l’Unità 9.7.11
Risorgimento civile. Le donne costruiscono
Il 13 febbraio è nato un movimento vero
di Maria Luisa Busi
Quel giorno è iniziato un nuovo Risorgimento civile. Siamo state noi a fare uscire tutti dalla solitudine che ci stava divorando, quella che ti prende quando ti accorgi che vivi la vita di un altro, che ti vogliono consumatore e non cittadino della tua stessa vita
Ma parliamoci chiaro. Chi sta reggendo sulle spalle il nostro paese? Ma le avete viste le donne per strada? Le vedete le donne negli uffici, nelle banche, negli ospedali, nei supermercati, nelle case? La vedete o no la fatica delle donne, la vita da funambole, sempre in bilico, sempre incerte se ce la faranno a fare il passo successivo? E poi ce la fanno, ce la fanno sempre.
Nonostante tutto. Nonostante la crisi economica morda persino i consumi alimentari, nonostante ci siano più precarie che precari, nonostante la più bassa occupazione femminile, nonostante siano più preparate e meno pagate, nonostante un welfare tra i peggiori d’Europa, nonostante un paese che si riempie la bocca della parola famiglia, mentre accetta che quasi un milione di donne lasci il lavoro perché costrette, alla nascita del primo figlio.
Le donne fanno. Terza persona plurale del verbo fare. Il verbo che piace di più alla propaganda di questi tempi. Solo che le donne fanno davvero.
Arriverà cosi tanta gente oggi e domani a Siena che han dovuto spostare la location per la due giorni dello SNOQ, acronimo del movimento senonoraquando, quello delle donne che han portato un milione di persone nelle piazze italiane, il 13 febbraio scorso, tanto per capirci. Per chi se ne fosse dimenticato, l’inizio di un nuovo Risorgimento civile.
Diciamoci la verità. Pochi credevano che sarebbero andate avanti. Molte invece sì. Ne erano certe. Perché le donne fanno. E le donne sanno quando si può, quando si deve. Hanno detto: si sa, le donne non sanno fare squadra....Si sa le donne sono nemiche delle donne, hanno sibilato. Ma cosa volete che dica un paese maschile e maschilista, ripiegato in se stesso, conservatore, rattrappito, asfittico, vecchio e un po’ triste, che per anni e da anni gira come un criceto su una ruota che un ditino muove, e a ogni giro c’è un attacco alla magistratura, e poi alla Costituzione, e poi a una qualche Istituzione dello Stato, e poi alla scuola pubblica, e poi ai precari. Un paese dove un Ministro della Repubblica si permette di definirli «l’Italia peggiore...» E guarda caso, se lo consente con una donna.
E hai appena finito di inorridire per le feste eleganti a base di lap dance che spuntano le strutture Delta. Ma non riesci a prendere ossigeno che si ricomincia, un altro giro, e sempre la stessa ruota e il dito, sempre quello, che fa girare noi tutti criceti e facendoti girare infilano di striscio, come giocolieri maldestri, un’altra bella norma ad personam che quando li scoprono la ritirano, come bambini colti col dito nella marmellata. Scusate, si scherzava. E mentre cerchi di risollevarti e non sai più se dal pianto o dal riso, stiam pur certi che ripartono, e le loro televisioni dietro e quelle che controllano pure, nel paese con il più sfrontato conflitto di interessi del mondo occidentale, ripartono con l’attacco alla magistratura e alla Corte Costituzionale e ce ne sarà forse ancora un po’ di nuovo anche per il Capo dello Stato e poi per la scuola pubblica e poi per gli omosessuali e, ci mancherebbe, anche per le donne. Come dopo quella domenica 13 febbraio, che si poteva fare come al solito e prolungare il pranzo domenicale e magari vedere le trasmissioni demenziali in televisione, quelle giovani donne in sottoveste a febbraio negli studi televisivi dove a febbraio fa freddo e loro lì a darsi sulla voce nell’arena di turno di conduttori piacioni che le invitano per fare tappezzeria, e loro lì perchè non c’e’ altra immagine che passi, altre storie che si impongano, mica si puo’ invitare un’attrice che recita Plauto in teatro! Lì, facendosi strumento di una subcultura che le vuole ospiti sottomesse e semimute, le gambe attorcigliate come equilibriste a discutere di argomenti su cui cercano di mimare una qualche competenza. Mai vista una rettrice di Università alle quattro del pomeriggio. Eppure basterebbe fare tre telefonate. Perché sono solo tre, in tutta Italia. Si poteva dunque stare lì, davanti a quello specchio deformante che dai, sì, un po’ ci ha deformati, fin dai tempi in cui ci aspettava a casa silente e quando lo accendevi ti diceva gaio: corri a casa in tutta fretta c’è un biscione che ti aspetta. Ci ha trasformati un po’, e lo abbiamo lasciato fare, riuscendo talvolta a tirar fuori il peggio da noi : l’indifferenza per il bene comune, l’irresponsabilità, la pigrizia, la maleducazione, la mancanza di rispetto per le donne, quindi per tutti. Ci hanno provato con forza a cambiarci la testa, prima piano piano, poi con determinazione crescente, fino a fabbricare una macchina perfetta in ogni suo meccanismo: la macchina del populismo mediatico,
La macchina del consenso. La notizia è che non ci sono riusciti. Molte e molti hanno posto distanze, letto libri, giornali liberi, sono andati al cinema, a teatro, si son collegati con internet al mondo reale, o semplicemente han parlato con gli altri, con
quelli che come loro non ce la fanno, con chi non ha il posto all’asilo nido, o con chi ha la vita scritta a matita per un contratto ogni tre mesi, mal pagate, mal pagati, senza orizzonte, che non possono pagare l’affitto, figuriamoci fare un figlio. Ognuno si è difeso come ha potuto, in questi anni un po’ infelici, da quella macchina ancora attiva che vuole “inculcare”quella sìche l’immagine è tutto, tanto che quel che appare diventa reale, la finzione si sovrappone alla realtà e diventa il vero. E quel che più conta per costruire il consenso, di donne e uomini: farli diventare consumatori, un imperativo di questa nostra società liquida. Molti l’hanno oscurato, come si copre un defunto, con un sudario, quello specchio deformante e deformato, che trasmette una realtà che ha dell’osceno, nella nudità del re. L’hanno fatto con il velo dell’indignazione prima, della ribellione pacifica poi, persino con un’arma micidiale: la risata. E la voglia di partecipare è divenuta bisogno di diffondere l’antivirus: senso e civiltà, regole e diritto. Lo hanno fatto coi referendum, attraverso la rete, scavalcando la tv ostile o complice, che nicchia o non informa. E le figlie e i figli hanno così spiegato ai padri e alle madri, e loro ai nonni, ai conoscenti e agli amici qual era la posta in gioco: che siamo opinione pubblica, e non un pubblico. Così la brezza è diventata vento. Così non ce l’han fatta. E il così fan tutti, il chissenefrega, non ci ha mangiato come un alien.
Ma tutto è cominciato lì, non dimenticatelo. Tutto è cominciato dalle donne, quel 13 febbraio. Perché le donne fanno. E quando fanno non fanno solo per loro, fanno per tutti. E questo deve rimanere storia. Sono state le donne a dire basta a un’Italia che non c’e’, che non è maggioranza. Sono state le donne a non voler più farsi dire non solo chi sono, ma chi siamo tutti, uomini e donne in questo paese, chi siamo, cosa dobbiamo provare, cosa ci deve emozionare, cosa dobbiamo ignorare.
Sono state le donne a fare uscire tutti dalla solitudine che ci stava divorando, quella che ti prende quando ti accorgi che vivi la vita di un altro, che ti vogliono consumatore e non cittadino della tua stessa vita. Per questo quel 13 febbraio le donne sapevano già, con quel senso che sanno dare le donne alle cose, che da lì cambiava tutto. E tutte e tutti quelli che c’erano stritolati allegramente in Piazza del Popolo a Roma come in centinaia di piazze italiane, hanno risposto che non siamo né bambini né cavalli che hanno bisogno della caramella o dello zuccherino per digerire le notizie più
pesanti, quelle della politica e della cronaca, come ha detto il direttore del più importante telegiornale della televisione pubblica, per giustificare notizie di primario interesse come quella della medusa cubo nei mari australiani, mentre se ne nascondono altre.
E davanti a quella moltitudine sembra vederlo lo stupore che diventa rabbia e balletto di cifre e denigrazione sloganistica: «le solite snob della sinistra, poche radical chic». Ma cosa vuoi che dicano, col paese che sfugge, che non crede più al pifferaio magico e al suo specchio deformante! Nessuno ci credeva alla vigilia che potessero arrivare a tanto, a quei numeri, a quella massa, a radunare un popolo, le donne, quando si muovono. Quando decidono di dire basta. Finirà lì, qualcuno ha detto, dopo quel 13 febbraio. Tanto poi si dividono, si dissolvono, pluff, come bolle di sapone. Si sa, le donne non sanno far squadra. Come se quelle piazze che non bastavano a contenere tutte e tutti struccate e allegre sessantenni, fichissime arrabbiate ventenni, tacchi alti, scarpe da ginnastica, piumini e cappotti, collane di perle e piercing sulla lingua, capelli rasta e taglio alla Carfagna, volti di rughe serene e labbra e zigomi gonfi come pane e passeggini con neonato e cani al guinzaglio e la suora sul palco e la sindacalista, la regista e l’insegnante, la precaria e la ricercatrice, la disoccupata e la professionista e madri e nonne e single e mariti con la panzetta e compagni e fidanzati e amici... come se quella ritrovata agorà non fosse che una cosa soltanto: L’Italia che chiede rispetto e uguaglianza. Se fosse la loro direbbero la migliore. Noi diciamo semplicemente quella vera. Perché le donne fanno. Oggi, domani. Sempre.
l’Unità 9.7.11
Intervista a Francesca Izzo
«Siamo corpi in rivolta. E la Rete non ci basta»
La filosofa della politica: «La priorità è costruire un movimento così forte da poter imporre i propri temi sulla scena pubblica»
di Mariagrazia Gerina
L’obiettivo è «costruire un movimento che sappia imporre i suoi temi sulla scena pubblica, tanto forte da non poter essere ignorato». E però la prima ragione che, a cinque mesi dal 13 febbraio, porterà a Siena Mille e più donne per la due giorni di «Se non ora quando», è forse più semplice. «In questi mesi», ci spiega Francesca Izzo, filosofa della politica, fin dall’inizio nel comitato, «siamo rimaste in contatto in rete ma per decidere la rotta avevamo bisogno di esserci insieme, con i nosti corpi». Cosa vi aspettate da Siena? «La cosa fondamentale sarà incontrarsi, ascoltarsi, conoscersi: va bene la rete però all’origine di tutto c’è questo esserci con i nostri corpi, fondamentale ora per capire come andare avanti, come non disperdere l’enorme potenziale accumulato, come costruire una rete organizzata non affidata solo allo spontaneismo. Vogliamo farlo in una maniera del tutto inedita, discutendo con i comitati, con le associazioni, con le singole donne che ci hanno contatto attraverso il blog. Dal 13 febbraio è entrato in moto tutto un mondo che non aveva esperienze organizzative e collettive e ora sente il bisogno di stare assieme. Abbiamo colto un mutamento nello spirito dei tempi». A5mesidall’urlo«Senonoraquando» quindi l’indignazione continua? «Ma quelle del 13 febbraio non sono state solo le piazze dell’indignazione, un altro messaggio è rimbalzato da lì e si è sviluppato in questi mesi: parlando di noi, delle donne italiane, precarie, senza lavoro, senza servizi, condannate a una rappresentazione non realistica delle loro esistenze, abbiamo toccato qualcosa che riguardava il paese e la sua capacità di futuro. Quell’urlo è la rivendicazione di una forza enorme, anche se disconosciuta finora».
E dopo quell’urlo?
«Sono nati più di 120 comitati in tutta Italia, in modo spontaneo, anche grazie rete, che ha permesso questo collegamento orizzontale...».
E ora a cosa darete vita: a un movimento, a un partito delle donne? «No un partito no, vogliamo essere un movimento che ha una interolocuzione libera e ricca con i partiti: a Siena verranno anche molte “politiche”, ma con loro vogliamo dialogare in assoluta automia. In questi anni la scena pubblica si è terribilmente svuotata, c’è una trama collettiva da ricostruire e c’è bisogno
del contributo di tutti, movimenti, partiti, associazioni». Referendum e amministrative sono stati due laboratori importanti. Che indicazione di rotta viene da lì?
«C’è stata una partecipazione straordinaria delle donne, ormai registrata anche dagli analisti, sia al referedum che alle amministrative. Io credo che se abbiamo raggiunto quel risultato straordinario del quorum è stato anche per il lavoro svolto dalle donne nei comitati referendari. E certo le donne hanno contribuito in maniera determinante alla vittoria dei sindaci che avevano accolto le loro proposte: presenza delle donne in giunta, ma anche un modo di intendere il governo della città attento alle donne, e quindiqualitàdellavita,servizi.Proposte trasversali, è il nostro metodo. Magari tutti i partiti rispondessero: alle amministrative non è stato così». Le giunte per metà rosa a Torino, Milano, Cagliari, le avete già ottenute.
«Sì ma non ci accontentiamo: misureremo le nuove amministrazioni da ciò che produrranno per le donne, a cominciare da un rapporto diverso che ci aspettiamo si stabilisca tra elettrici ed elette».
E per le prossime elezioni politiche sognate una donna candidata premier? «Quello che vogliamo è che cresca una intera generazione autorevole e riconosciuta di donne presenti nelle istituzioni, capace di coltivare un legame con le altre donne. Però c’è un fatto da scardinare: le donne non votano le donne, per una antica diffidenza, non le percepiscono abbastanza forti. Un movimento autonomo di donne dovrebbe servire anche a questo: a dare forza alle donne presenti inpolitica,inqualunquepartitositrovino. Ma soprattutto servirà a imporre i temi che ci stanno a cuore nell’agenda politica, sono quelli il bando per sbrogliare la matassa del futuro del paese».
l’Unità 9.7.11
Il segretario: «È una questione seria. Secondo certe teorie chiuderemo anche il Quirinale...»
Ma sul web la base critica: «Difendete la casta e lasciate all’Idv la bandiera dell’opposizione»
Province, tensioni nel Pd Bersani: «Una legge contro la demagogia»
Bersani ammette che la discussione aperta dopo l’astensione sull’abolizione delle Province è «confusa, anche per colpa nostra», ma difende la scelta del voto in Parlamento: «Serve serietà, non degagogia»
di Simone Collini
«Servono serietà, meno costi della politica, semplificazione istituzionale, ma non demagogie generiche. Altrimenti con certe teorie che sento girare chiudiamo anche il Parlamento e il Quirinale, perché costano». Pier Luigi Bersani ammette che la discussione che si è aperta dopo l’astensione del Pd alla proposta di abolizione delle Province presentata in Parlamento dall’Idv è «confusa, forse anche per colpa nostra». Ma il discorso riguarda più la gestione della vicenda e il modo in cui è stata spiegata all’esterno la scelta che non il voto in sé, deciso (su proposta di Dario Fraceschini) dopo una lunga e sofferta riunione dei deputati, divisi tra chi come Gianclaudio Bressa avrebbe voluto votare contro il testo dell’Idv e chi come Walter Veltroni si è espresso per il sì. Ma sul fatto che il suo partito abbia fatto bene a non muoversi inseguendo i possibili consensi e pensando invece se la norma fosse utile o meno il leader del Pd tiene il punto.
PIOGGIA DI CRITICHE VIA WEB
E pazienza se diversi dirigenti Democratici, da Veltroni a Matteo Renzi a Ignazio Marino, continuano a sostenere che si sarebbe dovuto votare a favore della sopressione delle Province. E pazienza, anche, se il sito web del partito e la pagina di Facebook di Bersani da giorni siano ingolfati di commenti fortemente negativi: elettori e simpatizzanti di centrosinistra che accusano il Pd di «tatticismi e calcoli beoti» (Renzo Chessa), di essere «come loro una casta che si difende» (Paolo Rossi), che chiedono le «dimissioni dell’intero gruppo dirigente» (Michele Gottardi) e definiscono il Pd un «partito autolesionista» («abbiamo lasciato la bandiera dell’opposizione a Di Pietro», scrive Daniele Bettoni). Al quartier generale Pd hanno letto questa pioggia di critiche valutando che non ci sia niente di irreparabile. «Usciremo presto da questa discussione confusa», è la convinzione di Bersani. «Presenteremo le nostre proposte sui costi della politica, che sono una cosa, e quelle sul riordino istituzionale, che è un’altra questione». Quello che non è piaciuto al segretario del Pd è che sia stata utilizzata per «tirate demagogiche» una «questione seria» come il riordino dello Stato. Il tema sarà affrontato in una serie di emendamenti alla manovra economica che saranno illustrati martedì da Finocchiaro e Franceschini insieme al responsabile Economia del Pd Stefano Fassina. E da giovedì parte in commissione Affari costituzionali alla Camera la discussione sulla proposta di legge co primo firmatario Bersani e che punta alla costituzione delle città metropolitane e al riassetto (con parziale soppressione) delle province. «Chi dice sic et simpliciter via le province e pensa di risparmiare con questo 17 miliardi ha la testa confusa», dice Bersani. «Non si confonda con lo spreco quello che viene fatto dalle province con il loro personale», dice Bersani sottolineando il rischio, in mancanza di una riforma organica dello Stato, di ingolfare altri livelli amministrativi.
TAVOLI E RACCOLTE DI FIRME
Ma il primo passo è rimettere sui giusti binari la discussione. E se la quartier generale del Pd viene accolto con soddisfazione il fatto che il leader di Sel Nichi Vendola abbia rilanciato la proposta di un tavolo comune del centrosinistra (avanzata l’altroieri dal responsabile Enti locali del Pd Davide Zoggia) per arrivare a «una proposta unitaria per abolire le province e riformare gli enti locali», fa invece meno piacere ai dirigenti Democratici sapere che il leader dell’Idv Antonio Di Pietro continui ad attaccare la «maggioranza trasversale portatrice di interessi di casta» che ha bocciato la sua proposta di legge e ora avvii una raccolta di firme per un disegno di legge popolare che «per cancellare la parola Province dalla Costituzione».
La Stampa 9.7.11
Bersani: sulla questione morale quattro occhi aperti anche nel Pd
Il segretario democratico: “Il ministro dell’Economia? Vada via tutto il governo”
di Jacopo Iacoboni
Si parla di Enrico Berlinguer mentre Pierluigi Bersani sfila via sul lato destro di piazza IV Marzo, a Torino, appena uscito da una conferenza stampa con Martine Aubry, la probabile candidata socialista all’Eliseo nel 2012, e il sindaco Piero Fassino. «Il richiamo sulla questione morale è sempre più attuale trent’anni dopo», conviene il segretario del Pd, rispondendo a precisa domanda. «Certo bisogna riconoscere che da una parte, a destra, ci sono casi di opacità a valanga, e sempre più inquietanti, si comprano nomine nelle società pubbliche con denari e gioielli, mentre a sinistra gli episodi sono assai circoscritti, e li stiamo isolando. Nondimeno, proprio in nome di Enrico Berlinguer dobbiamo tenere non due ma quattro occhi aperti sulle possibili zone grigie. Ci stiamo già lavorando da tempo. Abbiamo cambiato lo statuto. E alle ultime elezioni abbiamo candidato solo persone inappuntabili. Continueremo a vigilare».
Non fa nessun riferimento, ovviamente, a circostanze concrete, per esempio all’inchiesta sull’Enac che lambisce la Fondazione Italiani Europei; ma non si tira indietro sulla questione morale. Poi è vero, a destra succede di tutto. Però anche su questo varrà la pena ascoltare la riflessione di Bersani «Le cose che emergono dalla lettura dei giornali nell’inchiesta su Milanese destano ulteriore preoccupazione nel cittadino italiano. Si sta producendo l’idea che ci fossero due cordate, o la cordata Bisignani, o quella Milanese... Questo genera sconforto, senso di nausea, un’idea da sottoscala della politica che aggiunge sfiducia alla situazione già critica dell’economia».
Attenzione, però; occorre cogliere che il Pd non affonda la lama nella carne del ministro dell’Economia in difficoltà: «Noi non chiediamo le dimissioni di Tremonti, chiediamo le dimissioni di un intero governo, nel marasma a partire dal premier. Poi chiunque prende l’iniziativa di farlo cadere per noi non fa differenza». Il ritiro del Cavaliere? «Ma chi ci crede più? Trovatemene uno, in Italia».
Il segretario del Pd ha trovato una sintonia affettuosa con madame Aubry (sua l’immagine della «riscossa delle sinistre europee»), scesa a Torino da Lille, la città che amministra, per incontrare il sindaco Fassino. Racconta Bersani: «Il partito socialista francese sostiene un’idea del Pd, introdurre in Europa una tassa sulle transazioni finanziarie per far pagare anche alla finanza, non solo al lavoro, i guasti di una crisi che ha contribuito a produrre. In autunno presenteremo un testo comune, ci stiamo già lavorando».
Madame Aubry è sembrata assai ottimista. Vestita in elegante tailleur pantaloni antracite, con scarpe scamosciate a décolleté blu, ha fatto tanti complimenti a Fassino («bravò Piero») per aver preso Torino, e al Pd per aver contribuito alla vittoria di Milano. «Il vento sta cambiando anche da noi», ha detto al sindaco nel suo studio (sulla scrivania di Piero un bel thriller, «Il nostro segreto», di Carlene Thompson). Poi a fine incontro ha chiacchierato fiduciosa anche sul suo futuro presidenziale: «Spero che si voti al più presto anche in Italia», ha detto dopo la conferenza stampa. «Noi vogliamo un cambiamento radicale per l’Italia, che torni l’Italia gloriosa, non quella screditata dal governo Berlusconi, lo stesso cambiamento che ci auguriamo da noi nel 2012». Sarà lei la candidata? «Questo lo decideranno le primarie, la sfida con François Hollande e non solo». Alla domanda inevitabile sulle sorti a questo punto anche politiche di Dominique Strauss Kahn, la signora ha sorriso, quindi cortesemente risposto: «Il partito socialista ha detto tantissime cose, ma ha sempre tenuto ferma la presunzione d’innocenza; mi pare abbiamo fatto bene, dalle notizie che vengono da New York. Io gli sono rimasta amica, anche nell’incubo. Diamo a Strauss Kahn tutto il tempo di finire di difendersi a New York, senza strumentalizzarlo. Poi sarà lui a decidere eventualmente cosa fare». In politica, davvero, potreste escludere anche questa resurrezione?
l’Unità 9.7.11
Passigli: «Moratoria sulla raccolta delle firme». E al fronte pro Mattarellum: «Convergiamo»
Il leader del Pd soddisfatto. Ma Parisi va avanti: «Parlamento di nominati, quesiti unica strada»
Legge elettorale, sui referendum i comitati provano a ricucire
Passigli annuncia una «moratoria» della raccolta di firme per il referendum elettorale per tentare un’«azione comune» con il fronte pro-Mattarellum. Bersani soddisfatto. Parisi: «Il referendum è l’unica strada».
di Simone Collini
Prove di ricucitura sui referendum elettorali. Stefano Passigli annuncia una «moratoria» della raccolta di firme da parte del comitato referendario di cui è presidente per verificare la possibilità di un’«azione comune» nell’ottica di una «convergenza» tra tutti quelli che vogliono superare il Porcellum. «I referendum vivono della forza che dà loro la società civile e iniziative contrapposte dice il docente universitario facendo riferimento al fronte pro-Mattarellum non solo ne pregiudicherebbero la forza e forse l’esito, ma screditerebbero lo stesso istituto referendario». Dopo essersi consultato con gli altri membri del comitato che punta alla cancellazione delle lista bloccate e del premio di maggioranza, e dopo aver valutato tutti i rischi di una lacerazione nel fronte delle opposizioni in un momento come questo, con un governo allo sbando e la speculazione internazionale che attacca l’Italia, Passigli ha deciso di sospendere la raccolta delle firme invitando i promotori del secondo referendum «a soprassedere analogamente alla sua presentazione in attesa di un incontro che verifichi la possibilità di un’azione comune».
BERSANI SODDISFATTO
Una mossa accolta con soddisfazione dai vertici del Pd, con Enrico Letta che parla di «saggia decisione» («ora ci sono le condizioni per assumere le migliori decisioni in un clima che eviti divisioni») e con Rosy Bindi che parla di «buona notizia»: «Siamo contenti che abbia accolto il nostro invito e lavoreremo perché si unisca e si allarghi il fronte di quanti vogliono abolire la pessima legge chiamata Porcellum». Ha commentato positivamente con i suoi la sospensione della raccolta delle firme anche Pier Luigi Bersani, che nei giorni scorsi aveva lanciato più di un appello ai dirigenti del suo partito ad evitare di prender parte alla battaglia referendaria. Il leader del Pd, che ha convocato una Direzione ad hoc per discutere di legge elettorale e presentare in Parlamento una proposta ben precisa (una quota maggioritaria di seggi assegnata con collegi uninominali e doppio turno e il resto attraverso il proporzionale) anche se ha evitato di commentare pubblicamente la vicenda, nei colloqui avuti ieri ha valutato positivamente la «moratoria» e ora pensa che ci saranno anche altri effetti derivanti dai messaggi lanciati nei giorni scorsi. Bisognerà però aspettare lunedì per capire se sia definitivamente alle spalle la battaglia referendaria.
