sabato 29 agosto 2015

il manifesto 29.8.15
Europa. Rifondarla con i migranti
La decisione di Merkel: io prendo i siriani, voi occupatevi di tutti gli altri
E se non cambiano le regole, ci devono pensare Grecia e Italia
Se è così è la prospettiva più disgregante per l’Unione
di Guido Viale


In coincidenza con le più recenti stragi di profughi di sicuro non le ultime la decisione di Angela Merkel di sospendere unilateralmente la convenzione di Dublino sui richiedenti asilo e di accogliere in Germania tutti i profughi siriani senza rispedirli nel paese del loro ingresso nell’Unione europea (Grecia, Italia e Ungheria) rappresenta un punto di svolta nel modo di rapportarsi al problema; insieme a molte ambiguità.
Innanzitutto è una decisione unilaterale con la quale Angela Merkel ribadisce chi comanda in Europa, senza bisogno di accordi con Commissione, Consiglio o Parlamento europeo; gli altri Stati membri, se vogliono, possono adeguarsi.
Poi Merkel ha fatto la sua scelta: accoglierà senza respingerli solo i profughi siriani. Certo oggi sono i più esposti a una delle tante guerre in corso; i più numerosi tra le nazionalità che cercano rifugio in Europa; ma presentano anche meno problemi di inserimento: hanno già molti parenti o conoscenze in Germania; quelli che hanno affrontato il viaggio per lo più appartengono a ceti professionali, sono istruiti ed erano abbastanza abbienti da potersi permettere spese di viaggio elevate. Ma sorge immediatamente un problema: quanti è disposta ad accoglierne?
Oltre a quelli che hanno già raggiunto l’Europa, i profughi siriani distribuiti tra Turchia, Libano, Iraq, Giordania ed Egitto sono oltre quattro milioni e altri sei milioni sono sfollati all’interno della Siria. Avere libero accesso in Germania potrebbe mettere in moto gran parte di coloro che finora non hanno avuto mezzi, informazioni o conoscenze sufficienti per decidersi ad affrontare il viaggio. Ma prima o poi proveranno a farlo. La Germania li accoglierà tutti?
Terzo: e gli altri? Quelli di altre nazionalità e altri paesi in guerra? Afghani, eritrei, somali, sudanesi del nord e del sud, yemeniti, tanto per cominciare. Poi, quelli che vengono dalla guerra, ma non sono originari di quei paesi, come i due milioni di lavoratori stranieri sorpresi in Libia dalla guerra contro Gheddafi. E poi, ancora, quelli provenienti da paesi non in guerra, ma esposti in ugual misura alle minacce di bande di ogni genere, come i nigeriani che fuggono da Boko Haram e gli abitanti di diversi altri paesi dell’Africa subsahariana. Sono tutte persone che per condizione sociale, istruzione, abitudini e, non ultimo, colore della pelle, presentano problemi di inserimento nei contesti sociali europei molto maggiori. Il fatto che la Germania apra le porte ai profughi siriani vuol dire che le chiude a tutti gli altri, di cui d’ora in poi dovranno farsi carico gli altri Stati dell’Unione? Magari spartendoseli per nazionalità, come ha fatto la Merkel? Gli afghani in un paese, gli eritrei in un altro, i nigeriani in un altro ancora?
Poi ci sono i profughi cosiddetti ambientali ed economici: quelli che non hanno diritto all’accoglienza e vanno rimpatriati, anche se spesso provengono da prove, nei loro paesi di origine e durante il loro viaggio, altrettanto dure di quelle affrontate dai profughi siriani. Nell’annunciare la sua decisione la Merkel ha fatto capire che lei la sua parte l’ha fatta. Il resto tocca agli altri. Quel "resto" è, tra l’altro, l’approntamento dei cosiddetti hot spot per identificare e selezionare i nuovi arrivati e gestire il respingimento di chi non ha diritto all’asilo in base ai requisiti indicati dalla convenzione di Dublino, che la Germania ora non applica, ma neanche contesta.
A esser chiamate in causa sono sostanzialmente Italia e Grecia (ma la Grecia è stata esentata dal trattenere i richiedenti asilo, anche se identificati, per le devastanti condizioni economiche a cui l’hanno ridotta i tre memoranda cucinati dall’Europa). In altre parole, ad ora – cioè con la sospensione unilaterale di Dublino 3 – la decisione della Merkel suona così: io mi prendo i siriani, voi occupatevi di tutti gli altri. E se non cambiano le regole, ad accoglierli o a respingerli ci devono pensare Grecia e Italia, eventualmente sovvenzionate con qualche fondo europeo aggiuntivo. Se così è, prospettiva più disgregante per l’Unione non potrebbe esserci.
Tutto rimanda ai criteri da adottare per svolgere un’operazione impossibile: distinguere i "profughi" dai "migranti economici" in base alla classificazione in "sicuri" e "insicuri" dei paesi di provenienza. E’ il succo della proposta contenuta in un articolo del Presidente della Commissione Jean Claude Junker pubblicato da alcuni giornali europei : nella prima parte del testo, che ha riscosso molto successo, si deplorano i muri che l’Europa sta costruendo ovunque, la negazione della sua ispirazione originaria. Ma ai muri di mattoni, reti metalliche e filo spinato Junker vuole sostituire una barriera di pratiche burocratiche finalizzate al respingimento di chiunque provenga da un paese "sicuro". Ma chi decide se un paese è sicuro? Bruxelles o chi sta cercando di scapparne? Può essere sicuro un paese dove si muore di fame e di sete, anche a causa dei cambiamenti climatici e del saccheggio delle multinazionali? O dove vigono lo schiavismo, infibulazione, lapidazione o discriminazioni etniche? E le persone che cercano in Europa un rifugio da queste situazioni sono forse meno bisognose di chi fugge da un guerra? A parziale riduzione dei dubbi suscitati dall’annuncio di Angela Merkel, un articolo di Sigmar Gabriel, vice-cancelliere, e Walter Steinmaier, ministro degli esteri della Germania (due figure poco affidabili: sono stati tra i più accesi persecutori della Grecia di Tsipras nel corso del recente negoziato) lascia intendere, per lo meno in termini generali, che il problema profughi è per forza di cose diventato centrale per l’Europa. L’articolo enuncia dieci punti di un "Codice comune" su immigrazione e asilo
politico:
1. Occorre garantire ai profughi «condizioni dignitose» di accoglienza con gli stessi standard in tutta l’Unione; 2. Lo status di asilo per i rifugiati deve essere valido in tutta l’Ue; 3. E’ necessaria un’equa distribuzione dei rifugiati tra tutti i paesi dell’Europa – con quote proporzionali alle loro capacità senza scaricarne il peso solo su alcuni di essi; in particolare su quelli di arrivo; 4. Occorre una gestione comune delle frontiere, soprattutto per quanto riguarda la registrazione dei rifugiati; 5. Occorre fornire aiuti ai paesi oggi maggiormente sotto pressione, come Grecia e Italia; 6. Il Mediterraneo non deve rimanere un cimitero di rifugiati; 7. Nel «lungo periodo» (???) occorre che coloro che hanno diritto all’asilo facciano ritorno nei loro paesi, che devono predisporre la loro riammissione; gli aiuti tecnici e finanziari a loro destinati devono essere subordinati a questa condizione. 8. Vanno distinti gli stati sicuri da quelli insicuri; 9. La Germania ha bisogno di una legge sull’immigrazione distinta da quella che regolamenta l’asilo; 10. La stabilizzazione dei paesi «in declino» e il contenimento di guerre e violenze devono andare di pari passo con gli sforzi per promuovere lo sviluppo economico nei paesi di origine dei profughi. «Questo – scrivono è il principale ambito politico in cui promuovere il progetto dell’integrazione europea».
Che cosa manca? Niente (le parole sono condivisibili) e tutto: il come realizzarle. Nell’immediato, manca la proposta di creare subito dei corridoi umanitari per evitare i pericoli del viaggio (o si devono accogliere solo quelli che ce l’hanno fatta?). Poi manca l’indicazione dei mezzi per accogliere milioni di profughi (di ogni genere): per non creare risentimento nella popolazione autoctona, occorre garantire reddito e lavoro a tutti quelli che ne sono privi: cioè, fine dell’austerity, reddito garantito e piani generali del lavoro per tutti. Infine manca il nesso fondamentale – tutto ancora da definire tra politiche di accoglienza adeguate alla dimensione epocale del fenomeno e costruzione di una politica estera dell’Europa ispirata al disarmo e alla pace e rivolta alle aree e degli Stati da cui provengono i profughi.
Repubblica 29.8.15
Calasso: una collana nel segno dell’intuizione di Freud
di Roberto Calasso


Un tempo la storia dell’arte si occupava soprattutto di un certo canone di pittori ammessi nelle pinacoteche. Oggi sarebbe difficile dire che cosa non rientri nella storia dell’arte, purché si presenti sotto forma di immagine. Questa enorme espansione del campo visivo ebbe inizio, prima ancora che con Warburg, con il grande Eduard Fuchs, che trattò con uguale perizia le caricature dei giornali satirici, le vignette erotiche, i fogli volanti che si vendevano ai mercati, le prime fotografie e le opere degli antichi maestri. Fu un benefico sviluppo, di cui oggi si è quasi persa la memoria, perché l’immagine è diventata più invadente, ubiqua e tirannica della parola. Ma a questo fenomeno non si è collegata una maggiore comprensione dell’immagine stessa. Che è diventata piuttosto oggetto di una ignara acquiescenza.
Avviando una collana che si propone di trattare dell’immagine sotto ogni aspetto, e avendo scelto un nome che richiama, pour cause, quello della più celebre rivista del movimento freudiano, abbiamo pensato a tutto questo. E pensiamo anche che si applichi esemplarmente al primo titolo della collana Paura reverenza terrore di Carlo Ginzburg, che in tutta la sua opera ha praticato questo modo di studiare le immagini.
IL LIBRO Paura reverenza terrore di Carlo Ginzburg (Adelphi, pagg. 311, euro 40). L’autore sarà a Mantova il 9 settembre alle 18 con Salvatore Settis
Repubblica 29.8.15
L’immagine al potere quando la storia diventa icona
Dall’oro del Nuovo Mondo di Cortés al frontespizio del “Leviatano” di Hobbes fino a “Guernica” Le origini della nostra società visiva nel nuovo libro di Carlo Ginzburg
di Antonio Gnoli


