venerdì 16 maggio 2008

Corriere della Sera 16.5.08
Dopo il manifesto choc Il Pd di Ponticelli scrive: via gli zingari. Bassolino: un pugno nello stomaco
La svolta anti-nomadi della sezione Gramsci


NAPOLI — Oltre che di baracche bruciate e di spazzatura, Ponticelli è piena anche di manifesti. Quelli di An che cavalca la protesta contro i rom non sorprendono, quelli con la firma del Pd che allo stesso modo chiede lo smantellamento dei campi(e di cui il Corriere ha riferito ieri), invece sì. Per lo sgombero ha già provveduto la brava gente delle spranghe e delle molotov, e quindi la questione è risolta. Resta sullo sfondo non solo la puzza della plastica sciolta dal fuoco e del catrame e di tutte le fetenzie che c'erano nei campi, ma anche quella di una intolleranza che qui nessuno vuole ammettere e che fa a cazzotti con la storia di un posto che era la roccaforte rossa di Napoli, il quartiere operaio, la Stalingrado di periferia dove davanti alla sede del Pd c'è ancora scritto Casa del Popolo, e resiste pure la targa che recita: sezione Antonio Gramsci.
È vero che alle ultime elezioni il centrosinistra è sceso dal 70 al 40%, ma è vero anche che proprio nelle stanze della Casa del Popolo è stata partorita l'idea del manifesto. «Via gli accampamenti rom da Ponticelli», recita il titolo. E a chi gli fa notare il tono nemmeno tanto velatamente leghista, l'ideatore replica pregando di «non deformare la realtà». E aggiunge: «In quindici anni di governo di centrosinistra non si è stati capaci di gestire questa situazione. Noi sapevamo che sarebbe deflagrata e abbiamo lanciato l'ennesimo allarme. Ma né Bassolino, né il sindaco Iervolino ci hanno ascoltati. Queste sono le conseguenze». L'ideatore è Giuseppe Russo, medico e consigliere regionale Pd proveniente dai ds. Il suo manifesto Bassolino lo ha definito «un pugno nello stomaco» e «un messaggio sbagliato e inaccettabile », e Iervolino dice che «contraddice tutte le scelte di valore del nostro partito ». Ma né Russo né gli altri della Casa del Popolo si sentono bacchettati. Anzi, Russo è molto diretto nella risposta: «Qui anziché fare le cose ci si mette ad aggrapparsi al cielo dei valori. Ma di che stiamo parlando? Serviva concretezza, altro che discorsi inutili».
E le spedizioni punitive? E il popolo di sinistra che se la prende con i deboli? «Se si sapessero le condizioni igienico sanitarie di quei campi...», replicano alla sezione Gramsci. E poi ancora contro Comune e Regione: «Chiedevamo una collocazione dignitosa e civile per quelle persone, che pure sappiamo sono abusivi e irregolari. Mai avuto risposte».
Chiusa qui. Rimorsi per come è andata a finire non ce ne sono alla Casa del Popolo. Per trovarne non resta che Rifondazione. Patrizio Gragnano, assessore alle politiche sociali della municipalità, dice: «In questi giorni ho visto sfumare il lavoro di oltre dieci anni». Ma per quanto lo riguarda, la cosa che colpisce è un'altra: nei giorni scorsi sui luoghi della protesta se n'è dovuto restare al riparo delle camionette della polizia, altrimenti avrebbero aggredito anche lui. Comunista e «pro zingari» in un quartiere che oggi detesta gli zingari e forse un poco pure i comunisti.

Corriere della Sera 16.5.08
Un abbraccio ambiguo per una sfida giocata fuori dal Parlamento
di Massimo Franco


La parola d'ordine del dialogo sta diventando perfino stucchevole. Immortala un capovolgimento dei rapporti fra Silvio Berlusconi e gli avversari che può finire per insospettire. Il pranzo di lavoro che oggi il presidente del Consiglio avrà a palazzo Chigi col segretario del Pd, Walter Veltroni, incornicia un postelezioni apparentemente stralunato. Colpa, o merito, del risultato elettorale del 13 e 14 aprile; ma forse, soprattutto di una convergenza di interessi e di paure, che rende la parola «dialogo» perfino riduttiva rispetto a quello che sta prendendo corpo. Più si va avanti, e più si indovina che il compromesso non è tanto una scelta quanto una necessità.
Né Berlusconi, né tanto meno i suoi avversari sembrano convinti di poter risolvere la crisi italiana da soli. Anzi, il sospetto è che la loro non belligeranza sia una specie di condizione minima, e forse nemmeno sufficiente, per tentare di «rialzare » il Paese, come ha martellato il premier in campagna elettorale. L'idea di istituzionalizzare un incontro settimanale fra il capo del governo e quello della maggiore opposizione risponde dunque ad una preoccupazione condivisa. Tenta di accreditare in anticipo un bipartitismo non ancora legittimato dal voto. Lo schema tende a lasciare fuori ciò che contrasta uno sforzo congiunto e oggettivamente rischioso. Le bordate contro «l'inciucio» che arrivano dal partito di Antonio Di Pietro sono speculari a quelle, meno violente, accennate dalla Lega. Ma rispondono al calcolo simile di trarre vantaggio dai limiti e dalle contraddizioni di un'operazione fino a pochi giorni fa impensabile. In questo senso, leghismo e dipietrismo non sono estranei, quanto funzionali al progetto: seppure per tenerlo sotto tiro e, qualora mostrasse la corda, per delegittimarlo.
In qualche misura, segnalano la vera sfida di fronte alla quale si trovano il governo Berlusconi e l'opposizione non pregiudiziale del Pd: quella dell'opinione pubblica. Il Parlamento non rappresenta un'insidia, nella legislatura appena iniziatasi. Alle Camere esiste una maggioranza solida e teoricamente inattaccabile. Ed il centrosinistra ne ha preso atto con realismo, preparandosi a contrastarla con un'apertura di credito, non con la rituale scomunica anche morale del passato. Ma proprio l'atteggiamento mutato dei principali protagonisti lascia capire che il vero contropotere ormai è fuori dalle aule parlamentari.
Non si tratta dell'estremismo di sinistra sconfitto: comunque, non solo di quello. A controllare i risultati dell'azione di governo, a valutarla, a promuoverla o bocciarla saranno gli stessi elettori che hanno votato per Berlusconi e per Veltroni; e che fra un anno riandranno alle urne per le europee. Proprio perché i problemi da risolvere sono enormi e toccano trasversalmente i due schieramenti, i destini del Cavaliere e del Pd sono intrecciati; e per forza di cose è comune il loro interesse ad uscire da una situazione di minorità del Paese anche nel raffronto col resto d'Europa. Per questo, sebbene circondato dallo scetticismo, il dialogo per ora potrebbe marciare. Rimane da capire per quanto, e se produrrà anche risultati.

Repubblica 16.5.08
Sono centinaia e si nascondono dietro aziende e gruppi motivazionali
Con la promessa di guarire l’anima truffano e commettono reati sessuali
L’Italia delle psicosette i manipolatori della mente
di Sandro De Riccardis


Sequestrano la mente e la tengono in ostaggio. Promettono di salvare da dolori e malattie, di liberare da traumi e fallimenti del passato, ma intanto svuotano la testa e la riempiono di illusioni, di certezze granitiche che allontanano da ogni cosa che sa di passato verso un mondo parallelo. Il boom delle psicosette attraversa da nord a sud tutto il Paese, con i manipolatori della psiche che si nascondono dietro aziende di formazione e gruppi motivazionali, associazioni culturali e centri yoga, gruppi universitari e movimenti spirituali.
Al Cesap, il Centro studi abusi psicologici, arrivano 400 richieste d´aiuto l´anno, mille al telefono anti-sette della comunità Giovanni XXIII: è un frammento delle migliaia di persone che il Gris, il Gruppo di ricerca e informazione socio-religiosa, stima (per difetto) vittime di oltre 200 realtà in Italia. Un mostro che sbriciola la mente e annulla le coscienze rimasto nascosto fino a pochi mesi fa, quando la procura di Bari, con l´inchiesta del pm Francesco Bretone, ha squarciato il velo sul mondo artificiale di Arkeon. Quindicimila adepti in tutta Italia, 50 maestri, decine di vittime, migliaia di euro raccolti con seminari e convegni. Al vertice della piramide c´era Vito Carlo Moccia, 55 anni, maestro e guida della psicosetta che si ispirava al Reiki, una filosofia orientale. Lui e altri cinque collaboratori - tra poche settimane, la chiusura delle indagini - sono accusati di truffa, esercizio abusivo della professione di psicologo e medico, violenza e maltrattamenti su minori; uno dei maestri anche di violenza sessuale. «L´ipotesi è che ci sia chi ha pagato fino a 15mila euro per avere un figlio con le sedute dal guru o per poter guarire da un tumore», spiega Tania Rizzo, legale del Codacons Lecce - da cui sono partite le prime denunce - e del Cesap.
I racconti delle vittime sono un vero e proprio museo degli orrori. C´era il «no limits»: il maestro che chiede agli adepti, tutti bendati, di relazionarsi liberamente tra loro con mani, bocca e corpo, arrivando ad avere rapporti sessuali davvero senza limiti, visto che vi hanno partecipato anche minori, sieropositivi, donne non consenzienti. C´era il «giro del mondo»: tutti in piedi uno di fronte all´altro, mano nella mano, musica new-age e la voce suadente del maestro che ordina a persone tra loro sconosciute di confessare «un segreto mai detto prima». C´era «lo scambio dei trattamenti»: aria intrisa di salvia divinorum, potente allucinogeno, uomini e donne in cerchio mentre un adepto si alza e con pianti e urla, anche alla presenza di figli di 11 anni, confessa un presunto abuso sessuale subito nell´infanzia. C´era il «The business of you»: andare in giro per strada e chiedere l´elemosina.
«Rispetto alle classiche sette religiose - spiega Lorita Tinelli, psicologa e presidente del Cesap - le psicosette si presentano oggi come formatori che agiscono sulla mente, pretendendo di ampliare i limiti umani e scavare nella psiche attraverso l´analisi del passato individuale». Da nord a sud, le caratteristiche dei gruppi si assomigliano: leader carismatici senza titoli accademici validi - Moccia vanta una laurea in psicologia all´Università statale di Fiume - organizzazione a piramide, in un multilevel che porta sempre più soldi e aderenti; la promessa di capacità magiche di guarigione; il love bombing, il «bombardamento affettivo» per creare legami immediati. E soprattutto: meccanismi di condizionamento della psiche durante seminari isolati dal mondo. Così succede a Padova, in un gruppo che opera nel campo della formazione di professionisti, manager, imprenditori, semplici stagisti, e che organizza full-immersion di cinque giorni. Chi partecipa ai seminari - in hotel, a tremila euro a corso - deve lasciare fuori tutto ciò che lega alla realtà - chiavi, documenti, medicine, telefoni, orologi, sigarette - poi entra «nel percorso di consapevolezza per liberarsi dai propri peccati». Con evidente somiglianza con i riti di Arkeon, si confessano tradimenti, rapporti omosessuali, traumi infantili, dolori, parentele che «hanno inquinato l´anima e da cui bisogna purificarsi». Le giornate sono scandite da lunghi intervalli tra i pasti e poco sonno: fame, sete e stanchezza alterano i ritmi cardiaci e favoriscono l´incoscienza, rendendo l´organismo più permeabile alle suggestioni. «Per abbattere l´Io». E mentre pesanti tende alle finestre fanno perdere il senso del tempo, i leader offendono i partecipanti, spesso li colpiscono a calci e pugni, li legano e bendano. Chi decide di abbandonare il corso, subisce la ritorsione in azienda, dal mobbing fino al licenziamento. Non a caso proprio in Veneto, una recente relazione dell´Ordine degli psicologi - dove l´ente si definisce «in prima linea contro gli sciacalli del dolore» - segnala: «A volte non si tratta di persone incapaci di intendere e volere ma di soggetti pienamente integrati e ai vertici nella società: imprenditori, dirigenti, professionisti». Modalità non molto differenti da quelle di un´altra azienda di formazione del personale di Milano, con sedi anche a Londra, Stati Uniti e Israele. Leader giovane, uso di ipnosi su manager e dipendenti, residenza in periferia dove vivono guida e adepti. O da un´altra che organizza corsi di motivazione su autostima e dinamiche mentali a duemila euro a corso, trampolino di lancio verso una struttura parallela aperta solo a chi fa almeno due seminari. Le "scuole occulte" - così le chiama chi c´è stato - sono a Milano, Bari, Catanzaro, Ancona, Salerno, Napoli, Palermo. Chi partecipa cede ogni mese un decimo del proprio stipendio, deve frequentare almeno un seminario l´anno, lo fa gratis se porta cinque nuovi iscritti. Gli adepti compilano questionari di autocoscienza, rispondono a domande spesso ridicole, tra fumi d´incensi, tappeti, esercizi di respirazioni, preghiere. Innescando un meccanismo di dipendenza eterna: molti sono dentro da 15 anni, donano il loro obolo mensile, abbandonano il lavoro per trasferirsi mesi nella sede centrale del gruppo, ad Assisi, pagando migliaia di euro.
«Multinazionali del profitto» le definisce don Aldo Buonaiuto, responsabile del servizio Antisette dell´associazione Giovanni XXIII. «Quello che fa paura - spiega - è che il distacco avviene drasticamente dalle famiglie. Poi le persone diventano irriconoscibili». Gli esposti che arrivano alle questure parlano di famiglie spaccate, ricoveri in cliniche psichiatriche, sparizioni, suicidi. Ogni storia finisce alla Squadra antisette (Sas) della Polizia di Stato, nata nel dicembre 2006. «Indaghiamo su ogni segnalazione - spiega Tiziana Terribile, dirigente della Divisione Analisi dello Sco, da cui dipende la Squadra antisette - . Il nostro compito è verificare se in queste realtà si commettono reati. Siamo vicini a tanti genitori, sappiamo cosa vuol dire perdere un figlio o vederlo allontanare, ma indagando ci troviamo spesso di fronte a un consenso valido espresso da chi entra nel gruppo». Per questo associazioni e parenti delle vittime chiedono che venga reintrodotto il reato di plagio, abrogato nel 1981, così come previsto da un progetto di legge fermo da novembre in commissione Giustizia alla Camera.
Nel frattempo all´Università di Bologna circa 20 giovani sono finiti nella rete di una scuola «gnostica». Ogni mese ognuno versa 50 euro per l´affitto della sede e altri 50 per pagare i 50 corsi obbligatori che portano alla «soppressione dell´ego». Il gruppo pratica «tecniche di manipolazione dei genitali senza emissione dello sperma per aumentare le capacità mentali» e arrivare alla «conoscenza attraverso viaggi astrali». Proprio un volantino sui viaggi astrali, distribuito davanti all´ateneo, è finito nelle mani dell´ultima vittima, un ragazzo di 23 anni che ha abbandonato studi e attività sportiva. Ora si friziona capo e ascelle con estratto di datura arborea, una pianta che crea uno stato permanente di intossicazione dell´organismo, si alimenta solo di verdure e carne biodinamizzata. I genitori hanno segnalato il caso alla Favis, l´Associazione familiari vittime delle sette, fondata da Maurizio Alessandrini, che dal 2003 non riesce a portar via il figlio da una santona veneta. A Rimini, un´altra psicosetta si nasconde dietro corsi yoga guidati da un «maestro spirituale», un uomo di 70 anni che ha ottenuto la fedeltà di circa 60 persone. Una realtà su doppio livello: sedute di spiritualità, preghiere, massaggi e tecniche di rilassamento in pubblico, un «livello privilegiato» in cui gli adepti abbandonano le famiglie e finiscono in strutture protette sulle colline di Rimini. Lì scompaiono per anni. «In questi casi si può parlare di schiavitù - dice Giuseppe Ferrari, segretario nazionale del Gris - . A volte è una scelta del singolo, altre volte frutto di tecniche di indottrinamento prolungate nel tempo». Il Gris ha raccolto le testimonianze dirette di quattro fuoriusciti, i loro racconti di «sedute tantriche» e «orge come riti di purificazione». Tra queste, quella di una ragazza entrata nel gruppo a 29 anni dopo la perdita del figlio, uscita per una grave malattia a 43, con la personalità stravolta e una casa da 200mila euro donata al maestro.

