sabato 16 luglio 2016

Il Sole 15.7.16
Il progetto. L’imprenditore punta a « entrare in Rcs in tempi velocissimi, l’importante ora è la velocità di esecuzione»
Cairo: «Partita vinta, ora grande lavoro»
di Antonella Olivieri

Il ceo di Intesa Messina: «Rcs sarà in grado di esprimere le grandi potenzialità»
Urbano Cairo ha festeggiato la vittoria della battaglia su Rcs brindando a champagne con la squadra degli advisor - Banca Imi (Intesa-Sanpaolo), Equita, lo studio EredeBonelli - che l’hanno aiutato nella mission impossible di entrare nella casa che edita il Corriere della Sera dalla porta principale. Rispetto alla cordata Bonomi che partiva dal 22,6%, Cairo ha lanciato la sfida con appena il 4,7% e l’appoggio di Intesa che, titolare di un altro 4,2%, è anche il primo creditore di Rcs. La determinazione ha pagato perchè il mercato gli ha consegnato il 40%, sancendo la prevalenza dell’Opas con 124,2 milioni di azioni raccolte, pari al 48,82% del capitale. «Sinceramente non mi aspettavo una distanza così importante, non dimentichiamo che nella cordata concorrente c’erano dei pesi massimi. Comunque un bel segnale, un segnale forte, di come la gente vuol premiare merito e competenza», ha commentato a caldo l’editore piemontese, «ma ora mi aspetta un lavoro pazzesco», ha commentato a caldo l’editore, che vuole entrare in Rcs «in tempi velocissimi, perchè l’importante ora è la velocità di esecuzione».
Il risultato dell’offerta è ancora provvisorio perchè il conteggio finale si farà il 28 luglio, quando si saprà quanti titoli saranno stati girati dall’offerta soccombente. Allo stato, Cairo Communication dovrà versare 63,69 milioni in contanti agli aderenti, utilizzando solo parte della liquidità in cassa che ammonta a circa 90 milioni, dopo il pagamento dei dividendi. Lunedì però, all’assemblea straordinaria convocata per adeguare l’aumento di capitale al concambio dell’ultimo rilancio, sarà chiesta la delega per un altro aumento di capitale riservato fino a 70 milioni, che lo stesso Urbano Cairo ha intenzione di sottoscrivere almeno in parte, operazione che consentirà di compensare l’esborso per contanti. 
A oggi la diluizione del controllo in Cairo Communication per l’editore sarebbe dal 72,98% al 46%, ma nel caso risultasse eccessiva a conclusione dell’operazione è già stato messo in conto di lanciare un reverse accelerated bookbuilding per risalire sopra il 51%.
L’Opas - che ha offerto 0,18 azioni di Cairo Communication e 25 centesimi in contanti per ciascuna azione Rcs - ha convinto i due terzi del flottante di Rcs a non vendere, ma a restare in partita a fianco dell’editore che sul piatto ha messo anzitutto se stesso e le sue competenze nel settore. Cairo ha promesso di portare l’Ebitda del gruppo integrato - le sue riviste, La 7, Il Corriere della Sera, la Gazzetta dello Sport, i periodici della ex Rizzoli - a 215 milioni nel 2018 con ricavi complessivi a 1.340 milioni e di raddoppiare così il valore dell’investimento per chi ha creduto nel progetto. Non sarà facile, perchè Rcs parte comunque con una zavorra di quasi 400 milioni di debito. 

«L'iniziativa presentata da Urbano Cairo, con il nostro sostegno decisivo, per il rilancio di Rcs ha ottenuto un risultato straordinario, che per noi è motivo di grande soddisfazione - ha commentato Carlo Messina, ad di Intesa-SanPaolo - È la dimostrazione di come progetti industriali ben concepiti, e presentati in maniera convincente, siano in grado di affermarsi e di coinvolgere la maggioranza di grandi investitori internazionali e risparmiatori. Siamo certi che ora si potrà andare verso una fase nuova nella quale Rcs sarà in grado di esprimere le grandi potenzialità di un gruppo ricco di professionalità e competenze».
Il Sole 16.7.16
Referendum. Il premier interverrà in prima persona solo nella fase finale - A quota 2mila i comitati spontanei per il Sì
Renzi verso campagna soft, la minoranza lancia il Mattarellum corretto
di Emilia Patta

«Ogni giorno che passa diventa più chiaro che il referendum è sulla Costituzione, sulle compentenze delle Regioni, sul funzionamento del Parlamento e non su altro: questo ci aiuta molto a crescere nei consensi, coinvolgendo anche persone che magari non sono del Pd o non sono mie sostenitrici ma che capiscono la rilevanza storica di questo passaggio per l’Italia». Ecco, è tutta in questa frase contenuta nella e-news di ieri - naturalmente dedicata per la maggior parte alla strage di Nizza - la strategia di Matteo Renzi in vista del referendum d’autunno (6 novembre, o più probabilmente il 20 per via dell’intreccio con la manovra finanziaria): prendere tutte le distanze politiche possibili dall’evento smettendola con il mantra dei mesi scorsi «se perdo il referendum mi dimetto».
È già qualche settimana - per la verità - che il premier e segretario del Pd, consigliato in questo senso anche dal presidente emerito Giorgio Napolitano e dal consigliere statunitense arruolato in vista del referendum Jim Messina, tenta di spersonalizzare il voto referendario valorizzando il merito della riforma Boschi: riduzione del personale politico e conseguente riduzione dei costi della politica, iter delle leggi più veloce con l’abolizione del Senato elettivo, ritorno allo Stato di molte competenze strategiche per lo sviluppo del Paese. Il tutto all’insegna dello slogan “un Paese più semplice, una politica meno costosa”. Fare un passo di lato, insomma, e far parlare il merito. In questo senso è fondamentale il porta a porta, come suggerito anche dal guru americano Messina sul modello della campagna di Obama del 2012 e come già stanno facendo i 2mila comitati “spontanei” nati finora (escludendo la rete dei circoli di partito). A Palazzo Chigi hanno già registrato i primi frutti dei toni più morbidi usati dal premier nelle ultime settimane, se è vero che nei sondaggi il “sì” è tornato leggermente avanti al “no”. «A dispetto dell’allarmismo di alcuni, il comitato “Basta un sì” ha depositato circa 600mila firme in Corte di Cassazione» - ricorda con soddisfazione Renzi nella sua e-news sottolineando di contro il fallimento della raccolta firme da parte del Comitato per il No. È di ieri, inoltre, la notizia ufficiale che i promotori dello spacchettamento in più quesiti non sono riusciti a raccogliere le 200 firme di parlamentari necessarie: vista da Palazzo Chigi, una complicazione in meno sulla strada del referendum.
Quanto all’impegno diretto dei big nella campagna referendaria, per molti dirigenti del Pd il tour è già iniziato, a partire dalla ministra per le Riforme Maria Elena Boschi: ieri Civitanova, oggi Pescara e domenica Termoli. «E sarà così per quasi tutti i fine settimana», sottolineano i suoi collaboratori. Certo, per l’affondo finale si attende la ripresa della stagione televisiva, a settembre inoltrato. Anche perché partire troppo presto con le “armi pesanti” può essere controproducente, come in ogni battaglia. Sembra tramontata, invece, l’idea di nominare un “portavoce” tecnico - si era pensato a un giovane costituzionalista - con il compito di spiegare nel merito la riforma nei dibattiti tv. La partita è politica, e con le carte della politica verrà giocata. Intanto il Comitato nazionale per il Sì avrà sede in piazza Santi Apostoli, luogo simbolo delle vittorie di Prodi contro Berlusconi.
Il tentativo di spersonalizzazione del referendum da parte di Renzi è stato apprezzato dalla minoranza interna del Pd («Nessuno di noi vuole che Renzi lasci il governo, non vedo rischi di instabilità per il governo», ha detto non a caso Pier Luigi Bersani nella sua recente intervista a Die Zeit). Eppure non si placa il pressing per cambiare l’Italicum, che secondo la sinistra dem «in combinato disposto» con la riforma costituzionale porta nel sistema rischi di autoritarismo. Martedì la minoranza, nelle persone del deputato Andrea Giorgis e del senatore Federico Formaro, presenterà una proposta alternativa. Non si tratta di semplici modifiche all’Italicum, specificano i proponenti, ma di un modello alternativo. Niente premio alla coalizione invece che alla lista, insomma, e niente doppio turno di collegio che pure è la proposta storica del Pd. Dovrebbe trattarsi, sulla scia di quando scritto sulle nostre colonne dal senatore bersaniano Miguel Gotor il 28 giugno scorso, di un Mattarellum “corretto” con una più ampia percentuale di voto proporzionale a scapito della percentuale di collegi uninominali e con un premio di maggioranza alla lista o alla coalizione vincente a livello nazionale.
Il Sole 15.7.16
La paura non deve sopraffare l’intelligenza
di Alberto Negri

La paura non deve sopraffare l'intelligenza, la razionalità, diceva l'ambasciatrice francese Catherine Colonna poche ore prima dell'attentato di Nizza. Nel cortile di palazzo Farnese storica sede dell'ambasciata francese, la banda dei carabinieri suonava l'Inno di Mameli e la Marsigliese per la festa della Bastiglia. Fuori i controlli di sicurezza francesi con la polizia e i militari italiani schierati a protezione dell'ingresso.
Che la Francia sia nel mirino è un'ossessione quotidiana, fuori e dentro il Paese. 
Chi sono gli attentatori di Nizza? Lupi solitari, esponenti di un terrorismo che si è radicalizzato in solitario sul web, oppure membri addestrati di cellule jihadiste legate all'Isis come quelli che hanno già colpito a Parigi con la strage del Bataclan? E' questa la polemica scoppiata da qualche tempo tra due eminenti studiosi ed esperti francesi, Gilles Kepel e Olivier Roy: il primo sostiene che siamo di fronte a una deriva generale dell'islamismo estremista, il secondo afferma che la religione non è determinante ma che conta assai di più la diffusione di una radicalizzazione individuale e sociale della violenza. 
Come si vede anche gli esperti sono disarmanti e forse disarmati nelle chiavi di interpretazione di questi tragici eventi. Una riposta affidabile davanti a questa strage spaventosa di Nizza non è ancora possibile ma la Francia non è l'America: il terrorismo di matrice islamista su questo territorio è radicato da anni, centinaia di cittadini francesi si sono arruolati nell'Isis per combattere contro il regime di Bashar Assad e proprio il ritorno dei jihadisti dalla Siria è uno dei fenomeni più temuti dai servizi di sicurezza di Parigi. La Francia è il Paese che produce più jihadisti in Europa. Un rapporto parlamentare afferma che nel 2015 erano già più di 1.500 i giovani legati al network islamista radicale. 
Ricordiamoci che dopo le stragi di Parigi dell'anno scorso la Francia reagì con i bombardamenti su Raqqa, capitale del Califfato. Ma la stessa Francia non aveva visto con dispiacere l'arrivo dei jihadisti in Siria dalla Turchia per abbattere il regime di Assad e poi, dopo gli attentati in casa, non ha esitato a contattare Damasco per esercitare la sua rappresaglia.
Quello che vivono i francesi e gli occidentali è anche il risultato di politiche assai contradditorie nei confronti del mondo musulmano, le stesse che hanno condotto prima all'intervento di Putin in Siria a fianco di Assad e ora alla trattativa tra Mosca e Washington per coordinare gli sforzi per combattere il Califfato. Le potenze occidentali cinque anni fa puntavano su una rapida caduta del regime di Damasco ora si rendono di conto insieme ai loro alleati mediorientali come la Turchia e l'Arabia Saudita di avere commesso un clamoroso errore di calcolo che ha aperto le porte al terrorismo in Europa, alle migrazioni incontrollate e alla destabilizzazione. 
La Francia vive un allerta continuo, dentro e fuori le frontiere dell'Esagono. Pochi giorni fa è stato chiuso il consolato francese di Istanbul, proprio di fronte a quello italiano, dove l'Isis ha appena colpito con un commando l'aereoporto internazionale Kemal Ataturk. La Francia ogni giorno di più percepisce una minaccia alla sua sicurezza. 
A cento anni di Sykes-Picot, l'accordo franco-britannico che spartì il Medio Oriente, a quasi 60 anni dalle avventure coloniali terminate nel sangue con la guerra d'Algeria, la Francia in realtà non è mai uscita dal Medio Oriente e dal Nordafrica come dimostrano anche le sue iniziative politiche e militari di cui quella più clamorosa, e che ci riguarda da vicino, è stata nel 2011 il bombardamento del raìs libico Muhammar Gheddafi.
Forse non stupisce neppure che sia stata colpita la Promenade des Anglais mentre esplodevano i fuochi di artificio del 14 luglio. I servizi francesi per la sicurezza interna, DGSI, si erano appena detti convinti che lo Stato Islamico sarebbe passato “alla fase delle autobomba” anche in Francia, come a Baghdad o Damasco. Ma qui, come sappiamo bene, nessuno è al sicuro: l'attentato di Dacca con i suoi morti italiani ha chiaramente indicato che il terrorismo può colpire ovunque e chiunque, americani, francesi, europei e musulmani, che vivono questa tragedia del terrore sulla loro pelle da qualche decennio. E' fondamentale, come dice l'ambasciatrice francese, che l'intelligenza non sia sopraffatta dalla paura.
Il Sole 15.7.16
Dalla Francia alla Siria. Da un patto militare contro l’Isis sia Mosca che Washington puntano a guadagnare qualcosa
L’importanza di una nuova Yalta
di Alberto Negri