cinque saggi che Carlo Ginzburg dedica all’iconografia politica — titolo “Paura reverenza terrore” — inaugurano “Imago”, la nuova collana dell’Adelphi. Ho chiesto all’editore, Roberto Calasso il perché di una scelta così azzardata in un tempo in cui tutto è immagine. Poi, a lettura compiuta, capisco quanto l’immagine sia ricca di residui inesplorati, di zone opache, di enigmi e di affascinanti soluzioni. Ginzburg ci ha messo di fronte a tutto questo. Ha guardato con gli “occhiacci” dello storico il farsi di alcune vicende, apparentemente di dettaglio, in realtà fondamentali per capire come la ricerca iconica sia parte integrante di un processo più generale che investe la politica e, in un certo senso, l’attualità. Ma cosa si deve intendere con parole oggi così usurate? Ginzburg non ignora certamente il presente. Da storico conosce le difficoltà insormontabili di volerlo ingabbiare e spiegare: «Qualche volta», scrive, «bisogna cercare di sottrarsi al rumore incessante delle notizie che ci arrivano
da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato». Rileverei qui due motivi spaziali: l’obliquità e la distanza. Traduco: non c’è una via diretta per conoscere ciò che ci sta accadendo e, soprattutto, solo allontanandoci dal fuoco dell’azione possiamo sperare di afferrarne il senso. È un’indicazione di metodo e di sostanza storiografica che questi saggi ci consegnano. Di che cosa parlano?
Ginzburg esamina cinque situazioni storiche in cui centrale risulta essere l’immagine. Nel primo analizza una coppa di argento dorato, eseguita da un artigiano di Anversa ai tempi dei conquistadores. Dono diplomatico di Margherita d’Austria al Re di Francia. Materia per specialisti di arti minori, verrebbe spontaneo pensare. In realtà, attraverso il prezioso oggetto Ginzburg ci mostra come le sue immagini velano e svelano al tempo stesso l’efferata conquista spagnola, al seguito di Cortés. La coppa è decorata da scene che illustrano l’avventura del Nuovo Mondo ed è realizzata in uno stile ibrido che richiama figure della mitologia greca e romana. Nascondendo al tempo stesso le crudeli e sanguinarie responsabilità dei conquistadores verso i nativi americani. Memoria e distanza possono diventare strumenti del potere.
Il secondo e il terzo saggio pongono al centro il rapporto tra religione e politica. In uno Ginzburg esamina l’immagine disegnata sul frontespizio del
Leviatano di Thomas Hobbes. Per il filosofo dell’assolutismo il potere politico presuppone la forza, ma da sola essa non basta a fondare lo Stato. Necessita della paura e della soggezione. Ossia di quegli ingredienti con cui anche la religione ha in passato trionfato. Hobbes è all’origine della teologia politica.
Paura, terrore, disorientamento, sono anche i sentimenti che attraversano il nostro attuale sentire. Ginzburg avverte che il mondo nel quale viviamo è per molti versi simile a quello descritto nel Leviatano . Hobbes immaginò che per uscire dall’anarchia e dal terrore dello Stato di Natura occorresse rinunciare alla propria libertà individuale. Faremmo anche noi lo stesso se il pianeta fosse in pericolo? Se l’estinzione minacciasse la più potente delle specie esistenti, cioè l’uomo? Accetteremmo, si chiede Ginzburg, un Leviatano infinitamente più potente di quelli del passato? Un futuro ipotetico — aggiunge lo storico — che speriamo non si verifichi mai.
Nell’altro saggio si esamina il quadro con cui David effigiò l’ultimo respiro di Marat. La posta in gioco, nota Ginzburg, era per David non solo artistica ma politica. Egli cristianizzò un frutto maturo dell’illuminismo creando il culto del rivoluzionario. La “venerazione” di Marat (il suo cuore deposto sull’altare) sembrerebbe in palese contraddizione con i contenuti dell’azione politica, ma quando può, «il potere secolare si appropria dell’aura della religione». La divinizzazione dell’”incorruttibile” fu pienamente compresa da Baudelaire.
Infine gli ultimi due saggi relativi a due immagini potenti del Novecento: Il manifesto con cui Lord Kitchener — alla vigilia della Prima guerra mondiale — richiamò la gioventù inglese alle armi. Quell’immagine mise in moto la potente macchina bellica e Ginzburg ne analizza due dettagli: lo sguardo di Lord Kitchener e il suo dito puntato verso l’osservatore. Di entrambi i particolari segue l’evoluzione, ma anche i precedenti. L’uso della tradizione ma al tempo stesso la forte capacità di innescare un meccanismo imitativo: il richiamo a Caravaggio (non solo) ma altresì la sorprendente riutilizzazione di quella immagine in chiave pubblicitaria, o in quella più terrorizzante del “Grande Fratello”. Infine, l’ultimo dei saggi (forse il più sorprendente) dedicato a Guernica .
Non è facile riportare la ricchezza di tutti i passaggi. Vi basti sapere che l’idea che Guernica (il quadro o meglio il murale fu esposto la prima volta nel 1937) è tutt’altro che la semplice testimonianza contro la guerra e il fascismo. Scopriamo, in conclusione, una relazione poco nota tra Picasso e Georges Bataille.
Il ruolo fondamentale che il filosofo francese — con la sua mitologia privata e fascinazione per il fascismo — ebbe nelle diverse versioni di Guernica . Come dire: le cose non sono mai quelle che si vedono.
Che cosa vediamo? Immagini naturalmente. Di esse lo storico non può fare a meno. Ginzburg ha presente la grande lezione di Aby Warburg e l’elaborazione del concetto di Pathosformeln , le formule del pathos, con cui il grande storico dell’arte ritrovò un filo comune nella storia delle immagini, da quelle classiche del mondo antico alle più recenti: certi gesti primordiali, che l’arte classica immortalò sotto il segno del mito, sopravvissero grazie anche alla commozione che suscitarono e che, come un fiume carsico, seppero trasmettere alle epoche successive.
Una costante nel lavoro di Ginzburg è la centralità dell’immagine (basti pensare allo straordinario lavoro che nei primi anni Ottanta dedicò a Piero della Francesca). L’immagine, come ponte tra memoria (visiva) e distanza, va in soccorso dei documenti scritti, illumina fonti nascoste, rivela, in qualche modo, l’irrivelabile.
Cos’è che non si può rivelare e che pure viene dischiuso dallo sguardo dello storico? Sospettiamo sia il reincantamento, tra falso e vero, del mondo moderno. È una conclusione che andrebbe approfondita. Rappresentando una delle traiettorie principali dell’importante lavoro di Ginzburg.
Repubblica 29.8.15
Guerra e pace negli angoli di casa Tolstoj
Viaggio a Tula sulla tomba del grande scrittore Meta da sempre di un laico pellegrinaggio
di Piergiorgio Odifreddi


A due centinaia di chilometri da Mosca, vicino alla cittadina di Tula, si trova Jasnaja Poljana, “Chiara Radura”, una meta di pellegrinaggio laico nota in Russia per essere stata la residenza di Lev Tolstoj e dei suoi antenati. In particolare, del principe Nikolai Volkonskij, generale zarista e nonno materno dello scrittore. L’assonanza del suo nome con quello del principe Nikolai Bolkonskij di “ Guerra e pace” non è ovviamente casuale. Il primo ha infatti ispirato da
vicino la scontrosa e irascibile figura del secondo. E ha anche ispirato il ruolo di aiutante di campo del maresciallo Kutuzov nel 1805, e dello zar Alessandro I nel 1812, ricoperto nel romanzo dal principino Andrej Bolkonskij.
Quest’ultimo è immaginario, perché il vero principe Volkonskij non aveva figli. Ma, come il fittizio principe Bolkonskij, possedeva una figlia: la bigotta principessina Marja, ispirata alla madre di Tolstoj. E il verbo “possedere” rende bene l’idea della relazione tra i due, che nella realtà e nella finzione era la tipica sottomissione di una figlia-serva a un padre-padrone. Anche se, in entrambi i casi, la morte del tiranno di famiglia spezzerà le catene alla giovane e le permetterà di diventare moglie e madre, oltre che erede della tenuta di famiglia: rispettivamente, Jasnaja Poljana e Ljsje Gorj, “Monte Calvo”.
Passare attraverso le due torri che segnano l’entrata alla tenuta significa dunque immergersi nei veri luoghi dell’ancor vitale ma immaginario romanzo. Dopo le torri, la prima parte della proprietà che si incontra è un grande lago. In lontananza, al di là di esso, si scorgono il palazzo del principe Volkonsky, oggi sede di uffici della tenuta.
Il viale che costeggia il lago punta dritto alla casa di Tolstoj, che si intravede lontana fra le betulle. Le stanze nelle quali lo scrittore ha abitato e lavorato per la maggior parte della sua vita non costituiscono che un’ala del ben più grande palazzo costruito dal padre, poi morto prematuramente. Il figlio lo ereditò intero, ma dovette venderlo quasi tutto a ventisei anni per pagare debiti di gioco. La turbolenta vita giovanile di Tolstoj, trascorsa appunto a giocare e gozzovigliare con gli amici, frequentare bettole e bordelli a Mosca e San Pietroburgo e approfittarsi delle contadine nella sua tenuta, è riflessa nelle vicende del conte Pierre Bezuchov, il protagonista di Guerra e pace, che è l’alter ego dello scrittore e ne riflette la lenta e incerta maturazione. Così come Natascia Rostova, con la quale Pierre convolerà a tempo debito, è un misto della moglie Sonja e della cognata Tanja di Tolstoj.
Dal 1921 la casa di campagna dello scrittore a Jasnaja Poljana e quella di città a Mosca sono musei. In entrambe ci sono grandi tavole da pranzo per accomodare la nidiata dei figli e i numerosi visitatori. Soggiorni e salotti con angoli per le conversazioni, le letture e gli scacchi. Pianoforti, camere da letto separate per i coniugi, i figli, i parenti, gli ospiti e i servi. E soprattutto gli studi, nei quali Tolstoj scriveva di giorno le brutte copie che la moglie riscriveva in bella di notte: un andirivieni di manoscritti e bozze che, nel caso di Guerra e pace , costrinse la paziente signora a ricopiare interamente una mezza dozzina di volte l’intero romanzo. Uno dei grandi divani di pelle scura degli studi era servito per il parto di Tolstoj stesso, il 28 agosto 1828, oltre che di molti dei suoi fratelli e figli. E le sedie della scrivania erano sorprendentemente basse, una da bambino e l’altra con le gambe tagliate, per permettere al miope scrittore di leggere da vicino i fogli senza usare gli occhiali.
Un aspetto leggermente inquietante è la profusione di ritratti e busti di Tolstoj sulle pareti e negli angoli delle due case, a testimonianza di una megalomania che faceva il paio con una vitalità degna di Hemingway. Anche da anziano Tolstoj amava infatti essere e mostrarsi sportivo, e passava ore a cavalcare, nuotare, giocare a tennis, pattinare sul ghiaccio e pedalare, oltre a far sesso a più non posso, dentro e fuori casa. Allo sport univa poi il lavoro nei campi e le attività manuali più disparate, dal fabbricarsi gli stivali all’attingere l’acqua dal pozzo, nonostante lo stuolo di servi. In parte lo faceva anche per conoscere da vicino ciò che poi descriveva nei suoi romanzi. Ad esempio, solo uno scrittore che aveva osservato per ore le arnie che ancor oggi si trovano dietro la casa di Jasnaja Poljana poteva paragonare la Mosca abbandonata dagli abitanti e invasa dalle truppe di Napoleone a “un alveare che langue senza l’ape-regina”, e dilatare la metafora in varie e straordinarie pagine di prosa naturalistica sulle api. Per lo stesso motivo, sia le parti storiche che quelle immaginarie di
Guerra e pace sono saldamente
ancorate alla realtà. La biblioteca dello scrittore trabocca di libri sulle guerre napoleoniche, che oltre a scrivere il romanzo servirono a Tolstoj per preparare le lezioni che impartiva ai ragazzi della tenuta, in una scuola da lui stesso fondata. Egli conosceva inoltre di persona sia la vita al fronte, per aver combattuto da giovane in Crimea, sia il campo di battaglia di Borodino.
Quanto ai personaggi immaginari del romanzo, i parenti e gli amici di Tolstoj si divertivano a ritrovarvisi reciprocamente rappresentati, benché lo scrittore negasse di essere “un ritrattista o un memorialista”. Alla lista di quelli già citati (nonno materno, madre, moglie e cognata) vanno aggiunti il nonno paterno Ilja, che ispirò il bonario conte Ilja Rostov. Il padre Nikolai, alias Nikolai Rostov, che alla fine del romanzo sposerà la principessina Marja: cioè, appunto la madre di Tolstoj. E la “zia Toinette”, che divenne Sonja, il “fiore sterile” della famiglia Rostov.
La visita alla tenuta termina percorrendo un lungo sentiero che si allontana dalla casa di Tolstoj e si addentra nei boschi, conducendo alla sua tomba. Lo scrittore riposa sotto un semplice cumulo di frasche, non lontano dalla sua cavalla preferita Delirio. Il luogo lo scelse lui stesso in ricordo della sua infanzia: ci andava a giocare con i fratelli, e un giorno il maggiore Nikolai, morto giovane, aveva raccontato di averci seppellito un bastoncino verde con su inciso il segreto della felicità.
Lo scrittore vi fu tumulato il 9 novembre 1910, due giorni dopo che era morto nella stazione di Astapovo, a un centinaio di chilometri da Jasnaja Poljana. Il 28 ottobre, infatti, con una zampata da Leone, era scappato di casa e dall’eroica moglie, dopo aver vissuto gli ultimi trent’anni da Pecora mistica: cioè, predicando bene la povertà e la castità, ma razzolando male nel lusso e nella lussuria.
La sua ultima piccola avventura l’hanno raccontata in molti, da Vladimir Pozner nel romanzo- verità Tolstoj è morto (1935) a Michael Hoffman nel film “The last station” (2009). Ma la grande e memorabile storia di Jasnaja Poljana, dei suoi variopinti abitanti e dei suoi tempi gloriosi l’ha cantata Tolstoj stesso in Guerra e pace . Ed è solo per capire meglio com’è nato e cresciuto quel romanzo che ancor oggi visitiamo la tenuta, e non certo per rivangare le nevrotiche bizze o le noiose prediche del suo proprietario.
La Stampa 29.8.15
Il treno nazista carico d’oro rispunta in una miniera polacca
Sparito nel ’45: un uomo in punto di morte avrebbe rivelato la mappa per trovarlo
di Vittorio Sabadin


I vagoni carichi d’oro sarebbero in una galleria fatta scavare dai prigionieri polacchi nelle montagne vicino alla cittadina di Walbrzych simile a quella che è diventato un museo (a sinistra) Ma i tunnel sarebbero minati

