sabato 26 maggio 2012

Repubblica 26.5.12
La Glasnost di San Pietro
di Adriano Prosperi


C’è una curiosità speciale, un po´ pettegola e un po´ maligna, che circonda le storie che arrivano dal fondo dei palazzi vaticani. Questa volta si tratta del maggiordomo: e se è vero che nessun grand´uomo è tale per il suo maggiordomo, è fatale che a soffrirne sia la stessa maestà della figura del Pontefice.
Il che si riflette sulla realtà italiana. Se gli inglesi si appassionano a tutto quello che riguarda la famiglia reale, a noi italiani tocca appassionarci e dividerci sulle vicende vaticane. Dalle logge di quel palazzo che si affaccia sul maestoso colonnato berniniano ci arrivano nobili avvertimenti morali e paterne reprimende, solleciti richiami al Dio dei cristiani e inviti ad affidarci alla robusta guida della Chiesa, voltando le spalle alle incertezze del relativismo e della fragile ragione umana. Ma dai piani bassi filtrano storie e voci di tutt´altro sapore. A quelle storie noi italiani dobbiamo prestare attenzione. Quelle storie ci riguardano per una semplicissima ragione: la condizione di prossimità fisica, di intreccio quotidiano negli spazi della nostra capitale tra fatti del Vaticano e fatti italiani. I dati storici sono evidenti: il più bel palazzo reale del mondo, il Quirinale, è stato il palazzo del sovrano pontefice fino al 1870, che non è poi una data tanto remota. E non è venuta meno da allora l´abitudine dei pontefici a esercitare una speciale sovranità sull´Italia. Così accade da secoli.
A questa condizione che abbiamo definito di prossimità fisica si è aggiunto l´intreccio speciale creato dal Concordato del 1929 e dalla sua ricezione nella Costituzione repubblicana. In un amaro commento alla Costituzione Piero Calamandrei dimostrò come i diritti affermati solennemente dalla nostra Carta fossero insidiati e inficiati da un tarlo che ne rodeva e riduceva l´efficacia: accanto allo stato sovrano, sopra di esso, si levava una sovranità altra, in grado di imporre i suoi criteri di misura e le sue norme, crivellando di eccezioni quella regola fino a farla diventare un´astrazione. Accanto ai diritti, la politica: e qui si può dire che la storia della Chiesa e la storia dell´Italia del ´900 sono strettamente legate e che il racconto dell´una non può prescindere dal racconto dell´altra. Parliamo della Chiesa come autocrazia sacra piantata nel cuore dello Stato italiano, legata alla nostra Repubblica democratica da un vincolo tanto profondo quanto malsano.
E quanto sia malsano basta a mostrarlo qualcuno dei documenti pubblicati dal giornalista Luigi Nuzzi nel libro "Sua Santità": si pensi al caso Boffo che ha colpito in modo devastante lo scenario politico italiano. Bene, quel caso è nato in Vaticano: da lì è partito il documento che ha avvelenato la nostra vita civile e politica. Ne è nato l´infame "metodo Boffo" subito applicato e generalizzato dal malcostume della politica berlusconiana. La politica è il problema: quella papale e quella italiana, oggi ambedue cadute molto in basso ma pur sempre avviluppate insieme da mille nodi. Sono nodi che nessuno si decide a tagliare: perché si suppone che ci sarà sempre bisogno dell´Italia in Vaticano e ci sarà sempre bisogno dell´appoggio del Vaticano per vincere la partita in Italia. Machiavelli in un passo celebre definì sarcasticamente lo Stato papale come retto da cagioni superiori alle quali la mente umana non poteva arrivare. Voleva dire esattamente il contrario: le leggi della lotta per il potere funzionano anche nelle penombre sacrali di quelli che vengono definiti "palazzi apostolici".
Non ce ne scandalizziamo. Ma resta il fatto che là ci si regola in modi diversi da quelli di un´Italia che con tutti i suoi problemi resta una grande democrazia moderna: le lotte per il potere e le strategie per il suo esercizio che gli uomini di quello Stato condividono con ogni altra realtà politica vengono filtrati attraverso i dispositivi di un segreto ammantato di sacralità. E´ forse il caso di ricordare la parola d´ordine con cui fu avviata la trasformazione di un altro Stato dove un potere autocratico retto da una fede speciale si circondava di segretezza: "Glasnost", trasparenza.

La Stampa 26.5.12
Vaticano, gli scontri di potere
Trame, finanza e “spie”: l’annus horribilis del Papa
Dagli scontri per destituire il segretario generale Viganò all’operazione San Raffaele: dopo gli scandali pedofilia del 2010, gli ultimi 12 mesi sono stati i peggiori per la Santa Sede
di Andrea Tornielli


CITTÀ DEL VATICANO Ci mancava soltanto il più classico dei finali da romanzo giallo, con il maggiordomo colpevole. L’ultimo, clamoroso capitolo dei misteri vaticani è arrivato a meno di ventiquattr’ore di distanza dalla destituzione del presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi: le indagini interne hanno «permesso di individuare una persona in possesso illecito di documenti riservati». Il «corvo» dei vatileaks, secondo gli inquirenti vaticani, avrebbe un nome e un cognome, l’aiutante di camera Paolo Gabriele. Anche se le fonti vaticane dicono che non è finita, e nuovi colpi di scena sarebbero in arrivo.
Qualcuno aveva considerato il 2010 era stato come l’annus horribilis di Benedetto XVI, per lo scandalo della pedofilia. Il Papa aveva pronunciato parole drammatiche e terribili sulla «persecuzione» contro la Chiesa che non arriva da nemici esterni, ma «dal peccato dentro la Chiesa». Sono stati però gli ultimi dodici mesi quelli più difficili per la Santa Sede. Sospetti, «corvi», lettere anonime, scontri, tensioni a tutti i livelli, fughe pilotate di documenti. Tutto era cominciato l’estate scorsa con il clima avvelenato all’interno Governatorato vaticano, dov’era in atto un braccio di ferro tra il segretario generale, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò e i suoi superiori intenzionati destinarlo ad altro incarico, com’è poi avvenuto. Viganò, fautore di una politica di tagli e risparmi – clamoroso quello sul costo del presepio di Piazza San Pietro, arrivato a costare mezzo milione di euro – aveva accusato un monsignore dei Musei Vaticani di complottare contro di lui e riteneva di aver individuato il suo grande avversario in Marco Simeon, giovane e (allora) potentissimo manager passato dagli uffici di Mediobanca a quelli della Rai grazie all’appoggio del Vaticano. Viganò, alla fine ha lasciato Roma e ora fa il nunzio negli States. Mentre Simeon è diventato un personaggio ingombrante per tutti, a cominciare dai suoi veri o presunti sponsor con la porpora.
Negli stessi mesi del 2011 un’altra delicata partita si giocava Oltretevere: lo Ior presieduto da Ettore Gotti Tedeschi, con il consenso dello stesso Bertone, si era impegnato nel salvataggio dell’ospedale San Raffaele di Milano. Operazione guidata da Giuseppe Profiti, manager della sanità, ma considerata rischiosa e inopportuna sia dal presidente della Cei Angelo Bagnasco, sia dal cardinale Angelo Scola, appena nominato arcivescovo di Milano. Alla fine il Vaticano si è ritirato dalla partita.
Nel dicembre scorso, un altro braccio di ferro interno, questa volta legato alle norme antiriciclaggio che la Santa Sede deve adottare per entrare nella white list dei Paesi virtuosi. La prima legge, scritta dall’avvocato Marcello Condemi, già autore delle normative sulla trasparenza italiane, aveva istituito l’Autorità di Informazione Finanziaria (Aif), alla quale venivano interamente affidati i compiti di vigilanza sulla «finanza vaticana». Alla fine del 2011, per meglio adeguarsi agli standard internazionali, la Segreteria di Stato e il Governatorato avevano rimesso mano alle norme, modificandole notevolmente. Il cardinale Attilio Nicora, presidente dell’Aif, non aveva approvato quello che giudicava un ridimensionamento dell’organismo di controllo. E il presidente dello IOR Gotti Tedeschi, clamorosamente destituito due giorni fa dal board della banca vaticana, l’aveva spalleggiato.
All’inizio di quest’anno, tutte le carte e i documenti relativi alle vicende sopra esposte, finivano prima in tv, rese note dalla trasmissione «Gli Intoccabili» condotta da Gianluigi Nuzzi, e contemporaneamente sulle pagine del «Fatto Quotidiano». «Memo», email, documenti riservatissimi scritti appena poche settimane prima svelavano all’opinione pubblica i retroscena del caso Viganò e le sue missive riservate al Papa e al cardinale Bertone, ma anche il dibattito interno al mondo finanziario vaticano, insieme ai «voti» segreti relativi alla nomina di Scola a Milano. La dialettica interna al Vaticano veniva messa in piazza quasi in tempo reale. I vatileaks – il neologismo è stato tenuto a battesimo dal portavoce padre Federico Lombardi – sono andati avanti per mesi.
L’ultima bomba la scorsa settimana, con la pubblicazione del libro «Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI», il libro di Nuzzi che mette in fila vecchi e nuovi vatileaks. E pubblica per la prima volta anche i fax inviati dall’ex direttore di «Avvenire» Dino Boffo al segretario del Papa Georg Gänswein, nei quali attribuiva al direttore de «L’Osservatore Romano» Gian Maria Vian un ruolo significativo nella vicenda che tre anni l’aveva coinvolto e portato alle dimissioni: la campagna del «Giornale» per una storia di molestie a sfondo omosessuale basata su una «velina» rivelatasi poi infondata.
L’atmosfera Oltretevere appare sempre più avvelenata anche in vista del possibile cambio del Segretario di Stato Bertone che nel dicembre 2012 compirà 78 anni. Anche se quanto è finora emerso in realtà scredita l’intero Vaticano che sembra ripiombare negli anni più bui, e finisce per colpire Benedetto XVI, un Papa da tanti ritenuto di transizione ma che continua invece a regnare nonostante i «corvi» che lo circondano.

La Stampa 26.5.12
John Allen, da New York
“Una lotta tra correnti che può essere sintomo di una crisi di governo”
di Paolo Mastroililli


«C’è una disputa politica tra chi sta con Bertone e chi è contro di lui»
«C’è il rischio che sia solo un capro espiatorio: dietro le quinte c’è chi tira i fili»

NEW YORK Mi chiedo se tutta questa vicenda possa essere davvero ricondotta solo all’aiutante di camera del Papa, oppure se non ci sia qualcuno che sta tirando i fili dietro le quinte».
John Allen è scettico. Il più accreditato analista del Vaticano negli Stati Uniti fatica a credere che l’intera questione dei documenti riservati, usciti negli ultimi mesi dalle stanze più segrete della Santa Sede, possa esaurirsi con il fermo di Paolo Gabriele.
Perché questa versione non la convince?
«Ho letto i commenti di chi avanza il sospetto che il maggiordomo del Papa possa essere solo un capro espiatorio, e li condivido. Mi chiedo se all’origine dei " Vatileaks" possa esserci solo un aiutante di camera, e non qualche alta figura ecclesiastica rimasta dietro le quinte. E’ una domanda che resta senza risposta, ma quella che è stata data finora con il fermo di Gabriele non mi convince fino in fondo».
Non potrebbe aver sottratto i documenti per motivi personali?
«Da quanto ho sentito dire, il maggiordomo è una persona molto semplice e devota. Non lo conosco direttamente, ma le informazioni che girano sul suo conto non coincidono col profilo del presunto corvo».
Lei che impressione si è fatto di questa vicenda?
«Guardandola da lontano, osservandola dall’esterno, mi sembra soprattutto una lotta interna al Vaticano tra varie correnti di potere. Ho dubbi sul fatto che tutto possa venire da un dipendente dell’appartamento pontificio; mi sembra una situazione più complessa, con interessi piuttosto oscuri dietro».
Quali sarebbero le vere parti in causa?
«La mia idea è che nella Santa Sede ci sono diverse correnti, più o meno amiche del segretario di Stato Bertone».
Quindi gli avversari di Bertone starebbero usando questi documenti per colpirlo?
«È ovvio che il Vaticano è una grande burocrazia, e in ogni grande burocrazia ci sono correnti diverse, che lottano per il potere. I documenti pubblicati vanno valutati con attenzione, perché hanno un carattere diverso: alcuni riguardano questioni generiche, altri sembrano più mirati sul piano politico. Però mi sembra chiaro che in generale questa non possa essere un’operazione casuale».
Da qui i suoi dubbi sulla responsabilità esclusiva di Gabriele.
«Mi risulta difficile spiegare tutto con il ruolo di un laico, peraltro descritto come una persona semplice, in un ambiente come il Vaticano. A meno che non sia stato reclutato da qualcuno o usato come capro espiatorio, secondo il sospetto autorevoli commentatori».
Proviamo a mettere da parte un momento i dettagli giudiziari della vicenda, e concentriamoci sugli effetti politici generali. Cosa sta succedendo in Vaticano?
«Molti sostengono, e credo giustamente, che è in corso una crisi di governo. Alcuni attribuiscono la responsabilità a Bertone, altri ai suoi avversari, ma non c’è dubbio che ci sono parecchie disfunzionalità, per dire il minimo».
Che giudizio ricava da questa storia, una persona che la osserva da lontano?
«C’è una forte preoccupazione, in tutto il mondo, che io ho avvertito parlando con tante fonti diverse. Il problema fondamentale è l’immagine della Chiesa, e soprattutto il messaggio che manda. Benedetto XVI è un pastore che sta dicendo molte cose importanti, in un tempo assai difficile. Ci sarebbe una buona novella da annunciare, a proposito dell’attività della Chiesa; ci sarebbero buone notizie da comunicare, grazie all’azione del Papa. Tutto questo, però, è ostacolato e oscurato dalle continue difficoltà che emergono in Vaticano. Il vero danno di questa profonda crisi di governo è che rende molto difficile raccontare la storia positiva della Chiesa. Al normale fedele le singole responsabilità sfuggono, o comunque non sono rilevanti. L’immagine d’insieme che ne emerge, però, è quella di un’organizzazione sempre intenta ad affrontare i suoi problemi, e quindi frenata nell’annuncio della propria missione».

La Stampa 26.5.12
Vittorio Messori
“Il solito nido di vipere Ma oggi il vero problema è la mediocrità dilagante”
di Michele Brambilla


LONATO È da una vita che frequento la storia della Chiesa e, sia pure con parsimonia, anche la Chiesa. Figuriamoci se mi scandalizzo». Vittorio Messori è nell’abbazia di Maguzzano, una meraviglia che sta fra le colline moreniche e il lago di Garda, e che la storia della Chiesa l’ha attraversata per quindici secoli, da san Benedetto a don Calabria. Qui Messori ha ricavato uno studio in cui si rinchiude quando è sotto pressione: come adesso, visto che gli restano poche settimane per consegnare a Mondadori un libro su Lourdes cui tiene moltissimo. Si intitola «Bernadette non ci ha ingannati».
Ci sta invece ingannando qualcuno in Vaticano? Chiedo a Messori che cosa può provare un cattolico praticante nell’apprendere di cardinali che si scannano fra loro, di dossier consegnati sottobanco ai giornalisti, di lettere sottratte al Papa, di intrighi bancari, di assassini tumulati con tutti gli onori. «La Curia romana», risponde, «è sempre stata un nido di vipere. Ma una volta, almeno, era la più efficiente organizzazione statale del mondo. Amministrava un impero sul quale non tramonta mai il sole, e aveva una diplomaziasenza eguali. Oggi cos’è rimasto? ».
Passeggiando nel chiostro, e poi tra gli ulivi, Messori spiega così la decadenza: «Gli ecclesiastici della Curia romana arruolavano i migliori elementi da tutte le diocesi del mondo. I vescovi avevano abbondanza di clero, e non avevano difficoltà a concederglieli. Oggi i seminari o sono chiusi, o sono semivuoti. Così, se un vescovo ha qualche prete valido, se lo tiene stretto. E il Papa è come Carlo V, il quale doveva amministrare un impero sconfinato e nella Spagna spopolata gridava: “Datemi uomini”». Ma in Africa, provo a obiettare... «Il boom delle vocazioni? Non mi faccio illusioni. In Africa si va in seminario per le stesse ragioni per cui si entrava qui quando si moriva di fame. Un modo per avere di che vivere. E poi nella cultura africana il celibato è incomprensibile, per cui la Chiesa, diciamo così, chiude un occhio. Ci sono molti preti con mogli e figli. Cosa fai, li mandi a Roma? A fare i vescovi? ».
Continua: «Lo scadimento qualitativo è evidente. Non ci sono più nemmeno latinisti all’altezza. Quando fu eletto papa Luciani, si arrivò perfino a bloccare le rotative dell’Osservatore Romano perché c’era un errore di latino nel titolo di prima pagina. Anche nelle ultime encicliche di Giovanni Paolo II ci sono errori di latino, pensa un po’».
Insomma per l’uomo che ha scritto due libri con gli ultimi due Papi «questo zoppicare della Chiesa dipende dalla mediocrità del suo personale». Ma è solo questione di incapacità? Qua sembra di essere di fronte a rancori, rivalità, avidità, cattiverie, infedeltà. «La meschinità cattiva spesso contrassegna le personalità mediocri. Chi è bravo, per emergere non ha bisogno di fare le scarpe agli altri».
Resta lo scandalo, e Gesù ha detto «guai a chi dà scandalo». C’è da perdere la fede? «No, il cristiano conosce bene la distinzione che faceva Maritain fra la Persona della Chiesa, che è santa, e il personale della Chiesa, che come ogni istituzione umana è segnata dal limite, dal peccato di ciascuno di noi. L’importante è che la Chiesa annunci il Vangelo. Se poi chi lo annuncia è santo, ringraziamo il Padreterno. Se è un mascalzone, pazienza: è comunque custode della Grazia». Ma oggi i mascalzoni non sono un po’ troppi e altolocati? «Il clero del Basso Medioevo, del Rinascimento o quello dei vescovi incipriati del Settecento era molto peggio. E poi non dimentichiamo una cosa: oggi il personale è scadente, ma la qualità del vertice non è mai stata così elevata. Dall’epoca napoleonica in poi, tutti i pontefici o sono stati canonizzati, o meriterebbero di esserlo. Non è sempre stato così».
Mi saluta con queste parole che spiegano la sua serenità: «Gesù l’aveva annunciato: “Il Figlio dell’Uomo sarà posto nelle mani degli uomini ed essi ne faranno quello che vorranno”. Lo disse all’ultima cena, ma molti esegeti e molti mistici vedono in queste parole la profezia non solo della Passione, ma anche di quello che sarebbe successo dopo. Ecco perché non mi stupisco degli scandali. Il Dio cristiano ha voluto aver bisogno degli uomini. Con tutte le conseguenze che ne derivano».