Il fronte pro-Mattarellum potrebbe infatti depositare comunque, dopodomani, i quesiti messi a punto dal costituzionalista Andrea Morrone. Stefano Ceccanti spiega che si tratterebbe soltanto di un modo per costituire il comitato che dovrebbe poi confrontarsi con quello di cui è presidente Passigli. Tra oggi e domani discuteranno della questione Walter Veltroni, Pierluigi Castagnetti e Arturo Parisi. Che però ieri sera, dopo essere stato informato della mossa di Passigli, ha comunque sottolineato che «l’unica strada rimasta» per abrogare il Porcellum è quella del referendum: «Il nostro obiettivo non è battere Passigli, né far pace con lui. La nostra preoccupazione è impedire che il Parlamento sia ancora una volta nominato dai partiti».
il Riformista 9.7.11
Sì, è una crisi di regime
di Emanuele Macaluso
il Riformista 9.7.11
Da Torino Pd e Psf lanciano la sfida progressista europea
Convergenze sovranazionali. Martine Aubry e Pier Luigi Bersani lavorano a un progetto complessivo in vista degli appuntamenti elettorali del prossimo anno in Francia, Germania, Spagna e Polonia. E forse anche in Italia
di Federico Fornaro
qui
http://www.scribd.com/doc/59663309
l’Unità 9.7.11
«Lasciateci entrare nei Cie». Stampa e opposizione contro il Viminale
di Luciana Cimino
In Italia esistono luoghi dove i diritti basilari sono sospesi: i Centri di Identificazione ed Espulsione (Cie) dove i migranti vengono rinchiusi senza aver commesso reati. Dal 1 aprile 2011 la stampa non può più documentare quanto accade lì dentro. Non le condizioni igieniche disperate, non i tentativi di rivolta ed i suicidi, non le aberrazioni della BossiFini e del decreto sicurezza. La circolare 1305 emanata dal ministro degli Interni, Roberto Maroni, vieta l’ingresso non solo ai giornalisti ma anche a tutte le organizzazioni umanitarie ad eccezione di Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), Save the Children e Amnesty, «al fine di non intralciare le attività» rivolte ai migranti. Un paradosso in palese contrasto con l’art 21 della Costituzione. Ne è seguito un appello di giornalisti, “Lasciateci entrare nei Cie” che L’Unità ha sostenuto, e una lettera ufficiale indirizzata a Maroni da parte della Federazione nazionale della stampa italiana e dell'Ordine dei giornalisti, varie interrogazioni parlamentari presentate dai Radicali e da Salvatore Marotta e Rosa Calipari del Pd. Nessuna risposta del Ministro. E mentre Maroni tace la situazione diventa ogni giorno più drammatica: da aprile ad oggi sono state quasi quotidiane le rivolte, i tentativi di fuga, gli episodi di autolesionismo e i suicidi. «Il nostro paese è entrato in un regime di apartheid denuncia Jean leonard Touadì, del Pd – Eppure l’Italia ha applaudito alla rivoluzione dei gelsomini, peccato che una volta giunti in Italia quei ragazzi hanno scoperto che i gelsomini in Italia non crescono affatto e hanno trovato l’inferno». Per questo parlamentari del Pd, dell’Idv e di Futuro e Libertà assieme ai Fnsi e Ordine dei Giornalisti manifesteranno sotto i Cie il prossimo 25 luglio chiedendo ancora una volta l’immediato ritiro della circolare. «Il fatto di non farci entrare legittima ogni sospetto su quel che avviene all'interno dice Roberto Natale, presidente della Fnsi Noi non siamo d’intralcio, vogliamo solo raccontare».
l’Unità 9.7.11
Tantissimi giovani che scandiscono slogan: «Giustizia, riforme». Le donne in prima fila
Alla manifestazione partecipano anche i Fratelli musulmani. Chiedono lavoro e libertà
Egitto, un milione in Piazza Tahrir Suona il secondo gong della rivoluzione
Convocata da tempo dai movimenti giovanili e dal quello del 6 aprile, la mega manifestazione di ieri è diventata imponente sull'onda emotiva di sentenze impopolari. Contro i militari al potere e lo stato d’assedio.
di Umberto De Giovannangeli
Piazza Tahrir torna a pulsare. Una prova di forza, composta, straordinaria, condotta dai protagonisti della «Rivoluzione dei Loto» che in diciotto giorni ha cambiato il volto dell’Egitto. I manifestanti sono una immensa multitudine, un milione secondo il quotidiano online Masry al Youm. Riuniti nel «Venerdì della purificazione». Un milione di persone, tantissimi i giovani, uniti nel chiedere processi rapidi e vere riforme. I dimostranti sventolano bandiere ed espongono uno striscione, su cui sono dipinte le parole «punizione per gli assassini dei martiri». Sui volantini distribuiti tra la folla si legge invece: «Vera pulizia, vero governo, veri processi».
PROVA DI FORZA
Convocata da tempo dai movimenti giovanili e dal quello del 6 aprile, la mega manifestazione di ieri è diventata imponente sull'onda emotiva di sentenze impopolari, come quella per il rilascio su cauzione di agenti accusati di avere sparato sui manifestanti a Suez a gennaio, e anche grazie alla decisione all'ultimo momento dei Fratelli musulmani di partecipare. «Rivoluzione fino alla vittoria», «Il popolo vuole la punizione immediata e il diritto dei martiri», hanno scandito i manifestanti sotto un sole cocente che ha provocato malori, curati dai volontari del piccolo ospedale da campo nella piazza. Sotto uno striscione con la scritta «Il popolo vuole le dimissioni del Consiglio militare, Mubarak se n'è andato e ci ha lasciato il maresciallò, riferendosi a Hussein Tantawi, il capo del Consiglio supremo militare, i manifestanti raccontano. Mohamed Ali e Sayed sono due ventenni. «Siamo venuti qui perché ne abbiamo abbastanza dei balbettamenti del governo. Il Consiglio militare immobilizza il governo, che a sua volta è troppo debole. Un nostro cugino è stato ferito in una manifestazione ed è paralizzato. È senza lavoro come noi e non succede niente. I dirigenti devono capire che questa è una rivoluzione. Non siamo ragazzi che fanno un festival».
PROTAGONISTE DELLA RIVOLTA
Molte sono le manifestanti in niqab, il velo islamico che lascia scoperti solo gli occhi. Dice Aimda, professoressa di scienze: «Sono in piazza perchè le famiglie dei martiri devono avere i loro diritti, i responsabili della morte dei loro figli devono essere imprigionati, non rimessi in libertà, e il ministero dell'Interno purificato». Un'altra donna porta un cartello con la foto del figlio, diciassettenne, scomparso dal settembre 2010.
«Suo padre è stato un detenuto politico per nove anni ed è stato liberato nel 2004 per la sua appartenenza alla Jamaa Islamyia», movimento iperintegralista illegale sotto Mubarak. C'è Sayafda, madre di uno dei «martiri», Mohamded Sahahr Abdel, 19 anni, ucciso il 28 gennaio, primo venerdì della collera, colpito da un proiettile della polizia. «Il ministero della Sanità ha detto che è morto di morte naturale. L'ospedale ha riconosciuto che è stato ucciso da un proiettile della polizia. Non voglio indennizzi. Voglio il giudizio degli assassini. È l'unica cosa che allevierà le mie sofferenze», racconta. Ieri non c’era traccia di polizia ed esercito sulla piazza. La sicurezza era affidata a giovani dei comitati popolari gestiti da un professore d'inglese, Abdel Halim. Tutto si è svolto pacificamente. Una grande prova di maturità.
La Stampa TuttoLibri 9.7.11
Nell’isola delle sirene fiorisce l’immortalità
di Silvia Ronchey
«Io, che non amo porre confini tra me e il mondo, ho preso la decisione di farmi giardino»
Dall’Eden alle Sirene: la serie estiva di Tuttolibri prosegue con un racconto che prende spunto dalle Argonautiche orfiche , poema bizantino posteriore alla metà del V secolo d.C. in cui il protagonista delle imprese della nave Argo non è più Giàsone ma Orfeo.
La voce narrante del racconto è quella di Bute, il cui episodio si rintraccia in Apollonio Rodio.
Estate in giardino/2 Un racconto ispirato alle Argonautiche: in viaggio sulla nave di Orfeo, cercando le creature metà fanciulle e metà pesci e il loro prato marino tra gli scogli, con gigli e viole
Ogni giardiniere sa che il principio di ogni giardino è la morte. E’ dalla putrefazione e dalla decomposizione più amara che nascono i fiori più dolci, le orchidee più delicate, le rose più profumate, le viole dalle striature più cupe, che trascinano nel vortice dello stame come al fondo del pozzo sul cui orlo si sporgono. Posso annegare in una viola, perdermi nel labirinto di un’orchidea, sciogliermi nella pura contraddizione di una rosa.
Sono affascinato dai giardini più che da ogni altra forma di bellezza, perché sono il perfetto punto di congiunzione tra la bellezza e la morte. Mi chiamo Bute, sono un viaggiatore. Prima di imbarcarmi sulla nave di Orfeo ho girato il mondo, ho visto i giardini pensili di Babilonia, gli orti che gli egizi circondano di alte mura per preservarli dalle tempeste di sabbia, i cortili minoici striati di croco. Conosco il parco dove si riuniscono i discepoli di Socrate, il recinto ombroso dei seguaci di Epicuro, i tetti fioriti in onore di Adone, i ninfei circondati di statue e le esedre traboccanti di campanule e gigli. Ho visto signori prodigarsi per le loro ville sulle coste ausonie o sulle spiagge libiche, frustare i loro giardinieri e offrire sacrifici a Flora perché le terrazze in pendio sul mare fossero tappezzate di dalie fiammeggianti come soli o di ortensie livide come lune. Gareggiavano tra loro, e con la natura genitrice di tutto. Ed erano sempre insoddisfatti.
Poi, nel sud dell’Egeo, ho visto gonfiarsi all’equinozio rose gigantesche, i cui mille petali spalancati emanavano un profumo che stordiva chiunque costeggiasse quelle rive. Ho capito che i fiori più belli non possono essere coltivati, ma devono emergere spontanei dal ciclo inesorabile dell’essere. E che per questo, se nulla può eguagliare la bellezza di un fiore selvaggio, il giardino più bello è quello il cui artefice è la morte.
Sono più goloso dell’ape attica, cara ad Atena, più vibrante dello scarabeo dal verde guscio, sacro agli egizi. Per me il sentore di un fiore è più complesso di qualsiasi melodia scaturita dal flauto o dalla lira, più plastico di qualsiasi forma scolpita da Apelle o da Fidia.
Avevo sentito parlare di un giardino, che è il giardino dei giardini. Cresce su un nudo scoglio proteso nel mare, la punta di un promontorio dove la roccia si tuffa a precipizio dall’alto. Alcuni la chiamano Anthemoessa , l’Isola dei Fiori. Come gli insetti gremiscono le rose e ronzano creando una melodia che ipnotizza e rapisce, così in questo giardino ammaliano i marinai col loro canto strane creature, per metà fanciulle, per metà pesci secondo alcuni, uccelli secondo altri, in realtà grandi insetti dalle code iridate e traslucide, come quelli che precipitano dal cielo insieme agli angeli ribelli.
Alcuni le chiamano Sirene, e il loro nome, seirén , è infatti uguale a quello che in greco designa alcune api solitarie. Secondo altri viene dal verbo seiráo , «lego», e allude al nesso tra tutte le cose, o da seirá , «catena», la grande catena dell’essere. Come che sia, la vibrazione irresistibile che emettono è in qualche modo simile alla musica degli astri. Platone, nel racconto di Er, parlando del fuso che vortica sulle ginocchia della Necessità, ha detto che l’armonia delle otto sfere celesti si fonde nel suono della voce continua, incessante delle Sirene.
Si sa che è destinato a non fare ritorno chiunque si tuffi dalla nave vinto da quel canto. Ma a vincermi non è stato
«Le piante crescono tra le rocce scoscese, si specchiano nel mare e si nutrono dei corpi dei marinai» «Il profumo di un fiore è più complesso di qualunque melodia scaturita dal flauto o dalla lira del poeta»
Il canto. Orfeo, dritto sulla prua, lo aveva messo a tacere. Con la sua cetra, che detta ordine a ogni creatura, aveva vinto e umiliato le Sirene. A paragone dell’incalzante armonia di Orfeo, il loro era diventato un gemito indistinto. Non sono stato sedotto dalle Sirene, non mi sono tuffato dalla nave per il loro canto. Volevo vedere il giardino.
I fiori che nascono nel prato tra le rocce scoscese, e si specchiano e moltiplicano nell’infinita lente del mare che l’aratro non solca, li immaginavo simili a quelli che secondo i giudei adornano il giardino dell’Eden, o forse a quelli dei cimiteri dei cristiani. Perché, come Circe ha rivelato a Odisseo, nascono da uomini marciti. Perché le sirene dalla voce di miele non si nutrono di altro animale che non sia l’uomo. Ed essere il migliore dei concimi è una delle non molte qualità che rendono superiore agli altri animali il bipede implume che chiamiamo uomo perché, stando ai latini, è fatto di terra, humus , e lì ritornerà.
Tutto va sotto terra e rientra in gioco. Un gran mucchio d’ossa, la pelle che scompare, esseri umani fusi in una spessa assenza. Nel prato marino le ossa erano in putrefazione, l’argilla rossa aveva bevuto il loro biancore e il dono di vivere era passato ai fiori. Grandi gigli purpurei, grandi gigli rosati schiudevano corolle odorose dai bordi dentellati; i calàdi dispiegavano foglie policrome filigranate d’oro bruno, cesellate d’oro verde; le viole si gonfiavano tra fogliami gladiolati; le bromeliacee rizzavano le loro spate enormi come sessi impudichi. Intorno, il cielo cantava all’anima consunta gli scogli mutati in rumore. Come diceva il mio compagno di remi sulla nave di Orfeo, anche noi saremmo divenuti canto.
E’ così che ho deciso di farmi divorare, perché la decomposizione del mio imperfetto corpo mortale contribuisse alla perfezione dell’unica bellezza immortale, che a ogni stagione si ricrea sempre sublime e mai uguale: la bellezza del giardino.
Credetemi, è questa l’immortalità. Non quella di Odisseo, che alle Sirene ha resistito spalmando le orecchie di cera. Non quella di Giàsone, che ha evitato l’Isola dei Fiori per conquistare il Vello d’Oro. Loro sopravvivono nei versi dei poeti, ma sono carta, segno, effigie, immagine di un’immagine — io disprezzo la letteratura. Io mi sono dato alle Sirene come il Buddha alle tigri. Narciso, che amava se stesso, è diventato un fiore. Io, che non amo porre confini tra me e il mondo, mi sono fatto giardino.
Corriere della Sera 9.7.11
Se anche i bambini capiscono la filosofia
Fin dall’asilo la loro logica è razionale, ma aperta a molti altri mondi possibili
di Franca Porciani
Giada, tre anni, poco più, disegna la sua ombra a terra in posizione rovesciata, con gli stessi dettagli essenziali e le stesse proporzioni di lei «vera» . Così piccola, già intuisce le leggi della prospettiva e riesce ad elaborare un’idea dell’ombra come il doppio di se stessa. Una testimonianza raccolta dalla psicologa Tilde Giani Gallino che ben rende quella rivoluzione culturale degli ultimi decenni che ha fatto scoprire i bambini «veri» , quegli stessi che solo vent’anni prima erano ritenuti irrazionali e capaci soltanto di pensieri concreti, immediati e limitati. Ci si è (finalmente) accorti che quell’infanzia è estremamente fantasiosa, ma riesce anche a elaborare concetti filosofici e pensieri astratti. Chi sta mandando in soffitta Jean Piaget e le sue idee riduttive sul mondo infantile, idee che peraltro hanno dominato per mezzo secolo (il bambino è un adulto imperfetto) è una nuova corrente di pensiero che annovera, fra i suoi sostenitori, psicologi, neuroscienziati, pediatri, filosofi, di qua e di là dall’Atlantico. Gente che ha osservato per ore e ore i bambini sotto i cinque anni di vita nel loro ambiente abituale, la casa e l’asilo, senza pregiudizi e idee preformate. È il caso di Alison Gopnik, psicologa dell’università della California a Berkeley, che ha dedicato anni allo studio dell’apprendimento infantile arrivando a conclusioni raccolte adesso in un libro, Il bambino filosofo, appena uscito in Italia per Bollati Boringhieri. Un lungo percorso che le permette di affermare: «Esiste una divisione di compiti dovuta all’evoluzione tra bambini e adulti. I primi irrealisti e per nulla pragmatici, occupano il dipartimento di ricerca e sviluppo della specie umana; praticamente, il reparto genio e sregolatezza. Noi adulti siamo la p r o d u z i o n e e i l marketing. A loro si devono le scoperte, a noi l’implementazione. A loro vengono un milione di idee nuove; noi ne scegliamo tre o quattro, e le mettiamo in pratica» . Le tecniche più recenti di neuroimaging hanno fornito una spiegazione scientifica (interessante soprattutto per i neuroscienziati): il cervello dei bambini è più ricco di connessioni di quello degli adulti e i percorsi neurali disponibili, ovvero le connessioni fra le cellule nervose, sono più numerosi («la sua mappa ricorda una città vecchia come Parigi, piena di stradine interconnesse» esemplifica la Gopnik). Quando cresciamo il cervello sfronda i percorsi meno battuti e ne rinforza altri che diventano più efficienti. Sta di fatto che i bambini mostrano un’irrefrenabile voglia di «far finta» , inventando continuamente mondi immaginari; una finzione di cui sono ben consapevoli, secondo la psicologa americana, come sono altrettanto convinti che il mondo reale non sia il più importante. La loro immaginazione persegue percorsi logici, pari a quelli di un adulto, ma diversi. Come spiega Tilde Giani Galino, professore di psicologia dello sviluppo all’università di Torino, autrice di molti libri tra i quali Il sistema bambino (ancora Bollati Boringhieri editore): «Uno studio che ho fatto qualche anno fa su 500 bambini all’asilo, ha rivelato come la loro logica sia assolutamente razionale, ma «non limitata» al mondo reale. Ecco qualche invenzione: per andare in vacanza è comoda la casa con le ali (niente pacchi e valigie!); per stare sempre al fresco, che c’è di meglio di un albero con le ruote che ci segue dove vogliamo? E che bella invenzione la macchina per tirare le palle di neve! Evita che ci si intirizziscano le mani. Soluzioni ingegnose e originali che rivelano una grande capacità di interrogarsi e di dare risposte» . Altrettanto interessanti le ricerche della psicologa torinese sui bambini e l’ombra -un lungo lavoro riportato nel libro Il bambino e i suoi doppi, pubblicato da Bollati Boringhieri -che lei ci racconta così: «I bambini piccoli sanno già molto di loro stessi, ma non hanno ancora un linguaggio adeguato per esprimersi: il disegno diventa un buon strumento di dialogo. L’ombra ad esempio, viene vista come capace di vita autonoma anche se è tratteggiata antropomorfa, o meglio bambinomorfa. Eccola, allora, nera ma con gli occhi azzurri come il bambino cui appartiene (se ci vede, non va a sbattere!), o come una sagoma rovesciata, ma ben attaccata a piedi (così non scappa come succede a Peter Pan!), oppure raffigurata di profilo, assolutamente identica al bambino, il suo doppio, insomma» . Precisa Alison Gopnik: «La domanda che si ponevano Platone e altri filosofi era: "Come facciamo a sapere così tanto del mondo?"La risposta è che i metodi di sperimentazione sembrano programmati nel nostro cervello fin dalla nascita. È grazie a questi programmi se i bambini, e tutti noi, possiamo scoprire la verità» . Ne è convinta Nicla Vassallo, docente di filosofia teoretica all’università di Genova: «Il bambino ha un profondo bisogno di conoscenza speculativa: lo dimostra il successo, anche in Italia, degli esperimenti mentali adottati in varie scuole che si rifanno alla Philosophy for children, progetto educativo elaborato negli anni Settanta dal filosofo americano Matthew Lipman, che utilizza racconti (tradotti in Italia dall’editore Liguori, ndr) in cui i protagonisti, bambini, adolescenti, adulti dialogano su questioni di natura filosofica. Un esperimento mentale noto è quello del genio maligno di Cartesio, tratto dalle Meditazioni metafisiche, ovvero il dubbio che la realtà sia tutta un sogno, che un genio maligno inganni su ogni cosa» . Storia quest’ultima che il filosofo francese Jean Paul Mongin, direttore in Francia della collana Les Petits Platons ha scritto per i bambini in un libro illustrato, pubblicato in Italia da Isbn. Stesso editore anche per i libri (l’ultimo, Il concetto di Dio) di Oscar Brenifier, ormai famoso in tutto in mondo per i suoi atelier filosofici.
Repubblica 9.7.11
Vasari
Gli Uffizi celebrano fino al 30 ottobre il loro "autore" e la Firenze di Cosimo I
Tra quadri e disegni, c’è spazio anche per una serie di ricostruzioni virtuali
Dai dipinti ai progetti in 3D i cinquecento anni dell´artista che mise in scena l’architettura
FIRENZE. Nell´Italia delle mille e una mostra, Firenze – e gli Uffizi in particolare – non poteva certo esimersi dal celebrare con un´esposizione il quinto centenario della nascita di Giorgio Vasari (1511-1574), massimo artefice storiografico dell´idea del primato toscano nelle arti del disegno e autore, tra l´altro, proprio degli Uffizi, ovvero di quel mirabile dispositivo architettonico a scala urbana, originariamente pensato per ospitare gli uffici amministrativi del Granducato (di qui il nome), che unificando, sia idealmente che concretamente, le due residenze di Cosimo I – Palazzo Vecchio, sede del governo, e Palazzo Pitti, dimora privata di là d´Arno – è la più geniale invenzione urbanistica dell´assolutismo mediceo e, al tempo stesso, la sua più pregnante icona, che ne incarna alla perfezione il carattere occhiutamente accentratore.
Mettendo la sua consumata esperienza di realizzatore di apparati effimeri al servizio dell´esigenza del granduca di forgiare simboli identitari forti, capaci di rinsaldare la propria presa egemonica su una compagine statale nata sulle ceneri di conflitti secolari e con ferite ancora non cicatrizzate, Vasari ha infatti realizzato con gli Uffizi una sorta di scenografia permanente, concepita, sulla scia delle famose "mutazioni a vista" degli scenari di commedia fiorentini, come un reversibile cannocchiale prospettico, dal quale, se ci si volge verso l´Arno, si traguardano il fiume e le colline inquadrati da una spettacolare serliana, ma se si fa dietrofront è la piazza della Signoria, con le sue spettacolari emergenze – Palazzo Vecchio, la cupola di Brunelleschi, il campanile giottesco – a offrirsi come esaltante fondale riassuntivo delle glorie fiorentine. Che poi, a pochi anni dalla quasi contemporanea morte di Cosimo I e di Vasari, i diretti eredi del granduca abbiano felicemente trasformato questa struttura urbana ad altissima densità simbolica nella Galleria in cui esibire in bell´ordine le proprie eccezionali raccolte d´arte, è un´ulteriore dimostrazione, da un lato, che una componente fondamentale della genialità architettonica vasariana è proprio la duttilità, la flessibilità d´uso; dall´altro, che se fin dal Medioevo a Firenze la produzione artistica, con annessi settori artigianali, costituiva uno dei motori principali dell´attività economica e una fonte di grande prestigio internazionale, questo processo con l´assolutismo mediceo finì per compenetrarsi talmente con le strutture economiche e simboliche del Granducato, da trasformare l´arte nel più solido architrave del regime: un´"industria di stato", oculatamente incentivata e protetta, con effetti così duraturi da modellare per sempre il ruolo esercitato da Firenze e dalla Toscana nell´immaginario collettivo globalizzato.
Non sempre le esposizioni eseguite "per dovere d´ufficio" riescono bene, né è facile, com´è arcinoto, "mettere in mostra" l´architettura. A maggior ragione, va pertanto riconosciuto a chi l´ha ideata e curata (in primis a Claudia Conforti e ad Antonio Natali) il godibilissimo esito della rassegna odierna (Vasari, gli Uffizi e il Duca, Galleria degli Uffizi, fino al 30 ottobre), ottenuto grazie a una sapiente miscela di quella sagace versatilità e duttile intelligenza pratica che furono le doti maggiori dell´artista cui è rivolto l´omaggio espositivo. Antonio Godoli, autore dell´allestimento, ha saputo sfruttare l´intrigante circostanza che il principale contenuto della mostra coincida con il suo contenitore, aprendo funzionali feritoie e affacci a sorpresa sull´esterno e non mancando di invogliare il pubblico a verificare lo spettacolare ribaltamento prospettico città-campagna inventato da Vasari, con un´apposita postazione apprestata sul verone. Ricorrendo, ma con giudizio, a strumenti multimediali, si è potuto evocare i modelli concreti dell´architettura romana e veneziana cui Vasari si è ispirato e perfino, attraverso un efficacissimo rendering a 3D, di ricostruire progetti alternativi mai messi in opera. Ma l´uso del linguaggio virtuale non è mai disgiunto dall´esibizione di preziosi manufatti (disegni, sculture antiche e moderne, dipinti, arazzi, perfino una sbalorditiva sequenza di magnifiche porte intagliate delle antiche Magistrature ospitate negli Uffizi), che ci riportano alla dimensione fattuale, concreta delle opere d´arte. Grazie a questo dosato mix di virtuale e reale, lo sguardo del visitatore si allarga a tutte le altre imprese con cui Vasari, da versatile factotum qual era, soddisfece con prontezza, ma anche con un pizzico di autonomia intellettuale, le esigenze autorappresentative del suo granduca (senza trascurare le proprie). A cominciare dal Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio dove l´artista, coadiuvato da uno stuolo di allievi e iconografi, ha rappresentato l´edificazione, battaglia dopo battaglia, dello Stato mediceo, coronandola al centro del soffitto con un tondo in cui Cosimo vigila dall´alto sul suo Stato, godendosi in eterno la propria apoteosi, mentre la città di Firenze e i suoi sudditi lo incoronano.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
venerdì 8 luglio 2011
l’Unità 8.7.11
Il segretario convoca una Direzione ad hoc sulla legge elettorale e invita di nuovo al passo indietro
Ma Veltroni, Parisi e Castagnetti incontrano Di Pietro, pronto a sostenere il quesito pro-Mattarellum
Referendum stop di Bersani
«Irresponsabile dividere il Pd»
Bersani convoca la Direzione del Pd per discutere di legge elettorale e lancia ai dirigenti che stanno sostenendo i referendum un ammonimento: «Da irresponsabili creare divisioni interne al partito».
di Simone Collini
Una Direzione ad hoc, il 19 mattina, per avere il pronunciamento formale che il Pd sostiene una ben precisa legge elettorale, e poi la sera stessa una riunione con il gruppo di presidenza del Senato per depositare il testo in Parlamento. Pier Luigi Bersani avrebbe volentieri fatto a meno di un partito spaccato su due fronti referendari per superare il «Porcellum». «È da irresponsabili creare delle divisioni interne al partito, per di più in un momento in cui all’ordine del giorno ci sono altre importanti questioni», si è sfogato il leader del Pd nei colloqui avuti ieri. Per questo ora Bersani vuole accelerare per porre fine alla vicenda, chiedendo ancora una volta ai dirigenti democratici di lasciare alla società civile lo strumento referendario e di impegnarsi nelle sedi giuste per andare oltre la «porcata» di Calderoli. Ovvero, negli organismi del partito e poi alla Camera e al Senato: «Il Pd non si deve occupare di referendum ma fare ciò che è giusto, ossia politica in Parlamento».
Così ieri il segretario del Pd ha evitato di commentare pubblicamente la visita fatta da Walter Veltroni, Arturo Parisi e Pierluigi Castagnetti ad Antonio Di Pietro nel suo studio a Montecitorio (l’ex pm avrebbe garantito l’impegno dell’Idv a sostegno del referendum pro-Mattarellum) che pure non gli ha fatto troppo piacere. E invece ha convocato per il 19 mattina (da domani a giovedì sarà impegnato in un viaggio in Medio Oriente) una Direzione per avere il via libera formale alla bozza discussa nei giorni scorsi in una riunione dei big (che prevede una quota prevalente di seggi attribuita in collegi uninominali maggioritari a doppio turno e una quota minore assegnata col proporzionale) e concordando con Anna Finocchiaro che quella sera stessa il gruppo del Pd depositerà in Senato una proposta di legge su quel modello.