Dalla metà di agosto, la piccola cittadina polacca di Walbrzych non è più la stessa. Per le strade si aggirano con fare misterioso numerosi stranieri con lo zaino in spalla. Alcuni portano sul capo un cappello alla Indiana Jones: fanno molte domande e poi spariscono sulle montagne. Gli alberghi ricevono prenotazioni da giornali e televisioni di tutto il mondo e basterà poco per scatenare l’invasione: tutti stanno cercando un leggendario treno carico di 300 tonnellate d’oro, nascosto dai nazisti in fuga nel 1945. Sono settant’anni che se ne parla, ma stavolta sembra proprio che qualcuno lo abbia trovato.
La trattativa col governo
Un paio di settimane fa, l’avvocato Jaroslaw Chmieleweski stava preparandosi a una delle solite noiose giornate di Walbrzych, quando due uomini dei quali non si conosce il nome, un tedesco e un polacco, sono entrati nel suo studio. Senza preamboli, gli hanno chiesto di rappresentarli in una trattativa con il governo locale: avevano trovato – dissero – il treno d’oro dei nazisti nascosto in una galleria tra le montagne e ne avrebbero rivelato la posizione solo dopo avere firmato un accordo che garantisse loro il 10% del valore del carico.
Lo scetticismo
La prima reazione è stata di scetticismo. Già nel 1960 e nel 1990 gli abitanti della zona avevano organizzato una caccia al tesoro nazista, trovando solo qualche moneta in una galleria. Ma qualcosa di nuovo ci deve essere, visto che da giorni la polizia si riunisce con l’esercito e con i vigili del fuoco: discutono per ore e non dicono mai di che cosa hanno parlato.
«Sul letto di morte un uomo ha fornito le informazioni giuste a chi poi lo ha trovato», ha detto Piotr Zuchowski, vice ministro della Cultura polacco, che indica al «99 per cento» le possibilità che il treno sia proprio quello di cui da 70 anni si narra.
Jacek Cichura, il presidente del consiglio comunale, ha dichiarato alla «Gazeta Wyborcza» di essere sicuro che il treno è stato trovato, ma che bisogna essere prudenti: potrebbe essere minato, carico anche di esplosivi e le gallerie potrebbero essersi riempite di gas nel corso degli anni. Che la situazione sia seria lo conferma anche la dichiarazione del ministro della cultura polacco, Piotr Zuchowski: ha rivolto un appello ai cercatori di tesori, pregandoli di smetterla di venire in città per il treno dell’oro, perché le probabilità che hanno di trovarlo sono nulle.
Ma se i nazisti in fuga per l’arrivo dell’Armata Rossa avessero voluto nascondere un treno pieno d’oro, non avrebbero potuto scegliere un posto migliore. Già nel 1939 avevano occupato la zona e il magnifico castello con 200 stanze di Ksiaz, che Hitler andò spesso a visitare. Servendosi del lavoro forzato dei prigionieri, costruirono nelle montagne un dedalo di gallerie, in una operazione così importante e misteriosa da meritare anche un nome: “Riese”, Gigante. I treni d’oro nazisti sono esistiti davvero e un deposito di 8.189 lingotti fu scoperto dagli americani in una miniera di sale di Merkers, nel sud ovest della Germania. Ancora non si trova la “Camera d’ambra” di Pietro il Grande trafugata da Carskoe Selo e molti altri tesori razziati dal Reich in tutta Europa sono scomparsi.
Nelle viscere della terra
Secondo le voci che girano in città, il treno d’oro si troverebbe a 70 metri di profondità vicino al sobborgo di Walim, che ha una deliziosa, piccola stazione. In giugno si scoprirono nel terreno sei profonde buche che nessuno aveva autorizzato a fare. Erano l’inizio di una storia che può riservare importanti sorprese.
Corriere 29.8.15
Ottocento
I primi patti con la mafia
Le collusioni tra politica e criminalità risalgono alle origini dell’italia unita
di Paolo Mieli


La prima trattativa tra Stato e mafia è di centocinquant’anni fa. Centocinquantaquattro, per l’esattezza. A dicembre del 1861, pochi mesi dopo la morte di Cavour, parlando alla Camera dei deputati, il parlamentare Angelo Brofferio sostiene che «la maggior parte dei disordini che succedono in Italia» è da attribuirsi a forze di pubblica sicurezza in combutta con bande illegali: «Il governo non si accorge che la sua polizia è composta d’uomini i quali non hanno rossore di trattare coi ladri, cogli assassini, coi malfattori d’ogni specie». Proprio così: pezzi di Stato che, secondo Brofferio, «non hanno rossore di trattare» con i malviventi. La Camera reagisce con manifestazioni di scandalo che vengono messe a verbale. Ma Brofferio insiste: «Sì, o signori, coi ladri e cogli assassini, i quali, come si rivelò nei criminali dibattimenti, comprano l’impunità dividendo colla polizia l’infame bottino». Si riferiva, il parlamentare, ad un processo dell’estate precedente contro tre «agenti sotto copertura» che avevano intrallazzato con la «seconda Cocca», una banda criminale nata a Torino negli anni Cinquanta. Stiamo parlando del «processo Cibolla», il primo grande scandalo giudiziario dell’Italia unita, che aveva preso il nome da Vincenzo Cibolla, il quale si era autoaccusato di diversi reati (tra cui lo stupro di una bambina) e aveva denunciato le collusioni di cui all’intervento di Brofferio.
È di qui che prende le mosse un saggio di straordinaria importanza scritto da Francesco Benigno, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878 , che l’Einaudi si accinge a mandare in libreria. L’importanza del libro di Benigno è data dalla coraggiosa descrizione di come Destra e Sinistra storica (e quest’ultima forse più ancora della prima) intrattennero rapporti con la malavita organizzata fin dalla fondazione del nostro Stato unitario. Anzi, Destra e Sinistra quasi incoraggiarono mafia, camorra e altre associazioni banditesche a trasformarsi in quello che sarebbero diventate un secolo dopo.
Malgrado il nostro Paese sia da tutti percepito come la culla di particolarissime associazioni di malavita organizzata (mafia e camorra in primis ) «la storiografia», afferma Benigno, «non ha prestato la giusta attenzione al ruolo cruciale giocato dalla gestione dell’ordine pubblico nel processo, difficile e tumultuoso, di allargamento della partecipazione politica». La ragione di questa «limitata attenzione storiografica per le prassi informali di gestione della pubblica sicurezza» deriva in fondo «dall’ambiguità della cultura liberale rispetto ai limiti, e quindi ai confini, della cittadinanza». Vale a dire «dal bisogno di costruire un doppio sistema di legalità, uno in vigore per il cittadino qualificato (maschio, bianco, proprietario e istruito) e uno per gli esclusi da quel quadro di libertà costituzionali, pur teoricamente valido per tutti». Così la storia di questi nessi non è mai stata analizzata con scrupolo per «quella sorta di ritegno ad approfondire la questione delle prassi poliziesche, sentite come intimamente ripugnanti», scrive Benigno. Una reticenza, prosegue, «che dai testi d’epoca è transitata nelle pagine degli storici».
Il suggerimento dello studioso è quello di analizzare la malavita organizzata e le sue interrelazioni con la politica nello stesso modo asettico di cui ci serviamo quando ci applichiamo alla massoneria. Nessuno pretenderebbe, scrive, «di studiare i massoni ottocenteschi (ma anche novecenteschi) come se fossero “solo” massoni, e non, per dire, patrioti, avvocati, socialisti, proprietari terrieri e membri di associazioni dedite vuoi alla filantropia vuoi allo spiritismo». Lo stesso «dovrebbe valere per lo studio di mafiosi, camorristi e malfattori del XIX secolo che di sicuro non vivevano in un mondo separato e immaginario, dal cui humus criminogeno sarebbero stati autonomamente e misteriosamente germinati».
Di camorristi e mafiosi si parlava già prima del 1861. Ce n’è traccia nella celeberrima lettera del deputato inglese William E. Gladstone a lord Aberdeen (1851), in cui si stigmatizzava la dominazione borbonica negli ultimi anni di vita del Regno delle Due Sicilie. Si trattava, però, di malavitosi d’infimo rango al servizio di più padroni, la cui attività era confinata nelle carceri e nei quartieri più malfamati delle città meridionali. Nella Palermo liberata da Garibaldi (estate del 1860) qualche contatto improprio viene addebitato a Giuseppe La Farina, l’emissario di Cavour, «l’unico domatore creduto capace di ammansire le tigri della sovversione». Stesso discorso vale per Napoli e per l’uomo a cui, da Torino, il presidente del Consiglio affiderà la pubblica sicurezza: Silvio Spaventa. Questi, che pure aveva avviato una campagna di disinfestazione dai camorristi promossi e legittimati da Garibaldi, ad un certo punto verrà accusato dalla stampa democratica di utilizzare per le sue mire «metodi illegali non troppo diversi da quelli adoperati dalla famigerata polizia borbonica».
Ma l’uomo simbolo di questa stagione di passaggio di regime, resta Liborio Romano, un liberale a cui Francesco II si era affidato negli ultimi giorni di regno e che aveva mantenuto i suoi incarichi al momento della dittatura di Garibaldi. Di più: Liborio Romano aveva gestito la transizione dal regime borbonico a quello garibaldino garantendo l’ordine pubblico grazie ad un esplicito accordo con i principali boss della malavita organizzata. Accordo che si perpetuerà nelle prime settimane di gestione del potere da parte dell’eroe dei due mondi. Al punto da mettere in agitazione il comandante dei carabinieri, generale Trofimo Arnulfi, che il 29 novembre del 1860 così scriveva a Spaventa: «La feccia al presente più temibile in Napoli… sono i camorristi, audaci, sanguinari ed armati; sono costoro padroni della sicurezza pubblica, di mettere in azione con denaro i lazzaroni a danno di coloro che si potranno vedere terrificati». Questa gente, secondo il generale, è senza dubbio alcuno, «vera canaglia». Arnulfi annuncia il proponimento di parlarne con il luogotenente di Vittorio Emanuele II: «Opinerò per un colpo di Stato contro i camorristi in carica, poiché non si potrà essere sicuri finché parte dell’autorità sta in loro potere». Ma la stampa torinese saluta l’integrazione dei camorristi nel nuovo regime come un positivo «segnale del mutamento degli orientamenti profondi della plebe napoletana», nota fino a quel momento «per le sue tendenze controrivoluzionarie e sanfediste».
Come si può vedere, un bell’intreccio di contraddizioni. E un atteggiamento complessivo da parte dei «liberatori» tutt’altro che di contrasto alla malavita, la quale, anzi, è da subito in rapporti con «la nuova politica». In primis , Giuseppe Garibaldi. Garibaldi e la sinistra vengono implicitamente accusati dai seguaci di Cavour di proteggere quella «setta di birboni» che si trova «nelle prigioni, nelle case di prostituzione, di gioco». I garibaldini respingono le accuse e le ribaltano contro Spaventa. L’occasione propizia per questo ribaltamento si presenta con l’affare del «Virgolatoio» (da virgola, mazza), una squadra di bastonatori assunti da Spaventa per contrastare i camorristi fatti entrare nell’amministrazione napoletana da Liborio Romano. Uno di loro, Giuseppe D’Alessandro, in arte «Peppe l’Aversano», era stato misteriosamente accoppato e, per ritorsione, qualcuno aveva fatto fuori il caporione Ferdinando Mele, messosi in luce per essersi a suo tempo schierato contro il regime borbonico e gran nemico del «Virgolatoio». Si era poi scoperto che ad uccidere Mele era stato Salvatore de Mata, detto «Torillo» o anche «Bello guagliò», uno degli uomini di Spaventa. Il quale Spaventa il 18 luglio 1861, a causa dello scandalo, era stato costretto a dimettersi. Con grande gioia del generale Enrico Cialdini, formalmente schierato dalla sua parte, ma suo acerrimo rivale.
Successivamente la lotta alle commistioni tra politica e malavita sarà un cavallo di battaglia della Destra storica contro la Sinistra mazziniana e garibaldina. Che andrà di pari passo alla campagna militare contro le rivolte al Sud qualificate tutte come «brigantaggio». Di briganti certo ce n’erano in giro, più d’uno, ma l’intento di inquadrare in quella categoria ciò che accadde al Sud tra il 1861 e il 1865 era ad ogni evidenza propagandistico. E i parlamentari che avevano partecipato ai moti del 1848 cominciarono a mettere in dubbio la buona fede di chi vedeva dappertutto un problema di «maffia» (così si diceva allora).
Ad esempio il deputato siciliano Paolo Paternostro il 5 giugno 1875 disse in Parlamento che chi usava quel termine si adeguava ad una «moda»: «Il primitivo senso di questa parola si è alterato ed oggi maffia pare voglia dire tutti i reati previsti e direi anche non previsti dal codice penale; molti prefetti chiamati a definire i maffiosi, si imbrogliarono…». Ma proprio in quell’occasione Diego Tajani ex procuratore del re a Palermo, in quel momento deputato nelle file dell’opposizione, si disse certo dell’esistenza di quell’organizzazione malavitosa: «Il negare che la maffia esista significa negare il sole… è qualcosa che si vede, che si sente, che si tocca pure troppo». Tajani, racconta di come, giunto a Palermo e resosi conto dell’andazzo, e cioè «della cogestione dell’ordine pubblico affidata ai criminali», avesse scritto una lettera a una persona autorevole per chiedergli «a che giuoco si giuocava» e questi aveva risposto che solo arruolando i «maffiosi» si sarebbe potuto «poi» debellare la «maffia». Attenti, diceva l’ex procuratore di Palermo, la maffia esiste ed è temibile «non tanto perché pericolosa in sé ma in quanto strumento di governo e perciò forte di una rete invisibile di protezioni». Il dado era ormai tratto. Con un improvviso cambiamento tattico uno dei capi della Sinistra, Agostino Bertani, cercò di approfittare del discorso di Tajani per un affondo contro la Destra, chiedendo un cambio di sistema che significava anzitutto un mutamento di classe dirigente. E di lì a un anno, nel 1876, Destra e Sinistra si dettero il cambio.
Dopo il passaggio a sinistra e la salita al governo di Agostino Depretis, le cose andarono anche peggio. A Palermo giunse come prefetto Luigi Zini, noto per aver «avversato le deviazioni extralegali del potere esecutivo». Zini si fiderà del ministro dell’Interno Giovanni Nicotera, ma resterà spiazzato dal mutamento di linea allorché lo stesso Nicotera, nel giro di poche settimane, influenzato dal suo segretario, il potentino Pietro Lacava, si allontanerà, scrive Benigno, «da quell’indirizzo legalitario e garantista con cui aveva inaugurato il suo mandato». Si avvera la profezia di Luigi Settembrini, per cui «coloro che un tempo si mescolarono nelle cospirazioni e nelle sette, non possono far bene i ministri». E quando vengono le elezioni politiche (novembre 1876), il successo della Sinistra è «conquistato» grazie, anche, ad accordi con la malavita.
Poi, ottenuti i voti nel modo di cui si è appena detto, Nicotera si presenta come uomo d’ordine e di «sicurezza ad ogni costo». Contro i socialisti. Il ministro approfitta di un caso specifico: l’ammonizione per mafia di Francesco Sceusa, esponente di un piccolo gruppo internazionalista trapanese e animatore di un giornale socialista del luogo, «Lo Scarafaggio». In Parlamento, Nicotera accusa Sceusa di essere «un mafioso ammantato con la veste di uomo politico». Di più, allarga il discorso dicendo che «i socialisti sono mafiosi in Sicilia, camorristi a Napoli, accoltellatori nelle Romagne». La «Gazzetta d’Italia» contrattacca e accusa Nicotera di esser stato la spia che nel 1857 aveva provocato il fallimento della spedizione di Carlo Pisacane a Sapri (alla quale il ministro, pure, aveva partecipato). Sostiene Benigno che si trattò di un «regolamento di conti all’interno della sinistra» tra Nicotera e Francesco Crispi, appena escluso dal governo. La sinistra intransigente, di Benedetto Cairoli e Giuseppe Zanardelli, a questo punto, si scatena contro il ministro, inaugurando una prassi che farà proseliti nei decenni successivi (fino ai tempi nostri) definendolo come «più autoritario, illiberale e corruttore» dei suoi predecessori. Nel contempo, Nicotera guadagna l’appoggio di commentatori moderati del calibro di Giacomo Pagano e Ruggiero Bonghi.
Sono le premesse del fenomeno che prenderà il nome di «trasformismo». A quel punto Depretis molla Nicotera e recupera, al ministero dell’Interno, Crispi. Il quale però sarà costretto a dimettersi allorché il «Bersagliere», un giornale che fa capo a Nicotera, lo accuserà di bigamia. Il nuovo re, Umberto I, per uscire da questa situazione intricata, offrirà la guida del governo a Cairoli che avrà con sé Zanardelli. Ma non finirà qui. Il prefetto di Palermo, Antonio Malusardi, tira fuori un dossier da cui risulta che in un possedimento della Real Casa, la tenuta della Favorita, vengono ospitati «personaggi sospetti». Uno dei guardiani sarebbe l’ammonito Francesco Cinà, mentre il capo dei guardiacaccia è Camillo Cusumano, considerato un «temibile mafioso» e già arrestato otto volte. La vicenda della Favorita, scrive Benigno, «mostra ancora una volta come i legami con le “classi pericolose” vengano usati alla stregua di strumenti di regolamento di conti fra gruppi di potere». In tutto questo libro si ha l’impressione di leggere pagine che non si riferiscono solo agli anni che vanno dal 1861 al 1878.
Il Sole 29.8.15
Stretta sui media. Sotto accusa per corruzione
Indagati due dirigenti del sito del «Quotidiano del popolo»
di R.Es.