il Fatto 26.5.12
Gli scandali non finiscono qui
Benedetto XVI, il re che non controlla più la corte
di Marco Politi


L’arresto di un assistente papale per i Vatileaks è l’inizio di un nuovo capitolo disastroso per la Santa Sede. Non la fine della vicenda. Intanto rivela una drammatica vulnerabilità dell’entourage papale. Ma c’è di più. Quando si arriverà al processo contro i responsabili della fuga di documenti, Benedetto XVI potrà ringraziare il suo Segretario di Stato Tarcisio Bertone per altre ondate di pubblicità negativa a livello planetario.
L’AFFAIRE si intreccia con il caso Gotti Tedeschi. L’estrema brutalità del comunicato con cui è stato silurato il presidente dello Ior è il segno che la lotta di potere all’interno della Curia ha raggiunto un livello di parossismo impensabile. Mai era accaduto negli ambienti curiali, così felpati, che si colpisse così duramente nell’onore un uomo scelto dal Papa.
La reazione del Segretario di Stato, che fa sfiduciare pubblicamente Gotti, rappresenta la rottura di una tradizione. Nella sua violenza svela la paura di Bertone di essere scalzato dalla carica. In pari tempo la vicenda rimanda ad un pontefice debole e fragile, incapace come re Lear di tenere a bada la sua corte.
É chiaro che c’è un gruppo clandestino in Curia (non un solo maggiordomo come nei gialli) a volere un cambio di gestione al vertice. L’arma che gli oppositori agitano sono gli autogol internazionali di Bertone. In un anno il Segretario di Stato, apparente vincitore in queste ore, ha piazzato tre formidabili boomerang, tutti dannosi per l’immagine di Benedetto XVI e il suo desiderio di garantire pulizia e trasparenza nelle finanze e nell’amministrazione vaticana.
Mons. Carlo Maria Viganò, segretario del Governatorato, aveva denunciato corruzione negli appalti e in alcuni settori amministrativi. Bertone lo ha rimosso quasi fosse un mitomane. Agli occhi del mondo diplomatico e mediatico è apparso chiaro che Viganò è stato colpito perché voleva fare pulizia.
NEL DICEMBRE 2010 Benedetto XVI istituisce l’Autorità di informazione finanziaria, guidata da un cardinale, per portare lo Ior nella “lista bianca” del sistema bancario internazionale. Passano pochi mesi e per iniziativa del Segretario di Stato si accredita la teoria che la trasparenza non vale per il passato e si emanano nuove norme, che imbrigliano l’autonomia della nuova Authority. A nulla valgono le accorate proteste del cardinale Nicora e di Gotti Tedeschi. Secondo autogol e pessima figura presso Moneyval, l’organismo europeo incaricato di verificare lo standard antiriciclaggio delle banche d’Europa.
Il terzo autogol è la cacciata di Gotti Tedeschi. Faceva resistenza all’operazione San Raffaele, voluta dal cardinale Bertone con il miraggio faraonico di un “polo ospedaliero cattolico” comprendente San Raffaele, policlinico Gemelli e l’ospedale di Padre Pio. Gotti Tedeschi inoltre non condivideva lo stile di comando di Giuseppe Profiti, presidente del Bambin Gesù (condannato in primo grado per il coinvolgimento nello scandalo delle mense in Liguria: “concorso in turbativa d’asta”) e fatto vice-presidente del San Raffaele in quanto longa manus di Bertone. Il Segretario di Stato non glielo ha mai perdonato. L’aver perseguito, poi, una linea senza compromessi e attivamente critica nei confronti di Bertone per la questione della trasparenza dello Ior, è costata la testa a Gotti. Lui lo presagiva e da mesi confidava agli amici: “Mi salva soltanto il rapporto con il Papa”.
COSA SUCCEDERÀ adesso? Il Segretario di Stato, con questa prova di forza, dimostra di volere resistere ad ogni costo alle pressioni rivolte a Benedetto XVI perchè lo sostituisca a dicembre in occasione dei suoi 78 anni. Ma l’estrema debolezza di Benedetto XVI, che in queste vicende non è riuscito a tenere ferma la barra nella direzione da lui stesso auspicata, mostra che il pontefice ormai ottantacinquenne e fisicamente fragilissimo (e occupato a scrivere il terzo libro su Gesù) non riesce a tenere sotto controllo gli affari della Curia e si affida – anche a costo di buttare a mare persone che stima – al Segretario di Stato, da cui non sembra in grado di staccarsi.
Il mondo cattolico è disorientato. L’Avvenire, mentre pubblica il comunicato vaticano, scrive che Gotti “aveva fatto proprio l’impegno per la crescita dello Ior nella trasparenza secondo standard internazionali”. Ha commentato l’ex vicedirettore dell’Osservatore Romano Gian-franco Svidercoschi: “Nel comunicato vaticano che definisce criminale la diffusione dei documenti arrivati alla stampa non c’è una sola riga dedicata ai fatti ivi descritti”. Il popolo delle parrocchie non ci capisce più nulla. É una deriva quale mai si era verificata in Santa Romana Chiesa

Repubblica 26.5.12
Le faide in Curia dietro lo scandalo "Bertone stava per dimettersi"
La segreteria di Stato nel mirino: ora è caccia ai mandanti
L’assalto al potere e le manovre per il prossimo conclave "C´è chi ha tentato un colpo di Stato"
di Marco Ansaldo


C´è un dettaglio illuminante nella vicenda che lega l´arresto del cameriere di Sua Santità, considerato il "corvo" che passava le carte segrete vaticane ai media, alla cacciata di Ettore Gotti Tedeschi dalla presidenza dello Ior. E tocca il Pontefice, il suo appartamento, unendosi alle dicerie sulla salute di Joseph Ratzinger, il quale invece sta bene per l´età che ha (85 anni), come risulta evidente a chi lo incontra e vede da vicino.
Perché i documenti interni diffusi, e di recente pubblicati anche in un libro, non portano per la maggior parte il timbro della Segreteria di Stato vaticana. Non sono usciti, cioè, da quell´ufficio, al quale pure sono arrivate. Ma provengono direttamente dall´Appartamento papale, dove alcune erano ad esempio giunte al fax con il numero riservato di monsignor Georg Gaenswein, il segretario personale di Benedetto XVI. E vista l´assoluta fedeltà dell´assistente tedesco - il quale per ragioni di opportunità giovedì scorso ha addirittura rinunciato a una conferenza a Pordenone dal titolo "Vi racconto il Papa", eppure annunciata da due ampie pagine sull´Osservatore Romano e su Avvenire («Es ist besser nicht», meglio di no, gli ha detto Ratzinger) - per quanto incredibile questo sia apparso agli inquirenti vaticani, le indagini sui diffusori delle carte si sono infine concentrate sulla casa di Benedetto.
Nel cosiddetto Appartamento, con la A maiuscola, vive la Famiglia pontificia. Composta dalle persone che sono intorno al Papa. Chi ci abita rassetta, prepara e consuma i pasti con lui, tenendogli compagnia talvolta guardando la tv. Sono loro a festeggiarlo nei giorni comandati e nei compleanni. Loro ad accogliere i visitatori esterni, come il fratello del Pontefice, monsignor Georg Ratzinger. Nell´Appartamento circolano monsignor Gaenswein appunto, l´altro segretario, il maltese Alfred Xuereb, le quattro Memores domini, donne laiche che fanno vita consacrata, accudendo le stanze e preparando colazione, pranzo e cena. E il cameriere del Pontefice, Paolo Gabriele. Su di lui si sono appuntati i sospetti sia della Gendarmeria vaticana guidata dal comandante Domenico Giani, sia la commissione di indagine dei tre cardinali presieduta dal porporato spagnolo Julian Herranz Casado, allievo diretto del fondatore dell´Opus Dei, Josemaria Escrivà de Balaguer.
I "corvi" che hanno passato le carte fuori dalla Santa Sede, com´è noto da tempo, sono più d´uno. Ieri la Segreteria di Stato è uscita allo scoperto, accusando addirittura Gotti («era uno dei corvi» hanno detto), il quale però si è difeso contrattaccando («li querelo») . Uno scontro al calor bianco che fa da sfondo alla cacciata dell´economista per «gestione insoddisfacente».
La vicenda dei "Vatican leaks" si sta così allargando, scuotendo l´intero vertice della Santa Sede, con colpi feroci tra fazioni di cardinali, mentre il Papa assiste e si prepara a compiere, da qui a pochi mesi, passi decisivi. Monsignor Gaenswein è rimasto molto toccato dalle critiche arrivate al Pontefice attraverso le carte. E anche il segretario di Stato, Tarcisio Bertone - comunque lo si veda è però un fedelissimo di Joseph Ratzinger - è apparso provato dalla vicenda. Ha persino accarezzato l´idea, come già fatto in passato, di offrire il proprio posto e dimettersi. Ma il Papa gli ha fatto subito capire che non se ne parlava nemmeno.
Alla destra di Benedetto, un gruppo di cardinali, arcivescovi e monsignori si è mosso in prospettiva futura con un obiettivo duplice e ambiziosissimo: la presa della Segreteria di Stato e, successivamente, addirittura la conquista del Conclave con un Papa scelto tra le proprie file. E´ quello che un osservatore attentissimo di cose vaticane definisce «un vero e proprio colpo di Stato». E le menti che hanno concepito il piano sono le stesse che hanno foraggiato i media, attraverso i "corvi", di carte segrete al fine di portare scompiglio e far cadere il governo vaticano.
Il progetto è fallito. La Santa Sede è attualmente sottoposta a dure critiche da parte dell´opinione pubblica internazionale, con un´immagine intaccata. Ma il golpe non è riuscito perché il Papa - che contrariamente a quel che si è vociferato è pienamente in salute - sa tutto, conosce i membri dell´una e dell´altra fazione, ed è deciso a regolare la faccenda al tempo dovuto e, com´è d´uso, senza clamori.
Bertone a dicembre compirà 78 anni ed è possibile un suo passo indietro. Alcuni osservatori danno per favorito l´attuale prefetto della Congregazione per il clero, il cardinale Mauro Piacenza, che lo scorso anno ha ottenuto da Benedetto una doppia promozione: la berretta cardinalizia e la guida di un dicastero. Le strade che il Papa ha davanti sono più d´una: riconfermare Bertone; accettare infine le sue dimissioni e sostituirlo con Piacenza; oppure cambiare del tutto cavallo scegliendo un outsider per sgombrare il campo dai durissimi scontri interni. Questa terza ipotesi riguarda l´attuale ministro degli Esteri, il corso Dominique Mamberti, che gode della considerazione di Bertone e, allo stesso tempo, viene considerato un candidato debole per non ostacolare le ambizioni alla destra del Papa dei diretti interessati alla Segreteria di Stato.
Si è cercato, da questo fronte, di accreditare l´idea che la Commissione cardinalizia di indagine fosse priva di mordente e di capacità operativa. In realtà, proprio quella composizione (Julian Herranz Casado, Jozef Tomko, Salvatore De Giorgi) è stata ed è la chiave del successo dell´inchiesta, non ancora conclusa, perché i tre anziani cardinali sono ben presenti a loro stessi. E soprattutto non hanno ambizioni proprie o per altri.
Diversa la battaglia sul futuro Conclave. Nel Novecento, quasi sempre i Pontefici hanno informalmente indicato i propri successori, puntando i riflettori sui loro preferiti. È accaduto da Pio XI in poi. Benedetto XVI ha forse in mente il proprio successore. Ora gli osservatori si attendono da lui un segno. Le voci false diffuse sul suo stato di salute («ha un tumore al fegato», «ha avuto due ischemie»), puntano a delegittimarlo. Ma il Papa per ora è saldo e guarda al proprio domani, pensando anche al futuro della Chiesa.

il Fatto 26.5.12
L’Ocse boccia ancora la Santa Sede
La riforma dell’antiriciclaggio in banca non rispetta le regole internazionali
di Vittorio Malagutti


Milano A questo punto poco importa capire se Ettore Gotti Tedeschi è stato licenziato perchè tentava di rendere più trasparente la gestione dello Ior, una versione che in queste ore lo stesso banchiere sta cercando di accreditare. Oppure se, più banalmente, il Vaticano ha fatto fuori un proprio funzionario che ha dato cattiva prova di sè, come si capisce dalla nota stampa diffusa giovedì dalla Santa Sede. Sul piano pratico i guai veri rischiano di essere altri. Dopo mesi di veleni e dossier, adesso la storiaccia dell'allontanamento di Gotti Tedeschi, potrebbe finire per compromettere del tutto l'immagine dello Ior sul fronte internazionale. Come dire che si assottigliano sempre di più le speranze del Vaticano di essere finalmente ammessa nella cosiddetta white list, cioè l'elenco dei Paesi che rispettano norme e procedure per l'antiriciclaggio fissate a livello internazionale dall'Ocse.
Questo non è davvero un problema da poco. Le banche degli Stati che non rispettano le raccomandazioni del Gafi (il Gruppo di azione finanziaria nato sotto l'ombrello dell'Oc-se) hanno grandi difficoltà a fare affari con tutti gli istituti dei maggiori Paesi occidentali. Dopo una prima visita del novembre 2011, due mesi fa gli ispettori del Gafi erano sbarcati in Vaticano per verificare i passi avanti sulla strada della riforma.
I PIÙ OTTIMISTI speravano che il via libera dall'Ocse arrivasse già entro luglio. Passato questo esame, il governo della Santa Sede avrebbe potuto presentare la domanda per l'ammissione alla white list. Ma adesso, dopo il ribaltone al vertice dello Ior, le già scarse possibilità di una promozione sembrano svanite. Del resto già a marzo gli ispettori del Gafi, che fino al mese prossimo sarà presieduto dall'italiano Giancarlo Del Bufalo, non avevano potuto fare a meno di constatare la parziale retromarcia vaticana rispetto alla riforma varata el 2011. Da almeno tre anni, infatti, il governo guidato dal segretario di Stato Tarciso Bertone si dice pronto a mettersi in regola. E nell'aprile del 2011 era stata in effetti introdotta una nuova legge che tra l'altro istituiva l'Aif, l'Autorità di informazione finanziaria presieduta dal cardinale Attilio Nicora. Tocca proprio all'Aif, tra l'altro, vigilare sulla gestione dello Ior. Il varo di queste norme aveva fatto seguito all'inchiesta penale avviata dalla procura di Roma sui bonifici per 23 milioni volati dai conti dello Ior al Credito Artigiano verso un altro conto della banca della Santa Sede aperto presso la Jp Morgan di Francoforte. Per questa vicenda i pm avevano indagato Gotti Tedeschi e il direttore generale dello Ior e Paolo Cipriani.
Solo che, a distanza di pochi mesi, il Vaticano è tornato sui suoi passi. La legge antiriciclaggio è stata rivista in modo da mettere nuovi paletti ai poteri dell'Aif, per esempio in materia di ispezioni. L'Autorità vaticana, infatti, non può accedere a informazioni su operazioni anteriori all'entrata in vigore della nuova legge. Inoltre l'indagine può partire solo in seguito alla segnalazione della banca. In altre parole, se lo Ior non chiama, l'antiriciclaggio non può entrare in azione. E' evidente che regole di questo tipo finiscono per diminuire di gran lunga l'efficacia della legge.
E' stato proprio un articolo del Fatto, pubblicato il 15 febbraio scorso, a rivelare che nelle segrete stanze vaticane era stato messo a punto il colpo di spugna. Il cardinale Nicora aveva inviato a Gotti Tedeschi e al segretario di Stato Bertone una nota allarmata, pubblicata dal Fatto, in cui metteva in guardia "sul rischio reputazionale" a cui poteva andare incontro la Santa Sede se le norme sull'anti-riciclaggio varate pochi mesi prima fossero state depotenziate in modo tale, tra l'altro, di impedire ogni forma di collaborazione con le autorità giudiziarie italiane.
Niente da fare. Nulla è cambiato. Gotti Tedeschi ha perso il posto. E il governo del Vaticano rischia, una volta di più, di perdere la faccia.

il Fatto 26.5.12
Tre gradi di giudizio, ma il capo della Chiesa ha un parere su tutto
di  Chiara Paolin


Che succederà ora al maggiordomo? Il sistema giudiziario del Vaticano prevede tre livelli processuali, piuttosto simili a quelli italiani. Tutti i giudici sono nominati dal Papa, nel cui nome vengono emesse le sentenze civili e penali (teoricamente, il pontefice può deferire l'istruttoria e la decisione nelle cause pronunciando un proprio parere). Chi è sospettato di aver commesso un reato deve passare innanzitutto davanti al Tribunale di prima istanza, che è composto da tre magistrati, un notaro e un presidente. Quest’ultimo delega le funzioni di giudice istruttore o di giudice dell’esecuzione a uno o due magistrati: il compito toccherà al Conte Giuseppe Dalla Torre Del Tempio Di Sanguinetto (anche rettore dell’università Lumsa). In caso di sentenza di primo grado, si può adire alla Corte d’appello: è costituita da sei giudici - tre laici e tre ecclesiastici - più un Promotore di giustizia (una sorta di procuratore generale). Il presidente dell’appello è il Cardinale Josè Maria Serrano Ruiz. Infine è possibile il ricorso alla Corte di Cassazione per stabilire se tutti i passaggi di legge siano stati correttamente ottemperati. Qui il presidente è il Cardinale Raymond Leo Burke, che, come tutti i suoi parigrado, occupa la posizione ininterrottamente dal 1987. Per la reclusione ci sono alcune camere di sicurezza presso il comando della Gendarmeria. Ma non sono celle vere e proprie. Nei casi più gravi i condannati sono finiti nelle prigioni italiane. In tutto ciò un ruolo determinante è occupato dall’avvocato Nicola Picardi, tecnicamente indicato come Promotore di giustizia, con funzioni in questo caso simili a un pubblico ministero. È stato lui a ordinare l’arresto del maggiordomo dopo aver ricevuto la relazione della Commissione cardinalizia insediatasi lo scorso 24 aprile proprio per scoprire chi avesse divulgato le informazioni riservate: un mese di tempo ed ecco il colpevole. Il quale non potrà contare sui tempi biblici della legge italiana né sui vantaggi della nostra prescrizione. In Vaticano i processi penali durano in media 18,8 giorni, con istruttoria da 270 giorni, quelli civili 13 giorni. Eppure il lavoro non manca, nel 2011 si sono celebrati 640 processi civili e 226 penali per una popolazione di 492 persone. In gran parte si tratta di furti e borseggi in piazza San Pietro. Stavolta, secondo l’accusa, la merce è sparita al piano superiore.

