sabato 5 febbraio 2011

Corriere della Sera 5.1.11
Bersani: ora confronto con tutta l’opposizione. Sì a una fase costituente
Unioni di fatto: D’Alema firma, Veltroni no
di Andrea Garibaldi


ROMA— C’è l’assemblea nazionale del Pd, laggiù, alla Nuova Fiera e, dopo l’inno di Mameli, la linea emerge chiara. «Presenteremo il nostro programma — dice il segretario Bersani — e chiederemo un confronto a tutte le forze di opposizione, moderate, di centro e radicali, e alle forze sociali» . Il Pd vuole essere la guida per uscire dal berlusconismo. E chiede una risposta. Al terzo polo Bersani spiega: «Non siamo interessati alla riorganizzazione del centrodestra, ma ad una fase ricostruttiva, costituente» . Alla sua sinistra, dopo aver lodato il ruolo di garanzia istituzionale di Napolitano, avverte: «Attenti a non ritrovarvi Berlusconi presidente della Repubblica» . Se poi prevarranno sterili tattiche, «chiederemo che sia restituito agli elettori il compito di indicare la strada da prendere» . E c’è un messaggio per la Lega: «Con Berlusconi non farete il federalismo...» . Bersani parla neanche per un’ora. Lo precede Rosy Bindi e lo introduce il video del gruppo rock inglese Kaiser Chiefs, «I predict a riot» , prevedo una rivolta. Il video finisce con una giovane donna che riemerge dopo lunga apnea. La platea dei delegati eletti dalle primarie di fine ottobre regala al segretario un lungo applauso, in piedi, quando lui annuncia che il partito sarà in piazza con le donne, il 13 febbraio. E l’ 8 marzo «porteremo a Palazzo Chigi dieci milioni di firme, dieci milioni di "Vai a casa, Berlusconi"» . Poi c’è il repertorio sulla situazione mesta del Paese, assente sul piano internazionale, sull’Egitto e nella Ue: «Al carnevale di Rio si preparano a divertirsi su di noi. Ma gli italiani, perbacco, non sono quelli delle barzellette!» . È il momento di stare vicini, così c’è un coro di approvazione: Veltroni, Franceschini, il veterano Marini. Tiepido il cattolico Fioroni. Ironico il «rottamatore» Civati: «Siamo all’assemblea dell’Udc?» . Ma qualche ostacolo naturalmente esiste, qualche mina viene innescata. Ignazio Marino e Paola Concia preparano un ordine del giorno in cui si impegna il Pd a promuovere il riconoscimento delle unioni civili. Firmano D’Alema, alcuni dalemiani, Sergio Chiamparino, si arriva a quasi 70 nomi. Non firma l’area di Veltroni, boccia l’iniziativa Fioroni. Oggi su questo si prevede tensione e ci saranno sul tavolo altri tre documenti delicati, sul testamento biologico, contro il nucleare, sulle primarie. Bersani ha istituito una commissione (presidente Rosy Bindi) che affronti i temi «etici» , ma rischia lo scavalcamento. Dai veltroniani arriva un’altra segnalazione: nel programma sulle politiche sociali si parla di «spostare il carico fiscale dal lavoro ad altre basi imponibili» . Una specie di «imposta patrimoniale» , nella scia di quella proposta da Veltroni al Lingotto e colpita da critiche nel partito. Bersani, però, giura: «Nessuno di noi propone patrimoniali» . Ad ascoltare il segretario ci sono tutti i dirigenti, in prima fila. Meno uno, Massimo D’Alema, che siede nella fila numero nove, leggendo Le Monde, fra due delegati semplici: «Sono arrivato tardi, non c’era posto...» . Più tardi, a proposito dei «rottamatori» , rievocherà i tempi di Berlinguer: «Se avevi gli attributi, riuscivi ad emergere anche da giovane, questa è la differenza con quello che accade oggi» .

«All´ingiunzione del compagno Bersani, che esibisce una sua inedita e simpatica faccia feroce, suggerisco di farsi prima uno spinello o carduccianamente un bel bicchier di vino»
Repubblica 5.2.11
Scossa di Bersani alle opposizioni "Uniti o rischiamo Berlusconi al Colle"
Ma il tema diritti agita il Pd. D´Alema: sì alle unioni gay
di Giovanna Casadio


Il segretario: niente patrimoniale. Ma un documento: spostare il carico fiscale dal lavoro

ROMA - «C´è umiliazione». «I problemi del paese «marciscono». «Siamo uno dei dieci paesi più ricchi del mondo ma dalla scena internazionale siamo scomparsi, siamo invece entrati nelle barzellette dei giornali del mondo, al carnevale di Rio si preparano a divertirsi...». Pier Luigi Bersani all´Assemblea del Pd disegna con pochi tratti l´emergenza democratica italiana. Che è istituzionale, sociale, morale, civica e «chi la ignora - incalza il segretario - la aggrava». Per questo ci vuole una grande alleanza e un patto di tutta l´opposizione. E nessuno si perda in chiacchiere o illusioni, se non vuole trovarsi con Berlusconi al Colle.
Una stoccata doppia: alle tentazioni dei moderati di centro («Sappiano che Berlusconi non è condizionabile») e alle «forze radicali», alle quali chiede: «Cosa pensano del rischio di cavarsi il gusto di una presunta coerenza per poi trovarsi Berlusconi presidente della Repubblica?». Si rivolge a Vendola ma anche a Pannella. Il leader storico dei Radicali - che una settimana fa ha incontrato il premier per parlare di giustizia - reagisce: «All´ingiunzione del compagno Bersani, che esibisce una sua inedita e simpatica faccia feroce, suggerisco di farsi prima uno spinello o carduccianamente un bel bicchier di vino». Ma le polemiche restano tutto sommato a margine. Compresa quella che innesca, con un´intervista radiofonica, Matteo Renzi, il sindaco "rottamatore": «Meglio se il Pd raccoglie meno firme e ha più idee».
Tra i Democratici monta piuttosto la maretta sui diritti civili. Non era prevista la discussione nelle sei commissioni al lavoro. Perciò Marino, Gozi, Concia, Scalfarotto e Meta presentano due ordini del giorno con oltre 60 firme. Quello sulle unioni civili gay, lo sottoscrive anche Massimo D´Alema: «Questo tema era già all´ordine del giorno del governo Prodi». Divisioni e rassicurazioni. Gozi pensa a un emendamento ad hoc nel documento sulle politiche sociali. Il cattolico Beppe Fioroni si appella alla libertà di coscienza: «Io non lo voto». Barbara Pollastrini ne rivendica la necessità; Rosy Bindi annuncia il forum sulla laicità.
Però nel giorno dello scontro istituzionale tra Palazzo Chigi e il Quirinale sul federalismo, le questioni sono altre. Bersani, che aveva sentito al telefono il presidente Napolitano, gli rende omaggio. E poi scandisce: «Un passo indietro del premier o si va al voto. A Berlusconi diciamo vai a casa dieci milioni di volte, quante sono le firme che raccoglieremo e porteremo a Palazzo Chigi l´8 marzo, per il giorno delle donne». Le donne. «Noi saremo con le donne in piazza - dice il segretario - perché conosciamo le nostre mogli, compagne, figlie, amiche e non accettiamo che siano merce da vendere». È una standing ovation e sono i delegati uomini che si alzano per primi.
Sullo schermo alle spalle del palco va un videoclip dei Chemical Brothers: una donna emerge dall´acqua dopo una lunga apnea. Lo slogan del Pd è "Andare oltre". Sul pasticcio del federalismo, ad esempio. Qui, Bersani si rivolge alla Lega: «Fermatevi, non si può forzare la mano su un tema tanto delicato. Bossi si renda conto che con Berlusconi il federalismo non lo fa, che il premier vuole solo i voti leghisti per il legittimo impedimento e le leggi pro cricca». Andare oltre le promesse di finte liberalizzazioni: «Invece della modifica dell´articolo 41 della Costituzione, 41 liberalizzazioni, una megalenzuolata segnalata online dagli italiani». Sui temi economici le tante bugie di Berlusconi, come quella di accusare il Pd di volere la patrimoniale. Al Lingotto, Veltroni ne ha parlato come contributo straordinario dei più ricchi; nel documento del partito si legge: «Spostare il carico fiscale del lavoro ad altre basi imponibili». Oggi conclusioni sul programma. E si vede se l´unità del Pd regge.

«Noi maschi saremo con le donne in piazza perché conosciamo le nostre mogli, le nostre compagne, le nostre amiche, le nostre figlie. Le rispettiamo come persone e non accettiamo che siano merce da vendere. Non è accettabile dare questo messaggio alle giovani generazioni, qui non c’entra la magistratura: non è accettabile!»
Bersani: «Cosa ne pensano i radicali?», Pannella: «Prima di rivolgersi a noi, Bersani si faccia uno spinello»
La Stampa 5.1.11
“La riforma si fa solo con noi”
Bersani attacca la Lega e avvisa il Terzo polo: attenti che ci ritroviamo Berlusconi al Quirinale
di Car. Ber.


Al padiglione nove della nuova Fiera di Roma Pierluigi Bersani arriva bello carico dopo lo stop giunto all’ora di pranzo dal Colle al decreto del governo sul federalismo. Un buon viatico per cominciare nel migliore dei modi quest’assemblea programmatica con cui il Pd intende lanciare la sua «proposta al paese». Tanto più che dalla minoranza di Veltroni il segretario non si aspetta troppi sgambetti in una fase così scivolosa dal richiedere il massimo di unità sotto l’ombrello della «ditta». E dunque ha buon gioco Bersani a lanciare la domanda retorica su «cosa succederebbe in Italia se sul Colle non ci fosse una persona consapevole della sua funzione istituzionale come lo è Napolitano». Così come ha buon gioco nel lanciare l’appello «Fermatevi! Non si può forzare la mano su un tema così delicato». Attaccando subito la Lega che sulla Padania ha fatto pubblicare le foto di tutti i parlamentari del Pd e del Terzo Polo che hanno votato contro il federalismo, sotto il titolo minaccioso ed eloquente «Ecco chi ci ha tradito».
«Se la Lega - reagisce il segretario - pensa di intimorirci, ci metta pure la mia di foto, perché noi abbiamo respirato autonomia fin da piccoli e le lezioni non le accettiamo, tanto meno da chi da 10 anni puntella palazzo Grazioli». Con una chiosa che vuole essere un avvertimento, «il federalismo non lo farete mai con Berlusconi, perché a lui non interessa il federalismo, ma i vostri voti, e li userà per il processo breve o per difendere la cricca di Roma. E dunque il federalismo non si fa senza di noi e senza le nostre proposte». In realtà a stemperare la baldanza del leader ci pensa un altro dei leader della minoranza Pd, Beppe Fioroni, convinto invece che «l’atto dovuto di Napolitano» non si trasformerà in uno stop alla riforma, che sarà varata lo stesso nei passaggi in aula con i voti della maggioranza. Con quelli che il costituzionalista Stefano Ceccanti vicino a Veltroni definisce «otto spot per la Lega alla Camera e al Senato per i quattro decreti sul federalismo da qui al prossimo autunno».
Ma al di là della controversa riforma, il leader del Pd alza i toni quando mette il dito nella piaga del caso Ruby, sfoderando una serie di battute che infiammano la platea dei mille delegati. Fino alla standing ovation quando annuncia «noi maschi saremo con le donne in piazza perché conosciamo le nostre mogli, le nostre compagne, le nostre amiche, le nostre figlie. Le rispettiamo come persone e non accettiamo che siano merce da vendere. Non è accettabile dare questo messaggio alle giovani generazioni, qui non c’entra la magistratura: non è accettabile!». Un passaggio obbligato per lanciare il messaggio che il Pd è pronto a chiedere le elezioni, perché «se ci fosse un passo indietro di Berlusconi, tutti dovrebbero garantire responsabilità, perché oltre Arcore si potrebbe vedere finalmente vedere l’Italia. Se invece prevarranno arroganti tattiche di arroccamento, allora, data l’emergenza, noi chiederemo di restituire agli elettori la parola». E in quel caso per battere l’asse Pdl-Lega, l’unica strada è quella che la Bindi chiama «una grande alleanza civica e democratica». Quindi, avverte Bersani, i terzopolisti «siano responsabili», perché altrimenti il rischio è che Berlusconi poi vada al Quirinale (la domanda «Cosa ne pensano i radicali?», provoca Pannella che risponde: «Prima di rivolgersi a noi, Bersani si faccia uno spinello»).
«Voglio una risposta da queste forze politiche e non la devono dare a me, la devono dare al Paese. Si assumano le loro responsabilità e noi tireremo le somme», spiega Bersani annunciando che dopo questa assemblea il Pd presenterà il suo programma e chiederà un confronto «a tutte le forze di opposizione».
Ma sulla stesura di questo programma pesano alcune iniziative non di poco conto: come quella dei laici che fanno capo a Ignazio Marino che hanno presentato un documento sul riconoscimento delle unioni di fatto firmato anche da Massimo D’Alema. Il quale definisce questo testo «un contributo alla ricerca di una posizione condivisa», ricordando che il tema era già all’ordine del giorno del governo Prodi e che la Bindi ha annunciato che il Pd avvierà un gruppo di lavoro su laicità e diritti. E se invece sul caso Mirafiori Veltroni già ha detto la sua al Lingotto, stavolta toccherà invece all’ex leader Cgil Cofferati che oggi dovrebbe intervenire dal palco per esporre con forza le ragioni del «no». Al punto che dietro le quinte si vocifera che il «cinese» sarebbe pronto a dar vita ad una corrente della sinistra del Pd più incline a dialogare con Vendola.

Corriere della Sera 5.1.11
E Vendola apre a Casini
di Maria Teresa Meli


ROMA— Nichi Vendola scruta con attenzione il tentativo del Partito democratico di tessere la tela della Santa Alleanza. Il presidente della Regione Puglia ha capito di essere uno dei bersagli di questa operazione. Vendola sa che l’obiettivo di Massimo D’Alema e di Pier Luigi Bersani è quello di farlo trovare di fronte al fatto compiuto, costringendolo così ad accettare l’alleanza con Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini, pur di non passare come il responsabile della rottura di quest’alleanza anti-Berlusconi e, di conseguenza, come il colpevole di un’eventuale nuova vittoria elettorale del premier. E Vendola sa anche che a quel punto le primarie sparirebbero come d’incanto perché Casini, com’è noto, non le ama e non le vuole. Per questa ragione il presidente della Regione Puglia ha deciso di muoversi per tempo e di calcolare le sue prossime mosse: «Figuriamoci se mi faccio incastrare e se rinuncio a uno strumento di democrazia come le primarie» , ha spiegato ad alcuni colleghi della Sel. Perciò Vendola non farà l’errore di dire un no preventivo al leader dell’Udc. Anzi, dirà di essere pronto al «confronto di programma» con Casini. E persino su Fini non scaglierà un anatema anti-fascista, pur sottolineando le differenze e le distanze. Si mostrerà conciliante nei modi, disponibile a intavolare una trattativa: «Nessun veto» . Ma una richiesta. Quella sì irremovibile: va bene allargare l’alleanza, dialogare con tutti, ma poi per scegliere il candidato di questo nuovo schieramento «si faranno le primarie» . Su questo punto Vendola non si muove neanche di un millimetro ed è convinto che per il Partito democratico sarà complicato opporgli un no solo perché Casini non vuole le primarie. «Come faranno a spiegarlo alla loro gente?» è la domanda che si ripetono nelle riunioni i dirigenti della Sel: Vendola, Franco Giordano e Gennaro Migliore. E di questo sono consci anche al Pd, a dire il vero. C’è il timore che una parte dei militanti e degli elettori si opponga alla cancellazione delle primarie, la preoccupazione che i prodiani duri e puri salgano sulle barricate, la convinzione che i veltroniani non possano dire addio a questo strumento senza combattere. Però la tentazione di evitare delle consultazioni in cui Vendola possa provare a «lanciare un’Opa sul Pd» , come ha detto Bersani nei giorni scorsi, è altrettanto forte. Finora, comunque, si tratta di manovre di posizionamento, in attesa di capire se la legislatura si interromperà davvero anzitempo e si andrà al voto. Su questo non vi è certezza alcuna nelle opposizioni. Nel Pd c’è chi è convinto che le urne saranno uno sbocco inevitabile, e chi, invece, pensa che si andrà avanti. Il senatore veltroniano Stefano Ceccanti, per esempio, è convinto che la seconda ipotesi sia la più probabile: «Ora in Parlamento si voteranno per otto volte, di qui a maggio, i decreti attuativi del federalismo, com’è possibile pensare che la Lega faccia saltare tutto: saranno mesi di spot elettorali gratis per loro, perché farne a meno?» . Nel frattempo gli occhi dei leader delle opposizioni sono fissi ai sondaggi. Quello che però forse non sanno né D’Alema né Bersani è che Silvio Berlusconi è convinto di una sua particolare teoria. Che ha spiegato l’altro giorno a qualche amico: «Se fanno la Santa Alleanza la vittoria è sicura. La mia, non la loro»

La Stampa 5.1.11
E il partito si sente preso nella tenaglia tra Nord e Sud
E c’è chi ironizza sulle minacce fisiche
di Carlo Bertini


C’ è un buon motivo che spinge Roberto Calderoli a sbandierare urbi et orbi la sua intesa con i comuni sul federalismo: quando in primavera si andrà a votare alle amministrative in ottomila campanili, buona parte dei quali al nord d’Italia, sarà ben chiaro a tutti che malgrado l’Anci guidata da Chiamparino abbia detto ok, il Pd a braccetto con i «sudisti» Fini e Casini abbia invece provato a stoppare la «grande riforma». Con la motivazione che farà aumentare le tasse, ma obbedendo in primis alla necessità di non dare alcun assist a Bossi e Berlusconi. Accollandosi così il rischio di essere messo sulla graticola dalla gente del nord quando sarà il momento di affrontare la campagna elettorale, magari estesa anche per le politiche se la situazione precipitasse. Lo sa bene Chiamparino e con lui molti amministratori del nord-est che hanno già fatto sentire la loro voce, come ha fatto l’altra sera all’assemblea del gruppo di fronte a Bersani Simonetta Rubinato sindaco di Roncade nel trevigiano. E ne sa qualcosa il varesotto Daniele Marantelli, un piddì sui generis per le sue molteplici amicizie con i leader del Carroccio. Il quale giovedì andava raccontando come i suoi amici padani lo abbiano già avvertito di stare attento, «perché ora dalle nostre parti dovrai girare con la scorta». Per questo molti Democrats avrebbero preferito che il partito optasse per una più morbida astensione. Temendo che sarà difficile presentarsi alle urne senza passare per quelli della conservazione, ostili ad una riforma che anche negli auspici del Colle andava concordata con spirito bipartisan. E ovviamente, dietro le quinte della convention del Pd, gli unici ad ammetterlo sono i dissidenti della minoranza. «E’ vero, anche se ragioni di merito giustificano un no a questo federalismo, il messaggio che passerà purtroppo sarà quello», dice un alfiere del veltronismo come Giorgio Tonini. «E anche l’avviso di Bersani alla Lega che il vero federalismo lo si può fare senza Berlusconi sarà interpretato alla fine solo come un no alla riforma...»
E se poi si sposta il tiro sull’ altro versante dello stivale, si capiscono i buoni motivi che hanno spinto il vertice del Pd a riconvocare l’assemblea programmatica non più a Napoli e tantomeno in un’altra città del sud, bensì nella capitale. In tutte le regioni del meridione, a ben vedere, il partito di Bersani correrebbe seri rischi di veder funestata la sua kermesse dalle proteste e dalle contestazioni dei suoi residui militanti: in Sicilia la base è furiosa per l’appoggio al governo Lombardo e se venisse organizzato un referendum regionale tra gli iscritti Bersani sarebbe costretto a staccare la spina al governatore. In Calabria il partito è commissariato da mesi per le faide interne, non si riescono a nominare i gruppi dirigenti e l’ex governatore Loiero ha strappato la tessera in segno di sfida. A Napoli, il commissario Andrea Orlando inviato da Roma dopo lo scandalo delle primarie «truccate», non riesce a sedare gli animi dei duellanti e non è dato sapere chi correrà come sindaco alle amministrative. In Puglia le cose non vanno meglio con Vendola che ormai ha lanciato un’opa sul partito locale dopo la sua schiacciante vittoria alle primarie e alle regionali del 2010.
Basta questo elenco, in rapida successione, a trasmettere la fotografia di un partito «imprigionato» nel centro dello stivale, ormai interdetto oltre i confini delle ben note roccaforti rosse. Per giunta bombardato quotidianamente anche da quei fortilizi, dove regnano i «rottamatori» come Matteo Renzi. O bersaniani critici come il presidente della Toscana Enrico Rossi, che da settimane incita il segretario a «cambiare tutto, a cominciare dalla sua squadra, altrimenti non andiamo lontano». Sarà pure determinato dunque Bersani nella convinzione di riconquistare l’attenzione degli italiani con la sua proposta per l’Italia che lancerà oggi su diversi punti come politiche sociali e pubblica amministrazione. Ma un primo banco di prova per verificare quanto sia forte la capacità di penetrazione del Pd sul territorio sarà la raccolta di firme per far dimettere Berlusconi, visto che entro l’otto marzo il Pd dovrà adempiere alla promessa impegnativa di raccoglierne 10 milioni in tutta Italia. «Per quello non c’è problema - assicura l’emiliano Gabriele Albonetti - per il resto la storia ci insegna che appena cambia il vento le tensioni interne si sgonfiano sempre...».