Repubblica 16.5.08
"Sfida te stesso" Così il santone tende la trappola
di Gabriele Romagnoli


Le sette hanno nove vite, il pericolo è non accorgersi quando una nuova reincarnazione è già in atto. Come investigatori sulla scena di un crimine già avvenuto, gli esperti che quasi tutti i governi occidentali hanno arruolato in apposite task force arrivano dopo un suicidio di massa, la dilapidazione di una moltitudine di patrimoni individuali, la fuga del guru in un altro continente dove riappare con un nuovo nome, un diverso colore della tunica e una dottrina aggiornata nei precetti ma invariata nei metodi. Alla maniera dei detective esaminano gli effetti, ricostruiscono i percorsi, individuano i moventi. E qui iniziano i guai. Da sempre la principale causa di aggregazione alle sette è stata indicata nel "bisogno di sacro", nella ricerca di una spiritualità che le religioni tradizionali non riuscivano più a soddisfare, essendo divenute permissive nei precetti e frettolose nei riti.
Quella spiegazione ha perso credibilità. Il "cuore sacro" dei monoteismi ha ripreso a battere, con ritmo da tamburo propaganda la propria voce. Offre conversioni spettacolari, allestisce cerimonie tendenti all´infinito, eleva al soglio sostenitori di una dottrina dura e pura. Nella versione fondamentalista, o semplicemente ortodossa, propone con inedito successo discipline rigide che portano all´annullamento intellettuale e, talora, anche fisico. Con una simile concorrenza, come hanno potuto sopravvivere le sette? Reincarnandosi. Accentuando quelli che già erano i loro caratteri distintivi. Allontanandosi ancor più dall´idea di Dio. Le religioni si fondano su un dio, le sette sull´io. La domanda esca che aggancia milioni di persone nel mondo, stampata sulla copertina dei cataloghi degli accalappiatori, pronunciata al primo colloquio dai persuasori, è traducibile semplicemente: "Sei insoddisfatto?". Guardati dentro: sei insoddisfatto? Non: guarda fuori, guarda gli orrori planetari, le guerre insulse, l´arroganza degli uni e l´umiliazione degli altri, la devastazione della Terra, sei insoddisfatto? No: guardati dentro, osserva i piccoli ingranaggi inceppati della tua esistenza, la tua vocazione incompresa, il tuo amore mal riposto, il successo che non hai avuto mentre lo meritavi o quello che hai avuto immeritatamente. Non cercare Dio, cerca te stesso. Non fare qualcosa, sta fermo, pensa. La setta ti blocca lì, insoddisfatto e ripiegato. A quel punto ti viene in soccorso, a te direttamente, come l´analista per il quale tu solo esisti, almeno nello spazio a pagamento che ti è concesso. Ti spiega, o meglio ti induce a spiegare, che cosa è avvenuto. E la risposta è che tu sei colpevole. E´ una scommessa sicura. Puoi fermare qualcuno per strada e dirglielo: tu sei colpevole. Esiterà un istante poi ammetterà. Siamo tutti colpevoli di qualcosa. Nascendo abbiamo provocato a nostra madre il primo grande dolore (di una serie). Abbiamo subito, prima o poi, un abuso e una parte di noi coltiva il dubbio di averlo incoraggiato. Abbiamo tradito, gli altri e noi stessi. Abbiamo violato una o più leggi della terra e del cielo. Eppure camminiamo liberi finché incontriamo la domanda che aspettavamo, quella che ci offre l´occasione di togliere la maschera senza perdere la faccia, e senza andare in prigione. Non è catarsi, è espiazione. Quando si scorrevano gli elenchi dei componenti della setta del sole, che si erano dati fuoco in circolo, emergevano banchieri e musicisti di talento. Tra i raeliani che clonano il nulla figurano avvocati e artisti. E questi credevano o credono davvero in fiabe neppure tanto elaborate, in Testamenti di serie B? Improbabile. Volevano e vogliono, piuttosto, espiare. Sfuggire a un successo basato su una frode originale, o comunque spropositato, bruciare quel che resta della propria vita in un falò senza vanità, dove si rinuncia a tutto, per arrendersi psicologicamente, sessualmente e infine anche fisicamente.
Le psicosette sono il penultimo stadio evolutivo del genere. Hanno disincarnato la dottrina, cancellato la fiaba originaria che fa da supporto, eliminato ogni dimensione alternativa. Agiscono nel qui e ora. Non ti portano fuori, ti entrano dentro, prima soavemente, poi inflessibilmente, come da manuale. Nessuna meraviglia che alcuni dei suoi laeder siano presunti psicanalisti. Hanno imparato una lezione professionale e ne hanno declinato il metodo al peggio, storpiandolo per fini che hanno del criminoso, ma con esiti che hanno del clamoroso. Il problema ora è esattamente questo: accorgersi in tempo che quel metodo è esportabile in altri ambiti con gli stessi risultati. Già si sono visti gli infausti effetti di una contaminazione psico-politica che ha toccato l´area della sinistra italiana. Ancor più devastante è la declinazione del metodo della setta in chiave economico-aziendale. Eppure già accade. L´azienda chiede un´adesione quasi fideistica, propone un linguaggio interno da adepti, sospinge il manager ad avere una visione, facendone un guru che predica anziché spiegare. Organizza conferenze, road show, happening che molto in comune hanno con gli incontri di una psicosetta. Per non richiamare esempi passati (le memorabili convention di Millionaire officiate da Virgilio De Giovanni e quelle di Mediaset condotte dal cavalier Silvio Berlusconi), basterebbe riguardarsi il famigerato video in cui il manager Telecom Luca Luciani arringa la platea incitandola a replicare Waterloo. Lo affligge un intento messianico. E la considerazione copernicana da fare sarebbe: il problema non è che lui citasse Waterloo come un trionfo, ma che nessuno dall´uditorio gli abbia fatto notare l´errore. Erano tutti annichiliti, asserviti, dipendenti in ogni possibile senso. Non è forse questo il fine di una setta? Non la diffusione del suo metodo l´ultimo stadio, quel che dobbiamo temere di più?

Repubblica 16.5.08
Cesare Salvi: "Vogliono impedirci anche un fil di voce istituzionale". La Finocchiaro: "Falso, chiediamo solo tempi e modi precisi"
Il Pd frena sul diritto di tribuna alla sinistra
di Umberto Rosso


ROMA - Arrivano i messaggi concilianti di Walter ma a sinistra restano molto freddi. Anche perché, ad alimentare sospetti e incomprensioni, scoppia la guerra del diritto di tribuna. «Il Pd sta cercando di farci attorno terra bruciata pure su questo, di spegnere anche un fil di voce istituzionale», accusa Cesare Salvi, ex capogruppo in Senato di Sd. Ma Anna Finocchiaro smentisce tutto: non ne abbiamo ancora parlato a Palazzo Madama, «siamo disponibili ma a patto di stabilire bene tempi e modi della presenza». Tutto ruota attorno all´ultima riunione della conferenza dei capigruppo, giovedì scorso. Convocata per organizzare i lavori d´aula in vista della fiducia, votata poi ieri. Ma con un fuori programma: il presidente Schifani che rilancia e precisa quel che aveva già anticipato nel suo discorso di investitura. Ovvero come rappresentare in qualche modo alle Camere quell´esercito di desaparecidos tagliati fuori dal voto, dalla sinistra radicale alla destra di Storace o ai socialisti di Boselli. Schifani ha già ricevuto una lettera dall´ex senatore rifondarolo Sodano che invoca qualche ufficio e un paio di computer per la ex Sinistra arcobaleno, una "sede di raccordo" all´interno di Palazzo Madama la chiama, per mantenere i rapporti e consultare gli archivi. Ma non è di questo che il presidente parla, anche perché la richiesta è partita a titolo personale e la "sala rossa" quasi certamente non nascerà (costituirebbe un precedente per tutti gli altri gruppi senza più parlamentari, legittimati a quel punto a metter su casa in Senato).
Schifani, in modo del tutto informale, offre la sua personale ricetta sul diritto di tribuna. Non serve rimettere mano ai regolamenti, spiega, basta un atto interno. I presidenti delle Commissioni infatti possono, e lo fanno per esempio con sindacati e associazioni, convocare "esterni" per audizioni. Ecco perciò che su questioni politiche particolarmente rilevanti, metti la legge elettorale e le riforme istituzionali, gli ex capigruppo dei partiti oggi extraparlamentari potrebbero davanti alla Commissioni affari istituzionali tornare a far sentire il loro punto di vista. E anche inviare documenti scritti. Il tutto poi, con il crisma dell´ufficialità, registrato nei resoconti degli atti parlamentari. Materia complicata e delicata, che va precisata in modo molto dettagliato, secondo Anna Finocchiaro. E poi, che succederà alla Camera? Non si possono usare due pesi e due misure, bisogna procedere con prudenza. Schifani prende atto, e sposta il nodo su un altro tavolo: l´ufficio di presidenza del Senato. Ma la ricostruzione del confronto nella capigruppo che arriva ai leader dell´ex arcobaleno, apre il nuovo braccio di ferro. Salvi incontra i colleghi del Pd e chiede spiegazioni, «risposte vaghe, balbettano, sollevano pretesti per bloccare tutto». Il Pd non ci sta: in nessuna riunione ufficiale al Senato è stata mai posta sul tavolo la questione del diritto di tribuna. E sulla stessa lunghezza d´onda, stavolta, sembra l´Idv. «Quando sarà sollevato, daremo il nostro contributo per risolvere il problema - assicura il capogruppo Felice Belisario - ma certo in Parlamento non può rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta». A sinistra però non mollano. Per i prossimi giorni al Senato hanno chiesto un incontro ufficiale a Schifani, dopo numerosi contatti informali. Compresa una telefonata di ringraziamento partita all´indirizzo del presidente del Senato dopo le sua aperture. «Sono le piazze la nostra tribuna - dice Russo Spena, ex capogruppo del Prc - ma su temi come la riforma elettorale possiamo e dobbiamo dire la nostra alle Camere. Ma che paura ha il Pd?».