Corriere 26.5.12
I Radicali si offrono per la difesa legale


ROMA — I Radicali offrono una difesa legale al maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele.
«Sono preoccupatissimo — afferma il deputato dei Radicali Maurizio Turco — per la sorte di Paolo Gabriele alla luce del fatto che vi è dovizia di particolari su cose secondarie e silenzio assordante su quelle importanti». Spiega Turco: «Si lanciano le tranquillizzanti parole di don Davide Scito, docente di Diritto Canonico all'università Pontificia Santa Croce, secondo le quali sarà sottoposto a tre gradi di giudizio. Come qualsiasi cittadino accusato di un delitto. D'accordo. Ma il Vaticano si definisce una monarchia assoluta e tanto è assoluta che in qualunque causa civile o penale ed in qualsiasi stadio della medesima, il Sommo Pontefice può deferirne l'istruttoria e la decisione ad una particolare istanza, anche con facoltà di pronunciare secondo equità e con esclusione di qualsiasi ulteriore gravame (Art. 16 della Nuova Legge Fondamentale)».
Parole, però, evidenzia il deputato radicale, «accompagnate dalla meno tranquillizzante ipotesi che possa essere condannato a 30 anni. D'altra parte non è ancora noto se Paolo Gabriele abbia la cittadinanza italiana ed eventualmente se la nostra ambasciata sia stata informata del suo arresto e qualche funzionario l'abbia di incontrarlo, se ha un avvocato che lo difende e chi è». Poi l'offerta: «Comunque, ho sentito l'avvocato radicale Giuseppe Rossodivita che è disponibile a difenderlo o ad associarsi alla difesa».

Corriere 26.5.12
Strategia della tensione in Vaticano. Tocca ai vescovi reagire
I timori della Chiesa nella partita nascosta (e appena iniziata)
di Alberto Melloni


Mai lo smarrimento era arrivato a questi livelli nella Chiesa cattolica. Ma stavolta c'è qualcosa di più: il senso di un disordine sistemico.

Mai lo smarrimento era arrivato a questi livelli nella Chiesa cattolica. Certo nel Novecento non erano mancate lotte di potere condotte senza esclusione di colpi. Dal veto dell'imperatore d'Austria nel 1903 contro l'elezione al papato del cardinal Rampolla a quel novembre 1962 nel quale il Sant'Ufficio passò a Indro Montanelli accuse di modernismo per macchiare la giovinezza di Giovanni XXIII, dalla cacciata di Montini da Roma orchestrata dalla corte pacelliana nel 1954 alla lotta del torrido conclave del 1978 che convinse tutti a votare il Papa straniero, su su fino alla vicenda dell'Ambrosiano e di Marcinkus, nella quale toccò a un cattolico pulito come Nino Andreatta salvare la Chiesa dalle sue sozzure.
Ma stavolta c'è qualcosa di più. Ed è il senso di un disordine sistemico: la sensazione che ci sia ancora altro che debba deflagrare in tutta la sua catastroficità. Quelle che ci sono state negli ultimi anni, negli ultimi mesi e negli ultimi giorni non sono state solo fughe di notizie e non si possono rubricare come tradimenti. Sono pezzi di una strategia della tensione. Un'orgia di vendette e di vendette preventive che è ormai sfuggita di mano a chi s'illudeva di orchestrarla o di giovarsene. L'origine di tutto ciò non è misteriosa ed è — il Papa lo sa — tutta italiana. Per anni s'è pensato che alla Chiesa non servisse il confronto libero e duro delle idee (si vedano i duelli Kasper-Ratzinger, per dire): ma che invece le giovasse un meccanismo denigratorio fatto di blog, di corsivi, di aggettivi allusivi coi quali colpire nella fedeltà alla Chiesa e al Papa altri cattolici — se mai recuperando qualche documentino, gratis o a pagamento.
Questa tela di illazioni, pettegolezzi e calunnie ha prodotto liste di proscrizione recepite da autorità sempre più anemiche, ha legittimato ai massimi livelli un para-magistero fatto di risentimenti oltraggiosi (come quelli sparati dal sito dell'Espresso sull'invulnerabile priore di Bose, Enzo Bianchi) e ha alimentato la bacata morale dell'anonimato (come quella in cui finì il mandato di Boffo al Toniolo). Da qui ai dossier completi, come quello stampato in «Vaticano spa», il passo è stato breve: e poi è venuto tutto il resto, con una sequenza di colpi e contraccolpi sempre più desolanti.
È evidente che la Chiesa cattolica (e non solo lei) ha patito del calo del livello intellettuale delle classi dirigenti che chiamiamo crisi: ma forse la Chiesa ne porta perfino qualche responsabilità. Lungo gli anni tremendi fra il 1914 e il 1945 (all'Est fino al 1989), la congiuntura politica o l'ingenua attesa di una cristianità restaurata hanno spinto la Chiesa a confidare in un lavoro di formazione intensa delle coscienze. Un capitale umano senza pari, fabbricato nelle canoniche e sulle riviste, è stato immesso senza troppe distinzioni dentro culture intransigenti, clericali, democratiche, confessionali, progressiste. Una riserva talora minoritaria (si pensi alle correnti Dc), ma sufficiente a tenere in equilibrio le cose o addirittura a sanarle con la propria limpidità interiore.
Negli ultimi trent'anni, invece, s'è vissuto consumando quel capitale: lo si è speso per coprire politiche «contestuali» o per illudersi che giocare a scacchi col potere rendesse potenti. E quando tutto era ormai consumato è arrivato Benedetto XVI: la cui distanza ontologica da questi modi d'essere ha finito paradossalmente per agevolarli. E il mood conservatore del suo pontificato ha finito per eccitare quei suoi sostenitori reazionari delusi dal suo stile. La durezza dei passaggi di questi due giorni — Gotti Tedeschi ha avuto un trattamento peggiore di Marcinkus, il maggiordomo del Papa è stato preso come Agca — potrebbe dunque essere il segnale che l'investigazione tanto attesa s'è avviata o sviata, che voleranno stracci di diversi colori, che la «gente attuffata in uno sterco che da li uman privadi parea mosso» dovrà cambiar lavoro.
Ma è certo che se non ci sarà una reazione spirituale il disastro sarà completo: anziché giocare all'amletico gioco dell'anno (crescita o rigore?) i vescovi su questo dovrebbero concentrarsi. Ne ha bisogno la Chiesa, se ne gioverebbe l'Europa.

l’Unità 26.5.12
Lo scontro sullo Ior
Lo scandalo Ior fa riapparire il fantasma di Marcinkus
di Filippo Di Giacomo


Il comunicato con il quale è stato dato il ben servito ad Ettore Gotti Tedeschi non è stato scritto da preti, e si vede, ma è stato certamente approvato nei piani alti del Vaticano, quelli frequentati da chierici di alto grado.

Tanto per non nascondersi dietro un dito: chi ricorda ancora i comunicati con i quali venivano posti a riposo Marcinkus e Donato De Bonis, i due uomini cardini dello Ior che fu, sono rimasti stupiti innanzitutto dal tenore del comunicato con il quale è stato dato il ben servito ad Ettore Gotti Tedeschi: secco, duro e senza fronzoli da sacrestia. Non è stato scritto da preti, e si vede, ma è stato certamente approvato nei piani alti del Vaticano, quelli frequentati da chierici di alto grado accusati, dall’orbe cattolico e catodico, di occuparsi di cose astratte e di non saper governare la macchina dell’organizzazione ecclesiastica.
C’è stato un conflitto di competenze all’interno di un consiglio di amministrazione composto unicamente da banchieri non preti, anzi neanche cattolici particolarmente devoti. E questa dinamica, per così dire, profana, è stata lasciata libera di agire e di giungere a conclusioni che i corpi deliberanti di preti non conoscono e neanche praticano. Senza alcun rispetto della regola manzoniana del «sopire, tacere, smentire», la modernità è entrata dunque anche in Vaticano. Il quale, di suo, ci ha aggiunto solo la speranza che si giunga presto, anche per le cose di Chiesa, a una «governance» affidata a chi sappia realmente leggere le carte finanziarie e fare agire anche le finanze vaticane dentro «standard bancari internazionalmente accettati».
I tecnici comandano anche in Vaticano, l’anarchia clerico-buonista che fu, da ieri, è stata riposta nell’armadio. Basterà solo questo per esorcizzare il fantasma di Marcinkus? Con la legge antiriclaggio by Gotti Tedeschi lo stile «manageriale» del vescovo di Cicero (Marcinkus era nato nella stessa cittadina da cui era uscito Al Capone) rischiava di rientrare dentro le mura leonine con la
figura di un presidente dello Ior monocratico che, avendo come unico riferimento il Papa, anche in materia di antiriciclaggio agiva a sua discrezione, coadiuvato da una «commissione tecnica» (alla cui testa è stato posizionato il giovanissimo genero di Antonio Fazio) e riferiva ai «superiori» che, essendo tutti di rango inferiore al Papa, rischiavano solo di assistere in silenzio ai soliti, e ai nuovi, intrallazzi.
La correzione della legge antiriciclaggio ha riportato l’azione di contrasto nella mani dell’autorità esecutiva vaticana (il Governatorato), sotto il controllo della magistratura del piccolo Stato, e l’azione della gendarmeria. In altre parole, ha riportato anche le finanze vaticane dentro il perimetro di un ordinamento giuridico moderno e coordinato con il resto del mondo. È un primo passo. Forse ci vorrà altro, come annunciato ieri da un comunicato di Padre Lombardi: «L’attività di indagine
avviata dalla Gendarmeria secondo istruzioni ricevute dalla Commissione cardinalizia e sotto la direzione del Promotore di Giustizia (l’equivalente del nostro Procuratore della Repubblica nell’ordinamento canonico e vaticano, nda) ha permesso di individuare una persona in possesso illecito di documenti riservati. Questa persona si trova a disposizione della magistratura vaticana».
Tra fughe di documenti, «papisti» interessati ai soldi e al potere e altre amenità del genere, Benedetto XVI e il cardinale Tarcisio Bertone hanno finalmente trovato il coraggio di far comprendere forte e chiaro che anche in Vaticano, a quanto sembra, in futuro chi delinque, anche per eccesso di buone intenzioni, andrà al gabbio. Sembra strano, ma è uno dei prezzi che anche le tonache in carriera e i sacrestani rampanti dovranno accettare di pagare alla legalità moderna.

l’Unità 26.5.12
Il Concilio parlava di Chiesa dei poveri: chissà fino a quando servirà una banca?
di Domenico Rosati


Forse parliamo dello Ior è stato un contrasto sui modi di realizzare la trasparenza bancaria, forse uno strascico del mancato salvataggio ecclesiastico del San Raffaele, forse un antagonismo portato fino al voto nel cda, forse una crisi bancaria, forse...
La nebbia del dubbio ostacola il discernimento dei fatti e dei ruoli. Ci sono anche snodi tecnici di ardua decifrazione. Ma l’incertezza sulle cause non attenua l’inquietudine per quanto accaduto e per come è accaduto. E ciò soprattutto per la peculiare natura di un’azienda di credito che non fa capo a una qualsiasi assemblea di azionisti ma direttamente al vertice della Chiesa, quella che i fedeli credono come «organismo visibile attraverso il quale Cristo diffonde su tutti la verità e la grazia». Chi guarda alla Chiesa solo come a una organizzazione umana, per quanto avvalorata da una nobile finalità, può anche assorbire la notizia della decapitazione dello Ior come un fatto rientrante nella normale dinamica finanziaria. Ma chi «crede la Chiesa», come si recita nell’atto di fede, e vive quindi l’appartenenza al popolo di Dio, non può immergersi nell’indifferenza o nell’attesa di fredde spiegazioni.
Una certa quota di attività profane, comprese quelle connesse al sostentamento economico, è indispensabile anche alla comunità dei fedeli. E va gestita con le regole proprie. Ma l’origine e la finalità degli organismi a ciò dedicati non possono non reclamare sempre un comportamento esemplare, che va immediatamente ripristinato quando si verificano devianze, si tratti di corruzione o di uso distorto delle risorse o di altro. Situazioni non gradevoli si sono registrate in passato. L’avvicendamento dei responsabili è stato spesso il solo indizio pubblico di un malfunzionamento, talora alimentando il sospetto di guasti più gravi di quelli desumibili dai comunicati. È quello che può accadere, anzi è già accaduto, in presenza di una misura così rilevante come quella adottata nei confronti del presidente Gotti Tedeschi, il quale ha trattenuto per ora le «cattive parole» che forse dirà in seguito.
Non deve quindi sorprendere se il disagio per la notizia si traduce immediatamente in uno stato d’animo profondamente turbato, corrispondente al dovere che i fedeli hanno di «far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa», come il Concilio suggerisce. E qui si fa pertinente, proprio mentre si celebrano i cinquant’anni del Vaticano II, quell’invito a partecipare alla povertà di Cristo, il quale, come dice Paolo, «da ricco che era si fece povero per amore nostro, allo scopo di farci ricchi con la sua povertà». Se si considera il processo storico va riconosciuto che molti passi sono stati compiuti per ridurre l’ostentazione delle ricchezze e dei simboli di potere, a partire dal taglio delle «code» dei cardinali. Ma l’ideale evangelico è talmente impegnativo che la distanza da colmare è certamente maggiore di quella percorsa.
Chiesa povera, Chiesa dei poveri fu una delle espressioni più frequentate e convincenti del Concilio, tradotta in mille documenti come vocazione al distacco dai beni terreni e anche dalle abitudini economicistiche che ad esse si connettono. La fine del potere temporale ha provvidenzialmente accorciato il fronte delle frequentazioni profane. Andreotti fece la tesi di laurea sulla... Marina vaticana, una flotta che non c’è più. Perché escludere che un domani qualcuno possa esercitarsi nella narrazione delle vicende... bancarie della Santa Sede, ricostruendone al passato questi passaggi come momenti di avvicinamento ad un assetto meno rischioso e compromettente?
Forse è semplicistico chiedersi se per svolgere la missione di salvezza sia indispensabile gestire in proprio un istituto bancario o se non sia preferibile avvalersi con intelligenza dei servizi che il mercato offre. Ma dovrà continuare la ricerca nella direzione di un assetto di governo dell’organizzazione ecclesiastica diverso da quello nel quale si producono episodi che ora, come è innegabile, suscitano riprovazione e disorientamento.

l’Unità 26.5.12
«Lettere rubate? Attacco da destra al Santo Padre»
intervista ad Alberto Melloni di Virginia Lori


«L’idea è che con il pettegolezzo ci si possa sbarazzare degli avversari»