DALLA CGIL NIENTE RACCOLTA DI FIRME
Bersani a questo punto teme quasi di più gli effetti di questa vicenda sul suo partito e su un elettorato che assiste sgomento a questa divisione che non i due referendum contrapposti: per quanto riguarda il primo ha ricevuto dalla Cgil una rassicurazione sul fatto che il sindacato in quanto tale non si impegnerà nella raccolta delle firme (ed effettivamente dal responsabile Organizzazione Enrico Panini arriva una conferma in questo senso), il che renderebbe complicata la raccolta delle 500 mila firme necessarie entro settembre; quanto al secondo, i giuristi con cui si è confrontato gli hanno spiegato che difficilmente la Cassazione accoglierà un referendum che punta alla cosiddetta «reviviscenza» di una legge precedente.
Ma se i due referendum in autunno potrebbero risolversi in un nulla di fatto, è certo che fino ad allora avranno effetti negativi sul partito e sul fronte delle opposizioni, che invece Bersani vuole tenere unito. La proposta di legge messa a punto dal Pd è già stata discussa con i leader di Idv, Udc e Fli, e per come è formulata potrebbe interessare anche la Lega. Ma perché la discussione possa avviarsi su solide basi, è il ragionamento di Bersani, il Pd deve dimostrarsi unito. Pensando anche, ha spiegato ai suoi, che di fronte a una crisi di governo in autunno e quindi a un voto nella primavera prossima, un confronto già aperto in Parlamento sarebbe più utile di un referendum che verrà votato solo in seguito.
l’Unità 8.7.11
Intervista a Stefano Passigli
«Le nostre firme stimolo alle Camere»
Il docente: «Quesiti nati nella società civile, non è nella mia disponibilità fermare l’iter referendario»
di Simone Collini
Il nostro referendum non nasce nel Pd», dice Stefano Passigli tirandosi fuori dalla «guerra interna» ai Democratici e spiegando di non sentirsi investito dall’appello di Bersani a fermare la macchina avviata. «C’è un referendum nato nella società civile e c’è un comitato promotore trasversale dice il docente universitario non è nella mia disponibilità fermare alcunché».
Neanche se il Pd presenta in Parlamento una proposta di legge elettorale che punta a superare il “Porcellum”?
«Salvo alcuni particolari, apprezzo il modello messo a punto dal Pd, che prevede il doppio turno, e ho sempre pensato che il referendum si pone come stimolo al Parlamento, non fornisce la soluzione finale. Ma finché la situazione rimarrà questa, noi raccoglieremo le firme».
Chi critica il vostro referendum sostiene che eliminando il premio di maggioranza non garantisce governi stabili: come risponde?
«Che né la legge attuale né il Mattarellum si sono dimostrate in grado di garantirli. E anzi prevedendo il turno unico hanno obbligato le coalizioni a cercare fino all’ultimo voto, cioè alla disomogeneità e al potere di ricatto da parte dei piccoli partiti».
I critici dicono anche che non è vero che il vostro referendum farebbe superare le liste bloccate. «Non è così. Anzi, io sono disponibile a sedermi al tavolo con chi sostiene di volere una legge che non preveda liste bloccate e discutere per cercare una convergenza. Se da parte di altri arriva la stessa disponibilità, il nostro comitato promotore potrebbe anche fermare per qualche giorno la raccolta delle firme. Possiamo anche pensare a una strategia comune».
Tutti nel centrosinistra contestano le liste bloccate. «Non direi, se c’è ancora chi propone il ritorno al Mattarellum. Che ci siano liste di candidati o collegi, sono sempre le segreterie dei partiti a dare le carte, a mettere ai primi posti qualcuno piuttosto che un altro, a candidare in un collegio più facile qualcuno piuttosto che un altro. Ma noi adesso dobbiamo ridare ai cittadini la possibilità di scegliere la classe politica. Quanto avvenuto negli ultimi mesi, dal movimento delle donne ai referendum su acqua e nucleare, ci dice che c’è una popolazione che vuole partecipare, che vuole tornare a decidere. Non vorrei che il vero obiettivo del secondo comitato referendario sia mettere sabbia nel nostro motore. Rompere ora il rapporto tra classe politica e cittadinanza sarebbe molto grave».
E tornare a un sistema proporzionale puro no? Il secondo comitato referendario sostiene che col vostro referendum si torna alla Prima Repubblica e si supera il bipolarismo.
«In tutta Europa ci sono leggi proporzionali alle quali corrisponde una divisione bipolare. A parte la Francia, che ha un sistema presidenziale, l’unica eccezione è l’Inghilterra, nella quale al maggioritario corrisponde un tripolarismo e la formazione di coalizioni soltanto dopo le elezioni. È falso che per avere il bipolarismo sia necessario il sistema maggiortario».
S.C.
l’Unità 8.7.11
Intervista a Salvatore Vassallo
«Il Mattarellum è la risposta giusta»
Il costituzionalista: «Tornare al proporzionale puro sarebbe un errore»
di Maria Zegarelli
Salvatore Vassallo, costituzionalista, parlamentare Pd, difende il referendum pro-Mattarellum, «tanto più necessario se si dovesse fare quello Passigli». Vassallo, proprio sicuro che i quesiti facciano risorgere il Mattarellum? «È sempre difficile prevedere la valutazione della Corte sui quesiti in generale ed in particolare di quelli che riguardano il sistema elettorale». Quindi qualche dubbio lo avete anche voi?
«Noi con i nostri quesiti diciamo in modo evidente e inequivocabile che l’intenzione è quella di abrogare la legge del 2005 per far rivivere le norme che il Porcellum aveva abrogato o modificato. Questo è abbastanza semplice da capire per chiunque, speriamo che la Consulta possa prendere atto della linearità del quesito e lo possa rendere ammissibile».
Passigli vi accusa di agire contro di lui e ritiene sia una truffa dire che con il proporzionale sparisce il bipolarismo. D’altra parte in Germania è così. «Ci sono diversi sistemi proporzionali. Anche quello che lui considera un punto di riferimento, cioè quello tedesco, nel contesto italiano porterebbe con tutta probabilità in una dinamica non bipolare, nella quale gli elettori non capirebbero per quale maggioranza stanno votando. In Germania storicamente si è consolidato un sistema basato sostanzialmente su due partiti, inoltre quel sistema ha una componente maggioritaria data dal fatto che una metà dei seggi viene assegnata in collegi uninominali. Il sistema elettorale che verrebbe fuori dal referendum Passigli è puramente proporzionale su liste di partito lunghissime e certamente bloccate. Sono sicuro, infatti, che è inammissibile il quesito che ha utilizzato come richiamo per portare consensi alla sua iniziativa, proprio quello sulle liste bloccate».
Il quesito su cui Passigli vi invita a raccogliere le firme insieme per abolire le liste bloccate. Lei sostiene che non verrà accolto? «Ritengo che quello sia un quesito con larghissima probabilità inammissibile e peraltro non è detto che il voto di preferenza sia la soluzione migliore alle liste bloccate. Lo avevamo nella prima Repubblica e abbiamo sperimentato tutti i suoi difetti, tanto che lo abbiamo voluto evitare adottando il collegio uninominale. E quello che ci proponiamo con il nostro referendum è proprio di ripristinare il collegio uninominale».
Se Passigli ritira i suoi quesiti i pro-Mattarellum che faranno? «Queste sono operazioni collettive che per essere smontate richiedono una decisione collettiva». Bersani invita tutti a fare un passo indietro. Dice che il Pd ha una sua proposta e che spetta al Parlamento fare la legge elettorale.
«Noi abbiamo un obbligo morale fortissimo nei confronti dei cittadini italiani a non riportarli al voto con questo sistema elettorale. Se il Parlamento da qui alla primavera prossima è in grado di fare una riforma elettorale non c’è alcun bisogno del referendum e noi parlamentari avremmo assolto la nostra funzione».
Repubblica 8.7.11
Referendum, Veltroni non segue l´alt di Bersani
Intesa con l´Idv per il Mattarellum. Il segretario: distinguere costi politica e istituzioni
Il segretario democratico: il Pd non si deve occupare di referendum ma fare politica in Parlamento
di G. D. M.
ROMA - Antonio Di Pietro ha incontrato ieri alcuni promotori del referendum per il ritorno al "mattarellum". E a Walter Veltroni, Arturo Parisi, Pierluigi Castagnetti e Giovanni Bachelet, il leader dell´Idv avrebbe promesso un sostegno ai loro quesiti. Nel duello dentro il Partito democratico s´inserisce anche un terzo incomodo. Dalla parte di Veltroni e contro Bersani.
Della legge elettorale i democratici parleranno nella direzione convocata per il 19. In quella sede il Pd dovrebbe partorire una sua proposta articolata che sia in grado di disinnescare i quesiti pro Mattarellum e quelli promossi da Passigli per un ritorno al proporzionale. Sandro Gozi propone di arrivare a una scelta netta e chiara. Cioè a unta conta. «Il 19 Bersani mette ai voti la proposta del partito. La spedisca ai membri della direzione ai deputati con qualche giorno di anticipo e poi si decida». Ma i giorni che mancano a quell´appuntamento moltiplicheranno le prese di posizione e le distanze. O almeno rischiano di farlo. Dice Marco Follini schierandosi: «Mi convince e di più il ragionamento di Passigli rispetto a quello dei nostalgici del Mattarellum: mi pare più coerente con la natura di repubblica parlamentare che ci è cara. Però penso che la legge elettorale è un´impresa a due mani tra maggioranza e opposizione».
Bersani cerca la mediazione. «Noi del Pd abbiamo un progetto riguardo alla riforma elettorale che voteremo in direzione. Si tratta di un meccanismo maggioritario ma non come il Porcellum che come si sa permette di vincere con il 34% dei consensi; tutto ciò è demenziale e pericolosissimo». E ribadisce: «Il Pd non si deve occupare di referendum ma fare ciò che è giusto ossia politica in Parlamento».
L´altro tema caldo per il Pd è il voto sulle province dell´altro ieri. In aula a Montecitorio il Pd si è astenuto su un provvedimento di abolizione dell´Italia dei valori. E di fatto, insieme con la maggioranza, ha salvato quegli enti locali. Si è fatto notare che su 110 province ben 40 sono governate da dirigenti democratici. Ma Pier Luigi Bersani reagisce al sospetto di un conflitto d´interessi. «Ma confondere i costi della politica con il tema delle istituzioni, come si sta facendo in una confusa discussione sulle province, è un nonsenso. Di questo passo si potrebbe arrivare a reintrodurre la figura dei podestà, tanto per risparmiare». Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti si schiera con il voto del suo partito alla Camera: «Sciogliere una provincia non porta risparmi, a differenza di quanto di solito si dice. Il tema su cui ragionare dovrà essere: chi farà quello che oggi propone la provincia se la si scioglie? Bisogna garantire ai cittadini gli stessi servizi di prima. Forse bisognerebbe tagliare cose molto più oscure e meno conosciute, che pesano davvero sul bilancio dello stato». Agli attacchi del Pd però Di Pietro risponde così: «Il Pd ammetta l´errore invece di accusarci di demagogia».
(g.d.m.)
l’Unità 8.7.11
Province, sì o no? Parliamone ma senza demagogia
I presidenti Pd scrivono a l’Unità dopo il voto alla Camera sulla proposta Idv per l’abolizione
Abbiamo assistito in questi giorni ad un dibattito sulla cancellazione delle Province intriso di demagogia e di superficialità.
I cittadini e le imprese ci chiedono di riformare con coraggio la pubblica amministrazione per renderla più snella ed efficiente e per consentire al Paese riforme ormai non più rinviabili. Tutto ciò è tema che riguarda seriamente il Partito Democratico e la sua capacità di collocarsi in modo convincente sul terreno delle riforme, spiegando ai cittadini ciò che intende fare e soprattutto ciò che farà al governo del Paese. Per questo la scelta del Partito di non sostenere l’ipotesi demagogica dell’Idv e dei centristi, volta solo all’incasso di un consenso a breve, ci convince.
Di fronte alla presa di posizione di autorevoli esponenti del nostro partito, per “amor di verità” crediamo di dover richiamare il nostro programma elettorale del 2008, che come Presidenti di Provincia abbiamo condiviso e che prevedeva l’eliminazione entro 1 anno di tutti gli ATO, settoriali e non, attribuendo le loro competenze alle Province. Si prevedeva inoltre l’eliminazione delle Province là dove si costituiranno le aree metropolitane.
Mai, come Presidenti di Provincia, abbiamo attestato l’associazione della quale facciamo parte, su posizioni di difesa acritica dell’attuale sistema istituzionale.
Crediamo però che un grande partito abbia il dovere di spiegare ai cittadini quale Paese ha in mente. Peraltro, mentre ragioniamo di tutto ciò, il Parlamento si appresta ad approvare la Carta delle Autonomie, testo fondamentale per l’attuazione del federalismo, perché in esso vengono definite le funzioni fondamentali di Comuni e Province; in pratica il “chi fa che cosa” nel sistema delle autonomie locali. Le Associazioni delle autonomie e le Regioni hanno suggerito soluzioni diverse, ognuna a difesa del livello di governo che rappresentano, ed il Governo ha compiuto una difficile mediazione. Siamo sicuri che quel testo non debba essere più preciso per evitare ogni sovrapposizione di competenze, definendo con esattezza il mestiere di ciascuno, per rendere la vita più semplice ai cittadini e alle imprese, e rendere possibili significativi risparmi, semplicemente evitando che tutti facciamo le stesse cose? E, visto che si parla solo di Comuni e Province, non è il caso che le Regioni facciano la stessa cosa, evitando di distribuire in modo irrazionale o, ancor peggio, di trattenere, funzioni che possono essere conferite agli enti più vicini ai cittadini, così che possano avere finalmente, per una loro esigenza, un solo interlocutore?
E allora qualche domanda è legittima.
L’abolizione delle Province porta con sé l’abolizione dei capoluoghi e quindi l’eliminazione di prefetture, questure, uffici decentrati dello Stato e delle Regioni?
Si vuole cioè concentrare il potere e l’economia pubblica in venti città e non più in cento città italiane?
Si vogliono eliminare soltanto le Province e lasciare organizzati lo Stato e le Regioni come adesso e quindi, di fatto, spostare a livello Regionale compiti, funzioni e personale, vista la oggettiva difficoltà di trasferire ai Comuni competenze di area vasta?
Se fosse così 50.000 dipendenti residenti in quasi tutti gli oltre 8.000 comuni italiani, che svolgono per la gran parte funzioni legate al territorio, rimarrebbero irrimediabilmente nelle Province e le Regioni non potrebbero far altro che costituire agenzie, società e sovrastrutture con costi facilmente immaginabili.
Al di là della demagogia è arrivato il tempo delle proposte serie. Su di esse i Presidenti di Provincia saranno al tavolo di chi vuole riformare profondamente l’Italia: presto, bene e con coraggio, senza posizioni pregiudiziali e pronti a condividere scelte che riguardino anche e soprattutto le Province. Quello che non è tollerabile è la continua delegittimazione di rappresentanti delle istituzioni, eletti dai cittadini e che in trincea si confrontano quotidianamente con le difficoltà che stiamo attraversando.
Al Partito Democratico chiediamo di scegliere subito la strada da percorrere, strada di riforme profonde che può e deve riguardare tutti i livelli istituzionali del Paese.
Il centrodestra in lunghi anni di governo non ne è stato capace, sta a noi dimostrare che riformare le istituzioni seriamente è possibile.
I PRESIDENTI DI PROVINCIA PD DELL’UNIONE DELLE PROVINCE D’ITALIA:
ANTONIO SAITTA (TORINO) NICOLA ZINGARETTI (ROMA) FABIO MELILLI (RIETI) ANDREA BARDUCCI (FIRENZE) BEATRICE DRAGHETTI (BOLOGNA) GIOVANNI FLORIDO (TARANTO) PIERO LACORAZZA (POTENZA)
Repubblica 8.7.11
Mi indigno io
Il capogruppo difende la linea del Pd: l’abolizione è solo una bandiera
"Walter voleva tenere le Province sbagliato dare segnali demagogici"
Franceschini: agli elettori dobbiamo dire la verità
di Goffredo De Marchis
Il ruolo di questi enti fa parte della riorganizzazione dello Stato non del tema dei costi della politica
Sono io che mi indigno di fronte alle critiche. Un legislatore non segue gli umori, guarda all’efficienza
ROMA - Onorevole Franceschini, il Pd poteva dimostrare di avere a cuore il taglio dei costi della politica abolendo le province. Invece, nel voto di martedì mercoledì le ha salvate.
«Tutte sciocchezze. Il ruolo e la soppressione delle province fanno parte di un tema che si chiama riorganizzazione dello stato non del tema costi della politica».
I commentatori e soprattutto i militanti la pensano in modo diverso. Il sito del Pd straripa di critiche per la vostra astensione.
«Allora spieghiamo bene cosa è successo. Ai nostri militanti, prima ancora che ai commentatori. In aula abbiamo applicato, com´è d´obbligo, il programma con cui ci siamo presentati agli elettori nel 2008. Candidato premier Veltroni e io suo vice perciò ricordo bene cosa c´è scritto in quella piattaforma. Al punto 4 si parla di attribuire più competenze alle province. Ma laddove si costituiscono città metropolitane l´ente locale va abolito. Sull´onda di quel punto, è stata presentata una proposta di legge a prima firma Bersani e prima del voto dell´altro ieri abbiamo fatto una lunga nell´assemblea del gruppo. Le nostre proposte sono di sopprimere o accorparle su scelta delle regioni. La proposta dell´Idv era una proposta purament di bandiera».
Ma non dovrebbe essere anche la vostra bandiera?
«Eliminare dalla Costituzione la parola province? Eppoi chi si occupa di strade, scuole, discariche, acqua, urbanistica»
Poteva essere un segnale.
«Io mi indigno di fronte a questo ragionamento. Un legislatore non segue gli umori, deve guardare ai costi, all´efficienza. Tanto è vero che in tutti i decreti attuativi del federalismo, un tema del quale tutti si riempiono la bocca, vengono date più risorse alle province. Il Pd propine un percorso organico di riforma della struttura dello Stato. Non vuole fare due urla e sventolare una bandiera».
Lo dovete dire ai vostri elettori che protestano in massa.
«Chi ha funzioni politiche deve fare le cose giuste, quelle possibili. Non dare un segnale. Vorrei che qualche commentatore dedicasse un po´ di tempo a leggere il provvedimento dell´Idv. Che mi dicesse se era giusta o sbagliata la proposta di Di Pietro. Sono stanco di ipocrisie. Se si vuole essere credibili per un´azione di governo bisogna assumersi delle responsabilità. Non si vota una cosa sbagliata e demagogica per mandare un segnale».
Ma era quello che i cittadini si aspettavano da voi.
«Se la gente pensa che la riduzione dei costi della politica sia la soppressione delle province noi abbiamo il dovere di spiegare che non è così. Devono essere le regioni che stabiliscono quali vanno soppresse quali vanno accorpate. Bisogna dire chi si occupa dei 60 mila dipendenti delle province italiane? Dove vanno, al cinema? E nei confronti dei nostri militanti il dovere è spiegare i fatti senno non c´è cultura di governo ed è l´abdicazione della politica. Il Partito democratico ha un programma elettorale, una proposta di legge firmata dal segretario, una delibera dell´assemblea programmatica, un´assemblea del gruppo che indicano una direzione precisa. Se il partito non vuole riaccendere il virus che ha colpito l´Ulivo, l´Unione. Anche sulla legge elettorale».
Si riferisce allo scontro tra i referendum?
«La direzione è chiamata a discutere e varare una proposta di legge sensata. Vedere che il Pd rischia di dividersi tra i sostenitori del referendum A e del referendum B è un problema. Ha fatto benissimo Bersani a richiamarsi allo spirito di squadra».
Vuole impedire ai dirigenti di appoggiare un quesito?
«Alla legge elettorale è legata la natura stessa del partito. Allora sui quesiti è giusto confrontarsi nel partito, dire la propria. Ma alla fine è altrettanto giusto sostenere la posizione comune. Altrimenti replichiamo il male che ha colpito il centrosinistra negli ultimi decenni. Si sceglie tutti insieme e il minuto dopo si va in ordine sparso».
l’Unità 8.7.11
Biotestamento, norma beffa: è vietato rifiutare le terapie
Votato un emendamento Binetti (Udc) e Barani (Pdl) per il quale si possono indicare solo i trattamenti a cui si vuole essere sottoposti ma non quelli che si rifiutano. Ristretta la platea alle persone in stato vegetativo.
di Jolanda Bufalini
Un testacoda, quelle che dovevano essere “disposizioni anticipate di trattamento” sono diventati divieti. Dice la deputata Pd Donata Lenzi: «Evidentemente si è perso il filo, tanto vale non fare alcun testamento» perché «se si va a ricostruire il testo finale, non si può fare il Dat in caso di coma permanente, le disposizioni valgono solo per l’ultimo stadio, non si possono esprimere opzioni, non si può dire no alla nutrizione forzata, quello che si scrive esprime solo un orientamento, non una volontà». Lenzi (bolognese e cristiano sociale) dà ragione al Fli Della Vedova, per il quale questo testo spalancherà le porte al contenzioso, al ricorso alla magistratura, «la maggioranza sta pensando di abolire l’ultimo articolo, quello che, dopo il comitato etico, prevede la possibilità di rivolgersi al magistrato. Ma è l’ordinamento generale che prevede questa possibilità, non il dat». Un altro testacoda, quindi, se la parlamentare d’opposizione ha ragione, poiché Fabrizio Cicchitto ha rivendicato, anche ieri, quella che definisce «un'operazione legislativa difficilissima, che alla fine riporterà la vicenda fuori dall'ordine dell'intervento di giudici e sentenza». Di più, il testamento biologico riguarda solo chi è in una condizione di «accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale». Per Eluana Englaro non si sarebbe potuto fare nulla. Ignazio Marino si rassegna all’ironia: «La maggioranza sancisca per legge il divieto di morire». Margherita Miotto, anche lei parlamentare cattolica del Pd «Qui stiamo parlando del diritto di lasciarsi morire e quindi di rinunciare a trattamenti sanitari, questo diritto è precluso dall’emendamento approvato che azzera due anni di lavoro in commissione». E se non bastasse «la validità della Dat inizia nel momento della morte corticale, che non è reversibile».
Sul testo che verrà approvato martedì alla camera ma che dovrà tornare (dopo l’estate) al senato, aleggia un referendum, Antonio Palagiano, relatore di minoranza (Idv): «Questa è una legge contro il testamento biologico, fatta per compiacere qualcuno, ma che va contro la volontà dei cittadini».
Sull’articolo 3, cuore del provvedimento perché affronta la questione di idratazione e nutrizione, si sono pronunciati in Aula Per Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini. Bersani si è rivolto al Parlamento facendo appello, con «il cuore in mano», «alla pietà verso la persona umana» dei parlamentari. Perché con questa legge «la libertà alle persone vere sarà lasciata solo da morti». La risposta di Casini al segretario del Pd è stata aperta nella forma, «nessuno può sottovalutare questo appello», ma ha sottolineato che «molti deputati Pd si sono astenuti o hanno votato con noi». Potrebbe trattarsi di una disponibilità a lavorare e smussare posizioni distanti.
Corriere della Sera 8.7.11
3.360 i pazienti in stato vegetativo in Italia
Per ognuno di loro lo Stato paga in media 165mila euro all’anno
Vietato indicare le cure rifiutate nel biotestamento
Scontro sul testo. Bersani: fermatevi
di Alessandra Arachi
ROMA — Erano due gli emendamenti della discordia all’articolo 3 sul testamento biologico, l’articolo clou di questo testo di legge. Ieri la Camera ne ha approvato uno, il 3.2020. Ma è stato sufficiente a far scoppiare la bagarre. Perché quest’emendamento, scritto da Lucio Barani (Pdl) e Paola Binetti (Udc), dice che scrivendo il proprio testamento biologico sarà possibile indicare soltanto i trattamenti cui si vuole essere sottoposti in caso di perdita di coscienza e non permette invece di scegliere quelli che non si vogliono. Praticamente si vanifica il concetto stesso di testamento biologico. Questo emendamento (approvato ieri mattina con 257 sì e 239 no) ha fatto infuriare le opposizioni e spinto il segretario del Pd Pier Luigi Bersani a fare una richiesta accorata: «Mi appello alla nostra comune umanità e alla pietà verso la persona umana che abbiamo imparato dai nostri padri e dalle nostre madri. Fermiamoci. Continuando ad approvare emendamenti annunciati si arriverà al punto che il legislatore dirà a una persona che potrà essere libera dalla tecnica, dalle macchine e dai tubi soltanto quando sarà morta e potranno essere avviate le procedure per il trapianto» . A Bersani ha risposto Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl. Già l’altro ieri i due avevano battibeccato sugli stessi punti del disegno di legge e ieri Cicchitto ha affondato: «La verità è che se non ci fosse stata la battaglia di Beppino Englaro con sua figlia Eluana non staremmo qui a discutere un testo di legge. Quella battaglia ha innescato un meccanismo giudiziario con sentenze di giudici anche contraddittorie. Ecco quindi cosa stiamo facendo in Parlamento: un percorso non scelto, ma obbligato da una sentenza» . La votazione a Montecitorio ieri si è interrotta all’ora di pranzo, a metà degli emendamenti all’articolo 3. Prima di votare il secondo emendamento che farà ancora più discutere la prossima settimana: l’idratazione e la nutrizione. Si può interrompere oppure no per un malato terminale? L’emendamento 3.3001, presentato dal relatore della legge, dice un no secco e fa fare un passo indietro rispetto alla mediazione raggiunta in commissione, e chiude la strada a qualsiasi compromesso con l’opposizione. «Mi auguro che in questi giorni non ci siano nuovi scontri, ma un lavoro comune con grande equilibrio» , prova a calmare gli animi Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc. E aggiunge: «Nessuno sottovaluti l’appello di Bersani di cui apprezzo lo spirito, ma si ricordi che in questi due giorni ho visto un grande senso di responsabilità e toni di reciproco rispetto e pacatezza. Non è un caso che molti gruppi, anche il mio, abbiano dato libertà di coscienza ai parlamentari» . Sul tema è intervenuto anche l’Osservatore Romano con un articolo intitolato: «Uccidiamo solo la sofferenza» . Il testo tornerà in aula alla Camera martedì prossimo, si devono ancora votare sei articoli e mezzo.