Indagati per corruzione due dirigenti della società che gestisce il sito del principale giornale del Partito comunista cinese, il Quotidiano del popolo. Liao Hong, presidente di People.cn, è stato sottoposto a “misure restrittive obbligatorie”, un termine che in genere indica l’arresto, in quanto sospettato di crimini legati alla corruzione; il vicepresidente della società, Chen Zhixia, è pure indagato.
Liao,che è stato anche direttore del giornale, ha una lunga militanza con il Quotidiano del popolo. Nel 2009 ha vinto un premio giornalistico di primo piano messo in palio dal governo.
I due dirigenti non sono raggiungibili e non è chiaro se abbiano un avvocato. «Le indagini proseguono», ha dichiarato il procuratore. Il Quotidiano del popolo, in un comunicato pubblicato sul suo sito, ha sottolineato di aver chiesto alla società di cooperare con gli investigatori e ha assicurato la piena operatività delle pubblicazioni.
Non si tratta dell’unica indagine sull’influente settore dei media di Stato, parte di una stretta più ampia sulla corruzione avviata dal presidente Xi Jinping nel 2012. Guo Xhenxi, direttore della pubblicità della China Central Television e direttore generale del canale economico-finanziario, è stato in carcere nel giugno 2014 per sospetta corruzione; diversi produttori, quadri e giornalisti del network televisivo sono stati indagati di recente.
Sebbene il governo mantenga le redini sui media cinesi, una serie di riforme attuate nell’ultimo decennio ne ha indebolito parzialmente il controllo, accrescendo - seppure in maniera limitata - l’indipendenza editoriale delle testate. Di conseguenza si assiste a periodici giri di vite sui mezzi di informazione, incluso l’arresto di giornalisti accusati di aver tradito o messo in discussione la linea e la censura del Partito comunista.
Il Sole 29.8.15
Pechino usa il «bazooka», risale la Borsa
Terzo intervento sulla liquidità della Banca centrale - In campo anche i fondi pensione
di R.Fa.


PECHINO Finisce bene un’altra settimana durissima per i listini cinesi. Chiusura positiva della borsa di Shanghai a 4,8% con l’indice composite – ed era ora – nuovamente oltre quota 3mila (per la precisione: 3.232 punti).
Ancora un segno più, dunque, a confermare la risalita delle borse cinesi dal pozzo senza fondo delle perdite, giovedì Shanghai aveva chiuso a 4,82%.
Sul fronte azionario, tutti i principali settori hanno registrato aumenti. Performance un po’ sottotono per i titoli bancari dopo che i principali big del settore hanno pubblicato i risultati del semestre che indicano una crescita quasi nulla dei profitti nella prima metà dell'anno e un ulteriore aumento delle sofferenze.
Utili sostanzialmente piatti nel primo semestre per due delle quattro grandi banche pubbliche cinesi in presenza di domanda interna debole e crediti problematici in aumento.
Bank of China, che tra l’altro è il principale operatore in cambi del Paese, archivia il semestre con un utile netto a 90,75 miliardi di yuan, in aumento dell’1,14% rispetto al corrispondente periodo dello scorso anno. L’istituto, quotato alla borsa di Hong Kong dove ha chiuso la seduta in ribasso del 3,53%, ha ricordato in un comunicato che la crescita globale è stata rallentata e che l'istituto è allineato a una crescita più lenta ma anche più sostenibile, il cosiddetto new normal.
Risultati piatti anche per un’altra delle big four, la Agricultural Bank of China (Abc) che ha registrato nello stesso periodo un incremento degli utili netti limitato allo 0,3% a 104,32 miliardi di yuan.
L’istituto tradizionalmente è attivo nelle zone rurali della Cina e il suo presidente, Liu Shyu, ha sottolineato in un comunicato che «gli attuali sviluppi economici globali restano instabili e incerti. L’economia cinese sta tuttora affrontando una grande pressione al ribasso. Dinanzi a varie sfide come l’incremento dei crediti in sofferenza e del rallentamento della crescita degli utili, la banca ha un compito difficile nel prevedere e controllare i rischi nella sua attività».
La Banca centrale è intervenuta anche ieri per stabilizzare lo yuan continuando a immettere liquidità nel sistema bancario nazionale.
Ha infatti lanciato una nuova operazione di rifinanziamento a breve, della durata di sette giorni, per 60 miliardi di yuan (circa 8,3 miliardi di euro) al tasso del 2,35%. Si tratta del terzo intervento realizzato in una settimana dalla Banca centrale cinese dopo che la settimana scorsa Pboc ha iniettato nel mercato 150 miliardi di yuan.
Il timore di ritornare al caos delle ultime due settimane e alle speculazioni selvagge che lo hanno caratterizzato aleggia nell’aria, al punto che le autorità di Pechino intendono rendere più rigorosi i controlli sulle manovre sui future.
La China Securities Regulatory Commission, l’autorità di controllo sulla Borsa, a partire dal 31 agosto ha predisposto che la copertura sui future passi dal 20% al 30% del valore complessivo dei contratti. Inoltre la stessa Commissione ha inviato alla polizia 22 casi sospetti, incluse ipotesi di manipolazioni di mercati e insider trading.
In ogni caso per i listini si è trattato di una settimana di passione, in cui senza l'intervento della Banca centrale sui tassi e sui ratios, senza gli acquisti di repo sul mercato aperto e affini, il bilancio sarebbe stato ben più negativo.
Come si è detto, la Banca centrale è intervenuta anche a sostegno dello yuan, deprezzato di due punti l’11 agosto con effetti disastrosi per i mercati globali e per la Cina, soprattutto.
Quasi ogni giorno la Banca centrale è ormai costretta a predisporre misure in aiuto della divisa nazionale, limando perfino le riserve estere.
Il Sole 29.8.15
La doppia terapia per la Cina e l’Europa
di  Alberto Quadro Curzio


La crisi cinese sembra essere subentrata a quella euro-greca. Più in generale,l’economia mondiale non si è riassestata nel dopo crisi mentre si sta indebolendo anche la spinta (della globalizzazione) per uno sviluppo di lungo periodo. Consideriamo due fattori importanti di questo scenario e cioè liquidità-finanza e materie prime. Si tratta di due “opposti” perché il primo opera con estrema velocità creando spesso delle bolle mentre le materie prime, nella loro espressione fisica, entrano in processi di produzione-utilizzo improntati al lungo periodo. Al presente entrambi i fattori contribuiscono a squilibrare e rallentare la crescita mentre non si diffondono politiche economiche per riorientare la geo-economia. Preoccupano in particolare Cina ed Europa di cui tratteremo, mentre gli Usa stanno crescendo bene.
Liquidità e finanza. Molti (tra cui Krugman che interpretiamo liberamente) segnalano che nel mondo vi è un eccesso globale di risparmio da cui sono partite varie bolle speculative alla ricerca di profitti finanziari invece che andare verso investimenti produttivi. Il credito facile e la liquidità, per fare alcuni esempi, hanno gonfiato prima la bolla immobiliare Usa e poi ne hanno creata un’altra in Spagna, mentre in alcuni Paesi emergenti si sono avuti rialzi abnormi nelle valute. Adesso la grande liquidità pare ritornata prevalentemente negli Usa rialzando (pur nelle volatilità) il dollaro e le quotazioni di Borsa.
Molte sono state e sono le cause delle “bolle” in varie combinazioni temporali: scarsezza nella domanda di investimenti, austerità frenante spesa pubblica e consumi, bassa inflazione, bassi tassi di interesse. In sintesi, per noi la globalizzazione Ict-finanza ha spiazzato troppo gli investimenti produttivi perché questi danno profitti più nel medio-lungo termine che si allungano ulteriormente per quelli infrastrutturali (materiali ed immateriali). La finanza necessita invece di profitti veloci che spesso comportano forti oscillazioni.
Ma anche gli investimenti produttivi necessitano di finanza che verrebbe meglio incanalata se lo sviluppo di lungo termine fosse ancorato a programmi infrastrutturali nuovi e di rinnovi ecocompatibili (ma anche a quelli in tecno-scienza, istruzione e salute). Su “binari” di questo tipo , in partenariati pubblico-privato, si potrebbero attrarre maggiori capitali finanziari che sostengano anche strategie di impresa con rendimenti più attraenti e durevoli.
Materie prime. Anche tra queste ci sono state in passato varie bolle speculative delle quali non ci interessiamo qui. Rileviamo invece (come ha evidenziato l’Economist) che è in corso una divaricazione di medio-lungo periodo tra l’indice dei prezzi delle azioni (Msci world) e quello dei prezzi delle materie prime (indice Bloomberg ). Fatto 100 il livello dei due indici all’aprile del 1991, da allora quello dei prezzi delle azioni ha avuto tre andamenti di ascesa-declino sovrastando sempre (salvo un breve periodo di eguaglianza) quello dei prezzi delle materie prime. Quest’ultimo, dopo un consistente periodo di crescita (sia pure con oscillazioni) che l’ha spinto a un massimo nel 2007 (indice salito di 2,5 volte), ha iniziato un declino che l’ha riportato al livello del 1991. Cioè a 100 mentre l’indice azionario è 3,50 volte superiore a quello del 1991. Altri indici sulle materie prime danno profili diversi (anche per le componenti valutarie) ma l’aggregato segnala un calo.
Una spiegazione (prescindendo dal livello del dollaro) della dinamica dei prezzi delle materie prime fa perno sulla potente domanda cinese (su cui Marco Fortis ha da anni evidenziato vari record mondiali) durante la travolgente crescita dei decenni passati. Questa ha innescato un aumento di produzione di materie prime dovunque. Un complesso circuito di sovra-produzione, di calo dei costi di produzione dovuti all’innovazione, di concorrenza al ribasso sui prezzi per espellere nuovi concorrenti (è il caso petrolio saudita contro shale Usa), che ha anche inciso al ribasso ma non in modo omogeneo sui costi di produzione di altre materie prime energivore, ha danneggiato molti Paesi produttori anche per il deprezzamento delle loro valute rispetto al dollaro. La domanda aggregata è quindi calata un po’ dovunque anche per la crisi 2008-2014.
Cina ed Europa . Il rallentamento cinese, dopo decenni travolgenti, cambia adesso lo scenario globale. La Cina (che a parità di poteri d’acquisto è la maggiore economia mondiale) ha in corso una complessa transizione che secondo l’Fmi deve “normalizzarla” sia rallentando la sua crescita tra il 6% e il 7% annuo sia con riforme. È necessaria la distinzione nella complementarietà tra istituzioni (centrali e locali) e mercati , tra imprese di Stato e private, tra mercati emersi e mercati sommersi (dov’è grande quello del credito). E infine il renmimbi dovrà arrivare alla piena convertibilità di mercato. L’Fmi preme inoltre per il controllare subito le bolle in atto (quelle immobiliari in particolare) e in potenza.
In definitiva l’Fmi ritiene che lo statalismo di mercato cinese con crescite annue tra il 10% e il 15% non sia più sostenibile. Che questa transizione sia molto ardua è chiaro sia per le notizie politico-partitiche cinesi sia per gli eventi dei giorni scorsi. L a caduta della Borsa cinese (peraltro non peggiore di quella di fine 2007-08), l’improvvisa svalutazione dirigistica del renmimbi dapprima e la riduzione dei tassi di interesse poi, l’immissione di liquidità, hanno dato l’impressione che il rallentamento dell’economia cinese sia ben maggiore di quello programmato dal governo e previsto dall’Fmi.
È un rischio grave per la già fragile economia mondiale. La Cina non può però fare tutto da sola anche se un sistema con risparmi e investimenti tra il 45% e il 50% del Pil deve far crescere rapidamente la domanda interna (beni e servizi) di consumo e non solo per evitare bolle speculative. In questo contesto globale , l’Eurozona e la Ue, la cui crescita fatica a superare il 2%, sono chiamate ancora una volta alle loro responsabilità. Vanno attuate politiche economiche espansive, rilanciata l’occupazione (specie quella giovanile) e quindi la domanda interna, intensificati investimenti infrastrutturali pubblici e in partenariato che trascinino quelli industriali privati. Perché il mercato unico e l’euro non bastano per fare della Ue uno dei motori affidabili dello sviluppo mondiale.
Corriere 29.8.15
La vetta da scalare per Merkel
di Franco Venturini