Nel Papato del Novecento una vicenda del genere non si era mai vista, nel senso che non si era mai vista nelle persone vicine al Papa una tale disponibilità a tradirlo». È quanto afferma lo storico della Chiesa, Alberto Melloni (intervistato dall’Ansa) realtivamente agli ultimi sviluppi del «Vatileaks», il caso delle fughe di documenti riservati ad opera dei cosiddetti «corvi».
Ultimi sviluppi clamorosi. L’arresto del presunto «corvo» che sarebbe un aiutante di camera di Benedetto XVI, un componente della ristrettissima famiglia pontificia. E tutto questo il giorno dopo che il banchiere Gotti Tedeschi, al vertice dello Ior, è stato sfiduciato dal suo istituto per un possibile coinvolgimento nella vicenda.
«Questa disponibilità a tradire il Pontefice osserva Melloni è molto singolare e altrettanto preoccupante perché qui non c'è tanto la fuga in sé di notizie, peraltro relative a fatti in tutto o in parte già noti. L'unica vera notizia spiega è la scoperta che possono uscire dall'appartamento i fax personali del Papa. Ciò crea nei vescovi e in chi deve avere relazioni con il Papa un'ombra gigantesca, scassa in maniera drammatica il meccanismo di comunicazione del Papa con i vescovi».
Il contesto, insomma, è più importante del contenuto. Ad avere valore distruttivo non sono tanto le carte trafugate quanto la facilità ad avere accesso ai «segreti» vaticanensi al più alto livello. La prospettiva che diventino oggetto di gossip. «Non a caso aggiunge lo storico la prima cosa che la Santa sede chiede come materia concordataria è la libera corrispondenza con i vescovi. Qui si è creato un danno gigantesco che tende a mettere in dubbio non tanto la persona del Segretario di Stato, che viene usato come una specie di finto bersaglio, ma che punta a colpire direttamente l'autorevolezza della Santa Sede nel suo insieme e del Papa come persona».
Una serie di veleni che può incidere sui rapporti della Chiesa con milioni di fedeli, che può modificare la percezione di questa istituzione agli occhi di milioni di credenti. Da queste vicende l'immagine del Papa e della sua capacità di governo esce indebolita? «Il problema afferma ancora Melloni è piuttosto che la macchina di governo è debolissima e questo non credo si possa semplicemente risolvere imputandolo in maniera accusatoria al Papa. Qui c'è una questione a monte: dove è nata questa idea che col pettegolezzo ci si può sbarazzare degli avversari e che così si fa il bene della Chiesa? Questa prassi prosegue non è nata con Ratzinger, dura da parecchio tempo. Nella Chiesa italiana, ad esempio nell'era Ruini, lo abbiamo visto tante volte. Ma come diceva Gesù “Chi prende la spada, nella spada perirá”».
Un gioco pericoloso che, insomma, può portare a conseguenze imprevedibili. «Questo gioco della denigrazione fatalmente è sfuggito di mano, tutti denigrano tutti e tutti pensano che sia un' azione lodevole raccattare qualche carta nei cestini dei fax per potersi vendicare di qualcosa o qualcuno».
Si aprono già le manovre per il Conclave? «È chiaro osserva Melloni che l'età avanzata del Papa da un lato e la regola per cui a 80 anni si esce dal Conclave dall'altro, creano una fascia di nervosismo fra i 70 e gli 80 anni tra i cardinali».
Ma per lo storico c'è di più. Si tratta anche di un’offensiva politica: «È chiaro che c'è un gioco a delegittimare da destra il pontificato: certo si può leggere tutto il pontificato di Ratzinger come una specie di concessione al lefebvrismo, ma si può vedere anche il contrario perché il Papa ha parlato della continuità del soggetto ontologico». «C'è è la conclusione una specie di destino fatale che segue Ratzinger: quando era il teologo più stimato da Kueng non era mai abbastanza kunghiano per Kueng. Adesso che poteva apparire una specie di santo protettore del conservatorismo cattolico non è abbastanza conservatore».

l’Unità 26.5.12
Eravamo tutti comunisti perché c’era Berlinguer
di Pietro Folena


IL NOVANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI ENRICO BERLINGUER È L’OCCASIONE PER TORNARE SULLA QUESTIONE MORALE E IL RINNOVAMENTO DELLA POLITICA, CHE HO SEMPRE CONSIDERATO LA PIÙ IMPORTANTE EREDITÀ CHE CI HA LASCIATO QUESTO GRANDISSIMO LEADER DEL ’900. Ne I ragazzi di Berlinguer (Dalai editore) ho cercato di ricostruire le ragioni per le quali un’intera generazione divenne comunista: perché Enrico Berlinguer era segretario, e incarnava, con la sua sobrietà, col suo stile di vita, con la sua accurata ricerca di parole sempre dense di significato, un’idea di politica alternativa rispetto a quella arrogante che trasmetteva il Potere, soprattutto quel Potere che agli inizi degli anni 80, col pentapartito, strinse una gabbia sulla società e sul suo bisogno di libertà e di protagonismo. Tutti ricordano la sua magistrale intervista a Eugenio Scalfari.
Non si può avere una visione edulcorata o buonista di Enrico Berlinguer.
Egli fu osteggiato dalla stessa definizione di “questione morale” alla proposta di un radicale rinnovamento del Partito e della politica fino alla linea dell’alternativa democratica, com’è documentato negli archivi della Direzione del Partito Comunista Italiano da una parte del Partito, custode (sulla destra, la componente migliorista, e sulla sinistra, quella filosovietica) di un’idea più tradizionale del Partito, più diffidente rispetto all’interlocuzione coi movimenti a partire da quello femminista fino al nuovo ambientalismo che allora cominciava a prendere formae con le tematiche innovative di cui essi erano portatori.
La FGCI (Federazione Giovanile Comunisti Italiani) degli anni 80 accompagnò prima queste scelte di Enrico Berlinguer e poi, dopo l’84, raccolse l’eredità di questo suo lascito.
In realtà con questa parte del pensiero e dell’opera di Berlinguer non si sono fatti i conti.
È passata l’idea, nella vulgata degli anni 90 e poi anche nel momento della fondazione del Partito Democratico, che l’unico Berlinguer da rivendicare fosse quello del compromesso storico e dell’incontro, mai compiuto, con Aldo Moro. Vorrei dire che si è un po’ abusato del vezzo tipico della sinistra italiana di tirare la storia alle proprie contingenti convenienze. Intendiamoci. Vedo una relazione tra il compromesso storico e la questione
 morale: non chiedo che si faccia un’operazione speculare a quella compiuta nell’ultimo ventennio. La relazione, tuttavia, non sta nella proposta di alleanze politiche; sta nei contenuti della politica e nei caratteri della società nuova per cui Berlinguer intendeva operare: un diverso modo di consumare e produrre («perché, cosa, come produrre»), il rifiuto della violenza e della guerra come soluzione dei problemi, una nuova idea della libertà delle donne, un uso umano delle nuove tecnologie, un’idea diversa della politica.
Su questi punti Berlinguer propose un riorientamento del programma fondamentale del PCI, che così faceva sue tante istanze provenienti dal pensiero religioso, soprattutto di quello cristiano sociale, e da una critica umanistica al capitalismo.
Berlinguer, già nel corso del periodo in cui si venne logorando la stagione della solidarietà nazionale, cominciò a guardare con occhi nuovi a quello che si muoveva fuori dal Partito e dalla politica.
Proprio oggi, quando il Partito democratico è impegnato in una transizione politica, ed esplode una nuova questione morale che, goccia dopo goccia, è stata scavata trasversalmente nel ventennio berlusconiano del conflitto di interessi e della privatizzazione della politica, si tratta di riflettere sulla lezione di Berlinguer.
Riflettere attentamente sulla necessità di aprirsi alla società, al mondo del lavoro, e di connettere la transizione politica alla transizione sociale.
Questa è l’epoca in cui un diverso modo di produrre e di consumare si impone come necessità non di un’élite, ma sentita a livello popolare, e soprattutto giovanile. Se in onestà si deve fare l’identikit di una parte dei militanti grillini, si trova soprattutto questa idea alternativa di organizzazione della società e della vita, e questo vale ancor più per i comitati e i movimenti che stanno ponendo all’ordine del giorno il tema dei beni comuni, a partire da quello dell’acqua.
Occorre un Partito democratico meno arrogante quando esercita il Potere, meno schiacciato sul Palazzo e più aperto e ricettivo nella società.
La lezione che ci lascia Enrico Berlinguer sulla questione morale e sul rinnovamento della politica può aiutarci davvero molto.

Corriere 26.5.12
Multe, bollette e benzina, i soldi di Lusi dati ai leader
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Multe e bollette telefoniche, onorari di avvocati e macchine da ufficio. E poi spese per giornali, fotocopie, carburante. Sono decine e decine le fatture consegnate dalla segretaria di Luigi Lusi ai magistrati romani. I documenti contabili che Francesca Fiore ha portato in Procura quattro giorni fa, quando è stata convocata per essere interrogata, ricostruiscono le «uscite» in favore dei leader della Margherita anche dopo lo scioglimento e il passaggio degli esponenti in altre formazioni. Ma non tutte le «voci» appaiono giustificate come costi della politica, almeno ad una prima lettura. Dunque è su questo che si dovranno adesso concentrare le verifiche della Guardia di Finanza. Anche perché risulta che tra il 2009 e gli inizi del 2012 sono centinaia i milioni di euro prelevati dalle casse di «Democrazia e Libertà» e bisognerà stabilire se davvero - come ribadiscono in un comunicato deputati e senatori inseriti nell'elenco adesso allegato agli atti dell'inchiesta - «è intollerabile confondere l'arricchimento privato di Lusi con l'uso legittimo di risorse».
La decisione di ascoltare come testimone l'assistente del tesoriere, accusato di associazione per delinquere e appropriazione indebita per aver sottratto almeno 25 milioni di euro, era stata presa dai pubblici ministeri dopo le dichiarazioni di Lusi di fronte alla giunta del Senato che deve pronunciarsi sull'ordine di arresto nei suoi confronti. «Pagavo i conti di tutti» aveva affermato il senatore e davanti al procuratore aggiunto Alberto Caperna e al sostituto Stefano Pesci, la segretaria prima ha confermato questa versione, poi ha depositato la chiavetta Usb con l'elenco delle spese.
I fogli sono divisi per nome e per anno. La spesa più frequente riguarda le bollette telefoniche. Sono decine di migliaia gli euro rimborsati a Francesco Rutelli e ai parlamentari che facevano parte del suo entourage. Le annotazioni di Lusi riguardano gli ultimi tre anni, ma le «uscite» anomale relative a questo tipo di pagamenti si riferiscono soprattutto al 2012 quando a gennaio vengono infatti annotate spese per un totale di 27mila euro soltanto per gli esponenti politici di questa corrente: quasi ottomila per Gianni Vernetti, parlamentare passato all'Api insieme all'ex presidente della Margherita e nella lista relativa alla stessa voce è inserito anche Luciano Nobili, altro fedelissimo di Rutelli. Ben 3.154 euro vengono annotati relativamente a Paolo Gentiloni per la stessa causale. A Rutelli è invece attribuita una spesa «rimborsi edicola», decine di migliaia di euro nel 2010 e 4.000 per l'acquisto di una fotocopiatrice, oltre a 63mila euro alla voce «informatica».
Nella scheda relativa a Giuseppe Fioroni ci sono 11mila euro erogati per il pagamento di multe. Lui però nega che possa trattarsi di contravvenzioni prese con la propria autovettura, «anche perché - precisa - io faccio oltre 150mila chilometri ogni anno per attività politiche e la Margherita, mettendomi a disposizione l'auto, ha contribuito a questa attività fatta per conto del Pd. Tant'è che gli ausiliari di pubblica sicurezza che mi accompagnano sono dipendenti del Partito Democratico».
Verifiche dovranno essere fatte anche su alcuni rimborsi erogati a Dario Franceschini nel 2010 e relativi al pagamento di due avvocati. Gli investigatori dovranno stabilire se si sia trattato di una controversia privata o se invece i legali siano stati ingaggiati per conto del partito.
Altre spese da controllare riguardano alcune fatture relative al 2009. A che cosa sono serviti i 48.300 euro pagati in tre volte alla ditta «F.lli Chiesa» che si occupa di rifacimento del manto stradale? E che cosa hanno affidato nel 2010 all'azienda «Cianfrocca» specializzata in traslochi che ha ricevuto due volte 24mila euro e una volta ben 87mila e 300 euro? A questi interrogativi dovranno rispondere i finanzieri, ma anche gli analisti della Banca d'Italia che stanno esaminando per conto dei magistrati tutte le spese saldate con assegni e bonifici. Una situazione che sta mettendo in grave fibrillazione gli ex appartenenti al partito, tanto che l'onorevole Luciano Neri torna a chiedere «la convocazione immediata dell'assemblea». «La riunione è già stata fissata e servirà proprio a ribadire che non c'è alcuna responsabilità dei responsabili del partito», affermano gli avvocati Titta Madia e Alessandro Diddi per conto della Margherita. E sulla questione interviene anche il segretario del Pd Pierluigi Bersani secondo il quale «è necessario approvare al più presto la nuova legge sui rimborsi elettorali, però non si può disperdere una fondamentale distinzione: un conto è avere utilizzato risorse per l'attività politica, tutt'altro conto è averle distorte a fini personali. Mettere tutto nel mucchio, come da qualche parte si sta facendo, è veramente ingiusto e inaccettabile».

Repubblica 26.5.12
Bersani lancia il "Patto dei progressisti"
Il segretario Pd vuole mettere insieme riformisti, moderati e liste civiche
Lite tra veltroniani e dalemiani sul listone civico
di Giovanna Casadio


ROMA - La proposta politica è questa: un rassemblement dei progressisti, riformisti e moderati. Un´apertura alle forze civiche, per radunare accanto al Pd-"usato sicuro" (come Bersani ha ironicamente definito il "suo" partito) giovani, competenze, società civile, élite. Un "Patto" largo, coinvolgendo anche liste civiche nazionali. «È vero, ci vuole una ristrutturazione dell´offerta politica», si è convinto, a pochi giorni dal responso dei ballottaggi, dal boom di Grillo, dal leit motiv che ormai imperversa "il Pd ha vinto ma non ha convinto". Per questo ieri, Bersani ha detto che in direzione martedì lancerà un appello a progressisti, riformisti e anche all´Udc. Per aggiungere subito dopo, che non è una faccenda di Palazzo, bensì l´esatto contrario, l´inizio di un tam tam nel paese, di una ricostruzione. «Comincia la strada verso le elezioni», annuncerà nella riunione del partito.
Ma in questo percorso non è prevista la riforma costituzionale per l´elezione diretta del presidente della Repubblica, che Berlusconi e Alfano hanno gettato sul tavolo. Il Pd stoppa. Non solo il segretario, ma Bindi, Fioroni, Finocchiaro, molti altri leader (anche se è una giornata di colloqui e riunioni) sono convinti che quello del Cavaliere sia un trappolone. Condito bene. Perché sulla bilancia da un lato c´è il presidente eletto direttamente dal popolo e dall´altro la legge elettorale a doppio turno (che sta a cuore a Pd). Nel merito il semi presidenzialismo non è un tabù per i Democratici. Tuttavia in questo momento è «buttare la palla in tribuna», azzerare il lavoro che si sta facendo al Senato sulle riforme istituzionali. «Sospetto che Berlusconi non voglia fare nulla sulla legge elettorale, e voglia mantenere il Porcellum». Non ci gira attorno Bersani per il quale l´altro timore è che l´Unto del Signore si riprenda la scena con l´ultima possibilità di afferrare il treno per il Quirinale.
Sono i sondaggi che circolano nella sede del Nazareno a tenere banco, a mostrare che "l´usato sicuro" ha bisogno di non arroccarsi, se non vuole regalare a Grillo e all´astensione il voto delle politiche. Quindi apertura a civismi, ai vendoliani, ai moderati. Non una federazione di partiti. Non si parla più di Nuovo Ulivo, bensì di una coalizione dove potrebbero starci anche movimenti organizzati, liste civiche nazionali, appunto. Qui però si aprono le polemiche, i "distinguo". C´è chi come Walter Veltroni è convinto che un listone accanto al Pd sarebbe vantaggioso, se non indispensabile, reclutando da Roberto Saviano alla ex presidente dei giovani industriali Federica Guidi, giornalisti, giuristi. Ipotesi avversata dai dalemiani. Matteo Orfini attacca a testa bassa: «Se Saviano o Gustavo Zagrebelsky intendono impegnarsi devono trovare nel Pd la loro casa». Ci sono poi Vendola e Di Pietro che lanciano un appello a Bersani («Se non ora, quando?»), e che a loro volta sono chiamati a rispondere all´appello del Pd per il "Patto".
Il "Patto democratico" è la base di un rinnovamento, oltre i partiti con la regia dei Democratici. Basterà a Renzi e ai "rottamatori"? Per loro il rilancio passa per la primarie d´autunno, in cui Bersani si rimetta in gioco. Nella riunione del "parlamentino" democratico la questione primarie sarà sollevata dai trenta/quarantenni come Civati, Gozi. Nel centrosinistra c´è molta fibrillazione, Vendola riunisce domani il coordinamento di Sel. E a proposito dei moderati e del "piano Montezemolo", Bersani lancia l´allerta: non è che si possa pensare a un´operazione di lifting in assenza di Berlusconi con quella classe politica che ha portato il paese al disastro, bisogna scegliere.