Repubblica 8.7.11
Biotestamento, siamo noi i padroni della nostra vita
di Umberto Veronesi
Per chi esprime il pensiero laico della società civile, al di fuori delle ideologie e delle fedi, i sentimenti di fronte alla legge sul biotestamento in via di approvazione alla Camera sono essenzialmente due: stupore e incredulità. Non capiamo come può il Parlamento prendere decisioni che calpestano i diritti individuali tutelati dalla Costituzione, quale quello, fondamentale, di decidere come vivere e come non vivere. E inoltre non crediamo che lo possa fare. Capiamo invece che il dibattito sulla vita, la sua qualità e la sua fine, passa attraverso dilemmi etici e filosofici, oltre che medico-scientifici, che la politica non riesce a trattare, e capiamo dunque la difficoltà per ogni singolo parlamentare nel dare un voto in piena consapevolezza e coscienza su questa materia.
Per questo la maggioranza di noi chiede di fermare l´iter legislativo, nella convinzione che l´assenza di una legge sia un male minore rispetto a una cattiva legge. La mancanza di una normativa permetterebbe a tutti, medici e cittadini, malati e famigliari, di comportarsi nel modo più appropriato, caso per caso, rispettando così al massimo l´unico punto fermo: la volontà della persona e la sua inviolabile dignità. Ci consideriamo un Paese civile e abbiamo fiducia nella nostra capacità di scelta come individui e come comunità. Inoltre siamo aiutati da strumenti condivisi anche a livello internazionale, come il nuovo codice di deontologia medica e la Convenzione di Oviedo sui diritti del malato. È vero che molti giuristi e molti medici, e io per primo, avevano auspicato una legge sul testamento biologico, come forma di tutela ulteriore della volontà della persona ed estensione naturale del Consenso Informato, già norma in Italia. Ma i fatti ci hanno purtroppo dimostrato che i tempi non sono maturi: ci siamo paradossalmente ritrovati di fronte ad un disegno di legge che, unico caso nelle democrazie avanzate, nega l´autodeterminazione dell´individuo.
Per capire il peso morale e intellettuale del tema del "fine vita", non è necessario fermarsi a meditare sulla morte. Tutti amiamo la vita, segretamente sogniamo l´immortalità e preferiamo rimuovere il pensiero della fine. Sono convinto però che la maggioranza di noi adulti è stato sfiorato da una situazione in cui ha percepito il pericolo di vita o si è domandato dove si colloca, per ognuno, l´asticella di quella vita che vale la pena di essere vissuta. Questo è il cuore del problema, così intimo, su cui il Parlamento si appresta a legiferare nel modo peggiore possibile: appropriandosi del potere di decidere per noi che cosa fare della nostra vita. Per esempio è stato approvato il "semplice" divieto di qualunque forma di eutanasia. Io mi chiedo però se i parlamentari conoscono il significato stesso del termine eutanasia. Esiste il lasciar morire (sospendere le terapie), l´aiutare a morire (aumentare le dosi di farmaco sapendo di anticipare la fine) e il far morire (indurre la morte quando richiesta). Giuridicamente c´è una grande differenza, ma eticamente no. Tutti e tre questi atti hanno lo stesso risultato: soddisfare il desiderio di una persona di mettere fine a una vita che egli giudica insopportabile per il dolore e non più dignitosa. Il legislatore dovrebbe dunque specificare cosa intende. Ad esempio il lasciar morire è ammesso anche dalla Chiesa: questo fu il caso infatti di papa Wojtyla ed anche l´aiutare a morire è stato considerato legittimo da papa Pio XII, come appare nel suo discorso al Congresso nazionale degli anestesisti del 1957.
Il testamento biologico, poi, è ancora più confuso. È nato come strumento di autodeterminazione, per dare la possibilità ai cittadini di dire no, se lo desiderano, alla vita artificiale: lo stato vegetativo permanente in cui un corpo può restare indefinitamente senza coscienza, senza vista, senza udito, senza gusto, appunto come una pianta. La legge attuale, invece, rendendo obbligatoria l´idratazione e alimentazione artificiale, che sono le condizioni di mantenimento dello stato vegetativo, di fatto ci impone la vita artificiale, che lo vogliamo o no. Tutto il mondo civile ha scelto un criterio per semplificare la complessità delle scelte che riguardano la vita individuale: la volontà della persona. In molti, in Italia, pensiamo che dovremmo adottarlo anche noi.
Repubblica 8.7.11
I padroni della vita
Dopo 20 anni di dibattiti e altrettante proposte, la Camera sta per approvare una legge sul biotestamento. Contestata dai laici e dai medici
di Maria Novella De Luca
Coscioni: il testo è nato sull´onda del caso Englaro per non lasciare il verdetto ai giudici
Vent´anni di dibattiti, 15 di battaglie parlamentari, più di 20 proposte di legge. E il risultato, in dirittura d´arrivo alla Camera, è una norma che toglie al malato l´ultima libertà di scelta E allontana l´Italia dal resto d´Europa
Melazzini: gli infermi vogliono essere curati, l´unica loro paura è quella di essere abbandonati
Una legge che decide sul come e il quando. Sui confini della vita e della morte. Sul domani di chi si ritrova ad un tratto prigioniero della malattia, della disabilità, del dolore. Del non essere più padrone delle proprie funzioni più semplici. E dunque senza voce, guidato, condotto, imboccato, vestito, portato per mano, in braccio, seppure con amore e rispetto. Legato ad una macchina, ad un respiratore, ad un sondino, ad una carrozzina, ad un letto. La legge sul biotestamento che la Camera approverà (probabilmente) tra feroci polemiche la prossima settimana, racconta tutto questo. Legifera su tutto questo. Ossia sul diritto a vivere o morire di persone incatenate ad una condizione senza speranza. E ci sono voluti vent´anni di dibattiti, 15 di battaglie parlamentari, più di 20 proposte di legge.
Alla fine si è arrivati a un testo che la maggioranza definisce "storico" e l´opposizione e gran parte del mondo scientifico ritiene invece "mostruoso". Perché come ha sintetizzato in una battuta cruda eppure efficace il segretario del Pd Pierluigi Bersani, è questo ciò che dice il legislatore: «Ti libererò dalla tecnica, dalle macchine e dai tubi soltanto quando sarai morto…».
Non c´è spazio né per la scelta né per la libertà del paziente nell´attuale testo sulle "Dichiarazioni anticipate di trattamento", che vieta la sospensione dell´idratazione e della nutrizione ai pazienti anche in stato terminale, prevede che il malato possa indicare soltanto i trattamenti a cui vuole essere sottoposto in caso di perdita di coscienza ma non quelli che rifiuta. Ma soprattutto, ed è l´elemento chiave, restringe la possibilità di utilizzare le "Dichiarazioni anticipate di trattamento" soltanto quando il paziente si trovi nello stato di "morte corticale". «In realtà – spiega Maria Antonietta Coscioni, co-presidente dell´Associazione radicale che prende il nome da suo marito Luca, affetto da sclerosi laterale amiotrofica e morto nel febbraio del 2006, dopo una lunga battaglia per i diritti civili dei malati - questo è un testo deciso due anni fa, nel giorno della morte di Eluana Englaro, il 9 febbraio del 2009, quando il partito pro-life del centro destra ma non solo, decise che i giudici non potevano né dovevano più decidere se fosse legittimo o meno interrompere la nutrizione e l´alimentazione di una persona in stato vegetativo». Come Eluana appunto. Che pure era stata bella e forte e aveva più volte ripetuto che per lei quello "stato" non poteva chiamarsi vita. Ma chi può e deve decidere della nostra vita? Può la politica sancire per legge il diritto a vivere o a morire?
È lunga la storia del dibattito sul Biotestamento in Italia, ha diviso partiti e coscienze, il primo documento del Comitato Nazionale di Bioetica è del 1995, sull´onda di una discussione già attiva da anni in tutta Europa, con alcuni stati come la Danimarca che fin dal 1992 si erano dotate di una legge sul cosiddetto "living will", che dava cioè la possibilità ad alcune categorie di malati terminale di chiedere l´interruzione delle cure e del nutrimento.
«In tutti i pareri del Comitato di Bioetica – racconta il ginecologo Carlo Flamigni, che ne è tuttora membro – pur con un grande lavoro di sintesi tra laici e cattolici restava sempre aperta una porta alla libertà di scelta del paziente. Nel 2003, nel 2005, fino al 2008 quando però le cose sono cambiate, l´influenza del Vaticano si è fatta più forte, ed è passata la tesi che l´alimentazione e l´idratazione fossero non terapia ma cure dovute per alleviare la sofferenza….Tesi confutate da tutte le società scientifiche, eppure anche tra quelle posizioni già restrittive, e il testo che vedo oggi in Parlamento c´è una grande differenza. È come se di fatto si volesse fare una legge per renderla inapplicabile».
Una legge fatta di no dunque, sulla scia della legge 40 sulla fecondazione assistita, e sulla quale già si annuncia non soltanto un referendum, ma anche una valanga di ricorsi dei malati ai tribunali, e di sentenze che potrebbero, esattamente come per la legge 40, smantellarne l´intero impianto. Eppure, come precisa il medico e senatore Ignazio Marino, «il 90% degli italiani in realtà vorrebbero semplicemente poter scegliere». Decidere cioè se «utilizzare ogni tipo di tecnica presente e futura, ogni tipo di trattamento e cura pur in una condizione terminale - dice Marino, che tiene a precisare la sua fede cattolica – oppure poter decidere di interrompere lo stato di sofferenza in cui si trovano. Io so che molti cattolici condividono il mio pensiero, l´obiettivo del legislatore di destra, con una legge che autorizza le dichiarazioni anticipate di trattamento soltanto quando il paziente è praticamente morto, è quello di far fallire la legge sul Biotestamento. Quanti italiani andranno a depositare il loro testamento biologico, rinnovandolo ogni tre anni, sapendo che tanto l´ultima parola è del medico e che la loro voce non conta? Forse – conclude Marino anche lui con una battuta grottesca – forse a questo punto la maggioranza dovrebbe introdurre un emendamento che sancisca per legge il divieto di morire, introducendo magari l´obbligo di cure per i deceduti…».
Eppure, al di fuori della battaglia politica, e con toni pacati, c´è chi questa legge la difende. E la sua voce va ascoltata, perché Mario Melazzini, oncologo famoso e oggi presidente dell´Aisla, l´Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica, la malattia la vive sulla propria pelle. Aveva poco più di 40 anni Mario Melazzini, sposato felicemente e con tre figli, quando nel 2002 gli viene diagnosticata la Sla. Da medico Melazzini diventa paziente, attraversa il dolore, la disperazione, la paura, la sofferenza, la voglia di morire prima di ritrovarsi in carrozzina, del tutto dipendente dall´aiuto degli altri. «Invece ad un certo punto – racconta Melazzini – ho deciso che volevo e potevo convivere con la malattia, che volevo e potevo essere nutrito con un sondino, non la ritengo una violazione del mio corpo, da sempre mi occupo dei malati più gravi, quelli oncologici, nessuno mi ha mai chiesto di aiutarlo ad "andare via". I malati vogliono essere curati, l´unica loro paura è quella di essere abbandonati. Ritengo indispensabile che in Italia ci sia una legge sul fine vita, e ritengo giusto non interrompere l´idratazione e la nutrizione, che sono strumenti di supporto vitale per non inasprire le sofferenze dei malati e non sono certo cure. E difendo anche il ruolo decisionale del medico, che si fa carico del paziente, e di fronte ad alcune scelte può anche dire no… Perché magari dal momento in cui il malato ha scritto le proprie volontà a quando la malattia si manifesta potrebbero essere arrivate nuove terapie, nuovi farmaci che possono aiutare quel paziente non a prolungare la sua sofferenza, ma a stare meglio. E il medico deve agire».
Melazzini ha scelto. Molti altri pazienti non possono scegliere perché da tempo hanno perso il dono della lucidità o perché invece quel loro volere non possono esprimerlo, imprigionati in corpi senza voce e senza più forze. Da mesi in realtà gli stessi medici, e soprattutto i rianimatori, esprimono le loro perplessità su questo testo di legge (inasprito anche rispetto alle altre versioni votate dal centrodestra) al ministro Fazio, di fronte ad un corpus di norme che li rende enormemente responsabili. Racconta un medico anestesista di un famoso nosocomio romano: «Ci sono pazienti che si attaccano anche all´ultimo soffio di vita, altri che invece te lo chiedono con la voce, con gli occhi, con le mani: voglio la pace, voglio andare via…Non sarebbe giusto che potessero scegliere?».
Repubblica 8.7.11
Mina Welby: gli accordi per ottenere il plauso della Chiesa contano più delle persone
"Raccoglieremo firme per il referendum e da martedì partiranno i primi ricorsi"
di Caterina Pasolini
«Sono inorridita» dice Mina Welby. È lapidaria la moglie di Piergiorgio che per anni ha seguito l´avanzare della malattia che ha trasformato il suo compagno da un uomo pieno di interessi e di passioni nel sognatore imprigionato in un corpo immobile, violato dai tubi per nutrirlo e farlo respirare.
Legge sbagliata?
«Chiedevamo solo di poter scegliere: se continuare a vivere ad ogni costo o smettere le cure e morire in pace. Volevamo la possibilità di lasciar scritte le nostre volontà per quando non avremmo avuto le parole per affermarle. Invece con questa legge ci hanno trattato come merce di scambio: le nostre vite, il nostro diritto sembra valere poco o nulla per questo governo».
Governo disattento?
«Contano più gli accordi per ottenere il plauso della chiesa e nuove maggioranze. E così sulla nostra fine, sui nostri ultimi istanti, ora decideranno altri. Hanno tolto la libertà di scelta a noi, ma anche ai medici sui quali pende il codice penale».
Ora che farete?
«Da martedì come associazione Luca Coscioni andremo in piazza, raccoglieremo firme per un referendum che cancelli questa vergogna, organizzeremo ricorsi. E tutti i cittadini di buona volontà andranno dai notai a lasciare i loro testamento come segno di protesta. Perché questa è una scelta di vita non di morte».
Scelta di vita?
«Sì. Piero poteva muovere solo gli occhi, era nutrito da un sondino nella pancia, respirava con ventilatore automatico. Per lui che amava la vita quella non era più un´esistenza degna di essere vissuta. Io avrei voluto tenerlo accanto a me per sempre. Ma il mio era egoismo, la vita era sua, lui doveva decidere non altri. Così il mio più grande atto d´amore è stato lasciarlo andare».
Come?
«Per ottenere il diritto a staccare il ventilatore, nel dicembre del 2006, ci siamo rivolti ai giudici, ai tribunali, perché chi lo aiutava non venisse accusato di omicidio. Se ci fosse stata una legge sul testamento biologico come esiste negli altri paesi, Piero se ne sarebbe andato prima e con meno sofferenza. Con mio grande dolore, ma nel rispetto della sua volontà».
l’Unità 8.7.11
Doppio mercato
Il lavoro nel Paese delle diseguaglianze
I dati Istat. L’occupazione cresce ma solo se legata alla mano d’opera straniera
di Nicola Cacace
Nel primo trimestre 2011 l’Istat segnala un lieve aumento di occupazione su base annua (+116mila unità) dovuto essenzialmente agli stranieri (+276mila) mentre l’occupazione italiana continua a calare (160mila unità). In regime di bassa crescita continua a funzionare il doppio mercato del lavoro da buco demografico nascite dimezzate, da un milione a mezzo milione che fa sì che la domanda di sostituzione di lavori manuali “umili” avvenga quasi esclusivamente ad opera di una offerta straniera. Per due motivi: il primo, che ogni dieci sessantenni che vanno in pensione ci sono solo cinque italiani nati vent’anni prima (nascite dimezzate); il secondo, che alla domanda di lavoro dei lavori “più umili”, duri e mal pagati, rispondono gli immigrati. Ecco perché dal 2000 al 2010 gli immigrati sono stati quattro milioni grazie ai quali la popolazione residente è aumentata da 56 a 60 milioni. Volete un’idea del doppio mercato? Nel triennio 2007-2010 (quarto trimestre) l’occupazione italiana si è ridotta di 951mila unità mentre quella straniera è aumentata di 561mila, con saldo occupazionale totale di 390mila. I nostri ministri si consolano col tasso di disoccupazione italiano, 8,6%, inferiore a quello europeo che del 9%, dimenticando i dati che contano: il primato italiano degli inattivi in età compresa tra 15 e 64 anni che sono quasi 15 milioni, 37,8% il tasso di inattività, il primato italiano del tasso di occupazione, solo 57% della popolazione 15-64 anni è occupata, contro la media europea del 62% e di Germania e Olanda che è superiore al 70%.
Chi sono gli inattivi? I disoccupati che non hanno svolto ricerca attiva di lavoro nella settimana dell’indagine, perché scoraggiati dalla mancanza di lavoro.
Perché i giovani italiani non accettano i lavori che fanno gli stranieri? Per due motivi: sono lavori “mal pagati”, come quelli in agricoltura e allevamento, servizi alle famiglie, attività ospedaliere, pesca d’altura, edilizia, commercio, pulizia e cucina, tessile e abbigliamento, concerie, fonderie e meccanica di montaggio, alimentare, etc. E perché, avendo quasi tutti studiato per una laurea o un diploma, preferiscono emigrare o vivere “a spese della famiglia” in cerca di, o in attesa di, migliori occasioni. Quelli che fanno la morale a questi giovani (“vadano a scaricare cassette al mercato!”) dovrebbero meditare sulle tendenze salariali degli ultimi vent’anni in Italia, Paese dove si è realizzato il più grande aumento di diseguaglianze con forte peggioramento di paghe e diritti operai. E ricordarsi che l’Italia è oggi in Europa il Paese a più alta diseguaglianza sociale, a differenza di Paesi come Germania, Francia, Svezia e Danimarca che, anche per indici di eguaglianza sociale migliori dei nostri, sono più ricchi di noi, hanno un Pil che cresce di più e livelli di occupazione superiori.
da oggi Claudio Sardo, provenendo dal Messaggero, è il nuovo direttore dell’Unità, quello che segue è il suo primo editoriale
l’Unità 8.7.11
Nel segno dell’Unità
di Claudio Sardo
L ’Unità è il giornale delle idee, delle lotte, delle passioni civili che hanno radicato la sinistra nella storia italiana e ne hanno accompagnato la crescita democratica. Già il nome contiene una forza vitale, che è ragione non secondaria di questo lungo percorso. La tensione verso l’unità è stata nel tempo l’antidoto contro il settarismo, le tentazioni di autosufficienza, lo spirito minoritario o elitario. È stata una spinta continua al dialogo, all'apertura, al rinnovamento. È stata il mastice popolare che ha tenuto insieme il Paese nei momenti difficili. Non c’è bisogno di tornare ai tempi eroici della Resistenza e della Costituzione, alle grandi conquiste dei diritti sociali e del lavoro, ai pensieri lunghi di Enrico Berlinguer e Aldo Moro per apprezzare il valore della parola unità. Sotto questo segno, dopo la sconfitta del ’94, nacque l’Ulivo, che consentì all’Italia di raggiungere il traguardo storico dell’euro, senza il quale chissà se oggi saremmo ancora un Paese unito. Ma a ben guardare lo stesso vento nuovo, sospinto dalle amministrative e dal referendum, reca un'impronta simile.
All’origine della nuova speranza italiana ci sono le celebrazioni del 150 ̊ dell’unità nazionale, che il presidente Giorgio Napolitano ha fortemente voluto e che hanno rinsaldato le radici patriottiche e costituzionali dei progressisti e dei moderati, provocando invece gravi affanni e contraddizioni nella maggioranza Pdl-Lega. Ci sono le battaglie di questi mesi dei lavoratori, dei precari, degli studenti, dei ricercatori, che si sono ribellati alle crescenti disuguaglianze e ai muri divisori tra Nord e Sud, tra garantiti e non, tra giovani e adulti, tra chi è protetto da una corporazione e chi no. All'origine del vento nuovo c'è ancora la carica culturale del movimento delle donne, che ha opposto al berlusconismo la più radicale critica del linguaggio e dei comportamenti. Quella del 13 febbraio non è stata l’ultima piazza della contestazione ma la prima della ricostruzione: ne è testimonianza quel passaggio dell’appello che richiama la coscienza “civile, etica e religiosa della nazione” come il tessuto connettivo da preservare (e domani tornerà a riunirsi a Siena il movimento “Se non ora quando?”).
La parabola di Berlusconi sta declinando. Forse non si chiuderà solo il decennio dei suoi governi, ma anche quella che abbiamo chiamato Seconda Repubblica. In ogni caso non sarà un passaggio facile. L'onda lunga della crisi finanziaria e le paure dell'Europa rendono il momento assai insidioso. E la drammatica debolezza di un governo, ormai incapace di agire, aumenta i rischi per l'Italia e minaccia ancor più il nostro futuro. L'Unità sarà un giornale battagliero e aperto. Impegnato con ogni forza a raccontare la verità sull'Italia. La verità sui conti pubblici, sulle riforme negate per conservare i privilegi di pochi, sulle cricche, sulla crescita necessaria per uscire dalla tenaglia tra rigore economico e ingiustizia sociale. Questo Paese deve tornare a crescere. Lo chiedono innanzitutto i più deboli e la classe media impoverita dalla crisi. È la grande priorità nazionale, senza la quale rischiano di crollare tutte le ipotesi politiche.
Per fortuna, però, ci sono anche importanti novità sociali, che recano il segno della ricomposizione, della responsabilità nazionale, appunto dell' unità. Spicca tra queste il recente accordo sulla contrattazione, che ha ridato all'Italia la speranza dell'unità sindacale: non ci sarà svolta progressista senza unità tra le forze del lavoro (e non è un caso che il governo Berlusconi abbia sempre lavorato per la divisione). Ma altri processi unitari, pur trascurati dalle cronache, rappresentano un segno di speranza: dalla storica alleanza tra le cooperative bianche e rosse, che ora si pone alla base di un rilancio dell'economia sociale, alla Rete delle piccole imprese, degli artigiani e dei commercianti, che non vogliono restare esclusi dai processi di innovazione. C'è anche questo nelle vittorie di Giuliano Pisapia e del centrosinistra al Nord. E l'Unità intende raccontare quest'Italia che non accetta di finire in serie B, che vuole premiare il lavoro e l’impresa anziché la rendita, che si impegna per dare un futuro migliore ai propri figli.
Non c'è soltanto un'alternativa di governo da comporre. All'Italia serve un grande patto per la ricostruzione. Un impegno di portata costituente, il cui programma economico e sociale non potrà che avere l'orizzonte di un decennio e la dimensione dell'Europa. Come altre volte è accaduto nella storia, è più di sinistra costruire una larga convergenza attorno a un progetto di cambiamento concreto che non tentare da minoranza la conquista del Palazzo. Perché le politiche di uguaglianza e di innovazione hanno bisogno di condivisione e di responsabilità. Ovviamente hanno anche bisogno di radicalità nei valori, di rigore nei comportamenti, di rispetto per la legalità, di un grande senso etico e civico. L'Unità vigilerà, racconterà, discuterà, darà voce ai cittadini. E non farà sconti. Neppure al centrosinistra. L'Unità non è un giornale di partito. Nessuno potrà costringerci in uno spazio predefinito. Ma cercheremo anche noi di dare il nostro contributo a definire una nuova cultura democratica. E in questa cultura i partiti sono insostituibili strumenti di partecipazione, a disposizione in primo luogo di chi altrimenti sarebbe escluso dal potere economico e mediatico. Vogliamo uscire dal berlusconismo, combattendo anche quello che ha messo radici nel centrosinistra. In fondo, la contrapposizione tra società civile buona e partiti cattivi è stata la chiave che ha portato il Cavaliere al successo e che, insieme alla vulgata liberista, ha segnato l'epoca che dobbiamo superare. La nostra prospettiva è un'alleanza tra partiti e società, tra buona politica e movimenti innovativi. Così è accaduto nei momenti migliori della nostra storia. Il populismo e il leaderismo, invece, distruggono i corpi intermedi e il pluralismo sociale prima ancora che la buona politica. Ringrazio l'editore che ha avuto fiducia in me e mi dà la grande opportunità di dirigere questo giornale storico in un passaggio così importante. Ringrazio Concita De Gregorio per aver portato il testimone con passione e intelligenza: la sua amicizia mi onora e la sua impronta resterà nella nostra impresa collettiva. Mi impegnerò con tutte le forze, sapendo di avere al fianco colleghi appassionati, competenti, generosi. Un giornale, più di ogni altra cosa, è un lavoro collettivo, un'opera comune. Dei giornalisti che ci lavorano e anche dei lettori che lo apprezzano, lo criticano, ci si riconoscono. Considero un mio compito anche valorizzare questo elemento comunitario.
l’Unità 8.7.11
Se non ora quando
Un fine settimana all’insegna del confronto. «Dare voce a coloro che non hanno voce»
Nuovo protagonismo Cristina Comencini: «Faremo un bilancio per guardare al futuro»
Una valanga rosa verso Siena «Anche stavolta saremo migliaia»
di Augusto Mattioli
Quelle piazze piene del 13 febbraio le donne non le hanno dimenticate. Quel giorno è stato solo un inizio. Da allora hanno continuato a lavorare insieme, a dibattere sul loro ruolo, sui temi che le avevano indotte ad andare in piazza. Al di là delle appartenenze politiche. Come un fiume carsico, le donne del 13 febbraio tornano a farsi vedere e sentire. E lo fanno a Siena questo fine settimana. Si incontrano nella città del Palio per fare un bilancio di ciò che è stato fatto fino ad oggi, discutere ancora dei temi che maggiormente le interessano (il lavoro, la maternità, la rappresentazione che viene fatta del loro corpo, rapporto uomo-donna) e per capire cosa fare nei prossimi mesi della forza che, con le loro manifestazioni, hanno mostrato di possedere. «L’appuntamento di Siena non sarà certo la conclusione del nostro lavoro ha ricordato ieri la regista Cristina Comencini ma faremo un bilancio di ciò che abbiamo fatto e rilanceremo andando avanti con iniziative comuni e forti». «In effetti ricorda Albalisa Sampieri, del comitato senese Donne del 13 febbraio abbiamo lavorato molto in questi mesi per l’appuntamento di Siena. Sarà importante che prendano la parola le donne comuni». Con le loro testimonianze. Quella di Sofia Sabatino, per esempio, che è portavoce nazionale della rete degli studenti. O quella di Sohueir Katkhuouda, presidente dell’associazione nazionale delle donne musulmane in Italia. O della teologa Agnese Fortuna.