il Riformista 5.1.11
Bersani ora punta tutto sulle urne
Chiamata alle armi. Il segretario cerca di mantenere l’unità (a serio rischio).
di Tommaso Labate

qui
http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/339333/
l’Unità 5.2.11
Intervista a Susanna Camusso
«Mi aspetto la reazione degli uomini al dilagare di un Paese sessuofobo»
di jolanda Bufalini

Al quarto piano di Corso d’ Italia, nell’ ampio ufficio con il ritratto di Giuseppe Di Vittorio così come lo vedeva Carlo Levi, dalla finestra un panorama mozzafiato: la galleria Borghese, i viali alberati della Villa, il segretario generale della Cgil concentra gli occhi azzurri sull’ IPhone. Veloci scambi di messaggi, Susanna Camusso è reduce dall’ accordo separato sulla Funzione pubblica, frutto di un incontro che doveva restare clandestino a Palazzo Chigi. «È evidente, evidente». Hanno letto un documento «di cui sapevano a memoria ogni parola e anche le virgole». Un accordo che «non è efficace per i lavoratori ma fa da stampella al governo, per far venire meno gli emendamenti al mille -proroghe». Noi siamo qui per un altro motivo. Perché Susanna Camusso ha messo la sua firma sotto l’ appello «se non ora quando»?
«È insopportabile la discussione sui comportamenti privati. Chi è sulla scena pubblica, donna o uomo, ha il dovere di tenere un comportamento etico. Fare politica è una scelta non un obbligo che si fa al servizio del paese e al di là degli schieramenti, ciò impone comportamenti esemplari e trasparenti. E questo è tanto più vero per un governo che ha preteso di mettere il naso nella vita privata degli italiani».
A cosa pensa?
«A Eluana Englaro, alla legge 194, per fare due esempi. Tutte iniziative contro le femmine. Da laica mi chiedo anche quale coerenza ci sia fra i comportamenti del premier e la rivendicazione su cui non sono d’accordo delle radici cristiane dell’ Europa»
Serpeggia l’accusa ‘donne di sinistra bigotte’. «Invece io trovo non accettabile come si è svolto il dibattito, soprattutto nell’ informazione televisiva. Si è fatto spettacolo di queste ragazze e delle loro aspettative».
Lei cosa pensa di loro?
«Sbagliano, nella vita non ci sono scorciatoie e le scorciatoie portano guai. Alla fine, si sono fatte imbrogliare: la sessualità consapevole è il contrario di una giovane che va con 74enne, il principe azzurro si è rivelato un barbablu. Però portare loro in primo piano nasconde l’ essenza di un vecchio che va con le minorenni. Per salvare i potenti si getta la responsabilità sulle donne e, per i comportamenti di alcune, si getta alle ortiche una storia di lotte che hanno modificato i rapporti fra donne e uomini».
Le donne, ha scritto qualcuno, “sono sedute sulla loro fortuna” «Più di tutto mi ha disturbato il titolo di un giornale di sinistra, “la fabbrica del bunga bunga”, perché per me la fabbrica è una cosa seria e il lavoro una cosa molto importante. C’ è uno slittamento grave del linguaggio maschile. Berlusconi riduce tutto a barzelletta, cerca la solidarietà maschile e alimenta i sentimenti più bassi. Però intorno c’è il silenzio dei maschi, forse condizionati da certe atmosfere da bar. Mi piacerebbe che gli uomini si indignassero e si mobilitassero, gridassero ‘io non sono così, la mia non è una sessualità malata’, perché questo spettacolo indecoroso ferisce la dignità e il rispetto delle relazioni fra i sessi. I comportamenti del capo del governo sono del tutto lesivi della dignità delle donne, anche minorenni». Non c’’è la presunzione di innocenza? «Il nostro è un paese sessuofobo, c’è una legge per cui un minore che va con una coetanea/o è punibile e se è entrato nella maggiore età da qualche mese non ho dubbi che sarebbe punito. In Italia sono stati attaccati i presidi per la distribuzione dei preservativi nelle scuole come educazione anti hiv, e l’educazione sessuale non deve essere materia di studio. Invece è consentito a un vecchio di 74 anni di frequentare ragazze minorenni, come testimoniano tanti fatti? Mi è indifferente, a questo punto, se ci sia la consumazione materiale. E poi..»
E poi?
«Gli argomenti della difesa: invece di dire ‘vi spiego come è andata’ parlano di persecuzione dei giudici. Ma quale persecuzione i?. E la storia della nipote di Mubarak? Non credo alla favola del destino cinico e baro». Come parteciperà la Cgil alla manifestazione del 13?
«Ho aderito a livello personale, è un’ iniziativa trasversale su cui nessuno deve mettere il cappello». Lei è diventata segretario generale in un momento molto difficile. Pensa che abbia influito la tendenza a fare largo alle donne quando si tratta di portare una patata bollente?
«In parte è vero ma sarebbe ingiusto verso le donne e gli uomini che hanno fatto la storia del sindacato e del movimento delle donne non vedere che è anche il risultato di tante battaglie e progressi fatti».

l’Unità 5.2.11
«Nessuna dittatura è invincibile
Siamo noi il futuro»
Il leader dei giovani per la democrazia:
«L’altra notte ci hanno sparato addosso, ho visto morire un mio compagno ma non ci fermeremo»
di U.D.G.


La sua lucidità di analisi è quella di un veterano della politica. La sua determinazione è quella dei giovani protagonisti della rivolta di Piazza Tahrir: «In questa piazza dice il popolo egiziano sta riscattando se stesso e dimostrando a tutto il mondo arabo che il “rais è nudo”, che non esistono dittature invincibili. Non accetteremo alcun dialogo con il regime fino a quando la nostra principale rivendicazione non sarà soddisfatta: il presidente Mubarak deve lasciare». A parlare è Amr Salah, leader dei «Giovani militanti per la democrazia», una delle componenti più attive nella rivolta popolare che sta scuotendo l’Egitto. Amr ha visto in faccia la morte: «L’altra notte racconta a l’Unità ero con i miei compagni sul punte quando da un auto in corsa hanno aperto il fuoco contro di noi. Il ragazzo che avevo vicino è stato colpito a morte, il suo corpo mi ha fatto da scudo. Questi assassini sono pagati dal regime e godono della protezione della polizia. I giornalisti stranieri lo hanno denunciato e per questo sono diventati bersagli da abbattere». Mentre l’Egitto torna in piazza, gli Stati Uniti negoziano un’uscita di scena immediata di Mubarak. «Obama osserva Salah sa che l’America si gioca oggi la sua credibilità agli occhi delle masse arabe. Coprire ancora un regime che uccide la sua gente significherebbe per l’America affondare con esso e per Barack Hussein Obama il discredito personale». Nonostante la giovane età, Amr, ricercatore all'Istituto per gli Studi sui Diritti Umani (Idsu) del Cairo ha già conosciuto cosa significhi essere nel mirino della polizia del «Faraone». Nel settembre scorso, l'Idsu denunciò il pestaggio e il ferimento, compiuti da agenti in abiti borghesi. Gli aggressori, che si sono identificati come agenti dei servizi segreti del regime di Mubarak, hanno atteso Salah davanti alla sua abitazione al Cairo e lo hanno picchiato duramente. Subito dopo lo hanno arrestato e portato in un località sconosciuta. Il giovane attivista dei diritti umani venne liberato il giorno successivo. Salah e i suoi compagni hanno trascorso la notte che ha preceduto il «Venerdì della partenza» in Piazza Tahrir: «Mentirei confessa se dicessi che tra di noi non c’è un po’dipaura, ma il sentimento che domina è l’orgoglio per quello che stiamo realizzando. Contro il popolo che prende coscienza dei suoi diritti non si governa, neanche schierando i carri armati o prezzolando bande di killer...». E all’Occidente alla ricerca di un leader riconoscibile della rivolta, un politico “affidabile”, il giovane Salah consiglia. “Non guardate alla vecchia generazione, questa rivoluzione ha il volto giovane. Non dimenticate che il 60% degli egiziani, 40 milioni di persone, ha meno di 25 anni...». Il nuovo che avanza, avverte Amr Salah, “è destinato a travolgere non solo il vecchio regime ma anche la “vecchia” opposizione».
Qual è il segno di questa rivoluzione in corso? «È il segno di un popolo che si è rivoltato contro un regime che aveva fatto della repressione e della corruzione i suoi tratti identitari. È la ribellione dei tantissimi giovani come me che sanno che questa gerontocrazia al potere distrugge il nostro futuro...».
Mubarak ha affermato che non si è dimesso per evitare il peggio per l’Egitto... «Il peggio è il suo voler restare al potere. Il peggio sono le bande armate pagate dal regime che in suo nome seminano il terrore. Oggi (ieri, ndr) lo abbiamo gridato in due milioni: “Mubarak, Vattene”. Solo dopo la sua uscita di scena sarà possibile aprire un dialogo di riconciliazione nazionale...».
Un dialogo condotto con il vice presidente Suleiman? «Non c’è alcuna pregiudiziale su di lui, così come è importante il ruolo che l’Esercito potrà svolgere nella fase di transizione».
C’è chi teme che la rivolta possa aprire la strada all’integralismo... «Non stiamo combattendo un regime liberticida per realizzare un regime della sharia (la legge coranica, ndr). La nostra è una rivoluzione dei diritti. Vogliamo essere finalmente liberi, e pensiamo che libertà, diritti, pluralismo, giustizia non siano incompatibili con l’Islam». Quanto ha pesato la rivoluzione «jasmine» tunisina?
«Ci ha dato coraggio, dimostrando che non esistono regimi invincibili, ma la nostra rivolta nasce da un malessere profondo e da un desiderio di cambiamento che attraversano da tempo la società egiziana. La misura era colma: ci siamo liberati della paura, e ora ci libereremo di un dittatore».

Repubblica 5.2.11
Intervista
Camusso: "Pronti al referendum contro questo vulnus democratico"
di Roberto Mania


Non in tutti i Paesi sono state ridotte le retribuzioni e se davvero ci sono delle risorse aggiuntive andrebbero utilizzate per stabilizzare i precari
L´intesa è un soccorso al governo. Non può esistere una riforma senza contrattazione e senza il coinvolgimento dei lavoratori

ROMA - Segretario Camusso, perché non ha firmato l´accordo sulla produttività nel pubblico impiego?
«Non abbiamo firmato innanzitutto perché questo accordo non costituisce una soluzione alla priorità del pubblico impiego che ha un nome preciso: precarietà».
Infatti non era questo lo scopo dell´accordo.
«Non abbiamo firmato per tante altre ragioni. Perché la premessa all´intesa era la stessa sottoscrizione dell´accordo separato del 2009 che coincide con la condivisione del blocco della contrattazione. Non abbiamo firmato perché è la prima volta che un accordo sindacale serve, come è stato detto al tavolo, per impedire che in Parlamento si presentino emendamenti al cosiddetto Milleproroghe per far slittare la cosiddetta riforma Brunetta. E ancora abbiamo detto no a un pasticcio tra la riforma e la manovra estiva che, proprio come la Cgil denunciò isolata, riduceva di fatto gli stipendi dei dipendenti pubblici. Non abbiamo firmato perché c´è un vulnus democratico anche nel pubblico impiego dove si cerca di non far rinnovare le rappresentanze sindacali, questione che, in maniera davvero audace, il governo ha pensato di superare con un accordo separato. Infine non abbiamo firmato perché in quell´intesa c´è pure un atto di imperio nei confronti delle Regioni che sulla sanità avevano firmato un contratto unitario e che ora l´intesa di Palazzo Chigi vorrebbe nei fatti modificare».
Lei ha detto che con l´accordo si prendono in giro i lavoratori. Vuol dire che Cisl e Uil prendono in giro i lavoratori?
«Quest´intesa è un soccorso al governo. Non può esistere, e i fatti lo dimostrano, una riforma della pubblica amministrazione senza contrattazione e senza il coinvolgimento dei lavoratori».
Dovrà riconoscere che, nonostante la grave crisi, ai dipendenti pubblici italiani non è stata tagliata la retribuzione. In altri paesi è stato fatto.
«A parte il fatto che non in tutti i paesi sono state ridotte le retribuzioni, se davvero ci sono delle risorse aggiuntive andrebbero utilizzate per stabilizzare i precari».
Lei crede che ci sia quello che Brunetta chiama il "dividendo dell´efficienza"?
«Nella Finanziaria del 2008 c´era una norma secondo la quale il 50 per cento dei risparmi ottenuti attraverso una maggiore efficienza sarebbe dovuto andare alla contrattazione. Secondo alcune voci ministeriali per il biennio 2009-2010 ci sarebbero 23-24 milioni. E sempre secondo le stesse voci pare che quando si è parlato di "dividendo" il ministro dell´Economia abbia detto: «Non se ne parla nemmeno». In ogni caso, se la cifra è quella vuol dire che non potrebbero essere premiati nemmeno i 600 mila lavoratori interessati all´accordo su 3,5 milioni di dipendenti pubblici. D´altra parte il ministro dell´Economia non c´era al tavolo con i sindacati pur essendo stato invitato».
Insomma: un accordo bluff?
«Un´operazione politica finalizzata a far vedere che il governo si occupa di economia e lavoratori. In realtà è un ritorno al passato, alla pratica degli accordi separati».
Considera Cisl e Uil alla stregua di due stampelle che sostengono il governo? È un´accusa grave.
«Non so se sia nelle loro intenzioni. Ma oggettivamente è così».
Il segretario della Cisl, Bonanni dice che così alimentate un clima di violenza, addirittura vi ha indirettamente paragonato ai naziskin.
«Bonanni sa bene cosa pensi la Cgil della violenza. Per questo credo che debba evitare di utilizzare questi argomenti per impedire una dialettica. Dovrebbe essere lui il primo a non usare il termine naziskin nei confronti della Cgil e delle sue categorie».
Farete lo sciopero generale del pubblico impiego?
«Lunedì decideremo le forme di mobilitazione».
Proporrete il referendum sull´accordo?
«Proporremo innanzitutto di verificare la rappresentatività di chi ha firmato, come prevedono le norme sul pubblico impiego. Poi, nel caso, chiederemo il referendum abrogativo. Anche questo è previsto dalla legge. O l´hanno abrogata?».

La Stampa 5.1.11
La Spagna si tiene la scala mobile
Sindacati e imprenditori uniti: non cambiamo sistema
di Gian Antonio Orighi


Legare i salari alla produttività e non alla scala mobile, come propone la Merkel? No grazie, risponde compatta la Spagna. Dal premier socialista Zapatero ai principali sindacati, il socialista Ugt ed il filo-comunista Comisiones Obreras (CC.OO), dal ministro del Lavoro Goméz ed addirittura dalla Ceoe, la Confindustria locale, c’è stata una levata di scudi contro la proposta già operativa in Germania e riproposta l’altro ieri durante il vertice bilaterale Madrid-Berlino.
Ma la Cancelliera ha un potente alleato, il Banco de España, che ieri ribadiva: «È imprescindibile mantenere la moderazione salariale per migliorare la competitività».
In Spagna, da 30 anni, esiste la scala mobile, che viene accordata nei contratti nazionali di lavoro e che riguarda, nel 2010, il 45 per cento degli occupati (prima, il 70 per cento). Imprenditori e sindacati concordano nei contratti e su base triennale l’Ipc, l’inflazione prevista dal governo, che rivaluta automaticamente i salari. Finito il triennio, se i prezzi sono cresciuti più di quanto previsto, gli stipendi ricevono la differenza.
Solo nel 2010, con un Ipc del 3 per cento e quella previsto dell’1%, i salariati ci hanno perso( per il momento). Prima, invece, ci guadagnavano, colpendo così gli utili delle imprese in un Paese che gode del triste primato Ue dei disoccupati (il 20,3 per cento, in Germania i disoccupati sono il 7,7 per cento).
«Sono i sindacati e gli imprenditori che devono trattare i contratti nazionali», ha tagliato corto Zapatero. Gómez, da parte sua, ha sparato: «Il modello di scala mobile non è stata una cattiva esperienza. E serve anche per recuperare le perdite delle aziende» (temporalmente, perché poi pagano la differenza a fine triennio, ndr). Toxo, leader di CC. OO, ha rivendicato: «La Spagna a poco da imparare dall’estero».
Ma non dice che, con questo modello criticato anche dal Fondo monetario internazionale e dall’Ocse, l’aumento del costo nominale per unità di prodotto spagnolo, tra il 1999 ed il 2009, è stato il secondo più alto d’Europa (+33%, preceduto da quello delll’Italia con il +35%). Incredibile ma vero, anche la Ceoe si unisce al coro. Chiosa il vice-presidente dell’associazione degli industriali a Ceoe, Fernández: «Legare i salari alla produttività ed agli utili delle imprese sarebbe un cambio molto radicale e complicato».

La Stampa 5.1.11
Egitto. Una partita cruciale per tutti noi
di Marta Dassù


A giudicare dal Consiglio europeo, l’Ue sembra rimuovere la realtà: ciò che è in gioco, nella sollevazione delle piazze arabe, non è solo il futuro dell’Egitto e dei suoi cittadini. E’ anche il nostro futuro.
Non perché Silvio Berlusconi sia l’ultimo Faraone Mediterraneo, come si ostina a sostenere qualcuno.Né perché la protesta dei giovani arabi, come sostengono altri, «faccia parte» di un ciclo di tensioni connesse alla disoccupazione e alle frustrazioni delle nuove generazioni che si estenderà progressivamente in Europa. La ragione mi sembra un’altra, più netta: è un interesse vitale delle democrazie europee - in cui includo Israele - che la crisi delle vecchie satrapie arabe non prepari future dittature islamiche. Come ha scritto giustamente Tim Garton Ash, «se questo non è un interesse vitale europeo, non è chiaro cosa lo sia».
L’illusione, anche italiana, è che questo scenario possa essere evitato affidandosi a un passato che sta crollando: perché non tenersi Hosni Mubarak? Perché, risponde anche per noi l’amministrazione americana, il prezzo da pagare sarebbe di avallare una repressione sanguinosa e violenta nel nostro cortile di casa. Un’Europa che pretenda di fondarsi su principi e valori democratici non è più in grado di farlo, neanche se lo volesse.
Quali altri scenari restano, allora? Il primo è che l’esercito egiziano - l’unica vera forza organizzata del Paese - sia in grado di gestire il dopo Mubarak mettendo al potere un volto nuovo ma in sostanza controllato dalle Forze Armate. La rivolta d’Egitto, innescando una successione forzata, sfocerebbe così in una modernizzazione autoritaria, più accettabile di quella precedente. Se l’economia riprendesse e se ci fossero passi verso una redistribuzione sociale, la cosa potrebbe riuscire. Anche perché ciò che ha veramente motivato la protesta egiziana è l’emarginazione di larga parte della popolazione dai benefici della crescita: l’apartheid economico dell’Egitto, per riprendere il termine utilizzato da Hernando De Soto.
Il secondo scenario è che la protesta egiziana produca una democrazia di facciata, illiberale. Questa è la ragione per cui Israele avverte Barack Obama che l’analogia vera non è con le rivoluzioni democratiche europee ma con il 1979 iraniano: in Egitto, come in Iran, una protesta popolare con molte anime potrebbe essere alla fine scippata dalla sola struttura politica consistente nell’opposizione, i Fratelli Musulmani. Qui il dilemma, naturalmente, è di decidere cosa vogliano realmente i Fratelli Musulmani. Ha ragione chi sottolinea la loro netta distanza dagli ayatollah persiani o chi insiste sul rischio di una deriva iraniana? Io propenderei per la prima di queste due ipotesi; e ci sono molte ragioni per cui è difficile pensare che l’Egitto, Paese che si considera il «primo Stato arabo moderno», possa mai diventare uno Stato islamico. Ma è un’ipotesi da dimostrare. E va evitato un ragionamento troppo semplice: il fatto che il regime di Mubarak abbia usato strumentalmente la lotta al fondamentalismo islamico, non significa che un rischio del genere non esista.
Il terzo scenario è che il 2011 possa davvero segnare un primo passo verso le aspirazioni democratiche del principale Paese arabo. E’ una grande occasione per il Medio Oriente, che George W. Bush avrebbe voluto imporre dall’esterno partendo dall’Iraq; e che si verificherebbe, invece, come effetto della scossa interna egiziana. Ma come tutte le occasioni della storia, contiene dei rischi evidenti. Anche per Barack Obama. Il quale viene accusato, alternativamente, di essere un G. W. Bush riciclato (di puntare anche lui sull’esportazione della democrazia, rinunciando al realismo) o un Jimmy Carter di ritorno, con le stesse debolezze e con lo stesso problema di fondo: il rischio di perdere l’Egitto - alleato essenziale degli Stati Uniti e unico Paese in pace con Israele - come Carter perse l’Iran nel 1979.
Esiste un modo per sostenere le aspirazioni degli egiziani senza perdere l’Egitto? Questa è la partita essenziale: per i giovani egiziani, per l’America, per la sicurezza di Israele e per noi europei. L’Europa, se non riuscirà a parlare in nome del proprio interesse vitale, dovrebbe almeno aiutare Barack Obama a sottrarsi al dilemma di Carter: non per tornare a una «real-politica» fuori tempo massimo o per riciclarsi come nuovo Bush. Ma per riuscire, con un mix di realismo e idealismo, a vincere una partita cruciale e che riguarda anche noi.

l’Unità 5.2.11
«Nessuna dittatura è invincibile
Siamo noi il futuro»
Il leader dei giovani per la democrazia:
«L’altra notte ci hanno sparato addosso, ho visto morire un mio compagno ma non ci fermeremo»
di U.D.G.