l’Unitò 16.5.08
La parola agli «amici» di Franco Basaglia


Trent’anni fa veniva varata la legge 180, con la quale si avviava un processo, non solo di radicale trasformazione dell’approccio alla malattia mentale ma di una vera e propria rivoluzione culturale. Oggi appare doveroso soffermarsi a riflettere sui cambiamenti epocali e sulle grandi trasformazioni che ha determinato sulle istituzioni preposte alla tutela della salute mentale, sulla rete dei servizi prevista, ormai riconosciuta quale unica soluzione possibile, sul cambiamento di atteggiamento culturale nei confronti di ogni forma di diversità, sul contrastare le disuguaglianze, le discriminazioni e l’esclusione sociale, troppo spesso ad essa connesse, sulle resistenze ancora presenti per una sua piena ed autentica applicazione e sui possibili sviluppi futuri. Psichiatria Democratica - con un libro a cura di Emilio Lupo e Salvatore di fede - fa il punto sui trent’anni dalla promulgazione della legge di riforma psichiatrica, quella legge 180/78 che ha completamente cambiato il volto della Salute Mentale nel nostro Paese. La pubblicazione - che verrà edita dalla storica associazione di Psichiatria Democratica - contiene scritti di numerosi operatori impegnati da sempre sul campo, nelle diverse articolazioni funzionali delle strutture pubbliche ma raccoglie anche riflessioni, commenti ed esperienze di numerosi esponenti della nostra complessa società, che sono sempre stati vicini all’esperienza degli eredi di Basaglia. Sindacalisti, scrittori, filosofi, magistrati, familiari di utenti, mondo della cooperazione, economisti - difatti - non hanno fatto mancare, in questa importante ricorrenza, il loro contributo di impegno e di idee. La pubblicazione è arricchita dalle illustrazioni di Sergio Staino e di Riccardo Dalisi. In questa pagina anticipiamo i contributi di Vincenzo Consolo, Luciano Sorrentino e Vincenzo Scudiere.

l’Unitò 16.5.08
Centottanta testimoni per difendere la 180
di Vincenzo Consolo


TANTISSIMI I CONTRIBUTI al libro edito da Psichiatria Democratica a trent’anni dall’approvazione della legge di riforma psichiatrica: non solo addetti ai lavori, ma anche scrittori, filosofi, familiari di utenti, magistrati, raccontano cosa ha significato per loro

E come tutti gli esseri umani vogliono cose semplici e essenziali, come una casa dove vivere per esempio

Approvata dal Parlamento italiano quella famosa legge 180, lo Stato non ha saputo subito approntare luoghi alternativi al manicomio, centri di accoglienza, case-famiglia. Sono stati gli psichiatri democratici, gli allievi ed eredi di Basaglia a organizzare concrete risposte territoriali. Ma molto resta ancora da fare.
I cosiddetti malati mentali, gli esseri umani più sensibili, più fragili, che si allontanano dal nostro contesto, spesso brutale, violento, non sono, diciamo noi, che un segno della sanità dell’uomo.

Ripercorrere la storia della Legge 180 rappresenta il percorso di quanti prima, durante e ancor oggi non hanno rinunciato all’idea che il malato mentale non è assimilabile a un problema di ordine pubblico e quindi risolvibile con la segregazione e l’isolamento ma è una persona a cui vanno riconosciuti i diritti fondamentali e tra questi quello di sentirsi a pieno titolo cittadino tra i cittadini.
Quando cominciammo anche noi sindacalisti ad occuparci di come aprire alla società i manicomi, molti di noi venivano considerati «pazzi» e/o sovversivi perché allora non passava per la testa di nessuno che quelle persone potessero avere un rapporto normale con gli altri. A trent’anni di distanza sarebbe utile attualizzare quelle esperienze per capire come affrontare e governare i processi involutivi che spesso fermano le riforme.
Il Sindacato in questi anni ha continuato e continuerà a stare a fianco di tutti coloro che, quotidianamente, superando ostacoli burocratici e resistenze politiche, sostengono e promuovono l’integrazione contro la segregazione, l’integrazione contro l’isolamento.
Vincenzo Scudiere
Segretario Generale Cgil Piemonte

Le nostre esperienze ci dicono che non dobbiamo più vedere i nostri utenti come casi disperati e senza speranza, ma come cittadini con problemi speciali e bisogni particolari che hanno gli stessi diritti e responsabilità. Di per sé, questo passaggio implica una ridefinizione del potere, della natura dell’aiuto, del rifiuto di ogni forma di segregazione e ci aiuta a ripensare la persona in una situazione più naturale, quale una casa e perché no anche a un lavoro retribuito.
I nostri interlocutori privilegiati devono essere gli utenti e i loro famigliari. Il dialogo fra i professionisti della salute mentale, gli utenti e i loro familiari riveste una fondamentale importanza se si lavora con un’ottica riabilitativa e di reintegrazione sociale ed è l’unico modo per focalizzare i problemi reali: Come posso trovare una casa?
Posso essere di aiuto ad altri che si trovano nella stessa situazione?
Come posso avere una vita soddisfacente e avere il controllo di quanto mi accade?
Queste sono domande che implicano una vita normale: la casa, il lavoro, le relazioni sociali. Domande che normalmente ci poniamo e che appartengono alla vita di tutti i giorni e non al sistema psichiatrico, rappresentando le attese che ognuno di noi ha dentro di sé. L’incontro tra professionisti si riduce sempre a interminabili discussioni su «vecchie pratiche» e allo scontro tra poteri contrapposti che portano a mediazioni che ricadono sulla gente, costretta a subirne le conseguenze senza avere la possibilità di esprimere il proprio punto di vista. Pensate solo a quanto sia difficile demolire, anche con dati alla mano, alcuni miti che appartengono ancora alla psichiatria, ad esempio che strutture protette e controllate di 20 posti letto possono essere luoghi di vita normale o luoghi della riabilitazione con il pericolo che si induca un’ulteriore razionalizzazione per ritrovare spazi più grandi di «residenzialità» protratta.
Questi miti limitano fortemente la possibilità di reinserimento nella società civile delle persone psichiatrizzate e sopravvivono perché in fondo riflettono gli interessi e le scelte della classe professionale. Con ciò non voglio dire che le esperienze di residenzialità transitoria e differenziata non abbiano svolto una funzione utile perché hanno rappresentato un tentativo di sfuggire all’istituzionalizzazione, ma è fatale che strutture di questo genere possano diventare luoghi di attesa infinita. Queste riflessioni dovrebbero indurre una domanda: le Strutture sono ciò che gli utenti realmente vogliono? Le esperienze alternative (Conolly , Basaglia, Pirella, Mosher e tanti altri) ci dimostrano che le persone psichiatrizzate rifiutano anche le forme di istituzionalizzazione più attenuate, a favore di interventi integrati di sostegno in una casa. Se teniamo conto di queste esigenze dobbiamo superare il nuovo paradigma rappresentato dalla parcellizzazione del manicomio in strutture che svolgono la sua stessa funzione. Quindi non dobbiamo avere più luoghi di trattamento specifici ma case, lasciare che sia la persona a scegliere anziché essere collocata, favorire il recupero un ruolo normale con tutta la sua contrattualità affinché la persona psichiatrizzata esca dal ruolo di paziente e torni a vivere in un contesto di vita permanente e non transitorio o preparatorio ad altre soluzioni transitorie, organizzando un sostegno personalizzato con servizi flessibili e non secondo protocolli rigidi e standardizzati.
Luciano Sorrentino, Direttore Dsm di Torino

giovedì 15 maggio 2008

l’Unità 15.5.08
«Un milione e mezzo di voti persi dal Pd»
«Astensioni, il Pd ha pagato un caro prezzo»
Seminario di Italianieuropei. D’Alema: una struttura per elaborare idee e culture per il Pd
di Andrea Carugati


UNA ASSOCIAZIONE di parlamentari e teste pensanti, una tv satellitare, oltre alla gloriosa fondazione Italianieuropei. Massimo D’Alema è in pieno movimento, come dimostra il seminario che ha organizzato ieri pomeriggio per riflettere sui flussi elettorali e
sulle ragioni della sconfitta del Pd. Un «esempio lampante», l’incontro di ieri, di quello che l’ex ministro degli Esteri ha in mente per il prossimo futuro, spiegano i suoi: contribuire al dibattito nel Pd con approfondimenti e studi di alto livello, non destinati però a restare chiusi nelle aule. E proprio a questo servirà l’associazione, che partirà entro due settimane e che sarà il braccio politico di Italianieuropei: pronta a tradurre in azioni politiche concrete le idee emerse dagli studi. All’incontro di ieri, in cui i relatori erano esperti come Roberto Weber della Swg, i professori Paolo Natale, Mauro Calise e Aldo Bonomi, Luca Comodo della Ipsos, erano presenti tutti i big del Pd, a partire da Veltroni. E poi Bersani, Fassino, Marini, Fioroni, Amato, Livia Turco, Alfredo Reichlin. Oltre ai direttori di Unità ed Europa, Padellaro e Menichini. In tutto una trentina di persone, assenti Franceschini e Letta, che però non è indifferente alle mosse dalemiane. E Veltroni, dopo le tensioni dei giorni scorsi, ha apprezzato lo spirito dell’iniziativa. L’ex presidente Ds, infatti, ha chiarito che non intende dar vita a «un partito ombra». «È sbagliato dire che sto facendo il mio partito, la nostra struttura sarà un pezzo di politica nuova rispetto ai partiti tradizionali», ha detto ieri al Corriere. La sua associazione sarà aperta a tutto il Pd, non una corrente, ma al servizio del partito. Mirata anche a superare i vecchi equilibri interni. Insomma, il coordinamento Pd previsto per oggi si preannuncia tutto sommato sereno, anche se Bersani si è detto «preoccupato» dei troppi abbracci simbolici con il Cavaliere, tra pranzi e strette di mano e di questo parlerà oggi. «Va bene fare le riforme insieme, ma non dobbiamo dimenticarci che il nostro obiettivo è tenere il fiato sul collo del governa», ragiona Bersani. Che sul dinamismo di D'Alema dice: «La fondazione serve per rimescolarci dentro il Pd. Mi pare assai riduttivo pensare che chi è stato premier possa fare il capo-corrente...».
Quanto all’analisi del voto presentata ieri, i dati emersi sono sostanzialmente noti: il Pd ha pagato un prezzo all’astensionismo, circa 1,5 milioni di elettori che nel 2006 avevano scelto Ds e Margherita, compensati da un recupero dalle file della sinistra radicale. Numeri che fanno dire a Nicola Latorre che «non abbiamo sfondato al centro, nel voto moderato». Dal Loft ribattono che però gli stessi studi dimostrano come non ci sia stato uno spostamento di voti dal centrosinistra al centrodestra e che, invece, da An siano arrivati al Pd circa 190mila voti, quasi tutti nel Lazio. Quanto alla nuova associazione di D’Alema, l’idea è quella di un modello di partito per qualche verso all’americana, immerso in una rete di fondazioni e circoli e anche think tank. Un’ipotesi che al Loft viene presa per buona: «Succede anche nei grandi partiti americani». Lo stesso D’Alema, nelle conclusioni del seminario di ieri, non ha individuato le ragioni della sconfitta nelle scelte del segretario, ma ha ricordato che «si tratta di una sconfitta che viene da lontano, perché il berlusconismo è una presenza costante nella società italiana sin dal 1994». E a mantenere viva questa attenzione degli italiani per il Cavaliere, ha spiegato il professor Calise, ha contribuito anche una modifica del tipo di voto: la scomparsa del voto ideologico, la riduzione di quello di opinione e l’affermarsi di un voto carismatico, che ha visto proprio in Berlusconi il suo più naturale approdo. Voto carismatico, si è ragionato ieri, di una Italia che non crede in un futuro migliore come Paese, ma solo nella possibilità di un miglioramento individuale, per il singolo. Quanto alla struttura dalemiana, a fine maggio ci sarà un nuovo appuntamento di studi a Marina di Camerota su democrazia e religione, poi altri incontri sulle riforme istituzionali e sulla contrattazione. E dopo l’estate partirà anche la sinergia tra fondazione e «Nessuno tv», il canale satellitare della Quercia guidato da Claudio Caprara, che dovrebbe trasmettere anche in chiaro, sulle tv locali. Un milione di persone il bacino di audience previsto. Ma Franco Marini, proprio ieri ha avvertito: «La politica non è solo comunicazione, dobbiamo radicarci di più nel territorio».