Il dramma di Nizza ha colto Russia e Stati Uniti impegnati a rilanciare il Great Game, il grande gioco. Come a ricordare, una volta di più, quanto sia necessaria la collaborazione tra Mosca e Washington per tentare di aggredire il mostro del terrorismo.
Nelle ore in cui il segretario di Stato americano, John Kerry, si trovava a colloquio con Vladimir Putin al Cremlino, era presto per dire se tra russi e americani ci sarà una Yalta del Medio Oriente. Ma il sentore di spartizione in zone di influenza si sente da lontano. La Russia ha salvato la pelle ad Assad e aiutato l’Iran, alleato storico di Damasco, gli Stati Uniti devono salvare la faccia della Turchia e dell’Arabia Saudita, i veri perdenti della guerra in Siria: in termini brutali questo è il senso della trattativa Washington-Mosca, che in un possibile patto militare contro l’Isis puntano entrambi a guadagnarci qualche cosa, riposizionare gli alleati e soprattutto limitare le perdite militari.
Gli Stati Uniti non vogliono fare costose figuracce nel pieno della campagna presidenziale, la Russia vuole evitare di restare impantanata in un altro Afghanistan, ne ha avuto già uno e le è bastato. Ma sono soprattutto i popoli della regione che in questa partita si stanno giocando il futuro, cent'anni dopo gli accordi di Sykes-Picot tra britannici e francesi. Esisteranno ancora una Siria e un Iraq? Dove finiranno minoranze come cristiani e yezidi? Si troverà un modus vivendi tra sciiti e sunniti? E i curdi avranno qualche cosa di simile a uno stato? Mai come oggi il Grande Medio Oriente affronta la disgregazione in un labirinto di cambi di regime, primavere arabe fallite, jihadismi, resistenze autocratiche e velleitari giochi di potenza.
L’aspetto sensazionale della vicenda è che ci voleva una guerra “bollente” con 300mila morti, milioni di profughi e il terrorismo in casa anche in Europa per affrontare i nodi della nuova guerra “fredda” tra l’Ovest e la Russia. Ma era nella natura geopolitica delle cose: la Siria è una sorta di Jugoslavia araba, con basi russe da decenni, e Putin da subito ha reso chiaro che i tempi erano cambiati e non sarebbe finita come la Serbia di Milosevic. Non sempre un mondo ex come quello baathista e alauita di Assad, per quanto fuori dalla storia, sparisce solo perché lo hanno deciso dei ricchi emiri con l’assenso dei loro clienti occidentali. Ha anche un certo significato che sia stato annunciato a un anno esatto dall'accordo di Vienna sul nucleare con l’Iran che rischia di incepparsi per i timori che la nuova amministrazione Usa possa ripristinare le sanzioni.
E da notare che questa volta gli eventi non si succedono a sorpresa ma dopo una fitta trama diplomatica. Sono stati preceduti dalla ripresa delle relazioni Turchia-Israele e dalla distensione dei rapporti tra Erdogan e Putin mediata da Tel Aviv e dagli americani. Israele oggi tratta quotidianamente con Mosca perché la Russia è uno dei possibili garanti del contenimento di Teheran e degli Hezbollah libanesi. Non c’è più solo la “protezione” Usa in Medio Oriente, un fattore valutato attentamente anche dai sauditi e dagli egiziani mentre si prepara la conferenza sulla questione palestinese di fine anno.
Ancora più significativo è che russi e americani stiano trattando da mesi. I russi avevano già proposto agli americani di coordinare gli sforzi militari nel Nord della Siria ma gli Usa non avevano accettato. A loro volta gli americani hanno suggerito a Mosca una tacita separazione tra una zona di influenza Usa a Nord e una russa al Centro-Sud. Inoltre Washington avrebbe cercato di limitare la guerra al terrorismo soltanto al Califfato lasciando fuori al-Nusra e al-Qaeda, sostenuti da turchi e sauditi, per poi usare queste forze jihadiste in chiave anti-Assad e anti-Iran. Dinamiche che possono apparire secondarie ma entrano nel cuore della questione militare, degli assedi di Raqqa, Aleppo, Mosul, e che definiranno un giorno zone di influenza e soluzioni politiche.
Perché questo “Great Game” Usa-Russia ci interessa? Per ovvi motivi di sicurezza - come ricorda Nizza - migrazioni e vicinanza, perché l’Italia schiera contingenti in Iraq e in Libano, e ha canali aperti con Assad. Ma soprattutto perché il disgelo tra russi e americani sulla Siria può avere riflessi sulla Libia e sulla crisi con l’Egitto per il caso Regeni: per un Paese vulnerabile come il nostro si aprono opportunità diplomatiche da non sottovalutare.
Avvenire.it 13.07.16
I suoni delle Dolomiti. Musica ad alta quota
di Marcello Palmieri


Si chiama baglama, ed è il liuto anatolico. Mettilo in mano a Taylan Arikan, affiancagli la fisarmonica di Srdjan Vukasinovic, e aggiungici per l'occasione Gilles Apap con il suo violino: ecco i Meduoteran in versione allargata, proiettati in quella che dal 1995 è una geniale intuizione di Trentino marketing. Son tornati dal due luglio "I suoni delle Dolomiti", e fino e al 26 agosto trasformeranno i prati in platee, i massi in palchi, le cime in quinte. Ma alle 13 di domani regaleranno qualcosa di unico: un crossover tra ritmi e stili, tradizioni e culture, sensazioni ed esperienze, apoteosi e sintesi del cammino che ogni spettatore dovrà imporsi per ascendere ai 1786 metri di malga Movlina: terra di pascoli rigogliosi, conteso spartiacque tra la Rendena e il Bleggio. Che dal 1155 è padrone di quella terra. E al luogo dove allora il "giudizio di Dio" (in verità un atroce combattimento per motivi tutt'altro che spirituali) decretò la morte del duellante rendenero, per mano di quello bleggese, domani si salirà da entrambi i versanti, con le guide alpine - prenotazioni allo 0465.502111 - a dar sicuro passo da Stenico (3 ore) e Pinzolo (3 ore e mezza). E' da sempre Mario Brunello il signore incontrastato di questo festival. Lui, che alla kermesse delle Dolomiti trentine salirà violoncello in spalla (dal 23 al 25 luglio, sul Catinaccio, per un trekking musicale in compagnia del violino di Giuliano Carmignola e del genio di chitarre, tiorbe, liuti e altri strumento antichi - info/prenotazioni allo 0462.609666). E sempre lui, che quest'anno ha voluto associare al festival un illustre collega. Geniale, eccentrico, noto nei maggiori teatri del mondo per la sua eccezionale tecnica "vestita" – e non metaforicamente - in un abbigliamento strambo e appariscente: l'edizione 2016 segna il debutto di Mischa Maisky (mercoledì 20 luglio, ore 13), con le pale di San Martino ad ascoltare la III e V Suite di Bach. Programma classico, certo. Ma preludio alla riscossa del jazz che arriverà il 3 agosto, e sempre alle 13, quando la Val di Fassa si dimenerà al ritmo di Stefano Bollani e della sua tastiera (rifugio Michelucci, gruppo del Sassolingo). Attenzione: le Dolomiti, poco distante da lì, suoneranno già sabato 16 luglio. E in un contesto ancor più suggestivo. Alle 6 del mattino, a Col Margherita. Quando la musica sorgerà insieme al sole. Gli esecutori? Un gruppo lappone che distillerà musica e cultura del popolo Sami, privilegiato custode delle aurole boreali. Si potrebbe continuare per molto, ma basti questo: da oggi a fine agosto "I suoni delle Dolomiti" dispenseranno 16 perle preziose. Respiro della montagna, ossigeno per chi sceglie d'accarezzarla. Programma dettagliato su www.isuonidelledolomiti.it
Avvenire.it 14.07.16
A cent’anni dalla nascita
Natalia Ginzburg, lessico del ‘900
di Massimo Onofri


Rintocca oggi il centenario della nascita di Natalia Levi, la quale però si firmò sino alla fine col cognome del marito col quale condivise anche il confino: Leone Ginzburg, il brillantissimo slavista, il rigoroso intellettuale di "Giustizia e libertà", il martire antifascista morto in carcere nel 1944. La Ginzburg è stata una protagonista della letteratura italiana del secondo Novecento, non solo con i suoi libri – a cominciare dall'esordio del 1942, La strada che va in città, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte –, ma anche in virtù del suo lavoro editoriale svolto per Einaudi. Per tracciare oggi un bilancio della sua opera, risulta fruttuoso un confronto con quella di due altri scrittori, per altro suo coetanei: Giorgio Bassani, anche lui nato nel 1916, e Lalla Romano, che invece è del 1906. Ecco: nominare Ginzburg e Bassani significa richiamare subito la questione ebraica italiana. Non è un caso che, a sconsigliare la pubblicazione per Einaudi di Se questo è un uomo (1947) di Primo Levi, sia stata proprio la Ginzburg. Ma torniamo al rapporto con Bassani. Se vogliamo, Lessico famigliare (1963) può essere considerato la risposta a Il giardino dei Finzi-Contini (1962) di Bassani. Se infatti i Finzi-Contini, dentro la comunità ebraica ferrarese, esibiscono subito un'antropologia della diversità, poi dolorosamente pagata, che si traduce in disinvolta ostentazione di agio, in orgoglioso antifascismo, a fronte del facile conformismo di quasi tutti gli altri ebrei, la famiglia del Lessico, non per questo risparmiata dal fascismo, la incontriamo subito mimetizzata in un interno borghese molto italiano, poco interessata, nella sua quotidianità, a professare un'esplicita coscienza ebraica. Per intenderci meglio: il Lessico, ambientato tra i primi anni Trenta e i prima Cinquanta, riporta ogni evento alla misura allegra e ciarliera delle sue ragazze in fiore, che s'ostinano a misurare ogni evento sul metro d'una famiglia ebrea, che però non rinuncia mai, anche nei momenti di tragedia incipiente, a dichiararsi italiana e normale. Siamo arrivati, così, alla seconda questione, là dove appunto la Ginzburg incontra la Romano (ma anche Luisa Adorno, se si vuole, la quale, nel 1962, la precedette, nel ritorno alla letteratura di memoria al femminile, con L'ultima provincia): e cioè la famiglia. Con tutte le implicazioni d'autobiografismo ed egotismo che l'accostamento tra le due comporta. Uno dei libri più belli della Ginzburg, non per caso, è La famiglia Manzoni (1983), indagata con implacabile ostinazione nel rinserramento o nell'allentamento dei legami biologici, nell'odio e nell'amore, persino in ogni futilità, insomma in tutti quei fatti che, come scrisse Garboli, «si creano nella promiscuità di una tana». Tra La strada e il Lessico (con la sua pastosa lingua di "malagrazie", "potacci", "sbrodeghezzi": il lessico, appunto, d'una piccola comunità), c'è tutta la gamma di sentimenti e risentimenti sperimentati dalla Ginzburg nei confronti della "tana": la voglia di aprirne porte e finestre per incontrare il mondo alla ricerca di sé, nel primo romanzo; la pacificazione con essa attraverso la memoria, nel secondo. Quando poi aggiungessimo un racconto lungo come Famiglia (1977), avremmo anche la perlustrazione, ma sempre in un quadro di "normalità", delle ragioni della crisi che quei legami di sangue problematizzano. Siamo di fronte, insomma, a una scrittrice ad altissima temperatura antropologica, la quale, quando dice "io", lo fa però a un grado zero di narcisismo, in quanto si tratta sempre di un "io" con famiglia, che nella famiglia si dissolve. All'opposto della Romano: la quale, nei suoi romanzi autobiografici disarticola la famiglia in una serie di rapporti "io-tu", poco importa si tratti della madre (La penombra che abbiamo attraversato, 1964), del figlio Piero (Le parole tra noi leggere, 1969), o del marito (Nei mari estremi, 1987), o di chissà chi altro ancora.
il manifesto 16.7.16
Verdad, l’utopia è necessaria
Interviene. Lorena Canottiere è l'autrice della storia di una comune e di una miliziana anarchica. Una storia che parla di prede e predatori sui monti dopo la presa di Barcellona
di Virginia Tonfoni