La sua lucidità di analisi è quella di un veterano della politica. La sua determinazione è quella dei giovani protagonisti della rivolta di Piazza Tahrir: «In questa piazza dice il popolo egiziano sta riscattando se stesso e dimostrando a tutto il mondo arabo che il “rais è nudo”, che non esistono dittature invincibili. Non accetteremo alcun dialogo con il regime fino a quando la nostra principale rivendicazione non sarà soddisfatta: il presidente Mubarak deve lasciare». A parlare è Amr Salah, leader dei «Giovani militanti per la democrazia», una delle componenti più attive nella rivolta popolare che sta scuotendo l’Egitto. Amr ha visto in faccia la morte: «L’altra notte racconta a l’Unità ero con i miei compagni sul punte quando da un auto in corsa hanno aperto il fuoco contro di noi. Il ragazzo che avevo vicino è stato colpito a morte, il suo corpo mi ha fatto da scudo. Questi assassini sono pagati dal regime e godono della protezione della polizia. I giornalisti stranieri lo hanno denunciato e per questo sono diventati bersagli da abbattere». Mentre l’Egitto torna in piazza, gli Stati Uniti negoziano un’uscita di scena immediata di Mubarak. «Obama osserva Salah sa che l’America si gioca oggi la sua credibilità agli occhi delle masse arabe. Coprire ancora un regime che uccide la sua gente significherebbe per l’America affondare con esso e per Barack Hussein Obama il discredito personale». Nonostante la giovane età, Amr, ricercatore all'Istituto per gli Studi sui Diritti Umani (Idsu) del Cairo ha già conosciuto cosa significhi essere nel mirino della polizia del «Faraone». Nel settembre scorso, l'Idsu denunciò il pestaggio e il ferimento, compiuti da agenti in abiti borghesi. Gli aggressori, che si sono identificati come agenti dei servizi segreti del regime di Mubarak, hanno atteso Salah davanti alla sua abitazione al Cairo e lo hanno picchiato duramente. Subito dopo lo hanno arrestato e portato in un località sconosciuta. Il giovane attivista dei diritti umani venne liberato il giorno successivo. Salah e i suoi compagni hanno trascorso la notte che ha preceduto il «Venerdì della partenza» in Piazza Tahrir: «Mentirei confessa se dicessi che tra di noi non c’è un po’dipaura, ma il sentimento che domina è l’orgoglio per quello che stiamo realizzando. Contro il popolo che prende coscienza dei suoi diritti non si governa, neanche schierando i carri armati o prezzolando bande di killer...». E all’Occidente alla ricerca di un leader riconoscibile della rivolta, un politico “affidabile”, il giovane Salah consiglia. “Non guardate alla vecchia generazione, questa rivoluzione ha il volto giovane. Non dimenticate che il 60% degli egiziani, 40 milioni di persone, ha meno di 25 anni...». Il nuovo che avanza, avverte Amr Salah, “è destinato a travolgere non solo il vecchio regime ma anche la “vecchia” opposizione».
Qual è il segno di questa rivoluzione in corso? «È il segno di un popolo che si è rivoltato contro un regime che aveva fatto della repressione e della corruzione i suoi tratti identitari. È la ribellione dei tantissimi giovani come me che sanno che questa gerontocrazia al potere distrugge il nostro futuro...».
Mubarak ha affermato che non si è dimesso per evitare il peggio per l’Egitto... «Il peggio è il suo voler restare al potere. Il peggio sono le bande armate pagate dal regime che in suo nome seminano il terrore. Oggi (ieri, ndr) lo abbiamo gridato in due milioni: “Mubarak, Vattene”. Solo dopo la sua uscita di scena sarà possibile aprire un dialogo di riconciliazione nazionale...».
Un dialogo condotto con il vice presidente Suleiman? «Non c’è alcuna pregiudiziale su di lui, così come è importante il ruolo che l’Esercito potrà svolgere nella fase di transizione».
C’è chi teme che la rivolta possa aprire la strada all’integralismo... «Non stiamo combattendo un regime liberticida per realizzare un regime della sharia (la legge coranica, ndr). La nostra è una rivoluzione dei diritti. Vogliamo essere finalmente liberi, e pensiamo che libertà, diritti, pluralismo, giustizia non siano incompatibili con l’Islam». Quanto ha pesato la rivoluzione «jasmine» tunisina?
«Ci ha dato coraggio, dimostrando che non esistono regimi invincibili, ma la nostra rivolta nasce da un malessere profondo e da un desiderio di cambiamento che attraversano da tempo la società egiziana. La misura era colma: ci siamo liberati della paura, e ora ci libereremo di un dittatore».

Corriere della Sera 5.1.11
Perché Togliatti aprì alla monarchia Svelato il mistero della svolta di Salerno
Il governo Badoglio chiese ai sovietici di far cambiare posizione al Pci
di Antonio Carioti


A l sardo Renato Prunas, segretario generale del ministero degli Esteri dal novembre 1943 al novembre 1946, tutti riconoscono il merito di aver rimesso in piedi la diplomazia italiana dopo la catastrofe dell’ 8 settembre. Ma ora un libro dello storico Marco Clementi sui rapporti fra Italia e Urss dal 1943 ai primi anni Cinquanta, L’alleato Stalin, getta nuova luce sul ruolo che lo stesso Prunas ebbe all’origine della «svolta di Salerno» , l’apertura verso la monarchia operata dal leader comunista Palmiro Togliatti al suo ritorno in Italia dall’Urss, nel marzo del 1944. Quella mossa colse di sorpresa le altre forze antifasciste, che fino ad allora avevano rifiutato di collaborare con il governo guidato dal maresciallo Pietro Badoglio e avevano reclamato l’uscita di scena del re Vittorio Emanuele III. In seguito all’iniziativa del Pci, nell’aprile 1944 si formò un nuovo governo, sempre guidato da Badoglio, in cui entrarono tutti i partiti del Cln, senza che vi fosse l’abdicazione formale del sovrano. La scelta di Togliatti venne a lungo presentata dalla storiografia marxista come il primo passo della «via italiana al socialismo» perseguita dal Pci, che lo avrebbe caratterizzato sempre più come un partito d’indirizzo nazionale e democratico, tendenzialmente autonomo dai sovietici. Una versione dei fatti che perse credibilità quando fu possibile accedere agli archivi di Mosca, perché emerse che in precedenza Togliatti si era pronunciato per una posizione d’intransigenza verso Badoglio, che venne poi scartata in seguito a un incontro che il leader del Pci, poco prima di partire per l’Italia, ebbe al Cremlino con Stalin. Era dunque al dittatore sovietico che andava attribuita, scrissero Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky nel libro Togliatti e Stalin (Il Mulino), la responsabilità decisiva della svolta. Ora però il saggio di Clementi evidenzia un altro elemento importante. A suggerire e sollecitare il cambio di rotta del Pci era stato alcune settimane prima proprio Prunas, nel corso di un colloquio del 12 gennaio 1944 con l’inviato di Stalin Andrej Vishinskij, il famigerato inquisitore dei processi di Mosca. In quell’incontro non solo vennero poste le basi per il riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’Urss, avvenuto il 13 marzo, ma Prunas sottolineò l’esigenza di «un mutamento nell’atteggiamento del Partito comunista italiano, oggi violentemente antigovernativo» . Se il Pci avesse abbandonato quella posizione «sterile» , disse, ciò avrebbe influenzato anche gli altri movimenti antifascisti. E si sarebbe probabilmente arrivati alla costituzione di un «largo governo democratico» . Le parole di Prunas, nota Clementi, prospettano «esattamente i passaggi politici che sarebbero culminati nella svolta di Salerno» . E non meno significativa appare la disponibilità mostrata da Vishinskij, il quale gli rispose che a Mosca vi erano «alcuni comunisti italiani intelligenti e competenti» . Se a questo si aggiunge che, come risulta dal registro delle persone ricevute da Stalin al Cremlino, Vishinskij era presente, con il ministro degli Esteri Vjaceslav Molotov, all’incontro che Togliatti ebbe con il despota sovietico, nella notte tra il 3 e il 4 marzo 1944, prima di partire per l’Italia, sembra di poter concludere che alla svolta di Salerno Prunas diede un grosso contributo. Clementi non ha dubbi: scrive che in tutta la vicenda il ruolo del Pci «appare secondario non solo rispetto a quello di Mosca, ma anche rispetto a quello del governo italiano, che fu il vero ispiratore della nuova politica» . Ci fu insomma, secondo l’autore, una convergenza d’interessi tra l’esecutivo guidato da Badoglio e rappresentato da Prunas, che voleva consolidarsi sia all’interno sia sul terreno delle relazioni internazionali, e il Cremlino, che vedeva di buon occhio un rafforzamento politico del regno del Sud, per non lasciare l’Italia liberata totalmente alla mercé degli angloamericani. Quanto a Togliatti, in sostanza «funse da garante per la politica sovietica in Italia» . Un dato sorprendente è che il resoconto del colloquio tra Prunas e Vishinskij non è affatto inedito. Uscì nel 1974 in una pubblicazione della Farnesina e venne poi riprodotto nella raccolta ufficiale dei documenti diplomatici italiani. Eppure nessuno studioso ha mai prestato particolare attenzione al passaggio in cui Prunas auspicava quella che sarebbe stata la svolta di Salerno. Come mai? Interpellato dal «Corriere» , Clementi risponde così: «Dopo l’apertura degli archivi di Mosca, che schiudeva un mondo fino allora impenetrabile, l’interesse degli storici si è concentrato sui documenti sovietici e sul rapporto tra l’Urss e il Pci, mentre le carte italiane e le relazioni tra gli Stati sono rimaste un po’ in ombra. Al contrario gli specialisti di storia diplomatica, seguendo una linea di ragionamento internazionalistica, hanno trascurato il legame tra quel contesto e le scelte di Togliatti. D’altronde ricordo una lezione di Paolo Spriano, autore di una famosa storia del Pci, in cui spiegava a noi studenti che nulla è più inedito dei documenti già pubblicati, perché allo studioso può sempre sfuggire qualcosa» . Il libro di Clementi non si esaurisce nel riesame della svolta di Salerno, ma tratta molte altre questioni, dalla sorte dei prigionieri italiani in Russia al nodo di Trieste, con un approccio piuttosto comprensivo verso l’Urss, anche sul patto Molotov-Ribbentrop. Ma non manca di sottolineare la mentalità censoria dei sovietici, che non solo chiesero ripetutamente al governo italiano di far sparire dalle librerie i volumi a loro sgraditi, ma imposero al vicesegretario del Pci, Luigi Longo, di rimaneggiare pesantemente l’edizione russa del suo libro sulla Resistenza, Un popolo alla macchia: dopo lo scoppio della guerra fredda, quel testo appariva troppo generoso verso gli angloamericani e gli antifascisti non comunisti. © RIPRODUZIONE RISERVATA R Il libro: Marco Clementi, «L’alleato Stalin. L’ombra sovietica sull’Italia di Togliatti e De Gasperi» (Rizzoli, pp. 395, € 20), in uscita mercoledì 9 febbraio.

Repubblica 5.2.11
Un Paese paranormale
Ma è possibile una parascienza?
di Angelo Aquaro


La "extrasensory perception" a sorpresa è tornata di prepotente attualità, sdoganata negli Usa anche da un´autorevole rivista di psicologia sociale
Il misterioso richiamo dell´invisibile si è fatto più forte del morso della realtà. Tanto che anche un disincantato come Clint Eastwood ha dedicato all´aldilà il suo ultimo film
Anche le applicazioni dell´iPhone si adeguano e vanno a caccia degli spiriti. Ma registrare l´attività magnetica non significa trovare i fantasmi
Dai registi agli psicologi, perché all´improvviso tutti parlano del mondo extrasensoriale

Non c´è solo il successo del film di Clint Eastwood o il ritorno in libreria di bestseller dedicati all´aldilà: ora persino le riviste scientifiche dedicano articoli alle esperienze extrasensoriali e gli psicologi conducono esperimenti sulla preveggenza, scatenando liti nel mondo accademico. Ecco perché all´improvviso il mondo "Esp" vive un boom e va a caccia di una nuova legittimazione

NEW YORK. Sarete anche bravissimi a districarvi tra messaggi e messaggini però no, spiacenti, la parapsicologia non c´entra. Se il telefonino fa bip bip e già sapete che sarà l´amore vostro, la scienza ha stabilito che non è parascienza. Trattasi soltanto di probabilità statistica non elevabile al livello di eccezionalità. Punto.
Non è uno scherzo: più di settemila utenti di Twitter sono stati testati in uno dei più grandi esperimenti di parapsicologia mai tenuti, l´ultimo condotto dal più bizzarro professore di psicologia del mondo, Richard Wiseman. E bizzarro, come tutti gli esperimenti del genere, era il test: riuscite a indovinare, via Twitter, dove abbiamo spedito uno dei partecipanti? A Londra, a Liverpool, a Glasgow? I risultati hanno dimostrato non tanto l´impossibilità di "predire" la destinazione, quantomeno in un senso statisticamente rilevante, ma soprattutto il fatto che anche quei partecipanti al test che reclamavano le doti di "vista a distanza" hanno clamorosamente fallito. Il professore, naturalmente, non se ne cura: «Andiamo avanti». Mica per niente Wiseman vuol dire Uomo Saggio.
Con prudente saggezza lo studioso s´è infilato nel tunnel della conoscenza più insidiosa dei nostri tempi: quella, appunto, della parascienza, del paranormale, della parapsicologia.
La sigla in inglese recita Esp: ExtraSensory Perception. E a sorpresa, anche per i preveggenti fan, la pseudoscienza che fiorì in Occidente soprattutto negli anni 60 e 70 - prima che i miti della New Age riempissero quel vuoto spirituale che nessuna escalation tecnologica è stata mai capace di riempire - è adesso tornata di straordinaria attualità. È l´Esp-explosion. Sdoganata da un articolo sul Journal of Personality and Social Psichology, la più autorevole rivista di psicologia Usa, che ha scatenato un paraputiferio nell´ambiente accademico.
Dalle stelle della scienza a quelle di Hollywood, perfino un vecchiaccio disincantato come Clint Eastwood ha dedicato al paranormale il suo ultimo film, Hereafter, quello in cui un bravo operaio con la testa sulle spalle, Matt Damon, nasconde dentro di sé la capacità di parlare con i morti. Una storia che in altri tempi sarebbe stata confinata in quelli che a Hollywood chiamano B-movie. E che invece è stata partorita dalla penna di uno sceneggiatore, Peter Morgan, che ha costruito il suo successo sempre su storie vere, da The Queen a Frost/Nixon. Il richiamo dell´invisibile, evidentemente, è più forte del morso della realtà. Anzi: spesso è proprio quel morso a riaprire la ferita della conoscenza mai sanata. «Ho cominciato a pensare al film dopo la perdita di un amico carissimo» dice Morgan. «Un incidente. Era successo così all´improvviso. Non aveva alcun senso. Al suo funerale mi ritrovai a fantasticare: il suo spirito deve trovarsi da qualche parte, qui intorno a noi. Ma dove?».
Il dolore ci può scaraventare nell´abisso delle domande senza fine. Ma le storie sull´aldilà non hanno mai smesso di fare la fortuna degli editori nell´aldiqua. Dopo aver sbancato ogni record due anni fa, Heaven is for real, il Paradiso esiste, è tornato ora in testa alla classifica dei tascabili Usa. Storia vera o paravera? Todd Burpo, un pastore battista del Nebranska, racconta del figlioletto andato e tornato dal mondo dei morti, dato per spacciato durante un´operazione e invece riapparso per rivelare di aver parlato con la sorella abortita di cui nessuno gli aveva mai detto.
Scienza o parascienza? Storia vecchia. Già ai primi del ´900 fiorivano gli Spiritualisti contro cui si scagliò nientemeno che il principe di tutte le illusioni: Erik Weisz, in arte Henry Houdini. Anche nel suo caso, proprio la perdita di una persona cara, la mamma, lo spinse a cercare una via per mettersi in contatto con lei. Scoprendo, lui figlio di un rabbino, che quelle brave signore che giuravano di parlare con i morti erano in realtà delle simpatiche truffatrici. Ci scrisse su anche un libro, il re dei maghi: Miracle Mongers and Their Methods, Trafficanti dei miracoli e i loro metodi. Cioè trucchi. Che, da allora, non è che siano cambiati molto.
Basta affacciarsi su quello schermo della quotidianità che è diventato l´Apple Store, il negozio virtuale dove c´è sempre una risposta, o quantomeno un´applicazione, per tutto. Paranormal Activity Locator: l´applicazione che localizza l´attività paranormale intorno a voi. Paranormal State Meter: l´applicazione che misura l´attività magnetica. E via di seguito per una decina di app che si sfidano solo nel nome. Ovviamente registrare attività magnetica non vuol dire registrare presenze extrasensoriali. Ma l´offerta risponde, come si sa, alla domanda. E su ehow. com, il sito che ti spiega come diventare di tutto, puoi seguire ovviamente anche le istruzioni per trasformarti in un cacciatore del paranormale.
Ma attenti a incamminarvi per quella che potrebbe sembrare la conclusione, manco a dirlo, più logica: sciocchezze. A metà tra scienza e parascienza, per esempio, c´è l´Institute of Neotic Sciences che Dan Brown ha resto famoso in tutto il mondo nel suo Simbolo perduto e i cui esperimenti - alcuni esperimenti - sono stati benedetti anche dall´Università di Princeton.
In fondo il paranormale nasce da una costola del normale. La stessa parola "parapsicologia" viene tenuta a battesimo in una facoltà di psicologia, Duke University, North Caroline, 1930. E lo stesso, saggissimo professor Wiseman, che sta per pubblicare l´attesissimo Parapsicology, frutto di vent´anni di lavoro, ha cominciato i suoi studi in quell´Università di Edimburgo che all´interno della facoltà di psicologia sbandiera la Koestler Parapsicology Unity: un dipartimento nato per onorare il testamento dello scrittore Arthur Koestler, quello di Buio a mezzogiorno, che divise la sua opera tra denuncia dello stalinismo e - lo ricordate? - la predica del paranormale.
Proprio a Richard Wiseman s´è rivolto il New York Times quando la polemica esplosa tra gli psicologi ha tracimato il confine dell´Accademia. Il motivo del contendere? Uno dei più autorevoli studiosi americani, Daryl Bem, ha pubblicato una ricerca in cui si ipotizza la possibilità di risposte extrasensoriali: la capacità, per esempio, di indovinare dove comparirà una determinata immagine in un computer - che sarebbe un po´ la versione aggiornata dei primi esperimenti di Esp, quelli con le "carte Zener" di cui bisognava mentalmente pre-leggere il segno.
Dov´è lo scandalo?, si chiede Wiseman. Anche la parapsicologia è una scienza, come le altre: e quindi se gli esperimenti rispondono a un certo requisito metodologico vanno pubblicati. Bestemmia, replica un filosofo come Anthony Gottlieb: come si fa a dimostrare "scientificamente" il miracolo? E cita, il professore, nientedimeno che David Hume, che già 300 anni fa avvertiva: «Nessun testimone è sufficiente a stabilire un miracolo, a meno che la sua testimonianza sia tale per cui la dimostrazione della sua falsità sarebbe più miracolosa del fatto che vuole dimostrare il vero».
Vi siete incartati? Tranquilli. In fondo è più o meno la versione filosofica di quella vecchia barzelletta. Un tizio finalmente si decide di andare da un preveggente. Bussa alla porta. Il veggente, da dentro: «Chi è?». E il tizio: «Cominciamo bene...».