La due giorni senese sta lievitando di ora in ora. Il numero delle partecipanti dovrebbe superare quota 1200. Una presenza che ha spiazzato le organizzatrici senesi e nazionali che si dichiarano soddisfatte. Per questo motivo è stata addirittura cambiata la sede dell’incontro dal museo Santa Maria della Scala alla vicina Piazza sant’Agostino nei pressi del Liceo Classico Piccolomini che ha messo a disposizione un’aula multimediale per la sala stampa. Un piccolo segnale della disponibilità della città ad accogliere le donne di «Se non ora quando». Del resto anche l’appello ai senesi per ospitare nella propria abitazione alcune di loro è stato accolto per una settantina di persone. Collaborazione piena anche dalle istituzioni, a partire dal Comune. «Siamo orgogliosi ha sottolineato il sindaco Franco Ceccuzzi che Siena sia stata scelta per questo appuntamento. Spero che da questa città continui a soffiare quel vento che ha innescato qualcosa di importante nel nostro Paese come il protagonismo delle donne».
Repubblica 8.7.11
Perché le donne in piazza vogliono la metà di tutto
di Giancarlo Bosetti
Le donne di "Se non ora quando" vogliono diventare un movimento sociale, organizzato e duraturo nel tempo. E questa è la prima buona notizia che arriva dall´annunciata due giorni di Siena (domani, sabato 9, e domenica 10). La seconda è che, con loro, si affaccia non solo un bacino elettorale, ma anche una promessa di ricambio della classe dirigente politica.
L´onda che ha riempito le piazze il 13 febbraio scorso ha già raggiunto Milano, che ha ora una giunta comunale con sei donne e una vicesindaco, Maria Grazia Guida, che viene dal volontariato, ma la stessa onda ha dato propulsione al referendum che ha liquidato legittimo impedimento, nucleare e tutto il resto. Nei "sì" le donne hanno pesato più dei maschi, con un 59% contro il 55% (fonte Ispo). Il cammino di questo movimento è cominciato fin da quando il gruppo iniziale mise in scena lo spettacolo "Libere", di Cristina Comencini, che si presentava subito come l´inizio di qualche cosa di nuovo, fuori del teatro. E l´andatura si è fatta poi spedita, grazie alla determinazione di un gruppo largo di donne che guidano l´iniziativa finora senza una struttura definita di comando, ma non senza carattere e ambizioni crescenti. Si tratta del carattere di donne che intendono riscattare dignità e potere femminile al termine di un ciclo umiliante, ma non per dare protezione con le quote rosa a una sezione "debole" della società, quanto invece per dare alla meritocrazia quel che è dovuto, levando possibilmente di torno incompetenti ambosessi per collocarci persone con titoli professionali e capacità acclarate.
"Se non ora quando" prende di mira l´uso delle donne come carne da cannone non solo per le notti del sultano, ma anche il "tokenism", ovvero l´impiego di femmine selezionate alle sfilate di Salsomaggiore come "token", gettoni, segnaposto che stanno a dire che "la donna c´è" al governo, anche se si muove con andatura ambigua, un po´ da ministro che dichiara cose importanti, "da uomini", e un po´ da donna del capo, che parla solo se interpellata. Simboli illusori, specchietti per le allodole: il token/alibi, come ha scritto Chiara Volpato, ha una funzione precisa: salvaguardare lo status quo, togliendo forza alle voci di protesta in situazioni di forte squilibrio nei rapporti di potere.
Quant´era fiero Berlusconi di leggere la lista delle ministre "con la laurea" - pensate! Era la prova che non sono solo belle, anche brave! - , ma non è soltanto la "bella presenza" al governo e neanche soltanto l´harem di Arcore e Palazzo Grazioli a produrre indignazione. La caldaia era arrivata già a una pressione molto pericolosa per il Cavaliere (e l´esito degli scontri in tv con la Bindi avrebbero dovuto metterlo in guardia), ma a provocare l´esplosione è stata la congiunzione di questi comportamenti con un´economia e una società in cui per le donne "non c´è niente", per usare la sintesi della Comencini. I dati Istat (direttrice centrale una donna, Linda Laura Sabbadini) confermano la mesta condizione italiana nell´Europa dei 27: la media del tasso di occupazione femminile è oltre il 58%, l´Italia è al 46% con un catastrofico 30% nel Meridione. Ottocentomila donne sono state licenziate o costrette dall´azienda a lasciare il lavoro per una gravidanza e non l´hanno più recuperato. È in questo cronico contesto di oppressione materiale e psicologica che è andata in scena la vicenda della nipote di Mubarak.
La conseguenza è che, da una parte, il tasso di consenso verso il governo in questi ultimi anni è precipitato ed è cresciuto il risentimento della società italiana verso il primo ministro, mentre dall´altra non è cresciuto in misura equivalente il consenso per l´opposizione. Questa condizione contraddittoria ha generato una sensazione di generale impotenza e ha spinto molte donne italiane, impegnate qui e all´estero, con rilevanti posizioni nel mondo scientifico e accademico, nelle professioni, nei sindacati, nello spettacolo ad abbandonare un certo distacco e a riprendere interesse per la politica italiana. Questo spazio politico senza risposte è un vacuum che si può e si deve riempire. È questo il motore del gruppo dirigente di "Se non ora quando". Ha raccontato la linguista Fabrizia Giuliani che il giorno in cui, in un convegno a Utrecht, ha sentito una relazione che proponeva in parallelo i casi delle donne talebane e di quelle italiane e ha notato che nessuno reagiva più con stupore, ha deciso che bisognava finalmente trovare il modo di dire "basta".
Le donne di questo nascente movimento hanno in comune la caratteristica della prudenza, hanno visto troppe illusioni svanire. Ma hanno ambizioni. Questo spiega una certa virtuosa incompiutezza del disegno politico, che dovrà precisarsi trovando le vie di un accesso alla politica che aggiri le insidie. Non hanno intenzione di farsi catalogare come l´annesso di qualcuna delle correnti o dei leader della sinistra e del centrosinistra in servizio o in disarmo. Nei loro forum i vecchi nomi sono diventati pressoché impronunciabili, non per timidezza, ma per la conoscenza che hanno della giungla paludosa da attraversare. Sanno anche che anche il tono delle critiche a Berlusconi rischia di essere decodificato e degradato a banale etichetta di una corrente contro le altre. Forse riusciranno anche a portare parole nuove per un discorso pubblico dissanguato. Come spiegano chiaramente, non vogliono il ministero delle Pari opportunità, ma l´Economia, gli Interni e la Difesa, e anche il Primo ministro se non il Quirinale, dopo Napolitano. Non vogliono quote, ma "la metà di tutto". E forse qualcosa di più. Non si metteranno "sulla scia" di questo o di quello. Intendono iniziare una "nuova scia".
La Stampa 8.7.11
Dossier/ La scuola e i nuovi lavori
Niente prof per i prossimi dieci anni
Il ministero: dobbiamo smaltire tutti i precari I giovani: zero posti, costretti alla disoccupazione
di Flavia Amabile
GLI STUDENTI UNIVERSITARI «Il governo ha scelto di soddisfare i sindacati noi dobbiamo arrangiarci»
LA RIVOLTA «E’ una guerra tra poveri» Inviata una lettera di protesta al governo
L’AUTOCRITICA SUL WEB «Si rischia un disastro sociale e culturale, oltre che un danno per l’istruzione»
LE GRADUATORIE In alcune regioni già l’anno prossimo non ci sono abilitazioni disponibili
730mila insegnanti. Il dato fa riferimento ai docenti della scuola statale (Sono 89 mila nella scuola dell’infanzia, 248 mila nella scuola primaria, 161mila nella scuola media e 231mila nella scuola superiore)
128mila precari. Fra i docenti con contratto a tempo determinato ci sono sia quelli che hanno una cattedra annuale (23.277) sia quelli che hanno un contratto di supplenza per un periodo di tempo più limitato
ROMA
In coda tra i banchi Il doppio dramma della scuola italiana: tanti prof precari accumulati in decenni. Ora per smaltirli il ministero riserva pochi posti ai giovani laureati che sognano di insegnare
Ricordate i precari della scuola? E le promesse del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini: nel giro di pochi anni li assumeremo tutti? Il mondo dei giovani ha scoperto come andrà a finire: i precari verranno assunti, e loro rimarranno senza lavoro almeno per una decina d’anni.
Le cifre lasciano pochi dubbi su quel che accadrà, in particolare alle superiori. Il ministero ha calcolato che per il prossimo anno scolastico, il 2012-13, ci sarà bisogno di 26 nuovi prof abilitati, in media poco più di uno per regione. In realtà in alcune regioni non hanno bisogno di nuovi prof di lettere. Accanto alla casella di Lombardia, Friuli, Piemonte e Umbria c’è scritto molto semplicemente: zero.
Si dirà: ma ancora volete nuovi prof di lettere? E va bene che siamo un popolo di scrittori e poeti ma bisogna anche pensare al futuro, a materie più aperte al mondo scientifico e del progresso. Informatica, ad esempio. In totale 63 nuovi posti da prof da abilitare per il 2012-13. Zero in Calabria, Molise, Sardegna e Umbria dove, evidentemente, non hanno ulteriori necessità con le lezioni su computer e dintorni. Un posto in regioni come Lazio, Campania e Sicilia dove il numero degli studenti e l’ampiezza del territorio lascerebbero immaginare ben altra voglia di investire in una materia che dovrebbe essere alla base dei saperi di tutti gli studenti del Terzo Millennio.
Dopo aver letto tabelle su tabelle di cifre come queste i componenti del Coordinamento Liste per il Diritto allo Studio che fa parte del Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari ha deciso di scrivere una lunga lettera al ministro Gelmini per chiederle di ripensarci, di salvare il futuro dei giovani che da grandi vorrebbero diventare dei prof.
«Chi vuole fare l'insegnante se lo scordi, almeno per dieci anni. Se tutto andrà bene. Chi sta frequentando o vorrà iscriversi il prossimo anno a un corso di laurea in matematica, lingue, lettere, filosofia, scienze motorie, ecc., con l'intenzione di insegnare, sappia che non sarà possibile, perché i nuovi posti previsti dalle tabelle ministeriali per ottenere l'abilitazione all'insegnamento - anche nelle principali classi di concorso - ammontano sostanzialmente a zero fino al 2015. “Zero tituli”. E, presumibilmente, si discosteranno di poco dallo zero fino al 2018», spiegano.
Il motivo? Dare la precedenza ai precari, rispondono gli studenti. «Il governo ha compiuto la sua scelta (calcolata o subita): sta dalla parte dei già abilitati non ancora immessi in ruolo e inseriti nelle graduatorie a esaurimento. Una scelta, è inutile nasconderlo, che soddisfa pienamente le richieste dei sindacati e privilegia i “diritti acquisiti”. Il tempo di smaltimento delle suddette graduatorie è stimato dagli uffici ministeriali in sette anni (ma alcuni bene informati dicono dieci o quindici), perciò prima di quella data non vi saranno nuovi ingressi. E i giovani? Si arrangino. Del resto, quelli che vogliono insegnare rappresentano un modesto serbatoio di voti e sono alla fin fine innocui. Siano loro il capro espiatorio!».
In altri termini, una «guerra tra poveri». E i giovani hanno deciso di ribellarsi perché il problema dei precari esiste e va risolto - dicono - «ma non possiamo condividere che il prezzo di questa stratificata e annosa situazione lo debbano pagare unicamente i giovani, cioè noi».
La lettera è stata diffusa una settimana fa ed ha già scatenato un acceso dibattito in rete. Elio Franzini, docente di Estetica nell’Università statale di Milano, membro della Commissione ministeriale che ha stilato il Regolamento sulla formazione iniziale degli insegnanti: «Sarebbe un disastro sociale e culturale. Se questi numeri fossero confermati, e non si aprisse il tirocinio formativo attivo per un numero anche contenuto dei nostri giovani, sarebbe un danno per la scuola, che non avrebbe forze nuove, e per l’università, poiché renderebbe molto meno credibili alcuni importanti percorsi formativi», ha spiegato al sito Il sussidiario.net. Oltretutto le tabelle - aggiunge - appaiono anche sospette: «In tutte le classi di abilitazione il numero esatto dei precari coincide con quello del fabbisogno! Le graduatorie una volta erano pluriabilitanti, e fatte di persone che figuravano dunque più volte perché abilitate in più classi di concorso; tali graduatorie contengono anche persone che probabilmente - almeno in parte ora fanno altro nella vita e non insegnano più. Questi semplici elementi devono giocoforza legittimare un approccio molto più articolato».
l’Unità 8.7.11
Lo spettro della fame torna in Corno d’Africa come incubo di siccità
Il riscaldamento climatico globale ha accorciato di un terzo i cicli di pioggia E con l’aumento dei prezzi alimentari, milioni di famiglie senza acqua né cibo
di Shukri Said
La Somalia lancia un appello al mondo per superare la gravissima situazione umanitaria in cui versa per la prolungata siccità.
Da 60 anni non si ricordava una siccità come quella che sta vivendo l’Africa orientale. Il cambio climatico ne ha accelerato la frequenza. A partire dagli anni 80 il ciclo decennale si è ridotto a cinque anni e nell’ultimo decennio a 2/3. L’ultima siccità dal 2009 non si è più interrotta devastando l’agricoltura e distruggendo il bestiame. Agricoltura e allevamento costituiscono le uniche attività praticabili in molte zone della Somalia. Nelle regioni più colpite è caduto solo il 15% delle piogge previste tra ottobre e dicembre. Le aree più colpite sono quelle centro meridionali. Nella zona di Hiran sono 10 anni che le piogge non raggiungono il minimo per la sopravvivenza e un numero senza precedenti di somali si dirige verso il campo profughi di Dadaab in Kenya. Ogni giorno qui arrivano 1.300 persone tra cui almeno 800 bambini. Il numero degli arrivi giornalieri è decuplicato in un anno portando la popolazione a 400.000 persone quando ne erano previsti 90.000. Il viaggio è lungo, a volte mesi e molti muoiono lungo la strada spesso dopo aver bevuto da pozzi infetti rimanendo decimati da diarrea tifo e colera.
Da mesi decine di ong hanno denunciato la crisi alimentare che ha portato 2,5 milioni di somali, quasi un terzo dell’intera popolazione, a non avere acqua e cibo a sufficienza.
Se uno degli effetti della siccità è l’impennata del prezzo dei cereali che priva di nutrimento un numero sempre maggiore di somali, l’altro consiste nell’aumento delle bande di predoni che spogliano i profughi di quel poco che possiedono durante i viaggi della salvezza. Ma il peggior rischio è per la sicurezza con l’inasprimento dei conflitti latenti tra diversi gruppi etnici che si contendono pascoli e accesso all’acqua.
I racconti dei profughi raccolti nei campi sono quelli dell’orrore. Con le clavicole che sporgono come ali sopra i costati in rilievo e gli occhi troppo grandi per facce così magre, narrano di familiari lasciati lungo la strada ancora vivi ma senza speranza di finire il viaggio, di cadaveri mummificati dal calore che nessuno ha la forza di seppellire e che gli avvoltoi provvederanno a spolpare, di ossa sparse nel deserto e di carcasse di animali coperte di mosche fameliche. Un paesaggio allucinante.
Nella graduatoria degli stati depressi la Somalia vince sempre con almeno 2,5 milioni di persone in emergenza umanitaria di cui quasi un milione, soprattutto donne e bambini, in malnutrizione acuta.La siccità aggiunge il problema umanitario a quello politico e i profughi dell’acqua a quelli della guerra civile.I drammi della siccità non sarebbero così penosi e urgenti se la Somalia avesse un sistema istituzionale più efficiente di quello imposto anche pochi giorni fa dalla comunità internazionale (vedi l’articolo nella pagina precedente). Rassegnando le dimissioni lo scorso 19 giugno, Mohamed ha ottenuto di designare il suo Vice quale successore. Il neo Primo Ministro Abdiweli Mohamed Ali, nominato lo scorso 28 giugno, è anche lui un insigne docente universitario americano che ha concentrato i suoi studi economici particolarmente sulla finanza pubblica, il commercio internazionale e gli effetti delle scelte istituzionali sulla crescita economica. Quale primo suo atto ha nominato una commissione ministeriale per combattere la siccità e i suoi effetti. Dal canto loro, le Money Tranfert di origine somala hanno aperto un conto per raccogliere fondi per gli aiuti alla popolazione.
l’Unità Firenze 8.7.11
Stragi naziste sull’Appennino: dopo 67 anni, nove ergastoli
Giustizia è fatta per gli eccidi di Vallucciole, Castagno, Stia e Monte Morello In aula, i familiari delle 350 vittime civili. Alcuni erano bambini di pochi mesi
di Maria Vittoria Giannotti
Per sessantasette anni hanno condotto una vita tranquilla. Senza mai pentirsi di tutto quel sangue che si erano lasciati alle spalle. Ora gli eccidi nazisti perpetrati nel 1944 lungo l'Appennino tosco-emiliano hanno finalmente dei colpevoli. Mercoledì sera il Tribunale militare di Verona ha condannato nove, tra ex ufficiali e sottoufficiali tedeschi, ad almeno un ergastolo ciascuno. I condannati, ormai novantenni, facevano pare della divisione Herma Goehring, un corpo di spedizione nato per spezzare la resistenza, ma che spesso colpì la popolazione civile. Senza fermarsi davanti a vecchi e bambini. Le stragi, rimaste nella memoria di questi paese arroccati sulle montagne, sono quelle di Vallucciole, nel Casentino, Monte Morello, Castagno d’Andrea, Stia, Bibbiena, Mommio, nel Massese.
In aula, ad attendere la sentenza in un silenzio surreale, c'erano i familiari delle vittime, che non hanno mai smesso di cercare giustizia in nome di quegli innocenti, trecentocinquanta, morti senza un perchè. Per quei parenti, silenziosi e dolenti, la corte ha previsto anche dei risarcimenti.
«Questa sentenza dà pace a una comunità che da quasi 67 anni si porta dietro questa macchia ha sottolineato il sindaco di Stia, Stefano Milli -. È una ferita ancora aperta perchè ci sono ancora dei superstiti».
A Vallucciole, tra il 13 e il 18 aprile, furono uccise 108 persone, tra cui 22 bambini e ragazzi. Alcuni di loro, tra cui un bambino di appena tre mesi, furono sbattuti contro il muro per risparmiare le pallottole. «Dopo 67 anni finalmente e' stata fatta giustizia, per le vittime e per i loro familiari commenta Vannino Chiti, vice presidente del Senato. La democrazia non può dimenticare e non deve rinunciare a punire, anche a tanti anni di distanza. quei massacri».
«Queste sentenze mettono ordine nella storia e attribuiscono le giuste responsabilità, anche se i colpevoli giunti con parecchi anni di ritardo sul banco degli imputati non finiranno magari in carcere» osserva il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. In effetti, nessuno di questi ex ufficiali, sconterà mai un giorno di prigione. Per tutto questo tempo hanno potuto condurre indisturbati le loro esistenze, “protetti” dalle loro comunità e da alcune associazioni di ex combattenti.
il Fatto 8.7.11
“La Cgil è autoritaria”
Landini (Fiom) contesta la scelta della Camusso di firmare l’accordo con Confindustria
di Salvatore Cannavò
Se a Maurizio Landini chiedi se è pronto a rompere la Cgil ti risponde: “Neanche per sogno, la Cgil sono io”. E a Susanna Camusso che ieri (sul Fatto Quotidiano) accusava la Fiom di “populismo”, con la sua insistenza sul referendum, il segretario generale della Fiom replica: “La democrazia non è populismo o movimentismo” ma semplicemente il modo in cui un'organizzazione evita l'autoritarismo che invece è presente nell'accordo del 28 giugno. L'attacco diretto non c'è mai, com'è nello stile del personaggio, ma i punti di attrito con la Cgil e il suo segretario generale, sono evidenti.
Landini, si riconosce nella categoria di populista?
Nella mia esperienza non ho mai firmato se prima non ho avuto il consenso della maggioranza dei lavoratori attraverso il voto. Il diritto delle persone di votare è ciò che permette al sindacato di essere un soggetto di trasformazione con un'autonomia. Se viene meno questa verifica siamo in presenza di un modello autoritario di relazioni sindacali.
Sta dicendo che la Camusso ha firmato con Confindustria un accordo autoritario?
Dico che quello è un modello di accordo che disegna un'assenza di democrazia dei lavoratori. In Italia tutti i cittadini hanno diritto di fare referendum tranne i lavoratori nei luoghi di lavoro. Questo sistema permette all'azienda di scegliere con chi fare accordi.
In sintesi cosa contestate alla Cgil e a quell'accordo?
Il peggioramento delle condizioni e dei diritti dei lavoratori. Ad esempio quando si parla di tregua sindacale, una norma che la Fiat voleva applicare retroattivamente perché l'avrebbe favorita. A Pomigliano e Mirafiori la Fiom, che non ha firmato gli accordi, può scioperare mentre adesso, se le Rsu stabiliscono a maggioranza dei periodi di tregua , si vincola anche chi non è d'accordo. Fino alla possibilità di vedersi chiedere i danni per mancata produzione. Nel testo, inoltre, non vengono definiti i diritti indisponibili che non possono essere oggetto di peggioramento a livello aziendale.
Ma la Cgil sostiene che l'accordo non parla di deroghe, anzi certifica la supremazia del contratto nazionale.
Neanche nell'accordo del 2009 c'era la parola deroghe, ma dire “intese modificative” è la stessa cosa. La Cgil che non ha firmato nel 2009 oggi, con scarsa coerenza, invece firma.
La Camusso contesta: se la Fiat è contro vuol dire che
l'accordo è buono.
Come sempre la Fiat punta a rilanciare: infatti ha preso tempo fino a gennaio 2012. Vuole qualcosa di più.
Cosa?
Una legge oppure la rinegoziazione degli stessi accordi di Pomigliano e Mirafiori, ad esempio con la clausola di tregua sindacale. Il paradosso è che questo accordo dà tutto quello che la Fiat chiedeva (tregua, Rsa, non voto, derogabilità) ma la Fiat non si accontenta. Quindi non è vero che si è difeso un sistema ma lo si è peggiorato abbassando diritti e tutele.
Sta dicendo che c'è un problema strutturale in casa Cgil?
In Cgil c'è un problema democratico. A differenza di altre esperienze che ho vissuto, i segretari generali e il direttivo non hanno discusso del testo prima della firma, ma solo a cose fatte. Alla complessità democratica non si risponde con logiche autoritarie di comando.
Ora che fa la Fiom, “se ne farà una ragione”?
La Fiom discuterà e deciderà assieme ai lavoratori metalmeccanici in modo democratico. Quindi i lavoratori devono conoscere questo testo e avere la possibilità di esprimersi, Anche chi non è iscritto.
Allargherete la consultazione?
Dobbiamo trovare il modo di informare tutti anche perché i mesi di luglio e settembre coincidono con le assemblee per preparare la piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale. Quindi abbiamo bisogno di far votare gli iscritti e di parlare con tutti.
Di farli anche votare?
Lo discuteremo e decideremo nei prossimi giorni.
Non è che siete troppo “duri” e non capite la realtà del Paese?
Ma non stiamo chiedendo cose estremiste. Vogliamo “solo” applicare i contratti nazionali, le leggi, e riconoscere ai lavoratori dei diritti minimi. Nei giorni scorsi, la segreteria nazionale ha spiegato che la Cgil sosterrà i referendum elettorali. Come facciamo a chiedere la firma per riformare la legge elettorale e allo stesso tempo dire a un lavoratore che non può votare sui propri accordi? Nel Paese c'è domanda di democrazia e partecipazione e quindi la democrazia non è una cosa di movimento o populista.
Si è sentito tradito dall'accordo?
La categoria di tradimento per me non esiste. Ho provato rabbia perché hanno firmato senza che la categoria che rappresento potesse esprimersi. Ho pensato che c'è un problema di democrazia per i lavoratori e un problema di democrazia interna alla Cgil.
Ma con tutte queste divergenze è possibile stare nello stesso sindacato?
Assolutamente sì perché io sono la Cgil, cioè l'idea di democrazia e conflitto incarnata dalla Fiom. I gesti autoritari non aiutano ad affrontare le cose complesse.
La Stampa 8.7.11
Spagna, gli orrori di Franco Neonati rubati e venduti
Dopo 40 anni emerge un fenomeno sconvolgente Ospedali trasformati in supermarket dei bebè
di Mimmo Càndito
LA SCOPERTA. A portare alla luce la verità il ritrovamento di un 42enne del «suo» certificato di morte
849 Casi esaminati. Medici e suore dicevano ai genitori che il figlio era deceduto e poi lo affidavano alle coppie vicine al regime
700 Codici Dna. L’associazione dei «presunti adottati» ha creato un archivio genetico per aiutare il processo investigativo
UNA TRUFFA LUNGA DECENNI. Il traffico dei bambini è continuato dopo la morte del dittatore e fino al 1990
Sappiamo, tutti, delle Madri di Plaza de Mayo, e delle nonne, le Abuelas, che disperatamente tentano ancora di recuperare il filo della vita che lega la loro amorevole ricerca d’oggi ai figli perduti nell’orrore della «guerra sporca» che insanguinò l’Argentina della dittatura, sul finire degli anni Settanta. Ci sembrano storie d’un altro mondo e disumane, retaggi consegnati a orrori che mai la civile Europa avrebbe saputo scatenare. Ma ora - con alcune notizie che arrivano dai tribunali spagnoli - dobbiamo scoprire ancora una volta che le illusioni sulle quali abbiamo costruito l’identità d’una nostra supposta superiorità morale si bruciano all’evidenza d’una brutale verità.
Sono, queste, le notizie di un mostruoso traffico di neonati - «Probabilmente una rete internazionale», dice il Procuratore generale di Siviglia, Càndido Conde Pumpido - che ha unito in una collusione clandestina molti ospedali spagnoli, per un lunghissimo periodo di tempo, almeno dagli anni Cinquanta alla fine del secolo scorso. Tutto cominciò con la vendetta che il Caudillo Francisco Franco volle consumare in ogni angolo di Spagna, dopo la sua vittoria nella Guerra Civìl: i lealisti che lui aveva sconfitto andavano puniti in modo esemplare, facendoli lavorare fino a morte nella costruzione del sacrario franchista del Valle de los Caìdos, chiudendoli nella galere del regime e privandoli dei diritti più elementari.
Era un clima di divisione netta tra due mondi, i vincitori e gli sconfitti, che non soltanto produceva norme e sanzioni di cementificazione della spaccatura ma, anche, costruiva un modo di pensare dove gli sconfitti potevano subire impunemente qualsiasi sopruso. E nasce in quella «cultura» - non necessariamente per volontà istituzionale, ma certo in un permissivismo ufficiale di punizione dei «rossi» - la costruzione di questa rete di «furto» di neonati venuti alla luce da famiglie segnate dalla loro fedeltà repubblicana. Non si sa quanti siano, la memoria è difficile da ricostruire, ma intanto - mentre le investigazioni proseguono (e l’International Herald Tribune ne disvela ora alcune storie accorate) - 849 casi sono già stati portati in evidenza giudiziaria.