Spagna pirenaica, anni ’20. Una bambina reclama alla nonna ancora disgustata dalla condotta della propria figlia, il diritto a conoscere la propria storia. Non a caso questa bambina, che ritroviamo pochi anni dopo a Barcellona con il fucile in spalla, pronta per partire e combattere tra le file della milizia anarchica, si chiama Verdad, come quella verità che è destinata a cercare e come la verità del monte Verità, la comune libertaria sui monti svizzeri dove è stata concepita. A raccontare in un romanzo disegnato, in libreria per Conino Press, la storia di questa donna combattente è Lorena Canottiere, autrice torinese, alla sua seconda prova con la narrazione lunga.
Verdad è la storia di un viaggio, un cammino interno di definizione, crescita e autodeterminazione. Da cosa hai tratto ispirazione per costruire questo personaggio?
È nato in maniera molto istintiva, e come talvolta accade, si è trattato di un imprevisto. Mi stavo documentando per raccontare un’altra storia, quando mi sono imbattuta nella vicenda della comune libertaria di Monte Verità, esistita nel primi anni del ’900 ad Ascona, in Svizzera da cui son passati moltissimi intellettuali e artisti dell’epoca come Herman Hesse, Otto Gross, Mikail Bakunin, vera fucina artistica di inizio novecento, dove si praticava il matriarcato, il vegetalianesimo, il nudismo. Monte Verità è rimasto come una postilla e come obiettivo ultimo del viaggio di Verdad. È poi subentrato il bisogno di rappresentare la battaglia contro il fascismo durante la Guerra di Spagna e tutto quello che ha rappresentato questo conflitto che ha visto coinvolte persone di tutto il mondo. Si tratta una storia contemporanea, solo in apparenza una vicenda storica e politica passata, che invece reclama bisogni molto attuali, come soldi e potere.
Monte Verità è un luogo dove l’utopia è stata realtà, e il viaggio verso questo luogo è esattamente il motore narrativo della storia. Però è anche il nome della protagonista che cerca di ottenere la propria verità, non avendo mai conosciuto la madre. Come hai messo in relazione questi due movimenti opposti?
Verdad si chiama così in onore e in memoria di questo luogo, la società utopica sulle montagne svizzere legata alla memoria della madre. Verdad ha un nome che è un controsenso, è la verità che ricerca, ma lei stessa si mette continuamente in dubbio, e anche quando raggiunge una meta continua a porsi domande. Il legame tra queste due dimensioni è creato nel testo da tavole che sono tecnicamente diverse e che rappresentano la leggenda della volpe vecchia; un inserto narrativo frammentato che svela come la protagonista insegua non tanto ciò che le ha lasciato la madre, né tantomeno quello che la guerra le permette di dimostrare, ma qualcosa di più profondo, che agisce a livello dell’inconscio ed è probabilmente legato alla ricerca del selvatico, dell’irrazionale, un atteggiamento tipico di coloro che non si accontentano di ciò che ci viene dato dall’esterno.
Queste parti alterano felicemente il ritmo narrativo della storia, le danno un respiro diverso, offrono una specie di controcanto al punto di vista di Verdad. C’è un significato simbolico nell’uso della volpe?
La volpe rappresenta il lato selvaggio che si oppone alla società rurale e chiusa dove a lei è toccato di vivere. Ovviamente è una storia che parla di prede e predatori, sostenendo che a un certo punto ognuno di noi scopre la sua indole, di preda o di predatore, che ne determina il destino: cercare di difendersi dal predatore, o tentare per sempre di attaccare la propria preda. Ci si uccide con le parole, in questa leggenda. La cosa curiosa è che mi è venuta a mente in sogno. Ho dovuto trascriverla appena sveglia perché mi sembrava perfetta per quello che volevo raccontare. La volpe è sia preda che predatrice e mi piaceva perché è selvatica, conserva la sua natura, ma interagisce con gli umani, per esempio quando fa visita nei pollai.
Dialettica preda predatore. Quanto questa dinamica, di chi cerca e di chi è cercato, serve allo sviluppo della protagonista?
È lei stessa a divenire preda e predatrice; dopo la battaglia persa, quando Barcellona sta per finire in mano ai fascisti, mentre tutti scappano per non essere giustiziati, le viene proposto dai suoi compagni di fuggire in Francia, riorganizzare la battaglia, continuare a lottare. Ma lei rifiuta, sceglie l’autoisolamento, si ritira solitaria in montagna-come molti partigiani faranno poi in Italia- ed è a questo punto della storia che capiamo che la sua battaglia è diventata qualcos’altro. Il nemico non è più Franco, non è più l’ideale, la lotta si rivolge verso di lei stessa poiché ha perso anche fisicamente, e rivolta a ciò che continua a cercare. Una battaglia che non finisce mai, che si allarga esponenzialmente nella sua ricerca e richiesta di verità.
Sembra che le bombe della storia, esplodano anche tra le pagine del libro, nel quale utilizzi una palette abbacinante e fai sfoggio di una tecnica sorprendente.
Non ho usato il nero, tranne che nelle parti della leggenda di cui parlavamo, che è fatta a grafite e matite, aggiungendo il rosso e il blu. Ho lavorato manualmente e in digitale. Le tavole in cui Verdad è adulta sono realizzate con l’acrilico giallo e rosso, e l’azzurro è aggiunto al computer. Nelle parti dell’infanzia della protagonista, la tecnica è la stessa, ma ho utilizzato i pastelli al posto dei pennelli, per distinguere i flashblack. La scelta cromatica dei tre primari invece è stata fortemente influenzata dalla documentazione raccolta per il libro, i manifesti di propaganda dell’epoca erano in gran parte serigrafie e spesso realizzate con questi colori.
«La utopia es necesaria», si legge nel frontespizio del tuo libro. Quanto è necessaria l’utopia nel mestiere del narratore?
Totalmente necessaria. Riesco a scrivere solo estraniandomi, togliendo tutte le regole che ho rispettato fino a quel momento, per cui ogni narrazione è ricerca, un mondo da scoprire. Se non c’è un castello in aria non ha senso raccontare, anche quando si parla del quotidiano, soprattutto di quello. Proprio quando si conosce una realtà a fondo, è necessario andare oltre per poterla rappresentare. La frase nel frontespizio è di un falsario anarchico che aveva il sogno di sovvertire lo stato sociale mondiale stampando talmente tante banconote false da far saltare il sistema monetario.
Il viaggio verso utopia è il motore della narrazione; Verdad conclude dicendo che l’importante è che non sia stato inutile.
Certo, non è mai inutile: una dose di utopia e se vogliamo di dadaismo è necessaria in ogni gesto, se vogliamo continuare a vivere in modo reale. Nell’ultima vignetta di Verdad c’è una nuova volpe che agguanta una preda, ma non è la stessa che abbiamo visto nel resto della storia: è un altro animale, come a indicare che la ricerca dell’istintività, della selvaticità non si conclude mai.
Come nella lotta si alzano i canti, nel libro esiste una colonna sonora che si può ascoltare e scaricare da soundcloud (https://soundcloud.com/stefanorisso/sets/verdad/s-lgCd5)
Tutti i movimenti popolari sono accompagnati da canti di protesta che non solo raccontano in maniera viscerale una parte di storia autentica dal punto di vista dei diretti protagonisti, ma spesso sono stati anche veri motori per intere battaglie. Mi sembrava scorretto prescindere completamente da quest’elemento sonoro e narrativo, ma non volevo che fosse una raccolta di canti popolari, ma piuttosto una colonna sonora, come quella di un film, un bordone che accompagnasse tutti i momenti, esaltandone quelli salienti e quelli più emotivi. Per la prima volta nella mia vita, ho lavorato con il mio compagno, Stefano Risso, che ne è il compositore.
il manifesto 16.7.16
Guerra civile: il dovere di ricordare
1936-2016. Al posto della «diserzione» che caratterizzò gli eventi bellici pre-moderni, s'impose un modello europeo di partecipazione
di Alessandro Barile


Il 17 luglio ricorreranno gli ottant’anni dallo scoppio della Guerra civile spagnola. Una data simbolica per la storia europea. Per la prima volta, la dimensione politica del conflitto prendeva il sopravvento su quella militare, tecnica e diplomatica. Si può dire che lo scontro spagnolo inaugura una forma-guerra sublimata nel successivo conflitto mondiale, che attraverserà tutte le lotte anti-coloniali del XX secolo. Se la diserzione costituiva l’approccio naturale delle popolazioni alle guerre pre-moderne e fino alla Prima guerra mondiale, la contemporaneità imporrà il dovere della partecipazione. In Spagna non c’era possibile diserzione: il conflitto attraversava i rapporti di parentela, di lavoro, scardinava le relazioni sociali e politiche, costringendo allo schieramento. Prendere parte coscientemente anziché subire passivamente gli eventi della storia.
Anche quel ceto notabiliare che gestiva gli affari politici, ancorato a paradigmi ottocenteschi in ritardo sulla modernità europea, dovette suo malgrado schierarsi in difesa di una delle due cause per cui si lottava tragicamente. La messa in scena aristocratica lasciava il posto alla dimensione drammatica dello scontro sociale. La modernità politica del Novecento passava anche attraverso il travaglio di questo scontro inevitabilmente fratricida. La Guerra civile spagnola è stata una guerra soprattutto simbolica. Figure e miti ne pervadono la scenografia: non si lottava per un territorio, una casata, un titolo o contro l’invasore. Spagnoli contro spagnoli, sullo sfondo di un conflitto che mobilitò la popolazione europea nel suo insieme. In questa mobilitazione continentale gli italiani ebbero un ruolo protagonista.
Secondo le parole di Teresa Noce, riportate nella sua autobiografia rieditata proprio quest’anno da RedStarPress, «prima che il Partito comunista francese e di conseguenza quello italiano avessero preso una decisione ufficiale, i nostri compagni cominciarono a partire con qualsiasi mezzo in auto, in treno o in camion, da Parigi, da Tolosa, da altre città del Belgio, della Francia o da altri paesi». Più di 4000 italiani affollarono le Brigate internazionali guidate da Luigi Longo e André Marty.
Nel frattempo, il disciolto esercito della Repubblica venne ricostituito su basi democratiche da Vittorio Vidali, in Spagna conosciuto come Carlos Contreras, vero e proprio «unificatore» delle diverse milizie popolari nel nuovo Esercito popolare. 13mila furono i morti stranieri in difesa della Repubblica; 25mila il totale degli stranieri uccisi in Spagna nei tre anni di guerra civile. 13mila volontari che combattevano in Spagna una guerra europea, la prima vera battaglia contro il fascismo internazionale, come immediatamente riconosciuto da tutti i protagonisti. Senza la Guerra civile spagnola difficilmente si sarebbe prodotta la Resistenza in Italia nelle forme che questa effettivamente assunse.
Il conflitto spagnolo servì come palestra per una generazione di antifascisti abituati alla clandestinità e al lavoro illegale. Un contesto in cui i massimi dirigenti comunisti, a partire proprio da Togliatti, compresero la particolare natura politica del fronte antifascista, la necessità di smussarne gli estremismi e gli avventurismi, il carattere sociale che andava assumendo lo scontro che non poteva essere vinto forzando le appartenenze politiche. Il consenso che le forze della reazione avevano in Spagna come in Italia era stato fino a quel momento sottovalutato: una lezione che favorì il cambio di mentalità dei dirigenti italiani nella comprensione del nemico.
Secondo le parole di Giuliano Pajetta nella sua riflessione sul ruolo italiano in Spagna, «se vogliamo tentare di riassumere le grandi lezioni politiche ricavate dalla Guerra di Spagna potremmo dunque enunciarle così: il problema delle alleanze della classe operaia con altre classi interessate a una guerra di indipendenza nazionale; la strategia e la tattica dei comunisti per estendere e consolidare le alleanze politiche (…); la lotta di principio e pratica del Partito comunista contro le posizioni estremistiche (…); la trasformazione del Partito comunista in grande partito di massa, popolare e nazionale». Una serie di indicazioni che costituiranno la base della «svolta di Salerno» del 1944, e che renderanno il Pci, esattamente come il suo omologo spagnolo, perno politico del fronte antifascista. Una direzione che, peraltro, verrà resa strutturale nel secondo dopoguerra.
Ci sono allora molte ragioni per ricordare questo anniversario decisivo anche per la nostra storia nazionale, oltre che continentale. Liberare la storiografia dalle ritrosie politiche del passato è uno dei passaggi necessari. Ancora oggi in Spagna vige il tacito accordo di porre le ragioni e i torti dei contendenti su uno stesso piano sostanziale (la sollevazione nazionalista come effetto di una Repubblica in via di «sovietizzazione»): un fenomeno sconosciuto al racconto, ad esempio, della Resistenza italiana, dove il rigore storiografico non venne tradotto in equivalenza tra le parti contrapposte. Questo ottantesimo potrebbe in tal senso recuperare una prospettiva analitica che, senza concedere nulla all’agiografia interessata, abbia il coraggio di indicare le responsabilità storiche. La Guerra di Spagna ci ricorda anche il nostro passato colonialista. In tal senso, potrebbe consentire anche alla cultura italiana una resa dei conti con il nostro armadio della vergogna.
il manifesto 16.7.16
Guerra civile: solidarietà operaia
1936-2016. Chi erano le brigate? Lavoratori di 53 nazioni riuniti in formazioni militari in appoggio al governo repubblicano
di Fulvio Lorefice