Repubblica 5.1.11
In questo sistema globalmente comunicante ci affascina l´idea che esistano le premonizioni Perché se ne è convinto qualcuno alla fine ci credono tutti. Come è accaduto per gli Ufo
Tranquilli, l´ESP è solo un bisogno in laboratorio non ci sono prove
di Giovanni Bignami


Per un attimo, il New York Times aveva fatto tremare i cultori di Smorfia, a Napoli. Da un suo recente pezzo, forse un po´ troppo sensazionale (anche i ricchi piangono…), sembrava che prevedere i numeri del lotto fosse più un geloso privilegio di specialisti partenopei. Perché potevano essere molti quelli capaci di leggere nel futuro. Anzi, la previsione del futuro apriva la strada, secondo "All the news that´s fit to print", allo sdoganamento della ESP (percezione extrasensoriale). No, per fortuna possiamo dire agli "smorfiosi" di dormire sonni tranquilli (e ricchi di sogni): le news riportate dal Nyt sulla ESP sono del tipo STB (Sono Tutte Balle).
Vediamo i fatti. Un rispettato prof di psicosociologia (dotato di grande humor, pare) riesce a pubblicare su una importante rivista che alcuni suoi soggetti sanno prevedere correttamente un evento di tipo "sì/no" più della metà delle volte. Capite che, se fosse vero, si tratterebbe di persone capaci di prevedere il futuro. Alti lai dalla comunità accademica Usa: la rivista non avrebbe dovuto pubblicare, tutti si sentono offesi e imbarazzati. C´è chi dice che l´autore voleva scherzare (e forse è vero…). Analisi più dettagliata dei dati rivela una statistica risibile: il risultato ha la probabilità del 5% di essere casuale, ottenuto per caso, insomma falso.
A un osservatore superficiale sembra poco, il 5%. In realtà, se si vuole dimostrare qualcosa di eccezionale, come in questo caso, si richiedono statistiche molto, ma molto migliori. Se prendessimo per buono un risultato con una simile validità statistica, avremmo già scoperto il bosone di Higgs, le onde gravitazionali, la fusione fredda e quant´altro (tutti risultati già ottenuti con probabilità più piccole del 5% di essere falsi, ma poi rivelati falsi). Il grande planetologo americano Carl Sagan, spesso interrogato su visite di alieni & C., diceva: extraordinary claims require extraordinary proofs. Giusto, ma qui, davanti a una affermazione straordinaria (previsione del futuro), si portano prove del tutto insufficienti. CVD (come volevasi dimostrare): STB.
E allora? Quid della fascinazione, da sempre presente, per il "paranormale" (ESP o altro), che sembra in aumento? Insomma, esiste una epistemologia della Smorfia? Non credo proprio, ma il fenomeno va analizzato e compreso. Viene in mente la correlazione con le visite degli extraterrestri e con i viaggi spaziali intergalattici. Ho appena scritto un libretto dall´incauto titolo, I marziani siamo noi, che vuole essere solo un bignami dell´Universo, un racconto dal Big Bang alla vita. Sono stato sommerso di domande. Molte, più che sulla vera ricerca spaziale, erano centrate sul colore degli occhi degli extraterrestri che vengono a trovarci su Ufo più veloci della luce. Visite spesso vissute in prima persona e tutte basate su fenomeni irripetibili e comunque non verificabili. Anche qui, la spiegazione STB, purtroppo l´unica possibile, sembra ogni tanto scivolare come l´acqua sul marmo.
Anche persone colte, laureate, sembrano aver bisogno di credere in ESP o Ufo, ne sono attirati e affascinati. Perché hanno questo bisogno? Perché ci credono gli altri, essenzialmente. Perché non posso non andare a quell´outlet se ci è andata la mia amica, e comunque è figo fare branco. Se credo all´oroscopo (che è sempre uguale a un altro, vedi Bersani e Berlusconi, stesso compleanno il 29 settembre) ho meno paura del futuro. Il fenomeno è vecchio come il mondo, forse oggi viene solo amplificato. E ci sono da sempre ondate di moda. Gli Ufo sono stati visti quasi solo dagli anni 50, prima niente, e oggi sono molto più rari, preferiscono non farsi vedere ma tagliare artisticamente i campi di grano.
In un mondo globalmente comunicante diventa inevitabile che qualcuno sia tentato, certo in buona fede, di provare uno sdoganamento, una epistemologia della Smorfia. Non si può dare un giudizio negativo su ogni sforzo di capire, anche se confuso o privo di metodo (purché in buona fede). Ma il metodo scientifico, quello vero, ce l´abbiamo da più di quattro secoli. Il suo uso incorretto o insufficiente sembra essere alla base della tempesta-in-un-bicchiere del New York Times. Ma il fatto che se ne parli tanto, ci dice qualcosa, anche se non so cosa. Forse ci manca l´ABC dello STB.
(L´autore è professore  di astronomia e astrofisica allo Iuss di Pavia, membro dell’Accademia dei Lincei, è stato direttore scientifico dell´Agenzia Spaziale Europea)

Repubblica 5.2.11
Per la prima volta va in scena a teatro il celebre film di Marco Bellocchio del 1965 che lo stesso regista ha adattato. Con Ambra Angiolini e Piergiorgio Bellocchio
Orrori di famiglia crudeli ma non troppo
di Rodolfo Di Giammarco


Visione senza alcuna speranza nei confronti dell´uomo di oggi, e catastrofica profezia del deserto emozionale che incombe, il film di Marco Bellocchio I pugni in tasca fu nel 1965, e lo resta ancora oggi, un capolavoro cui riferiamo una ricerca lucida e spietata sul crollo dei costumi, delle relazioni domestiche, dei ruoli in società. Ora a quasi mezzo secolo di distanza, con una parte di pubblico che conosce il titolo di culto ma magari non possiede dimestichezza con la pellicola, sarebbe pedante fare il confronto tra il film e l´adattamento teatrale dello stesso Bellocchio, con regia di Stefania De Santis, e con un cast dove emergono Ambra Angiolini e Pier Giorgio Bellocchio nei panni dei fratelli crudeli, ovvero la Giulia apatica e complice e l´Alessandro due volte omicida (di madre cieca e bigotta, e di fratello con handicap). Ed è giusto parlare solo dello spettacolo d´adesso, prodotto da Roberto Toni, del suo tentativo di proporsi come teatro angoscioso e duro tra quattro mura, con orrori cui ormai la cronaca nera ci ha assuefatti.
Faremmo un´unica eccezione citando il solo elemento comune al grande schermo d´allora e all´allestimento d´adesso, le musiche ben presenti e ossessive di Ennio Morricone con l´aggiunta potente del finale "liberatorio" del primo atto della Traviata quando, in chiusura, entra in crisi e stramazza il deus ex machina Alessandro, sotto gli occhi impassibili (gelidi) della sorella. Poi c´è però da fare il punto con la teatralità de I pugni in tasca. La trascrizione ambientale, il colpo d´occhio risponde a un impianto farraginoso, che nell´intento di accorpare più luoghi ha le sembianze di uno spazio a più livelli e più comparti come s´usava in modo storico e antiquato per i drammi di Tennessee Williams (scene di Daniele Spisa). Al di là della diretta parentela col film, il copione di Bellocchio ha una sua forza verbale che in parte sostituisce (e in parte no) i quadri muti ed emblematici che restano patrimonio del cinema, ma in sostanza regge all´impatto dei rapporti fisici, delle schermaglie dal vivo.
Vale a dire che l´inferno a porte chiuse dove ad affermarsi sarebbero la catatonia della madre e la malattia del fratello più alienato svela anche ora, sulla ribalta, i meccanismi per cui, dopo il formale distinguersi di Augusto (e della sua fidanzata), a fare piazza pulita con due mosse criminali è il fratello malato ma perverso, con la connivenza postuma della sorella. Manca, forse, quel clima d´aridità morbosa e patologica con disincanto fraterno che poi ha immaginato Houellebecq ne Le particelle elementari. Ma Bellocchio ha riletto Bellocchio. Il problema è che, pur in presenza di un testo forte, non si rintraccia un disegno registico emotivo e disperato d´insieme di Stefania De Santis. Va detto che Pier Giorgio Bellocchio è ben teso come ci si aspetta dal suo Alessandro, e che Ambra Angiolini contribuisce con fermezza, ambiguità, toni risoluti e versatilità di figura impersonando Giulia. Poi c´è l´ordinario senso delle convenzioni dell´Augusto di Fabrizio Rongione, la mitezza matriarcale della Madre di Giulia Weber, l´infermità del Leone di Giovanni Calcagno, e la quotidianità estranea e osservatrice della Lucia di Aglaia Mora. Ma è un Dies Irae, questa versione scenica de I pugni in tasca, cui manca spesso la struttura dell´insopportabilità, dell´intolleranza, dell´ossessione di persone innocenti e guaste allo stesso tempo.

Il Messaggero 5.2.11
Quirino/“I pugni in tasca” di Marco Bellocchio
Il seme del dolore
di Rita Sala

qui
http://carta.ilmessaggero.it/view.php?data=20110205&ediz=20_CITTA&npag=20&file=CC_538.xml&type=STANDARD

Avvenire Agorà 5.1.11
Eugenio Borgna, la solitudine che vince il rumore
Accettare lo stare da soli come un segno della Grazia. Un’arte difficile che esige di saper ascoltare il silenzio. Parla lo psichiatra italiano
intervista di Marina Corradi


«Emily Dickinson, Etty Hillesum, Madre Teresa: donne con la nostalgia dell’infinito. Una ricerca che è anche nella poesia e nella preghiera»

«Solitudine» è parola usa­ta quasi sempre in un’accezione negativa. Normalmente è sinonimo di emar­ginazione e esclusione. Ma l’ultimo saggio dello psichiatra Eugenio Borgna (La solitudine dell’anima, Feltrinelli) osa parlare anche di un’altra solitudine. Della ricercata solitudine di chi sceglie di sfuggire al rumore cui quotidianamente siamo consegnati. Della 'bella' so­litudine dei mistici; della creativa solitudine dei poeti. Su questa pa­rola dunque Borgna indaga e ne trae un’altra, oggi oscurata, dimen­sione. «Occorre distinguere – dice Borgna – la solitudine dall’isola­mento, che ne è la faccia negativa: la condizione cioè imposta da do­lore, malattia, povertà, o dalla no­stalgia feroce di un lutto. Anche l’i­solamento però può essere scelto: è il rifiuto intenzionale dell’altro, o il vassallaggio delle proprie pulsio­ni egoistiche, che rompe ogni co­munione con il prossimo».
Ma l’altro volto, luminoso, della so­litudine è appunto la solitudine scelta: «Per cercare – dice Borgna – il proprio cammino di vita interio­re: In interiore homine habitat veri­tas, noli foras ire…, ammonisce A­gostino ». E tuttavia i due aspetti, l’isolamento afflitto e la ricerca di sé, non sono regni divisi da invali­cabili confini: «Esistono sconfina­menti, e correnti carsiche, che flui­scono dall’una all’altra condizione. Perché ogni forma di isolamento può essere riscattata».
La nostalgia c’entra dunque con la solitudine, come eco di qualcosa che conoscevamo e abbiamo per­duto?
«Certo. La 'bella' solitudine di Te­resa d’Avila è domanda di attingere a qualcosa di non più tangibile, co­me in una memoria perduta. In Te­resa, la solitudine è apertamente chiamata 'grazia'; e 'disfatta', è quando questa solitudine scompa­re. In una sfolgorante intuizione: solitudine è lo spazio vuoto che può essere colmato da Dio. Come suggerisce anche un verso di Emily Dickinson: 'Forse sarei più sola/ senza la mia solitudine'».
Ma un’altra Teresa, Teresa di Cal­cutta, che lei cita, in diari straziati dice di una notte di solitudine in­teriore, del suo 'sorridere sem­pre', mentre dentro si avverte completamente vuota. Che razza di solitudine è, questa? Non po­trebbe essere quasi come una tal­pa che scava un vuoto più grande, per fare spazio a un altro che pre­me?
«Ogni solitudine è ritorno in se stessi, e ascolto dei motivi di dolore in noi. Se viviamo esposti al rumo­re, senza mai staccarci da questa terribile elisione di ogni relazione vera, ecco che la solitudine, pur a­prendoci orizzonti senza fine, ci fe­risce, perché ci fa conoscere espe­rienze che nella vita immersa nel rumore non possiamo nemmeno immaginare».
D’altronde il 'rumore' è lo stato in cui la maggioranza di noi vive.
«Sì, viviamo nel terrore del silenzio, e nella angoscia del confronto con noi stessi, e con il senso. Teresa di Calcutta, nella sua solitudine di ghiaccio, aveva una nostalgia straziata di Dio e dell’infinito».
Chi si affaccia sul silenzio di u­na clausura ne resta spesso af­fascinato e insieme spaventa­to. Che cosa nella solitudine monastica ci sbalordisce, e però ci fa paura?
«Da una parte il fatto che in clausura ci si sottrae al mondo, e agli affetti. Scompare quasi com­pletamente la parola, nel silenzio che sigilla. Chi non ha una fede al­tissima e un’acuta nostalgia dell’in­finito percepisce in tutto questo un’eco di morte – morte delle cose contingenti. Ma quando assisti, co­me a me è capitato nel monastero di San Giulio a Orta, ai voti di gio­vani donne che con voce ferma e dolce rispondono al vescovo: sì, abbandono il mondo, allora intui­sci che la clausura è il luogo di un incontro assolutamente concreto.
Queste donne sono la testimonian­za di una nostalgia di infinito che vive in noi. E tutto questo è grazia, come diceva Bernanos».
Nel libro lei cita Etty Hillesum, la giovane ebrea morta a Auschwitz che scriveva: 'Innalzo intorno a me le mura delle preghiera come le mura di convento'.
«Nel mezzo dello sfacelo delle per­secuzioni naziste la preghiera per la Hillesum è scudo, è invisibile cortina che la salva dal nulla. Ma da dentro quelle mura vedeva tut­to, concependo un senso anche al­la morte e allo strazio».
E tra solitudine e poesia, che rap­porto c’è?
«Siamo sempre dentro alla nostal­gia dell’indicibile. La solitudine af­franca, ringiovanisce, è premessa, come la malinconia, della genesi della esperienza poetica. Solitudi­ne, anche qui, è un rientrare in sé, e ascoltare gli abissi».
Allora poesia e preghiera si asso­migliano?
«La grande poesia difficilmente si distingue dalla preghiera. Penso a Petrarca, a Dante. Il luogo di comu­nanza è che entrambe attingono alla più profonda domanda, e che entrambe nascono più abbaglianti dalla disperazione. Certo l’ultimo orizzonte della santità è Dio, che incendia e trasfigura tutta la vita; mentre la poesia è maieutica per gli altri. In un certo senso, i poeti sono dei mes­saggeri. E però quali affinità tra l’ostinato bus­sare di Leopardi contro una por­ta che apparen­temente non si apre, e lo strazio oscuro di ma­dre Teresa».
Anche la psichiatria, lei scrive, è incontro fra due solitudini.
«Da un anno mi confronto con due pazienti ad alto rischio di sui­cidio. È come parlare con qualcu­no che minacci di buttarsi da un cornicione; è la disperata tensione a stabilire una relazione con il ma­­lato, a non sbagliare una parola. È allora che uno psichiatra avverte la sua impotenza, e si comprende egli stesso solo: in una solitudine che è emblema di uno scacco sen­za fine».

La Stampa 5.1.11
Il fascino del deserto dei filosofi La Farnesina: meglio non andare
Poche strutture turistiche, viaggi massacranti E predoni in attesa
di Raffaello Masci


"10 mila turisti italiani in Algeria ogni anno La meta preferita è Tamanrasset la città in mezzo al deserto
77 mila i posti letto negli hotel in Algeria Un terzo di quelli in Tunisia e un quarto di quelli in Marocco"

Chi fa il libero turista in Algeria, si espone a un rischio certo. Lo si evince leggendo il sito viaggiaresicuri.it che il ministero degli Esteri, insieme all’Automobile Club, gestisce e mette a disposizione di tutti gli italiani che vogliono o debbono spostarsi in Paesi stranieri.
Il 10 gennaio scorso, nella pagina dedicata all’Algeria, si leggevano i seguenti consigli: «Si raccomanda particolare prudenza, negli spostamenti all’interno di Algeri e delle altre principali città, alla luce dei disordini verificatisi dai primi di gennaio 2011 in vari quartieri della capitale, di Orano e di altre città del Paese. Vanno pertanto evitati i luoghi di eventuali manifestazioni e assembramenti di protesta, tenendosi informati in loco attraverso i mass media sulla situazione».
E questo vale per le città, Algeri in testa, che sono considerate luoghi se non sicuri almeno monitorati. Figurarsi le aree desertiche del Sud, tipo quella in cui la nostra sfortunata connazionale si è avventurata: «Si registra una accresciuta instabilità della regione saheliana - dice ancora il sito - confermata dagli episodi di sequestro, registrati nel corso del 2010, a danno di cittadini occidentali perpetrati da gruppi legati al movimento terroristico di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Si sconsiglia fortemente pertanto di intraprendere viaggi turistici nelle regioni confinanti con Mali, Niger, Mauritania e Libia». E proprio al confine con il Niger si trova l’area di Djamet, probabile teatro del rapimento.
Insomma, non è aria. Tant’è che il turismo europeo verso l’Algeria è pressoché nullo, e i dati dei flussi non vengono neppure considerati in quanto statisticamente (ed economicamente) marginali (con l’eccezione di quelli dalla Francia). «Gli italiani che vanno in Algeria - dice Stefano Landi, il maggiore esperto italiano di marketing turistico - sono all’incirca 50 mila l’anno. Di questi, però, 40 mila sono i cooperanti di grandi aziende, soprattutto petrolifere, che agiscono nel Paese. I turisti veri e propri, quindi, non superano i 10 mila e scelgono in gran parte, oltre che la capitale, l’area di Tamanrasset, la città dei Tuareg in mezzo al deserto». Bella e suggestiva zona, indubbiamente, ma gravata (anche questa) dalla tragica memoria della morte violenta del filosofo e monaco francese Charles de Foucauld, nel 1916.
Tra Algeri a Tamanrasset ci sono circa 1.300 chilometri che richiedono un viaggio a tappe, relativamente sicuro, ma al di fuori di questo percorso può accadere di tutto. «Peraltro - aggiunge ancora Landi - l’Algeria, a differenza degli altri Paesi del Maghreb, non è affatto attrezzata per il turismo. Se nella vicina e piccola Tunisia, per esempio, ci sono 240 mila posti letto in hotel, e nel Marocco siamo sui 350 mila, in Algeria arriviamo a malapena a 77 mila, di cui la metà nelle grandi città dove alloggiano tutti gli uomini d'affari. Un altro terzo si trova lungo la costa ma è sostanzialmente destinato ad un turismo interno. Solo il 15% si trova lungo i percorsi turistici del Sahara». Pochi alberghi, dunque, e standard qualitativi bassissimi. Conviene andare in Algeria?