Tutto nasce accidentalmente, dalla scoperta improvvisa d’un uomo, Antonio Barroso, oggi di 42 anni, che trova per un errore (o presunto errore) anagrafico d’essere un figlio adottivo. Le sue ricerche lo portano fin nei registri d’un ospedale dove sarebbe nato e poi morto già nei primi giorni di vita. Ma poiché morto non lo è, il pasticcio comincia a rivelarsi in tutta la sua mascheratura; non solo, ma vengono progressivamente a manifestarsi situazioni simili anche in altri ospedali spagnoli, e appaiono storie ingarbugliate di suore che raccontano menzogne, di medici che ingannano le puerpere, di neonati registrati come deceduti - addirittura sepolti, in fosse comuni o in loculi anonimi - che invece sono stati consegnati a misteriosi acquirenti. «È talmente estesa questa situazione che stiamo ricostruendo - dice il giudice Conde Pumpido - che per forza si deve pensare a una grossa organizzazione gangsteristica che aveva il suo centro di smistamento a Madrid».
Come le Madres e le Abuelas argentine si sono organizzate, allo stesso modo Antonio Barroso ha creato un’associazione di «presunti adottati», l’acronimo è Anadir, e ha costituito un archivio genetico già di 700 codici di Dna, per aiutare il processo investigativo della magistratura spagnola e ancorare a un data-base scientifico l’accertamento della verità. Per molti di questi casi interverrebbe la prescrizione, definita ormai dal lungo tempo trascorso, ma opera in sede giudiziaria l’estensione della vigenza del crimine che il giudice Baltazar Garzòn sancì nel 2008 per il giudicato dei delitti commessi dal franchismo. La Spagna che si stava lentamente liberando dalla memoria greve di Franco si trova ora a misurarsi con l’orrore d’una storia la cui vera dimensione non è nemmeno ipotizzabile: le suore che, sempre più numerose, confessano il commercio di neonati, i medici che rivelano la falsificazione dei registri d’ospedale, i sospetti che sempre più si allargano sulla vita innocente di centinaia (migliaia?) di casi aprono un percorso drammatico che segna a fondo non solo il passato franchista ma la persistenza anche in democrazia di un inquietante mistero criminale.
il Fatto Saturno 8.7.11
Zagrebelsky e C.
Non date la colpa al Papa
di Lucia Ceci
F. Cassano, L’umiltà del male, Laterza, pagg. 96, • 14
E. Mauro - G. Zagrebelsky, La felicità della democrazia, La-terza, pagg. 192, • 15
LA FINE DI UNA stagione si consuma sempre con una resa dei conti: chi è stato responsabile di cosa. Negli italici confini del secolo breve è capitato almeno tre volte: Caporetto, 8 settembre, tangentopoli. Il redde rationem investe le persone, i fatti, le cose. Ma gli intellettuali sono interessati anche ad altro: le cause. Accade dunque, nel crepuscolo del berlusconismo, che i professionisti dell’analisi di lungo periodo si adoperino per individuare il vizio d’origine di tanto sfa-celo. E poiché la scena, con le notti di Arcore, si consuma su un terreno etico in cui il privato si mesce col pubblico e ha il volto seducente e da tutti decifrabile di una prostituta minorenne, appare naturale chiamare in causa l’azionista di maggioranza dell’ethos pubblico italiano: la Chiesa cattolica. In questi mesi di crisi torna a riaffacciarsi il teorema che evoca la presenza del papato nel territorio nazionale quale forza fiaccatrice degli anticorpi civili : dal fascismo a Scilipoti, passando per l’evasione fiscale, la corruzione, il bunga-bunga. Così, più che in altri momenti, ci troviamo a imparare da Ezio Mauro come, nello sfacelo delle istituzioni democratiche, la «riconquista» dei vescovi sia «quasi un Dio italiano che cammina, una sorta di via italiana al cattolicesimo». E contemporaneamente ci imbattiamo nel dito di Gustavo Zagrebelsky, puntato contro «l’enorme concentrazione di potere mondano» di cui la Chiesa dispone. E nei suoi profetici richiami perché essa si purifichi dai beni della terra e dal potere sulla terra. Pena la salvezza della laicità e, dunque, della democrazia. Una Chiesa di santi. Una laicità senza se e senza ma. Eppure non si può mettere sulle spalle di Pietro il peso dei guasti della democrazia in Italia. Ora è vero che la gerarchia cattolica ha rinunciato da troppo tempo a parlare di Dio. E sente piuttosto il dovere di intervenire su temi lontani dalle Sacre Scritture e dalle vite concrete delle donne e degli uomini. Che vuole raggiungere direttamente il legislatore nelle pieghe di un tessuto politico fragile e gregario. Ma non si può ignorare che l’essere cattolici si riduce all’esser stati battezzati, che i vescovi orientano sempre meno le menti, le scelte morali, le decisioni elettorali degli italiani. La longa manus della Chiesa (così la chiamano Mauro e Zagrebelsky) riesce solo a muovere un ceto politico impegnato nella spartizione di prebende, il cui cinismo resiste ai colpi di ogni indignazione. Da parte mia mi sottrarrei volentieri al compito di individuare il germe che fornisce la cifra specifica del deficit di etica pubblica nel-l’Italia di oggi. Perché non sono capace di fare un ragionamento semplificato. Avrei bisogno di tirare in ballo crisi del sistema dei partiti, mutamenti di assetti internazionali, tradizioni civiche, culture politiche, guelfi e ghibellini. E il ragionamento sarebbe meno incalzante. Una cosa però la voglio dire. Se proprio non posso sottrarmi alla semplificazione tirerei in ballo il tradimento delle élites democratiche e delle forze politiche che dal 1994 in avanti le hanno rappresentate. Perché in 17 anni di berlusconismo hanno guidato il Paese per 101 mesi, cioè 8 anni e mezzo, se mettiamo insieme i governi Dini, Prodi, D’Alema, Amato. Perché il loro narcisismo etico – per usare una categoria centrale nell’ultimo libro di Franco Cassano, L’umiltà del male – il loro atteggiamento di superiorità morale le ha rese incapaci di una mobilitazione in grado di innervare la politica.
Se il Grande Inquisitore è riuscito ad avvelenare i pozzi non è solo per la sua potenza, ma anche perché il campo gli è stato lasciato libero dalla presunzione di quelli che Dostojevski nella sua Leggenda chiama i dodicimila santi.
Repubblica 8.7.11
Celine. Com’è difficile celebrare un genio cattivo
di Alan Riding
Le riviste gli hanno dedicato corposi supplementi letterari, ma i funzionari pubblici dovrebbero restare in silenzio
Il critico del "Nyt" sul caso dello scrittore che divide la Francia
Il suo capolavoro "Viaggio al termine della notte" uscì nel 1932, cinque anni prima che lui abbracciasse l´antisemitismo
Com´era prevedibile, il cinquantenario della morte di Céline ha scatenato in Francia un mare di polemiche. All´inizio di quest´anno, quando il suo nome fu inserito dal Ministero della Cultura nell´elenco delle personalità da celebrare nel corso del 2011, ci furono moltissime reazioni indignate. «L´antisemitismo discredita Céline, come uomo e come scrittore», dichiarò scandalizzato Serge Klarsfeld, chiedendo la cancellazione di qualsiasi iniziativa ufficiale. Tanto che alla fine il ministro della cultura Frédéric Mitterrand fu costretto a ritirarne il nome dal programma delle celebrazioni. Un gesto che gli estimatori di Céline denunciarono immediatamente come un atto di censura intollerabile nei confronti di uno dei più grandi scrittori del XX secolo. Da allora le discussioni continuano, senza impedire tuttavia che il romanziere sia oggi al centro di convegni, letture, aste e spettacoli. Per non parlare delle molte pubblicazioni giunte in libreria, tra cui, oltre l´ottima biografia scritta da Henri Godard, Cèline (Gallimard), anche una ricca raccolta di testimonianze sullo scrittore, D´un Céline l´autre (Robert Laffont), al cui interno figurano una trentina di pagine inedite della figlia Colette. (Fabio Gambaro)
PARIGI. Gli anniversari di solito sono una buona occasione per celebrare grandi artisti del passato. E così sembrava dovesse essere anche per lo scrittore francese noto con il nome d´arte di Louis-Ferdinand Céline, morto cinquant´anni fa. I preparativi per commemorare la ricorrenza erano già in fase avanzata quando qualcuno ha cominciato a rimarcare che Céline era un feroce antisemita, che fomentò l´odio nei confronti degli ebrei prima e durante l´occupazione tedesca della Francia.
Il problema è che la Francia venera ancora Céline, non per le sue idee politiche ma per il suo modo di scrivere, soprattutto in Viaggio al termine della notte. Quando questo straordinario romanzo semiautobiografico fu pubblicato, nel 1932, cinque anni prima che Céline abbracciasse l´antisemitismo come suo nuovo credo, fu subito salutato come un capolavoro, e oggi nella letteratura francese moderna occupa un posto paragonabile a quello che occupa per la letteratura inglese l´Ulisse di Joyce.
Ma è possibile separare il Céline scrittore dal Céline uomo?
Nel suo caso, la distinzione non è così netta, perché ha scritto anche tre pamphlet contro gli ebrei – Bagattelle per un massacro (1937), Scuola di cadaveri (1938) e Le belle bandiere (1941) – che vendettero bene proprio perché era un autore famoso. Per i suoi ammiratori, però, importano soltanto i suoi meriti letterari.
Lo sconcerto per i comportamenti personali di artisti acclamati naturalmente non è un fenomeno inedito. Anzi, siamo attratti, come se sentissimo il bisogno di sgonfiare il mistero del loro dono, da biografie che "umanizzano" creatori famosi sottolineando i loro limiti come coniugi, o la loro nevrotica insicurezza, o il loro debole per l´alcol e le droghe.
Ma è un altro discorso quando gli artisti cercano (o, come spesso succede, ci si aspetta che cerchino) di influenzare l´opinione pubblica. In questi casi, possono aspettarsi di essere giudicati per qualcosa di più che per la loro arte.
Sono innumerevoli gli esempi di artisti, in particolare scrittori, che hanno preso posizioni politiche. Aleksandr Solzhenicyn, ad esempio, è ricordato, da un numero di persone molto superiore a quello dei suoi lettori, per aver denunciato il comunismo sovietico; il premo Nobel per la letteratura del 2010, Mario Vargas Llosa, nel 1990 si presentò senza successo alla corsa per la presidenza del Perù; e la dissidenza esplicita dell´artista cinese Ai Weiwei recentemente gli è costata un soggiorno dietro le sbarre.
Al tempo stesso, il coinvolgimento politico comporta il rischio di finire dal lato sbagliato della storia. E in questo senso si può tracciare un parallelo tra Céline e Richard Wagner.
Nel saggio Il giudaismo nella musica, pubblicato da Wagner sotto uno pseudonimo nel 1850, il grande musicista scriveva della «nostra naturale ripugnanza contro la natura giudaica». Anche se la sua animosità nei confronti degli ebrei non era livorosa come quella di Céline, l´antisemitismo è associato alla sua identità pubblica fin dagli anni Trenta, quando diventò il compositore preferito di Hitler.
Quindi dovremmo boicottare la sua musica? Israele per molto tempo ci ha provato, anche se il direttore d´orchestra israeliano (e nato in Argentina) Daniel Barenboim ha sfidato questo divieto ufficioso, eseguendo nel 2001 a Gerusalemme l´ouverture wagneriana del Tristano e Isotta, e dichiarando l´anno scorso che «un giorno dovremo liberare Wagner» dalla sua associazione con Hitler e i nazisti.
Potrà succedere lo stesso per Céline? Non è stato certo l´unico scrittore francese a vomitare dichiarazioni antisemite durante l´occupazione tedesca. Ma mentre, per fare qualche esempio, Pierre Drieu La Rochelle si suicidò e Robert Brasillach fu fucilato dopo la liberazione, Céline fuggì in Danimarca, e dopo un´amnistia tornò in Francia, nel 1951, da uomo libero. Comprensibilmente, per qualcuno il desiderio di vederlo punito non è finito con la sua morte.
D´altra parte, a differenza di Drieu La Rochelle e di Brasillach, Céline è ancora molto letto e insieme a Proust e a Camus rappresenta la pietra angolare della letteratura francese del Novecento. Ed è sicuramente per questo motivo che all´inizio di quest´anno il ministero della Cultura francese ha considerato normale includere l´anniversario della sua morte tra gli eventi culturali rilevanti del 2011.
Poi Serge Klarsfeld, famoso cacciatore di nazisti che perse il padre nell´Olocausto, è intervenuto, sostenendo che la Francia non doveva celebrare un uomo che perorava lo sterminio degli ebrei. Temendo problemi, il ministero della Cultura si è affrettato a dissociarsi da Céline e dall´anniversario, suscitando però lamentele e accuse di censura.
Tutto questo trambusto tuttavia non è stato inutile. Quest´anno è uscita una nuova, importante biografia di Céline, più altri libri che analizzano aspetti diversi della sua scrittura. Numerose riviste inoltre hanno dedicato allo scrittore corposi supplementi letterari. Ma almeno i funzionari pubblici oggi dovrebbero restare in silenzio. E gli ammiratori del Céline scrittore non possono più ignorare il Céline uomo. Un genio? Probabilmente. Cattivo? Senza dubbio.
(L´autore ha scritto recentemente il saggio And The Show Went On: Cultural Life in Nazi - Occupied Paris) (Traduzione di Fabio Galimberti)
© The New York TimesLa Repubblica
il Fatto Saturno 8.7.11
Icone della gauche
Foucault a destra?
di Marco Filoni
CHE MICHEL FOUCAULT sia stato un grande filosofo va da sé. Le sue opere rimangono fra le più interessanti, lette e discusse del Novecento. Non solo. Il filosofo ha anche segnato il pensiero politico: l’influenza dei suoi concetti, considerevole nel mondo intellettuale, lo è stata ancor di più nel campo della sinistra francese. Perciò soltanto pensare di ridiscutere la sua “collocazione” politica appare un’operazione azzardata. Si capisce allora il dibattito che ha suscitato, Oltralpe, il coraggioso libello di José Luis Moreno Pestaña, Foucault, la gauche et la politique (pubblicato dall’editore Textuel di Parigi), con le conseguenti reazioni indignate – fra tutte, quella di Serge Audier apparsa su Le Monde. Coraggioso perché, in fondo, con una semplice domanda demolisce un mito strutturato e potente: ma Foucault era davvero di sinistra? L’imbarazzante questione è posta con grazia. Senza venerazione né irriverenza. Bensì con una sana distanza che permette all’autore di non fare del filosofo un’icona, ma studiarlo come oggetto di una sociologia degli intellettuali. Insomma, si libera dal vecchio ritornello “cosa è di destra” e “cosa è di sinistra” nel pensiero di Foucault. Il filosofo si incaricò di cause dimenticate o snobbate dai colonnelli del materialismo storico (come la prigione o il potere psichiatrico), e per questo è sempre stato considerato un rinnovatore del pensiero della sinistra, di-screditata dagli scogli del marxismo. Però Pestaña mostra una realtà più complessa, studiando il suo autore sotto tre aspetti: la vicenda biografica; la sua traiettoria accademica; il suo impegno politico. Il tutto attraverso la lettura delle opere pertinenti dal punto di vista politico. Scopriamo così che il filosofo è stato incostante: comunista durante gli studi all’École Normale Supérieure; vicino al potere gaullista nei primi anni da docente; con il Sessantotto militante nell’estrema sinistra e poi, alla fine degli anni Settanta, a flirtare con il neoliberismo. È questa la pietra dello scandalo per i foucauldiani: perché il loro idolo ha avuto questa virata liberale negli ultimi anni della sua vita? L’autore non cede alla via più semplice: non la vede né come evoluzione né come involuzione. Piuttosto che denunciare questa svolta, cerca di comprenderla. E lo fa leggendo le differenti frazioni dello spazio politico con le quali Foucault viene a tessere le proprie relazioni – sia in campo economico con il marxismo, che in quello giuridico con il liberalismo. Insomma, dopo aver scoperto che Marx non era marxista, tocca riconsiderare Foucault che, in fondo, non fu così foucauldiano.
il Fatto Saturno 8.7.11
Tutte le donne del dittatore
Da Eva a Evita
Hitler amava la Braun quanto il suo cane. Dalla moglie di Mao a Claretta, cosa significa vivere accanto a un tiranno
di Emilio Gentile
VARIA È STATA LA FINE di mogli e amanti dei dittatori nel XX secolo. Evita, la moglie del presidente argentino Juan Domingo Peron, morì di cancro nel 1952, quando il marito era ancora al potere, e fu glorificata come la santa laica del peronismo. Completamente diversa fu invece la fine di alcune mogli dei dittatori comunisti. La seconda moglie di Stalin si suicidò nel 1932, dopo essere stata brutalmente insultata dal consorte. La moglie del dittatore comunista rumeno Nicolae Ceausescu fu fucilata col marito nel 1989, quando il loro regime fu abbattuto dalla rivoluzione popolare. L’ultima moglie di Mao Zedong, Jiang Qing, fu arrestata subito dopo la morte del marito nel 1976: processata e condannata all’ergastolo, si suicidò in carcere nel 1991.
Tragica, ma per loro libera scelta, fu la fine di due giovani donne, che amarono potenti dittatori quando erano trionfanti in trono, e vollero rimanere al loro fianco fino alla morte, quando precipitarono nella polvere. Così fece Clara Petacci, amante di Mussolini, uccisa con lui dai partigiani il 28 aprile 1945. Due giorni dopo, a Berlino, si suicidava Eva Braun, l’amante che Hitler aveva sposato poche ore prima di uccidersi, dopo aver fatto avvelenare la sua amata cagna Blondi.
Per curiosa coincidenza, Clara ed Eva erano nate nello stesso anno, il 1912, ed erano diventate amanti dei loro dittatori quasi nello stesso periodo. Eva incontrò Adolf per la prima volta, casualmente, nel 1929, quando egli aveva quaranta anni ed era da poco diventato, come capo del partito nazionalsocialista, uno dei politici più votati e acclamati in Germania. Clara incontrò per la prima volta Benito nel 1932, quando il duce aveva quarantanove anni e da dieci era saldamente al potere di un regime totalitario.
La relazione fra le due ragazze e i due dittatori si consolidò contemporaneamente nel corso degli anni Trenta, ma con una differenza sostanziale. Benito era sposato con figli mentre Adolf rifiutava il matrimonio e la paternità. Attribuendosi un genio sovrumano, Hitler non voleva generare figli banalmente umani, mentre sosteneva che un uomo di grande intelligenza doveva scegliersi «una donna stupida e rozza». Il Führer si considerava idealmente lo sposo della Germania e il padre di tutti i tedeschi, ai quali aveva sacrificato la sua vita privata. Per questo, mantenne Eva nell’ombra, ammettendola solo nelle riunioni private con i pochi gerarchi e le loro famiglie nella sua casa sull’Obersalzberg. E forse per questo, i maggiori biografi di Hitler hanno considerato Eva Braun un personaggio storicamente insignificante. Nel 1952, Alan Bullock la definiva una ragazza di modesta levatura mentale, la cui vuotaggine non dava fastidio al dittatore. Venti anni dopo, Joachim Fest la menzionava appena un paio di volte nella sua biografia di Hitler, considerando molto più importante, per la vita del capo nazista, la turbolenta relazione amorosa avuta con la nipote Geli Raubal, morta suicida nel 1931. Ma anche Eva tentò due volte il suicidio, credendosi trascurata da Hitler. Che forse per questo le si affezionò di più.
Memorie e testimonianze di gerarchi nazisti e delle loro consorti hanno tramandato immagini di Eva contrastanti, fra la vacua fanciulla trattata dall’amante con indifferenza, e l’innamorata devota, che Hitler ricambiava con sincero affetto. Altrettanto contrastanti sono i giudizi di due recenti biografe di Eva, che hanno ricostruito la sua vita con accurate ricerche e un severo vaglio delle testimonianze. Per Angela Lambert, era «una ragazza borghese rispettabile e di buona educazione», che non era antisemita e neppure iscritta al partito nazista, «ma ebbe la sfortuna di innamorarsi di un mostro», sacrificandogli tutta se stessa. Invece secondo Heike B. Görtemaker, nei quattordici anni di intima relazione con Hitler, la ragazza di famiglia piccolo borghese divenne «una capricciosa, intransigente sostenitrice dell’assoluta fedeltà nei confronti del dittatore», credente nella sua ideologia, e capace di conquistarsi nella corte privata del Führer una «posizione inattaccabile», tanto che i gerarchi desiderosi di essere nelle grazie del loro capo, come Speer o Goebbels, «si videro costretti anche per questa ragione a farle la corte».
Eva amava Hitler. È difficile dire quali erano i veri sentimenti di Hitler verso di lei. Un giorno, fantasticando su un suo addio alla politica, il Führer disse ai commensali: «Non prenderò nessuno con me, salvo la signorina Braun; la signorina Braun e il mio cane». Forse, in quel momento, Hitler era sincero. Forse amava veramente la signorina Braun come il suo cane.
il Fatto Saturno 8.7.11
Evoluzione
L’uomo, per caso
di Raffaele Liucci
È UN LIBRO da raccomandare agli esperti di alieni, che quasi sempre li dipingono con fattezze umanoidi. Forse più nanerottoli di noi, con quattro dita invece che cinque, una testolina glabra, ma comunque assai simili all’homo sapiens. Soltanto illusioni, specchio di un antropomorfismo perverso. Se anche ci fosse vita su altri pianeti, essa avrebbe assunto forme per noi inimmaginabili. Come ci ha spiegato il grande Stephen J. Gould – il vero nume tutelare dell’ultimo lavoro del filosofo della scienza Telmo Pievani, La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto presso Cortina – se riavvolgessimo il nastro dell’evoluzione, otterremmo uno scenario radicalmente diverso da quello attuale. L’uomo non ci sarebbe più. Ogni processo evolutivo è infatti una «sequenza di eventi irripetibili e generosi». Se, per esempio, 60 milioni di anni fa un meteorite non avesse polverizzato i dinosauri , dando il via libera ai mammiferi, forse oggi, al nostro posto, ci sarebbero dei magnifici rettili piumati. Più che figli di Dio, noi umani siamo figli di quel meteorite. Pievani ha scritto un libro stuzzicante e irriverente. Non piacerà a quanti – teologi e filosofi della storia – assegnano una nicchia privilegiata all’uomo nell’universo. Corbellerie! Fra 5 miliardi di anni, prima di esplodere, il Sole si espanderà e inghiottirà la terra. La biosfera, probabilmente, si sarà già esaurita da tempo. E il bipede? Si estinguerà entro qualche migliaio d’anni, come il 99 per cento delle specie che l’hanno preceduto («Allegria!», direbbe Mike Bongiorno). In un grande libro che abbracciasse l’intera parabola del nostro pianetino (i 4,5 miliardi di anni già trascorsi e i 5 che ci attendono), l’homo sapiens non troverebbe spazio neppure in una nota a piè di pagina. Assai più rilevanti di lui sono stati i batteri e altri organismi unicellulari. Insomma, dobbiamo farcene una ragione. Siamo il frutto della contingenza, l’esito di «un’evoluzione che non ci aveva previsto». Ma scoprire che nessuna mano invisibile ha mai guidato le nostre sorti, non significa precipitare nell’orrido del nichilismo, come sentenziano i sacerdoti più corrucciati. La nostra vita, infatti, può avere un senso anche se non è incastonata in un disegno che la trascende. Perché siamo noi a costruirla, giorno dopo giorno, in un mix «di libertà e di conseguente responsabilità morale» (Gould). La storia siamo noi.
La Stampa 8.7.11
Intervista a Tullio Regge
Per un giorno Einstein mi ha tradito
“Arrivai a Princeton e lui se n’era appena andato” Il grande fisico racconta i suoi primi 80 anni
di Piero Bianucci
LA SCIENZA. «È il grande gioco di capire come funziona il mondo»
LA FISICA. «Siamo in una fase di stallo, non vedo idee originali»
CONTROCORRENTE. Sono per gli Ogm e contro il fumo. I primi non hanno mai ucciso»
LA POLITICA. «Ho avuto un seggio a Strasburgo, accanto a me c’era Napolitano»
Lunedì il compleanno Tullio Regge è nato a Torino l’11 luglio del 1931. È noto per l'introduzione nella meccanica quantistica dei poli di Regge. I suoi studi hanno permesso tra l’altro l’elaborazione di una versione semplificata della relatività generale di Einstein. Da giovane è stato buon giocatore di rugby, fino a che una forma di distrofia muscolare non lo ha progressivamente costretto su una sedia a rotelle.
Ottant’anni l’11 luglio. Ottant’anni controcorrente? Tullio Regge, uno dei fisici italiani più creativi della generazione dopo Fermi, scuote la testa dai capelli rossi e sgrana gli occhi. «Dipende. Una volta per sbloccare i lavori edilizi del nuovo istituto di fisica ho fatto lezione in una strada dove passavano i tram. Poco dopo i politici locali l’hanno inaugurato in pompa magna. Ho fatto divulgazione della scienza quando i miei colleghi la disprezzavano. Mi piaceva l’ecologia quando non era praticata da fondamentalisti e ora detesto i Verdi. Mi batto perché i disabili abbiano pari opportunità: è normale per chi come me vive su una carrozzina. Difendo gli Ogm e attacco le sigarette: è logico, gli Ogm non hanno mai fatto male a nessuno mentre ogni anno milioni di persone muoiono di cancro ai polmoni».
E nella scienza? I «Poli di Regge», la versione semplificata della relatività di Einstein e il primo tentativo di mettere d’accordo relatività e meccanica dei quanti furono momenti di rottura. E non ha detto di recente che la fisica è finita?
«Non è esattamente così. La fisica non è finita semplicemente perché la fisica, ma vale per la scienza in generale, non finirà mai. Oggi siamo in uno stallo. Non vedo grandi novità, teorie originali. Ma succede sempre così. Pensi a Newton, che sistema i moti di pianeti e stelle con la legge di gravità, a Maxwell che sistema l’elettromagnetismo. Poi viene Einstein e con la relatività speciale e generale dimostra che quelle teorie erano solo approssimazioni. Ma la relatività non va d’accordo con la meccanica dei quanti, che Einstein stesso aveva contribuito a fondare con il concetto di fotone, la particella di luce. Ora sono di moda le Teorie del Tutto...»
Pensa alle superstringhe?
«Sì, una strada interessante. Ma non definitiva. Insomma: la mia è, se vuole, una forma di religione, un dogma: oggi non c’è fisica originale perché siamo alla ricerca di un nuovo paradigma. Ma se lo si troverà avremo solo spostato un po’ più avanti la frontiera. Questa idea che il Principio è irraggiungibile dovrebbe piacere ai preti...» Il paradigma della fisica oggi è il Modello Standard delle particelle elementari. Lei una volta mi disse che è un modello poco elegante. Se al Cern di Ginevra trovassero la particella di Higgs, detta anche “particella di Dio”, ultimo tassello del Modello Standard, cambierebbe idea?