Repubblica 15.5.08
E ora il clima bipartisan agita il Pd
D’Alema riunisce i big: ci sono mancati 1,5 milioni di voti. Il caso Ichino
di Giovanna Casadio


L´ex ministro degli Esteri vuole comprare "Nessuno Tv" per la sua fondazione

ROMA - Tutto si tiene: l´ipotesi di una presidenza di commissione al giuslavorista del Pd, Pietro Ichino; la stretta di mano tra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi in aula alla Camera e l´appuntamento "ci vediamo nei prossimi giorni, dopo la fiducia", forse venerdì; la Rai e le riforme istituzionali indicate come il banco di prova del confronto tra il governo e i Democratici, che non intendono fare un´opposizione «muscolare» però «ferma e seria», senza sconti. Prove concrete di dialogo. Veltroni e il Pd traggono le somme. Lo faranno oggi al coordinamento del partito, la riunione del "parlamentino" convocata per la prima volta dopo le batoste elettorali. Il segretario dovrà dire come si vanno a vedere le carte del Cavaliere senza bruciarsi e restarci fregati e quali sono le prime cose da fare. La «strategia del dialogo» non è indolore nel Pd.
Pierluigi Bersani ad esempio, oggi interverrà nel coordinamento e insisterà sul «profilo che deve avere l´opposizione», perché cadere in un clima zuccheroso non va bene: strette di mano, lunghe chiacchierate (di Berlusconi con Franceschini, il numero due del Pd) possono far apparire la più grande forza di opposizione quasi subalterna alla maggioranza. Anche se Veltroni nel suo discorso a Montecitorio ha sgombrato il campo dal sospetto di inciucio o di "patto della crostata" come fu tra D´Alema e Berlusconi a casa di Gianni Letta nel 1998. Le tensioni tuttavia non mancano. Massimo D´Alema in un´intervista al Corriere della sera annuncia la nascita di un´associazione legata alla "sua" Fondazione "Italianieuropei": «Diranno che mi sto facendo il mio partito? Sarebbe sbagliato, la politica non si fa solo con i partiti». Il progetto è quello di un network con tanto di quota azionaria maggioritaria su Nessuno tv. Una nuova struttura «legata al Pd e aperta a tutti». Una sfida a Veltroni o un armistizio tra i due leader? Nel pomeriggio di ieri, il segretario con alcuni big del partito va proprio a "Italianieuropei" dove si tiene un seminario di analisi del voto con sondaggisti, politologi, sociologi come Aldo Bonomi, Mauro Calise. Ci sono anche Marini, Amato, Fassino, Bersani, Fioroni, Cuperlo, Livia Turco, Latorre. Si scopre che a conti fatti mancano al Pd un milione e mezzo di voti «moderati» andati ai Ds e alla Margherita nel 2006 ma non nel 2008. Sarebbero finiti nell´astensionismo o ad altre forze politiche. Quindi, il Pd di Veltroni non ha sfondato tra i moderati e tra l´altro non avrebbe pagato la scelta di «demonizzare i piccoli». Un milione i voti drenati alla Sinistra. Altra questione su cui riflettere oggi.
Il "caso Ichino", ovvero la guida della commissione Lavoro del Senato da affidare al Pd, è un tam-tam senza riscontro. Il giuslavorista si dice «disponibile se c´è l´accordo Pd-Pdl», al gruppo fanno sapere che non se ne è parlato mai. E poi, c´è la spina-Di Pietro. Il leader di Idv ha attaccato anche Veltroni: «Più volte mi sono girato indietro per capire se parlava Veltroni o Cicchitto. Idv è l´unica opposizione». Il segretario del Pd difende Di Pietro da Fini come del resto fa Pier Ferdinando Casini, leader dell´Udc, esprimendogli anche privatamente solidarietà. «No, Veltroni non si è fatto sentire, sono cose che restano...», confida Massimo Donadi. Ieri, scontro nel gruppo Pd alla Camera sull´elezione del direttivo.

Corriere della Sera 15.5.08
D'Alema «convoca» il Pd a convegno «Ma non nascerà un partito ombra»
Analisi del ko davanti a Veltroni e ai big: persi 1,5 milioni di voti, fatale il no alla sinistra
Scompiglio iniziale dopo l'annuncio della «struttura» dalemiana. Poi Bersani e Fioroni: nulla di male
di Monica Guerzoni


ROMA — Non farà un «partito ombra», né un nuovo partito che faccia ombra al Pd. Ma non intende ritirarsi sull'Aventino, Massimo D'Alema. Alla vigilia del coordinamento nazionale che si terrà oggi per analizzare le ragioni della sconfitta, l'ex vicepremier brucia sul tempo Veltroni e convoca un seminario a porte chiuse alla fondazione Italianieuropei. Invita Fassino, Marini, Fioroni, Bersani e Amato (ma anche Cuperlo, Livia Turco, Passigli, Latorre, Reichlin e i direttori di Unità
ed Europa, Menichini e Padellaro) e offre loro una montagna di dati e considerazioni illustrati da politologi, sociologi e sondaggisti. Sostanzialmente tre le conclusioni emerse dalle analisi di Weber, Comodo, Natale, Calise e Bonomi e tutte in sintonia con le riflessioni del padrone di casa: il Pd non ha sfondato nell'area moderata, Ds e Margherita assieme hanno perso rispetto al 2006 un milione e mezzo di voti e, infine, demonizzare la sinistra è stato un errore fatale.
La riunione di studio chez D'Alema, abbandonata in anticipo da Veltroni causa impegni al Loft, cade nel giorno in cui l'ex inquilino della Farnesina annuncia al Corriere che sta lavorando a «una nuova struttura » politica, notizia che porta scompiglio tra le pareti del Loft veltroniano. In Transatlantico dai commenti dei democrats trapela una certa preoccupazione, qualcuno si spinge a parlare di «scissione silenziosa » ed Ermete Realacci avverte: «La fondazione è un'idea positiva, purché sia coniugata al futuro e non al passato». Poi però, col passare delle ore, il clima sembra rasserenarsi. In fondo nello staff del segretario, dove nessuno avrebbe letto l'intervista come «una dichiarazione di guerra», giurano di aver apprezzato che D'Alema abbia «smussato le punte polemiche». E così Pierluigi Bersani derubrica a «normale dialettica democratica» le critiche di D'Alema al leader e annuncia che, alla bisogna, ne farà anche lui: «Ma vi pare che uno che è stato ministro degli Esteri fino a ieri si metta a fare il capo dei dalemiani? È troppo riduttivo». Anche Beppe Fioroni, punto di riferimento degli Ex Popolari nel Pd, non vede nulla di male nella fondazione di D'Alema. E il partito ombra dei dalemiani? «Ma non scherziamo, sennò chiamano gli acchiappafantasmi e ci fanno sparire».
In aula, dopo l'intervento del capo del Pd, D'Alema si è alzato per stringere rapidamente la mano al segretario e nel pomeriggio tutti in piazza Farnese per il seminario. Franco Marini ha chiesto attenzione per i giovani precari che non hanno votato il Pd e si è detto preoccupato per la scomparsa della sinistra. Lo stesso D'Alema ha concluso i lavori interpretando la vittoria della destra come «un problema non contingente, ma di medio o lungo periodo» e ha lasciato la sede della fondazione molto soddisfatto per la riunione «importante e utile». Dal 23 al 25 maggio si replica a Marina di Camerota, con un seminario di filosofia politica su «Religione e Democrazia».

l’Unità 15.5.08
Ora Tremonti dice: più tasse su stipendi d’oro
di Bianca Di Giovanni


Colpire i maxi stipendi
Il ministro non votò la legge contro le stock options
Ora fa propaganda. «Mercoledì taglio l’Ici»

L’Europa sta cominciando a pensare di tassare maggiormente gli stipendi d’oro dei manager e Giulio Tremonti si dice d’accordo. Un cambiamento tanto repentino quanto inaspettato, se si pensa che, finora, Tremonti aveva bocciato tutte le operazioni in questo senso (il nuovo fisco sulle stock options, per esempio) varate dal governo Prodi. Ora invece, il neoministro delle Finanze sembra aver cambiato idea. Dall’Ecofin Tremonti conferma l’intenzione di voler abolire l’Ici nel primo consiglio dei ministri. Ma sulle coperture è ancora buio fitto.

RICCHI Tornato in Europa dopo due anni di assenza Giulio Tremonti scopre un clima diverso. Si vogliono colpire gli stipendi d’oro, per intenderci quelli dei manager e dei capitani d’industria, gli unici a cui la globalizzazione ha portato davvero nuova ricchez-
za. E lui apprezza. Con un’abile mossa camaleontica parla di voci «che vanno tassate in modo diverso da oggi». Peccato che anche Romano Prodi, e con lui Vincenzo Visco e Paolo Ferrero, hanno puntato proprio a quello. Con misure sulle stock options (da cui si sono drenati circa 70 milioni l’anno) o con «tetti» alle retribuzioni dei manager pubblici. Ma la voce di Tremonti non si è fatta sentire: neanche un consiglio, né un’idea geniale frutto della sua proverbiale creatività. Niente di niente: dall’ex opposizione solo insulti: veterocomunisti e Visco Drakula. Peccato.
A dire la verità il neoministro ha detto poco anche ieri. Solo una frase in conferenza stampa. Chi ha parlato - chiaro chiaro - sui nuovi ricchi è stato il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker che ha parlato senza mezzi termini di «scandalo» e di vero proprio «flagello sociale» da affrontare con un giro di vite fiscale. «Riteniamo inaccettabili che queste remunerazioni e liquidazioni dei manager in molti Paesi possano essere dedotte dalle tasse e presentate come spese generali e normali», ha spiegato.
Tremonti si è tenuto sul generico (anche se, ne siamo certi, su molti media italiani vestirà i panni del difensore dei deboli), assicurando ai giornalisti che su questo punto si è «alla discussione generale». Quando si passerà ai fatti? Non si sa. «Cinque anni fa - ha detto - non avrei mai immaginato discussioni di questo tipo in sede europea. Si pensava che il sistema fosse capace di autocorreggersi. Questo indica che è cambiata la situazione politica». Certo, ha spiegato il ministro «è ancora troppo presto per dire cosa si può fare in concreto. Anche se ad una trasmissione televisiva mi è scappato di dire che vanno tassati in modo diverso». Insomma, Tremonti parla in Tv, Prodi cerca di passare ai fatti. Per ora di concreto il ministro ha al suo attivo gli stipendi stellari offerti a manager pubblici come Cimpoli (Alitalia) e Catania (Fs).
Il ministro approfitta del podio europeo per parlare anche delle misure italiane. Presto arriverà lo sgravio Ici sulla prima casa, e anche quello sugli straordinari. Non una parola sulel coperture: quello che si sa da indiscrezioni è che si punta a colpire banche e assicurazioni, molto probabilmente con un intervento simile a quello di fine 2003 sugli ammortamenti. Difficile dire quanto si dovrà reperire, perché nella partita degli straordinari è spuntata l’ipotesi di un tetto a 35mila euro di reddito, mentre verrebbe confermata l’esclusione del pubblico impiego perché troppo costoso (si viaggerebbe attorno ai 3 miliardi). Si conferma anche che l’operazione verrà in parte coperta con l’ipotesi del maggior gettito ottenuto grazie all’incentivo a lavorare di più. Per ora, comunque, le misure sarebbero ancora tutte da scrivere, anche perché la forbice è davvero ampia a seconda della platea da prendere in considerazione. Rumors della vigilia confermano che il decreto Ici e straordinari, da varare mercoledì prossimo, si aggirerà attorno ai 4 miliardi. Tremonti non rinuncia comunque a un commento velenoso. «Dovrò coprire anche l’Ici eliminata da Prodi, perché come dice l’Anci la copertura non c’è». Peccato che quella copertura è stata regolarmente approvata dal Ragioniere generale nominato proprio da Tremonti, e concordata con la stessa Anci. Anche qui: peccato, altra occasione persa.