Come ha scritto Eric Hobsbawm «la guerra di Spagna resta la sola causa politica che, anche a considerarla retrospettivamente, mantiene la purezza e la cogenza ideale che ebbe nel 1936». A scolpirla nella memoria fu la più importante prova di solidarietà internazionale nella storia del movimento operaio, le Brigate Internazionali: le formazioni militari, composte da lavoratori di cinquantatré nazioni, che combatterono in appoggio al governo repubblicano spagnolo.
Nonostante siano passati ottant’anni ormai da quel fatidico 17 luglio la disputa politica sulle ragioni della sconfitta spagnola non è mai cessata. Alimentata da una floridissima memorialistica, nella quale può scorgersi la passione e lo slancio dell’epoca, ha finito tuttavia per assumere contorni romanzeschi. L’intero conflitto è stato ridotto infatti alla contrapposizione guerra-rivoluzione, in seno al fronte repubblicano, ignorando completamente i fattori esogeni. Un contributo alla comprensione degli avvenimenti, suggeriva già trent’anni fa Luciano Casali, può derivare dalla rilettura degli scritti di alcuni fra i più avveduti dirigenti politici dell’epoca, come Berneri, Rosselli, Togliatti e Nenni. Depurati dall’acrimonia di quegli anni possono scorgersi temi e questioni, elaborati in seguito con la Resistenza: i legami con le masse, la capacità di organizzarne la lotta, le forme della partecipazione politica, la disamina dei rapporti di forza, la definizione degli obiettivi di medio e lungo periodo. Ma la guerra di Spagna va soprattutto inserita nelle relazioni internazionali dell’epoca. Nel trittico della crisi dell’ordine di Versailles rappresentò, infatti, la tavola centrale: lo spazio in cui più nitida si fece la trama politica ordita dai fascismi, dopo l’occupazione giapponese della Manciuria e l’annessione italiana dell’Etiopia.
Benché le cause originarie del conflitto spagnolo fossero prevalentemente nazionali lo svolgimento e la sua soluzione risentirono profondamente della situazione internazionale. Decisivo fu quindi il meccanismo delle alleanze costituitosi attorno ai contendenti: da una parte Germania, Portogallo e Italia, dall’altra l’Unione Sovietica e il Messico. La decisione delle principali potenze occidentali, coagulatesi attorno al Comitato di Non-Intervento, di vietare la vendita di armi alle fazioni in conflitto avvantaggiò i franchisti che non ebbero difficoltà a procurarsele tramite i loro alleati, penalizzando il legittimo governo impossibilitato ad organizzare un’efficace difesa. Il Comitato di Non-Intervento, ebbe a scrivere l’ambasciatore statunitense in Spagna Alexander Bowers, «fu una vergognosa truffa concepita con cinica disonestà». Uomini e materiali, finché la guerra lo consentì, arrivarono dall’Unione Sovietica il cui prestigio crebbe enormemente. Nel giro di poche settimane su un fazzoletto di terra si ritrovarono così i più validi dirigenti e quadri politico-militari che il movimento operaio all’epoca esprimeva. Immediatamente si era posto infatti il problema militare. Esiguo era il numero di alti ufficiali e di reparti delle forze armate regolari che erano rimasti fedeli al governo legittimo, il Quinto Reggimento divenne così il nucleo dell’esercito regolare, la prima Compañías de Acero venne composta per intero da operai metallurgici.
L’eco del conflitto scosse gli operai italiani, rapporti allarmati alle autorità fasciste ne diedero conto a Milano, Genova e Taranto. Per molti giovani intellettuali, in parte provenienti dal GUF, la Spagna fu uno spartiacque: rotti gli indugi passarono alla lotta antifascista. Un primo afflusso di volontari si registrò nel corso dell’estate ‘36, il meccanico bolognese Nino Nannetti fu probabilmente il primo italiano che giunse dall’estero. Partecipò all’attacco a Huesca bombardando la città con un cannoncino da 76 montato su un camion, insieme ad un altro compagno si spostavano rapidamente per dare l’impressione ai fascisti che all’opera fosse un’intera batteria. Morirà sul fronte di Bilbao un anno dopo: aveva trentuno anni. Dalla fine del settembre ‘36 il Comintern prese ad occuparsi quasi esclusivamente della costituzione delle Brigate Internazionali. Parigi divenne quindi la centrale mondiale per lo smistamento dei volontari: da un piccolo albergo sulla rive gauche, Josip Broz, il futuro Maresciallo Tito, avviava le reclute attraverso la cosiddetta «ferrovia segreta».
Ma chi erano dunque i combattenti delle Brigate? Non erano mercenari e neppure avventurieri, erano «portatori di un sogno di libertà» scrisse Giuliano Pajetta. Combattevano per una causa di progresso ed emancipazione sociale, internazionale. Ad Albacete – ricorda Giovanni Pesce – approdavano professionisti, operai, contadini, minatori; anziani e giovani; militanti comunisti, anarchici, socialisti, repubblicani; uomini che avevano abbandonato casa e posto di lavoro, miseri braccianti del mezzogiorno d’Italia, della Croazia, delle pianure d’Ungheria, minatori tedeschi. Più simile agli odierni foreign fighters era invece il drappello di volontari, irlandesi e romeni, che, animato da un senso di crociata e di rivolta contro il mondo moderno, andò in Spagna a combattere a fianco delle forze di Franco, Mussolini, Hitler e Salazar.
Se, quindi, la guerra di Spagna fu il nocciolo duro di uno scontro di portata internazionale, culminato nella seconda guerra mondiale, vale la pena in conclusione rammentare chi – tra gli altri – quello scontro lo combatté in tre diversi continenti: Ilio Barontini. La qualifica di «cavaliere della libertà dei popoli» se l’era guadagnata sul campo di battaglia. Dopo aver appreso le tecniche di guerriglia dalle forze di Mao in Cina ed essersi distinto in Spagna, al comando del battaglione Garibaldi a Guadalajara, il suo impegno era continuato prima in Etiopia, ove aveva organizzato, insieme a Bruno Rolla e Anton Ukmar, la resistenza popolare contro l’occupante italiano. E poi in Francia nei Francs-tireurs partisans e in Italia alla direzione del Comando militare unificato Emilia-Romagna. Un internazionalismo il suo, che non fu dunque mera aspirazione ideale ma parte costitutiva del più importante progetto di emancipazione dei subalterni nella storia.
Repubblica 16.7.16
George Steiner
“Guai a chi dice che le utopie non sono altro che idiozie”
Freud è stato uno dei grandi mitologi della storia È finzione
La scuola. I giovani che non hanno tempo. La politica e i populismi Parla il grande critico
“Ciò che mi turba è la paura della demenza Ogni giorno faccio esercizi di memoria”
“I mezzi elettronici stanno retrocedendo. La gente preferisce il libro tradizionale”
intervista di Borja Hermoso