La Stampa Tuttolibri 5.1.11
La matematica è poesia grazie a Calvino
Scienza e fantasia Una logica rilettura delle «Lezioni americane»
di Federico Peiretti


Nell’estate del 1985 Calvino stava preparando una serie di lezioni che avrebbe dovuto tenere all'Università di Harvard. Sei lezioni per mettere in evidenza «alcuni valori della letteratura - scriveva Calvino - che mi stanno particolarmente a cuore, cercando di situarle nella prospettiva del nuovo millennio». Scelse per questo sei parole, ognuna delle quali, secondo lui, evidenziava un carattere essenziale della letteratura: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza. Stava terminando il suo lavoro, quando improvvisamente morì, il 19 settembre 1985, all’età di 62 anni, e la sesta parola rimase incompiuta.
Le sue Lezioni americane sono la testimonianza di uno dei più grandi scrittori del Novecento sull’essenza del lavoro dello scrittore. Calvino vuole dimostrare che matematica e poesia hanno praticamente la stessa struttura. «L'atteggiamento scientifico e quello poetico coincidono - scrive - entrambi sono atteggiamenti insieme di ricerca e di progettazione, di scoperta e di invenzione».
Gabriele Lolli, docente di Filosofia matematica alla Normale di Pisa, logico eccellente, nel suo nuovo libro, Discorso sulla matematica , parte dalle Lezioni di Calvino per proporre un percorso inverso: dalla letteratura alla matematica. Questo per dimostrare che l'analisi di Calvino, sui fondamenti della letteratura, ben si adatta all'analisi del pensiero matematico. «Le Lezioni sono un racconto filosofico sulla matematica - osserva Lolli - un racconto che, grazie alla raffinatezza di Calvino, trasmette alla matematica tutta la bellezza e il fascino della letteratura».
E Lolli parte proprio dalle sei parole scelte da Calvino: «Vogliamo parlare della matematica - afferma - usando le stesse parole che Calvino ha rivolto alla letteratura». E questo per convincere il lettore che la matematica è poesia. Un lettore non prevenuto naturalmente, che non abbia avuto con la matematica soltanto un rapporto scolastico conflittuale. A facilitare il compito di Lolli c'è sicuramente l'interesse per la scienza e in particolare proprio per la matematica di Calvino, la sua amicizia con Primo Levi e la sua adesione, negli Anni Sessanta, quando si trasferì a Parigi, al gruppo dell’Oulipo, fondato da alcuni scrittori e matematici francesi, che perseguivano l'obiettivo di una scrittura che fosse «immaginazione scientifica, linguaggio logico e struttura matematica». E’ originale e seducente il lavoro di Lolli: «Convivono nella matematica - scrive - il fascino dell’esattezza scientifica e dell’infinita indeterminatezza del mondo dell’anima». Un bel teorema, Lolli ne è convinto, ha lo stesso valore e la stessa attrazione di una pagina di un grande scrittore, con una parte indefinita, aperta verso nuovi mondi, verso nuove dimostrazioni, solo intuite.
Per seguire le sue riflessioni sono sufficienti le conoscenze di uno studente delle superiori. Ma il modo migliore per affrontare la lettura del libro è quello di mettere da parte i nostri ricordi scolastici, per scoprire le meraviglie del mondo matematico lungo i percorsi suggeriti da Lolli. Si prenda, ad esempio, uno dei teoremi che ci propone di analizzare, molto semplice, la dimostrazione dell’uguaglianza degli angoli alla base di un triangolo isoscele. Dimentichiamo la dimostrazione meccanica che si trova sulla maggior parte dei testi scolastici e seguiamo il suo consiglio di «lasciar vagare la fantasia», inventando noi una nostra personale dimostrazione. Forse meno bella di quella di Euclide, ma solo così scopriremo che il procedere del ragionamento scientifico segue le stesse regole del racconto e della poesia: «Nessuno ha il coraggio di dire agli studenti che la matematica è come le fiabe - scrive Lolli - perché non sembrerebbe serio, ma se si vuole entrare nel mondo della matematica bisogna essere consapevoli che ci si deve atteggiare come nei confronti delle fiabe, o dei miti».
Il libro di Lolli presenta una serie straordinaria di spunti e riflessioni, alla ricerca della vera natura della matematica. Alla fine il matematico dovrebbe essere portato a chiedersi che cosa stia facendo, di che cosa si occupi e lo stesso dovrebbe fare l'insegnante di matematica, cercando di capire che cosa stia insegnando e anche lo studente dovrebbe chiedersi che cosa stia studiando. Solo se riusciremo a liberare la nostra fantasia scopriremo che un teorema di Pitagora o di Euclide, di Hilbert o di Gödel sono belli quanto una poesia di Leopardi o un racconto di Calvino. E per questo sarebbe necessario partire dalla scuola, con una rivoluzione didattica copernicana, che metta al centro lo studente e non un programma di formule e calcoletti, sovente inutili. Ma qual è la scuola disposta a liberare la fantasia?
"Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza: sei parole per definire il mondo dei numeri Gabriele Lolli propone un affascinante viaggio fra problemi e teoremi, affrontati come fiabe o miti"

La Stampa Tuttolibri 5.1.11
Giusta o ingiusta, siamo figli dell’Ira
Bodei. Un viaggio affascinante e inquietante da Achille a Mosè, da Kant a Giovanni Paolo II
di Lelio Demichelis


«La passione furente»: nobile, se rivolta contro le ingiustizie; temuta, se implica perdita di autonomia e giudizio

Si dice: è stato uno scatto d’ira; oppure: è accecato dall’ira. In realtà, l’ira ha molte facce, molte gradazioni. E’ ira contro se stessi e contro gli altri. Nasce da un’offesa o dal sentirsi traditi e ingannati. E’ l’ira funesta di Achille, che «infiniti addusse/lutti agli Achei». E’ l’ira di Dio, quando Mosè torna al suo popolo dopo avere ricevuto le Tavole della Legge e lo trova a danzare attorno al Vitello d’oro, e il Signore gli dice: «Che la mia ira si infiammi contro di loro». E Mosè prima chiede al Signore di desistere, poi è lui stesso a scatenare la sua ira (politica, non divina) per ricostruire la comunità e la sua dipendenza dal Signore: spezza le Tavole, distrugge il Vitello e invocando Dio dice ai figli di Levi: «Metta ognuno la sua spada al fianco. Passate e ripassate per il campo, da porta a porta e uccida ciascuno il suo fratello, ciascuno il suo prossimo e ciascuno il suo parente».
All’ira dedica un libro bellissimo - Ira. La passione furente - il filosofo Remo Bodei, nel penultimo volume della serie dedicata, per la cura di Carlo Galli, ai sette vizi capitali. L’ira: una passione alla quale, «fin dall’antichità si imputa la perdita temporanea dei beni più preziosi: il lume della ragione e la capacità di autocontrollo». Una «forma di cecità o di follia provvisoria». Passione irrazionale, preda della dismisura, «dal sapore amaro»; ma con una sua logica: perché «a stravolgere non è il singolo episodio da cui trae immediatamente origine, ma tutte le frustrazioni, le attese tradite, le speranze non realizzate o mal pagate, le irritazioni accumulate che si condensano, collassano ed esplodono simultaneamente perché, avendo raggiunto una massa critica, si scaricano sul bersaglio più vicino».
Passione triste per Spinoza, l’ira può anche produrre un certo piacere (Aristotele). Bifronte, per l’Occidente: nobile, se rivolta contro le ingiustizie; temuta, se implica perdita di autonomia e di giudizio (generando diverse alternative di senso e di ira). E’ un peccato per i cristiani, giustificato però se è a vantaggio del prossimo (per Gregorio Magno o i domenicani) e praticato dalla Chiesa e dai pontefici (e nella memoria ritroviamo l’ira pubblica e minacciosa di Giovanni Paolo II, nel 1983, su Ernesto Cardenal, teologo della liberazione e membro del governo sandinista). E l’ira - ancora di Dio e di Mosè, e dei rivoluzionari e degli uomini di potere - di chi «si sente tradito nella sua missione». E gli ebrei (ma in realtà la pratica è molto comune) che cercano di dirottare altrove l’ira di Dio (oggi dell’opinione pubblica, o della comunità): «Riversa la tua ira sulle genti che non ti riconoscono». Diceva invece Gesù: beati i miti, ma anch’egli si adirò contro i mercanti nel tempio (una «giusta ira»; ancor più oggi).
Da Kant a Cartesio, Dante e Shakespeare e Steinbeck, risalendo agli epicurei e agli stoici, tra «civiltà della vergogna» o «della colpa», tra ira giusta e ingiusta, ira maschile o femminile, Bodei ci accompagna in un viaggio affascinante e inquietante.
Con molte connessioni possibili con l’oggi, quando davvero «non si sa più dove dirigere la «giusta ira dei popoli».

«sette studiosi, paleografi, archivisti e storici, che Orietta Verdi e Michele Di Sivo hanno coordinato»
Il Mattino 4.2.11
Caravaggio, saranno esposti i documenti dell'Archivio di Stato: tanti gli inediti

qui
http://www.ilmattino.it/articolo.php?id=137465

Tre uomini a Cuba
Sesso facile, droga e il sogno morente del socialismo

Girato clandestinamente nel 2009 da tre giovani fiorentini all’Avana con una videocamera nascosta, "Wishes on a falling star" è un documentario che esplora i bassifondo di Cuba tra sesso facile, droga e il sogno morente del socialismo, sul filo conduttore di un’intervista alla oramai famosa blogger dissidente Yoani Sánchez. Anticipato su RaiTre in alcuni spezzoni che hanno avuto un 12 per cento di audience e hanno provocato una protesta dell’ambasciata cubana, il film è stato dato in prima visione il 3 febbraio allo Stetson di Firenze.
Com'è il regno di Castro oggi, cosa c'è per le strade de L'Havana, ce lo racconta un documentario di tre ragazzi italiani. Ecco il video: qui
http://www.wishesonafallingstar.com/


venerdì 4 febbraio 2011

l’Unità 4.2.11
Bersani attacca: «Colpo di mano» E su Ruby «voto umiliante»
Positiva, secondo il leader dei Democratici, la compattezza delle opposizioni che sia in Aula che in Commissione hanno votato no. Ma la tenuta è a rischio, con l’Idv che invoca la piazza e l’Udc corteggiato a destra
di Simone Collini


Un grave «colpo di mano» e una «vicenda umiliante». Pier Luigi Bersani tira le somme alla fine di una lunga giornata che rende ancora più urgenti le dimissioni di Berlusconi e i passaggi per arrivare a un nuovo governo. Non c’è solo la forzatura istituzionale sul federalismo, con il voto espresso in un organismo parlamentare che di fatto viene annullato poche ore dopo con un atto del governo: «Un inaudito schiaffo al Parlamento dice il leader del Pd una lesione senza precedenti delle prerogative delle commissioni parlamentari fissate per legge. Un vero atto di arroganza. Il governo Berlusconi-Bossi, dopo tanta propaganda, finisce per approvare con un colpo di mano il federalismo delle tasse». C’è anche una Camera usata per consentire al premier di sfuggire ai giudici, come spiega Dario Franceschini dopo aver chiesto nel suo intervento le dimissioni di Berlusconi «per il bene dell’Italia»: «Contro un parlamentare, cioè l’onorevole Berlusconi, si può andare a processo senza autorizzazione a procedere dell’Aula. Contro un ministro, davanti al tribunale dei ministri, invece, si può procedere soltanto con l’autorizzazione». Che non ci sarà, come fa prevedere anche il voto sul Ruby-gate.
Bersani guarda al fatto positivo che tutte le forze di opposizione hanno compattamente votato contro, sia in Commissione bicamerale sul federalismo che in Aula sul rinvio delle carte ai magistrati milanesi: «Il voto del 14 dicembre non è stato inutile». E nonostante sia stato certificato che a Montecitorio il centrodestra è a quota 316 deputati (due in più rispetto al voto di fiducia di due mesi fa) il leader del Pd dice di non credere alla tenuta della maggioranza: «Siamo alle tecniche di sopravvivenza». Racconta ai giornalisti che incrocia nel Transatlantico subito dopo il voto sul caso Ruby: «Mentre si discuteva e si votava avevo un solo pensiero, l’umiliazione di un Paese che con quello che succede in Egitto vota su questo. È una vicenda veramente umiliante. E se si compra un voto in più o in meno la sostanza non cambia. Ho ascoltato argomenti veramente avvilenti». Dello stesso stato d’animo Rosy Bindi, che parla di un voto che «rende vergogna all’Italia, perché il presidente del Consiglio si serve ancora una volta della sua maggioranza per non andare dai giudici, sebbene sia sospettato di reati gravissimi».
Il problema è che l’obiettivo che si sono prefissate le forze di opposizione, cioè costringere il premier alle dimissioni, appare ancora molto difficile da raggiungere. Anche il tentativo di Bersani, subito dopo il voto sul federalismo, di aprire un tavolo negoziale con la Lega a fronte di un passo indietro del premier («in queste condizioni il federalismo non si fa, Berlusconi faccia un passo indietro e possiamo discutere di federalismo cominciando dalle proposte che noi abbiamo avanzato») cade nel vuoto di fronte a un asse Pdl-Lega rinsaldato dallo scambio Ruby-decreto sul federalismo.
OGGI L’ASSEMBLEA NAZIONALE
A rischiare a questo punto è anche la tenuta delle forze d’opposizione, con Di Pietro da una parte che punta a «manifestazioni di piazza che blocchino questa deriva antidemocratica» e l’Udc dall’altra che riceve avances anche da parte della Lega. Bersani lo sa e all’Assemblea nazionale di oggi e domani lancerà un appello alla «riscossa del Paese» (dedicherà più di un passaggio del suo intervento alle donne, come protagoniste in grado di smantellare il predominio culturale del berlusconismo), presentando il «progetto» del Pd come contributo per costruire insieme alle altre forze d’opposizione (Terzo polo e non solo) un vero e proprio programma di governo. La precondizione per fare del Pd il polo attrattivo a cui pensa Bersani è però che il partito si dimostri unito. E se c’è l’incognita su come si muoveranno i componenti di Napoli dell’Assemblea (Bassolino chiede di proclamare Cozzolino vincitore e Ranieri va all’attacco), è certo che l’area Marino presenterà diversi ordini del giorno per chiedere un pronunciamento sul biotestamento (materia che si vota alla Camera il 21 e Fioroni ha già annunciato che per lui vale la libertà di coscienza), sulla sanità, sul nucleare e sui diritti civili.

Corriere della Sera 4.2.11
Nel progetto c’è Vendola ma non Di Pietro. D’accordo Veltroni
di  Maria Teresa Meli


ROMA — E ora che Silvio Berlusconi per l’ennesima volta ce l’ha fatta, il Partito democratico si interroga sulla propria strategia. Che fare? Andare avanti così o cambiare linea? «Innanzitutto — osserva Beppe Fioroni — dovremmo smetterla di caricare di grandi significati politici i voti che vengono dati alla Camera, visto che il premier ha la maggioranza e che di fronte a tutte queste sconfitte parlamentari i nostri elettori si scoraggiano. Poi dovremmo smetterla di seguire pedissequamente il soviet supremo delle Procure» . Questo per l’oggi. Ma c’è il domani e la non ancora sopita speranza del Pd che si vada alle elezioni anticipate. Temute e demonizzate fino a un mesetto fa, ora le consultazioni sono diventate per i dirigenti del Partito democratico un oggetto del desiderio. Il cambio di passo nasce dai quasi quotidiani contatti con il terzo polo. Negli ultimi tempi Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani si sono andati convincendo che la santa alleanza anti-Berlusconi non è più una chimera, né è soltanto lo spauracchio con cui fare pressioni sul presidente del Consiglio. Pier Ferdinando Casini questa volta ha lasciato aperta la porta e non ha detto di no all’ipotesi di andare assieme al Pd alle elezioni. È una strada percorribile, ha spiegato ai colleghi dell’Udc e agli ambasciatori del Partito democratico. Raccontano che la svolta del leader centrista sia nata dopo che, con l’esplodere del caso Ruby, la Conferenza episcopale ha cambiato atteggiamento su Berlusconi. Ora il primo obiettivo di Casini è quello di fare fuori— politicamente, s’intende— il Cavaliere. E se per questo bisogna imbarcarsi in un’avventura con il centrosinistra, il numero uno dell’Udc è disposto a farlo. «Vi avevo detto che piano piano Casini si sarebbe convinto» , è il ritornello che in questi giorni un Massimo D’Alema soddisfatto ripete nelle sue conversazioni con deputati e senatori del Pd. E Gianfranco Fini? Potrebbe mai l’ex leader di Alleanza nazionale finire in uno schieramento di questo tipo? Al Partito democratico sono convinti di sì: il presidente della Camera non si staccherà da Casini, farà quello che fa lui. Dunque la sortita di D’Alema, che ha rilanciato l’intesa con il terzo polo in un’intervista a Repubblica la settimana scorsa, non era un’uscita estemporanea. Era il frutto dei contatti che si sono intensificati in questi ultimi tempi. Da questa alleanza resterebbe fuori il solo Di Pietro: «C’è il rischio che prenda più voti, ma non è un problema» , ha spiegato il presidente del Copasir. Non è un problema perché nei due sondaggi commissionati di recente dal Partito democratico uno schieramento che va da Fini a Vendola, passando per Bersani e Casini, avrebbe ottime probabilità di successo sulla coalizione formata da Pdl e Lega. Insomma, al Pd sono assolutamente sicuri che con la santa alleanza la vittoria sarebbe scontata. Tant’è vero che anche gli esponenti della minoranza interna, i cosiddetti Modem di Walter Veltroni, Paolo Gentiloni e Beppe Fioroni hanno deciso di non mettere i bastoni tra le ruote alla maggioranza. Pure loro sono pronti a giocare la partita politica secondo questo schema. «Del resto — spiegava l’altro giorno Gentiloni a un compagno di corrente— se andassimo alle elezioni con questa formazione Berlusconi perderebbe di sicuro. Ed è per questo motivo che lui non vuole assolutamente il voto anticipato. E per la stessa ragione non lo vuole più nemmeno la Lega» .

il Riformista 4.2.11
Su diritti civili è guerriglia
Marino all’assemblea Pd
Non solo Pacs. L’area di minoranza guidata dal senatore-chirurgo prepa- ra la sorpresina: quattro ordini del giorno da presentare in sede plenaria: «Cop- pie di fatto e biotestamento sembrano inesistenti per noi. Così salta tutto».
di Ettore Colombo

qui
http://www.scribd.com/doc/48162959

il Riformista
Le primarie di coalizione sono un rito in cui il Pd mostra autolesionismo puro
di Pietro Larizza

http://www.scribd.com/doc/48162959

l’Unità 4.2.11
Assemblea Fiom La confederazione respinge la richiesta di mobilitazione di tutti i lavoratori
La minoranza riformista delle tute blu: «Servono passi verso gli altri sindacati e Confindustria»
Cgil: «Lo sciopero generale non è all’ordine del giorno»
di Luigina Venturelli


All’assemblea nazionale della Fiom in corso a Cervia, la confederazione di Corso d’Italia respinge le ulteriori richieste di piazza delle tute blu: «Lo sciopero generale non è all’ordine del giorno della Cgil».

Niente sciopero generale. Almeno per il momento, «la questione non è all’ordine del giorno della Cgil». Nonostante le insistenze della Fiom e dei tanti lavoratori metalmeccanici che si sono mobilitati nei giorni scorsi per protestare contro gli accordi separati della Fiat, contro la strategia di Federmeccanica per colpire il contratto nazionale, e contro la mancanza nel paese di una politica industriale degna di questo nome.
UNA DIVERSA SCELTA STRATEGICA
Da settimane ne discutevano a distanza le tute blu e la confederazione di Corso d’Italia, tra richieste di piazza e reazioni prudenti, spesso accolte da contestazioni, come quelle rivolte a Bologna alla segretaria generale Susanna Camusso, rea di non aver affrontato l’argomento nel suo discorso al la manifestazione del 27 gennaio.
Ieri, infine, all’assemblea nazionale della Fiom in corso a Cervia, il botta e risposta in termini espliciti e motivati. Davanti ai funzionari e delegati della categoria, il leader Maurizio Landini ha ribadito le molte ragioni a sostegno di una mobilitazione generale di tutti i lavoratori italiani: la disoccupazione giovanile al 30%, gli attacchi alla Costituzione e alla democrazia, e un governo che «sarebbe utile fermare» per uscire dall’attuale crisi economica. Insomma, «non si tratta di problemi dei metalmeccanici, ma di tutti i lavoratori». Per questo la Fiom chiede lo sciopero generale, e «non c’è nessuno in Italia, se non la Cgil, che possa farlo».
Ma la scelta presa dai vertici di Corso d’Italia è per ora diversa. All’assemblea delle tute blu l’ha spiegata con chiarezza e determinazione il segretario confederale Vincenzo Scudiere: «La Cgil sta cercando un ruolo che ci sposti dall’angolo in cui siamo, noi vogliamo fare l’accordo sul tavolo della crescita e sulla rappresentanza. L’accordo va fatto prima con Cisl e Uil, poi con Confindustria per evitare che si arrivi poi gli accordi separati». Definito l’obiettivo, stabilita la strategia: «Se dichiariamo lo sciopero generale non andiamo avanti neanche di un millimetro su questa strada. È interesse dei lavoratori italiani che si ricostruisca una posizione unitaria».
Sulla stessa linea anche Fausto Durante, leader dell’ala riformista delle tute blu: «Dobbiamo avere il
coraggio di scelte difficili e dolorose per riconquistare il contratto, passi verso gli altri sindacati e verso le associazioni datoriali, perchè difficilmente da soli avremo la capacità di cambiare il quadro di fronte a noi».
Alla Fiom che oggi pomeriggio chiuderà l’assemblea nazionale senza una piattaforma da approvare, ma lanciando una discussione interna sulle sfide all’orizzonte dell’organizzazione spetta ora tirare le somme sul da farsi. C’è da «riconquistare il contratto nazionale» disdettato da Federmeccanica. E c’è la vertenza Fiat «ancora aperta» da affrontare «con tutte le iniziative più opportuno». I toni di chiusura del Lingotto non mostrano variazioni. Anche ieri Sergio Marchionne ha ribadito: «Non posso fermare Chrysler per aspettare altri. È impossibile».

l’Unità 4.2.11
Camusso: tra noi, Cisl e Uil la rottura non è sindacale è sui rapporti con il governo
Botta e risposta tra Fassina (Pd) e Camusso (Cgil) sull’unità sindacale. Per il primo «la politica non può aspettare» di fronte al disgregarsi della rappresentanza. Per la leader sindacale oggi a dividere è proprio la politica
di Bruno Ugolini


«Le rotture, una volta, erano di natura sindacale. Così quella sulla scala mobile, nel 1984. Così nelle dispute sull’accordo del 1992, sulla contrattazione. Oggi la rottura è sul governo, sulla sua politica». Sono parole chiare e pesanti di Susanna Camusso. Siamo alle battute finali di un convegno organizzato nell’ambito della Mostra romana dedicata al Pci. Il tema riguarda il passato, il rapporto tra i comunisti e l’unità sindacale. Sfilano così, negli interventi di Giorgio Benvenuto, Franco Marini, Cesare Damiano, Stefano Fassina, Carlo Ghezzi, ricordi e riflessioni. Con Benvenuto, tra i leader principali dei metalmeccanici, negli anni 70, che rimpiange il non aver fatto a suo tempo la cosiddetta “unità a pezzi”, mentre Franco Marini lo rimbrotta: «sareste rimasti da soli». Molti i riferimenti alle paure e ai freni del Pci. Sui consigli di fabbrica che soppiantavano le commissioni interne, sul fondo di solidarietà, sul superamento della scala mobile. Con Marini che rivendica il «primato della politica» teorizzato dal Pci ma anche dalla sua Dc, senza per questo affondare l’autonomia sindacale. Un tema che riprende Fassina, oggi a capo del dipartimento economia e lavoro nel Pd. La politica, spiega «non può aspettare», di fronte al disgregarsi della rappresentanza. E quindi intende agire nel piano legislativo anche in riferimento ad un possibile salario minimo. Un modo per ridare al Pd una funzione sui temi decisivi del lavoro.
IERI E OGGI
Gli risponde Susanna Camusso spiegando come la differenza tra il passato e oggi, consiste nel fatto che un tempo i partiti (il Pci, il Psi, la Dc) erano radicati nei luoghi di lavoro. E temevano che i sindacati togliessero loro uno spazio. Oggi in quei luoghi la politica non c’è più. La situazione si è rovesciata: i nuovi partiti si gettano nella legislazione ai danni della contrattazione, del sindacato. È successo così sui problemi del mercato del lavoro. La stessa scelta del salario minimo può alla fine nuocere all’iniziativa contrattuale tesa a far passare i vari contratti temporanei a contratti stabili.
Una serena ma decisa confutazione quella del segretario della Cgil. Che spiega anche, nella sostanza, come chi predica oggi un astratta unità sindacale non abbia capito, come dicevamo all’inizio, che quel che divide non riguarda materie sindacali. Riguarda il rapporto con l’attuale governo, la sua volontà fatta di “divide et impera”. I tanti accordi unitari decentrati dimostrano che dove è in gioco il merito sindacale, la divisione non passa.