l’Unità 15.5.08
Fini ti fa parlare, ma «dipende da quello che dici»
di Marcella Ciarnelli


Dato che è solo alla sua quinta seduta da presidente potrebbe appellarsi all’inesperienza, ovviamente del ruolo, dato che Gianfranco Fini in parlamento ci sta dal 1983 e dibattiti ne ha vissuti a migliaia, in tutti ruoli fino al più alto. Ma il presidente della Camera, la terza carica dello Stato, quando ieri mattina ha risposto in malo modo ad Antonio Di Pietro che gli chiedeva solo di svolgere il suo ruolo e di consentirgli di portare avanti il suo intervento, ovviamente di opposizione, senza essere disturbato dagli schiamazzi della maggioranza, non è sembrato un novellino in preda alle difficoltà. Piuttosto ha dato l’impressione di essere ancora un uomo di parte, ed anzi, di avere ancora dentro di sé i rigurgiti di un’appartenenza politica dalla quale pure ha preso le distanze negli anni, tra acque di Fiuggi e visite in Israele. Di non avere ancora compiuto fino in fondo un percorso che forse ogni tanto va ricordato in tutti i suoi passaggi.
Scampanella il presidente con la cravatta gialla. La maggioranza rumoreggia e lui non riesce a farla tacere. «Darmi la possibilità di parlare è un suo compito», gli ricorda Antonio Di Pietro. «Lei non è nuovo di quest’aula e sa che è abbastanza naturale che ci sia, nei limiti...». «Solo quando riguarda me, però». E qui arriva lo scivolone. «Ovviamente dipende unicamente da ciò che si dice». Bruno Tabacci insorge «cosa vuol dire». Di Pietro, di rimando «Ha ragione signor presidente, dipende da quel che si dice: non bisogna disturbare il manovratore». L’intervento procede tra gli schiamazzi. Si sente «la grammatica» e «la Mercedes». Fini ogni tanto scampanella. E poi si prende la critica di un ex. Pierferdinando Casini interviene a nome dell’Udc. «Proprio perché dissento totalmente dalle cose che ha detto l’onorevole Di Pietro vorrei ricordarle che i parlamentari non possono essere sindacati, fatti ascoltare o meno a secondo di quello che dicono, altrimenti si apre un precedente assai pericoloso». Poi Fabrizio Cicchitto e Italo Bocchino, a nome di Forza Italia, si prendono la briga di relegare l’intervento di Casini ad «un complesso dell’ex che non per questo può pensare di dare lezioni ad altri». Il dibattito continua. Il leghista Cota interviene e si rivolge solo «al presidente Berlusconi e al ministro Bossi». Visione padana del parlamento nazionale il cui presidente conta, evidentemente, poco. E poi Walter Veltroni nel suo intervento a nome del Pd tornerà sul caso. «Voglio dire a noi tutti che dobbiamo abituarci anche ad ascoltare parole e opinioni che non condividiamo, ma ad ascoltarle con il rispetto che si deve a ciascuno in un’aula parlamentare»
Il fastidio liquidatorio mostrato alla richiesta del leader dell’Italia dei Valori non è sembrato fine a sé stesso. Ma, al contrario, è sembrato figlio di una mancanza di consapevolezza del ruolo istituzionale che Fini è stato chiamato a ricoprire. Possono essere state parole non ponderate oppure una vera e propria gaffe. Però c’è da riflettere sul fatto che dopo la graduatoria della gravità dei reati tra la morte di un ragazzo e il bruciare una bandiera, spiegata nell’esordio a “Porta a Porta”, ieri il presidente della Camera ha stabilito il principio che il silenzio e l’attenzione dell’aula possono dipendere dal contenuto di quanto l’oratore va affermando. Anche qui una graduatoria. Se affermi principi condivisibili hai diritto al rispetto, altrimenti ti prendi l’insulto e l’interruzione. Chi sia chiamato a stabilire l’interesse e la condivisibilità dei concetti espressi dall’oratore di turno resta tutto da vedere. Questo al momento Fini non l’ha spiegato. Anzi si è mostrato molto infastidito dal rumore suscitato dal caso. No comment a chi ha osato chiedergli una parola sulle reazioni alla sua frase. «Lei da quanto tempo sta qua?», sfida la giornalista. Lui fa il presidente da poco ed è evidente. Sempre che si tratti solo di inesperienza.

Repubblica 15.5.08
La ferocia degli adolescenti
di Massimo Ammaniti


I segnali che ci giungono dal mondo degli adolescenti e dei giovani sono allarmanti, si può parlare di un´emergenza nazionale. Prima a Verona un giovane è stato ucciso da un branco inferocito di coetanei e poi a Viterbo un quattordicenne è stato sottoposto a sevizie dai suoi compagni di scuola e infine a Niscemi una ragazza, anche lei quattordicenne, è stata uccisa e gettata in un pozzo dai suoi amici, tutti minorenni. I tre episodi sono senz´altro diversi, anche se ci sono delle costanti su cui vale la pena riflettere.
Intanto l´età: tutti i giovani coinvolti si trovano fra i 14 e i 20-22 anni, alcuni stanno entrando nell´adolescenza mentre altri si trovano a cavallo fra la fine dell´adolescenza e l´ingresso nell´età giovanile. L´altro dato comune è il fatto che si tratta di riconfermando il fatto che vi è forte prevalenza maschile nell´antisocialità durante l´adolescenza. L´ultimo aspetto riguarda la dinamica dell´aggressione sempre da parte di un gruppo complice e feroce che si scaglia su un ragazzo o una ragazza sola.
Credo che sia necessario andare al di là dello sconcerto o della condanna e cercare di capire se si tratti di episodi isolati oppure se i fatti non indichino una sorta di mutazione antropologica. Per chi conosce il mondo della scuola è più che mai evidente quanto sia profondamente cambiato il clima: da una parte insegnanti spesso intimoriti o impotenti, incapaci di mantenere la disciplina e dall´altra ragazzi che hanno preso il sopravvento con i loro comportamenti irrispettosi e prepotenti. E i ragazzi o le ragazze che vorrebbero studiare costretti ai margini del gruppo, quando addirittura non siano oggetto di scherzi feroci o di sopraffazioni, perché considerati, secondo il gergo giovanile, dei "soggetti", versione ancora più dispregiativa del vecchio termine secchione. Ci si può chiedere se la scuola sia ancora in grado di selezionare e formare la futura classe dirigente, quando i ragazzi e le ragazze più dotate non solo non vengono sostenuti e premiati, ma addirittura vengono scoraggiati ed intimiditi.
Dobbiamo chiederci che cosa succeda nella mente di un ragazzo o di una ragazza durante l´adolescenza. Il corpo che cambia, gli impulsi sessuali che premono e le profonde modificazioni emozionali ed intellettive generano sconcerto nell´adolescente facendo sentire estremamente fragile e traballante la sua identità. La minaccia può essere personificata da una ragazza che vuol farsi valere oppure da un compagno che appartenga a un´altra banda o anche più semplicemente da un ragazzo in difficoltà, che verranno aggrediti con violenza per salvaguardare il proprio territorio. Come ha messo in luce la ricerca di Tremblay, uno studioso canadese, i ragazzi che ricorrono alla violenza hanno spesso una storia personale di rabbia e di reazioni aggressive, che si amplificano poi durante l´adolescenza.
Riguardo al sesso è ampiamente dimostrato che i disturbi della condotta sono maggiormente frequenti nei maschi rispetto alle ragazze, con un rapporto di circa 4 a 1. È indubbio che i bambini rispetto alle loro coetanee agiscano più spesso in modo aggressivo e questo è ancora più vero nel corso dell´adolescenza. Vi è infine il ruolo del gruppo che diventa sempre più importante in questa fase della vita, perché aiuta a staccarsi dalla famiglia e ad iniziare l´esplorazione del mondo. Se il gruppo è una grande occasione di crescita, di scambio e di condivisione per la maggior parte dei ragazzi, in alcune situazioni può trasformarsi in una banda basata sulla complicità e sull´omertà, assoggettata al volere di un leader negativo che impone le sue regole e i suoi rituali ai compagni. E il gruppo per cementare l´appartenenza spesso identifica i suoi nemici all´esterno e impone dei rigidi comportamenti di affiliazione cui è difficile sottrarsi. A volte viene chiesta una prova di fedeltà per poter essere accettato, ci si deve sottoporre a pratiche di sottomissione per esempio consegnando dei soldi oppure rinunciando al proprio cellulare o accettando che la propria ragazza possa andare anche con gli altri. Oppure si chiede di dare prove di coraggio aggredendo le bande rivali o bucando le gomme della macchina di una professoressa, che ha dato un cattivo voto. Tutto questo è avvenuto in un contesto sociale e familiare che via via ha rinunciato a porre dei limiti e far valere le regole. Da parte dei genitori si tende spesso a giustificare il proprio figlio, e questo in campo scolastico è diventato deleterio. In questo modo è venuta meno l´alleanza fra scuola e famiglia che costituiva il sistema di riferimento certo per ogni bambino.
In questo periodo stiamo parlando molto del "fronte esterno" legato al pericolo clandestini, ma stiamo dimenticando il fronte interno dei nostri figli, ancora più pericoloso ed insidioso perché in esso si riflettono tutte le inadempienze e le cecità di noi adulti.

Repubblica 15.5.08
La tortura in America e le scelte di Bush
di Anthony Lewis


Per gentile concessione di The New York Review of Books-la Rivista dei Libri.
In vendita nelle migliori librerie e per abbonamento (infolarivistadeilibri.it), la Rivista dei Libri sarà presto disponibile in versione elettronica con accesso a tutto l´archivio sul sito www.larivistadeilibri.it.

Negli ultimi tempi segnati da forti turbolenze, l´evento più significativo non è stato la crisi finanziaria, la caduta del governatore di New York, né il quinto anniversario della guerra senza fine in Iraq. È stata la benedizione formale impartita dal presidente Bush all´uso della tortura. È proprio quel che Bush ha fatto agli inizi di marzo, quando ha posto il veto a una legge che proibiva l´uso di metodi brutali di interrogatorio da parte degli agenti dei servizi di sicurezza americani. La decisione è stata prontamente sommersa dal diluvio di altre notizie.