In principio fu un fax. Nessuno rispose a questo primo, archeologico tentativo. Poi una lettera (sì, quelle reliquie che consistono in una carta scritta e infilata dentro una busta). «Non le risponderà, è malato », mi aveva avvisato una persona che lo conosce bene. Dopo pochi giorni arrivò la risposta. Per posta aerea, con il timbro della Royal Mail e il profilo della regina di Inghilterra. Sull’intestazione c’era scritto: Churchill College, Cambridge. Il breve testo recitava così: «Caro signore, l’88° anno e una salute incerta. Ma la sua visita sarebbe un onore. Con i miei migliori auguri, George Steiner».
Due mesi dopo, il vecchio professore disse «sì», mettendo provvisoriamente fine alla sua proverbiale avversione alle interviste. Il cattedratico di letteratura comparata, il lettore di latino e greco, l’eminenza di Princeton, Stanford,
Ginevra e Cambridge; il figlio di ebrei viennesi che fuggirono dal nazismo prima a Parigi e poi a New York; il filosofo delle cose di ieri, di oggi e di domani; l’autore di libri fondamentali del pensiero moderno, della storia e della semiotica, come Errata, La nostalgia dell’assoluto, Una certa idea di Europa, Tolstoj o Dostoevskij o La poesia del pensiero ci ha aperto le porte della sua stupenda casetta di Barrow Road.
Professor Steiner, come va la salute?
«Oooh, molto male, purtroppo. Ormai ho 88 anni e non va bene, però non importa. Ho avuto e ho molta fortuna nella vita e ora va male, anche se qualche bella giornata ancora mi capita».
Quando si sta male, è inevitabile sentire nostalgia dei giorni felici? Lei fugge dalla nostalgia o la nostalgia può essere un rifugio?
«No, l’impressione che hai è di aver tralasciato di fare molte cose importanti nella vita. E di non aver capito del tutto fino a che punto la vecchiaia rappresenta un problema, questo indebolimento progressivo. Quello che mi turba maggiormente è la paura della demenza. Intorno a noi l’Alzheimer fa strage. Io, per lottare contro questo rischio, tuti i giorni faccio esercizi di memoria e di attenzione».
È ottimista riguardo al futuro della poesia?
«Enormemente ottimista. Viviamo una grande epoca di poesia, soprattutto fra i giovani. E ascolti una cosa: molto lentamente, i mezzi elettronici stanno cominciando a retrocedere. Il libro tradizionale ritorna, la gente lo preferisce al Kindle… preferisce prendere un buon libro di poesia cartaceo, toccarlo, odorarlo, leggerlo. Però c’è una cosa che mi preoccupa: i giovani non hanno più tempo… di avere tempo. L’accelerazione quasi meccanica delle routine vitali non è mai stata forte come oggi. E bisogna avere tempo per cercare tempo. E un’altra cosa: non bisogna avere paura del silenzio. La paura del silenzio nei bambini mi fa paura. Solo il silenzio ci insegna a trovare in noi l’essenziale».
Il rumore e la fretta… Non crede che viviamo troppo di fretta? Non stiamo educando i nostri figli con troppa fretta?
«Mi lasci allargare la domanda e dirle una cosa: stiamo uccidendo i sogni dei nostri bambini. Quando ero bambino, esisteva la possibilità di commettere grandi errori. L’essere umano li ha commessi: il fascismo, il nazismo, il comunismo… Ma se non hai la possibilità di commettere errori quando sei giovane non diventerai mai un essere umano completo e autentico. Gli errori e le speranze infrante ci aiutano a completare lo stadio adulto. Ci siamo sbagliati con tutto, con il fascismo e con il comunismo, e a mio parere anche con il sionismo. Ma è molto più importante commettere errori che cercare di comprendere tutto fin dall’inizio e in un colpo solo. È drammatico avere chiaro a 18 anni che cosa devi e non devi fare».
Lei parla dell’utopia e del suo contrario, la dittatura della certezza… «Molti dicono che le utopie sono delle idiozie. Ma saranno comunque idiozie vitali. Un professore che non consente agli alunni di immaginare utopie e di sbagliarsi è un professore pessimo».
Perché l’errore è visto in modo tanto negativo?
«L’errore è il punto di partenza della creazione. Se abbiamo paura di sbagliare non potremo mai affrontare le grandi sfide, assumerci i rischi. L’errore tornerà? È possibile, ci sono alcuni indizi in tal senso. Ma essere giovane oggi non è facile. Che cosa gli stiamo lasciando? Nulla. Neanche l’Europa, che ormai non ha più nulla da proporgli. Il denaro non ha mai fatto sentire così forte la sua voce come adesso. L’odore del denaro ci soffoca, e questo non ha nulla a che vedere con il capitalismo o il marxismo. Quando io ero studente, la gente voleva diventare parlamentare, funzionario pubblico, professore… oggi perfino i bambini sentono l’odore dei soldi e l’unico obbiettivo ormai sembra sia quello di diventare ricchi. E a questo si aggiunge l’enorme indifferenza dei politici verso chi non ha soldi. Per loro, siamo solo dei poveri idioti. E questo Karl Marx lo vide con largo anticipo. Invece, né Freud né la psicoanalisi, nonostante tutta la loro capacità di analisi dei caratteri patologici, sono riusciti a capire qualcosa di tutto ciò».
La psicoanalisi non le sta molto simpatica.
«La psicoanalisi è un lusso della borghesia. Per me la dignità umana consiste nell’avere dei segreti, e l’idea di pagare qualcuno perché ascolti i tuoi segreti e le tue cose intime mi disgusta. È come la confessione, ma con l’assegno di mezzo. Freud è uno dei grandi mitologi della storia. Però è finzione. Era un romanziere straordinario».
Torniamo alla questione del potere del denaro. Ha una spiegazione valida, dal punto di vista filosofico, del perché gli elettori di Italia e Spagna abbiano deciso in passato e decidano ancora di mettere al potere partiti politici macchiati dalla corruzione?
«Perché c’è un’enorme abdicazione della politica. La politica perde terreno in tutto il mondo, la gente non ci crede più, e questo è molto pericoloso. Aristotele ci dice: “Se non vuoi stare nella politica, nell’agorà pubblica, e preferisci restartene nella tua vita privata, poi non lamentarti se vieni governato da banditi”. Io provo vergogna di aver goduto di questo lusso privato di studiare e scrivere e di non aver voluto entrare nell’agorà. Trionfano per ogni dove il regionalismo, il localismo, il nazionalismo… torna il campanile. Quando vedi che uno come Donald Trump viene preso sul serio nella democrazia più complessa del mondo, tutto è possibile».
Come contempla un’ipotetica vittoria di Trump?
«Non succederà. Vincerà Hillary. Ma sarà una vittoria triste, perché questa donna è stremata, sfinita interiormente. E che mi dice di Putin? La violenza di uno come lui sembra tranquillizzare le persone che non credono più nella politica, le riconforta. Questo perché il dispotismo è il contrario della politica».
Lei fa differenze tra cultura «alta» e cultura «bassa», come fanno alcuni intellettuali di grido?
«Le dico una cosa: Shakespeare avrebbe adorato la televisione. Avrebbe scritto per la televisione. E io non faccio queste distinzioni. Quello che davvero mi rattrista è che le piccole librerie, i teatri di quartiere e i negozi di dischi chiudano. È vero che i musei sono ogni giorno sempre più pieni, le grandi mostre sono travolte da moltitudini di visitatori, le sale da concerto sono stracolme… perciò attenzione, perché questi processi sono molto complessi e diversi per poter emettere dei giudizi complessivi. Muhammad Ali era anche un fenomeno estetico. Era come un dio greco. Omero avrebbe compreso alla perfezione Muhammad Ali».
Una volta lei ha detto che si pentiva di non aver avuto il coraggio di lanciarsi nel mondo della creazione. È un rimpianto che la tormenta?
«In effetti sì. Ho fatto poesia, ma mi sono reso conto che quello che stavo facendo erano versi, e il verso è il più grande nemico della poesia. E ho detto anche — e qualcuno non me l’ha mai perdonato — che il più grande dei critici è minuscolo se lo si confronta con un qualsiasi creatore. Insomma, parliamo chiaro e non facciamoci illusioni. Io sono solo un postino, il postino del film. E sono molto orgoglioso di questo, di aver consegnato bene la posta a tanti, tantissimi alunni. Ma non facciamoci illusioni».
© El País / LENA, Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Fabio Galimberti
Corriere 16.7.16
Le fantasiose ricette di Trump contro il califfato
di Giuseppe Sarcina


La strage di Nizza ha spiazzato anche l’intelligence americana. Gli esperti di terrorismo appaiono cautamente divisi. C’è chi sostiene che la chiave sia il Califfato in Siria e Iraq; chi ritiene che esista un problema specifico della Francia. Donald Trump, invece, non ha dubbi: «Io so come si sconfigge il terrorismo», ha dichiarato ieri. Poi ha fornito diverse versioni, in almeno due interviste televisive. Una alla conservatrice Fox , dove è sembrato quasi assecondare il popolare conduttore, Bill O’Reilly. «Dichiarerebbe guerra all’Isis?» la domanda. «Certo», ha risposto Trump. «Chiederebbe al Congresso di farlo, coinvolgerebbe la Nato?» «Lo stavo per dire io, coinvolgeremo la Nato – ha replicato il front-runner repubblicano». Con la Cnn, invece, Trump ha sostenuto una strada economica: «Dobbiamo togliere il petrolio ai terroristi».
Nei comizi Trump ha spesso insistito su un punto: non bisogna svelare i piani per non dare un vantaggio ai terroristi. E sempre alla Cnn l’altro ieri ha ripetuto un concetto simile: «Dobbiamo essere intelligenti, non agitare troppo le nostre intenzioni». Però nel giro di ventiquattrore Trump ha prefigurato una dichiarazione di guerra da parte del Congresso (l’ultima risale alla Seconda guerra mondiale), la mobilitazione della Nato, una specie di embargo petrolifero.
L’ex senatore repubblicano Newt Gingrich, sperando forse di acciuffare un posto in un’eventuale amministrazione Trump dopo che la candidatura per la vicepresidenza è andata a Mike Pence, ha chiesto di sottoporre i musulmani d’America a un test. Chi è a favore della sharia, la legge islamica, se ne deve andare.
Qualche mese fa, però, lo stesso Gingrich aveva rilasciato una dichiarazione che oggi appare più calzante: «Nessuno sa come sarebbe la presidenza Trump, nessuno sa come si comporterebbe. Non lo sa neanche lui».
La Stampa 15.7.16
Trump vola nei sondaggi e si affida al prudente Pence
Il governatore dell’Indiana probabile vice: oggi l’annuncio ufficiale
di Paolo Mastrolilli


Donald Trump sale nei sondaggi, raggiunge e in qualche caso supera Hillary Clinton, e oggi annuncia il suo vice che potrebbe essere il governatore dell’Indiana Mike Pence, cioé un conservatore affidabile con la missione di riunificare il Partito repubblicano in vista del voto di novembre.
Lunedì comincia la Convention repubblicana a Cleveland, e i segnali si fanno incoraggianti per Trump. Se oggi a New York annunciasse la scelta di Pence come vice, sarebbe un passo significativo: Donald pensa di avere una possibilità concreta di vincere, e quindi fa le mosse più prudenti. In finale per il posto di vice erano arrivati il governatore del New Jersey Christie, l’ex Speaker della Camera Gingrich, e il generale Michael Flynn. In origine Trump voleva un politico esperto, ma anche un “cane da attacco” come lui. Poi però i suoi figli, e in particolare il genero Jared Kushner, hanno spinto in una direzione diversa: per gli attacchi basti tu, come vice è meglio una persona navigata che tranquillizzi l’establishment e unifichi il partito. Pence ha esperienza, perché ha fatto anche il parlamentare. Viene dal Tea Party, è anti gay e anti aborto. All’inizio delle primarie aveva sostenuto il senatore del Texas Cruz, pupillo degli evangelici e principale rivale di Donald, ma non ha rotto con i notabili del Gop che lo considerano un interlocutore affidabile. In sostanza il profilo giusto per equilibrare il “ticket”. Non viene da uno stato conteso, ma l’Indiana è comunque è tra il Midwest e la Rust Belt industriale, dove le presidenziali si decideranno fra i colletti blu e la classe mediobassa bianca di Ohio, Pennsylvania, Wisconsin e Michigan. Se la scelta cadrà su Pence, il segnale mandato da Trump è che ha capito di poter vincere, ed è disposto a fare le mosse politiche sagge necessarie a riuscirci.
Questa sensazione viene dagli ultimi sondaggi, che sembrano confermare come Hillary abbia accusato il colpo dello scandalo mail, dove ha evitato l’incriminazione, ma non i pesanti rimproveri dell’Fbi. Secondo il New York Times, a livello nazionale Donald l’ha raggiunta col 40% dei consensi, mentre il 67% degli americani giudica l’ex first lady disonesta. Un rilevamento della Rasmussenn dà addirittura Trump in netto vantaggio, 44 a 37%. Negli stati più contesi il repubblicano è passato avanti in Florida, mentre la Clinton conserva un vantaggio di un punto in Ohio, e di tre in Pennsylvania, Iowa e Virginia. In altre parole la corsa è aperta, e l’abbrivio al momento sembra favorevole a Donald. A questo si aggiungerà la cassa di risonanza della Convention, che comincia lunedì a Cleveland, da cui il candidato repubblicano uscirà con il tradizionale “bounce”, un rimbalzo nei sondaggi.
Il programma si profila inusuale, in linea con l’intera campagna: pochi politici con grande profilo ma piccoli serbatoi elettorali, e molti personaggi popolari. Nessuno della famiglia Bush sarà presente, così come il candidato del 2012 Romney, ma a Trump non dispiace perché non portano voti. Al loro posto il campione di football Tim Tebow, forse la medaglia d’oro olimpica e trans Caitlyn Jenner, la golfista Natalie Gulbis, la prima comandante donna della shuttle Eileen Collins, il cofondatore di PaylPal Peter Thiel, e il nero Jamiel Show, diventato attivista dopo che suo figlio è stato ucciso da un immigrato illegale.
La prima serata sarà dedicata all’attentato di Bengasi, da cui è nato il caso mail, per attaccare la credibilità di Hillary con Rudy Giuliani e la moglie di Trump Melania, senza dimenticare una presentazione per ricordare le scappatelle sessuali di Bill. La seconda sarà dedicata all’economia, con Donald Trump junior e il governatore del Wisconsin nemico dei sindacati Scott Walker. La terza sarà dominata dai discorsi di Cruz e del vice, e la quarta da Tebow, Ivanka Trump, e naturalmente lui. Quando dal tetto scenderanno i palloncini, Donald punterà ad essere in testa ai sondaggi e lanciato verso la Casa Bianca.
Repubblica 16.7.16
La paura. Grossman “Le democrazie europee perderanno l’innocenza”
Per lo scrittore israeliano il rischio è che il terrore del diverso spinga i governi a leggi sempre più repressive. Come accade nel suo paese
intervista di Fabio Scuto


