dai satelliti, molte delle quali su altopiani, con disegni simmetrici che fanno pensare a un significato astronomico, costituiscono una rete di trincee, corridoi e fortificazioni, con larghezza fino a 11 metri, un metro di profondità e altrettanto di altezza, riporta la rivista britannica Antiquity, che ha annunciato la scoperta, ripresa ieri dal quotidiano Guardian di Londra. Alcune contengono ceramiche e oggetti di pietra. Gli esperti ritengono che fossero usati come abitazioni, templi e barriere protettive da una civiltà di almeno 60 mila persone, più di quelle che all´epoca risiedevano in molte città medievali d´Europa, in grado di competere per cultura ed evoluzione con gli Incas e gli Aztechi.
L´ipotesi è che il contatto con qualche esploratore bianco espose anche questa civiltà a malattie che la fecero rapidamente declinare e poi scomparire. L´inglese Percy Fawcett andò a cercare negli anni Venti quella che lui chiamava "La città di Z", ma non la trovò mai: Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes, ne scrisse in un romanzo, The lost world. Ora quel mondo perduto è riapparso. L´Eldorado è dunque esistito, fino a quando non sono arrivati gli europei ed è stato ingoiato dalla giungla con tutti i suoi tesori.

Repubblica 7.1.10
Quella strage in francia degli immigrati italiani
Il libro dello storico Noiriel sul pogrom del 1893 nelle saline della Provenza

PARIGI. «Il più grande pogrom della storia francese contemporanea. Un emblema della xenofobia di tutti i tempi». E´ in questi termini che Gérard Noiriel presenta «il massacro degli italiani», vale a dire la terribile caccia all´uomo che il 17 agosto del 1893 si abbatté sui nostri immigrati impiegati nelle saline d´Aigues-Mortes, in Provenza. Una giornata di follia collettiva e di violenza feroce che fece 9 morti accertati, oltre cinquanta feriti e una quindicina di dispersi i cui corpi non vennero mai ritrovati. A quell´episodio a lungo rimosso dalla storiografia ufficiale, Noiriel considerato il maggior specialista francese della storia dell´immigrazione dedica oggi uno studio completo e documentatissimo, Le massacre des Italiens (Fayard, pagg. 291, euro 20, da ieri in libreria), che ricostruisce nei minimi dettagli la dinamica di quelle violenze, la realtà dell´immigrazione italiana e soprattutto «lo scandalo di un processo che, malgrado tutte le prove accumulate, assolse tutti gli imputati». Il massacro degli italiani rimase infatti impunito e in seguito l´episodio fu a lungo dimenticato da una parte come dall´altra delle Alpi. «All´epoca, tra Italia e Francia vi fu un violento scontro diplomatico, ma poi, per evitare che la situazione degenerasse in conflitto internazionale, entrambi i paesi preferirono insabbiare la vicenda», spiega lo studioso francese, per il quale troppo spesso gli italiani sembrano dimenticare i loro molti antenati emigrati all´estero. «Da allora, quel massacro fu rimosso dalla memoria collettiva. Innanzitutto in Francia, dove nessuno voleva ricordare quella pagina vergognosa della storia nazionale, i cui responsabili non furono i rappresentanti dello stato, ma dei normali cittadini. Paradossalmente però l´episodio fu dimenticato anche in Italia, forse perché per gli italiani l´emigrazione è un fenomeno poco valorizzante, vissuto sempre con un sentimento di vergogna».
Cosa successe esattamente?
«Tutto nacque da un dissidio legato al lavoro nelle saline. I giornalieri francesi, per lo più emarginati e vagabondi, non riuscivano a stare al passo con il ritmo di lavoro degli stagionali italiani, che venivano quasi tutti dal Piemonte ed erano lavoratori infaticabili. Il sentimento d´umiliazione dei francesi alimentò una prima rissa che poi degenerò, innescando la caccia all´uomo contro gli italiani, che furono inseguiti e attaccati da una folla inferocita. All´iniziale rivalità economica, si sovrappose il richiamo alla nazionalità che servì a giustificare e strutturare la violenza. Così, anche gli abitanti d´Aigues-Mortes, che inizialmente erano indifferenti alla sorte dei giornalieri francesi, si associarono alle violenze contro gli italiani. Furono pochissimi coloro che cercarono di aiutare gli immigrati a mettersi in salvo».
La xenofobia fu quindi il motore del massacro?