Eppure, quel suo ridefinire i valori americani, se non il carattere stesso dell´America, ha avuto conseguenze profonde.
Sono cresciuto convinto che gli americani non torturino i prigionieri, come facevano gli scherani di Hitler o di Stalin. Non sono certo mancati episodi di brutalità americana, ma rendere la tortura una politica nazionale? Impensabile.
Non si può nutrire il minimo dubbio che Bush avesse in mente proprio la tortura. Non si può certo farsi prendere in giro dall´espressione orwelliana "tecniche avanzate di interrogatorio".
Il Congresso cercava di mettere fuori legge pratiche come appendere per i polsi i prigionieri al soffitto della cella, privarli di acqua e cibo, impedir loro di dormire per giorni, tenerli al gelo, sottoporli a scariche elettriche e al famigerato "waterboarding", una tecnica che arriva quasi a soffocare con l´acqua i prigionieri, già usata dall´Inquisizione e dai soldati giapponesi, che per questo vennero giudicati e condannati dopo la seconda guerra mondiale. Torture.
Tali metodi sono formalmente proibiti dal manuale dell´esercito che regola il comportamento in battaglia. Sono messi al bando dalle convenzioni internazionali che gli Stati Uniti hanno ratificato. Dopo lo scandalo degli abusi perpetrati nella prigione di Abu Ghraib, il Congresso degli Stati Uniti ha reiterato la proibizione nei codici militari. Il presidente Bush ha posto il veto a una legge che estendeva il bando, esplicito e più volte reiterato, agli agenti della CIA.
Nell´annunciare il suo veto, Bush ha affermato che "il programma" – un suo eufemismo per indicare i metodi di interrogatorio messi in atto nelle prigioni segrete della Cia in territorio straniero, note come "black sites" – ha prodotto informazioni che hanno svelato piani di attacco terroristico. E ha fornito dei dettagli: «Il programma ci ha permesso di porre fine a un complotto per attaccare una base dei Marines a Gibuti», a esempio, o «un piano per dirottare un aereo passeggeri e colpire la Library Tower di Los Angeles». Non ha però fornito prove per suffragare le sue affermazioni. Non ve ne sono neppure per dichiararle false. Certo, lo scetticismo si impone dinanzi a dichiarazioni pro domo sua di un presidente che ha più volte ingannato il paese nel corso della guerra, ivi compreso a proposito dell´uso della tortura.
Riferendosi alle affermazioni di Bush, il senatore John D. Rockefeller IV, presidente della Commissione senatoriale per l´Intelligence, a volte criticato per la sua condiscendenza nei confronti di Bush, ha dichiarato: «Non ho ascoltato nulla che suggerisca che le informazioni ottenute grazie a tecniche di interrogatorio avanzate abbiano prevenuto imminenti attacchi terroristici. E non ho ascoltato nulla che mi porti a credere che le informazioni ottenute con tali tecniche non sarebbero state ottenute con metodi tradizionali di interrogatorio usate da personale militare o dai corpi di polizia. So invece che gli interrogatori violenti possono condurre i detenuti a fornire informazioni false».
Gli effetti corruttori dell´adozione della tortura come pratica americana sono stati molteplici. In primo luogo, a livello giudiziario. L´ufficio di consulenza legale del Dipartimento della Giustizia, che elabora interpretazioni applicative della legge per il governo federale, ha emanato opinioni segrete che definiscono la tortura quasi a farla sparire verso un punto di fuga, affermando che deve produrre un dolore equivalente «al collasso di un organo, all´interruzione di funzioni corporali, o persino alla morte», aggiungendo che il Congresso non può impedire al presidente di ordinare l´uso della tortura. L´idea stessa di opinioni ufficiali segrete dovrebbe essere anatema in una libera repubblica, una repubblica che sin dai suoi inizi si vanta di essere fondata sulla legge, non sugli uomini. Le leggi segrete sono il marchio della tirannide.
Le opinioni del Dipartimento di Giustizia non sono astrazioni. Sono state immediatamente messe in atto dai rappresentanti politici dell´amministrazione al Pentagono e hanno portato alla tortura di decine di prigionieri e alla morte di alcuni di essi nella base aerea di Bagram, in Afghanistan.
La tortura ha avuto effetti corruttori anche sulla nostra politica. La maggior parte dei repubblicani ha difeso al Congresso la pretesa di Bush di avere il diritto di usare simili metodi, ovviamente per ragioni di solidarietà politica. La corruzione ha toccato persino l´uomo che più di ogni altro è stato il simbolo della resistenza alla tortura, John McCain. Il senatore McCain, nel 2005, ha guidato il Congresso nel far passare la legge che reiterava il bando dell´uso militare della tortura. Eppure, quando quest´anno si è trattato di estendere il bando agli agenti dei servizi di sicurezza, al momento di votare l´Intelligence Authorization Act si è schierato con il presidente. Sarebbe come dire che i nordvietanamiti che lo torturano così crudelmente quando era loro prigioniero erano criminali di guerra se soldati, ma non se erano agenti delle forze di sicurezza.

Persino il linguaggio è stato corrotto. Il 9 marzo, il direttore della comunicazione della Cia, Mark Mansfield, ha dichiarato in una lettera al direttore del New York Times che la legalità dei metodi di interrogatorio dell´Agenzia «era confermata dal Dipartimento della Giustizia». In altre parole, la Cia affida l´approvazione legale della tortura al dipartimento politico dell´amministrazione che l´ha giustificata. Come se il diavolo citasse gli scritti di Satana.
George W. Bush può pure cercare il perdono del suo dio per aver cercato di legittimare la tortura. Qui sulla Terra non può sfuggire al giudizio degli uomini. Per quel che mi riguarda, resterà sempre il Presidente Tortura.
Tutti noi non possiamo rassegnarci a essere una Nazione Tortura. Il Washington Monthly ha dedicato un suo numero recente alla tortura come pratica americana, pubblicando brevi saggi di autori che rappresentano tutto lo spettro politico. Il colonnello Lawrence B. Wilkerson, dell´Esercito americano (ora in pensione), già capo di gabinetto del segretario di Stato Colin Powell, ha scritto: «Dobbiamo cominciare a prendere atto dei nostri crimini e delle nostre complicità. Siamo tutti colpevoli, e dobbiamo tutti fare qualcosa per quel che ciascuno può. La tortura e l´abuso dei prigionieri non sono pratiche americane. Ci sono estranee e sempre lo saranno. Dobbiamo esorcizzarle dalle nostre anime e porvi rimedio».
Traduzione di Pietro Corsi

Corriere della Sera 15.5.08
Bush salda l'asse con Israele «Saremo sempre al vostro fianco»
di Ennio Caretto


In Libano il governo revoca i provvedimenti contro l'Hezbollah
Il presidente Usa e i 60 anni dello Stato ebraico: «Ottimista per la regione», ma con meno aspettative

GERUSALEMME — Venuto con un messaggio di pace, Bush ha visto alzarsi lo spettro della guerra. Nel 60esimo anniversario della fondazione dello Stato di Israele — la Nabka, il giorno della catastrofe per i palestinesi — un missile lanciato da Gaza si è abbattuto su un centro commerciale di Ashkelon, ferendo una decina di persone tra cui una bambina di 6 anni.
Il premier israeliano Olmert, allertato durante il colloquio con Bush, ha minacciato una rappresaglia senza precedenti: «Non tollereremo continui attacchi a civili innocenti — ha ammonito, il presidente americano affianco —. Sono inaccettabili e vi porremo fine. Spero che non dovremo reagire con una forza che non abbiamo ancora usato ». Bush lo ha spalleggiato accusando Hamas di minare le trattative di pace: «Continua a voler distruggere Israele, a cui diamo il nostro pieno sostegno come lo diamo ai palestinesi che vogliono convivere con esso».
Alle celebrazioni serali del Sessantenario, però, davanti a mille invitati da tutto il mondo, Olmert ha cercato di tenere vive le speranze di pace: «Israele sta compiendo uno sforzo enorme nei negoziati, registriamo progressi che potrebbero produrre frutti entro la fine dell'anno», ha detto rivolto a Bush. Ma il presidente, che poco prima aveva definito lo Stato ebraico un «modello di democrazia» per il Medio Oriente e si era detto «ottimista sul futuro della regione», questa volta ha glissato. Di fatto, Bush ha ridotto le aspettative, così come in Iraq e Libano, sebbene nel giudizio del segretario di Stato Condoleezza Rice un accordo tra Israele e Palestina nel 2008 sia «improbabile, ma non impossibile».
Più del colloquio tra Bush e Olmert, il ricevimento di gala ha rafforzato la sensazione che Usa e Stato ebraico formino oggi un asse inscindibile, sensazione che rischia di alienare loro ulteriormente i Paesi arabi. Il ricevimento è stato il «Thanksgiving day», la Festa del ringraziamento di Israele all'America, come l'ha chiamata il presidente israeliano Shimon Peres. Bush, ora commosso, ora divertito dagli elogi di Olmert — «Vorrei che fosse lui a determinare il mio indice di gradimento » — ha ricambiato: «Saremo sempre al vostro fianco».
La stessa frase adoperata all'arrivo a proposito del premier libanese Siniora (che ieri sera ha revocato i provvedimenti contro l'Hezbollah): l'obbiettivo immediato del viaggio di Bush in Medio Oriente è impedire a Iran e Siria di interferire in Libano oltre che in Palestina: «Hezbollah vuole destabilizzare una giovane democrazia». Un tema su cui tornerà oggi nel discorso alla Knesset, il Parlamento israeliano.

Repubblica 15.5.08
I conti in tasca alla Chiesa
di Curzio Maltese


Esce "La Questua", un´inchiesta di Curzio Maltese su cattolicesimo e finanza

Una cifra enorme passa ogni anno dal bilancio dello Stato alle casse ecclesiastiche Quanto costa davvero la religione al contribuente?
Dopo lo scandalo Ior-Ambrosiano l´attenzione sull´argomento si è spenta
Gli italiani spendono più per il Vaticano che per il ceto politico Ma non lo sanno