Timoniera nel bene e nel male di tutta la politica europea, Angela Merkel non poteva più rinunciare al suo ruolo sul tema scottante dei flussi migratori. L’atroce morte in Austria di settantuno sventurati è una strage all’interno dell’Europa e all’interno del mondo germanico, non una fatalità «esterna» in quel Mediterraneo che pure continua a mietere un numero ben superiore di vittime. L’opinione pubblica tedesca è scossa come mai prima, e preoccupa che si riaffaccino episodi di xenofobia neonazista. Soprattutto, è ormai evidente anche alla cancelliera che le migrazioni siano destinate a durare e rappresentino per la sopravvivenza dell’Europa una minaccia non inferiore al disordine finanziario.
A Berlino è in corso, tardivamente, la presa d’atto di una nuova priorità squisitamente politica che si affianca a quella vecchia di natura economico-finanziaria: se non gestita con criteri equi l’ondata migratoria darà una forza non più controllabile alle strumentalizzazioni populiste ampiamente presenti nella Ue, e la rotta di collisione tra democrazia elettorale e governabilità finirà per distruggere l’intera costruzione europea. Occorre dunque concepire strategie diverse e urgenti che portino a un sistema unificato del diritto d’asilo, al ritorno delle quote nella ripartizione degli aventi diritto, e forse alla revisione delle regole di Dublino sull’esempio di quanto la cancelliera ha fatto per prima sospendendole a beneficio dei profughi siriani.
La nuova consapevolezza della Germania, che pure non corre i pericoli politici interni della Francia o dell’Italia, è motivo di speranza e deve essere accolta da un benvenuto altrettanto consapevole. Deve esserci chiaro che il nuovo orientamento del governo tedesco rappresenta in concreto l’unica possibilità di arrivare a quei traguardi che l’Italia da tempo insegue, perché è stato ampiamente dimostrato in sede europea che non abbiamo, se non in presenza di momentanee scosse emotive dovute a immani sciagure, il peso necessario per far valere le nostre argomentazioni davanti agli altrui egoismi. Così come si è visto che l’auspicato asse italo-franco-spagnolo non esiste, con Madrid su inattese posizioni anti ripartizione come i Paesi del Nord e dell’Est, e Parigi ondeggiante tra consultazioni privilegiate con Berlino e timori di favorire il Front National.
Dobbiamo, questa volta, affiancarci alla Germania e incoraggiarla nel suo ruolo di leadership, portarle le nostre esperienze e conoscenze per esempio della situazione in Libia ma anche di quella nei Balcani, tentare di favorire una svolta voluta ora anche da Berlino sapendo però che ci sarà battaglia e che le resistenze saranno dure a morire. Per questi motivi abbiamo noi per primi interesse a non dilazionare oltre la fine dell’anno — come peraltro concordato giovedì alla conferenza di Vienna — l’entrata in funzione dei nostri «centri di registrazione», strettamente legati, nella visione della Merkel, ai passi successivi sul diritto d’asilo e sulle quote.
Si può tornare a sperare, se faremo la politica giusta. E tuttavia dobbiamo anche essere lucidi, vedere i limiti della nostra speranza e del nostro impegno a fianco della nuova determinazione tedesca. Angela Merkel è imbattibile in casa, esercita un enorme potere di influenza in Europa, ma sbaglierebbe chi volesse accostarla al Cancelliere di ferro Otto von Bismarck e alla sua capacità di creare in Europa uno stabile sistema di alleanze. Per certi aspetti la Merkel è anzi una Cancelliera d’argilla, perché né l’Europa né il mondo di oggi sono quelli dell’Ottocento. La crisi greca può ancora degenerare. Obama è tutto elogi ma comincia il suo lavoro ai fianchi per confermare a gennaio le sanzioni anti russe sull’Ucraina ben sapendo che la Germania si è esposta con le intese di Minsk II e che un loro fallimento avrebbe un prezzo anche politico per Berlino. La crisi economica non è stata ancora superata del tutto ed ecco che la Cina fa tremare il mondo, soprattutto quei Paesi, come la Germania, che hanno puntato tutto sulle esportazioni rinunciando allo sviluppo della domanda interna.
Sono tempi non facili, anche per Angela Merkel. E la questione dei migranti non li farà migliorare. Basterà il peso tedesco a far rientrare i nazional-egoismi messi scandalosamente in mostra al Consiglio europeo del 25 giugno? Si riuscirà davvero a far passare un sistema di quote obbligatorie e basate su parametri oggettivi sin qui rivelatosi irraggiungibile? Le garanzie che alcuni vedono negli accordi di Dublino potranno davvero essere modificate, e le politiche nazionali sull’asilo rese comuni? Acquisita la scelta di distinguere tra migranti con diritto d’asilo e migranti economici da rimandare a casa, come potranno avvenire respingimenti tanto massicci e tanto costosi, forse con il coinvolgimento di una missione Onu? E come si pensa di impedire che quanti avranno ottenuto asilo e saranno stati assegnati pro quota a un determinato Paese si spostino di loro iniziativa per esempio in Germania, dove già vive oggi la netta maggioranza dei migranti che ce l’hanno fatta?
È bene non perdere di vista questi e altri interrogativi per valutare correttamente la montagna che Angela Merkel ha annunciato di voler scalare, le sue probabilità di successo e di conseguenza anche le nostre. Il confronto che si annuncia non sarà facile, e malgrado l’urgenza non sarà veloce. Ma da oggi esiste una possibilità, che prima aveva dimostrato di non esserci e che l’Italia farà bene a sostenere senza rinunce e senza furbizie.
La Stampa 29.8.15
Cacciari: “Finalmente sull’immigrazione si è svegliata”
“La sua leadership è inevitabile ma finora l’ha usata malissimo”
di Marco Bresolin


Professor Massimo Cacciari, Angela Merkel è sempre più leader dell’Ue.
«La notizia sarebbe il contrario. È il leader del Paese leader dell’Ue: se non a lei, a chi spetta quel ruolo?».
Certo è che le sue ultime uscite in tema di immigrazione segnano una svolta...
«Era ora! Finalmente anche i tedeschi si stanno svegliando!».
Quella indicata da Berlino è la strada giusta?
«Anche la Merkel si sta rendendo conto che la questione epocale dell’immigrazione non può più essere affrontata in un’ottica di pura emergenza. Bisogna cambiare, finalmente l’hanno capito pure loro».
Quindi la cancelliera sta usando la sua leadership nel modo migliore?
«Mah, su questo andrei molto cauto. Finora la Germania ha usato malissimo il suo ruolo di guida dell’Unione Europea. Guardiamo alla crisi della Grecia».
Dicono che però alla fine sia stato evitato il peggio.
«La crisi greca è stata gestita in modo pessimo».
Perché?
«Perché bisognava intervenire subito. Se lo avessero fatto in tempo, tutto si sarebbe risolto con una crisetta. E invece hanno lasciato che la questione si ingigantisse. Vorrei ricordare che il peso della crisi greca per l’Europa è di dieci volte inferiore a quello della Sicilia per l’Italia».
Comunque sembra che gli altri Paesi europei stiano riconoscendo con meno fatica questo ruolo di leader a Berlino.
«Ma perché non ci sono alternative. Volente o nolente la leadership dell’Europa è della Germania. È determinante».
Questo però non fa altro che alimentare i sentimenti anti-tedeschi di chi non vuole un’Europa germanocentrica. Lo spettro dei populismi si ingigantisce.
«Ho sempre sostenuto che queste posizione anti-tedesche sono totalmente ridicole. Critiche senza senso».
L’egemonia tedesca non può essere messa in discussione?
«Ma la Germania questa posizione di leadership se l’è conquistata e meritata. Le spetta. Il problema semmai è un altro».
Quale?
«Che questa leadership viene usata malissimo».
Dalla Merkel?
«Avrebbe potuto avere un ruolo di guida politica e culturale, non solo economica. E invece non è stato così».
Sull’immigrazione, però, qualche spiraglio si vede.
«E meno male. Come dicevo prima, forse ora si stanno svegliando».
Gli altri Paesi, Francia in testa, devono quindi rassegnarsi a un ruolo di secondo piano?
«Ma la Francia dove vuole andare? La Francia è un malato, esattamente come noi. Non può pretendere la leadership, non è in grado».
A proposito, l’Italia di Renzi che ruolo si sta ritagliando?
«Il solito ruolo marginale. In questo, devo ammetterlo, ha ragione D’Alema (che ha parlato di subalternità del governo italiano ai conservatori tedeschi, ndr). Siamo destinati a questa posizione di marginalità».
La Stampa 29.8.15
Così Merkel ha preso l’Europa per mano
L’ultima uscita pubblica sull’immigrazione ha segnato il cambio di passo della Cancelliera Da rigorista economica a statista dell’Unione:riuscirà a trascinare gli altri Stati membri?
di Francesca Sforza


Sono mesi che i fantasmi della storia tedesca inseguono la cancelliera Angela Merkel. Prima si sono sollevati per mano dei greci, che nelle loro piazze hanno issato cartelli in cui la ritraevano in tenuta nazionalsocialista, poi si sono materializzati nell’inconscio collettivo di una più vasta Europa del Sud (Italia compresa) che sempre più spesso ne sottolineava le asprezze o, come nel caso dell’incontro con la piccola profuga palestinese che le chiedeva asilo ricevendo in cambio una generica assicurazione formale, la scarsa empatia con il grande problema dei rifugiati. Paladina dell’austerità nelle scelte economiche, personificazione del rispetto delle regole e delle quote in quelle politiche, questa era Angela Merkel fino a ieri, quando a Vienna ha spiazzato tutti i suoi colleghi durante il vertice sull’immigrazione con poche ma tonanti battute: «È l’ora di mostrarsi solidali, l’Europa è ricca, intervenga».
La Germania oscura
Non c’è soltanto il calcolo politico di breve e medio termine nella scelta di Angela Merkel di richiamarsi a un’Europa dei valori: stavolta Angela Merkel ha voluto guardare lontano, e lo ha fatto sull’onda di una scossa che le è venuta dal presidente della Repubblica Joachim Gauck. Mercoledì scorso infatti, dopo gli episodi di violenza xenofoba che avevano sconcertato l’opinione pubblica tedesca, il presidente, durante un incontro con alcuni rifugiati a Berlino, ha tirato fuori una parola che sembrava aver perso il suo posto nel dibattito nazionale: «Dunkeldeutschland». Letteralmente significa «Germania oscura», ma anche «il lato oscuro della Germania», ed era utilizzata agli inizi degli anni Novanta quando si trattava di integrare la parte Est del Paese. La Germania oscura era quella che resisteva all’accoglienza dei suoi fratelli, che per dieci anni ancora avrebbe usato l’espressione «matrimoni misti» per indicare l’unione tra un uomo di Amburgo e una donna di Dresda, che costruiva persino la sua comicità sull’inaffidabilità, la lentezza, la ristrettezza mentale di quelli dell’Est rispetto alla superiorità indiscussa di quelli dell’Ovest. Tornando a parlare di «Dunkeldeutschland» e del pericolo di ricadervi oggi trasferendone gli effetti sui richiedenti asilo, Joachim Gauck ha lanciato alla cancelliera un avviso che lei non può non aver raccolto: «Riconciliarsi anziché dividersi».
Il passato nell’Est
Merkel e Gauck non si sono mai amati, non è un segreto: vengono entrambi dall’Est, ma lui è stato uno della prima linea e della prima ora, e ha sempre considerato «la ragazza» come troppo compromissoria, troppo affascinata dalla macchina dell’intrigo politico, buona per un partito, non per un Paese. Ma il loro linguaggio è stato sempre lo stesso: sono cresciuti mangiando cetriolini sottaceto di marca sovietica, leggendo propaganda, guidando Trabant e sfidando la potenza occhiuta della Stasi. Non sono cose che si dimenticano, per questo il richiamo alla «Dunkeldeutschland» - e il dibattito che in Germania ne è seguito - deve aver avuto sulla cancelliera una risonanza particolare. Chi ha vissuto e combattuto per quella riunificazione, sa che la riunificazione è possibile. Anche quella dell’Europa. Il dramma dei rifugiati ha offerto ad Angela Merkel l’occasione per dimostrarsi all’altezza della storia. Quella difficile del suo Paese, ma anche la sua, e la nostra.
La Stampa 29.8.15
Ora è Berlino a ricordare i diritti dell’uomo a Parigi
di Cesare Martinetti