«Per chi non possiede nulla il richiamo all´identità nazionale diventa l´unico bene di cui andare fieri. Allora come oggi, chi si sente ai margini della società trova nella nazionalità un modo per valorizzarsi. Da qui il sentimento di superiorità nei confronti degli stranieri. E quando per caso gli immigrati riescono meglio dei nazionali, questi provano un grandissimo sentimento d´ingiustizia. Ad Aigues-Mortes, la violenza divenne ancora più feroce, quando i francesi videro che i gendarmi cercavano di proteggere gli italiani. Va poi ricordato che per i più deboli, la violenza contro gli immigrati e il discorso xenofobo sono spesso un modo per contestare l´ordine dello stato. Ancora oggi affermare la propria xenofobia è un modo per sfidare i benpensanti e le istituzioni».
Come si svolse il processo?
«I magistrati cercarono di rispettare le forme della legalità, ma al contempo avvalorarono l´idea che le responsabilità andassero condivise tra italiani e francesi. Ad esempio, accusarono di tentato omicidio Giovanni Giordano, che potremmo considerare il primo clandestino della storia di Francia, dato che all´epoca era già stato espulso una volta dal territorio francese. Insomma, i magistrati manipolarono il processo, ma i giudici popolari si spinsero ancora più in là, giacché assolsero tutti gli imputati francesi, dando così sfogo al risentimento popolare nei confronti degli immigrati italiani».
Quali erano le caratteristiche dell´immigrazione italiana?
«Gli italiani furono i protagonisti della prima grande stagione dell´immigrazione in Francia. Verso la fine del secolo, proprio a causa delle molte violenze e delle molte ingiustizie subite, gli arrivi dall´Italia rallentarono, ma ripresero all´inizio del XX secolo, quando gli italiani divennero la più importante comunità straniera in Francia. L´immigrazione italiana, che all´inizio è stagionale e provvisoria, tende in seguito a diventare sempre più stabile, trovando opportunità di lavoro soprattutto nel mondo rurale e nel settore delle costruzioni».
L´immigrazione italiana era sentita come un problema?
«Nel decennio precedente il massacro di Aigues-Mortes, si cristallizzano tutti gli stereotipi sugli immigrati italiani, considerati una minaccia e una realtà non assimilabile nella società francese. In passato, c´erano stati diversi episodi di violenza, che avevano coinvolto sia dei francesi che degli immigrati, ma non erano mai stati considerati come un problema politico legato all´opposizione tra francesi e italiani. L´immigrazione in quanto tale non era un problema. E´ solo a partire dal 1881, dopo alcuni incidenti a Marsiglia, che l´immigrazione diventa un problema politico. Naturalmente sono le élite vale a dire i politici, i giornalisti che fabbricano le rappresentazioni collettive relative agli stranieri, che poi vengono adottate e interpretate in vario modo nei diversi ambiti della società. Gli italiani furono i primi a subire un discorso apertamente xenofobo, in seguito l´ostilità si sposterà verso altre comunità di stranieri».
Oggi come viene percepita l´immigrazione italiana?
«Alla fine dell´Ottocento, i francesi vedevano negli italiani un elemento di corruzione dell´identità francese. Oggi quell´immagine è radicalmente cambiata. Il ricordo dell´immigrazione italiana viene idealizzato. Gli italiani sono diventati un esempio d´immigrazione riuscita che ha saputo integrarsi felicemente nella società francese. E addirittura c´è chi ad esempio, lo storico e scrittore Max Gallo rivendica l´origine italiana come una componente dell´identità francese. In realtà, tale visione idealizzata dell´immigrazione italiana viene spesso utilizzata per stigmatizzare la nuova immigrazione proveniente dall´Africa e dal mondo arabo. All´epoca però agli italiani venivano fatti gli stessi rimproveri mossi oggi agli immigrati non europei. I tempi cambiano, ma la diffidenza nei confronti degli stranieri riprende sempre gli stessi discorsi».

il Fatto Quotidiano 7.1.10
“Arabi sarete voi” Perché i persiani sono diversi da tutti
di Mauro Mauri

In occidente c’è l’errata tendenza ad associare l’Iran ai Paesi arabi. Invece sono due realtà distinte, profondamente diverse tra loro che in comune hanno ben poco, forse nulla, nemmeno la coniugazione dell’elemento che in teoria li accomuna – l’Islam – interpretato e vissuto in modo fortemente diverso nonostante principi e valori islamici siano fondanti per entrambe le realtà.