In quasi trent´anni di giornalismo, avevo felicemente ignorato il Vaticano e avrei continuato a farlo se non fosse stata la Chiesa cattolica a occuparsi molto, troppo, di me. E di altri cinquantotto milioni di connazionali. Il papa e i vescovi intervengono nella vita pubblica italiana - perfino nel dettaglio delle singole leggi - molto più di quanto non faccia l´Unione europea, alla quale siamo vincolati. Per quanto mi riguarda, ho voluto restituire la premura. Da anni, i corrispondenti esteri a Roma mi ripetono la stessa cosa: «Voi giornalisti italiani siete capaci di scrivere poemi sull´ultima mezza calza della politica e ignorate l´influenza della Chiesa. Mentre per noi una notizia sul papa vale venti volte una sulla crisi di governo. Il Vaticano è troppo importante per lasciarlo ai vaticanisti». Ogni mattina saluto il mio vicino di casa, Udo Gumpel, della tv pubblica tedesca, che esce per andare alla sala stampa vaticana. Ormai è diventato un esperto di teologia ratzingeriana: «Avete San Pietro in casa e nell´archivio Rai non ho trovato un´inchiesta sul Vaticano, soltanto messe e interviste ai vescovi. Se scoppia uno scandalo, come la pedofilia, dovete comprare i documentari della Bbc». Ho toccato con mano la rimozione del problema quando ho cercato di documentarmi sui finanziamenti pubblici alla Chiesa cattolica: in quasi ottant´anni dal Concordato, non era mai stata fatta un´inchiesta sul tema.
Esistono naturalmente molte belle inchieste sulle finanze vaticane, quasi tutte però fra gli anni sessanta e la fine dei settanta. Dallo scandalo Ior-Ambrosiano l´attenzione si attenua fino a spegnersi. Negli articoli di Ernesto Rossi su Il Mondo ho trovato molte tracce utili e una riflessione della quale ho verificato la stringente attualità. Sul numero del 17 maggio 1960, Rossi scrive: «Quando si tratta della "roba" i monsignori del Vaticano hanno la pelle delicata come quella della principessina che non riuscì a chiudere occhio tutta la notte per il pisello che le avevano messo sotto sette materassi. L´Osservatore Romano ha incassato in silenzio la documentazione, da me portata per dimostrare che Pio XII è stato uno dei maggiori responsabili della Seconda guerra mondiale; ma ha reagito violentemente alla mia moderatissima osservazione che la politica reazionaria della Chiesa e la sua stretta alleanza con la Confindustria devono essere considerate anche un effetto dell´ingigantimento del patrimonio della Santa Sede e degli ordini religiosi che hanno avuto in pratica le clausole finanziarie contenute nei Patti Lateranensi, e una conseguenza degli investimenti massicci fatti dalla Santa Sede e dagli ordini religiosi in partecipazioni azionarie delle società elettriche e degli altri maggiori gruppi che sfruttano monopolisticamente il mercato nazionale. Tali affermazioni, scrive L´Osservatore Romano, "destano un sentimento di pena prima che di sdegno, infatti rivelano una mente chiusa alla comprensione di quanto trascende l´interesse materiale e contingente; incapace, dunque, di misurare la realtà che contempla con il metro del proprio squallore"». A distanza di quasi mezzo secolo, l´atteggiamento della Chiesa quando si tocca la "roba" non è cambiato di una virgola.
Circa un anno fa, colpito dal volume di fuoco scatenato ogni giorno contro il governo Prodi dalle gerarchie ecclesiastiche, in un viavai di tonache sui telegiornali pubblici e privati, mi sono rivolto a un amico prete, cui mi legano stima e affetto. Uno che ha dedicato la vita alla lotta alla povertà, all´ignoranza e alla mafia, come io non sarei mai capace di fare. La risposta, nel tono spiccio del personaggio, è stata: «I vescovi fanno politica. Non vogliono il centrosinistra e si danno da fare per far cadere il governo. Vedrai che alla fine la vera spallata a Prodi la daranno loro». Con un candore ormai perduto, avevo allora chiesto la ragione di tanto odio politico nei confronti del cattolicissimo Romano Prodi e di un centrosinistra assai timido sui temi della laicità, certo più vicino del berlusconismo agli ideali cristiani di solidarietà. «Nessun odio, semmai convenienza», è stata la risposta. «Il fatto è che da quegli altri i vescovi ottengono molto di più».
Mi sono ricordato di quelle parole nelle convulse settimane che hanno preceduto la caduta del governo Prodi. Travolto da una "spallata" finale dei vescovi. L´episodio più noto è la mancata visita del papa all´Università La Sapienza di Roma. Un caso da manuale; di più: da antologia storica del machiavellismo, di come si fabbrica un caso politico.
(...) In Italia il rapporto fra Stato e Chiesa non è di reciprocità. La Chiesa può intervenire quando vuole negli affari interni italiani, mentre il contrario è vietato dall´articolo 11 del Concordato: «Gli enti centrali della Chiesa sono esenti da ogni ingerenza da parte dello Stato italiano». Le gerarchie ecclesiastiche, dall´alto di un magistero morale, possono dunque giudicare criminali le leggi dello Stato, criticare la pressione fiscale, mettere sotto accusa una Regione o un Comune per un´apertura sui diritti degli omosessuali, e allo stesso tempo invocare contro le eventuali (in verità, scarse) reazioni la protezione del Trattato. Il Vaticano è uno Stato estero che vive grazie all´Italia, ma ha il diritto di sputare nel piatto in cui mangia. Se davvero le questioni etiche - il divorzio, l´aborto, la procreazione assistita, le coppie di fatto - fossero così centrali e dunque non negoziabili, la Chiesa non dovrebbe più accettare di ricevere finanziamenti e privilegi fiscali da parte di coloro - Stato ed enti locali - che giudica nemici dei valori cristiani. Al contrario, non vi ha mai rinunciato. Anzi, ne chiede e ne ottiene sempre di più.
Mi sono dilungato sul caso Sapienza perché anche per me, come per Clemente Mastella, la folla di San Pietro ha rappresentato, nel mio piccolo, «un´illuminazione». Decisiva per la nascita di questo libro. La prima domanda a cui si vuol rispondere è semplice: perché negli ultimi anni le gerarchie cattoliche hanno deciso di appoggiare il centrodestra? La scelta è evidente e testimoniata anche dai flussi elettorali. I cattolici praticanti in Italia sono calcolati in un terzo circa della popolazione, quanti cioè dichiarano di andare a messa (in realtà, quelli che ci vanno davvero sono ancora meno) e di essere influenzati nel voto dall´opinione del papa e dei vescovi. La percentuale coincide con il numero di italiani che dona l´otto per mille alla Chiesa cattolica. Questo elettorato cattolico, dalla comparsa del maggioritario nel 1994, si era sempre diviso a metà nel voto fra destra e sinistra. Ma nel 2006 si è spostato in maniera massiccia verso il centrodestra: due terzi dei consensi contro un terzo andato alle liste dell´Unione. La spiegazione ufficiale è la prevalenza di alcuni temi etici nella polemica elettorale, per esempio i Dico, le coppie di fatto, il presunto attacco ai valori della famiglia da parte del centrosinistra. Ma le gerarchie cattoliche usano i temi etici per mascherare importanti interessi economici. La vera differenza fra un governo di centrodestra e uno di centrosinistra non sta tanto nella difesa dei valori cattolici o laici - assai timida nel secondo caso, almeno rispetto agli altri paesi europei.
La differenza reale sta nel diverso atteggiamento nei confronti della perenne "questua" di danaro pubblico da parte del Vaticano. Si tratta di un do ut des fra due caste, quella dei politici e quella ecclesiastica, che passa sulla testa dei cittadini. Gli italiani spendono per mantenere la Chiesa più di quanto spendano per mantenere l´odiato ceto politico. Ma non lo sanno.
(...) Da laico riconosco e rispetto il diritto dei cattolici di intervenire e pronunciarsi come e quando vogliono sui temi etici. Ma sono anche consapevole che in questo paese la libertà di un laico è considerata inferiore a quella di un cattolico. Un laico non può offendere una persona sulla base di un pregiudizio personale, né può intromettersi nella vita privata o giudicare le scelte sessuali altrui, tanto meno boicottare le leggi dello Stato, o accusare il prossimo di reati inesistenti. Per esempio, sostenere che la Chiesa cattolica "ruba" il danaro pubblico. Un cattolico invece può offendere qualcuno perché è ebreo, o musulmano, o omosessuale, invitare i medici a boicottare la legge sull´aborto e bollare come "assassine" le donne che ricorrono a una pratica legale sancita dalle leggi dello Stato e approvata da un referendum popolare.

Corriere della Sera 15.5.08
Il reportage. Le strade dell'odio
In motorino con le molotov «È la nostra pulizia etnica»
di Marco Imarisio


NAPOLI — All'inizio è soltanto una colonna di fumo, un segnale che nessuno collega allo sciame di motorini che attraversano sparati l'incrocio di via Argine, due ragazzi in sella a ogni scooter.L'esplosione arriva qualche attimo dopo, sono le bombole del gas custodite in una baracca avvolta dal fuoco. Le fiamme arrivano fino all'estremità dei pali della luce, il fumo diventa una nuvola nera e tossica, gonfia com'è di rifiuti e plastica che stanno bruciando. Le baracche dei Rom di via Malibrand sono un enorme rogo.
Ponticelli, ore 13.30, la resa dei conti con gli «zingari» è definitiva, senza pietà. Il traffico che impazzisce, il suono delle sirene, i camion dei pompieri, carta annerita che volteggia nell'aria, i poliziotti di guardia all'accampamento che si guardano in faccia, perplessi. Loro stavano davanti, quelli con il motorino sono arrivati da dietro. Allargano le braccia, succede, non è poi così grave, tanto i rom se n'erano andati nella notte. «Meglio se c'erano», si rammarica un signore in tuta nera dell'Adidas. «Quelli dovrebbero ammazzarli tutti». Parla dall'abitacolo della sua Punto, in bella evidenza sul cruscotto c'è un santino, «Santa Maria dell'Arco, proteggimi».
Il primo spettacolo, perché ce ne saranno altri, va in scena davanti alla Villa comunale, l'unica oasi verde, con annessa pista ciclabile, di questo quartiere alla periferia orientale di Napoli, dove l'orizzonte è delimitato dalle vecchie case popolari figlie della speculazione edilizia voluta da Achille Lauro. Un uomo brizzolato con un giubbotto di jeans sulle spalle è il più entusiasta. «Chi fatica onestamente può anche restare, ma per gli altri bisogna prendere precauzioni, anche con il fuoco». Il fuoco purifica, bonifica il terreno «da queste merde che non si lavano mai», aggiunge un ragazzo con occhiali a specchio, capelli impomatati, maglietta alla moda con il cuore disegnato sopra, quella prodotta da Vieri e Maldini. Siccome non c'è democrazia e lo Stato non ci protegge, dice, «la pulizia etnica si fa necessaria» e chissà se capisce davvero il significato di quella frase.
Quando si fanno avanti le televisioni, la realtà diventa recita, si imbellisce. Il donnone con la sporta della spesa che un attimo prima batteva le mani e inveiva contro i pompieri — «lasciateli bruciare, altrimenti tornano» — assume di colpo la faccia contrita, Madonna mia che disastro, poveracci, meno male che là dentro non ci stanno le creature. Il ragazzo con gli occhialoni a specchio diventa saggio all'improvviso: «Giusto cacciarli, ma non così». La telecamera si spegne, lui scoppia a ridere. Sotto a un albero dall'altra parte della strada c'è un gruppo di ragazzi che osserva la scena. Guardano tutto e tutti, nessuno li guarda. Sembrano invisibili. I loro scooter sono parcheggiati sul marciapiede. Il capo è un ragazzo con una maglietta nera aderente, i capelli tagliati cortissimi ai lati della testa. Tutti i presenti sanno chi è, ne conoscono con precisione il grado e la parentela. È uno dei nipoti del cugino del «sindaco » di Ponticelli, quel Ciro Sarno che anche dal carcere continua ad essere il signore del quartiere, capo di un clan di camorra che ha fatto del radicamento nel quartiere la sua forza. Quando vede che la confusione è al massimo, fa un cenno agli altri. Si muovono, accendono i motorini. Dieci minuti dopo, dal campo adiacente, quello di fronte ai palazzoni da dodici piani chiamati le Cinque torri, si alza un'altra nuvola di fumo denso e spesso. L'accampamento è delimitato da una massicciata di rifiuti e copertoni. Sono i primi a bruciare, con il fumo che avvolge le case popolari. La claque si sposta, ad appena 200 metri c'è un nuovo incendio da applaudire. I ragazzi in motorino scompaiono.
La radio di una Volante informa che ci sono fiamme anche nei due campi di via Virginia Woolf, al confine con il comune di Cercola. Sul prato bagnato ci sono un paio di rudimentali bombe incendiarie. I rom sono scappati in fretta. Nelle baracche ci sono ancora le pentole sui fornelli, gli zaini dei bambini. All'ingresso di una di queste abitazioni in lamiera e compensato, tenute insieme da una gomma spugnosa, c'è un quadro con cornice che contiene la foto ingrandita di un bimbo sorridente, vestito da Pulcinella. Florin, carnevale 2008, la festa della scuola elementare di Ponticelli. Alle 14.50 comincia a diluviare, una pioggia battente che spegne tutto. «Era meglio finire il lavoro», dice un anziano mentre si ripara sotto ad una tettoia della Villa comunale.
Mezz'ora più tardi, nel rione De Gasperi si vedono molte delle facce giovani che salivano e scendevano dai motorini. È il fortino dei Sarno, un grumo di case cinte da un vecchio muro, con una sola strada per entrare e una per uscire, con vedette che fingono di leggere il giornale su una panchina e invece sono pagate per segnalare chi va e soprattutto chi viene. Ma questa caccia all'uomo non si spiega solo con la camorra. Sarebbe persino consolante, però non è così.
Sotto al cavalcavia della Napoli-Salerno ci sono gli ultimi tre campi Rom ancora abitati. Dai lastroni di cemento dell'autostrada cadono fiotti di acqua marrone sulle baracche, recintate da una serie di pannelli in legno. Un gruppo di donne e ragazzi che abita nelle case più fatiscenti, quelle in via delle Madonnelle, attraversa la piazza e si fa avanti. «Venite fuori che vi ammazziamo», «Abbiamo pronti i bastoni». La polizia si mette in mezzo, un ispettore cerca di far ragionare queste donne furenti. Siete brava gente, dice, la domenica andate in chiesa, e adesso volete buttare per strada dei poveri bambini? «Sììììì» è il coro di risposta.
Dai pannelli divelti si affaccia una ragazza, il capo coperto da un foulard fradicio di pioggia. Trema, di freddo e paura. Quasi per proteggersi, tiene al seno una bambina di pochi mesi. Saluta una delle donne più esagitate, una signora in carne, che indossa un giubbino di pelo grigio. La conosce. «Stanotte partiamo. Per favore, non fateci del male ». La signora ascolta in silenzio. Poi muove un passo verso la rom, e sputa. Sbaglia bersaglio, colpisce in faccia la bambina. L'ispettore, che stava sulla traiettoria dello sputo, incenerisce con lo sguardo la donna. Tutti gli altri applaudono. «Brava, bravissima». Avanti verso il Medioevo, ognuno con il suo passo.