l’Unità 4.2.11
La scuola non è uguale per tutti
Il divario nord sud e le proposte del Pd
di Francesca Puglisi


Itest Invalsi e i dati Ocse-Pisa parlano chiaro: il rendimento scolastico è più alto in quelle regioni dove si investe in educazione di qualità sin dalla tenera età e dove è più diffuso il modello educativo del tempo pieno nella scuola primaria. L’Eurispes denuncia che «tra tutte le realtà del degrado meridionale quello della scuola è quello che richiederebbe l’intervento pubblico più urgente e incisivo». Ovviamente il governo Berlusconi prende atto dei divari, ma non fa nulla per colmarli. Anzi, taglia a man bassa il bilancio dell’Istruzione. Il fenomeno dell’abbandono scolastico nel 2009 coinvolge ancora il 23 per cento dei giovani che vivono nel sud Italia. In Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna, almeno un giovane su quattro non porta a termine il percorso scolastico dopo la licenza media. Secondo gli indicatori Ocse-Pisa gli studenti del Nord nascono con un vantaggio di 68 punti nelle competenze, a prescindere dalle proprie capacità. Non è solo un problema di giustizia sociale. La dispersione scolastica e la mancanza di equità costano, perché abbassano le potenzialità di successo, riducono la competitività, aumentano l’emarginazione sociale. La Fondazione Agnelli calcola che se in Italia si riuscisse a eliminare il fenomeno dell’abbandono scolastico, ci sarebbero 1 milione e 300 mila occupati in più e un reddito aggiuntivo di 70,7 miliardi di euro. La rassegna Starting Strong, condotta dall’Ocse, ha sottolineato l’importanza di servizi educativi 0-6 anni di buona qualità per il successo scolastico e ha indicato, come priorità per il nostro Paese, il loro inserimento tra le politiche per combattere la povertà e l’esclusione sociale. L’obiettivo è anche quello di favorire la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Invece la percentuale di bambini che frequenta l’asilo non raggiunge il 3 per cento in Calabria e in Campania. Nel sud il modello educativo del tempo pieno con le compresenze degli insegnanti nella primaria è una rarità, eppure produce i più alti livelli di apprendimento degli alunni. Per colmare i divari economico sociali tra nord e sud del Paese dobbiamo realizzare un piano straordinario di investimenti nell’istruzione. Nel Mezzogiorno le scuole devono essere aperte tutte il giorno, come luogo di aggregazione e come presidio sociale. Scuola, lavoro, diffusione della cultura della legalità, sono motore per lo sviluppo e favoriscono la sicurezza. Vogliamo promuovere una scuola tecnica e professionale di qualità per rilanciare il sistema produttivo e il made in Italy. Serve infine un piano straordinario per l’edilizia scolastica. Possono essere utilizzati i fondi Fas, togliendo le scuole dagli “appartamenti” in locazione ed edificando nuovi poli scolastici dotati di palestre, biblioteche e laboratori. Dare avvio a centinaia di nuovi cantieri, avrebbe un impatto positivo sull’economia e l’occupazione. Altro che ponte sullo stretto di Messina.


il Fatto 4.2.11
Alla destra della destra del Pd
risponde  Furio Colombo


Caro Furio Colombo, ho notato che il Governance Poll, sondaggio annuale sugli amministratori locali, ha dato il seguente esito per quanto riguarda i sindaci di Capoluogo: 1 - Renzi, sindaco di Firenze, 2 - Chiamparino, sindaco di Torino, 3 - De Luca,sindaco di Salerno. Viene da chiedersi: è ineluttabile, oggi, per essere popolari a sinistra, essere di destra?
Franco

CREDO che si possa tentare una risposta alla domanda proposta dal lettore senza passare per una misurazione del quanto di destra sia il tratto distintivo di questi tre sindaci. Infatti si tratta di persone molto diverse e anche di politici molti diversi.   Renzi è un uomo di comunicazione, di trovate destinate a sorprendere, di messe in scena a volte incomprensibili, come quando si oppone alla cittadinanza onoraria a Beppino Englaro, ora politicamente umilianti e sbagliate, come quando si reca a casa di Berlusconi per chiedere, da sindaco, dei fondi dovuti per la sua città. Ha mostrato anche una grande bravura nello scansare ogni responsabilità per il disastro della neve, in cui tutto ciò che dipende da un sindaco è apparso non preparato, non fatto o fatto male. Se ricordo bene non sono seguite scuse ai cittadini e alle migliaia di persone rimaste bloccate in strada intorno alla città. Chiamparino è persona austera, silenziosa, che dice meno di quello che fa e fa abbastanza bene in città mentre è certamente discutibile il suo filo-leghismo quando si presenta come possibile leader nazionale. Di De Luca so poco, salvo il linguaggio, che è sempre di persona decisa a tutto, sprezzante con gli avversari e pesante nei giudizi su ciò che non approva. Non sempre conosco le ragioni di ciò che il nostro   uomo condanna con durezza, ma conosco il suo progetto di costruzione di un Colonnato imperiale in una mite e gradevole piazza di Salerno e farei qualunque cosa (da ex direttore della rivista “Architettura-Cronache e Storia”) per persuadere De Luca a rinunciare al tremendo progetto. Ma c’è qualcosa che lega i tre personaggi e spiega l’attenzione che si concentra su di loro, mentre molti altri sindaci bravi e laboriosi onorano il nostro Paese. E’ la forte visibilità mediatica. E si capisce perchè in questa terna Renzi risulti in testa. Renzi ha un incalzante, incessante progetto di se stesso e per se stesso. Difficile dire se si tratta anche di un piano per Firenze. Però funziona. Quanto alla destra come posizione vincente, o almeno preferibile, benché la politica economica di destra sia responsabile di tutto il peggio degli ultimi trent’anni, dalle guerre al disastro economico, che dire? E’ una ossessione che passerà, dopo avere lasciato altre macerie, ma per ora a molti, come la guerra, come l’energia atomica, continua a sembrare la strada giusta, anzi la strada maestra. Forse perchè chi ha ammassato ricchezze continua a trovarsi bene a destra e e ha i mezzi per persuadere i poveri che – se vanno a destra – si troveranno bene anche loro.

La Stampa 4.2.11
Il tribunale: La legge 40 viola il diritto a formare una famiglia
Fecondazione assistita, è scontro anche Milano ricorre alla Consulta
Una coppia si rivolge ai giudici: era stata rifiutata da alcune strutture
di Fabio Poletti


«La legge 40 sulla fecondazione assistita viola il diritto a formare una famiglia inclusa la scelta di avere figli». Lo scrivono i giudici della Prima sezione del Tribunale civile di Milano che hanno trasmesso gli atti alla Corte Costituzionale perchè esprima un giudizio definitivo. Il caso sollevato dai giudici milanesi non è il primo. Davanti alla Consulta pendono altri due ricorsi sollevati dalla procura di Firenze e da quella di Catania, che mettono il discussione la legittimità della legge varata nel 2004 e che pone limiti assai restrittivi in materia di fecondazione assistita. In sostanza la legge vieta la possibilità di ricorrere alla fecondazione eterologa e prevede sanzioni alle strutture che dovessero praticarla.
Contro la legge 40 aveva fatto ricorso davanti ai giudici di Milano una coppia di Parma che si era vista precludere ogni possibilità di procreare vista la accertata «completa e irreversibile infertilità del marito affetto da azoospermia». Sulla base di una diversa disciplina a livello europeo, la coppia aveva deciso di ricorrere ai giudici di Milano chiedendo un pronunciamento della Corte Costituzionale, dopo che le strutture sanitarie a cui si era rivolta avevano rifiutato l’intervento sulla base del divieto di donazione del gamete maschile. Dopo lunghe disquisizioni giuridiche la coppia di Parma ha ottenuto un primo successo.
Nella sentenza che manda gli atti alla Corte Costituzionale, il Tribunale di Milano ha sollevato l’ipotesi che la legge 40 sia in contrasto con i «diritti inviolabili della persona» sanciti dalla Costituzione che prevedono pure il diritto alla famiglia. Il Tribunale ha poi eccepito una diversa legislazione a livello europeo e non da ultimo il rischio che non si tuteli «l’integrità fisica e psichica delle coppie in cui uno dei due componenti non presenta gameti idonei a concepire un embrione». Secondo l’avvocato Ileana Alesso che insieme ad altri quattro legali assiste la coppia di Parma, c’è un ulteriore rischio di discriminazione: «Chi è affetto da patologie di minore gravità può avere invece il conforto della medicina».
La decisione del Tribunale di Milano divide il mondo politico che già si era diviso nel votare la contestata legge. Per Antonio Palagiano responsabile nazionale Sanità di Italia dei Valori quella dei giudici di Milano è solo una conferma: «L’invio degli atti alla Consulta dà speranza a quelle coppie che sono costrette ad andare all’estero per realizzare la loro vita privata e famigliare». Per Dorina Bianchi responsabile Sanità dell’Udc si stravolge così il senso della legge 40: «E’ una legge fatta soprattutto per tutelare il nascituro». Forti della ennesima decisione di un giudice che ha sollevato il problema, l’Associazione Luca Coscioni si dice pronta a «ricorrere alla giustizia internazionale per far cadere una legge antiscientifica e lesiva dei diritti delle persone».

l’Unità 4.2.11
Intervista a Abu Al Izz Al Hariri
«Il regime in agonia uccide il popolo. Usa e Ue alzino la voce»
Il segretario del Comitato dell’opposizione unita:
«Vogliono fermarci ma la nostra Intifada continuerà Favorevoli al dialogo solo se Mubarak esce di scena»
di U.D.G.


Hanno sparato da auto in corsa. Erano addestrati a farlo. Pagati per uccidere. Miravano alla strage. E la mattanza continua: dai tetti dei palazzi che danno su Piazza Tahrir cecchini stanno sparando sulla folla...Squadracce armate di spranghe e coltelli danno la caccia ai giornalisti stranieri...Così un regime in agonia reagisce alla rivolta di un popolo che chiede libertà». A denunciarlo è Abu Al Izz Al Hariri, neoeletto segretario del «Comitato politico dell'opposizione unita». E al vice presidente Omar Suleiman che ha annunciato l'avvio di negoziati con forze dell'opposizione, Al Hariri ribatte: «Continueremo l'intifada popolare fino alla partenza di Mubarak. Noi vogliamo un dialogo vero». E alla Comunità internazionale, il dirigente dell' opposizione egiziana lancia questo messaggio: «C'è solo un modo per sostenere una transizione pacifica verso la democrazia: rompere ogni rapporto con un regime che uccide la sua gente».
Dopo una notte di sangue, Il Cairo resta una polveriera. Mubarak è tornato a invocare l'unità nazionale... «Se davvero voleva dimostrare di godere ancora di un sostegno popolare, Mubarak avrebbe dovuto organizzare una manifestazione di massa all'altezza della marcia dei due milioni...».
Invece?
«Invece ha prezzolato bande di provocatori arruolandoli a 100 dollari a testa per sparare contro i dimostranti di Piazza Tahrir. Su questo stiamo preparando un dossier che inchioderà il regime alle sue responsabilità. Per screditare la protesta,  hanno scatenato i saccheggiatori. I primi a difendere il Museo egizio sono stati gli studenti che manifestavano a Piazza Tahrir. Poi hanno scatenato la caccia ai giornalisti stranieri, minacciandoli di morte, malmenandoli perché testimoni scomodi di una realtà che Mubarak e i suoi fedelissimi vorrebbero oscurare. Per avere mani libere. Mani insanguinate...E ora le squadre di killer, delinquenti che godono del sostegno di agenti della sicurezza, la “guardia repubblicana” di Mubarak. È la polizia di Mubarak a seminare il terrore. Agiscono sulla base di un piano preordinato: vogliono gettare il Paese nel caos. E per farlo usano ogni mezzo. Chiunque si oppone è diventato un obiettivo da eliminare. Al vice presidente Suleiman che vuole avviare il dialogo con le opposizioni, diciamo: anche noi vogliamo il dialogo, ma un dialogo vero. Ed oggi non è pensabile dialogo con un regime che uccide la sua gente.
Il primo ministro Ahmed Shafiq, si è detto pronto ad andare in piazza Tahrir per discutere con i manifestanti...
«Quei manifestanti divenuti bersaglio delle squadracce prezzolate dal regime...Lo ripeto: il dialogo può partire solo dopo la partenza di Mubarak e l’arresto dei suoi fedelissimi, coloro che stanno orchestrando la mattanza di Piazza Tahrir».
Il premier Shafiq ha confermato che l'altro ieri a Piazza Tahrir c'erano «elementi armati» e ha ammesso che c'è stato “un vuoto” nella sicurezza...».
«Un “vuoto” che è stato utilizzato per scatenare le squadracce prezzolate. Un crimine che ha mandanti che non vanno ricercati nelle sentine del Cairo ma nei palazzi del potere».
Il vice presidente Suleiman ha annunciato in un discorso alla Tv di Stato che né Mubarak né il figlio Gamal si presenteranno alle prossime elezioni presidenziali...
«Mubarak faccia un altro passo: raggiunga Gamal a Londra...».
C'è chi parla di un'opposizione che comincia a dividersi... «Chi lo dice lo spera. E lavora per questo. Ma non riusciranno nell' impresa. A unirci è una richiesta di libertà, verità e giustizia che ha animato la protesta, che connota la rivoluzione in atto. Al di là delle ambizioni personali, è la piazza a pretendere l'unità. Tradirla significa chiamarsi fuori da una rivolta che sta disegnando il futuro dell' Egitto».
C'è chi teme un effetto domino in Medio Oriente... «A temerlo devono essere solo coloro che hanno governato contro gli interessi dei loro popoli».
A temerlo è anche Israele...
«Noi non siamo nemici d'Israele, non abbiamo nulla a che fare con chi vaneggia la sua distruzione. Ma siamo convinti che la sicurezza d'Israele non può fondarsi sull' oppressione esercitata contro il popolo palestinese. Israele non può considerarsi al di sopra della legalità internazionale».

l’Unità 4.2.11
«Vogliono riforme, Mubarak non riuscirà a restare al potere»
Lo studioso: «La piazza non si fermerà davanti a concessioni simboliche, chiede democrazia El Baradei può farcela ma decisivo sarà l’esercito»
di Anna Tito


Mubarak ha annunciato che non si ricandiderà, ma la folla scesa in strada annuncia di voler continuare l’Intifada fino alle dimissioni. «Le tensioni non si smorzeranno facilmente: i manifestanti non si accontentano di concessioni simboliche, andranno fino in fondo. Non ne possono più, vogliono le riforme e soprattutto la democrazia. Le dimissioni di Mubarak sono soltanto rinviate, potrà guadagnare al massimo qualche settimana, non certo mesi, come lui sperava, ma sa che il suo destino è segnato. E’ ormai in atto una guerra psicologica, di usura, in cui ciascuno intende mettere alla prova i nervi dell’avversario». Questa ostinazione a rimanere, da parte del Presidente, è dovuta realmente al desiderio di garantire una transizione ordinata e pacifica, come vuole Obama?
«È consapevole di essere giunto al capolinea, e cerca di guadagnare tempo per venire incontro alle preoccupazioni di Israele, Stati Uniti e Arabia Saudita, per i quali è indispensabile che gli succeda un uomo forte, che assicuri la continuità nel posizionamento strategico. Ma vuole andarsene quindi dopo aver assicurato una successione tranquilla, e salvando l’onore, non costretto a fuggire come Ben Alì. Ha pronunciato martedì un discorso affettivo, facendo leva sulle emozioni e affermando di voler morire in terra egiziana».
Il dopo Mubarak non appare ancora chiaro, anche se gli Stati Uniti accetterebbero un governo di Mohammed El Baradei. Cosa ne pensa?
«Può darsi che El Baradei riesca a imporsi, poiché incarna quanto esigono i manifestanti e la società civile egiziana: l’opposizione a Mubarak e la non provenienza dall’esercito. Ma, per governare, El Baradei o chiunque altro necessita del sostegno dell’esercito, che svolgerà un ruolo fondamentale nella transizione, in particolare per via della posizione strategica dell’Egitto. Agli Usa, più che la democrazia, sta a cuore la stabilità del Paese, con i suoi 80 milioni di abitanti, i confini con Israele, il canale di Suez, la presenza dei Fratelli Musulmani».
Ma non le sembra che queste esigenze contrastino con la volontà chiara, espressa da una parte non indifferente delle persone scese in piazza, di non essere governata dagli Stati Uniti?
«In effetti si riscontra, oltre alla necessità di riforme e di democrazia, anche un malessere dovuto all’allineamento di Mubarak sugli Stati Uniti, a più decenni di militari al potere: gli slogan scanditi martedì parlavano chiaro. Per questo, contrariamente a quanto chiedono Usa e Unione europea, prevedo una transizione lunga e difficile: da una parte i manifestanti che vogliono una rottura totale con il vecchio regime, non certo che un altro militare prenda il posto di Mubarak, o che un vice presidente assuma la presidenza, e Stati Uniti e Israele dall’altra che auspicano il mantenimento della stabilità. Inoltre non sappiamo quale posizione assumerà l’esercito».
Quali possibilità ha di imporsi e di raccogliere tutti i frutti della caduta di Mubarak una grande forza di opposizione, quella dei Fratelli Musulmani?
«Oggi costituiscono l’opposizione più strutturata e più influente, utilizzano slogan semplici, alla portata di tutti, ma al momento non sono in grado di prevaricare. Anch’essi rappresentano un ‘partito dell’opinione’, così come l’opposizione laica, e prevedo un ‘braccio di ferro’ fra le due correnti, non certo un accordo, poiché i Fratelli Musulmani rifiutano i compromessi. L’opposizione laica non avrà vita facile, dovendo dotarsi di un pro-
L’opposizione
«I laici non avranno vita facile, sono forti i Fratelli Musulmani»
gramma laico, creare, mettere in atto nuove politiche economiche e sociali, di mostrarsi capace di rivolgersi alle masse. La grande sfida consisterà nel proporre al popolo un programma alternativo a quello dei Fratelli Musulmani».
A opporsi ai Fratelli Musulmani verrebbe anche il movimento femminista, che ha un peso non indifferente, e che costituisce una specificità dell’Egitto, come lei ha ricordato di recente.
«Non vi è alcun dubbio. Il movimento femminista egiziano, nato nel 1929, è il più antico del mondo arabo. Lo fondò Huda Shaarawi, la figlia di Mohamed Sultan Pascià, invitò le donne a togliere il velo ed ebbe un grande seguito. Anche adesso, nei movimenti d’opposizione, le donne hanno svolto un ruolo di tutto rispetto».
Ritiene plausibile l’ipotesi di ‘effetto domino’, delle rivolte in altri Paesi quali il Marocco, lo Yemen, l’Algeria?
«Certamente qualcosa è accaduto, ma l’impatto avverrà a media scadenza, fra uno, due decenni. Insomma, non avremo una caduta del muro di Berlino nei Paesi del mondo arabo.