Da una parte il sunnismo dall’altra lo sciismo, da una parte la tradizione religiosa, da tramandare ai figli, accettando quasi acriticamente quanto ereditato, dall’altra la discussione, da porre al centro della vita sociale e il rinnovamento, previo interpretare il Sacro Corano alla luce della realtà odierna. Ovviamente anche le interpretazioni del Libro dei Libri spesso sono opposte, soprattutto se a far ciò sono esponenti riformatori del clero sciita. A prescindere da schieramento politico e senso religioso, dall’essere un fedele che cinque volte al giorno si genuflette verso la Mecca o invece mosso dall’anticlericalismo, ogni iraniano s’imbestialisce se viene accostato a un arabo.
Ciò, oltre che per la maggioranza religiosa, vale anche per atei, agnostici o appartenenti a fedi minoritarie come ebrei, bahai, cristiani e zoroastriani: in Iran la persianità è l’indiscusso valore comune. L’origine dell’avversione per il mondo arabo, che spesso rasenta l’odio, è antica, quasi atavica, e solo in parte dovuta alla recente guerra con l’Iraq.
In sostanza viene rinfacciato agli arabi di aver a suo tempo introdotto e imposto l’Islam nell’antica Persia a discapito dello Zoroastrismo, religione di Stato. Ma a dir questo si porterebbe essere accusati dal regime di apostasia, reato punibile con la pena capitale.
Per la verità l’Islam duodecimano – dei dodici imam – ha assorbito numerosi elementi dal credo autoctono dell’altopiano iranico, in primis le modalità con cui si onorano i defunti: il Gran Ayatollah Montazeri precisò che “nella tradizione sciita sono presenti etica zoroastriana e filosofia greca”. In merito ad Iraq e Saddam: quando l’America lo portò sul patibolo, il mondo arabo e l’intera galassia sunnita del pianeta piansero la morte di chi era considerato un vero eroe. A festeggiare fu un insolito trio: America, Israele e Iran, tutto il popolo, senza distinzioni, Ahmadinejad incluso, imbarazzatissimo dal trovarsi per l’occasione su posizioni identiche a quelle dei due Satana; il giorno dopo, per differenziarsi, lanciò puntuali minacce a Israele.
Parallelamente nel mondo sunnita c’è una diffusa ma sotterranea simpatia per Bin Laden, spesso reputato un correligionario che “forse eccede, ma qualche ragione ce l’ha”, mentre per l’Iran è la più pericolosa espressione del vero e unico nemico: il wahabismo (il movimento radicale saudita, ndr). Gli attacchi alle Twin Towers di New York sono stati vissuti con animo diverso: da una parte si esultava per l’impresa dello Sceicco del terrore, ma a Teheran i giovani deponevano candeline commemorando i morti in modo analogo a quello dei coetanei occidentali. Anche a livello politico la situazione è opposta: la stragrande maggioranza delle nazioni arabe è gestita da semidittature di matrice laica che placano popoli in cui freme l’integralismo e vorrebbero l’applicazione della sharia, la legge islamica. Invece in Iran c’è un regime teocratico che soffoca i sogni di democrazia e libertà della gioventù. A proposito di giovani: se per le strade dei paesi arabi scarseggiano le figure femminili, in coffee shop e gelaterie iraniane le ragazze sono sempre più numerose rispetto ai ragazzi.
Chiaramente anche la questione israelo-palestinese è vissuta in modo diverso: di centrale importanza per l’Umma (la comunità, ndr) arabo-sunnita, con la nazione ebraica che globalmente ne catalizza l’odio, interessa ben poche persone in Iran, dove gli intenti distruttivi di Ahmadinejad sono condivisi solo dalla cerchia del regime. Tra la gente comune non si riscontra odio verso Israele, nazione con cui l’Iran dello Scià era in eccellenti rapporti, mentre la generale avversione nei riguardi degli arabi porta a definirli con disprezzo tambal (lazzaroni) nonché soosmar khor (mangia cavallette). Vien loro imputato di essere arroganti, fanatici nonché – osservazione puramente persiana – di interessarsi solo a due cose: soddisfare quello che c’è una spanna sopra l’ombelico – lo stomaco – e quello che c’è una spanna sotto.
Iraniani e arabi sono diversi anche nel misurare lo scorrer del tempo: furono proprio gli antichi persiani a imparare a farlo, osservando il firmamento, ideando così il calendario persiano, tuttora in uso, che è solare, da cui proviene il gregoriano, ovvero il nostro, in so-
stanza identico. Invece nel mondo arabo si utilizza il calendario islamico, che è lunare. Sole e luna: forse è questa la distanza tra Iran e mondo arabo.