Disperso nel mare, insieme ai migranti, c’è il fantoccio irriconoscibile di quel monumento che un tempo si chiamava «i diritti dell’uomo». Retorica, certo, ma quella retorica buona che si sedimenta dentro i riflessi istintivi di fronte alle tragedie come ai drammi individuali.
E che si legge nelle costituzioni occidentali e democratiche, compresi i principi fondativi dell’Unione europea. Secondo un’indagine Ifop, il più grande istituto di sondaggi, oggi i due terzi dei francesi sono contro l’arrivo di stranieri. Proprio in questo paese che ha fatto dei diritti dell’uomo una religione laica al punto da tradurne la pratica con un sostantivo – «droitdelhommisme» – e un aggettivo – «droitdelhommiste» – anche la lingua si ribella ed ormai i due termini sono usati più in senso derisorio che di positivo apprezzamento. Nel discorso comune un «droitdelhommiste» da nobile cavaliere che era, è diventato una specie di buonista all’italiana, ingenuo e un po’ fesso.
E così succede che a quel tradizionale appuntamento del dopo ferie che si chiama «l’université d’été», l’università dell’estate, del Partito socialista da ieri a domenica a La Rochelle, salvo ripensamenti dell’ultima ora, non è previsto nemmeno un dibattito sulla grande questione del momento: l’immigrazione. A questi stati generali del partito di François Hollande e Manuel Valls si parlerà di tutti i grandi temi dell’umanità, ma non dei migranti, o almeno non direttamente.
La solitaria iniziativa «per una battaglia di valori» dello storico Alain Bergounioux che è andato a lamentarsene direttamente all’Eliseo, secondo quanto racconta Le Monde, non ha avuto esito. Hollande gli avrebbe risposto che il governo non cambia linea su sicurezza e immigrazione e cioè «fermezza». Detto in altre parole si preferisce parlare di migranti e non di rifugiati, anche di fronte al flusso di siriani, per accampare giustificazioni di «sicurezza» e difficoltà economiche con il 10 per cento e oltre di disoccupati francesi. «Se Jean Jaurès fosse ancora vivo, mai avrebbe accettato che una causa umanitaria non venisse nemmeno considerata dal suo partito», ha commentato il «droitdelhommiste» Bergounioux.
Jaurès venne assassinato da uno studente nazionalista che voleva la guerra contro la Germania, centoun anni fa, giusto alla vigilia del Grande massacro. Oggi, anche grazie al fatto che esiste l’Unione europea, la guerra non c’è, per lo meno quella di un tempo. Ma Angela Merkel, andando mercoledì ad Heidenau, nel Sachsen, a Est, dove c’è stata l’ultima fiammata antistranieri di marca neonazi e pronunciando un durissimo discorso contro i diffusori di odio, ha dichiarato la sua guerra all’inerzia dei partner europei, a cominciare dalla Francia. La cancelliera ha così assunto di fatto il ruolo di leader dell’Europa più di quanto non avesse già prima: schiaffi ai violenti e agli intolleranti e apertura ai migranti con la revisione delle intese di Dublino che obbligano i rifugiati a chiedere asilo nel primo paese europeo in cui sono sbarcati. Non tutti sono d’accordo su questo passaggio, non lo sono i paesi dell’Est come Polonia e Ungheria, sempre avari di solidarietà. Vedremo fin dove arriverà la nuova leadership di Angela Merkel nella revisione delle regole in tema di immigrazione.
Ma la cancelliera ha compiuto una rottura politica ancora più forte e non solo simbolica contro i populismi se la si confronta con quanto accade negli altri paesi, Francia, Gran Bretagna e anche Italia, dove le politiche sono sempre più balbettate che affermate. È vero che l’opinione pubblica tedesca (un cittadino su cinque ha una qualche origine migratoria) al 60 per cento è favorevole all’accoglienza dei migranti, tuttavia anche Merkel (com’è accaduto per il salvataggio della Grecia) rischia di perdere voti. Ma un leader si misura anche su queste scelte che invece stanno letteralmente paralizzando Cameron e Hollande di fronte a Farage e Marine Le Pen e condizionano l’intero quadro politico italiano dove tutti (dal Pd, a Berlusconi, ai Cinque stelle) si sentono costretti a fare i conti con Salvini e il suo presunto appeal elettorale.
Mentre la questione immigrati è ormai diventata il cuore del dibattito pubblico in Germania, Le Monde ha rilevato ieri l’imbarazzato silenzio della politica francese. «È la vittoria dell’estrema destra», ha confessato nell’anonimato un ministro socialista. Si spera che l’onda Le Pen passi, confidando nel ridicolo delle beghe di famiglia tra il vecchio duce e la figlia Marine. Ma non sarà così. Giusto un anno fa il premier socialista Manuel Valls si chiedeva se la sinistra aveva un futuro. Di fronte a quel che sta succedendo in Europa si può dire oggi che se il futuro della sinistra è incerto, quello di una sinistra che dimentica i diritti dell’uomo è destinato a un sicuro esaurimento. Ci vuole una politica positiva, senza retorica, che non nasconda i problemi e che non abbia paura di affrontare gli spacciatori di soluzioni semplici. Proprio come ha fatto Angela Merkel.
La Stampa 29.8.15
Come per l’euro la chiave è la Germania
di Roberto Toscano


Arrivano, e continueranno ad arrivare. Sono 340 mila i migranti che sono entrati nei Paesi dell’Unione Europea nei primi sette mesi del 2015. Non li fermano le difficoltà e i pericoli di un cammino incerto fatto di traversate di un mare che ha già inghiottito centinaia di disperati o di passaggi di frontiere ostacolati dalla polizia e dai fili spinati. Il tutto in presenza di trafficanti senza scrupoli pronti a depredare le loro vittime, spesso trasportate – sia via mare che via terra – con modalità che comportano il rischio della stessa vita. Il «tir della morte» abbandonato in Austria con dentro settantuno persone morte asfissiate è un ennesimo, ma purtroppo non l’ultimo, episodio di questa grande tragedia.
Una tragedia europea, e non solo, come qualcuno aveva sostenuto, una tragedia italiana prodotta dalla combinazione di geografia (la vicinanza delle nostre isole alle coste nordafricane) e di un mancato rigore nel difenderci da un’invasione insostenibile e pericolosa dal punto di vista della sicurezza.
Ebbene, risulta ora che anche Paesi che non sono certo sospettabili di «buonismo» non sembrano in grado di arrestare questo flusso umano, e non lo saranno nemmeno una volta costruiti muri e sbarramenti che qualche governo ha preannunciato.
Il confine solo teoricamente invalicabile tra Stati Uniti e Messico, con i suoi alti muri e le sue inflessibili pattuglie, dovrebbe insegnare qualcosa.
E risulta anche che il Mediterraneo è soltanto una delle rotte della disperazione, mentre nelle ultime settimane è la via terrestre – quella che, partendo dalla Grecia, attraversa i Balcani per puntare sulla Germania e i Paesi scandinavi – a far registrare il maggiore incremento del flusso di migranti.
Ma forse sta proprio in questo la speranza che finalmente si possa accantonare, in Europa, il miope ed utopico tentativo di salvarsi da soli, di chiudere le proprie frontiere sperando che questa inquietante marea umana si diriga verso altre destinazioni. Anche in questo caso, come per i problemi dell’economia e della finanza, la chiave sta a Berlino. Ed è proprio dalla Germania che, in queste terribili giornate di tragedia umana, provengono segnali che rendono possibile sperare che finalmente ci si renda conto dell’entità del problema e delle sue profonde implicazioni politiche e morali. Scontrandosi con frange non irrilevanti di opinione pubblica, e denunciando l’azione violenta di gruppi anti-immigrati, Angela Merkel ha parlato di doveri di umanità e solidarietà che dovrebbero indurci a farci carico di una colossale tragedia umana. Come misura concreta, il governo tedesco ha detto che nessun rifugiato siriano sarà respinto, quale che sia stata la via di arrivo in Germania.
Non sarà facile, ma l’Unione Europea ha i mezzi per gestire la situazione in modo sia efficiente che umano. Finora quello che è mancato è stata la volontà politica. Il primo passo sarà quello di distinguere, all’interno della categoria «migranti» i rifugiati dai migranti economici. Mentre nel caso dei migranti economici si giustificano sia una valutazione basata sulla situazione dell’occupazione in ciascun Paese sia l’applicazione di accordi di riammissione nei Paesi di origine, chi rientra nei criteri della Convenzione del 1950 ha il diritto di essere accolto, e i Paesi hanno il dovere di accoglierli. Il problema, in questo caso, è determinare chi in concreto abbia questo dovere. Attualmente il Trattato di Dublino impone che esso spetti al primo Paese di ingresso, e registrazione, del richiedente asilo. Si tratta di un sistema insostenibile, come l’Italia ha da tempo segnalato: sulla base di questo criterio Italia e Grecia dovrebbero farsi carico della quasi totalità dei rifugiati. Andrà modificato. Se ci chiediamo come, è ancora dalla Germania che proviene un’interessante indicazione, capace di evitare che la distribuzione dei rifugiati avvenga sulla base di un precario mercanteggiamento fra i vari Paesi membri. In Germania vige un sistema (denominato «Easy») che prevede la ripartizione automatica dei rifugiati fra i vari Länder sulla base di criteri obiettivi quali il livello economico del Land (misurato dalle entrate fiscali) e la popolazione.
Si obietterà di certo che in questo caso, a differenza della Ue, siamo in presenza di un sistema federale. E’ vero, ma questo dimostra appunto, per l’ennesima volta che non esiste, per l’Unione Europea, la possibilità di far fronte né ai problemi economici, né alla sicurezza né a sfide come quella delle migrazioni se non con quel costante spostamento in avanti, verso quella integrazione di tipo sempre più federale che non è il sogno irreale di alcuni idealisti ma una necessità. Potremo certo ignorarla e chiuderci in un illusorio e sordo nazionalismo dalle tinte xenofobe, ma solo a prezzo di colossali catastrofi umane, disastri economici, crescente irrilevanza sulla scena mondiale.
Non ci salveremo da soli.
Repubblica 29.8.15
L’emergenza migranti e il diritto d’asilo europeo
di Nadia Urbinati