«Se la trovassero sarei contento ma ripeto: non sarebbe che un passo» Un altro grande fisico italiano, Luciano Maiani, una volta mi disse che sarebbe bello trovare la particella di Higgs ma sarebbe ancora meglio non trovarla perché in questo caso bisognerebbe inventare una nuova fisica.
«Questo è un vezzo di noi fisici. Ci piace quello che non si capisce. Non gli darei torto» Dopo Fukushima l’energia nucleare è morta?
«Fukushima dimostra che anche le soluzioni migliori alla lunga rivelano pericoli. Ma sono contrario al cosiddetto principio di precauzione strombazzato dai Verdi: accettarlo porta alla paralisi della scienza. In Francia ci sono 50 centrali nucleari e finora tutto è andato bene. Comunque l’energia nucleare non è una soluzione definitiva: l’uranio finirà, come il petrolio».
Dunque bisogna puntare sulla fusione nucleare, sul progetto Iter, appena partito a Cadarache, in Francia?
«La fusione nucleare è interessante, ma se ne parla nel 2050».
Lei è stato per vent’anni all’Istituto di Princeton, dove c’era Einstein. E’ un destino che i nostri scienziati vadano all’estero?
«Sono nato a Borgo d’Ale, provincia di Vercelli. Mi sono laureato in Fisica a Torino con Mario Verde. Lì ho incontrato Gleb Wataghin, che mi da dato uno sguardo internazionale. Fu lui a mandarmi negli Stati Uniti a studiare le particelle elementari dal 1954 al ’56 all’Università di Rochester. Poi sono andato in Germania, dal grande Heinsenberg. Un mio lavoro sui momenti angolari complessi ebbe molta fortuna perché accorciava i calcoli di cento volte. Ero stupitodi questo successo: tutti ne parlavano, a me non sembrava niente di speciale. Di lì è venutoil resto. Ho avuto un posto all’Università di Princeton, e poi all’Istituto, ma Einstein era morto il giorno prima, non l’ho conosciuto. Un altro mio lavoro attirò l’attenzione di Wheeler, all’epoca il maggiore studioso di relatività generale. Ma ho sempre conservato la cattedra di relatività che avevo ottenuto nel 1961 in Italia. E sono tornato qui nel 1979, quando negli Usa mi diedero la Medaglia Einstein».
Ci fu poi l’amicizia con Primo Levi. Che cosa ha pensato alla notizia del suicidio?
«Credo che con quel gesto abbia voluto riprendere in mano il proprio destino di fronte a qualche problema che sentiva più grande di lui».
Lei ha fatto anche un’esperienza politica.
«Nel 1989 mi offrirono una candidatura come indipendente nelle liste del Pci e sono diventato parlamentare europeo. Cinque anni. Interessanti i primi due, poi un po’ meno. Pensi che seduto accanto a me c’era Napolitano, dal lato opposto il giovane Fini, in mezzo Rosy Bindi. Quando il Pci si è sciolto mi sono sentito ancora più libero. Devo dire che la politica allora non era come oggi: non dominavano ignoranza e volgarità».
Esperienza chiusa?
«Ho rivisto Fini ad un Costanzo Show. Mi viene in mente che qualcuno una volta parlandomi di non so quale politico mi disse: è molto intelligente, infatti non crede a quello che dice».
Con la scienza lei ha anche giocato: dalla ciclide di Dupin ha ricavato una poltrona che è stata prodotta industrialmente con il nome di Detecma 1. Con i frattali ha fatto al computer molti disegni ironici, tra i quali una «Viola del pensiero debole» dedicata a Gianni Vattimo.
«Una rivincita. Prima di passare a Fisica ho fatto due anni al Politecnico. Avevo tutti 30 ma di disegno ebbi 21. Scrivendolo sul libretto il professore mi disse che stava facendo un falso in atto pubblico, avrebbe dovuto bocciarmi. Ma la scienza è sempre gioco. Il gioco di capire come funziona il mondo».
Corriere della Sera 8.7.11
Dalle grotte di Lascaux alla Gioconda, al web: un cosmologo di Cambridge sottolinea la centralità dell’elemento figurativo
Il futuro della scienza è nelle immagini
Barrow: «La grafica computerizzata aiuta a comprendere meglio l’universo»
di John D. Barrow
A miamo le immagini. Sono le prime cose che vediamo. La nostra mente non è stata fatta per i numeri, le lettere, i libri contabili, gli spartiti musicali o le equazioni matematiche — tutto questo è solo un’appendice aggiunta alla storia umana. I nostri sensi si sono evoluti in un ambiente che abbiamo imparato a capire e ricordare in forma di immagine. Da questi umili primi passi abbiamo ereditato una predilezione per le raffigurazioni. Le troviamo divertenti, educative, memorabili ed evocative. I primi reperti di antropologia culturale ci mostrano figure incredibilmente sofisticate, come quelle delle grotte di Lascaux, che sarebbero considerate opere d’arte anche secondo gli standard attuali. Le immagini hanno avuto un ruolo nel fornire alle società primitive legami utili per la loro sopravvivenza, hanno connotato interi periodi della storia umana con il loro stile e i loro soggetti e hanno mantenuto in vita tradizioni e memorie comuni per lunghi periodi di tempo. Sono state un riferimento per la contemplazione religiosa e ci hanno innocentemente usato come soggetti. In tutte queste occasioni le immagini cercano di rappresentare e racchiudere qualche aspetto della realtà in una forma che abbia un impatto immediato: qualcosa che sia memorabile senza bisogno cha la si ricordi. Ogni ramo dell’attività umana ha le sue icone. Tutti ne conosciamo molte nei campi dell’arte e del design. Dalla Gioconda all’Alhambra, alla mappa della metropolitana di Londra, alcune immagini si impongono nel tempo ed esercitano una grande influenza. Danno forma alla nostra percezione e concezione del mondo. Lo stesso accade nella scienza. Alcune immagini hanno accompagnato i nostri progressi nella comprensione dell’universo, altre si sono dimostrate così efficaci nel comunicare la natura della realtà da entrare a far parte del processo stesso del pensiero, come i numeri o le lettere dell’alfabeto. Altre ancora, altrettanto autorevoli, ci sono diventate così familiari da passare inosservate nella pratica scientifica, sono entrate a far parte del vocabolario della scienza che usiamo senza pensarci. Le immagini e le figure hanno avuto un ruolo fondamentale nel plasmare la nostra visione scientifica del mondo. Alcune sono così poco evidenti da determinare il nostro modo di fare scienza o di descrivere la realtà senza che ce ne accorgiamo. Altre sono icone onnipresenti e dominano la presentazione di interi rami della scienza o della sua storia. Altre ancora sono di natura estetica, ma con un substrato scientifico che le rende importanti per la nostra storia. L’uso di diagrammi e figure nella scienza e nella sua esposizione è un’attività che non ha più un imperativo artistico. A volte gli scienziati che creano una nuova forma di rappresentazione visiva tracciano loro stessi quelle immagini, ma più spesso la versione finale viene eseguita da altri. Un disegnatore tecnico (o anche un programma di computer) produrrà dai loro schizzi una versione più gradevole. Quale vero artista seguirebbe questa via? Gli scienziati cercano di presentare le informazioni in modo immediatamente riconoscibile, ma a volte accade che i loro sforzi acquistino una durata e un’autorità maggiori di quanto avessero mai immaginato. Nel fare queste considerazioni, notiamo un potente stimolo tecnologico che fornisce agli scienziati nuovi modi di utilizzare le immagini. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una delle più grandi rivoluzioni della storia umana. La creazione e la rapida diffusione di Internet e del World Wide Web hanno radicalmente mutato il nostro modo di pensare e di raccogliere informazioni, superando la capacità biologica dei singoli individui e consentendo il reperimento e lo scambio istantaneo di immagini. L’intero sviluppo della scienza moderna, peraltro, è accompagnato da un aspetto fortemente visuale. L’avvento di computer piccoli e poco costosi, dotati di una grafica superba, ha cambiato il modo in cui molte scienze operano, e in cui tutte le scienze presentano i risultati di esperimenti e calcoli. Molto tempo fa, i computer erano enormi e tremendamente costosi, ed erano appannaggio di grandi gruppi di ricerca ben finanziati, che studiavano questioni di grande portata. Costruivano bombe, predicevano il tempo, o cercavano di comprendere il funzionamento delle stelle. La rivoluzione del personal computer ha cambiato tutto. Ha permesso che si diffondessero studi su argomenti come il caos e la complessità. La matematica è diventata una disciplina sperimentale. Singoli individui possono seguire problemi prima inaffrontabili, semplicemente guardando quello che succede quando vengono elaborati dal programma di un personal computer. Il risultato, il più delle volte, è una sequenza di immagini o filmati dello sviluppo e del compiersi di un processo complesso. Non esiste una formula semplice che ci dica come le galassie assumano le forme e le dimensioni che vediamo, o che tipo di drammatica turbolenza risulti dalla serie di rapide attraversate da un fiume che scorre velocemente. Questi problemi sono troppo complessi per essere risolti con precisione usando solo carta e matita. Ma le immagini e i filmati riescono a mostrare i punti cruciali di questi fenomeni, trasformando le equazioni matematiche che controllano il loro comportamento in immagini. Il rapido sviluppo di una grafica spettacolare ha permesso a chiunque di presentare le sue conclusioni in un modo più visivamente sofisticato di quanto il cinema sapesse fare appena vent’anni fa. La rivoluzione del Pc ha reso la scienza più visiva e immediata. Ha migliorato la capacità intuitiva della mente umana di cogliere attraverso l’esperienza l’andamento di modelli complessi, creando film di esperienze immaginarie di mondi matematici. Gli ultimi dieci anni hanno anche visto una crescente accentuazione della visualità in molte aree della cultura. I film sono sempre più contrassegnati dalla presenza di effetti speciali visivi. La gara a inserire sempre più immagini di catastrofi rende quasi superflua la trama. Il teatro sperimentale porta sul palcoscenico nuove sfide tecniche che amplificano l’esperienza visiva. La musica popolare è accompagnata dall’onnipresente video o Dvd, il suono non è più sufficiente. I film d’animazione hanno raggiunto nuovi livelli di sofisticazione, e persino i libri hanno i loro siti web. Le parole non bastano più. In questo clima, la sfida è quella di pensare al ruolo delle immagini nella scienza, non solo oggi, ma nell’arco di molte centinaia di anni. Ci sono immagini, grafici, figure e mappe che hanno un ruolo chiave nell’ampliare la nostra comprensione del mondo. Nel mio libro Le immagini della scienza ho raccolto una selezione personale di queste icone speciali. Molte di queste immagini figurerebbero nella galleria scientifica della maggior parte di noi, mentre altre sono state scelte con criteri più soggettivi, dato che la loro importanza non è immediatamente evidente o il loro significato non è stato riconosciuto prima. Le immagini scientifiche spesso non riguardano solo la scienza. Possono essere interessanti perché sono di origine scientifica, ma hanno comunque un’innegabile natura estetica. Oppure possono essere state in primo luogo opere d’arte e possedere anche un messaggio scientifico. Ciascuna immagine ha una storia. A volte ci parla dell’autore, a volte dell’intuizione scientifica che ne scaturisce o della tecnica di rappresentazione, a volte succede che l’immagine in sé assuma un’importanza imprevista che stimola una linea di pensiero del tutto nuova, altre volte, infine, è semplicemente una rivelazione dell’inatteso. (Traduzione di Maria Sepa)
l’Unità 8.7.11
Tra Barocco e Settecento. Trionfo Barberini
La Galleria Nazionale di Arte Antica nel palazzo a Via Quattro Fontane ora è completa, dopo lo sfratto del Circolo Ufficiali. Appena inaugurate le sale al secondo piano: da Luca Giordano a Ribera, alle vedute del Canaletto
di Renato Barilli
Da pochi mesi si sono chiuse, per i visitatori di tutto il mondo affluenti a Roma, le sale di Palazzo Farnese, ma ora si aprono, pienamente restaurate, quelle di Palazzo Barberini, e rimarranno visibili per sempre, in quanto proprietà dello stato italiano, che le gestisce attraverso il polo museale romano retto dalla soprintendente Rossella
Vodret, con direzione affidata ad Anna Lo Bianco. E dunque, tra i due maestosi edifici si è come compiuta una staffetta, che è anche il passaggio da una prestigiosa manifestazione del Rinascimento maturo a una piena realizzazione del subentrante barocco.
Un confronto tra i due Palazzi potrebbe risolversi a favore del primo dei due, quanto a collocazione, dato che il Farnese che l’ha voluto, Alessandro, fondatore della dinastia, e poi papa col nome di Paolo III, non esitò a far spianare lo spazio anti-
stante in una ampia piazza, e così la facciata si può contemplare a distanza.
Invece l’altro edificio, pur sorgendo sul colle «più alto» di Roma, il Quirinale, sporge sull’angusta Via delle Quattro Fontane e quasi si nasconde alla vista. Ma non importa, i tre geni dell’architettura barocca che vi hanno posto le mani in successione, il Maderno, il Borromini e il Bernini, hanno giocato di superbi inganni ottici per allargarne la vista, con la soluzione di mettere in prospettiva le incorniciature dei finestroni, che così risucchiano gli sguardi e li convogliano in profondità.
Ma il tramando tra i due Palazzi si pone soprattutto nel segno della pittura. Il Farnese, diciamolo pure, non fu fortunato nelle imprese decorative ospitate, in quanto il padrone di casa, Paolo III, proprio perché divenuto papa, dovette dirottare il genio di Michelangelo verso il Vaticano, a lavorarvi nelle due grandi Cappelle, la Sistina e la Paolina, e così i suoi eredi dovettero accontentarsi delle soluzioni attardate dei Manieristi. Ma proprio al confine col Seicento un abitante del momento, il cardinale Odoardo, ebbe la buona idea di scommettere sul genio con cui si apriva il nuovo secolo, Annibale Carracci, pur chiamandolo a lavorare in uno spazio minore e di appoggio, una Galleria alquanto marginale.
Tuttavia il pittore bolognese vi poneva le premesse di tutta la grande arte del Seicento, e soprattutto apriva la strada al principale dei suoi successori, Pietro da Cortona. Ebbene, questo è il fulcro della staffetta, Pietro ruba la favilla ad Annibale, e
va ad ampliarla a dismisura nel soffitto del salone centrale del Barberini, chiamato da una figura in definitiva equivalente al Farnese, Maffeo Barberini, anche lui di lunga vita, e salito in età avanzata al soglio pontificio col nome di Urbano VIII.
IL SOFFITTO STUPEFACENTE
Sono tempi di riaffermazione del dogma cattolico contro le varie riforme protestanti, e dunque al Cortona viene affidato un tema theologically correct, Il trionfo della Divina Provvidenza, ma l’artista ne fa un’apoteosi di giganti atletici che superano ogni limite, sciamano fuori dal soffitto per invadere le pareti bombate e tesservi una maglia splendida, centuplicando l’ardore di carni vive e il tripudio di motivi naturalistici che già ardevano nella Galleria Farnese, ma là ancora trattenuti da linee divisorie, mentre qui l’incendio divampa sovrano, senza soffrire di limiti e di interruzioni. Un tempo quella maestosa epifania era aduggiata dal fatto che sotto di essa venivano stipati altri capolavori, tutto perché il pianterreno era occupato da un Circolo Ufficiali che non se ne voleva andare, ma ora lo sfratto è stato eseguito, e dunque il gigantesco affresco «provvidenziale» sovrasta incontrastato sullo stupefatto visitatore.
Ma se quello è senza dubbio il vertice dell’intero percorso, non bisogna sottovalutare la strepitosa quadreria che si succede in una serie di sale, dal pianterreno al piano nobile e ora anche in un appena inaugurato secondo piano.
lA GRANDE QUADRERIA
Ci sono ben pochi equivalenti, per ampiezza ed esaustività in Italia, anche se altrove (Uffizi, Brera, Musei Vaticani, Galleria Borghese) si possono contare capolavori più favolosi, qui però tutte le età e le scuole sono validamente rappresentate, talora con opere dimesse e di routine, talaltra con punte di eccellenza che spiccano, per ogni secolo della nostra arte. Le alte sale del pianterreno e del primo piano consentono i grandi formati, mentre al secondo piano appena inaugurato le pareti si abbassano, e il visitatore deve pure affrontare qualche dislivello nel passare da una stanza all’altra, ma vi può ammirare, seppure in formati ridotti, i prolungamenti che mancano invece altrove. Ci sono i protagonisti del tardo barocco come gli eredi del caravaggismo, Jusepe Ribera in testa, e i grandi affrescatori, nei momenti di riposo, come il Gaulli e Luca Giordano, quindi si varca il capo del Settecento, davanti a cui altre pinacoteche si arrestano incerte e titubanti, qui invece si affermano le glorie della scuola romana anche in quel secolo di transizione, con il Benefial, il Traversi, e i primi accenni di neoclassicismo dal Batoni al Mengs, e un vasto capitolo di vedutismo, che proprio nell’Urbe può mettere in campo il grande talento del Pannini, non inferiore al Canaletto e al Guardi. Ma soprattutto è confortante la certezza che tutto quel patrimonio è a nostra disposizione in permanenza.
La Stampa 8.7.11
Pompei, offerta francese 200 milioni per salvarla
Gli industriali parigini: pronti a pagare, ma dateci un piano concreto
di Giuseppe Salvaggiulo
Patrimonio dell’umanità La città di Pompei fu distrutta da un’eruzione del vicino vulcano Vesuvio, nell'anno 79 dopo Cristo Gli scavi archeologici ebbero inizio nel 1748, durante il regno di Carlo di Borbone. Dal 1997 è nella lista dei siti Unesco
Sprechi Il teatro romano ristrutturato con innesti di cemento è stato sequestrato dai pm
Le Domus L’area è grande 65 ettari, di cui 45 scavati e 15 visitabili Sono 15 mila le domus rinvenute
I crolli Il più grave lo scorso 6 novembre: frana la Scuola dei gladiatori Un altro pochi giorni dopo
LA TRATTATIVA Decisivo il ruolo dell’Unesco, che ha favorito due riunioni
GLI OSTACOLI Interpellata anche la Farnesina: serve un «ok» diplomatico
I francesi salveranno Pompei? Di sicuro vogliono farlo. E sono già pronti a staccare assegni milionari. Ma devono fare i conti con la burocrazia e i ritardi dei nostri apparati pubblici, oltre che con una possibile diffidenza «diplomatica» per la colonizzazione di un simbolo italiano.
La vicenda è in pieno svolgimento e prende le mosse dal crollo della Scuola dei gladiatori il 6 novembre 2010, definito da Giorgio Napolitano «una vergogna per l’Italia» e raccontato impietosamente da tutti i giornali e le tv del mondo. Tra dicembre e gennaio l’Unesco (che nel 1997 dichiarò Pompei patrimonio dell’umanità) invia una missione speciale. In primavera, gli inviati dell’Unesco scrivono una relazione con diversi appunti critici (in particolare sul commissariamento in ambito Protezione civile, chiuso l’anno scorso).
A giugno, quando si teme che l’Unesco inserisca Pompei nella «danger list» dei «siti in pericolo», accade qualcosa. Un gruppo di importanti industriali francesi si rivolge all’Unesco, offrendo massiccia disponibilità economica per il sito archeologico. L’organizzazione internazionale, che non ha compiti diretti di gestione, offre il suo prestigio internazionale come «facilitatore». Contatta il ministero per i Beni culturali e organizza un incontro a Parigi tra gli imprenditori e gli emissari di Giancarlo Galan.
Ci sono almeno due riunioni riservate tra la metà e la fine di giugno. La cordata francese spiega le sue buone intenzioni. Ad ascoltarle Massimo De Caro, braccio destro di Galan, e un dirigente della struttura ministeriale di valorizzazione del patrimonio culturale diretta da Mario Resca.
Manca però un rappresentante della sovrintendenza o del ministero in grado di spiegare ai francesi quali sono le esigenze di tutela da soddisfare. Insomma i francesi hanno già in mano il carnet degli assegni, ma vorrebbero sapere che cosa intende fare l’Italia dei loro quattrini.
Non solo. Forte di una lunga esperienza sul campo con studiosi «pompeiani» di valore, l’Unesco fornisce suggerimenti. La storia di Pompei è lastricata di finanziamenti annegati in progetti insensati. Dunque, più che una generosa donazione una tantum tra un’emergenza e un’altra, serve un impegno finanziario di lungo periodo. Per dire: attualmente nell’area archeologica di 65 ettari (di cui 45 scavati con 15 mila edifici e solo 15 ettari visitabili) lavora un solo archeologo, mentre l’ultimo mosaicista andato in pensione nel 2001 non è mai stato rimpiazzato.
Serve un progetto a lunga scadenza con scadenze precise, per ipotizzare un contributo di dieci-venti milioni di euro l’anno per diecivent’anni. Nelle riunioni di giugno, i francesi chiedono garanzie. Il ministero non è in grado di presentare una «lista della spesa». Dunque si prende atto dei buoni propositi e ci si aggiorna, in attesa di un progetto del ministero. Anche perché una questione con riverberi mediatici di portata internazionale richiede una valutazione ulteriore. Si pensa infatti di interpellare anche il ministero degli Esteri. Insomma, accettare i soldi francesi per salvare Pompei richiede un ok del governo. Nel frattempo, l’Unesco concede altri due anni di tempo congelando la «danger list». E il report conclusivo della missione di gennaio, contrariamente a quanto previsto, viene inviato al ministero per i Beni culturali ma non reso pubblico.
Resta un ultimo capitolo. Gli industriali campani vogliono accodarsi ai francesi. Ma mentre i transalpini sono disposti a pagare i restauri di domus e mosaici, gli imprenditori napoletani sono interessati ad attività collaterali: biglietteria, servizi turistici, opere edilizie. Business. Il che fa temere a Italia Nostra che all’ombra del mecenatismo francese si nasconda l’ennesima speculazione italiana. Anche perché la legge salva-Pompei prevede deroghe ai piani urbanistici anche per interventi slegati dalla tutela. E quindi alberghi, sale ricevimenti, outlet...