GERUSALEMME. «Il “lupo solitario” adesso si aggira per le strade delle città europee e questo avvierà una serie di azioni che sono destinate a ferire la democrazia, ad andare verso leggi straordinarie che limiteranno la libertà personale del cittadino. Le democrazie europee perderanno presto la loro innocenza». Lo scrittore israeliano David Grossman prova a tracciare un percorso per convivere con il terrorismo, con cui Israele si confronta da molti anni. «Vivere col terrorismo dimostra ancora una volta a che punto la natura umana sia flessibile, fino a che punto impariamo ad adattarci alla dittatura della paura».
Le leggi speciali mettono nelle mani degli apparati dello Stato un potere che potrebbe essere usato in maniera molto discrezionale… «Per la sua cecità nel colpire gli innocenti, il terrorismo ha una forza immensa, in grado di paralizzare una società civile e rafforzare gli stereotipi razzisti. E’ prevedibile che tanto più una società è esposta al terrorismo, tanto più le forze nazionalistiche e razziste diventino più potenti. Vedremo nel prossimo futuro sempre più governi di destra: questo provocherà un’azione sempre più dura degli stessi governi e questo spingerà queste minoranze verso una ulteriore radicalizzazione».
E’ un quadro molto nero …
«Questo atteggiamento verso le minoranze metterà in dubbio la loro identificazione nazionale e saranno sempre più numerosi quelli che troveranno nella religione un mezzo per esprimere la propria identità. Purtroppo alcuni Paesi europei conosceranno presto la forza distruttrice del terrorismo».
Come uscire da questo circolo vizioso?
«Ci sono mezzi per indebolire il terrorismo. Prima di tutto bisogna combatterlo militarmente nei luoghi di origine. Poi è necessario aumentare l’allerta, sia della popolazione sia delle forze dell’ordine. Alla fine, però, il modo di minare anche se molto lentamente le fondamenta del terrorismo è per forza il cambiamento nel modo di rapportarsi della maggioranza nei confronti delle minoranze. Deve esserci un cambiamento di quelle condizioni che oggi conferiscono un’attrazione così grande al terrorismo fra le minoranze musulmane europee».
Quindi i paesi europei dovranno adottare queste misure di emergenza, anche se è già chiaro che i musulmani ne saranno gli obiettivi principali?
«Al momento in cui la paura del terrorismo viene formulata, inizia una catena di azioni che ferisce la democrazia. Tuttavia ci sono situazioni di emergenza, che di fatto sono situazioni di guerra, in cui la democrazia deve difendersi, soprattutto perché ci sono forze che vogliono distruggerla. Questi mezzi devono essere scelti con estrema cura e devono essere usati con prudenza ed andando “al risparmio”, e al termine della campagna contro il terrorismo, bisogna immediatamente sospenderli».
I francesi però non hanno la più pallida idea di che cosa significhi avere limitazioni delle libertà personali.
«Il pericolo è che i governi che hanno usato decreti di emergenza per combattere il terrorismo, siano poi restii ad rinunciarvi e continuino a controllare o addirittura a spiare, i propri cittadini. D’altra parte, il modo in cui i francesi hanno rifiutato di misurarsi con la realtà e con il fatto che devono combattere la guerra contro il terrorismo sul loro territorio nazionale è un approccio molto pericoloso, che non corrisponde più alla realtà dei fatti ».
C’è anche un’Europa islamica. Milioni di musulmani che vivono la loro fede in maniera meno complessa e certamente non violenta: che fare con loro?
«E’ interesse anche dei musulmani moderati che il dito accusatore sia rivolto verso gli estremisti islamici e questo è anche il compito della leadership della comunità musulmane in Europa, condannare ed operare contro ogni manifestazione di estremismo nelle loro comunità in maniera aperta e chiara».
Repubblica 16.7.16
Roma alla ricerca di un ruolo
di Stefano Folli


C’È MOLTO di ripetitivo nel modo in cui le istituzioni e la politica reagiscono agli attentati. In un certo senso è inevitabile: sono uguali gli schemi dei terroristi, anche quando varia lo strumento tecnico usato per spargere la morte e si dissolvono i responsabili, cioè i veri organizzatori, nella stagione del terrore “molecolare”, privo in apparenza di una rete davvero organizzata. Di conseguenza si assomigliano le prime risposte, fra l’attonito e il manierato, e le prime polemiche, anch’esse prevedibili.
Ma si deve pur riconoscere che dopo Nizza è scemato il tasso di retorica un po’ ovunque in Europa e in particolare in Italia. L’immediato incontro a Palazzo Chigi sulla sicurezza ha dato un segno concreto; l’aver evitato, almeno finora, il diluvio delle frasi fatte, utili solo a delineare il quadro dell’impotenza, rappresenta un passo avanti. Renzi e il ministro dell’Interno Alfano, i due nomi in prima linea, sembrano rendersi conto che in un anno e mezzo, da Charlie Hebdo alla Promenade, il cordoglio, i lumini, i mazzi di fiori, tutte le manifestazioni del dolore popolare non bastano più. O meglio, non possono essere l’alibi dietro il quale si cela l’inerzia delle classi dirigenti.
Questa volta si parla di meno e si lavora con i servizi di sicurezza: si cerca di legare insieme la ragnatela delle informazioni che per troppo tempo sono rimaste non condivise. Ma la strada da percorrere è lunga e il tempo è poco. Fra un attentato e l’altro l’intervallo tende a ridursi: prima era di anni, ora è di mesi quando non di settimane. Il terrorismo sopravvive e anzi sembra moltiplicarsi anche nell’ultima versione polverizzata e quasi cellulare; la controffensiva degli Stati democratici richiede invece un alto livello di organizzazione per essere efficace e nessuno, del resto, può garantire che i cittadini saranno pienamente al sicuro.
Resta da capire quale sia la strategia di lungo periodo. La debolezza delle leadership europee nel loro complesso è evidente e non può essere curata a breve. Il governo di Roma non ha ovviamente la forza per colmare il vuoto politico, ma può contribuire ad accelerare il coordinamento dei mezzi tecnici di difesa. Se poi il suo consenso parlamentare sarà abbastanza solido, potrà parlare con maggiore energia nelle sedi dell’Unione.
Sotto questo aspetto, la stabilità dell’esecutivo non appare in discussione. S’intende, peraltro, che non è all’orizzonte un’altra maggioranza, ossia un governo di unità nazionale. Per quanto Brunetta, Forza Italia, abbia dichiarato che “siamo in guerra”, il che sottintende una richiesta, appunto, di unità, non ci sarà niente di simile almeno nei prossimi mesi. Ma ciò non significa che il Parlamento non saprà essere convergente sulla politica anti-terrorismo, almeno nelle grandi linee. È già accaduto in passato e accadrà di nuovo: sia pure con eccezioni probabili o possibili, dalla Lega ai Cinquestelle, il centrosinistra e il centrodestra sosterranno alcune scelte di fondo, peraltro obbligate dalla cornice europea. Quanto più il ruolo italiano vorrà identificarsi in una serie di impegni concreti per la sicurezza, tanto più sarà largo il sostegno delle Camere.
Questo non significa che tutte le domande troveranno risposta. Al momento non è chiaro nemmeno se l’autista di Nizza sia uno psicopatico solitario, marginalmente collegato con gli ambienti del radicalismo islamico, o sia viceversa connesso per vie insondabili alla rete dell’Is. In secondo luogo, si ripropone l’eterno dilemma del “che fare” con l’Islam in Italia. In Francia il vice presidente della conferenza degli imam si è dimesso per protestare verso un establishment islamico incapace di spezzare i nessi con i circoli estremisti. E da noi? Ci si attende una parola chiara da Alfano e prima ancora dai responsabili islamici troppo spesso reticenti.
Infine resta da capire quale sia lo spazio politico per un movimento di destra “lepenista”. Salvini sembra aver raggiunto da tempo il suo limite elettorale e le elezioni amministrative per lui non sono andate bene. Ma sta già tentando, in una chiave tutta domestica e provinciale, di trarre vantaggio dai fatti di Nizza. Difficile credere che possa rilanciare così le sue ambizioni di primato, tuttavia nessuno può prevedere quali saranno gli equilibri in Europa fra qualche mese. La Francia ferita, la Brexit, il referendum in Ungheria, le elezioni ripetute in Austria e sullo sfondo il voto americano: ci attendono passaggi cruciali.
Avvenire.it 16.07.16
La strage di Nizza
L'incubo e la risposta, non solo a Nizza
di Marco Tarquinio


Il franco-tunisino Mohamed Lahouaiej Bouhlel non portava giovedì notte la tunica dei fanatici del califfo nero del Daesh, eppure non tarderanno a calargliela addosso. Lo faranno a suon di proclami e di omaggi propagandistici i jihadisti che infestano il web in questi anni di ferocia e di sanguinose bestemmie contro il Dio della vita e della pace. Hanno già cominciato a farlo in troppi, a forza di parole scagliate attraverso social network e articoli di giornale. La tunica oscura del Daesh, dello Stato islamico, sopra la tormentata e infine rabbiosa esistenza di un morto ammazzato che in una notte di festa ha usato un camion come un enorme coltello. Uno che, in fondo, quella tunica se la merita. E del servo letale e idiota del Daesh ha il perfetto profilo. Ha fatto strage di umanità, Boulhel. A Nizza, di nuovo in terra francese e stavolta anche profondamente euromediterranea. E sono tanti, tantissimi, i bambini che ha furiosamente travolto mentre mieteva decine e decine di vite di molte nazionalità e di diverse fedi, compresa la sua – musulmana – che non pare abbia mai professato con particolare intensità o addirittura con fanatismo. Ma tanto basta. Perché basta, e basterà sempre, il sangue per fare il terrorista. E tanto più se il sangue è sparso nella maniera che gli strateghi del jihad wahhabita predicano, e che noi continuiamo ostinatamente a non aspettarci, a non voler neppure concepire, in luoghi che pensiamo giustamente sorvegliati e, come in questo caso, attraverso le "non-armi" della quotidianità: gli strumenti del lavoro e del servizio reciproco, un camion, appunto, o un'auto o anche solo una moto, per la strada, in una piazza, dentro a un giardino... Situazioni e modi che incidono nella memoria collettiva il sospetto che può riempire di angoscia e paralizzare, che può rinchiuderci nelle case, nelle incertezze, nella voglia di vendetta. Che rende soli, spaventati, furenti. Dovremo perciò essere lesti – e per primi noi cronisti – a strappare via quella tunica dalle spalle di Bouhlel. Dovremo essere decisi nel resistere alle tentazioni del vedere nemici dappertutto, per scoprire la verità della propaganda dei boia miscredenti che si dicono fedeli al Misericordioso e, insieme, la verità della vita di un assassino che ha tramutato in incubo la notte di celebrazioni del 227° anniversario della presa della Bastiglia. Non dobbiamo regalare nessuno, proprio nessuno, nemmeno questo indemoniato omicida, a un nemico che pretende di armare contro di noi le nostre debolezze, le nostre ingiustizie, le nostre fobie, le nostre paure. Continueremo a scriverlo e a cercare di viverlo con tutta la semplicità e la forza necessarie: la sfida lanciata dal terrore si affronta e si vince con la stessa unità, la stessa consapevolezza e la stessa altezza morale e spirituale messe in campo, qui in Italia, negli anni che abbiamo chiamato "di piombo", da uomini e donne di diverse idee e di stessa civile umana convinzione. È bene averlo chiaro: i signori dell'odio e del terrore vogliono sradicare quelli come noi (tutti «nazareni», «crociati» o «perduti» a causa dell'«educazione occidentale», nel lessico del jihad) dalle terre dove domina la loro versione dell'islam e sognano che noi facciamo altrettanto, rifiutando e cacciando i "diversi" che non sono e non saranno mai tutti come loro. Vorrebbero vederci smontare brutalmente i lenti (e imperfetti, ma indispensabili) processi di costruzione di una società interculturale e chiudere nel rancore quello straordinario laboratorio di integrazione delle differenze che è l'Europa (che deve invece ritrovare la sua via comunitaria). Ma loro si sbagliano e noi non possiamo sbagliare. Non possiamo, cioè, rinunciare a vivere insieme, a trovare salde parole comuni, a costruire una convivenza pacifica che nessuno esclude. Perché l'arma decisiva contro l'odio letale non è la separazione dei mondi, ma la parte migliore di ciò che noi europei – cristiani, ebrei, laici e di ogni altra fede e visione, musulmani compresi – siamo e non possiamo smettere di essere se non consegnandoci alla sconfitta più totale. Per questo, nella notte di Nizza e nel giorno che è seguito, «forte come la morte» – la morte ingiusta che un uomo furioso chiamato Bouhlel ha portato ai suoi concittadini francesi ed europei – è stata la scelta di vita dei tanti che hanno aperto le porte dei loro locali e delle loro case e che hanno spalancato i portoni delle Cattedrale e di altre chiese ai tantissimi che cercavano riparo, conforto e ragioni per sperare. Porte aperte nell'urgenza, nella solidarietà, nella risposta a un atroce insensatezza, nella fiducia che unisce. Nonostante il male, in faccia al male. Senza badare al color della pelle e ai segni indossati, badando solo a ciò che faticosamente e generosamente siamo e vogliamo continuare a essere. Fedeli, oso pensare, a un respiro comune e a uno sguardo profondamente cristiani, eppure non solo nostri. Strappando via la tunica dell'incubo.
Repubblica 16
La guerra civile della Francia
di Bernardo Valli