LA questione dell’immigrazione sarà, più della crisi economica, determinante per i destini del progetto di integrazione politica europea. Un nesso nel quale si scontrano beni non mercanteggiabili, come le ragioni della prudenza politica, che è alla base delle frontiere e non può non preoccuparsi della stabilità della popolazione degli stati, e le ragioni di umanità che impongono a tutti il soccorso ma anche la consapevolezza che la giustizia redistributiva globale non è più procrastinabile.
Questa immigrazione è però anche un terreno di semina per la criminalità organizzata internazionale che ha trovato nella disperazione dei migranti una fonte ricca e infinita di guadagno, schiavizzandoli con debiti che una vita di lavoro non basterà ad appianare. Infine, essa diventa il bersaglio facile di una propaganda xenofoba che in alcuni paesi si tinge senza vergogna di nazismo. Queste diverse e contraddittorie implicazioni fanno della più massiccia crisi migratoria dalla Seconda guerra mondiale una questione di emergenza che richiede iniziative non solo umanitarie, ma politiche e giuridiche.
Alla fine della guerra venne fondata l’agenzia dell’Onu per i rifugiati proprio per aiutare i milioni di europei sradicati dal conflitto a ritornare a casa e riacquistare uno status legale e politico che li proteggesse e li tutelasse. Quali sono le iniziative oggi per accogliere i migranti dai Paesi non europei? Questa crisi migratoria, all’opposto di quella del dopoguerra, provoca la chiusura delle frontiere, i respingimenti con interventi militari contro persone che cercano scampo in questo continente dalla morte certa nei loro Paesi.
Certo, tra i migranti ci sono non solo i rifugiati ma anche gli immigrati economici. E nonostante le convenzioni internazionali abbiano cercato di fare rispettare agli Stati questa distinzione, i guardiani delle frontiere la ignorano spesso. Qui sta la responsabilità di quei Paesi europei che alzano i muri di filo spinato per fermare tutti, senza distinzione. Come ha detto il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, in un’intervista a Repubblica , il populismo di Stato stravolge i valori per cui è nata l’Europa e deve essere contrastato.
«Dimostriamo solidarietà ai nostri vicini, come la Turchia, la Giordania e il Libano, ospitando 20mila profughi», ha detto, e soprattutto «concordiamo misure per il rimpatrio che agevolino il ritorno al paese d’origine delle persone cui non viene riconosciuto il diritto di restare in Europa». Ecco il nodo della politica europea dell’immigrazione: decidere chi merita e chi non merita di restare e imporre ai paesi questa distinzione, per evitare la chiusura indiscriminata.
La discussione in corso fra i governi europei ha in progetto pertanto la ricerca di una soluzione giuridica a questo nodo, per legittimare la costituenda polizia europea di frontiera con un diritto che discenda dall’Europa direttamente, non dai governi nazionali. Una definizione europea del diritto di asilo dunque, e non solo per ragioni umanitarie. Ma anche per meglio fronteggiare l’altra immigrazione, quella “economica” come suggerisce Juncker.
Una politica europea delle frontiere è necessaria perché è ormai chiaro a tutti che questa emergenza migratoria non è governabile dai singoli Paesi. Come quella economica anche questa crisi mette a nudo l’impotenza delle sovranità nazionali e il bisogno di un’Europa politica. Dunque, muovere l’arma del diritto per governare un’emergenza che ha sempre più i caratteri della sicurezza europea.
La dichiarazione di un diritto europeo d’asilo è un fatto di grandissima importanza. Lo è innanzi tutto per le persone che ne godranno.
Ma anche per l’Europa, poiché scrivendo un diritto di asilo essa aggiunge un tassello decisivo alla costruzione di una cittadinanza europea. Infatti, lo stato di rifugiato è definito in relazione non solo all’umanità da proteggere, ma anche al soggetto che dà rifugio - il quale non è un ente morale assistenziale, ma uno Stato politico - sono i cittadini europei che si impegnano a livello sia di Stati membri che di Europa. La decisione di istituire un diritto europeo di asilo è politica a tutti gli effetti dunque, anche se l’autorità che la mette in essere non è a tutti gli effetti un sovrano democratico.
E come decisione politica essa ha due facce, sulle quali si deve riflettere: da un lato, il diritto di asilo dà all’Europa un’arma per potersi imporre al di sopra delle legislazioni dei paesi e quindi superare la discrepanza tra i vari codici nazionali; dall’altro, questo diritto dà alla polizia europea di frontiera lo strumento per distinguere tra i rifugiati e gli immigranti economici (da respingere se non entrano con regolari permessi di lavoro). E ciò prova come il diritto di asilo diventi un importante tassello nella costruzione della cittadinanza europea perché consente di legittimare esclusioni e rimpatri, non solo accettazioni.
In conformità con la natura della cittadinanza, che mentre stabilisce l’inclusione determina altresì le condizioni dell’esclusione. E a tutt’oggi, la povertà e la destituzione non sono ragioni sufficienti a dare rifugio.
Il diritto di asilo è quindi una soluzione necessaria ma non risolutiva, perchè lascia in ombra le ragioni dei non-rifugiati, di chi cerca una vita migliore e scappa dalla fame. Il passo successivo per un’Europa coerente ai suoi fondamenti dovrà dunque essere quello di impegnarsi a promuovere una giustizia redistributiva globale.
il manifesto 29.8.15
La nostra frontiera
di Norma Rangeri


Come muore un bambino asfissiato dentro un Tir? In attesa di cambiare il mondo e mettere fine alle guerre post-coloniali dell’Occidente e a quelle che ora combattono le pretromonarchie in Medio Oriente, dovremmo ingaggiare una guerra di resistenza, che già ci coinvolge tutti: l’assuefazione alle stragi quotidiane dei migranti.
Il rischio di digerire sempre più rapidamente le notizie che ogni giorno la televisione porta nei nostri tinelli è fortissimo. Il rullo mediatico macina i morti a pranzo e a cena e, lo sappiamo, l’abitudine è capace di rendere sopportabili cose spaventose. Del resto bastava sfogliare i giornali di ieri per vedere che l’eccitazione della grande stampa era tutta per la “questione romana”, mentre le decine di morti asfissiati sul Tir che trasportava uomini, donne e bambini dall’Ungheria all’Austria faticava a guadagnare i grandi titoli di prima pagine. Perfino giornali progressisti e sempre in prima linea contro le malefatte della casta, relegavano la strage del camion in poche righe. Naturalmente con le eccezioni del caso, a confermare la regola, e fatti salvi i giornali della destra che contro i migranti sparano titoli forcaioli per lucrare qualche copia lisciando il pelo ai peggiori sentimenti xenofobi e razzisti di lettori e elettori.
Ma l’informazione ai tempi della rete può anche essere l’antidoto al prevalere di assuefazione e abitudine. Come dimostra il caso dell’attivista islandese, promotore di una raccogliere fondi a favore di un uomo, rifugiato palestinese, proveniente dal campo profughi siriano di Yarmuk, a Damasco. Grazie all’immagine di Abdul che vende penne biro all’incrocio di una strada di Beirut con la figlioletta in braccio, il web ha prodotto un felice cortocircuito e scatenato una gara di solidarietà.
Tuttavia non è solo l’informazione a essere chiamata in causa. Subito dopo viene la politica e in primo luogo quella che si richiama ai principi di libertà e uguaglianza della sinistra.
Come è possibile che lungo i muri che l’Europa costruisce sulle frontiere di terra non ci siano manifestazioni di protesta accanto all’esodo di chi fugge e muore? Perché davanti a quel filo spinato piantato dal regime reazionario del premier ungherese Orbàn non c’è una carovana di quei militanti che dicono di battersi per favorire finalmente l’apertura delle frontiere della Fortezza– Europa?
Al punto in cui siamo nessuno più può dire di non sapere perché tutto l’orrore e il dolore è in onda, e non siamo più in pochi a vedere quel che accade. Persino leader europei come Merkel devono scendere in campo politicamente e personalmente per dire che i vecchi trattati (Dublino) sono da rivedere.
La sinistra dovrebbe fare dell’immigrazione la sua battaglia principale, giocandola all’offensiva, nei singoli paesi di appartenenza e nei punti caldi dell’esodo. I convegni sono utili ma non bastano. Meno talk-show e più mobilitazioni per manifestare concretamente presenza e solidarietà. Per esempio sulla nostra grande frontiera del Mezzogiorno, la prima linea per i comuni che cercano di accogliere come possono i sopravvissuti ai viaggi della morte. Il Sud dovrebbe essere anche la frontiera della sinistra.
E intanto, in attesa di cancellare leggi criminogene come la Bossi-Fini, a chi fugge per mare e per terra su un gommone o nel cassone di un Tir, per non morire basterebbe salire su una nave o su un treno. Con un semplice, regolare biglietto.
Repubblica 29.8.15
Zygmunt Bauman
Il filosofo, teorico della “società liquida”, parla del dramma profughi
“Le tragedie di questi giorni sono il segnale di una stanchezza morale Ma non rassegniamoci ai muri”
“I migranti risvegliano le nostre paure La politica non può rimanere cieca”
intervista di Antonella Gerrera


«UN GIORNO Lampedusa, un altro Calais, l’altro ancora la Macedonia. Ieri l’Austria, oggi la Libia. Che “notizie” ci attendono domani? Ogni giorno incombe una nuova tragedia di rara insensibilità e cecità morale. Sono tutti segnali: stiamo precipitando, in maniera graduale ma inarrestabile, in una sorta di stanchezza della catastrofe». Zygmunt Bauman, filosofo polacco trapiantato in Inghilterra, è uno dei più grandi intellettuali viventi. Anche lui è stato un profugo, dopo esser scampato alla ferocia nazista rifugiandosi in Unione Sovietica. Ma Zygmunt Bauman è anche uno dei pochi pensatori che ha deciso di esporsi apertamente di fronte al dramma dei migranti. Mentre l’Europa cerca disperatamente una voce comune che oscuri le parole vacue e quelle infette degli xenofobi.
Signor Bauman, duecento morti al largo della Libia.
Due giorni fa altri cento cadaveri ritrovati ammassati in un camion in Austria. Il dramma scava sempre più il cuore del Vecchio continente. E noi? Cosa facciamo?
«E chissà quanti altri ce ne saranno nelle prossime ore. Oramai sono milioni i profughi che cercano la salvezza da atroci guerre, massacri interreligiosi, fame… La guerra civile in Siria ha innescato un esodo biblico. Scappano gli afgani, gli eritrei. Mentre nel 2014, riporta l’Onu, erano circa 219mila i rifugiati e migranti che hanno attraversato il Mar Mediterraneo, e di questi 3.500 sono morti. Un anno prima questa cifra era molto più bassa: circa 60mila. Qui in Inghilterra ho letto molte reazioni di personaggi pubblici di fronte a una simile emergenza. Tutte a favore di “quote migratorie” più rigide, in ogni caso. Mentre chi come Stephen Hale dell’associazione British Refugee Action invoca una riforma del sistema di asilo basata sugli esseri umani, e non sulle statistiche, è rimasto solo una voce solitaria».
Ma l’Europa cosa può fare per risolvere questo disastro umanitario?
«L’antropologo Michel Agier ha stimato circa un miliardo di sfollati nei prossimi quarant’anni: “Dopo la globalizzazione di capitali, beni e immagini, ora è arrivato il tempo della globalizzazione dell’umanità”. Ma i profughi non hanno un loro luogo nel mondo comune. Il loro unico posto diventa un “non luogo”, che può essere la stazione di Roma e Milano o i parchi di Belgrado. Ritrovarsi nel proprio quartiere simili “non luoghi”, e non solo guardarli in tv, può rappresentare uno shock. E così oggi la globalizzazione irrompe materialmente nelle nostre strade, con tutti i suoi effetti collaterali. Ma cercare di allontanare una catastrofe globale con una recinzione è come cercare di schivare la bomba atomica in cantina ».
Eppure in Europa stanno tornando i muri, figli di uno spettro xenofobo che purtroppo sta dilagando.
«Sa chi mi ricordano quelli che li erigono? Il filosofo greco Diogene, che, mentre i suoi vicini si preparavano a combattere contro Alessandro Magno, lui faceva rotolare la botte in cui viveva su e giù per le strade di Sinope dicendo di non voler essere l’unico a non far niente».
È vero, tuttavia, che oggi il flusso migratorio verso l’Europa è di dimensioni mai viste. Qualche timore può essere giustificato, non trova?
«Ma oramai il nostro mondo è multiculturale, forse irreversibilmente, a causa di un’abnorme migrazione di idee, valori e credenze. E comunque la separazione fisica non assicura quella spirituale, come ha scritto Ulrich Beck. Lo “straniero” è per definizione un soggetto poco “familiare”, colpevole fino a prova contraria e dunque per alcuni può rappresentare una minaccia. Nella nostra società liquida, flagellata dalla paura del fallimento e di perdere il proprio posto nella società, i migranti diventano “ walking dystopias ”, distopie che camminano. Ma in un’era di totale incertezza esistenziale, dove la vita è sempre più precaria, questa non è l’unica ragione delle paure che scatena la vista di ondate di sfollati fuori controllo. Vengono percepiti come “messaggeri di cattive notizie”, come scriveva Bertolt Brecht. Ma ci ricordano, allo stesso tempo, ciò che vorremmo cancellare».
E cioè?
«Quelle forze lontane, oscure e distruttive del mondo che possono interferire nelle nostre vite. E le “vittime collaterali” di queste forze, i poveri sfollati in fuga, vengono percepiti dalla nostra società come gli alfieri di tali forze. Questi migranti, non per scelta ma per atroce destino, ci ricordano quanto vulnerabili siano le nostre vite e il nostro benessere. Purtroppo è nell’istinto umano addossare la colpa alle vittime delle sventure del mondo. E così, anche se siamo assolutamente impotenti a imbrigliare queste estreme dinamiche della globalizzazione, ci riduciamo a scaricare la nostra rabbia su quelli che arrivano, per alleviare la nostra umiliante incapacità di resistere alla precarietà della nostra società. E nel frattempo alcuni politici o aspiranti tali, il cui unico pensiero sono i voti che prenderanno alle prossime elezioni, continuano a speculare su queste ansie collettive, nonostante sappiano benissimo che non potranno mai mantenere le loro promesse. E poi alle aziende occidentali il flusso di migranti a bassissimo costo fa sempre comodo. E molti politici sono allo stesso modo tentati di sfruttare l’emergenza migratoria per abbassare ancor più i salari e i diritti dei lavoratori. Ma una cosa è certa: costruire muri al posto di ponti e chiudersi in “stanze insonorizzate” non porterà ad altro che a una terra desolata, di separazione reciproca, che aggraverà soltanto i problemi».
E allora come risolvere questa immane tragedia?
«Sicuramente non con soluzioni miopi e a breve termine, utili solo a provocare ulteriori tensioni esplosive. I problemi globali si risolvono con soluzioni globali. Scaricare il problema sul vicino non servirà a niente. La vera cura va oltre il singolo paese, per quanto grande e potente che sia. E va oltre anche una folta assemblea di nazioni come l’Unione europea. Bisogna cambiare mentalità: l’unico modo per uscirne è rinnegare con forza le viscide sirene della separazione, smantellare le reti dei campi per i “richiedenti asilo” e far sì che tutte le differenze, le disuguaglianze e questo alienamento autoimposto tra noi e i migranti si avvicinino, si concentrino in un contatto giornaliero e sempre più profondo. Con la speranza che tutto questo provochi una fusione di orizzonti, invece di una fissione sempre più esasperata».
Non teme che questa soluzione possa non piacere a una buona parte della popolazione europea?
«Lo so, una rivoluzione simile presuppone tanti anni di instabilità e asperità. Anzi, in uno stadio iniziale, potrà scatenare altre paure e tensioni. Ma, sinceramente, credo che non ci siano alternative più facili e meno rischiose, e nemmeno soluzioni più drastiche a questo problema. L’umanità è in crisi. E l’unica via di uscita da questa crisi catastrofica sarà una nuova solidarietà tra gli umani».
Il Sole 29.8.15
Emergenza immigrazione. Alle origini del boom di arrivi c’è la disgregazione degli Stati post-coloniali tra Levante, Medio Oriente e continente africano
Le tre rotte dall’Africa alla fortezza Europa
La lunga marcia attraversa regioni occidentali, Centrafrica e Corno per confluire sulle coste
di Alberto Negri