La Stampa 26.5.12
Grillo e l’ombra di Casaleggio il guru con il mito di Re Artù
Uffici nel centro di Milano, nello staff esperti di finanza e giornalisti
di Marco Alfieri


MILANO Ma chi comanda davvero nel Movimento? Certo Beppe Grillo è il frontman, ma dietro al boom elettorale e alle prime faide grilline ci sarebbe la manina di un persuasore occulto. «Telespalla Bob, il personaggio dei Simpson», ironizzano nell’entourage di Tonino di Pietro, altro adepto fulminato sulla via del web.
Fuor dai soprannomi Gianroberto Casaleggio, milanese 58enne, per alcuni «l’auricolare» di Grillo, non fa nulla per nascondere l’aria da guru. Chioma riccioluta e brizzolata, occhialini alla John Lennon, dalla sua scrivania con dietro le foto di Tex lancia strali contro tutto ciò che puzza di stantio: la carta stampata, la vecchia politica e i centri di potere, di cui aggiorna un dettagliatissimo mappone digitale. Casaleggio per alimentare l’alone di mistero non rilascia interviste ma comunica per videomessaggi. Di più. La teoria sul web veicolata da questo signore perennemente in giacca e cravatta, amante di Gengis Khan, della fantascienza di Asimov e del sociologo McLuhan, rasenta l’apocalisse: «entro il 2018 il mondo sarà diviso in due. L’Occidente con democrazia diretta e libero accesso a Internet e il trio liberticida Cina-Russia-Medio Oriente». Due anni dopo «ci sarà una nuova guerra mondiale, la riduzione della popolazione a un miliardo, la catarsi e finalmente la rinascita verso Gaia, il governo mondiale... ».
Per Casaleggio la Rete è strumento di battaglia e pedagogia. Una crociata che ha folgorato l’ex luddista Grillo, il quale era solito sventrare pc durante gli spettacoli. Poi l’incontro, la conversione alla terra promessa digitale e la collaborazione. In poco tempo il suo blog, grazie al guru, diventa uno dei siti più influenti della rete. Ma se Grillo vive nel web una seconda giovinezza da profeta della democrazia internet, la direzione d’orchestra si trova a Milano a pochi passi dalla Scala, in via Morone, tra banchieri ed avvocati di grido. E’ qui che ha sede dal 2004 la società di comunicazione Casaleggio Associati, cervello della rete dei Meetup e della strategia del movimento. Tra i soci storici, oltre al figlio Davide e a Mario Buchich, gente conosciuta nel mondo degli affari e della finanza (sbertucciati ad ogni comizio da Grillo!) come Enrico Sassoon, ex direttore di Mondo economico, già editorialista del Sole 24 Ore, alla guida dell’American Chamber of Commerce e oggi della rivista di management Harvard business review .
In precedenza, dopo il diploma da perito informatico e una manciata di esami in fisica, Casaleggio ha lavorato in Olivetti fino a diventare ad della Webegg, joint-venture tra l’azienda di Ivrea e Telecom specializzata in consulenza internet. Leggenda vuole che, appassionato di Re Artù, tenesse le riunioni a una tavola rotonda nel castello di Belgioioso (Pavia).
«Gianroberto è antipatico, ombroso, ma bisogna riconoscergli del genio», racconta un vecchio collaboratore. Caso emblematico è il rapporto con Di Pietro. A consigliargli Casaleggio è l’amico Grillo. Tonino si fida e dietro il suo spin (pagato dal partito 700 mila euro l’anno) comincia il rinascimento web, sfociato in un blog di successo. I collaboratori del leader Idv ricordano ancora la volta in cui, re-insediatosi Romano Prodi a Palazzo Chigi (2006), il guru intervenne alla riunione dei portavoce ministeriali dissacrando la vecchia comunicazione, davanti ad un Silvio Sircana esterrefatto: «esisterà solo internet... ».
A detta di molti è lui il vero ideologo del Movimento 5 stelle. Al pari dei popolarissimi V-Day e di un pamphlet/ manifesto scritto col comico, dal titolo inequivoco: Siamo in guerra. «Anche in casa nostra», ironizza un frondista che ne denuncia la presa occulta su un movimento fondato sul totem della trasparenza. Polemiche non nuove. Lo scorso giugno, durante un incontro milanese tra eletti, Grillo e Casaleggio, ci furono tensioni quando il guru comunicò alcune scelte di organigramma prese nel chiuso di una stanza. A marzo, invece, 11 consiglieri del M5S si sono sbottonati così su Facebook: «Temo che quella di Casaleggio sia una volontà di portare avanti un esperimento, solo che noi siamo le cavie…». C’è poi chi denuncia l’obbligo di concordare con il guru contenuti di intervistee video.
«Con Grillo si sentono 2-3 volte al giorno. Le strategie vengono pianificate con minuzia di particolari…». Per questo il niet di Grillo a Tavolazzi, scelto da Pizzarotti per la poltrona di dg a Parma, per molti è solo l’ultima persuasione occulta di un guru sempre più segretario di partito…

il Fatto 26.5.12
L’intervista. Piero Ignazi, politologo
“Sopravviveranno se andranno a destra”
di Andrea Scanzi


Piero Ignazi, politologo sessantenne con cattedra di Politica Comparata all’Università di Bologna, nei suoi libri ha parlato di “nuovi radicali”, “polo escluso”, “utopia concreta”, “post fascisti” e “seduzione populista”. Nessuna di queste immagini, secondo lui, possono oggi essere accostate al Movimento 5 Stelle. “La loro non è utopia e neanche populismo. Sintetizzando la definirei protesta pragmatica, enfatizzata e spettacolarizzata da Grillo”.
Il Movimento 5 Stelle durerà?
Troppo presto per dirlo. È già successo che sia finita quasi subito, ad esempio con l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. Di sicuro, se durerà, dovrà cambiare. Affrontando una fase di istituzionalizzazione che sarebbe inevitabile a fronte di un chiaro successo alle prossime elezioni politiche. Se vogliono sopravvivere, devono istituzionalizzarsi. Non c’è altra strada.
Gli scontri interni, spesso incentrati sul ruolo dominante di Grillo, non sembrano per loro incoraggianti. Da cosa dipende la sopravvivenza?
Da molti aspetti, tra cui un dato a favore del Movimento: l’ampia fascia di elettorato libero. Soprattutto nel centrodestra. E proprio da lì dipenderà il successo definitivo. Nel programma del Movimento 5 Stelle ci sono sicuramente più idee associabili alla sinistra che non al liberismo berlusconiano, ma adesso la loro sfida è fare il pieno nel centro-destra.
Catalizzando i voti della Lega e non solo, a giudicare dal ballottaggio di Parma.
Tra gli elettori del centrodestra c’è molta ostilità. E il Movimento di Grillo la attira fatalmente. È un aspetto fondamentale. A quel punto, e Parma è emblematica, una parte di elettorato berlusconiano vota Grillo per fare un dispetto alla sinistra (che è sempre un bel motivo per loro). E l’altra parte lo vota perché avverte qualcosa di affine.
L’erosione dei voti a sinistra è già finita?
No. Il nucleo fondante rimane quello: i fedelissimi di Grillo sono principalmente delusi di sinistra. Ma i sostenitori della prima ora dei 5 Stelle non avrebbero mai portato alle cifre attuali. Il segretario del Pd di Bologna, commentando la vittoria risicata a Budrio, ha ammesso chiaramente che la situazione è molto meno rosea di quanto si vuol far credere.
Bersani pensa il contrario.
La sua retorica è comprensibile, vuole infondere entusiasmo e sicurezza. Il Movimento 5 Stelle, per avere successo, ha bisogno di un tessuto culturale denso: persone che leggono, che navigano in Rete, che si informano. L’Emilia Romagna è il teatro perfetto e le elezioni, sin dal 2010, ne sono la prova. Ma ripeto: se il botto vero ci sarà, sarà a destra. A sinistra Grillo può rosicchiare ancora qualcosa, ma non molto di più. A destra c’è invece tanto spazio da occupare.
Per il Pd, e per molti intellettuali, il Movimento 5 Stelle fa leva su populismo e demagogia.
È semplicistico. La protesta c’è e Grillo fa i suoi show, ma dietro ci sono molte idee positive. E concrete. Non si limita allo sterile abbaiamento alla Luna di Bossi. Penso all’attenzione per l’ambiente, per Internet. O alla lotta alle spese folli della politica.
Il programma è un po’ specifico. Forse di nicchia.
Erano specifici anche i programmi dei partiti veri, fino a vent’anni fa. Soprattutto sui temi ambientali. Poi si sono allargati e ramificati. Non sempre in meglio.
Perché il Movimento 5 Stelle è fortissimo e del Popolo Viola si sente parlare molto meno?
Credo che le due cose siano legate, anzi sono convinto che gran parte della società civile abbia trovato in questa realtà politica ciò che cercava. Indebolendo anzitutto Sinistra e Libertà e Italia dei Valori. Sono comunque felice che Grillo mi abbia dato ragione su un punto.
Quale?
In molti libri ho scritto che, in Italia, la nuova fase di protesta sarebbe rimasta in ambiti pienamente democratici. Grillo lo ha ribadito e dimostrato: in Francia votano Le Pen, in Grecia i neo-nazisti, da noi il Movimento 5 Stelle.

Repubblica 26.5.12
La maschera del populista
di Stefano Rodotà


Berlusconi ha deciso di far saltare il tavolo delle riforme costituzionali proponendo addirittura l´abbandono della Repubblica parlamentare e il passaggio a quella presidenziale. Non è una mossa imprevista, perché da sempre ha considerato la Costituzione come un terreno di scorrerie, una merce di scambio, un oggetto odiato, dunque da aggredire tutte le volte che se ne presenta l´occasione. Ma questa volta vi è qualcosa di più.
La proposta dell´elezione diretta del presidente della Repubblica è un evidente tentativo di uscire dalle difficoltà politiche nelle quali è piombato, cercando di volgere a suo favore l´onda populista che percorre l´Italia e rilanciando se stesso come protagonista di questa nuova fase, spostando così i termini della discussione interna al suo partito nella speranza di una rinnovata unificazione intorno alla sua persona.
È chiaro che questa trasformazione radicale della forma di governo non potrà essere approvata nel corso di questa legislatura, a meno che non vi sia un impazzimento delle altre forze politiche. Ma di questo credo che a Berlusconi importi assai poco. A lui basta aver ripreso il posto al proscenio di quel teatrino della politica che tante volte ha vituperato e aver individuato quello che, da oggi in poi, sarà il terreno della sua campagna elettorale in vista delle elezioni politiche del 2013. A un paese drammaticamente lacerato ripropone la ricetta dell´uomo solo al comando, della democrazia d´investitura, dell´accentramento dei poteri. Cerca di sfruttare, insieme, l´indicazione che viene dal successo del Movimento 5Stelle e la rapidità con la quale, in Francia, Hollande ha costituito il suo governo. Ma questo suo rifugiarsi nell´ingegneria costituzionale per sfuggire alle difficoltà politiche in cui è immerso, non tiene conto del fatto che la sua stagione politica è stata contrassegnata dall´intreccio vizioso tra pubblico e privato, dall´uso spregiudicato delle risorse pubbliche da parte dei suoi e dei suoi alleati, da una visibile incapacità di governare pur avendo una maggioranza parlamentare senza precedenti. Tutto questo si può cancellare con una mossa mediatica, fidando nella perdita di memoria dei cittadini? Berlusconi non è l´uomo nuovo del 1994, ma davvero impersona tutti i vizi, politici e no, della stagione che abbiamo alle spalle. La possibilità di un suo ritorno è davvero una minaccia, che esige adeguate contromosse politiche.
Alfano ha annunciato che la proposta del passaggio alla Repubblica presidenziale sarà presentata la prossima settimana al Senato, in occasione della ripresa della discussione del disegno di legge sulle riforme costituzionali. Basta questo annuncio per mostrare quanto sia stata sciagurata la scelta di imboccare questo cammino di riforma all´insegna dell´approssimazione, preparando così il clima propizio alle strumentalizzazioni e alle incursioni corsare. Dobbiamo, allora, guardare oltre l´ultima occasione, per cercare di vedere se sia possibile uscire dalla trappola in cui ci si è cacciati.
Stiamo vivendo una fase costituente senza averne adeguata consapevolezza, senza la necessaria discussione pubblica, senza la capacità di guardare oltre l´emergenza. Per comprendere quel che sta accadendo, è un intero contesto a dover essere considerato. È stato modificato l´articolo 81 della Costituzione, introducendo il pareggio di bilancio con pregiudizio grave per la tutela dei diritti sociali e per la stessa azione di governo. Un decreto legge dell´agosto dell´anno scorso e uno del gennaio di quest´anno hanno illegittimamente messo tra parentesi l´articolo 41. E il Senato sta discutendo una revisione costituzionale che incide profondamente su Parlamento, governo, ruolo del presidente della Repubblica. Non siamo di fronte alla buona "manutenzione" della Costituzione, ma a modifiche sostanziali della forma di Stato e di governo. Le poche voci critiche non sono ascoltate, vengono sopraffatte da richiami all´emergenza così perentori che ogni invito alla riflessione configura il delitto di lesa economia. In tutto questo non è arbitrario cogliere un altro segno della incapacità delle forze politiche di intrattenere un giusto rapporto con i cittadini che, negli ultimi tempi, sono tornati a guardare con fiducia alla Costituzione e non possono essere messi di fronte a fatti compiuti. Proprio perché s´invocano condivisione e coesione, non si può poi procedere come se la revisione costituzionale fosse affare di pochi, da chiudere negli spazi ristretti d´una commissione del Senato, senza che i partiti promuovano essi stessi quella indispensabile discussione pubblica che, finora, è mancata. E invece siamo di nuovo a un continuo cambiare le carte in tavola, ai segnali di fumo tra oligarchie, alla considerazione della Costituzione come oggetto manipolabile secondo le convenienze.
Oggi vi sono alcune domande più ineludibili di ieri. Può un Parlamento non di eletti, bensì di "nominati" in base ad una legge di cui tutti a parole dicono di volersi liberare per la distorsioni che ha prodotto, mettere profondamente le mani sulla Costituzione? Può l´obiettivo di arrivare alle elezioni con una prova di efficienza essere affidato ad una operazione frettolosa e ambigua? Può essere riproposta la linea seguita per la modifica dell´articolo 81, arrivando ad una votazione con la maggioranza dei due terzi che esclude la possibilità di un intervento dei cittadini? Quest´ultima non è una pretesa abusiva o eccessiva. Non dimentichiamo che la Costituzione è stata salvata dal voto di sedici milioni di cittadini che, con il referendum del 2006, dissero "no" alla riforma berlusconiana.
Il polverone sollevato dall´irruzione berlusconiana ha comunque un nefasto effetto immediato, poiché rende più ardua la via verso la riforma elettorale, unico punto ineludibile in questa fase. Ma solo un ceto politico percorso da pulsioni suicide può pensare di votare nel 2013 con la "porcata" Calderoli. Una intesa è difficile, le manovre dilatorie continuano? È tempo che le forze politiche consapevoli facciano la loro proposta alla luce del sole e ne chiedano la discussione in Parlamento. Solo così sarà possibile rendere chiaro all´opinione pubblica la differenza tra chi vuole davvero la riforma e la nuova razza padrona che intende continuare a tenere nelle proprie mani la scelta dei parlamentari. Se si vuole accompagnare la riforma elettorale con la riduzione del numero dei parlamentari, si scorpori questo tema dalla discussione generale e si vada avanti nel modo più rapido, perché la nuova, sperata legge elettorale ha bisogno di tempo per essere adeguata alle nuove dimensioni del Parlamento. Solo così potranno cadere molti alibi, e una flebile speranza di rinnovamento potrà rimanere viva.

il Fatto 26.5.12
Le indagini cambiano strada. Tramonta l’ipotesi “pazzo isolato”
Brindisi, sempre più elementi rivelano “un’organizzazione”
di Antonio Massari


Il killer è stato ripreso dalle videocamere anche alle 7.15 di sabato 19 maggio. Mezz’ora prima dell’esplosione che ha ucciso Melissa Bassi e ferito le sue amiche. Le videocamere di sicurezza, posizionate sul chiosco dinanzi alla scuola, lo ritraggono mentre passa per ben due volte. Ha lo sguardo rivolto verso il cassonetto blu che, di lì a poco, è pronto a esplodere. A otto giorni dall’attentato, però, gli investigatori sono sempre più convinti: non era solo. A organizzare l’attentato sono stati almeno in due. È il primo segnale di una svolta delle indagini. Una svolta che per si basa sull’analisi degli elementi in mano a investigatori e inquirenti che, dall’iniziale pista di un gesto “isolato”, iniziano a propendere verso una vera organizzazione. Nessuno pronuncia le parole “mafia” e “terrorismo” ma il clima, tra gli investigatori, sembra davvero mutare verso questa direzione. Il movente di un “folle” è un conto, compatibile con il gesto isolato o la vendetta. Il movente che lega due o più persone, invece, diventa più articolato e complesso. Non solo. A otto giorni dall’attentato, le probabilità che si tratti di un criminale del posto, sono sempre di meno: qualcuno l’avrebbe riconosciuto dalla foto pubblicata, in questa settimana, da giornali, tv e Internet.
NESSUNA segnalazione di rilievo, invece, pare sia giunta agli investigatori. L’ipotesi più probabile – allo stato delle indagini – è quindi che, ad azionare l’ordigno e organizzare l’attentato, siano state due persone arrivate da fuori e, almeno per ora, svanite nel nulla. Un’ipotesi che lascia sgomenti. Lo Sco della polizia e il Ros dei carabinieri, in queste ore, si stanno concentrando sulla dinamica dell’attentato. E sui possibili spostamenti degli attentatori nella notte tra il 18 e il 19 maggio, fino alla fuga, a partire dalle 7.45, l’ora dell’esplosione. L’incrocio che da viale Aldo Moro porta alla scuola Morvillo Falcone è uno dei pochi – forse l’unico della zona – non è munito di videocamere sui semafori. Secondo i primi calcoli l’ordigno peserebbe intorno ai cento chili. Sembra impossibile che un solo uomo abbia potuto collocarlo dinanzi alla scuola indisturbato e, soprattutto, senza dare nell’occhio. Per l’operazione è stato necessario l’intervento di un complice, che abbia agito da “palo”, indicando il momento giusto per scaricare e lasciare il cassonetto blu, vicino al castello, senza essere visto da nessuno. L’ipotesi viene rafforzata dalle immagini del killer, riprese alle 7.15, quindi mezz’ora prima dell’esplosione: ha lo sguardo fisso, per lunghi secondi, rivolto verso il cancello della scuola. Quindi verso il bidone con l’esplosivo: sta coprendo le spalle al complice? È una delle possibilità. Infine, come abbiamo già scritto nei giorni scorsi, anche la “bomba” lascia propendere per una certa professionalità dei killer: l’innesco volumetrico, l’uso di esplosivo misto al gas, la filettatura sulle bombole del gpl, non sono opera di una persona che s’improvvisa. E quindi, le ipotesi terroristica di matrice politica, o mafiosa, da ieri per la prima volta si affacciano con più credibilità nelle ipotesi al vaglio degli inquirenti. Il capo della polizia, Antonio Manganelli, durante il 160esimo anniversario dell’istituzione, ieri ha dichiarato: “Non ho elementi per dire o escludere che si tratti di un atto di terrorismo. Sono un investigatore del passato e preferisco ragionare sulle persone e sulle cose. Avere una foto dell’autore della strage è un bel successo investigativo. Ora bisogna saperlo concretizzare”. Ma, ha aggiunto, “la gestione mediatica ha lasciato molto a desiderare. Anticipare le indagini sui giornali passo dopo passo non fa bene”. E gli investigatori, sotto la guida del pm brindisino Milto De Nozza e di Cataldo Motta, procuratore della Dda di Lecce, stanno provando a valorizzare ogni singolo dettaglio.