DIETRO la brutalità dell’azione terroristica, manifestatasi ancora una volta poche ore fa a Nizza, si nasconde una manovra che sta portando la Francia sull’orlo di una guerra civile. Sarebbe azzardato usare di propria iniziativa quest’ultima, catastrofica espressione — guerra civile — se a servirsene non fosse stato un qualificato esperto nella materia.
PATRICK Calvar, capo dei servizi segreti interni (Dgsi), ha dichiarato di recente davanti alla commissione di inchiesta parlamentare sul 13 novembre a Parigi (la strage del Bataclan) che per lui ulteriori attentati avrebbero condotto a un confronto tra comunità. A sua conoscenza, alcuni gruppi (di estrema destra) erano pronti a rispondere al terrorismo islamista con un’identica violenza rivolta contro la comunità musulmana. La quale conta in Francia tra i sette e gli otto milioni di uomini e donne. La cifra non è ufficiale perché i censimenti per religione o per origine etnica sono proibiti.
Patrick Calvar aveva già detto con chiarezza, in una precedente occasione davanti alla commissione difesa dell’Assemblea Nazionale, che se ci fossero stati ancora uno o due attentati l’urto sarebbe stato inevitabile. La Francia avrebbe conosciuto in tal caso una situazione simile a quella degli anni di piombo italiani. «Noi siamo sull’orlo di una guerra civile», ha ribadito, sicuro di sé, il capo dei servizi segreti francesi.
La strage di Nizza potrebbe realizzare il non rassicurante pronostico di Patrick Calvar. Ma abbiamo imparato che gli 007 non sono infallibili e benché dotati di strumenti efficaci e di colleghi super specializzati, a volte, per nostra fortuna, si sbagliano. Anche se sono sinceri quando formulano le loro diagnosi. La nostra è una strana e rischiosa epoca, affidata alla finanza e all’intelligence. Per le quali spesso il virtuale e il reale si confondono. Anche a questo è dovuto il nostro quasi perpetuo stato di ipertensione o di isterismo. A volte capita di sognare il sesterzo e le legioni romane con i calzari e le catapulte. L’intelligence, come la finanza, ci raffigura delle ombre.
La strage di Nizza ha aggiunto un nuovo orrore: e, se non sfocerà in una guerra civile, sta già sconvolgendo il panorama politico francese. E di riflesso gran parte di quello europeo. Il terrorismo instilla nella società fratture che rischiano di essere irreversibili.
Non di rado compiute da giovani psicopatici o piccoli pregiudicati convinti di trovare nella morte, nella propria e in quella degli altri, quel che hanno cercato invano nella vita, le azioni dei kamikaze provocano le estreme destre islamofobe affinché reagiscano: sconvolgano le società democratiche e accendano guerre civili mortali per i crociati, gli ebrei e gli infedeli in generale. Ma non è detto che la loro manovra, compiuta o tentata spesso inconsciamente, riesca e che si arrivi a un conflitto tra comunità, come dice il capo dei servizi segreti. Quel che adesso si profila è invece il già annunciato successo del Front National di Marine Le Pen. La quale rappresenta la crescente massa di estrema destra, non quella violenta ma quella populista destinata a fare da ammortizzatore.
I terroristi danno così obiettivamente il loro voto al Front National. E la comunità musulmana rischia di essere governata domani da un partito islamofobo. Quella convivenza assomiglierebbe a una guerra civile. Prima di Nizza si intravedeva, per le presidenziali francesi di primavera, un successo di Marine Le Pen al primo turno e una sua sconfitta al ballottaggio di fronte al moderato Alain Juppé, preferito anche dalla folta schiera dei delusi dal socialista François Hollande. La figura fino a poche ore fa rassicurante di Alain Juppé, sindaco di Bordeaux dai modi garbati e dalle dichiarazioni sensate, è all’improvviso impallidita. Col montare della collera, della paura, dell’incertezza, Juppé è entrato nell’ombra ed è rispuntato Sarkozy che in fatto di populismo non sfigura troppo davanti a Marine Le Pen. Il duello presidenziale di primavera potrebbe essere riservato a loro, grazie anche al massacro della Promenade des Anglais. L’autore della strage non è ancora classificabile se ci si affida alla forte polemica che oppone due studiosi dell’Islam, Gilles Kepel e Olivier Roy. Il primo, Kepel, professore a Scienze Politiche, punta sul carattere religioso del movimento islamista. Roy, professore all’Università internazionale di Firenze, sostiene che la religione sia un pretesto. Uno parla di islamizzazione del radicalismo. L’altro di radicalizzazione dell’islamismo. E si affrontano, a volte insultandosi, creando due scuole di pensiero, anche se le loro posizioni appaiono spesso complementari.
Secondo gli amici, il terrorista tunisino di Nizza non recitava le preghiere quotidiane, non andava alla moschea e beveva alcol. Ma ha ucciso ed è morto seguendo gli insegnamenti promulgati il 9 giugno 2014 dal portavoce del “califfato”, Abu Mohammed Al-Adnani.
I quali dicono: «Colpite la sua testa con una pietra, sgozzatelo col suo coltello, schiacciatelo con la sua automobile, gettatelo da un burrone, strangolatelo o avvelenatelo ». Il tunisino di Nizza ha ottemperato a uno di quei precetti: ha schiacciato gli infedeli, uomini, donne, bambini in festa, con il suo camion. E ha ubbidito ai consigli che dicono « strappa il tuo biglietto per la Turchia, il firdaws (ultima tappa prima del paradiso) è davanti a te, convinci qualche mascalzone e trova un’arma in qualche sobborgo». È un invito ad agire nel paese in cui ti trovi, senza raggiungere lo “stato islamico”. E lui, il tunisino di Nizza ha seguito anche questa direttiva, impartita dall’Islam jihadista. Alcune sue caratteristiche corrispondevano al modello indicato da Kepel, altre a quello di Roy. Il quale vede il jihadismo come una rivolta generazionale e nichilista, che si è ammantata di islamismo.
Repubblica 16.7.16
Perché è così difficile fermare “i folli di Dio”
di Renzo Guolo


L’autore della strage di Nizza, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, non era sotto lo sguardo dei servizi francesi. Per lui nessuna “ fiche S”, la schedatura che conduce alla lunga lista , oltre10mila in Francia, dei radicalizzati da sorvegliare a diversi livelli. Bouhlel era invece conosciuto dalla polizia per reati comuni. Come molti altri protagonisti dello jihadismo francese non era particolarmente religioso: non aveva osservato nemmeno l’ultimo Ramadan. Cosa l’ha trasformato in
chaffeur del terrore? Il fallimento del matrimonio, i recenti guai giudiziari, che pure non avevano prodotto carcerazione?
Oppure l’incontro con elementi radicalizzati della città, provenienti dagli stesso quartieri nord a edilizia popolare che hanno fornito negli ultimi anni un centinaio di foreign fighters all’Is o Al Qaeda ?
Scavare nella sua biografia consentirà di capire meglio. Resta il fatto che l’ideologia islamista radicale è ormai strumento a disposizione dei molti, spesso disperati per motivi diversi, che se ne servono per riscattare il fallimento di una vita.
Abbandonato dalla famiglia, in difficoltà sul lavoro, privo di prospettive, caduto in depressione, un individuo può trasformarsi in “lupo solitario” trovando giustificazione alla propria autodistruzione, e alla drammatica morte data agli altri, in nome della “causa di Dio”.
Certo, simili spiegazioni non valgono per quanti abbracciano lucidamente la jihad, in nome di una concezione del mondo e di una tassonomia del Nemico ben definite ideologicamente. Ma questo non rende certo meno pericoloso lo scenario. Anzi , la trasformazione di soggetti psicologicamente fragili in nuovi “ folli di Dio”, aggrava il quadro. Poiché mette nell’angolo le tradizionali tecniche di contrasto tipiche degli organismi di intelligence e di polizia, fondate sul principio dell’analisi dell’agire razionale rispetto allo scopo, solitamente adottate nei confronti dei gruppi politicizzati e coesi.
Qui, invece, l’ uomo senza passato diventa pericoloso perché, improvvisamente, maneggia un’ ideologia capace di legittimare le sue scelte omicide.
Un’ideologia che, considerando nemico chiunque ricada in determinate categorie l’occidentale, il “ musulmano” tiepido, il credente di altre fedi- consente di colpire ovunque e in ogni momento: non solo nelle giornate a alto valore simbolico come la festa della Repubblica. Rendendo tragica realtà quella jihad della vita quotidiana che dilata all’estremo lo scontro tra l’Islam radicale e tutto ciò che non lo è.
Così Nizza può essere, al contempo, la città di Omar Diaby, meglio noto come Omar Omsen, ex-delinquente comune che una volta uscito dal carcere dove si radicalizza, comincia a predicare nella periferia di Bon Voyage, diventa l’autore di una serie di video, noti con la sigla 19HH che ne faranno una star del webIslam radicale, riunisce attorno a sé un nucleo di simpatizzanti che qualche anno dopo lo seguiranno in Siria , dove prima nelle fila dell’Is, poi in quelle di Al Qaeda, comanderà la brigata francofona e combatterà la sua iperpolitica e consapevole jihad trovando, apparentemente, la morte in battaglia. E la città dello sconosciuto uomo qualunque Bouhlel che pure, d’ora in avanti, avrà un posto d’onore nel pantheon dei “martiri jihadisti” e che, forse, prima di essere crivellato dai colpi sparati sul parabrezza avrà pensato alla Promenade come la strada che conduceva finalmente all’agognato Paradiso. O, se non altro, alle fine di quell’inferno umano che, lanciando il tir tra la folla, ha inflitto anche alle sue vittime.
Corriere 15.7.16
Il tunisino era in Francia dal 2011. Precedenti penali, ma nessuna segnalazione all’antiterrorismo. Interrogata la moglie
Il killer
Violento, depresso e pieno di debiti così Mohamed ha trasformato i suoi demoni nell’orrore omicida
di Carlo Bonini