Corriere della Sera 15.5.08
Il partito replica: «Siamo la terza forza, ci spiano per fermarci»
Germania, allarme rosso «Gruppi eversivi nella Linke»
I servizi: «Comunisti rivoluzionari nella nuova sinistra»
Il rapporto degli 007 sarà presentato oggi dal ministro degli Interni. La «Linke» di Lafontaine contro il governo Merkel
di Danilo Taino


BERLINO — I servizi segreti interni della Germania dicono che centinaia di comunisti rivoluzionari, eversivi e pericolosi si nascondono nella Linke, il partito emergente alla sinistra dei socialdemocratici della Spd. Oggi, il ministro degli Interni Wolfgang Schäuble renderà pubblico un rapporto nel quale l'intelligence domestica sostiene che nell'organizzazione guidata da Oskar Lafontaine e Lothar Bisky opera un movimento, Gd/Sd, che agisce come «ricettacolo di forze estremiste». E nel quale elenca le caratteristiche di queste forze. Naturalmente, è polemica: «Die Linke» accusa il governo di Grosse Koalition di usare i servizi per fini politici, più che per difendere la Costituzione. La notizia del rapporto è stata data ieri dal quotidiano popolare Bild. L'analisi dell'Ufficio federale per la protezione della Costituzione (i servizi segreti) arriva alla conclusione che nella Linke ci sono «strutture estremiste» infiltrate e ospitate. La maggiore, Kommunistische Plattform, avrebbe 840 aderenti tenuti assieme dall'obiettivo di «rovesciare il capitalismo». Nel frattempo, cerca di influenzare le politiche del partito. Una seconda organizzazione, Marxistische Forum, avrebbe una sessantina di membri: comunisti ortodossi tra i quali parecchi ex iscritti alla Sed, il partito al potere nella Germania dell'Est fino al 1990.
Questi due movimenti farebbero riferimento al Gd/Sd, che a sua volta conta 120 aderenti su una piattaforma politica di «lotta extraparlamentare per il cambiamento sociale ». Sempre nella Linke — dice il rapporto — sono attivi la Sinistra Socialista, con 550 membri, e il Gruppo di lavoro Cuba Sì, a cui aderiscono 420 persone. Un paio di migliaia di militanti, insomma, che vorrebbero sovvertire l'ordine costituzionale tedesco partendo dalla Linke. Questo gruppo sarebbe solo una parte della sinistra rivoluzionaria tedesca: secondo il rapporto 2006 dei servizi (l'ultimo disponibile), i militanti comunisti nel Paese sono 31 mila, seimila dei quali pronti a usare la violenza per i loro fini.
L'Ufficio per la protezione della Costituzione ha tra i suoi compiti l'osservazione, cioè lo spionaggio, dei movimenti che potrebbero costituire una minaccia alla legge fondamentale della Repubblica federale: organizzazioni estremiste di sinistra, di destra e islamiche, oltre alla cosiddetta chiesa di Scientology. E, in effetti, quello fa. Si sa, per esempio, che un certo numero di suoi funzionari sono infiltrati nei movimenti neonazisti. Probabilmente, anche nelle altre organizzazioni che deve tenere sotto osservazione. La questione politicamente delicata, però, riguarda la Linke, partito nato nel 2007 dalla fusione di ex della Sed con un gruppo di fuoriusciti dalla Spd guidati dall'ex ministro Lafontaine.
È risaputo che la Linke è controllata, cioè spiata, in alcuni Länder e che certi suoi leader sono oggetto di attenzione continuata. Il fatto è che, dagli ultimi sondaggi, il partito raccoglierebbe oggi il 14% dei voti dei tedeschi, cioè sarebbe la terza forza, dopo Cdu-Csu e Spd, nel Paese. E negli Stati dell'Est sarebbe spesso il primo partito. È ammissibile che una forza politica di questo rilievo sia sottoposta allo spionaggio dei servizi di Stato? Il suo segretario generale, Dietmar Bartsch, ha detto ieri che il rapporto dell'intelligence è politicamente orientato per danneggiare la crescita del partito. Tra l'altro, lo spionaggio è selettivo. Lafontaine, per esempio, non è più sotto osservazione: ma, secondo molti, solo per evitare di farne un martire politico.

Il Messaggero 14.5.08
Il terremoto. Cina, decine di migliaia di dispersi
di Federico Masini
Preside della facoltà di Studi orientali La Sapienza Università di Roma

Era apparso chiaro quando a cavallo del periodo della Festa di Primavera di quest'anno sulla Cina centrale si è abbattuta una tremenda ondata di freddo e milioni di lavoratori stagionali, che con il loro duro lavoro avevano contributo alla costruzione delle grandi infrastrutture olimpiche, non aveva potuto fare ritorno a casa per celebrare le festività, unica occasione annuale di riposo dalle fatiche di un anno di sforzi.Poi a marzo si è abbattuto sulla Cina il ciclone del Tibet. I moti scoppiati a Lhasa il 10 marzo hanno portato alla ribalta della scena internazionale la questione tibetana e il desiderio delle autorità cinesi di riuscire a governare i grandi conflitti culturali ed etnici, mai sopiti in quella regione, da quando nel 1959 la Cina aveva riconquistato il Tibet. Ed ecco oggi abbattersi sulla Cina il più grande terremoto dai tempi di quel terribile 1976, quando in un solo anno morirono Zhou Enlai, il presidente Mao Zedong e ci fu il terremoto di Tangshan, dove persero la vita oltre 200 mila persone. La Cina non trova pace. Sembra oggi che si sia interrotto il più lungo periodo di stabilità e sviluppo della sua storia moderna. Infatti, da quando con la Guerra dell'Oppio nel 1842 l'Occidente aveva imposto alla Cina l'apertura al mondo, per oltre cento anni si sono succedute guerre, conflitti etnici, carestie e grandi drammi sociali. La fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 dava speranza al popolo cinese di essere sul punto di voltare pagina definitivamente. Ma così non fu: nei decenni successivi, a partire dal 1957, si susseguirono campagne di massa e conflitti sociali, poi ci fu la Rivoluzione Culturale iniziata nel 1966 e terminata proprio in quel terribile 1976.Nel 1978 finalmente la politica di apertura e la stagione delle riforme economiche davano per la prima volta fiato alla popolazione, ma anche in questo caso la crisi dei fatti di Tian'an men del 4 giugno 1989, aprì una nuova ferita nel controverso rapporto fra il governo e la popolazione. Oggi, a distanza di soli diciotto anni, sembra prospettarsi una nuova cesura in tale ciclico alternarsi fra fasi di crescita sociale ed economica e crisi politiche e sociali. Ma forse qualche cosa è cambiato e la Cina ha la speranza di sottrarsi al proprio destino. Già con la crisi della Sars, la terribile epidemia di polmonite atipica del 2003, la sua nuova classe dirigente aveva dato prova di riuscire a governare la crisi, senza interrompere il suo rapporto con il popolo. La grande macchina statale, capace di reprimere, aveva anche dato prova di sapere gestire una crisi umanitaria di tali proporzioni.Oggi, come allora, la sua classe dirigente sembra aver capito l'importanza che la soluzione di tali questioni può avere per la popolazione colpita da tale immane disastro, ma è anche cosciente che il mondo, e soprattutto il popolo cinese, è pronto a continuare a difenderla se darà prova di capacità organizzativa e decisionale. Il primo ministro Wen Jiabao, che nel 2003 fu accusato per una bizzarra assonanza fra il suo cognome e la parola "epidemia" di essere legato alla Sars, oggi dovrà dimostrarsi all'altezza della situazione. Se, come ci auguriamo, anche questa tragedia potrà essere governata, forse si potrà interrompere la serie negativa dell'anno dell' "otto" e, calata l'attenzione internazionale sulla questione tibetana, si potrà finalmente avviarsi a celebrare la rinascita di un Paese che, in pochi decenni, è riuscito a sconfiggere la fame di oltre un quinto della popolazione del mondo. E scusate se non è poco. Poi verrà il tempo di più raffinate analisi politiche.

il Riformista 15.5.08
Il leader del pd accetta l'apertura, gran feeling in aula, prima prova la Rai Berlusconi
La legge per le europee se pò fà
Veltroni, patto sulle europee
di Stefano Cappellini


Silvio Berlusconi chiama e Walter Veltroni risponde che sì, d'accordo si può andare, e che pur votando contro la fiducia al nuovo governo, si convergerà «su ogni scelta che vada nella direzione giusta, quella di un'Italia più equa, più moderna, più sicura». Nella giornata della fiducia alla Camera, i leader dei due schieramenti si sono stretti la mano, lasciando ai gregari (seppur di peso) il compito di preparare il terreno per l'incontro ufficiale tra i due, per confrontarsi sulle «misure per rendere più efficiente la macchina dello Stato», spera Veltroni. E per parlare della Rai. Il premier è parso d'accordo, rilanciando con l'annuncio di un imminente cambiamento delle legge elettorale per le europee, modifica molto gradita al leader dello shadow cabinet . Due test che potrebbero finalmente aprire una stagione di reali riforme.
«Non sarà facile, ma per natura io sono ottimista e se lo vorremo davvero, tutti insieme, serenamente, pacatamente come direbbe il principale esponente dello schieramento a me avverso, dico che che se pò fà , si può fare...». Una giornata inaugurata da un intervento del genere - con Silvio Berlusconi che parlando alla Camera imita Crozza che imita Veltroni, mentre quest'ultimo seduto al suo banco abbozza un sorriso e abbassa pudicamente lo sguardo - non poteva che finire come è poi finita: in un clima di intese così larghe che l'unico a non trovare posto, e del resto a non volerlo nemmeno cercare, è Antonio Di Pietro. Il quale nel suo intervento in aula attacca duramente Berlusconi («Noi non abbocchiamo. Conosciamo la sua storia personale e politica»), litiga con Gianfranco Fini che lo punzecchia sulle interruzioni provenienti dai banchi della maggioranza («Dipende da quello che si dice...», azzarda il presidente della Camera) e alla fine tira un siluro all'alleato (ex?) Walter: «Oggi - spiega l'ex pm in Transatlantico - mi sono dovuto girare più volte da una parte e dall'altra, quando parlava uno e quando parlava l'altro, per capire chi era Cicchitto e chi era Veltroni...». Ma pure la radicale Emma Bonino, vicepresidente del Senato, si sente a disagio: «Trovo un po' stucchevole che qualunque cosa sia dialogo, armistizio. Lo dico al Pd: bisogna essere netti, chiari, non si può essere d'accordo su tutto».Prudente nei modi, ma netta nel merito è stata in effetti l'apertura al dialogo dell'ex sindaco di Roma: «Noi - ha detto Veltroni - voteremo contro la fiducia al suo governo ma convergeremo su ogni scelta che vada nella direzione giusta, quella di un'Italia più equa, più moderna e più sicura». Poco dopo è arrivata anche la stretta di mano, in aula, tra Veltroni e Berlusconi, che poi si è intrattenuto con Dario Franceschini. E il premier, dopo essere intervenuto a sorpresa nel pomeriggio anche in Senato, è rimasto a palazzo Madama per ascoltare Enrico Morando, responsabile economico del Pd. Ha preso appunti, ha annuito e alla fine si è congratulato. Stesso copione con Enzo Bianco.È in questo clima che le diplomazie lavorano a preparare l'incontro tra i leader previsto per venerdì. Veltroni ne ha anche dettato l'ordine del giorno: «Vorrei che si partisse subito con le misure per rendere più efficiente la macchina dello Stato, la riduzione del numero dei parlamentari, la riduzione dei costi della politica, l'autonomia e la libertà di informazione, a partire dall'indipendenza della Rai. Qui vedremo subito se il dialogo è vero o meno». E siccome è la Rai - e in particolare i criteri per il rinnovo del Cda - la vera priorità nell'agenda del segretario democratico, subito dal Senato il Cavaliere ha rassicurato la controparte: «È necessario garantire autonomia e libertà di informazione, a partire dalla necessaria indipendenza del servizio pubblico televisivo. Anche su questo terreno, in passato fonte di incomprensioni e di scontri, si può uscire da quella che è stata una guerra quasi ventennale». E Berlusconi è andato oltre, confidando ai suoi parlamentari: «Cambieremo la legge elettorale per le europee. Ne ho già parlato con Veltroni e c'è un'intesa in questo senso». Dunque sbarramento anche per Strasburgo, con buona pace della sinistra radicale.Veltroni ha fatto intendere che, in caso di intesa su queste prime riforme elettorali e su viale Mazzini, il dialogo potrà puntare molto in alto. E lo ha fatto in uno dei pochi passaggi critici del suo intervento alla Camera: «Questo governo ha una maggioranza parlamentare forte. Certo, conta la maggioranza parlamentare, ma conta molto di più la forza politica di un disegno alto di cambiamento politico che non ho trovato nel suo discorso di ieri». Avanti così, ci sarà senz'altro modo e tempo per riparlarne.(cappe)