La Stampa 4.2.11
Ahmed Zewail:
La corruzione ha logorato il mio popolo


La rivolta scoppiata in Egitto è per molti aspetti storica. Inatteso, anche dagli stessi egiziani, è poi il fatto che questa Intifada sia guidata dai giovani, i cosiddetti figli di Facebook, senza agende religiose o ideologiche, ma con un unico programma: un futuro migliore per tutti. In questo momento difficile, l’esercito si è guadagnato il rispetto delle masse agendo in maniera professionale per mantenere la sicurezza e la stabilità. Reclamando il futuro e contemporaneamente mantenendo la stabilità, queste due forze - la gioventù e l’esercito - offrono la speranza di una transizione ordinata al nuovo Egitto.
Chiaramente, è ora che in Egitto avvenga un cambiamento radicale, i ritocchi cosmetici non bastano più. Ci sono diverse ragioni per l’attuale sollevazione, e devono essere tenute ben presenti per capire la direzione da prendere. Gli egiziani hanno finalmente perso la pazienza con i giochi di potere per garantire la successione al figlio di Mubarak, Gamal; con la mancanza di trasparenza tra chi detiene il potere; con i brogli elettorali che hanno portato in parlamento la maggioranza del partito di Mubarak, praticamente senza opposizione.
Sebbene l’Egitto negli ultimi anni abbia visto qualche progresso economico, le masse dei poveri sono state lasciate indietro e la classe media è di fatto retrocessa. Solo l’élite al vertice ha avuto benefici - esagerati - sfruttando il matrimonio tra la loro influenza politica e il capitale. La corruzione che ne è risultata e le continue richieste di bustarelle da parte dei funzionari hanno esaurito la pazienza della gente. Infine, il sistema educativo, che è centrale per le speranze di progresso sociale di ogni famiglia egiziana, si è deteriorato fino a raggiungere un livello ben al di sotto del rango dell’Egitto nel mondo.
E adesso, dove andiamo? Ci sono quattro passi importante da fare. Primo: mettere insieme un consiglio di saggi, uomini e donne, che elabori una nuova visione nazionale e abbozzi una nuova costituzione basata sulla libertà, i diritti umani e un ordinato trasferimento di potere. Secondo: garantire l’indipendenza dei giudici. Terzo: organizzare elezioni libere e corrette per le due Camere del Parlamento e per la presidenza, su cui sovraintenda il potere giudiziario indipendente. Quarto: un nuovo governo di transizione dell’università nazionale da formare al più presto. Ma perché questo piano abbia successo, il presidente deve ritirarsi. Adesso. Mubarak è arrivato al potere come eroe delle guerre d’Egitto. Può agire di nuovo eroicamente lasciando subito il potere.

l’Unità 4.2.11
La svolta 1989. Democratici, però di sinistra: quella resta l’idea giusta
di Achille Occhetto


Le celebrazioni della ricorrenza dei 90 anni di storia del Pci hanno messo in evidenza come quella vicenda abbia rappresentato un pezzo rilevante della storia d’Italia, un architrave della costruzione dello stato democratico e della medesima ricostruzione del paese.
Lo stesso si può dire dell’ultimo atto della vita di quel partito, della svolta e del passaggio dal Pci al Pds. In continuità con la funzione nazionale esercitata dai comunisti italiani anche la fine e il nuovo inizio non si presentano solo come un evento interno, un affare dei comunisti e della loro crisi, bensì come un passaggio di fase nella stessa storia del paese. Infatti, come dicemmo nei giorni della svolta, la campana del nuovo inizio non suonava solo per noi, avrebbe suonato per tutti i partiti e per l’insieme del sistema politico. Tuttavia la grandezza di quella storia, la sua ineludibile funzione nazionale che ha contraddistinto la capacità di un blocco sociale e della sua classe dirigente di orientare il corso storico del paese conviveva con i germi della sua crisi.
Uno degli aspetti più rilevanti di quella vicenda sta in quel particolare connubio tra revisionismo socialista democratico, apertura intellettuale e un giustificazionismo storico, una doppiezza tra la funzione democratica esercitata in Italia e quello che lo stesso Togliatti aveva chiamato il legame di ferro con l’Urss, che, in una fase rilevante della sua storia, lo aveva portato a forme di favoreggiamento se non di copertura dei delitti staliniani. Successivamente il Pci spingerà, in modo particolare con Berlinguer, fino alle estreme conseguenze la sua sofferta trasformazione democratica, pur rimanendo invischiato dentro il vecchio involucro. Da queste sommarie considerazioni si possono ricavare due riflessioni.
La prima, è che la tesi contraria alla svolta secondo cui non c’era bisogno di cambiare un partito che non aveva più niente a che vedere con i paesi dittatoriali dell’Est, in realtà, può essere presentata come la tesi più favorevole alle ragioni della mutazione, in quanto solo all’interno della contraddittoria e incompleta evoluzione del Pci l’idea stessa della svolta avrebbe potuto trovare il proprio terreno di coltura.
Ciò non poteva accadere, e non a caso non è accaduto, dentro gli altri partiti comunisti europei ampiamente compromessi con gli errori e gli orrori del socialismo reale. Solo una formazione politica che portava dentro di sé la metamorfosi poteva sentire l’esigenza di spaccare il vecchio involucro nel quale si sentiva costretta.
La seconda riflessione è che lo stesso processo di continua evoluzione che stava alle spalle del nuovo inizio smentisce l’altra tesi critica, quella secondo la quale con la svolta si sarebbe compiuto un atto di coraggio, ma isolato, improvviso e privo di cultura politica. In realtà la cultura della svolta va ricercata in tutto il corso di revisione critica di cui abbiamo parlato, e ha il suo momento di precipitazione nell’insieme degli atti politici assunti nell’89’ e nello stesso 18 ̊ congresso di quell’anno, alla fine del quale si diede allo stesso partito l’appellativo di «nuovo Pci»: una prima pudica voglia di cambiamento del nome, la timida confessione che tra i contenuti e la forma del vecchio partito c’era una discrepanza. Una parte della cultura della svolta è già contenuta lì. Infatti il 18 ̊ congresso aveva innovato profondamente la cultura politica almeno su quattro punti: 1) l’affermata centralità della questione ecologica come nuovo fondamento della critica del modello di sviluppo e non come mero ambientalismo a sé stante; 2) il riconoscimento del valore del mercato nel contesto di una ridefinizione del rapporto tra pubblico e privato: 3) la sostituzione del dirigismo con il sistema delle regole: 4) il primato della libertà, che sarà ulteriormente rafforzato e definito nella carta di intenti del nuovo partito.
Da allora francamente non si sono visti altri significativi apporti innovativi che si muovessero, beninteso, sul terreno della sinistra. La stessa ipotesi di una nuova formazione politica fondata sulla contaminazione dei diversi riformismi di cui è ricca la nostra storia sta alla base del nuovo inizio.
Le diversità tuttora in campo nella sinistra con la stessa nascita della Sel si riferiscono più ai modi di tale contaminazione che alla sua necessità. E sui modi si fanno sentire anche sensibili differenze nel medesimo Pd.
Purtroppo quando si arriva al momento del congresso di Rimini avevamo alle spalle un anno di logoramento, perché malgrado lo splendore del precedente congresso di Bologna, che aveva sancito il cambiamento del nome, il dibattito interno invece di aprirsi sul come, si era ancora attardato sul se. Al punto che prima del congresso fu presentato all’opinione pubblica il nuovo simbolo corredato da una carta di intenti. Il simbolo fece grande clamore, la carta di intenti, a proposito di cultura politica, non fu discussa. Eppure in quel testo si trova il meglio delle tesi innovatrici presenti al tempo nella elaborazione della socialdemocrazia europea assieme alle novità dei nostri apporti.
Ma allora chiediamoci: alla Bolognina e successivamente al congresso di Rimini nella sostanza che cosa è successo?
Se si guarda al fatto storico nella sua essenzialità è successo che con la svolta si è spostato il più grande partito comunista dell’occidente dal campo teorico e politico dell’Internazionale comunista e del marxismo leninismo al campo dell’Internazionale socialista. Punto e a capo. Questo, al di là dei sofismi della cronaca corrente, è quello
che è successo. Ed è successo malgrado il disappunto di molti socialisti che non possono negare quel fatto storico solo perché non abbiamo accettato il tipo di unità socialista propostoci da Craxi.
Il 4 febbraio del 1991 la maggioranza del Pci è passata all’area del socialismo democratico dopo alcuni anni di intenso lavoro ideale e politico. Io stesso, assieme a Napolitano e a Fassino, ho incontrato i grandi della socialdemocrazia, da Willy Brandt a Kinnock passando per Moroy, Gonzales fino a Mitterand per chiedere loro l’ingresso nell’Internazionale socialista. Io stesso sono cofondatore del Partito del socialismo europeo.
L’essenzialità di quella scelta va ancor oggi ricordata perché lo stesso congresso di Rimini si trovò a fronteggiare due insorgenze: quella che veniva da una parte di coloro che non avevano accettato la svolta e che approderanno alla scissione, e le differenti valutazioni sulla situazione internazionale e sul craxismo. Se si aggiunge che proprio in quei giorni si è nel pieno della guerra del Golfo, si può meglio capire la tensione e la cupezza del momento. Momento sicuramente sfortunato, ma che non muta la sostanza di alcune scelte di fondo. Come abbiamo visto, i rapporti da tenere con il Psi di Craxi hanno costituito una differenza anche tra i fautori della svolta, differenza che tuttavia non poteva indurre a considerare le posizioni critiche verso Craxi come posizioni di per sé antisocialiste. Si è trattato di una legittima differenza politica, che merita il massimo rispetto, ma che non contraddice il dato fondamentale: il 4 febbraio del 1991 il Pds nasce come partito dell’Internazionale socialista, collocato nel gruppo socialista del parlamento europeo e cofondatore del Pse.
Il vero problema oggi sarebbe quello di giudicare la cultura politica che è seguita nel corso degli anni successivi. Si tratta di un giudizio complicato e difficile, reso ancora più difficile dalla diversità di intenzioni presenti negli stessi protagonisti del congresso di Rimini.
Una prima differenza va riscontrata tra chi voleva uscire da sinistra dalla crisi del comunismo e chi si muoveva nella direzione di un riformismo più moderato, a cui facevano seguito tre fondamentali differenti visioni della prospettiva. La prima, come abbiamo visto, muoveva sostanzialmente nella direzione dell’unità socialista, proposta che la maggioranza del partito considerò allora come una sorta di annessione che ci avrebbe fatto fare un duplice salto mortale, dalla fuoriuscita dalle rovine dal comunismo per entrare sotto le rovine del pentapartito. La seconda, era quella di dare immediatamente vita al partito democratico, particolarmente caldeggiata da Veltroni, a cui risposi dicendo che concordavo con il riferimento forte e centrale a democratico obiettando però che ci potevano essere diversi partiti democratici, di orientamento moderato o cattolico. E risposi: democratico sì, ma di sinistra. Nasce così la proposta di chiamare il nuovo partito «Partito democratico della sinistra». Di qui la terza visione, da me caldeggiata, quella della costituente di una nuova formazione politica, che andasse oltre le culture del ‘900, pur riconoscendo che nello scontro storico tra comunismo e socialismo democratico aveva vinto quest’ultimo.
Diverse erano le passioni che la svolta fece sprigionare da quel vaso di Pandora che era il Pci. Ma al di là di queste, ancora una volta appare un altro fatto storico incontrovertibile: la svolta si inserisce nel contesto di una gigantesca mutazione geopolitica. Non si presenta come un problema dei comunisti, neppure come un atto provinciale. Cambia il mondo, cambiano i partiti, mutano i soggetti nazionali e internazionali legati allo scontro centrale del secolo, muta la lotta per l’egemonia planetaria, si passa dal bipolarismo al monopolarismo per approdare, con Obama, al multilateralismo. Si affollano nuovi problemi planetari (l’Islam, il terrorismo), due grandi rischi di distruzione del pianeta: quello nucleare e quello ecologico. In tutto questo c’è del progresso, ma ci sono anche delle perdite secche.
Molte sono le acquisizioni positive sul terreno della nostra liberazione interiore: il faro della libertà è diventato più nitido nelle nostre menti. La liberazione dalle idee oppressive del collettivismo autoritario, del conformismo e monolitismo di partito, della contrapposizione dell’uguaglianza alla libertà, del terrore di sbagliare davanti al dogmatismo dell’ideologia e ai suoi rappresentanti autorizzati: il capo, la direzione, il comitato centrale. Non c’è più tutto questo, ma il nuovo rischio è il vuoto. Il rischio di buttare via con l’acqua sporca anche il bambino.
Dio è morto, ha gridato un grande filosofo a cavallo tra l’800 e il 900; le ideologie sono morte, abbiamo gridato noi. Ma attenzione, non vanno sostituite con il potere per il potere, con la mancanza di senso e di un sistema di valori. Occorre alimentare e aggiornare un sistema di valori, ma anche di idee che mantenga limpida la differenza tra destra e sinistra. Solo cosi, tutta quella sofferenza, la fatica dell’innovazione, avrà avuto un significato positivo.

La Stampa 4.2.11
L’ultima notte del Pci un pasticciaccio brutto
1991, al congresso dopo la svolta della Bolognina il partito cambia nome Vengono a galla i vizi che hanno segnato la sinistra fino a oggi
di Fabio Martini


D’ALEMA «Il papero è morto lo rimetto in sella e gli do il colpo di grazia»


Iginio Ariemma, ultimo portavoce del Pci e primo del Pds, autore di un bel libro su quegli anni, La casa brucia : «La mancata elezione di Occhetto fu il preannuncio di vizi che si sarebbero dilatati nel corso degli anni successivi: qualcuno voleva dare un colpo a Occhetto che uscì da Rimini come un’anatra zoppa e non si creò quel gruppo dirigente aperto che sarebbe servito per far decollare un moderno partito della sinistra».

Quella notte cambiò la sinistra italiana e la cambiò - nel costume dei suoi dirigenti - più di quanto non fossero riusciti eventi epocali nella storia comunista. In poche ore - tra il 3 e il 4 febbraio del 1991, nei padiglioni della Fiera di Rimini - si consumarono eventi destinati a far da spartiacque più di quanto non si capì in quelle settimane. Si sciolse, a 70 anni di età, il Pci. Fu battezzato un nuovo partito, il Pds, che però, appena nato, rimase senza testa: Achille Occhetto, l’artefice della svolta, non poté essere eletto segretario perché alla votazione partecipò meno del 50 per cento dei delegati del «parlamentino». Lui, Occhetto, se la prese assai, fuggì dal congresso, si rifugiò con la moglie Aureliana in un casolare della Maremma circondato da un muro di neve e soltanto quattro giorni più tardi poté essere eletto segretario del Pds. In quelle settimane si ripeté che la mancata elezione di Occhetto era stata determinata da seri disguidi organizzativi (e ve ne furono), ma nei venti anni successivi un rosario di testimonianze, tra loro autonome, ha consentito di ricostruire il quadro del puzzle: nella notte a cavallo tra il 3 e il 4 febbraio il flop di Occhetto fu preceduto - e dunque determinato - da piccoli tranelli, vanità personali, trucchi invisibili. Una serie di vizi che, almeno quelli, non avevano appartenuto alla storia, rigida ma composta, del Pci e si iniziarono a manifestare proprio in quelle ore, anticipando una trasfigurazione, quasi antropologica, che avrebbe segnato la vita dei partiti filiati dal Pci: il Pds, i Ds e infine il Pd.
La sera del 3 febbraio il primo ad accorgersi che qualcosa non va è Luciano Barca, che pure era stato uno dei nemici della svolta: il vecchio dirigente del Pci si accorge che nelle hall degli alberghi ci sono troppe valigie: gli ricordarono quelle lasciate dai parlamentari nei guardaroba delle Camere poco prima dell’ultima votazione, quella che prelude al ritorno a casa. Scrive Barca nel suo Cronache dall’interno del vertice del Pci (Rubettino, 2005): «Torno in presidenza, espongo i miei timori per la tenuta fisica del congresso» e «poiché Occhetto è andato a dormire, mi rivolgo a D’Alema, che non mi crede, ma almeno manda a chiamare il segretario dell’Emilia...». Barca consiglia di convocare il Consiglio nazionale nella notte ed eleggere subito il nuovo segretario perché l’indomani rischia di non esserci il numero legale. Ed è eloquente la risposta di D’Alema: «Occhetto non vuole essere eletto nella confusione della notte senza giornalisti e senza televisioni». Primo comunista col senso dello spettacolo, Occhetto vuole le telecamere e i suoi nemici si muovono di conseguenza. Nella notte si deve eleggere il «parlamentino» e l’affresco di Claudio Petruccioli nel suo Rendi conto (Il Saggiatore, 2001) è eloquente: «Scorro la lista del nuovo Consiglio nazionale e mi rendo conto che ci sono più nomi di quelli stabiliti». E il motivo è sbalorditivo per un partito che è ancora comunista nelle vene: i rappresentanti delle correnti, d’accordo tra loro e senza avvertire nessuno, hanno «immesso altri nomi, dettandoli direttamente all’operatore del computer». Un imbroglio che, perquanto scoperto, sarà momentaneamente sanato e più tardi replicato con esiti grotteschi: prima di salire sul palco, a Petruccioli (che aveva la regia del congresso) viene consegnato un elenco «definitivo» che però, a sua insaputa, verrà nuovamente manomesso nei minuti successivi. Un imbroglio. «Legalizzato» dalle nascenti correnti, che negli anni successivi sarebbero diventate strutture portanti dei nuovi partiti nati dalle costole del Pds.
Sulla scia di quella notte così travagliata, dopo qualche giorno i massimi dirigenti del partito vanno a parlare con Occhetto, rifugiato a Capalbio, per convincerlo ad accettare la leadership e alla fine di quell’incontro, tornando a Roma in macchina, Massimo D’Alema (secondo quanto raccontato senza ipocrisie da Claudio Velardi a Luca Telese nel suo Qualcuno era comunista ) esporrà un piano hard: «E’ morto, il papero è morto! Io adesso vado lì, faccio un bel discorso, lo rimetto in sella e gli do il colpo di grazia». Commenterà Velardi: «D’Alema voleva portare a consunzione Occhetto, cancellarlo per restare l’unica alternativa. In questo un inarrivabile professionista», secondo un modello «che ripeterà con Prodi e con Veltroni».

La Stampa 4.2.11
Good bye Palmiro nostalgie riformiste
La rivista di Macaluso rilegge i 90 anni del Pci e Rino Formica celebra il “metodo” Togliatti
di Marcello Sorgi


Parola d’ordine: niente rimpianti. Eppure, tra le righe del supplemento dedicato dalla rivista Le ragioni del socialismo ai novant’anni del Pci, si riaffaccia a sorpresa la nostalgia canaglia. Nostalgia dei partiti, in un’epoca tutta giocata sullo scontro personale, e della loro classe dirigente, passata attraverso severe selezioni interne. Nostalgia della sinistra, anche solo della parola, espunta dal moderno vocabolario politico che prevede solo di essere «democratici» o «popolari» o «a vocazione maggioritaria», ma ha rinunciato del tutto all’idea di una sinistra di governo che si presenti per quel che è. Nostalgia, infine, di un leader come Togliatti, al quale, dopo le mille condanne e archiviazioni fatte già in epoca comunista, adesso si vuol restituire dignità.
Fa una certa impressione leggere tutto questo sulle pagine della rivista diretta da Emanuele Macaluso, alla quale fa capo quel che rimane dell’area «migliorista» e filosocialista del Pci. Gli eretici che già dagli Anni Sessanta venivano bacchettati per la discussa proposta del loro leader, Giorgio Amendola, di creare un partito unico della sinistra fondendo Psi e Pci, la minoranza che ebbe il coraggio di contestare Berlinguer e fu definitivamente emarginata con l’avvento di Occhetto, prima, e poi di D’Alema e Veltroni, proprio loro che del comunismo italiano potrebbero dichiararsi vittime, invece lo rivalutano.
Scrive Macaluso che non si può cancellare il ruolo di «motore della modernità» assolto dal Pci nel dopoguerra e negli Anni Cinquanta e Sessanta, quando la Dc coniugava la propria supremazia con l’immobilismo: senza il Pci non ci sarebbero state la prima modernizzazione del Paese, l’introduzione di diritti fondamentali dei lavoratori, le grandi trasformazioni sociali, le conquiste dei diritti civili, l’uscita della sinistra dal campo sovietico e la piena adesione all’Occidente e alla Nato.

Aggiunge Claudio Petruccioli, a lungo senatore e braccio destro di Occhetto, che la scelta di passare dal Pci al Pds e al Pd non era affatto obbligata. Al momento del crollo della Prima Repubblica, la Dc e la somma di Pci e Psi raccoglievano più o meno la stessa quantità di voti e sarebbe stato tranquillamente possibile impostare un’alternativa, simile a quella che si svolge in molti paesi europei, tra cattolici e socialisti. Invece la strada scelta nel ’94 fu quella dei popolari e della sinistra che si presentavano separatamente ma dalla stessa parte e aprivano la strada a Berlusconi. Secondo Petruccioli l’adesione incondizionata alla campagna contro la partitocrazia, l’illusione di avvantaggiarsi degli effetti di Tangentopoli, oltre all’incapacità di credere nella sinistra di governo, una sinistra come quelle che competono e vincono nel resto d’Europa, hanno portato alla crisi attuale. Crisi di sistema e non del solo Pd, perché un Paese non può vivere per vent’anni appeso solo a Berlusconi e Prodi.
L’insieme delle analisi di Ragioni del socialismo è dichiaratamente provocatorio. Nessuno arriva a sostenere che si stava meglio quando si stava peggio (e anzi c’è una severa ricostruzione storica di Luciano Cafagna del duello infinito tra socialisti e comunisti). Ma è come se dicessero che i comunisti, con tutti i loro limiti, erano molto più bravi degli attuali campioni del centrosinistra. Ciliegina sulla torta di questa rivalutazione è il saggio di Rino Formica su Togliatti costituente. Stiamo parlando dello stesso Formica, già ministro di Craxi, che fu il più sulfureo e imprevedibile protagonista del nuovo corso socialista e il più vivace combattente di polemiche simmetriche con i due giganti della Prima Repubblica, Dc e Pci. Bene: non colpisce solo il fatto che Formica riscopra Togliatti e spieghi che il modello costituzionale al quale il leader comunista aveva contribuito comportava fin dalle origini il rischio, poi verificatosi, di un progressivo scivolamento verso uno strapotere della magistratura. La novità sta anche nel recupero del metodo costituente del confronto e del compromesso, nella ricerca della soluzione più vicina all’interesse generale.
Certo, i senatori di Ragioni del socialismo portano ancora tutte le cicatrici di decenni di scontri nel loro campo. Ma se hanno deciso di rivalutare pubblicamente il Pci è perché pensano che la crisi del sistema politico italiano sia giunta ormai al livello di guardia. E la sinistra, che non è certo estranea a tutto quel che è successo finora, farebbe bene a rendersene conto.