NIZZA. Chi era davvero Mohamed Lahouaiej Bouhlel? Quale demone ha trascinato questo giovane uomo nato il 31 gennaio del 1985 a Msaken, periferia della tunisina Sousse, al volante di un Tir bianco per farne il nuovo osceno detentore del trofeo di vite umane cancellate da un solo uomo, in un solo luogo, in un solo momento? Dove, insomma, in questo orrore, finiscono la sociopatia e la deriva psicotica e cominciano la religione, il culto mortifero e macabro della parola del Profeta? Oggi, del passato di un uomo che sembra non averne, neppure negli archivi dell’Intelligence per i quali era «un assoluto sconosciuto » , resta un’unica traccia. Nei cinque chilometri e mezzo di strade a gomito che, come una mezza luna, collegano una stamberga al primo piano di Route de Turin, nel quadrante orientale della città, ai dodici piani del falansterio all’8 di Boulevard Henri Sappia, quartiere popolare aggrappato alla collina che guarda la vecchia Nizza e che è tagliato dall’autostrada A8.
In Route de Turin, un anno e mezzo fa, era finito spiaggiato da debiti e pendenze giudiziarie l’uomo che si sarebbe fatto mostro. In Boulevard Henri Sappia, era naufragato in un abisso di collera e violenza il ragazzo padre di tre figli piccoli incapace di tenere insieme il matrimonio con una giovane moglie franco-tunisina, ieri interrogata, che diceva di amare e per la quale, con la contrarietà del padre, un islamista radicale, era arrivato a Nizza dalla Tunisia nel 2011.
Rashid, un maschietto di 14 anni con la maglia del Paris Saint-Germain, indica la porta di legno leggero che affaccia su un lercio pianerottolo al dodicesimo piano del blocco “Bretagne C” in Boulevard Henri Sappia. Esattamente in cima a un’ultima rampa di scale dal corrimano laccato rosso. Rashid spiega di ricordarle ancora le grida di Mohamed. Quasi quanto i suoi muscoli, coltivati ossessivamente in palestra. «Picchiava la moglie. La picchiava spesso. Urlava. Soprattutto nell’ultimo periodo, prima di separarsi». Già, quel giorno, quello in cui si richiuse la porta alle spalle, imbrattò della sua merda l’appartamento, defecando dove poteva e fin quando non ne ebbe più. Quindi, squartò con un coltello gli orsacchiotti di pelouche della figlia più piccola, per poi fare a pezzi i materassi del suo letto matrimoniale e quelli dei suoi bambini. Poi sparì. Salvo cominciare a ripresentarsi saltuariamente con i modi e il fare gentile del padre separato che viene a trovare i suoi figli in attesa della sentenza di divorzio. Maxim, un condomino sulla quarantina, ne parla accarezzando la testa dei suoi due bambini maschi. «Mohamed? Certo che lo conoscevo. Parlavamo spesso della scuola dei suoi e dei miei ragazzi. E posso dirti che quello che ha fatto alla Promenade con la religione e l’Islam non c’entra nulla. Se proprio dovessi dire, aveva un solo problema. Finanziario. Negli ultimi tempi se la passava male. Insomma, Mohamed beveva, non rispettava il Ramadan. Gli piaceva andare a ballare la salsa. Era sempre profumato» . Né si vedeva mai in moschea, a sentire la locale “Association culturelle Nice nord” per l’integrazione religiosa e razziale. Un luogo non lontanto da boulevard Henri Sappia, dove Mohamed era conosciuto. Ma proprio per l’assenza di qualsiasi passione che ricordasse la sua fede, piuttosto che la sua terra di origine.
Un musulmano secolarizzato, insomma. Che aveva trovato un lavoro saltuario da autista e, qualche mese fa, aveva ottenuto l’abilitazione alla guida di mezzi pesanti. Un depresso che alternava picchi di gentile e sincera euforia a scostanti silenzi, a scoppi di collera incontenibile e violenta. Come quello che, il 24 marzo scorso, gli era valso una condanna sospesa a sei mesi di reclusione per lesioni, dopo aver gonfiato con una mazza da baseball due fratelli per un banale tamponamento. Come quelli per cui si era fatto notare dai suoi nuovi vicini di casa, al primo piano di Route de Turin, il suo ultimo domicilio, quello sfondato dai piedi di porco della polizia giudiziaria ieri mattina. E dove, a un certo punto, si era informato se fosse possibile “affittare” una seconda buca delle lettere. Dio solo sa perché. Anche se un perché, evidentemente, doveva esserci.
Fonti di polizia e intelligence sostengono che dalla casa di Route de Turin, insieme a un computer portatile e uno scatolone di carte, siano usciti indizi che fanno dire al primo ministro Manuel Valls che la storia di Mohamed non sia solo affare psichiatrico. Che c’entri l’islamismo radicale in questo orrore. Che i legami tra Mohamed e lo jihadismo esistano. Eccome. E non solo per il “format”. Ma per la rete, il contesto di frequentazioni, che quest’uomo alla deriva si era messo a bazzicare, a cui lo stesso Procuratore di Parigi Francois Molins ha fatto ieri riferimento indiretto e che, in qualche modo, lo avrebbe accompagnato ed eccitato nell’incubare la sua spaventosa uscita di scena. Uno scenario che lascia singolarmente tiepido il ministro dell’Interno francese Bernard de Cazeneuve («Mohamed era legato allo jihadismo? No», ha detto rispondendo ieri alle domande di un’intervista televisiva), ma che calzerebbe come un guanto con la più spaventosa e per certi aspetti realistica delle previsioni che l’Antiterrorismo francese va facendo da tempo. Che esista un secondo stadio, una sorta di evoluzione “finale” e “definitivamente asimmetrica” del Terrore seminato dai cosiddetti “lupi solitari”. Quello che li vorrebbe “neutri”, impermeabili nei modi e nelle parole (quantomeno quelle pubbliche) al “radicalismo islamista”, che è poi primo e unico degli indizi che, in qualche modo, li rendono riconoscibili alla comunità in cui vivono prima ancora che ai poliziotti che dovessero avere la fortuna o l’intuito di individuarli. Che li vorrebbe dunque “fantasmi”, estranei a qualsiasi forma di censimento preventivo (come sono in Francia le cosiddette fiches “S”, le segnalazioni che accompagnano i profili ritenuti a rischio) di fronte anche alla più occhiuta e penetrante delle polizie di prevenzione. Consegnandoli tutt’al più, come era del resto accaduto a Mohamed, a piccoli precedenti penali. Violenza, armi. Quelli che, ancora oggi, fanno dire all’avvocato Corentin Delobel, suo legale nel processo per rissa dell’inverno scorso, che «nulla avrebbe mai fatto immaginare che quell’uomo potesse commettere atti di tale disumanità». E a suo padre, Mohamed Mondher Lahouaiej Bouhlel, che suo figlio, di cui aveva perso i contatti da cinque anni, «aveva un solo problema. La depressione. Ne soffriva dal 2002. Prendeva dei farmaci».
Corriere 16.7.16
Lo stato laico e le mani dell’esercito
di Antonio Ferrari


Come è già accaduto più volte nel passato, i custodi laici della Turchia, gli amati militari ai quali il fondatore della Repubblica Mustafà Kemal Ataturk aveva affidato i destini del Paese, probabilmente sono usciti dal silenzio per rivendicare il loro ruolo. È presto per dire cosa succederà, ma certo i segnali che giungono da Ankara, da Istanbul e dall’Anatolia più profonda sono inquietanti. La Turchia è in bilico e i generali non tollerano che il Paese vacilli pericolosamente.
Il problema non sono i gravi incidenti delle ultime ore, ma la profonda e gelida rabbia di gran parte delle Forze Armate, prima allontanate, poi ricoinvolte nel tentativo di correggere i madornali errori dell’esecutivo politico, guidato dal presidente Recep Tayyip Erdogan. Il governo cerca di sminuire, attribuendo le colpe a un gruppo di militari ribelli, ma è impossibile non cogliere il risentimento di una delle istituzioni storiche della Turchia.
Le Forze armate sono da sempre la garanzia della laicità dello Stato. Con indubbie forzature, travalicando le regole di una moderna democrazia. Comunque pronte ai passi più estremi per difendere il potere secolare della Repubblica. Nel passato è accaduto più volte che i generali imponessero la fine delle divisioni politiche, obbligando con la forza il ripristino delle regole. Fui testimone diretto dell’ultimo colpo di stato militare, condotto dal generale Kenan Evren, poi nominato presidente della Repubblica. E per la prima volta assistetti a sviluppi davvero incredibili. Quando Evren propose radicali modifiche della Costituzione, che di fatto limitavano la libertà dei connazionali, il risultato fu quasi plebiscitario: non per costrizione, ma per convinzione. Persino nei circoli più a sinistra, a cominciare dal giornale Cumhuriyet , erano in tanti a difendere le modifiche imposte dalla giunta.
Il colpo di stato si realizzò nel 1980, perché il Paese era sfibrato dal terrorismo, con centinaia di morti ogni settimana. Dopo tre anni e mezzo furono gli stessi militari a favorire il ripristino della democrazia, come più volte era accaduto nel passato, affidando il potere a un nuovo partito moderato, la Madrepatria, e al suo leader Turgut Ozal.
Vi fu un successivo colpo di Stato, ma visto che non vi erano carri armati per le strade fu definito «golpe post moderno». Lo condusse la società civile, senza che i militari dovessero intervenire. Tutto cominciò con un incidente stradale, forse provocato ad arte, il 3 novembre del 1996 a Susurluk, quando si scoprì il legame fra un deputato del primo ministro Ciller, un esponente dei lupi grigi, una ballerina, e il capo della polizia di Istanbul. La gente, infuriata, protestò civilmente, accendendo e spegnendo le luci di ogni casa alla sera, per dimostrare la propria rabbia. Il governo cadde, senza intervento militare, e cominciò quella fase di ingovernabilità che avrebbe portato, dopo l’inizio del terzo millennio, all’ascesa inarrestabile di Recep Tayyip Erdogan.
Quello che sarebbe diventato il nuovo sultano, e che allora sembrava un giovane leader coraggioso e realistico, fu capace di offrire l’immagine di un Paese diverso, e di sedurre l’Unione europea, che si preparava a offrirgli di diventarne un membro effettivo. Pur di mantenere gli impegni Erdogan fu pronto a ridurre il potere dei militari, riducendo ad appuntamento formale l’incontro periodico della conferenza che di fatto rappresentava la presenza, e quindi il placet, delle stellette sulle decisioni dell’esecutivo.
Sappiamo poi che cosa è accaduto. Le derive antidemocratiche del leader, diventato presidente della Repubblica, la ferocia della repressione contro oppositori, giornalisti e istituzioni disobbedienti hanno fatto il resto.
Nelle ultime settimane pareva fosse accaduto un quasi miracolo. Il nuovo primo ministro pareva orientato a correggere errori clamorosi, imponendo pace con la Russia, atteggiamento morbido con gli Stati Uniti e con tutti gli alleati della Nato, mano tesa al nemico giurato, il siriano Bashar Assad, quasi un clima di equilibrio ritrovato. Ma forse non era così, anche se le ultime notizie ci dicono che i movimenti golpisti potrebbero essere perfino una manovra del regime. Chissà. A noi Erdogan dà l’impressione d’essere un Ceausescu anticomunista. Sappiamo che fine fece il dittatore romeno.
Corriere 15.7.16
La guerra del Kosovo I dilemmi di D’Alema
risponde Sergio Romano


Dalla fine del Secondo conflitto mondiale l’Italia non ha partecipato direttamente a nessuna guerra, eccettuata quella del Kosovo, l’ultima combattuta nei territori della ex Jugoslavia, al tempo del governo D’Alema. C’era la copertura formale dell’Onu, ma in realtà l’intervento era sotto l’egida della Nato. Anche allora, come in tutte le altre situazioni di emergenza, non sarebbe stata migliore scelta per noi la linea della «non belligeranza»? Siamo nell’ambito della storia controfattuale, tuttavia solo con essa chiariamo e comprendiamo meglio il passato. Per lei l’intervento diretto del nostro Paese era proprio necessario e giustificato?
Mattia Testa

Caro Testa,
Per la verità l’Italia aveva già rinunciato al suo dogma pacifista nel 1991 quando aveva partecipato con una squadra navale e alcuni Tornado alle operazioni contro l’Iraq durante la prima guerra del Golfo. Ma il suo impegno nel conflitto contro la Serbia nel 1999 fu indubbiamente maggiore. Aggiungo che non vi fu in quella occasione la copertura dell’Onu, dove la Russia avrebbe certamente frapposto il suo veto. L’operazione fu interamente gestita dalla Nato sotto la guida degli Stati Uniti e la guerra, per Massimo D’Alema, fu indubbiamente una sorta di prova del fuoco. Nel libro-intervista scritto con Federico Rampini ( Kosovo , Mondadori 1999), ammise esplicitamente che «doveva passare degli esami. Mi infastidiva, ma era così. Partivo con un vantaggio, almeno all’interno dell’Unione Europa: per la mia lunga frequentazione dei socialisti europei conoscevo bene molti capi di governo e di alcuni ero anche amico. Il mio grande problema era il rapporto con gli Stati Uniti, il loro giudizio». Doveva dimostrare a Washington (il presidente era Bill Clinton) che un ex comunista poteva essere non meno «alleato» dei presidenti del Consiglio che lo avevano preceduto a Palazzo Chigi.
Sulle singole responsabilità del conflitto, invece, occorre fare qualche distinzione. Quando la Nato approvò l’«activation order», con cui veniva autorizzata una campagna di bombardamenti aerei sulla Serbia simile a quella realizzata nel 1995 sulla Bosnia, gli europei erano convinti che Slobodan Milosevic, dopo qualche bomba, avrebbe accettato un accordo per l’autonomia del Kosovo. Ma i kosovari dell’Uck (il loro esercito di liberazione) volevano l’indipendenza, godevano delle simpatie del segretario di Stato americano Madeleine Albright, ed erano decisi a soffiare sul fuoco per impedire qualsiasi compromesso. Come sempre accade in queste circostanze, nel campo serbo esisteva un partito non meno inflessibile e i due nemici divennero alleati all’insegna del tanto peggio tanto meglio. La strage di Racak (il villaggio in cui furono uccisi 45 kosovari) e l’espulsione dei kosovari albanesi dalla loro regione finirono per giustificare un conflitto in cui il peso politico degli europei divenne col passare del tempo sempre più irrilevante. Non credo che D’Alema in quel momento avrebbe potuto adottare una linea diversa da quella che gli fu imposta dalle circostanze.