Corriere 26.5.12
Nuove immagini dell'attentatore
di Fabrizio Caccia


BRINDISI — «Ma è possibile che nessuno abbia visto niente?», si disperano gli inquirenti, sette giorni dopo. La gente non parla e l'ombra dell'omertà si allunga ora su questa storia già brutta di suo. «Io non ho paura», sarà lo slogan dei 10 mila studenti che sfileranno oggi in città in nome di Melissa Bassi, la sedicenne uccisa sabato scorso dalla bomba di Brindisi, davanti alla scuola «Morvillo Falcone». Per fortuna, c'erano di fronte le telecamere del chioschetto: nelle nuove immagini (foto da Rete 4) delle 7.15 (lo scoppio è delle 7.42) l'uomo col telecomando in mano s'aggira nei pressi e guarda verso il cassonetto-bomba dall'altra parte della strada. Nuove immagini utili, forse, per identificarlo. Ma c'è di più: gli inquirenti sembrano ormai convinti della presenza di almeno una seconda persona, un «palo». «Ma se due persone hanno lo stesso movente — ragiona chi indaga — il caso si complica». L'incubo del terrorismo mafioso si rafforza. Il padre di Melissa, Massimo Bassi, ieri è andato a trovare il pm Milto De Nozza: «Io ho grande fiducia in voi — gli ha detto — Ma, vi prego, prendete chi ha ucciso mia figlia».

Sette del Corriere 25.5.12
Il tutor segreto di Gramsci
di Mirella Serri

qui
http://www.scribd.com/doc/94870999

Sette del Corriere 25.5.12
Gramsci non violento?
Solo quando finì in carcere
di Luciano Pellicani


Sette del Corriere 25.5.12
La vera storia di come il padre del Pci fu arrestato
di Nunzio Dell’Erba


l’Unità 26.5.12
Rothko, l’arte indispensabile
Ogni centimetro delle sue tele resta solido e necessario
Dalla cultura al culto del denaro... lo sapeva bene l’artista che non concesse i suoi murales a un ristorante e la sua anima al conformismo
di Massimo Adinolfi


SE SI TRATTA DI UN POLLOCK, O PEGGIO DI UN ROTHKO, «PERDI TRENTA CENTIMETRI DEL DIPINTO DIETRO UN DIVANO E LA COSA MALE NON FA», NON È COME COPRIRE UNA PARTE DELLA TELA DI UN RUBENS O DI UN VERONESE, CHE È UN VERO DELITTO.
Ma è proprio così? A riferire questa irriverente opinione del pittore Peter Saul sui grandi maestri dell’espressionismo astratto è l’influente critico d’arte americano Robert Storr. Ma a confutarla basterebbe una qualsiasi delle riflessioni raccolte negli scritti sull’arte di Mark Rothko. Alcune di esse costituiscono il testo di Red, di John Logan, in scena in queste settimane al Teatro dell’Elfo di Milano (per la regia di Francesco Frongia e la traduzione di Matteo Colombo). Il pittore (impersonato da Ferdinando Bruni) è in scena con un assistente (Alejandro Bruni Ocaña), e con lui parla della sua arte mentre è alle prese con i Seagram Murals, le tele commissionate all’artista per decorare «l’ennesima sala da pranzo per ricchi sfondati», il Four Seasons Restaurant di New York.
Rothko aveva però le idee chiare, in proposito: «Ho accettato questo incarico si legge in una sua lettera come una sfida, armato di intenzioni del tutto malevole. Spero tanto di riuscire a dipingere qualcosa che guasti l’appetito d’ogni figlio di puttana che entrerà in quella sala per mangiare».
LA VISITA AL RISTORANTE
Alla fine la cosa non riesce: Rothko non consegnerà mai quelle tele. Logan immagina che la decisione venga presa dopo una visita al ristorante: in mezzo a uomini elegantissimi e donne dai lunghi guanti, a gente che sembra incarnare perfettamente la parabola descritta da Jean Clair ne L’inverno della cultura: «dal culto alla cultura, dalla cultura al culturale, dal culturale al culto del denaro». E dal culto del denaro all’investimento: non per caso Clair descrive il funzionamento del mercato dell’arte a colpi di hedge funds e cartolarizzazioni finanziarie. Come? Semplice: ti impacchetto l’artista già affermato insieme con quello da promuovere, te li metto nella stessa galleria che funziona come le agenzie di rating, le quali dovrebbero valutare in maniera indipendente ma in realtà favoriscono la speculazione, e il gioco è fatto, il titolo tossico è pronto per entrare nel grande museo, moltiplicando così il suo valore.
I riccastri del Four Season, ai quali Rothko non volle più dare in pasto i suoi quadri, sono a loro volta pronti a comprare: per questioni di status, per investire, o per altro, ma in ogni caso non per guardare a lungo il colore, non per lasciarsi dominare dai grandi rettangoli monocromi di Rothko, leggermente sfrangiati ai bordi, e incastrati l’uno nell’altro in un rapporto teso, dinamico, violento.
Cosa voleva infatti Rothko? D’accordo: guastare l’appetito di quei figli di puttana. Ma poi: cos’altro? Due cose: creare un luogo, e trovare una misura veramente umana. Le due cose sono poi una e la stessa cosa. Rothko ricordava bene le impressioni del suo viaggio in Italia: i rossi e i neri degli affreschi pompeiani probabilmente gli stessi che si ritrovano nel ciclo dei Seagram Murals e le finestre cieche dell’atrio della Biblioteca Laurenziana di Firenze, capolavoro di Michelangelo. Per Rothko, procuravano al visitatore proprio l’effetto da lui ricercato: costruire uno spazio chiuso, claustrofobico, dal quale fosse impossibile uscire, nel quale le sue tele, di grande formato e in grado di occupare pareti intere, funzionassero non come aperture, ma al contrario come durissime murate, come muri di colore in grado di sopraffare l’uomo, di strapparlo dalla futilità e dalla volgarità della vita quotidiana, per costringerlo per l’appunto ad essere finalmente un uomo.
Non è un paradosso che una tale preoccupazione animi tutta la pittura di Rothko. Se egli non ha mai descritto come astratta la sua pittura, è perché non ha mai inteso far altro che cercare il mezzo per procurare ancora un contenuto all’umanità dell’uomo: se ha abbandonato la figura, è perché non aveva più modo, con essa, di “arrivare”. E per questo la misura era importante per lui quasi quanto la proporzione per un artista rinascimentale: nei suoi scritti, si trovano meno osservazioni sui quadri che non sulle pareti alle quali dovevano essere appesi. I metri quadrati delle tele di Rothko ci vogliono perciò tutti, fino all’ultimo centimetro. E le tele devono essere esposte alla giusta altezza, e visti dalla giusta distanza. Cioè il più possibile vicino al pavimento, e a distanza ravvicinata: come in un’inquadratura di Orson Welles, in modo che il potere del quadro si abbatta sull’uomo e lo riconduca, un’altra volta, a se stesso.A Cannes ieri David Cronenberg ha presentato il suo ultimo film, Cosmopolis (dal romanzo di DeLillo). E di nuovo c’è Rothko, fin nei titoli di testa. E pure lì Rothko se la deve vedere con un figlio di puttana, il giovane miliardario Eric Packer, mago della finanza, che vorrebbe acquistare addirittura la Rothko Chapel. Dopo tutto, chiede alla mercante d’arte (una conturbante Juliette Binoche), non è questione di soldi? Eh no, non lo è. Non lo è almeno per Marc Rothko E per le sue tele, che resistono solide e inalterate alla liquidazione finanziaria del mondo. E chiedono all’uomo di fare altrettanto.

Corriere 26.5.12
«Europa, vergogna». Grass torna a mordere


BERLINO — Un mese dopo il poema-denuncia contro Israele («minaccia per la pace mondiale»), e lo scandalo che ha provocato, Günter Grass (nella foto) si scaglia contro l'Europa. In una poesia «La vergogna dell'Europa», che esce oggi sempre sulla Süddeutsche Zeitung, il premio Nobel per la letteratura accusa l'Europa di allontanarsi dal Paese che è stato la sua culla. «Inchiodato nudo alla gogna, perché oberato di debiti, un Paese soffre». E ancora: «Bevi, finalmente, bevi» la cicuta, urlano i commissari europei, «ma Socrate restituisce il bicchiere traboccante». Così, costringendo un Paese a stringere la cinghia (parole che sono una condanna della politica della Merkel), chiude Grass, tu «Europa, morirai senz'anima, priva del Paese che ti ha concepito».

Repubblica 26.5.12
Il premio Nobel scende in campo e attacca Bruxelles e Berlino che vogliono cacciare Atene, culla della civiltà, costringendola ad obbedire ai "diktat dei mercati"
Grass, una poesia per difendere la Grecia dalla dannazione europea
di Andrea Tarquini


Rieccolo, Günter Grass torna in campo. Questa volta per difendere la Grecia, simbolo dei nostri valori, e per sparare a zero sulla "vergogna e infamia dell´Europa": cioè la volontà di imporle ogni diktat e la minaccia di cacciarla dall´eurozona.La poesia di Grass, che pubblichiamo qui accanto, sembra destinata a sollevare un vespaio di polemiche. Come, e forse più, di quanto accadde di recente per quei versi, intitolati "Quel che deve essere detto", in cui il massimo scrittore tedesco vivente prendeva una posizione contestata quanto chiara sul problema scottante dei piani atomici iraniani. Allora Grass fu attaccato da tutti per la sua discutibile posizione, accusato di minimizzare le colpe della dittatura iraniana e i pericoli della sua politica per la pace. Questa volta potrebbe andare diversamente. Nel poema, intitolato Ignominia d´Europa, si scaglia contro le voci sempre più numerose nella Ue che "mettono alla berlina e condannano alla miseria il paese la cui ricchezza ben curata orna i musei". È una presa di posizione netta, chiara, gridata ad alta voce. Vergogna, scrive Grass nella poesia, vergognati Europa, tu che tollerasti la dittatura dei colonnelli greci come alleato. "Europa, prossima sei, perché non all´altezza dei mercati, lontana sei dal paese che a te prestò la culla". La linea dura di Angela Merkel è chiaramente il primo accusato. Così Grass, eterno e instancabile intellettuale impegnato e voce critica della Germania, torna in prima linea.

Corriere 26.5.12
«La Germania non affondi l'Europa Sarebbe la terza volta in cent'anni»
Joschka Fischer: «La cancelliera miope. Se l'euro cade, noi saremo i grandi perdenti»
di Paolo Valentino


BERLINO — «Per due volte, nel XX secolo, la Germania con mezzi militari ha distrutto se stessa e l'ordine europeo. Poi ha convinto l'Occidente di averne tratto le giuste lezioni: solo abbracciando pienamente l'integrazione d'Europa, abbiamo conquistato il consenso alla nostra riunificazione. Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell'ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è proprio questo».
Joschka Fischer sceglie parole pesanti come pietre per lanciare un allarme fatto di passione e ragione, cuore e testa d'europeo. L'ex ministro degli Esteri tedesco è «preoccupato» da una situazione che definisce «seria, molto seria» per l'Europa. Ed è anche scettico, perché non vede in giro «forze e leader, disposti a fare i passi necessari», senza i quali «rischia di essere spazzato via il miracolo di due generazioni di europei: l'investimento massiccio in una costruzione istituzionale, che ha garantito il più lungo periodo di pace e prosperità nella storia del Continente».
Lo incontro nella sede della «Joschka Fischer and Company», la società di consulenza strategica che ha fondato da pochi anni. Le finestre del suo ufficio danno sulla Gendarmenmarkt, la piazza dove i re prussiani facevano sfilare i loro reggimenti e il regime comunista della Ddr organizzava i suoi raduni. Ora è il cuore pulsante della nuova Berlino, magnifica capitale di una Germania cui l'Europa in crisi torna a guardare con diffidenza e malumore.
«Mi preoccupa — spiega Fischer — che l'attuale strategia chiaramente non funziona. Va contro la democrazia, come dimostrano i risultati delle elezioni in Grecia, in Francia e anche in Italia. E va contro la realtà: lo sappiamo sin dalla crisi del 1929, dalle politiche deflattive di Herbert Hoover in America e del cancelliere Heinrich Brüning nella Germania di Weimar, che l'austerità in una fase di crisi finanziaria porta solo a una depressione. Sfortunatamente, sembra che i primi a dimenticarlo siamo proprio noi tedeschi. Certo l'economia della Germania è in crescita, ma ciò può cambiare rapidamente, anzi sta già cambiando».
L'ex vice-cancelliere del governo rosso-verde invita a non farsi alcuna illusione: l'Europa è oggi sull'orlo di un abisso. «O l'euro cade, torna la re-nazionalizzazione e l'Unione Europea si disintegra, il che porterebbe a una drammatica crisi economica globale, qualcosa che la nostra generazione non mai vissuto. Oppure gli europei vanno avanti verso l'Unione fiscale e l'Unione politica nell'Eurogruppo. I governi e i popoli degli Stati membri non possono più sopportare il peso dell'austerità senza crescita. E non abbiamo più molto tempo, parlo di settimane, forse di pochi mesi».
Ma perché non sarebbe possibile limitare le conseguenze di un'uscita controllata della Grecia dall'Eurozona?
«L'Euro è un progetto politico. Non è che avessimo bisogno della moneta unica agli inizi degli Anni Novanta. Doveva essere il vettore dell'integrazione politica: questa era l'idea di fondo. Nessuno oggi può garantire che se la Grecia abbandona l'euro, non si verifichino un crollo della fiducia, una corsa alle banche in Spagna, in Italia, probabilmente anche in Francia, cioè una valanga finanziaria che seppellirebbe l'Europa. Secondo, cosa pensa che farebbero i greci una volta fuori? Cercherebbero altri partner, come la Russia per esempio, che è già pronta e nessuno ne parla. Diremmo addio all'ampliamento verso Sud-Est, l'integrazione europea dei Balcani sarebbe finita. È una follia: si possono avere opinioni diverse sulla vocazione europea della Turchia, ma non c'è dubbio che i Balcani, regione intrinsecamente instabile, siano parte dell'Europa. Senza contare che la Grecia fuori dall'euro precipiterebbe nel caos».
La discussione attuale si concentra sugli eurobond. Ma per concretizzarli occorrerebbero mesi, se non anni. Non è un falso dibattito, rispetto ai tempi brevi di cui lei parla?
«No, è un dibattito importante. In fondo dietro gli eurobond c'è uno dei prossimi passi da compiere. Gli elementi della soluzione sono quattro: Unione politica e Unione fiscale dell'Eurogruppo, crescita e riforme strutturali. Sono per esempio ammirato dal fatto che in questa fase, l'Italia abbia mobilitato i suoi istinti di sopravvivenza dando vita al governo Monti, che sta lavorando bene. Ma rimango perplesso che Hollande, il nuovo presidente francese del quale apprezzo l'impegno per la crescita, voglia riportare a 60 anni l'età pensionabile. Nessuno di questi elementi va trascurato o annacquato, devono viaggiare insieme se l'Europa vuole davvero superare la sua crisi esistenziale».
Perché la cancelliera Merkel non si muove dalla linea dell'austerità?
«Angela Merkel pensa solo alla sua rielezione. Ma è un calcolo miope e fa un grosso errore. Perché sul piano interno è già molto indebolita. Merkel è forte finché l'economia tedesca è forte. In Germania non c'è crisi economica, ma stiamo attenti perché ci coglierà in modo brutale. Se non ci assumiamo la responsabilità di guidare l'Europa insieme fuori dalla crisi, saranno guai grossi, perché noi saremmo i grandi perdenti, sia sul piano economico che su quello politico».
Quale governo tedesco può fare ciò che lei propone?
«Solo un governo di grande coalizione. Altrimenti, ogni partito all'opposizione sarebbe tentato di sfruttare questa situazione. Ma un governo di unità nazionale ce la farebbe. Non è un passo semplice. "Perché dovremmo farlo?", è la domanda prevalente in Germania"».
Già, perché dovreste farlo?
«Semplice, perché altrimenti vanno a rotoli sessant'anni di unità europea. Fine. Rien ne va plus. Purtroppo non abbiamo più un Helmut Kohl a dircelo».
E come dovrebbero svolgersi gli avvenimenti, qual è il primo passo immediato?
«L'europeizzazione del debito. Il problema, qui la Germania ha ragione, è di evitare che poi le riforme strutturali per migliorare la competitività si fermino o vengano ammorbidite. Non si tratta di europeizzare l'intero debito, ci sono proposte interessanti sul tavolo. Ma il punto di fondo è che la Germania deve garantire con il suo potere economico e le sue risorse la sopravvivenza dell'Eurozona. Bisognerà dire: siamo un'Unione fiscale, restiamo insieme. Sarà difficile, i mercati diranno la loro, le agenzie di rating toglieranno probabilmente la tripla A alla Germania, ma bisognerà resistere e per farlo abbiamo bisogno dell'Unione politica. E qui è la Francia che deve dire sì a un governo comune, con controllo parlamentare comune della zona euro. In gioco è il ruolo globale dell'Europa nel XXI secolo. Vogliamo averne uno? Solo insieme potremo dire qualcosa sul nostro futuro ed essere ascoltati».
Non è troppo tardi per tutto questo?
«No, abbiamo una chance, che probabilmente si aprirà concretamente poco prima del crollo. Bisogna avere nervi saldi, il lusso delle illusioni non ci è concesso. Finora abbiamo solo reagito. Le decisioni dell'Ue hanno sempre inseguito gli avvenimenti. Non abbiamo mai agito in modo strategico. Non basta più».
Cosa vuol dire governo e controllo parlamentare comuni?
«Dimentichiamo per un attimo i 27. Al momento decisivi sono i Paesi dell'Eurozona. I capi di governo agiscono già di fatto da esecutivo europeo, i Parlamenti nazionali hanno la sovranità sul bilancio. Dobbiamo fare passi concreti verso una federazione: nel 1781 c'era una situazione simile in America. Cosa fece Alexander Hamilton? Federalizzò il debito degli Stati, in bancarotta per le spese della Rivoluzione contro gli inglesi. Se non lo avesse fatto, la giovane Confederazione non sarebbe sopravvissuta. Ecco cosa dobbiamo fare anche noi, qui e subito. Purtroppo non siamo governati da leader politici, ma da contabili».
E d'accordo a eleggere un presidente dell'Ue a suffragio universale, come suggerisce Wolfgang Schäuble?
«Non porterebbe nulla. Avrebbe molto più senso se le maggioranze e le opposizioni parlamentari di ogni Stato dell'Eurozona fossero rappresentate in una Eurocamera, dove discutere direttamente, con tutta la legittimità necessaria, l'attenzione mediatica e il coinvolgimento delle popolazioni. Non sarebbe più una creazione esterna come l'Europarlamento, che potrebbe diventare Camera bassa. Mentre i leader sarebbero membri del governo europeo».
L'intervista è finita. Ma Fischer, sempre affascinato dalla Storia, vuole ancora raccontare un aneddoto: «Sono stato spesso a Venezia, ma solo alcuni mesi fa, per la prima volta ho dormito in laguna. Un'esperienza indimenticabile: alle 7 della sera, la città era vuota, nulla sembrava vivo. E allora ho pensato alla Serenissima, alla grande potenza che ha dominato il Mediterraneo e parte del Medio Oriente, esercitando per secoli una forte egemonia economica, politica e culturale, ridotta a un bellissimo museo deserto. Vogliamo che anche l'Europa diventi questo? Non credo, ma potremmo esservi molto vicini».