Corriere della Sera 4.2.11
Morta Maria Schneider Star di «Ultimo tango»
Bertolucci: non ho fatto in tempo a chiederle scusa
di  Stefano Montefiori


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI — Alla prima parigina di Ultimo Tango, dopo i titoli di coda nella sala piena di attori e registi, l’unica a congratularsi con Maria Schneider è Jean Seberg. L’incantevole e fragile Jean, che morirà suicida pochi anni dopo, si alza per baciare Maria sulla guancia, unico gesto di affetto in un cinema raggelato, dal quale Jean-Luc Godard è andato via dopo soli 10 minuti. Forse Jean ha capito quel che sta per succedere a Maria: lo scandalo, il successo, la rovina. Maria Schneider nel 1972 è una ragazza di 20 anni, ma non si riprenderà più da quelle scene erotiche nell’appartamento vuoto di Passy. È morta ieri di cancro, a 58 anni, «prima che io potessi riabbracciarla teneramente e, almeno per una volta, chiederle scusa» , ha detto Bernardo Bertolucci. Chiedere scusa per che cosa? Bertolucci scelse la sconosciuta Maria tra 200 candidate dopo averla notata su una foto, fece di lei la protagonista femminile di un film con l’immenso Marlon Brando, che aveva appena finito di girare Il Padrino, ne immortalò la spregiudicatezza e l’allegria con quel cappello e gli stivali che camminavano svelti sotto il metrò aereo di Bir-Hakeim, ma non è per questo che la Schneider resterà nella storia del cinema. «È incredibile, ho recitato in 50 film nella mia carriera, ma tutti mi chiedono solo di Ultimo tango— diceva —. La scena del burro non era prevista nella sceneggiatura, avrei potuto chiamare il mio agente o il mio avvocato e rifiutarmi, ma ero troppo giovane. Mi avvertirono un minuto prima di girarla, mi misi a litigare ma alla fine accettai. Era un’idea di Marlon, che mi disse: "Non preoccuparti, è solo un film". Ma durante la ripresa, anche se stavamo fingendo, le mie lacrime erano vere. Mi sono sentita umiliata e anche un po’ violentata, sia da Marlon sia da Bertolucci» . Gli uomini, nella vita di Maria Schneider, sono stati spesso presenze difficili. A cominciare dal padre, l’attore Daniel Gélin, che la concepì durante la relazione durata sei mesi con la modella di origini romene Marie Christine Schneider. Gélin non riconobbe mai Maria, neanche quando a 16 anni la ragazza lasciò la madre in Alsazia e venne a Parigi per i primi ruoli da comparsa. Nella capitale non fu Gélin a occuparsi di lei ma Brigitte Bardot, scandalizzata per l’indifferenza dell’uomo: per due anni B. B. ospitò Maria a casa sua. Lì incontrò Warren Beatty, che la raccomandò al suo agente William Morris e le spalancò le porte del grande cinema. «Marlon mi disse di sentirsi manipolato da Bertolucci — raccontò poi Maria —. Immaginate come devo essermi sentita io» . Ultimo tango a Parigi diventa un caso internazionale, ma a Maria spettano solo i 5.000 dollari del contratto. Viaggia in tutto il mondo per la promozione del film, ma a lei non fanno certo domande sulla splendida tonalità arancione della fotografia di Vittorio Storaro. «Decisi di stare al gioco, dissi al New York Times di avere avuto già 50 uomini e 20 donne. Non era vero, ma sentivo che era quello che volevano da me. Entrai nel personaggio della donna liberata sessualmente. E poi erano gli anni Settanta, l’Aids non esisteva, la trasgressione era quotidiana» . Come le droghe. Maria percorre tutte le tappe: marijuana, cocaina, lsd, eroina, «che però mi faceva vomitare» . A Roma si fa internare in un ospedale psichiatrico per stare vicina alla sua compagna, l’ereditiera fotografa Joan Townsend, affetta da schizofrenia. Seguono un paio di overdose— «forse era un modo per uccidermi, ma all’arrivo dell’ambulanza mi risvegliavo sempre» —, un soggiorno mistico nelle riserve Navajo e Hopi dopo lo sbarco fallito a Hollywood, e un solo giorno di riprese per Quell’oscuro oggetto del desiderio di Buñuel. Maria con gli anni imparò a scherzarci su, raccontando di odiare ormai il burro, ma il suo declino è stato lento e crudele. Alla fine si dedicava a The Wheel Turns: un’associazione di aiuto alle ex stelle del cinema.

Corriere della Sera 4.2.11
Trasgressiva e tormentata, un simbolo per molte donne
di  Maria Laura Rodotà


«Mi sento come se fosse morta mia zia» , mi dice G. Poi specifica: «Una zia acquisita, di quelle giovani e sexy e pure un po’ strane, di quelle che intrigano i ragazzini e diventano protagoniste delle loro fantasie sessuali» . G. non ha detto proprio «protagoniste delle fantasie sessuali» ; nel commemorare Maria Schneider ha usato termini sinceri e non riferibili. Gli stessi, più o meno, di tutti i maschi etero dai quarantacinque anni in su, ieri. Avevano rimosso Schneider e le scene di Ultimo tango; le rievocavano appena venivano a sapere della sua morte, insieme alla loro adolescenza passata da un po’. O da tanto: «Marlon Brando mi sembrava un anziano vizioso, in quel film; adesso guardo le foto e vedo un coetaneo interessante» , dice F. C. aggiunge: «Mi raccomando, scrivi del seno (non ha usato la parola "seno", ndr) della Schneider, quanto ci ha fatto sognare, quasi quanto la scena del burro» . Detto fatto. Schneider aveva poco a che fare con i canoni di bellezza da primi anni Settanta, non era androgina, non era slavata. Era una ricciolona dal reggiseno abbondante; una ragazza di città curiosa e pericolosa specie per se stessa, masochista e indipendente. Vederla nuda mentre si esprimeva con Marlon Brando era, per i tempi, trasgressivo. E nello stesso tempo familiare: Schneider ricordava la compagna di scuola carina, la ragazza del collettivo, e la zia evoluta e tormentata. E la sua storia personale è stata simile a quella di tante ragazze che dagli anni Settanta non si sono mai riprese. Era parigina, figlia di un’ex modella, la tedesca Marie Christine Schneider, e di un attore, il francese Daniel Gélin, che non la riconobbe mai. Era quello che ai tempi si chiamava una fricchettona, una ragazzina alternativa, sessualmente libera e molto sperimentale. Aveva girato Ultimo tango nel 1972, a vent’anni, era diventata un sex symbol post-sessantottino, anzi una delle più apprezzate figure dell’immaginario post-sessantottesco; l’amante contestatrice (si diceva così) favoleggiata da uomini maturi come da studenti delle medie. Nel 2007 Schneider ha raccontato che la storica scena del burro, su cui ieri disquisivano i suoi ammiratori in lutto, per lei era stata un trauma. Non era nel copione, non l’avevano avvertita, le sue lacrime erano vere, «lacrime di umiliazione» . Non le portarono bene, in effetti. La sua vita personale diventò sempre più complicata, si diceva facesse un intenso uso di eroina. Finì ricoverata in una clinica psichiatrica. Poi si riprese, si rimise a lavorare: in media un film all’anno, fino al 2008, ma mai un ruolo memorabile. Ogni tanto, nelle interviste rievocative, malediva Bernardo Bertolucci, poi lo perdonava, perché l’aveva «fatta entrare nella storia del cinema» . Del cinema e della cultura popolare. Specie in Italia. Dove, se si giudicasse Ultimo tango in base a parametri recenti, si loderebbe la condotta di Schneider in quanto improntata ad apprezzabile riserbo istituzionale. Ma dove, quarant’anni fa, Schneider diventò donna del peccato estrema, espressione dello spirito del tempo, battistrada di molte personali liberazioni. Poi, va da sé, i simboli erotici invecchiano con fatica, e rischiano derive stravaganti. Nel 2005 Schneider incise un disco con Cristiano Malgioglio. Le foto dei due insieme sono reperibili online, ma i fans preferiscono ricordarla con le immagini dei tempi d’oro, quando era una ragazzina provocante e vulnerabile (la stesura di questo pezzo è stata più volte interrotta da telefonate e messaggi di detti fans, testimonianze di un lutto autentico quanto imbarazzante per chi ascolta; in certi casi capita).

Corriere della Sera 4.2.11
Dopo quel film Antonioni e il quasi nulla
di Maurizio Porro


C ome Anita Ekberg per la Dolce vita o Daniela Rocca per Divorzio all'italiana, Maria Schneider è stata una di quelle attrici che si sono prenotate un posto nella memoria con un solo film. Che fu per lei, appena ventenne, Ultimo tango a Parigi, quando a Parigi fu scelta da Bertolucci per affiancare Marlon Brando nella più sofferta storia di sesso e di solitudine del cinema. Figlia d’arte irregolare di Daniel Gélin, lei diventò improvvisamente e obbligatoriamente scandalosa, e da quel momento iniziarono i rapporti di odio-amore col regista che le ha dato per sempre un ruolo: al di là della scena «cult» , il film parlava del bisogno di affetto e la Schneider, con quella sua aria da ribelle dai sentimenti zingareschi, esprimeva bene e in modo naturale un disorientamento divenuto biglietto da visita di una generazione. Maria è stata però un'attrice soprattutto italiana, come successe ad altre «straniere» come la Spaak o la Cardinale e, tre anni dopo l'exploit per Bertolucci (e Cari genitori di Salerno), fu scelta da un altro grande, Antonioni, che la volle con Jack Nicholson in Professione reporter. Ancora un personaggio di ragazza senza identità, uno sguardo desolato sul mondo di una cittadina sicuramente non felice né riconciliata: dal volto della giovane e già vissuta attrice esce come una richiesta d’aiuto. Il resto della sua carriera è tutto tra parentesi, e da allora in discesa: la terrorista di Cercasi Gesù di Comencini, la babysitter in un film di René Clément e poi la moglie pazza nel '96 per Jane Eyre di Zeffirelli. E le occasioni mancate: fu lei a rifiutare Caligola di Brass, stufa delle proposte rivolte sempre all'erotico-porno, ma fu Buñuel a protestarla dopo un giorno sul set di Quell’oscuro oggetto del desiderio. Il resto è, silenzio a parte, qualche apparizione in tv (Il cuore e la spada), il film tolstoiano di Sciarra Quale amore, fino al Cliente di Josiane Balasko (2008). Aveva anche riscoperto la musica, pur di uscire dall’impasse di un successo mediatico extralarge che le aveva lasciato un chiacchierato alone, incidendo con Malgioglio un disco dedicato all'amore.

La Stampa 4.2.11
“Sesso estremo la maledizione delle attrici”
Bellocchio e Zeffirelli: era molto fragile
di Fulvia Caprara


È la maledizione della scena hard, l’arma a doppio taglio che, da una parte ti scaraventa nell’olimpo della celebrità e dall’altra ti inchioda per sempre a quel personaggio, quel momento, quel fotogramma. Per Maria Schneider la sequenza del burro in Ultimo tango a Parigi era sempre rimasta un incubo, una violenza da cui fuggire. Non c’era intervista in cui, anche molti anni dopo, non trovasse il modo di prendere le distanze da quel film. Franco Zeffirelli, che in Jane Eyre le aveva affidato il ruolo della prima moglie del protagonista, la ricorda così: «Mi sembrò molto carina, molto buona, molto triste. Rispondeva benissimo a tutte le mie indicazioni, ma soffriva di un certo impaccio, mi sembrava una creaturina indifesa, che nascondeva, dentro, qualcosa di molto fragile». In Ultimo tango , dice l’autore, «era stata meravigliosa, ma certo non doveva essere stata un’esperienza facile. Avere accanto Brando, poi, capriccioso e imperativo com’era, non doveva averla aiutata». Il marchio le era rimasto impresso per sempre: «Poverina - prosegue Zeffirelli -, era vulnerabile, per me nutriva un grande affetto, avvertiva il mio amore per gli sfortunati, ma forse anche il fatto che la mia natura contadina mi spinge a tenermi lontano da persone complicate come lei».
Il rifiuto verso un’interpretazione sofferta, quasi subita, avvicina la storia di Maria Schneider a quella di Maruscka Detmers, lanciata da Marco Bellocchio nel Diavolo in corpo . Quella volta la scena clou era una fellatio, sui giornali se ne parlò a non finire, e la Detmers si ritrovò nell’occhio del ciclone: «Da allora - dice Bellocchio - si rifiutò di interpretare film che prevedevano scene di nudo o simili. Era un modo per esprimere la sua ribellione». Di recente, per il dvd del film di prossima uscita, Detmers ha concesso un’intervista in cui ha spiegato che «anche se in dimensioni più contenute rispetto alla Schneider, la sequenza di sesso orale del Diavolo in corpo l’aveva fortemente condizionata». Oggi Detmers «si rimprovera per non aver accettato, a causa di quel trauma, proposte di autori importanti, solo perché avrebbe dovuto fisicamente esporsi». Le reazioni possono essere diverse, riflette Bellocchio: «Ho fatto parte, con Maria Schneider, della giuria di un’edizione del festival di Annecy, mi è sembrata una persona intelligente, colta, ma anche estremamente riservata». Bellocchio la ricorda «senza trucco, austera, come se volesse cancellare ogni tipo attenzione verso il proprio corpo. Certe volte accade, ci sono donne che assumono, per reazione, un’attitudine quasi religiosa». Verso Bertolucci, l’ex-eroina di Ultimo tango aveva sempre avuto parole dure: «Il tempo, in genere, crea distanza - osserva Bellocchio - il suo era un risentimento ingiustificato, forse più legato a se stessa che ad altri».

Repubblica 4.2.11
Maschi e femmine a distanza in Cina c´è il muro anti-flirt
Vietato ogni contatto fisico anche involontario Quindi niente baci e strette di mano
Chi supererà il "confine del rispetto tra i sessi" sarà escluso dalla corsa al successo
di Giampaolo Visetti


Si cercava anche in Cina, da lungo tempo, la giusta distanza tra maschi e femmine. Il ministero dell´educazione di Pechino, almeno a scuola, l´ha scoperta: mezzo metro. Per la precisione: cinquanta centimetri è il limite massimo della vicinanza. Lo spazio di sicurezza, ossia l´interstizio appropriato fra studente e studentessa, allarga invece la lontananza tra gli ottanta centimetri e il metro. Vietato, per abbondanza di esattezza, ogni contatto fisico, anche involontario. La guerra delle autorità cinesi all´intimità scolastica non ammette deroghe.
Chi supererà il «muro del rispetto tra i sessi», come è stato definito da un comunicato del governo, sarà escluso dalla corsa al successo. Il primo sconfinamento nell´atmosfera altrui si risolverà con una comprensiva predica dell´insegnante. Per la seconda invasione è prevista la sospensione dalle lezioni. Oltre c´è l´espulsione dalla scuola. In Occidente è una medaglia dell´adolescenza da esibire nel corso della senilità. In Cina è una macchia indelebile: impedisce l´accesso alle università migliori, compromette il sogno di studiare all´estero, preclude l´iscrizione al partito comunista. Violare i cinquanta centimetri di pertinenza della compagna o del compagno di classe, su ogni lato, spalancherà dunque le porte della disoccupazione, o della miseria. Un internauta di Shanghai, scosso dalla «legge anti-flirt», ha sintetizzato così: «Se non stai alla larga dalle ragazze sei fottuto». Per testare a livello nazionale la divisione nella promiscuità, è stata scelta una scuola media di Chengdu, nel Sichuan. Non è un caso. Tre mesi fa una scolara di tredici anni, durante il cambio di lezione, ha partorito sotto il banco: una femminuccia. Sarebbe una buona notizia, in una nazione spinta all´aborto selettivo dalla legge del figlio unico. Per i cinesi invece, attenti al divieto di tenersi per mano a scuola, o di baciarsi in università, in fabbrica e in ufficio, è stato uno choc. Nove regioni hanno subito adottato il mezzo metro scolastico precauzionale, mentre tutte, «per moralizzare il comportamento dei giovani», hanno introdotto «lezioni di galateo». Il nocciolo della questione resta che negli istituti «l´altra metà del cielo non si sfiora nemmeno con un fiore di ciliegio», come ha titolato il Quotidiano del Popolo. Alla "generazione.it" verrà in realtà insegnato di tutto: come vestirsi «con decoro», come versare il tè, come impugnare i bastoncini, come conversare e perfino come «lasciare in condizioni accessibili» la toilette. L´allarme di Pechino è chiaro: i figli della seconda potenza del mondo, allevati in solitudine e viziati dai nonni a cui vengono affidati da genitori emigrati nelle metropoli, sono maleducati e si credono «imperatori». Conoscono magari l´obbedienza confuciana. Infilano però il naso nella zuppa, spingono, ignorano il contatto con l´altro sesso e se un maschio scolarizzato incontra nel corridoio una "dragon lady", peggio per lei. Petizioni, qualche suicidio, l´eroismo di un autista di Suzhou che ha cacciato dal tram due studenti incapaci di rinviare le effusioni, hanno smosso infine il potere. Per ricordare che l´autoritarismo è pur sempre fondato sull´armonia, è intervenuto anche sugli adulti: niente scatti di carriera a chi non potrà dimostrare di prendersi cura dei genitori. Complicato ma gestibile. A scuola invece è come con il fuorigioco: questione di centimetri. Un docente di matematica, a Shanghai, ha chiesto un metro al direttore. Eccesso di zelo: licenziato.

Repubblica 4.2.11
Anna Mazzanti, storica dell’arte, curatrice dell’esposizione
Così Caravaggio ha fatto scuola tre secoli dopo
di Raffaella De Santis


«L´arte del Seicento ha avuto una grande influenza sulla pittura del Novecento, ma spesso la sua importanza è stata trascurata», spiega Anna Mazzanti, storica dell´arte, curatrice con Lucia Mannini e Valentina Gensini di "Novecento sedotto".
Perché proprio il Seicento? In fondo negli anni tra le due guerre si guardava soprattutto alla pittura del Quattrocento e al Rinascimento.
«Volevamo rivalutare un periodo meno studiato, ma comunque presente nelle opere del tempo, anche nelle tele giovanili di Annigoni. Inoltre la mostra è stata ideata nel 2010, ovvero nell´anno delle celebrazioni caravaggesche».
A che si deve il ritorno al gusto seicentesco?
«A diversi fattori, ma fu soprattutto l´esposizione che si tenne nel 1922 a Palazzo Pitti a Firenze, promossa da Ugo Ojetti, a riabilitare l´arte del Seicento. L´impatto fu grandioso. Le nature morte con brocche e ceste di frutta, i paesaggi, le grandi tele sul modello caravaggesco, i chiaroscuri violenti, divennero oggetto di una vera e propria mania».
Cosa seduceva di Caravaggio?
«Lo stile, ma soprattutto la carica di umanità. La grande capacità di Caravaggio è proprio quella di rendere umani anche i temi sacri. Così gli Apostoli di Felice Carena sono contadini con le guance annerite dal sole che richiamano alla memoria il Cristo nell´orto degli ulivi. Quadro che influenza anche il Riposo dei cavatori sul Monte Ceceri di Baccio Maria Bacci».
E le avanguardie hanno avuto un ruolo in questa operazione di recupero del passato?
«Certo, non si tratta di citazionismo puro, ma di rielaborazioni. Sono artisti che guardano il ´600 con spirito novecentesco. In Dopo il bagno di Primo Conti si riconoscono elementi della composizione seicentesca come i drappi e le brocche, ma la geometria pittorica rimanda a Picasso e al cubismo. La spazialità è moderna».
Quali elementi iconografici di novità sono introdotti nel passaggio al Novecento?
«Ad esempio alcune varianti attuali nelle nature morte, dove compare la frutta coloniale, datteri e banane. Il quadro di Gregorio Sciltian Bacco all´osteria è emblematico: abbiamo figure simili a quelle della "Vocazione di San Matteo" di Caravaggio, ma invece delle tipiche bluse a righe indossano magliette da giocatori di calcio».
Un posto privilegiato spettava ai pittori barocchi spagnoli?
«Velázquez o Ribera, furono un riferimento per i pittori della realtà come i fratelli Bueno o Sciltian. Annigoni aveva una devozione verso la pittura seicentesca, il ritratto del mendicante Cinciarda ne è un esempio. Il senso della mostra è in questo gioco continuo di rimandi tra passato e presente».