Per fermare le ondate dei rifugiati occorre prima di tutto fermare le guerre che assediano l’Europa e il Mediterraneo. L’esplosione delle migrazioni forzate ha la sua causa primaria nella disgregazione degli stati post-coloniali tra Levante, Medio Oriente e Africa, dove da anni si combattono conflitti e guerre per procura che coinvolgono le potenze regionali e quelle esterne, comprese l’Europa, gli Stati Uniti e i loro alleati. Ma frenare le migrazioni è forse un’idea illusoria: entro il 2030 l’Africa conterà un miliardo e mezzo di abitanti, diventeranno due nel 2050, e se a queste popolazioni non sarà offerto un ambiente sociale, economico e politico rispondente alle loro aspettative crescenti non ci saranno muri o fortezze che fermeranno questa enorme pressione.
Ecco perché il dibattito su come accogliere i profughi, e se accoglierli, corrisponde alla logica dell’emergenza ma non ha uno sguardo miope e senza futuro. Questa non è un’emergenza di oggi ma dei prossimi decenni: sarà un’altra forma della globalizzazione da aggiungere a quelle che già conosciamo. L’incognita è l’entità di quali saranno i flussi migratori mentre è quasi una certezza che sono state sconvolte le stesse categorie della migrazione. Da fenomeno di natura essenzialmente sociale ed economica le migrazioni hanno assunto un carattere internazionale, sono entrate di prepotenza nell’agenda della politica estera. Questa trasformazione è stata la conseguenza dei conflitti che circondano l’Unione europea, dalla Siria, all’Iraq, alla Libia, al fallimento di stati come la Somalia, l’Eritrea. La debolezza intrinseca dei Paesi che hanno attraversato le rivolte arabe del 2011, tra massacri e colpi di stato, li ha resi vulnerabili alla penetrazione dei jihadisti con frontiere disgregate e affondate nella sabbia. Intorno all’Europa c’è un “mondo ex”, come ai tempi della ex Jugoslavia, con nazioni che non esistono più come entità unitarie e popoli che aspirano a nuovi stati, basti pensare all’irredentismo dei curdi ai confini tra Turchia, Siria e Iraq.
Non troppo diverso è lo sguardo che ci offre il Mediterraneo. Tre sono i percorsi più battuti, l’occidentale, il centrale e l’orientale, diretti rispettivamente verso l’Africa dell’Ovest, il Centrafrica e il Corno. Sono queste le cinghie di trasmissione che trasportano, tra mille pene e sofferenze, uomini, donne, bambini, dal cuore dell’Africa fino a quello dell’Europa. Nell’Ovest africano incontriamo, Senegal, Guinea, Mali, Mauritania, Marocco. Nel corridoio centrale i popoli marciano da Camerun, Nigeria, Niger, per protendersi verso le coste libiche della Tripolitania da dove affrontano la traversata dei barconi in Italia. La terza via parte da Uganda, Somalia, Eritrea, Etiopia, attraversa il Sudan per dirigersi nell’oasi libica di Cufra per l’ultimo balzo verso la costa: qui profughi e migranti incrociano rifugiati siriani e iracheni.
È questo il popolo di una nazione senza frontiere, che non ha più uno Stato, né una patria da rivendicare: con muri e barriere l’Europa ricorda loro che questo è un continente ma non un’unione. E forse l’ora di stabilire un cambio di rotta prima di trovarsi con uno scheletro dell’Europa che avevamo immaginato.
Corriere 29.8.15
Migrazioni di massa fino al 2050 Il fenomeno che cambierà l’Europa
Oltre 5 milioni pronti a lasciare la Siria, fuga anche dall’Africa
di Francesco Battistini e Maria Serena Natale


È la più grave crisi di rifugiati dalla Seconda guerra mondiale, dice il commissario Ue all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos. L’Europa si scopre prima linea di un’emergenza globale, punto di caduta di conflitti che sconvolgono Medio Oriente, Asia, Africa. Le migrazioni resteranno il tratto distintivo del nostro tempo, spostamenti di masse in cerca di opportunità e diritti su rotte di morte e speranza. Un fenomeno che secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni non si arresterà prima del 2050, quando la popolazione mondiale si assesterà sui 9-10 miliardi di persone. Fino ad allora l’Europa, epicentro del terremoto dell’estate 2015, dovrà affrontare una serie di aggiustamenti normativi e culturali, dalla revisione delle regole sul diritto d’asilo fino all’elaborazione di una strategia complessiva per affrontare scenari geopolitici sempre più fluidi. A che punto siamo nella nuova ondata migratoria?
L’impennata
Il primo aumento nel flusso degli arrivi si percepisce a partire da gennaio ma la grande accelerazione è quella di luglio, quando gli ingressi illegali in territorio Ue balzano, dai 70 mila di giugno, a 107.500. Solo in Grecia dall’inizio dell’anno gli ingressi (legali e non) sono stati 160 mila, contro i 50.242 registrati in tutto il 2014. La maggior parte da Siria, Iraq e Afghanistan. Migranti che poi tentano la traversata dei Balcani attraverso la Macedonia, per passare in Serbia e in Ungheria, Romania o Bulgaria. Nei prossimi mesi si prevede che da questa rotta passino circa 3 mila persone al giorno. Sul fronte mediterraneo l’ultimo bilancio, aggiornato ieri dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati, è di oltre 300 mila persone che hanno preso il mare per l’Europa dall’inizio del 2015. Circa 2.500 i morti e dispersi. In un’unica giornata, sabato 22 agosto, nelle acque che separano l’Italia dalle coste libiche sono state tratte in salvo 4.400 persone. In Siria oltre 5 milioni di sfollati interni aspettano un’occasione per partire. Come spiega Tana de Zulueta, presidente del Comitato italiano per l’Agenzia Onu dei rifugiati palestinesi con una lunga esperienza in missioni Osce e Ue, «metà degli 11 milioni di sfollati siriani ha già lasciato il Paese, gli altri sono pronti a seguirli, in un contesto regionale dove a conflitti dichiarati si aggiungono tensioni sotterranee, ad esempio in Libano, che riemergendo farebbero esplodere la polveriera mediorientale».
Le migrazioni fanno da sempre parte della storia dell’umanità. Un fenomeno oggi amplificato e reso inevitabile dalle crisi umanitarie in corso; dai cambiamenti climatici; dalla scarsità di candidati a svolgere lavori sottopagati nei Paesi più ricchi malgrado la crisi socio-economica; dal deficit demografico che oppone, a un Nord che non cresce e che nei prossimi dieci anni vedrà un sensibile calo della forza lavoro, un Sud abitato da popolazioni giovani e senza occupazione. Per avere un’idea: la Ue conta 550 milioni di abitanti, le Nazioni Unite stimano che in trent’anni il continente africano raggiungerà un numero pari a tre volte quello della Ue.
Cosa fa l’Europa?
Per ora procede in ordine sparso. La maggior parte dei Paesi più colpiti, dove i governi devono gestire anche l’allarme sociale alimentato dalle destre populiste, sceglie la linea dura. Accade per Regno Unito e Francia che hanno stretto un patto di sicurezza sulla Manica. Accade nel Centro-Est che alza muri materiali e mentali. Non in Germania, che quest’anno aspetta il record di 800 mila richieste d’asilo e ha sospeso l’applicazione del regolamento di Dublino rifiutando di rimandare indietro i profughi siriani. La Ue ha triplicato i fondi per le missioni nel Mediterraneo (da ottobre la Eunavfor Med potrebbe essere autorizzata ad arrestare i trafficanti in mare), ha previsto finanziamenti supplementari per i Paesi di primo accesso come l’Italia, l’Ungheria e la Grecia in crisi politica, e ha elaborato un’Agenda immigrazione per redistribuire i migranti secondo criteri più equi in una logica che dovrebbe unire «responsabilità» e «solidarietà». I ministri degli Interni hanno raggiunto un accordo di massima per la ripartizione di circa 32 mila persone in due anni. La Ue vuole strappare entro fine anno l’impegno per 40 mila migranti che potrebbero poi arrivare a 60 mila. Numeri ridotti e soluzioni parziali. «Servono subito visti temporanei, quote più alte, un sistema rafforzato di protezione internazionale» sostiene il direttore dell’Oim William Lacy Swing. A ottobre i ministri di Esteri e Interni si vedranno a Parigi, a novembre il vertice Ue-Africa a Malta. C’è una nuova consapevolezza politica nelle istituzioni comunitarie: dopo lo choc, si aspettano misure concrete.
La rete criminale
Esiste già un’Europa che collabora, s’aiuta e divide i profitti: è quella delle mafie. Il caso del camion pieno di cadaveri scoperto giovedì in Austria (targa ungherese, proprietà prima ceca e poi slovacca, immatricolazione fatta da un rumeno, spalloni bulgari e ungheresi) dimostra che le grandi gang criminali collaborano meglio dei governi: «Controllano due terzi del traffico di migranti — dice Marko Nicovic, ex capo della polizia serba —, l’altro terzo è gestito da piccole organizzazioni locali». Dopo la droga, le armi e la prostituzione, gl’immigrati sono il quarto business più redditizio dell’area. In assoluto, il meno rischioso: nessun Paese interessato alla rotta balcanica ha mai introdotto il reato d’immigrazione clandestina e dalla Turchia alla Grecia, dalla Macedonia alla Serbia, dalla Bulgaria all’Ungheria le pene sono pesanti solo se il carico umano muore. Altrimenti, ce la si cava col ritiro della patente o tre mesi di carcere, spesso evitabili con una cauzione di mille euro: meno di quel che paga un migrante.
«Non c’è niente di casuale nel cammino d’un profugo — spiega Bojidar Spasic, già funzionario del Bia, i servizi di sicurezza di Belgrado —. Le mafie gli dicono al dettaglio cosa fare: strade, i punti d’incontro a Presevo e a Skopje, i valichi a Szeged, i posti di polizia, gli autisti, le guide, tutto. Ogni suo passo è scandito: prima lo prende la mafia turca, poi i balcanici, alla fine è controllato da kosovari, italiani, russi, ora anche cinesi». C’è un vip service, fino a 10 mila euro, una zona d’ombra per chi abbia qualcosa da nascondere: «psirata», dicono in serbo, iracheni o siriani ex sgherri di regime che temono vendette dei connazionali ed esigono l’invisibilità. Poi c’è il servizio standard, 3-5 mila euro, per gli stessi canali usati con armi o auto rubate: «Il migrante è merce ingombrante — dice Spasic — e non passa mai per le vie della droga». Da qualche giorno, le banche di Salonicco, di Skopje, di Belgrado, di Budapest sono sommerse da soldi versati negli sportelli turchi, libanesi, afghani di Western Union e Tenfore: «Il migrante non rischia di portarsi il denaro addosso, in ogni Paese sa già dove andare a ritirarlo per pagarsi quel pezzo di tragitto». Le polizie europee conoscono i nomi dei grandi clan che si dividono il traffico, elenca Nicovic: «I turchi Karakafa a Istanbul, i bulgari Plamenov tra Sofia e Dimitrovgrad, i Thaci kosovari e gli albanesi di Durazzo che si sono spostati in Macedonia, i russi di Semion Moglievich in Ungheria, i montenegrini che sono venuti a Belgrado perché contrabbandare sigarette in Puglia non rende quanto un camion d’afghani in Ungheria... Per colpire questa gente, ci serve più personale: noi abbiamo solo trenta poliziotti in tutta la Serbia, e solo cinque che conoscono l’arabo, per controllare 100 mila migranti. Ci vorrebbe anche un coordinamento fra polizie che non c’è mai stato: finora, che importava ai serbi di chi sbarcava a Lampedusa? O agli spagnoli di chi entrava in Macedonia?». La corruzione: nel prezzo del passaggio è spesso compresa la mazzetta a doganieri bulgari o serbi che guadagnano 500 euro al mese e «più è grande il gruppo, più sale il prezzo: 500 euro per dieci persone». I livelli di protezione sono alti: le gang controllano le forniture di cibo ad alcuni campi di rifugiati, dice la polizia di Belgrado, un po’ come accadeva a Roma nei centri di Mafia Capitale. E quanto al terrorismo, secondo i rapporti il muro di 275 km costruito dai bulgari sul confine turco non è sufficiente, ma un rischio immediato non si vede. «Gli estremisti di Bosnia e Sangiaccato danno logistica a qualche profugo — spiega Nicovic —, ma solo se è di stretta osservanza. È gente che controlliamo anche al telefono. La rete d’accoglienza jihadista però è estesa, dalla Macedonia (Tetovo) al Kosovo (Djakovica) e dal Montenegro (Ulzin). Nessuno può dire con sicurezza che qualche terrorista non sia arrivato: il 90% dei migranti è fatto di siriani e il 70% di questi siriani è tutta gente fra i 20 e i 30 anni».