Repubblica 26.5.12
Il dibattito tra intellettuali e politici nel convegno di "Reset" che si è appena chiuso a Istanbul
Islam, laicità e democrazia. Per capire le stagioni arabe
I partiti religiosi possono venire considerati più capaci di affrontare la povertà e più attenti alla questione della giustizia sociale
di Vanna Vannuccini


Tunisia, Egitto, Libia – la "primavera araba", che ora viene chiamata più cautamente "transizione", ha reso forti dappertutto i partiti islamici. E´ un tradimento della libertà? Ci sono oggi nel mondo più democrazie ma meno democrazia? Alla quinta edizione degli Istanbul Seminars, lodevolmente organizzati ogni anno all´Università Bilgi di Istanbul da Reset/Dialogues on civilizations (e aperti da Giancarlo Bosetti), gli eventi della primavera araba hanno quanto meno obbligato tutti i partecipanti a resettarsi dalla teoria alla realtà politica, e a mettere i teoremi alla prova dei fatti, sforzandosi di ricavarne prospettive e strategie politiche.
Cominciando intanto dalle definizioni. Democrazia o democrazie? Di che cosa si parla nei paesi musulmani quando si parla di democrazia? La libertà dalla tirannide non è un valore soltanto occidentale. E quando viene conquistata non deve per forza sfociare, per non perdere il proprio valore, in forme di società che siano fotocopie delle società occidentali. Una società libera e autodeterminata è pensabile anche con partiti islamici al governo, è stato detto. Pensabile, beninteso, non garantita. Perfino in Turchia, il paese che a noi occidentali appare come l´esempio più riuscito sotto il profilo del funzionamento dei meccanismi della democrazia, i laici lamentano la crescente pressione sociale che spinge verso una "omogeneizzazione" sul terreno dei princìpi religiosi (permettere l´uso del velo nelle università, proibire l´alcol etc).
Tunisia e Egitto, almeno per il modo in cui è cominciata la rivolta, hanno smentito tutte le interpretazioni "orientaliste" di quelle società, e hanno rivelato una forte domanda di democrazia. Il fatto che poi si siano rafforzati i movimenti islamici ha portato semplicemente alla superficie quello che era stato represso per molto tempo: la coscienza di una identità musulmana, che secondo buona parte dei tunisini e degli egiziani (e di altri paesi come il Marocco) dovrebbe riflettersi nella costruzione degli ordini politici. E´ stata per così dire una normalizzazione, non uno snaturamento della rivolta. Tanto più che i partiti islamici vengono visti dalla gente semplice come i più capaci di affrontare i problemi della povertà e delle enormi differenze sociali: sia perché nell´islam la giustizia sociale ha un ruolo preminente, sia perché i leader dei partiti islamici non appartenevano alle élite ultraricche del paese.
E´ vero che la forza trainante della rivolta erano stati i giovani, che chiedevano democrazia. Senza i laici, per i quali la religione dovrebbe restare un fatto privato e non un affare di Stato, la rivoluzione non sarebbe nemmeno cominciata (almeno in Egitto). Avishai Margalit, professore di filosofia a Princeton e a Gerusalemme, ha visto un parallelo con la rivoluzione russa del ‘17: spontanea e pluralistica in febbraio, sotto il pieno controllo dei bolscevichi in ottobre. Ma è un fatto che né in Tunisia né in Egitto né in Libia i laici sarebbero stati abbastanza forti per fare la rivoluzione. Può dispiacere, ma è così. E per fortuna nessun nuovo Lenin sembra affacciarsi sul fronte islamico.
Previsioni sul futuro nessuno naturalmente poteva farne, ma l´esperimento è senza dubbio appassionante: per la prima volta le società arabe hanno la possibilità di fare dei compromessi, dei nuovi patti sociali in cui nessuno detti dispoticamente le regole e tutti siano rappresentati. Ma quanto sul serio prenderanno i governi islamici i diritti dei non musulmani, delle donne, della stampa, la libertà di opinione? E come si distingue una democrazia da sistemi maggioritari che, per quanto legittimati dai risultati elettorali, possono poi ridurre lo spazio per le minoranze e il pluralismo? Giuliano Amato si è detto contrario all´idea di una moltitudine di interpretazioni diverse della democrazia: alcuni suoi cardini non possono venir limitati.
Le divergenze più profonde si sono riscontrate nelle risposte a un messaggio dell´ex presidente iraniano Mohammad Khatami, letto al convegno dal suo consigliere Khoshroo. Khatami critica l´Occidente per aver trascurato "il sacro" e invita a guardare alla democrazia "non come parte integrante della laicità". Secolarismo e democrazia non sono la stessa cosa, afferma. Tra i partecipanti alcuni gli hanno dato in qualche modo ragione: sostenendo, con un richiamo a Habermas, la necessità di adottare un "post-secolarismo", nel senso di accettare un ruolo positivo della religione nello spazio pubblico. Altri invece, come l´ambasciatore Roberto Toscano, hanno contestato questa impostazione habermasiana, affermando che "secolarismo non equivale a ateismo o a ‘anti-religione´, bensì alla necessità di garantire quella separazione tra religione e Stato senza la quale il conflitto - e la perdita di democrazia - sarebbero difficilmente evitabili". Anche gli islamici possono essere democratici, ha concluso Mehmet Pacaci, esperto di esegesi coranica all´Università di Ankara. Ora avranno l´opportunità di dimostrarlo.

La Stampa 26.5.12
La primavera tradita dei giovani egiziani
di Domenico Quirico


Piazza Tahrir: che tragico spreco di piccole vite eroiche, quanto scialo inutile di germinale sanguigna giovinezza! Una rivoluzione, tanta furia e tanto fuoco, le pietre, le barricate, la battaglie davanti al ministero dell’interno, il Palazzo imprendibile, i morti: in nome della dignità, della esigenza di essere liberi e del rifiuto della corruzione. Quegli occhi neri lucidi stupendi dei ribelli adolescenti, le risate di getto, argentine, insolenti, divine come una folgore fuor di un nuvolone, l’eco dei gemiti e singhiozzi del dolore umano prima che diventi urlo, rivolta disperazione e non resti eguale e sepolto nel cuore di tutti. C’era, è vero, in quel lampeggiare di vite di destini di speranze molto loglio ma , insieme, parecchio buon grano. Era, come sempre, una prova pericolosa di eccessiva felicità.
Cosa resta? Alla fine a battersi per la presidenza dell’Egitto, se le prime indicazioni saranno confermate, il candidato (di riserva) dei Fratelli musulmani e un uomo del regime, la faccia del potere militare, il sosia del deposto Mubarak, sacrificato perché ingombrante e impresentabile, il passato che non passa, che non muore. «Far cadere il regime», lo slogan di tutte le rivoluzioni arabe, Internet, non bastava: senza un chiaro programma di quanto sarebbe dovuto venire dopo. Sono un’eco i discorsi che ci scaldavano allora, ancora nel primo anniversario di quel rinascere, tutto razzi e lampi e scatti e colori: i Paesi-gabbia dove vivono 300 milioni di musulmani sembravano spalancarsi per forza interna. Era, dicevano, la nuova «Nahda» l’ennesimo e finale rinascimento. Invece la Città, che arde e sfavilla, domani sarà vuota di forza come un cuore che si schianta, solo con un feroce orgoglio pieno di fiele e di noia.
Sì, è difficile oggi esser ottimisti sulla rivoluzione egiziana, sulla primavera araba che un anno ha già fatto invecchiare, il rinnovamento svanisce nel buio, il Paese che nasce da quella stagione fiammeggiante sembra più vecchio del padre, più assuefatto al lato oscuro del Male arabo. Tutte le putrefazioni politiche sono messe in fermento. Nel parlamento eletto a gennaio (e che deve scrivere la nuova costituzione) dominano la frigida Fratellanza musulmana, l’islamismo di legulei e di burocrati. Trionfa la loro astuta gesuiteria che li ha tenuti, prima, lontani dalla piazza, e poi li ha guidati a rubare il Potere agli altri, ai ragazzi che avevano penato e si erano battuti. Alla fine ogni cosa è stata sistemata a modino. L’esercito, i birri di una mafia affaristica travestita dal patriottismo, controlleranno come prima il bottino miliardario. Nel patto, ormai evidente e infame, agli islamisti sono date in appalto la società e il potere. Potenze cariche di avarizia e di ingiustizia, i generali e i tartufi della Santa Politica, gli unici sopravvissuti alle «indipendenze confiscate», come diceva il politico algerino Ferhat Abbas. Certo: ognuno dei due è pronto a romperlo, quel patto, quando un giorno il vantaggio non sarà più reciproco. Era una alleanza inevitabile, coloro che agiscono per dissimularsi finiscono con l’imparare a fiutarsi. Ma per ora funziona, perché serve a schiacciare i detestati, scomodi ragazzi di Tahrir, la società civile, il Mondo nuovo. Ai tetri becchini islamisti, con la loro costola salafita, spetterà il lavoro sudicio e quotidiano di soffocare lentamente, senza far troppo chiasso (l’ipocrisia occidentale non vuol essere turbata nei suoi accomodamenti), quella rivoluzione pregna di altre rivoluzioni, il suo entusiasmo, la sua verginità spirituale, la virtù di sognare. Perché questo fu la Primavera araba, una sobillazione miracolosa di giovani, del quinto elemento del mondo, l’unica classe rivoluzionaria che ci è rimasta. Non sopravviverà a questa potatura atroce.
Oggi è di nuovo il momento dei piccoli macchiavelli della moschea, a parole anche loro rivoluzionari, ma non come i ragazzi e le piazze: non per muovere la vita, ma per bloccarla. Il termidoro islamico avanza ovunque. Anche in Tunisia la gioia della primavera si appanna, ecco di nuovo l’aggrapparsi al passato; il doppiopetto e le cravatte esibite dai nuovi dirigenti davanti agli ospiti occidentali, non ingannino. Torna la favola della grandezza salafita o la compiutezza di un islam detentore della verità assoluta, l’uso del passato come identità, un museo di illusioni che interessa solo gli arabi. L’orizzonte si rinchiude. Ed è l’Egitto il tassello decisivo, perché è stata la duplicazione della rivolta nelle piazze del Cairo e di Alessandria che ha dato a un evento limitato la dimensione di un sisma generale.
Vinceranno questi politicastri viscidi, con le loro vecchie terapie cincischiate rimesse fuori con una certa aria di pulitezza e di comodità? Ci sono cuori dove certe parole lasciano il bruciore per sempre. Erano liberi e nuovi. Lo spirito di rivolta è giovane, più che giovane è adolescente: sopra ogni mezzo, al di là di ogni mezzo.

Corriere 26.5.12
il riconoscimento della lingua Rom può chiudere la stagione dell’emergenza
di Alessandra Coppola


Esiste una minoranza Rom e Sinti anche in Italia, partiamo da qui. Centocinquantamila persone che non ha più senso chiamare nomadi, perché per la maggior parte vivono stabilmente nel nostro Paese da decenni, spesso anche con passaporto italiano. Non è una comunità bene accetta, in molti casi vive in condizioni di marginalità e indigenza insopportabili per un Paese che si ritenga evoluto. Spesso mette in crisi le coscienze più aperte e progressiste. Il relativismo culturale genera equivoci. L'illegalità, la violenza sui minori e sulle donne, l'occupazione abusiva non sono e non vanno considerati usi e costumi diversi, ma reati da perseguire. Fissati questi paletti, però, isolati i casi criminali, è possibile continuare a ignorare i diritti umani fondamentali di migliaia di abitanti delle nostre stesse città?
Su impulso del Consiglio d'Europa, la commissione Esteri della Camera mercoledì ha approvato (con il «no» della Lega) un emendamento per il riconoscimento delle lingue Sinti e Rom, tra il parere contrario del Viminale e il sostegno del sottosegretario della Farnesina, Staffan De Mistura. Un passo avanti (manca il passaggio in Aula) su una via tortuosa e contraddittoria.
Lo scorso febbraio, il governo ha varato la «Strategia nazionale d'inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Camminanti» sulla base dei quattro pilastri indicati dall'Unione Europea: educazione, casa, salute, lavoro. Manca la messa in pratica, ma il tracciato è quello giusto, sostiene il Centro europeo per i diritti dei Rom (Errc): le politiche emergenziali non fanno che rimandare i problemi, servono progetti a lungo termine per il superamento dei campi e delle discriminazioni. È la linea anche del nostro Consiglio di Stato, che ha bocciato a novembre l'«emergenza Rom» voluta dall'allora ministro Maroni. Qualche settimana fa lo stesso Consiglio ha sospeso quella sentenza di censura per tener vive le attività avviate dal decreto del 2008. Mezzo passo indietro. Lo stato di emergenza resta illegittimo, ma — avverte il direttore dell'Errc, Dezideriu Gergely — «soldi e risorse saranno ancora spesi in inutili misure di sicurezza e sconsiderate, discriminatorie, provvisorie politiche abitative» che quel piano fissava.

Corriere 26.5.12
Cercasi Atlantide disperatamente. E se si trovasse alle Bahamas?
di Eva Cantarella


Il primo a parlare di Atlantide fu Platone, nel Timeo (23 c-25 d): un tempo, al di là delle Colonne d'Ercole (il nome che gli antichi davano allo stretto di Gibilterra) esisteva un'isola che nel Crizia — un altro dei Dialoghi — Platone descrive come splendida, dal punto vista naturalistico e urbanistico, ma su cui dominava una potenza così violenta da minacciare di sottomettere l'Asia e l'Europa intere. Solo Atene le si era opposta e l'aveva sconfitta. Ma a distanza di secoli, nel breve corso di un giorno e una notte, Atlantide, sepolta dalle acque, era scomparsa per sempre. E a distanza di circa duemilacinquecento anni il dibattito suscitato da questo racconto non è ancora finito: è solamente un mito, o nasconde una realtà storica? Nel IV secolo avanti Cristo, Crantore, il primo editore del Timeo, giurava sulla sua autenticità, ma Aristotele era di parere opposto: secondo lui Platone aveva fatto inabissare Atlantide nel mare per evitare che qualcuno gli chiedesse dove si trovava. Il che non ha impedito che nei secoli successivi si continuasse a cercarla, individuandone le tracce nei luoghi più disparati, dalla Spagna, secondo l'ipotesi di Plinio il Vecchio, alle isole Azzorre, secondo quella ottocentesca di Ignatius Donnelly, deputato del Congresso americano, per arrivare al mar Baltico, dove negli anni Trenta del secolo scorso Heinrich Himmler fece addirittura eseguire degli scavi. E negli ultimi decenni dello stesso secolo si pensò che Atlantide fosse l'isola di Creta, o secondo alcuni la vicina Thera (oggi Santorini). Fermiamoci qui, anche se potremmo continuare. Ma come dimenticare che il paradiso perduto di Atlantide è stato ricostruito alle Bahamas (un'altra delle località nelle quali si sarebbe inabissata)? A Paradise Island, l'Hotel Atlantis promette ai visitatori: «Incontrerete antiche rovine e il popolo che venera il sole». Ma bisogna sempre vedere il lato positivo delle cose: qualcuno, tra le migliaia di turisti, potrebbe scoprire l'esistenza di Platone. E magari anche leggerlo.

Corriere 26.5.12
Se la sinistra europea va oltre la Terza Via
La sfida di una socialdemocrazia globale
di Michele Salvati


«Policy Network» è un thinktank londinese creato dal Partito laburista dopo la grande vittoria nelle elezioni del 1997. Tra i suoi compiti, non ultimo era quello di «vendere» la Terza Via — la piattaforma ideologico-programmatica elaborata da Tony Giddens e fatta propria da Tony Blair — a una sinistra europea in cui prevalevano partiti socialdemocratici tradizionali, piuttosto scettici sui meriti di questa nuova strategia. Sul «continente» essa era non di rado percepita come l'applicazione di un vecchio detto inglese: if you can't beat them, join them, se non puoi batterli, unisciti a loro, dove «loro» erano i neoliberisti, i Tories, gli esponenti del partito avverso. Unirsi, naturalmente, non nel senso di confondersi o mischiarsi, ma in quello di rubar loro buona parte della piattaforma liberale, abbandonando i pezzi più obsoleti della vecchia piattaforma socialista. Ma erano poi così obsoleti alcuni di quei pezzi? E non si rischiava di buttar via, insieme all'acqua sporca di obiettivi inattuabili nel nuovo contesto internazionale, anche il bambino dello spirito di eguaglianza, il soffio vitale che distingue la sinistra dalla destra?
Polemiche del passato. I fasti della Terza Via sono lontani anche in Gran Bretagna e i casi di esportazione molto limitati, al di là del gran parlare che se ne fece nelle élite politiche e intellettuali della sinistra democratica europea: di gran lunga il più importante fu quello della Neue Mitte, il nuovo centro, di Gerhard Schroeder. Dopo il breve ritorno al successo del centrosinistra, nell'Europa tra la fine degli anni Novanta e l'inizio del nuovo secolo, nel corso del seguente decennio il centrodestra conosce uno spettacolare recupero e le elezioni europee del 2009 non fanno che registrare una sconfitta del centrosinistra che, Paese per Paese, si era già verificata negli anni precedenti. Insomma, che seguano una strategia più tradizionale e «socialista» o una strategia più revisionista e «liberale», i partiti di centrosinistra perdono.
Questo è lo scenario che sta di fronte ai giovani politici e studiosi di «Policy Network» quando si accingono a scrivere After the Third Way: the future of social democracy in Europe, («Dopo la Terza Via: il futuro della socialdemocrazia in Europa»), 16 saggi utili a chiunque si interessi di politica, società ed economia in Europa e non solo di socialdemocrazia, curati da Olaf Cramme e Patrick Diamond (Tauris, 2012).
Nel frattempo era però cambiato anche l'orientamento del thinktank. Sconfitto Tony Blair, finito l'entusiasmo missionario da venditori di terze vie in un continente retrogrado — lo si vede già nel titolo del libro, Dopo la Terza Via — è ora pieno il riconoscimento che le vie sono tante quante sono le esperienze storiche dei diversi partiti della sinistra democratica, circoscritte tra i tipi ideali della sinistra liberale anglosassone e della socialdemocrazia tradizionale. Tipi ideali entrambi in sofferenza, il primo per il rischio di essere egemonizzato dal neoliberismo del centrodestra, il secondo per il suo sguardo rivolto al passato e ai tempi d'oro del keynesismo e dello Stato del benessere, per la nostalgia che pervade il commovente saggio di Tony Judt (Guasto è il mondo, Laterza): ma in politica la nostalgia è una cattiva consigliera.
C'è poi un nemico anche più insidioso del neoliberismo e dell'incapacità della sinistra di adattarsi alle nuove sfide della globalizzazione: è la destra populista e xenofoba che il ristagno economico, il disagio sociale e l'immigrazione stanno evocando in tanti Paesi europei, e il saggio di Cuperus e Elchardus mostra con chiarezza le difficoltà che la sinistra incontra nel contrastarla. Concludo su questo punto. «Policy Network», a partire dalla sua ristretta base londinese e blairiana, si è internazionalizzato diventando un importante thinktank del socialismo democratico europeo e migliorando molto la qualità delle sue analisi. Se un appunto gli può essere fatto è di non essersi internazionalizzato abbastanza. Scorrendo l'indice del libro si nota subito che gli autori sono tutti anglosassoni o di area tedesca o nordica: non ci sono francesi, spagnoli o italiani o greci o portoghesi, e i riferimenti alla situazione di quei Paesi e alle esperienze dei loro partiti sono molto scarsi nei saggi degli altri autori. Ma forse l'appunto dev'essere girato ai giovani studiosi e politici dell'Europa meridionale, perché, che io sappia, molti sono stati invitati e alcuni hanno partecipato alle riunioni del thinktank, ma evidentemente non sono riusciti a integrarsi nel gruppo.
Ritornando al libro, ed essendo impossibile una rassegna dei numerosi argomenti di cui tratta, mi limito a rilevare una lacuna evidente, che poi si ripercuote sulla sintesi politica finale, sul futuro del socialismo democratico e della sinistra in Europa. Raccogliendo nelle conclusioni i temi principali e guardando al futuro, alla strategia di una «nuova» socialdemocrazia, i curatori, Cramme e Diamond, mettono al primo posto dell'agenda di ricerca il tema di come il socialismo democratico debba rapportarsi alla globalizzazione, consapevoli che è la globalizzazione sregolata quella che ha condotto al disastro della recessione mondiale del 2007-2009 e pone i maggiori ostacoli a una politica di sinistra, comunque definita. Essi non hanno dubbi che la socialdemocrazia — proprio come ha accettato e seguito il capitalismo nazionale ingabbiandolo in una rete di istituzioni che ne hanno corretto le conseguenze più dannose sull'uguaglianza di opportunità dei singoli cittadini e sulla coesione sociale delle comunità — debba fare lo stesso in questa nuova fase, in cui il capitalismo è diventato internazionale e il mondo un villaggio globale. La «piccola» differenza è che la democrazia è rimasta un fenomeno nazionale e una rete istituzionale di controllo non può essere disegnata mediante deliberazione democratica al livello di un singolo Paese, anche del più potente. La rete va disegnata e costruita attraverso accordi tra Stati, e quanto questo sia difficile lo si vede bene oggi, e proprio nell'area in cui la costruzione è più avanzata, l'Unione Europea. Di questo «Policy Network» è consapevole ed è allora sorprendente che alla globalizzazione, alla possibilità e alle istituzioni di una globalizzazione regolata, all'analisi delle difficoltà di accordi interstatali, e in particolare al grande esperimento dell'Unione Europea e dell'eurozona, sia concesso così poco spazio in un libro dedicato al futuro della socialdemocrazia in Europa. Una socialdemocrazia che non ha idee condivise, insieme innovative e realistiche, su questo cruciale problema non può candidarsi come forza politica egemone a livello internazionale e in ogni singolo grande Paese.

Repubblica 26.5.12
New Economy
Formula Krugman "Insegnanti e welfare contro la depressione"
Intervista al Premio Nobel diventato un "guru" per la nuova sinistra americana


NEW YORK «Calma, calma, sono solo un economista». Paul Krugman è divertito, un po´ imbarazzato, ma anche abituato: una sua apparizione in pubblico a New York suscita le ovazioni e urla di approvazione degne di una rockstar. La scena si ripete quando sale sul placoscenico del centro culturale 92Y sulla Lexington Avenue per discutere il suo nuovo libro. Ressa da stadio, folla in delirio. In fondo il tifo popolare se l´è meritato, questo premio Nobel dell´economia trasformatosi in opinionista del New York Times (e Repubblica), censore dei tecnocrati dell´eurozona, keynesiano a oltranza, guru della nuova sinistra americana. Si è conquistato questa "base di massa" perché osa spingersi dove altri non vanno. Il suo blog è uno strumento di battaglia politica contro l´egemonia culturale della destra. Il suo nuovo libro, nell´edizione americana promette o intima "Fuori da questa depressione, subito!". Depressione? Addirittura? L´editore italiano Garzanti, che lo pubblica a fine mese, non se l´è sentita di usare un termine che evoca gli anni Trenta, le code dei disoccupati alle mense dei poveri, il nazifascismo. E così il titolo italiano suona un po´ più tradizionale: "Fuori da questa crisi, adesso". Perché Krugman non esita invece a usare un termine ben più drammatico? «Quella che attraversiamo – risponde – la chiamo la Depressione Minore, per distinguerla dagli anni Trenta. La differenza è meno sostanziale di quanto si creda. Anche allora ci fu una prima recessione, poi una ripresa inadeguata, poi la ricaduta. I tassi di disoccupazione reali di cui soffriamo non sono tanto inferiori a quelli di allora. E se guardiamo al numero di disoccupati a lungo termine, che qui in America restano oltre i 4 milioni, siamo proprio a livelli da anni Trenta». Il messaggio che questo libro martella con insistenza è che il male va combattuto, oggi come allora, con un deciso intervento statale. «Abbiamo bisogno che i nostri governi spendano di più, non di meno – sintetizza il 59enne docente alla Princeton University – perché quando la domanda privata è insufficiente, questa è l´unica soluzione. Assumere insegnanti. Costruire infrastrutture. Fare quello che fu fatto con la seconda guerra mondiale, possibilmente scegliendo spese utili».
Quell´avverbio "subito" che tuona nel titolo del suo libro, Krugman lo esplicita senza esitazioni: se l´Occidente applicasse la ricetta giusta, potremmo essere fuori da questa crisi in 18 mesi. Un anno e mezzo! Attenzione: questa non è una promessa da comizio elettorale. Il bello di Krugman, quello che ti affascina nel personaggio, è l´impegno con cui tiene insieme il suo "ruolo pubblico", di opinionista schierato e aggressivo, con il rigore scientifico del teorico che macina grafici e statistiche come un computer. Capace di passare dall´uno all´altro in pochi istanti, per rispondere all´obiezione politica principale: la sua ricetta oggi appare inascoltata, inapplicabile, impraticabile, perché siamo terrorizzati dal livello del debito pubblico. Non è solo un problema europeo. Anche qui negli Stati Uniti 15.300 miliardi di dollari di debiti, quasi il 100% del Pil, sembrano un ostacolo insormontabile per la sua terapia keynesiana. «Falso, falso – risponde secco – anzitutto dal punto di vista storico. In passato gli Stati Uniti ebbero un debito ancora superiore, durante le seconda guerra mondiale; la Gran Bretagna per quasi un secolo. Il Giappone ha tuttora un debito statale molto più elevato in percentuale del suo Pil eppure paga interessi dello 0,9% sui suoi buoni del Tesoro. Quindi non esistono soglie di insostenibilità come quelle che ci vengono propagandate. Inoltre è dimostrato, e lo vediamo accadere sotto i nostri occhi, che in tempi di depressione le politiche di austerity aggravano il problema: accentuano la recessione, di conseguenza cade il gettito fiscale, così in seguito ai tagli il debito aumenta anziché diminuire».
Resta però il problema politico, e non solo in Europa dove c´è un ostacolo che si chiama Angela Merkel. Anche qui, Barack Obama non ha osato sfidare i repubblicani con una seconda manovra di spesa pubblica anti-crisi. «Anzitutto perché all´inizio Obama sottovalutò la gravità di questa crisi – risponde Krugman – mentre adesso sta cambiando posizione. Il fatto è che a lui conviene battersi fino in fondo per le sue idee, tenere duro, non cercare compromessi. Se Obama vince a novembre, io credo che governerà meglio nel suo secondo mandato».
Un´altra obiezione frequente alla sua ricetta keynesiana, riguarda la qualità, l´efficacia, la rapidità della spesa pubblica. La macchina burocratica è spesso inefficiente, non solo nell´Europa mediterranea ma anche qui negli Stati Uniti. Krugman ha una risposta anche a questo. «La prima cosa da fare – spiega – è cancellare l´effetto distruttivo dei tagli di spesa. Per esempio, qui negli Stati Uniti, bisogna cominciare col ri-assumere le migliaia di insegnanti licenziati a livello locale. Queste sono manovre di spesa dagli effetti istantanei. In Europa, la manovra equivalente è restituire le prestazioni del Welfare State che sono state ingiustamente tagliate».
Veniamo dunque al malato più grave del momento: l´eurozona. A questo paziente in coma, Krugman sta dedicando un´attenzione smisurata. Spesso i suoi editoriali sul New York Times sono duri attacchi all´austerity d´impronta germanica, appelli ai dirigenti europei perché rinsaviscano prima che sia troppo tardi. «Guardate cos´è accaduto all´Irlanda – dice – cioè a un paese che si può considerare l´allievo modello, il più virtuoso nell´applicare le ricette dell´austerity volute dal governo tedesco. L´Irlanda ha avuto una finta ripresa e poi è ricaduta nella recessione. All´estremo opposto ci sono quei paesi asiatici, dalla Cina alla Corea del Sud, che hanno manovrato con energia le leve della spesa pubblica, e così hanno evitato la crisi». Krugman considera probabile l´uscita della Grecia dall´euro, ma lo preoccupa di più il "dopo". Denuncia il rischio di un «effetto-domino, se la Germania non cambia strada». Avverte che le conseguenze di una disintegrazione dell´Unione «sarebbero perfino più gravi sul piano politico che su quello economico». I suoi modelli, oltre ai paesi asiatici, sono la Svezia e perfino la piccola Islanda: «Perché dopo la bancarotta ha avuto il coraggio di cancellare tutti i propri debiti con le banche, negare i rimborsi, ed è ripartita dopo una svalutazione massiccia». Uno schiaffo nei confronti della finanza globale, che il premio Nobel considera legittimo e benefico (per l´Islanda). E su questo conclude toccando una questione scottante: perché anche la sinistra quando va al potere diventa succube dei banchieri? Perché Obama all´inizio del suo primo mandato nominò così tanti consiglieri legati a Wall Street? La risposta di Krugman è fulminante: «Perché danno la sensazione di sapere. Sono davvero impressionanti, quelli di Wall Street: danno a intendere di capirne qualcosa, anche dopo avere distrutto il mondo, o quasi». Qualcuno già punta su Krugman come prossimo segretario al Tesoro, se Obama viene rieletto a novembre. «Si vede che non hanno mai visto il caos che regna sulla mia scrivania e nel mio ufficio», scherza l´economista più influente e controverso d´America. Poi chiude: «A me piace il mio ruolo attuale, che definirei così: il castigatore delle idee sbagliate».

l’Unità Lettere 26.5.12
La fecondazione eterologa


E così nel nostro Paese, tra i pochissimi rimasti al Medioevo in Europa, la fecondazione cosiddetta eterologa rimane vietata, con grande esultanza dei buoni parabolani tutori della “vita”. Sono ben strani questi cattolici. Da un lato sono pronti a lapidare le donne che decidono di interrompere una gravidanza. Dall’altro fanno di tutto affinché quelle che vogliono un figlio non riescano ad averlo. Mentre gli obiettori di "incoscienza", sparsi capillarmente su tutto il territorio, vigilano affinché gameti ed embrioni siano scortati fino al debutto in società, altre guardie svizzere controllano che nessuno possa imitare quegli antichi Maria e Giuseppe che, prima che la loro capannina di Betlemme fosse invasa da pastori e re Magi, aspettavano un sacrosanto figlio senza mai aver copulato insieme... Quella sì che fu una fecondazione eterologa, nel vero senso delle parole (unione tra specie diverse)! Altri tempi, altri costumi. Tornando al nostro presente, in fondo all’abisso teocratico brilla però un barlume: a furia di tornare indietro, potremmo finalmente arrivare all’epoca “avanti Cristo”. Speriamo.
Paolo Izzo