Corriere della Sera 8.7.11
Galan: per Villa Adriana i fondi necessari entro luglio
Erano gli anni Sessanta del secolo scorso quando Catia Caprino, soprintendente di Villa Adriana, minacciava di impedire l’accesso ai visitatori della magnifica residenza imperiale, se non fossero giunti finanziamenti adeguati alle complesse necessità di quel luogo, vasto e leggendario «monumento» che, come si sa, non coinvolge solo l’archeologia o la storia di Roma e della sua civiltà. Ma, come si sa, è fin troppo facile nel nostro Paese comporre beveroni impressionanti con cui gettare l’allarme per questo piuttosto che per quel vandalismo, sia esso un crollo o un’insopportabile incuria. Incuria che però non colpisce Villa Adriana, e questo grazie sia all’impegno eroico di dirigenti e funzionari della Soprintendenza che ai finanziamenti che, seppur limitati, vengono spesi, nonostante un «garbuglio» burocratico-amministrativo in assoluto micidiale. Infatti, come ben sanno i soprintendenti, il saper spendere non è tutto. È il poter effettivamente spendere ciò che conta. Ed è qui che il discorso si complica moltissimo e rende il tracciato burocratico-amministrativo assai prossimo a fenomeni parossistici, propri di un’amministrazione pubblica afflitta da nevrosi normative e legislative paralizzanti. Dei finanziamenti per Villa Adriana dirò subito. Quando si parla di personale insufficiente e di scarsissimi finanziamenti per le necessità del patrimonio archeologico, monumentale, storico-artistico, archivistico, paesaggistico, si dice qualcosa di assai concreto e di materialmente ineludibile. Nel Codice dei beni culturali c’è scritto che «la conservazione del patrimonio culturale è assicurata mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro» . Ogni nozione sopra indicata avrebbe bisogno di essere finanziata e sostenuta in ogni modo: così lo studio, oppure la prevenzione o la manutenzione o il restauro. E non sto parlando della «valorizzazione» , né della ricerca e accoglienza di numerosissimi visitatori, ecc, ecc. In realtà, Villa Adriana entro luglio avrà i finanziamenti richiesti e lo stesso accadrà per la Domus Aurea e per il Palatino, dato che sono stati recuperati 20 milioni di fondi residui. Desidero comunque precisare quanto segue: sono decisamente convinto che le modalità di spesa del ministero per i Beni e le Attività culturali andrebbero «regolate» secondo ingegnerie finanziarie e contabili che tengano conto del fatto che dallo studio al restauro c’è di mezzo «un tempo» non sovrapponibile al tempo inflessibile di una Finanziaria o di una manovra di sviluppo. Se non si pone mano a una simile riforma e se non si abbatte l’orribile macchina burocratico-amministrativa che opprime il lavoro delle nostre Soprintendenze, non sarà affatto virtuoso il nostro impegno a vantaggio dei beni culturali. E tanto per anticipare, per una volta almeno, Sergio Rizzo, in qualità di ministro segnalo che sulla straordinaria città romana di Sepino nel Molise incombe il pericolo rappresentato da un progetto di impianti eolici che sconvolgerebbero tracce archeologiche e memorie topografiche importantissime. Come si sa, a me non piace praticare «il trionfalismo di iniziative propagandistiche» . Dunque, Villa Adriana ma non solo. Sarebbe sufficiente infatti riflettere sul futuro delle indagini archeologiche condotte lungo il tracciato della linea C della metropolitana di Roma. Dico questo perché lì dentro c’è il sogno di una Roma che darebbe alla capitale d'Italia un ruolo assolutamente unico nel campo del più affascinante immaginario storico. Giancarlo Galan ministro per i Beni culturali
Mariapia Veladiano ha rivelato che Marco Bellocchio ha comprato i diritti del suo libro «ma non so se farà un film e in ogni caso io non parteciperò alla sceneggiatura, perché lui è un artista strepitoso e io il linguaggio delle immagini non lo conosco»
Corriere della Sera 8.7.11
Nesi stravince il premio Strega
Allo scrittore di Prato 138 preferenze. Seconda Veladiano con 74
di Paolo Fallai
H a vinto la rabbia per un’Italia del lavoro che sembra scomparsa e per una volta è stato un successo senza discussioni. Edoardo Nesi, con Storia della mia gente, edito da Bompiani, ha riportato il premio Strega in casa Rizzoli, dopo quattro vittorie consecutive del gruppo Mondadori-Einaudi. «Sono onorato per questo premio, voglio dedicarlo ai tanti che hanno perso il lavoro» le prime parole di Nesi, che si è aggiudicato 138 voti. Doppiando nella classifica finale il secondo classificato Mariapia Veladiano con La vita accanto (Einaudi) che ne ha raccolti 74. Terzo Bruno Arpaia, con L’energia del vuoto (Guanda) e 73 voti. Non hanno spinto fino in fondo la proverbiale capacità di rastrellare voti, in casa Mondadori Einaudi. La sfida in famiglia è stata vinta dalla Veladiano che ha distanziato Mario Desiati con Ternitti (Mondadori), che si è fermato a quota 63. Ma neanche messi insieme i voti dei due candidati mondadoriani avrebbero raggiunto Nesi. La più contenta di tutti l’esordiente precoce, Luciana Castellina, con La scoperta del mondo (Nottetempo), che di voti ne ha raccolti 45. Favorito alla vigilia, Edoardo Nesi era già stato nella cinquina dello Strega nel 2005 con L'età dell'oro. Il libro che ha vinto quest’anno non sembra ripercorrere scelte spesso inclini ad una certa facilità commerciale, che pure hanno caratterizzato la storia dello Strega: in un’opera a metà strada tra romanzo e saggio, raccontando la «sua» Prato invasa dai cinesi, Nesi ripercorre l’illusione perduta del benessere diffuso, l’inganno della globalizzazione, ma anche la scomparsa di un’etica del lavoro. Una storia, in parte autobiografica, che parte proprio dalla chiusura della fabbrica di famiglia per illustrare la fine del distretto tessile di Prato e quello che ha significato la crisi della piccola industria italiana di provincia con i conseguenti licenziamenti di massa. «Un libro di resistenza» l’ha definito Nesi, ma anche un grido di dolore per il modo in cui è stata spazzata via la vitalità dei nostri piccoli imprenditori. Soddisfazione prevedibile in casa Bompiani. Elisabetta Sgarbi, mentre gli applausi coprono la voce del vincitore, ricorda: «Ci abbiamo creduto sempre, è dal 2005 che sosteniamo Edoardo Nesi e alla fine di questo lungo percorso abbiamo raccolto un successo atteso. Lo merita lui, lo merita la Bompiani e la capacità di aver proposto qualcosa di nuovo» . Paolo Mieli, presidente di Rcs Libri, ha voluto «rendere omaggio agli altri quattro finalisti, a cominciare da Luciana Castellina. Quest’anno è stata una gara diversa, piena di fair play. È bello vincere in questa atmosfera» . E Luciana Castellina non ha perso il sorriso neanche per un attimo: «Il grande vantaggio di avere quasi 82 anni è che non ho ansia per il mio avvenire letterario. La mia carriera è alle spalle» . Ma la Castellina non ha tradito la vocazione politica: «Si attribuiscono al Premio Strega tante colpe che non sono del Premio ma del modo in cui è strutturata la vita editoriale italiana dove ci sono sempre più concentrazioni. C’è una legge in Parlamento su come tutelare il pluralismo, speriamo bene. Io cambierei la struttura dell’editoria» . Il resto, tra tanti libri, è cinema. Mariapia Veladiano ha rivelato che Marco Bellocchio ha comprato i diritti del suo libro «ma non so se farà un film e in ogni caso io non parteciperò alla sceneggiatura, perché lui è un artista strepitoso e io il linguaggio delle immagini non lo conosco» . Ospite in una serata povera di politici Dario Franceschini ha chiarito il gossip di giornata su un interessamento di Roberto Benigni per il suo libro Daccapo. «Macché, mi ha fatto i complimenti, dicendo che era perfetto per un film. E io gli ho chiesto se conosceva qualcuno nell’ambiente del cinema. Tutto qui, scherzando» . La serata — in cui mondanità e afa si sono contese le battute peggiori — si era aperta con una novità: il Premio Speciale in memoria di Franco Alberti assegnato all’unanimità dal comitato direttivo del Premio Strega a Giuseppe Galasso. Il resto lo ha fatto quella benedetta lavagna, affidata a Melissa P. come segnapunti e l’inamovibile cappello di Antonio Pennacchi, vincitore del 2010 e quindi, di diritto, presidente del seggio. Piuttosto seccato nei confronti di qualunque critica espressa all’amato premio. Tanto che nella diretta televisiva, se l’è presa con i critici liquidandoli: «Che ci provino loro a scrivere un libro come il mio» . Pillole di vivacità in una serata che ha avuto un solo momento di tensione alla prima conta parziale quando Nesi e Arpaia erano appaiati con 30 voti a testa. Inutile, e quindi essenziale, secondo lo stile di questo rito estivo, ricordare le tante proposte di riforma di un premio che nessuno vuole davvero riformare. «Modifiche?— ripeteva Tullio De Mauro —. In autunno, credo, qualcosa riusciremo a fare. Magari a settembre, col fresco. Abbiamo ricevuto delle proposte, alcune mi paiono interessanti. Per ora le abbiamo raccolte. Ma prima di ogni cambiamento, che non decido io, bisognerà sentire i titolari del marchio, l’azienda Alberti, i 400 Amici della Domenica e il comitato direttivo» . Ieri sera De Mauro ha chiarito meglio: «I 400 non sono voti vitalizi. Ci pensa il buon Dio ogni anno a rimuovere una quindicina di votanti» . E mentre l’intera giuria provvedeva agli scongiuri di rito, il Ninfeo si svuotava con la sensazione che l’unica vera riforma sarebbe rendere palese il voto. I giochi delle case editrici ci sarebbero sempre, almeno potremmo criticarli con nomi e cognomi.
Terra 8.7.11
A piazza Vittorio il cinema è rock
di Alessia Mazzenga
qui
http://www.scribd.com/doc/59541053
Il segretario convoca una Direzione ad hoc sulla legge elettorale e invita di nuovo al passo indietro
Ma Veltroni, Parisi e Castagnetti incontrano Di Pietro, pronto a sostenere il quesito pro-Mattarellum
Referendum stop di Bersani
«Irresponsabile dividere il Pd»
Bersani convoca la Direzione del Pd per discutere di legge elettorale e lancia ai dirigenti che stanno sostenendo i referendum un ammonimento: «Da irresponsabili creare divisioni interne al partito».
di Simone Collini
Una Direzione ad hoc, il 19 mattina, per avere il pronunciamento formale che il Pd sostiene una ben precisa legge elettorale, e poi la sera stessa una riunione con il gruppo di presidenza del Senato per depositare il testo in Parlamento. Pier Luigi Bersani avrebbe volentieri fatto a meno di un partito spaccato su due fronti referendari per superare il «Porcellum». «È da irresponsabili creare delle divisioni interne al partito, per di più in un momento in cui all’ordine del giorno ci sono altre importanti questioni», si è sfogato il leader del Pd nei colloqui avuti ieri. Per questo ora Bersani vuole accelerare per porre fine alla vicenda, chiedendo ancora una volta ai dirigenti democratici di lasciare alla società civile lo strumento referendario e di impegnarsi nelle sedi giuste per andare oltre la «porcata» di Calderoli. Ovvero, negli organismi del partito e poi alla Camera e al Senato: «Il Pd non si deve occupare di referendum ma fare ciò che è giusto, ossia politica in Parlamento».
Così ieri il segretario del Pd ha evitato di commentare pubblicamente la visita fatta da Walter Veltroni, Arturo Parisi e Pierluigi Castagnetti ad Antonio Di Pietro nel suo studio a Montecitorio (l’ex pm avrebbe garantito l’impegno dell’Idv a sostegno del referendum pro-Mattarellum) che pure non gli ha fatto troppo piacere. E invece ha convocato per il 19 mattina (da domani a giovedì sarà impegnato in un viaggio in Medio Oriente) una Direzione per avere il via libera formale alla bozza discussa nei giorni scorsi in una riunione dei big (che prevede una quota prevalente di seggi attribuita in collegi uninominali maggioritari a doppio turno e una quota minore assegnata col proporzionale) e concordando con Anna Finocchiaro che quella sera stessa il gruppo del Pd depositerà in Senato una proposta di legge su quel modello.
DALLA CGIL NIENTE RACCOLTA DI FIRME
Bersani a questo punto teme quasi di più gli effetti di questa vicenda sul suo partito e su un elettorato che assiste sgomento a questa divisione che non i due referendum contrapposti: per quanto riguarda il primo ha ricevuto dalla Cgil una rassicurazione sul fatto che il sindacato in quanto tale non si impegnerà nella raccolta delle firme (ed effettivamente dal responsabile Organizzazione Enrico Panini arriva una conferma in questo senso), il che renderebbe complicata la raccolta delle 500 mila firme necessarie entro settembre; quanto al secondo, i giuristi con cui si è confrontato gli hanno spiegato che difficilmente la Cassazione accoglierà un referendum che punta alla cosiddetta «reviviscenza» di una legge precedente.
Ma se i due referendum in autunno potrebbero risolversi in un nulla di fatto, è certo che fino ad allora avranno effetti negativi sul partito e sul fronte delle opposizioni, che invece Bersani vuole tenere unito. La proposta di legge messa a punto dal Pd è già stata discussa con i leader di Idv, Udc e Fli, e per come è formulata potrebbe interessare anche la Lega. Ma perché la discussione possa avviarsi su solide basi, è il ragionamento di Bersani, il Pd deve dimostrarsi unito. Pensando anche, ha spiegato ai suoi, che di fronte a una crisi di governo in autunno e quindi a un voto nella primavera prossima, un confronto già aperto in Parlamento sarebbe più utile di un referendum che verrà votato solo in seguito.
l’Unità 8.7.11
Intervista a Stefano Passigli
«Le nostre firme stimolo alle Camere»
Il docente: «Quesiti nati nella società civile, non è nella mia disponibilità fermare l’iter referendario»
di Simone Collini
Il nostro referendum non nasce nel Pd», dice Stefano Passigli tirandosi fuori dalla «guerra interna» ai Democratici e spiegando di non sentirsi investito dall’appello di Bersani a fermare la macchina avviata. «C’è un referendum nato nella società civile e c’è un comitato promotore trasversale dice il docente universitario non è nella mia disponibilità fermare alcunché».
Neanche se il Pd presenta in Parlamento una proposta di legge elettorale che punta a superare il “Porcellum”?
«Salvo alcuni particolari, apprezzo il modello messo a punto dal Pd, che prevede il doppio turno, e ho sempre pensato che il referendum si pone come stimolo al Parlamento, non fornisce la soluzione finale. Ma finché la situazione rimarrà questa, noi raccoglieremo le firme».
Chi critica il vostro referendum sostiene che eliminando il premio di maggioranza non garantisce governi stabili: come risponde?
«Che né la legge attuale né il Mattarellum si sono dimostrate in grado di garantirli. E anzi prevedendo il turno unico hanno obbligato le coalizioni a cercare fino all’ultimo voto, cioè alla disomogeneità e al potere di ricatto da parte dei piccoli partiti».
I critici dicono anche che non è vero che il vostro referendum farebbe superare le liste bloccate. «Non è così. Anzi, io sono disponibile a sedermi al tavolo con chi sostiene di volere una legge che non preveda liste bloccate e discutere per cercare una convergenza. Se da parte di altri arriva la stessa disponibilità, il nostro comitato promotore potrebbe anche fermare per qualche giorno la raccolta delle firme. Possiamo anche pensare a una strategia comune».
Tutti nel centrosinistra contestano le liste bloccate. «Non direi, se c’è ancora chi propone il ritorno al Mattarellum. Che ci siano liste di candidati o collegi, sono sempre le segreterie dei partiti a dare le carte, a mettere ai primi posti qualcuno piuttosto che un altro, a candidare in un collegio più facile qualcuno piuttosto che un altro. Ma noi adesso dobbiamo ridare ai cittadini la possibilità di scegliere la classe politica. Quanto avvenuto negli ultimi mesi, dal movimento delle donne ai referendum su acqua e nucleare, ci dice che c’è una popolazione che vuole partecipare, che vuole tornare a decidere. Non vorrei che il vero obiettivo del secondo comitato referendario sia mettere sabbia nel nostro motore. Rompere ora il rapporto tra classe politica e cittadinanza sarebbe molto grave».
E tornare a un sistema proporzionale puro no? Il secondo comitato referendario sostiene che col vostro referendum si torna alla Prima Repubblica e si supera il bipolarismo.
«In tutta Europa ci sono leggi proporzionali alle quali corrisponde una divisione bipolare. A parte la Francia, che ha un sistema presidenziale, l’unica eccezione è l’Inghilterra, nella quale al maggioritario corrisponde un tripolarismo e la formazione di coalizioni soltanto dopo le elezioni. È falso che per avere il bipolarismo sia necessario il sistema maggiortario».
S.C.
l’Unità 8.7.11
Intervista a Salvatore Vassallo
«Il Mattarellum è la risposta giusta»
Il costituzionalista: «Tornare al proporzionale puro sarebbe un errore»
di Maria Zegarelli
Salvatore Vassallo, costituzionalista, parlamentare Pd, difende il referendum pro-Mattarellum, «tanto più necessario se si dovesse fare quello Passigli». Vassallo, proprio sicuro che i quesiti facciano risorgere il Mattarellum? «È sempre difficile prevedere la valutazione della Corte sui quesiti in generale ed in particolare di quelli che riguardano il sistema elettorale». Quindi qualche dubbio lo avete anche voi?
«Noi con i nostri quesiti diciamo in modo evidente e inequivocabile che l’intenzione è quella di abrogare la legge del 2005 per far rivivere le norme che il Porcellum aveva abrogato o modificato. Questo è abbastanza semplice da capire per chiunque, speriamo che la Consulta possa prendere atto della linearità del quesito e lo possa rendere ammissibile».
Passigli vi accusa di agire contro di lui e ritiene sia una truffa dire che con il proporzionale sparisce il bipolarismo. D’altra parte in Germania è così. «Ci sono diversi sistemi proporzionali. Anche quello che lui considera un punto di riferimento, cioè quello tedesco, nel contesto italiano porterebbe con tutta probabilità in una dinamica non bipolare, nella quale gli elettori non capirebbero per quale maggioranza stanno votando. In Germania storicamente si è consolidato un sistema basato sostanzialmente su due partiti, inoltre quel sistema ha una componente maggioritaria data dal fatto che una metà dei seggi viene assegnata in collegi uninominali. Il sistema elettorale che verrebbe fuori dal referendum Passigli è puramente proporzionale su liste di partito lunghissime e certamente bloccate. Sono sicuro, infatti, che è inammissibile il quesito che ha utilizzato come richiamo per portare consensi alla sua iniziativa, proprio quello sulle liste bloccate».
Il quesito su cui Passigli vi invita a raccogliere le firme insieme per abolire le liste bloccate. Lei sostiene che non verrà accolto? «Ritengo che quello sia un quesito con larghissima probabilità inammissibile e peraltro non è detto che il voto di preferenza sia la soluzione migliore alle liste bloccate. Lo avevamo nella prima Repubblica e abbiamo sperimentato tutti i suoi difetti, tanto che lo abbiamo voluto evitare adottando il collegio uninominale. E quello che ci proponiamo con il nostro referendum è proprio di ripristinare il collegio uninominale».
Se Passigli ritira i suoi quesiti i pro-Mattarellum che faranno? «Queste sono operazioni collettive che per essere smontate richiedono una decisione collettiva». Bersani invita tutti a fare un passo indietro. Dice che il Pd ha una sua proposta e che spetta al Parlamento fare la legge elettorale.
«Noi abbiamo un obbligo morale fortissimo nei confronti dei cittadini italiani a non riportarli al voto con questo sistema elettorale. Se il Parlamento da qui alla primavera prossima è in grado di fare una riforma elettorale non c’è alcun bisogno del referendum e noi parlamentari avremmo assolto la nostra funzione».
Repubblica 8.7.11
Referendum, Veltroni non segue l´alt di Bersani
Intesa con l´Idv per il Mattarellum. Il segretario: distinguere costi politica e istituzioni
Il segretario democratico: il Pd non si deve occupare di referendum ma fare politica in Parlamento
di G. D. M.
ROMA - Antonio Di Pietro ha incontrato ieri alcuni promotori del referendum per il ritorno al "mattarellum". E a Walter Veltroni, Arturo Parisi, Pierluigi Castagnetti e Giovanni Bachelet, il leader dell´Idv avrebbe promesso un sostegno ai loro quesiti. Nel duello dentro il Partito democratico s´inserisce anche un terzo incomodo. Dalla parte di Veltroni e contro Bersani.
Della legge elettorale i democratici parleranno nella direzione convocata per il 19. In quella sede il Pd dovrebbe partorire una sua proposta articolata che sia in grado di disinnescare i quesiti pro Mattarellum e quelli promossi da Passigli per un ritorno al proporzionale. Sandro Gozi propone di arrivare a una scelta netta e chiara. Cioè a unta conta. «Il 19 Bersani mette ai voti la proposta del partito. La spedisca ai membri della direzione ai deputati con qualche giorno di anticipo e poi si decida». Ma i giorni che mancano a quell´appuntamento moltiplicheranno le prese di posizione e le distanze. O almeno rischiano di farlo. Dice Marco Follini schierandosi: «Mi convince e di più il ragionamento di Passigli rispetto a quello dei nostalgici del Mattarellum: mi pare più coerente con la natura di repubblica parlamentare che ci è cara. Però penso che la legge elettorale è un´impresa a due mani tra maggioranza e opposizione».
Bersani cerca la mediazione. «Noi del Pd abbiamo un progetto riguardo alla riforma elettorale che voteremo in direzione. Si tratta di un meccanismo maggioritario ma non come il Porcellum che come si sa permette di vincere con il 34% dei consensi; tutto ciò è demenziale e pericolosissimo». E ribadisce: «Il Pd non si deve occupare di referendum ma fare ciò che è giusto ossia politica in Parlamento».
L´altro tema caldo per il Pd è il voto sulle province dell´altro ieri. In aula a Montecitorio il Pd si è astenuto su un provvedimento di abolizione dell´Italia dei valori. E di fatto, insieme con la maggioranza, ha salvato quegli enti locali. Si è fatto notare che su 110 province ben 40 sono governate da dirigenti democratici. Ma Pier Luigi Bersani reagisce al sospetto di un conflitto d´interessi. «Ma confondere i costi della politica con il tema delle istituzioni, come si sta facendo in una confusa discussione sulle province, è un nonsenso. Di questo passo si potrebbe arrivare a reintrodurre la figura dei podestà, tanto per risparmiare». Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti si schiera con il voto del suo partito alla Camera: «Sciogliere una provincia non porta risparmi, a differenza di quanto di solito si dice. Il tema su cui ragionare dovrà essere: chi farà quello che oggi propone la provincia se la si scioglie? Bisogna garantire ai cittadini gli stessi servizi di prima. Forse bisognerebbe tagliare cose molto più oscure e meno conosciute, che pesano davvero sul bilancio dello stato». Agli attacchi del Pd però Di Pietro risponde così: «Il Pd ammetta l´errore invece di accusarci di demagogia».
(g.d.m.)
l’Unità 8.7.11
Province, sì o no? Parliamone ma senza demagogia
I presidenti Pd scrivono a l’Unità dopo il voto alla Camera sulla proposta Idv per l’abolizione
Abbiamo assistito in questi giorni ad un dibattito sulla cancellazione delle Province intriso di demagogia e di superficialità.
I cittadini e le imprese ci chiedono di riformare con coraggio la pubblica amministrazione per renderla più snella ed efficiente e per consentire al Paese riforme ormai non più rinviabili. Tutto ciò è tema che riguarda seriamente il Partito Democratico e la sua capacità di collocarsi in modo convincente sul terreno delle riforme, spiegando ai cittadini ciò che intende fare e soprattutto ciò che farà al governo del Paese. Per questo la scelta del Partito di non sostenere l’ipotesi demagogica dell’Idv e dei centristi, volta solo all’incasso di un consenso a breve, ci convince.
Di fronte alla presa di posizione di autorevoli esponenti del nostro partito, per “amor di verità” crediamo di dover richiamare il nostro programma elettorale del 2008, che come Presidenti di Provincia abbiamo condiviso e che prevedeva l’eliminazione entro 1 anno di tutti gli ATO, settoriali e non, attribuendo le loro competenze alle Province. Si prevedeva inoltre l’eliminazione delle Province là dove si costituiranno le aree metropolitane.
Mai, come Presidenti di Provincia, abbiamo attestato l’associazione della quale facciamo parte, su posizioni di difesa acritica dell’attuale sistema istituzionale.
Crediamo però che un grande partito abbia il dovere di spiegare ai cittadini quale Paese ha in mente. Peraltro, mentre ragioniamo di tutto ciò, il Parlamento si appresta ad approvare la Carta delle Autonomie, testo fondamentale per l’attuazione del federalismo, perché in esso vengono definite le funzioni fondamentali di Comuni e Province; in pratica il “chi fa che cosa” nel sistema delle autonomie locali. Le Associazioni delle autonomie e le Regioni hanno suggerito soluzioni diverse, ognuna a difesa del livello di governo che rappresentano, ed il Governo ha compiuto una difficile mediazione. Siamo sicuri che quel testo non debba essere più preciso per evitare ogni sovrapposizione di competenze, definendo con esattezza il mestiere di ciascuno, per rendere la vita più semplice ai cittadini e alle imprese, e rendere possibili significativi risparmi, semplicemente evitando che tutti facciamo le stesse cose? E, visto che si parla solo di Comuni e Province, non è il caso che le Regioni facciano la stessa cosa, evitando di distribuire in modo irrazionale o, ancor peggio, di trattenere, funzioni che possono essere conferite agli enti più vicini ai cittadini, così che possano avere finalmente, per una loro esigenza, un solo interlocutore?
E allora qualche domanda è legittima.
L’abolizione delle Province porta con sé l’abolizione dei capoluoghi e quindi l’eliminazione di prefetture, questure, uffici decentrati dello Stato e delle Regioni?
Si vuole cioè concentrare il potere e l’economia pubblica in venti città e non più in cento città italiane?
Si vogliono eliminare soltanto le Province e lasciare organizzati lo Stato e le Regioni come adesso e quindi, di fatto, spostare a livello Regionale compiti, funzioni e personale, vista la oggettiva difficoltà di trasferire ai Comuni competenze di area vasta?
Se fosse così 50.000 dipendenti residenti in quasi tutti gli oltre 8.000 comuni italiani, che svolgono per la gran parte funzioni legate al territorio, rimarrebbero irrimediabilmente nelle Province e le Regioni non potrebbero far altro che costituire agenzie, società e sovrastrutture con costi facilmente immaginabili.
Al di là della demagogia è arrivato il tempo delle proposte serie. Su di esse i Presidenti di Provincia saranno al tavolo di chi vuole riformare profondamente l’Italia: presto, bene e con coraggio, senza posizioni pregiudiziali e pronti a condividere scelte che riguardino anche e soprattutto le Province. Quello che non è tollerabile è la continua delegittimazione di rappresentanti delle istituzioni, eletti dai cittadini e che in trincea si confrontano quotidianamente con le difficoltà che stiamo attraversando.
Al Partito Democratico chiediamo di scegliere subito la strada da percorrere, strada di riforme profonde che può e deve riguardare tutti i livelli istituzionali del Paese.
Il centrodestra in lunghi anni di governo non ne è stato capace, sta a noi dimostrare che riformare le istituzioni seriamente è possibile.
I PRESIDENTI DI PROVINCIA PD DELL’UNIONE DELLE PROVINCE D’ITALIA:
ANTONIO SAITTA (TORINO) NICOLA ZINGARETTI (ROMA) FABIO MELILLI (RIETI) ANDREA BARDUCCI (FIRENZE) BEATRICE DRAGHETTI (BOLOGNA) GIOVANNI FLORIDO (TARANTO) PIERO LACORAZZA (POTENZA)
Repubblica 8.7.11
Mi indigno io
Il capogruppo difende la linea del Pd: l’abolizione è solo una bandiera
"Walter voleva tenere le Province sbagliato dare segnali demagogici"
Franceschini: agli elettori dobbiamo dire la verità
di Goffredo De Marchis
Il ruolo di questi enti fa parte della riorganizzazione dello Stato non del tema dei costi della politica
Sono io che mi indigno di fronte alle critiche. Un legislatore non segue gli umori, guarda all’efficienza
ROMA - Onorevole Franceschini, il Pd poteva dimostrare di avere a cuore il taglio dei costi della politica abolendo le province. Invece, nel voto di martedì mercoledì le ha salvate.
«Tutte sciocchezze. Il ruolo e la soppressione delle province fanno parte di un tema che si chiama riorganizzazione dello stato non del tema costi della politica».
I commentatori e soprattutto i militanti la pensano in modo diverso. Il sito del Pd straripa di critiche per la vostra astensione.
«Allora spieghiamo bene cosa è successo. Ai nostri militanti, prima ancora che ai commentatori. In aula abbiamo applicato, com´è d´obbligo, il programma con cui ci siamo presentati agli elettori nel 2008. Candidato premier Veltroni e io suo vice perciò ricordo bene cosa c´è scritto in quella piattaforma. Al punto 4 si parla di attribuire più competenze alle province. Ma laddove si costituiscono città metropolitane l´ente locale va abolito. Sull´onda di quel punto, è stata presentata una proposta di legge a prima firma Bersani e prima del voto dell´altro ieri abbiamo fatto una lunga nell´assemblea del gruppo. Le nostre proposte sono di sopprimere o accorparle su scelta delle regioni. La proposta dell´Idv era una proposta purament di bandiera».
Ma non dovrebbe essere anche la vostra bandiera?
«Eliminare dalla Costituzione la parola province? Eppoi chi si occupa di strade, scuole, discariche, acqua, urbanistica»
Poteva essere un segnale.
«Io mi indigno di fronte a questo ragionamento. Un legislatore non segue gli umori, deve guardare ai costi, all´efficienza. Tanto è vero che in tutti i decreti attuativi del federalismo, un tema del quale tutti si riempiono la bocca, vengono date più risorse alle province. Il Pd propine un percorso organico di riforma della struttura dello Stato. Non vuole fare due urla e sventolare una bandiera».
Lo dovete dire ai vostri elettori che protestano in massa.
«Chi ha funzioni politiche deve fare le cose giuste, quelle possibili. Non dare un segnale. Vorrei che qualche commentatore dedicasse un po´ di tempo a leggere il provvedimento dell´Idv. Che mi dicesse se era giusta o sbagliata la proposta di Di Pietro. Sono stanco di ipocrisie. Se si vuole essere credibili per un´azione di governo bisogna assumersi delle responsabilità. Non si vota una cosa sbagliata e demagogica per mandare un segnale».
Ma era quello che i cittadini si aspettavano da voi.
«Se la gente pensa che la riduzione dei costi della politica sia la soppressione delle province noi abbiamo il dovere di spiegare che non è così. Devono essere le regioni che stabiliscono quali vanno soppresse quali vanno accorpate. Bisogna dire chi si occupa dei 60 mila dipendenti delle province italiane? Dove vanno, al cinema? E nei confronti dei nostri militanti il dovere è spiegare i fatti senno non c´è cultura di governo ed è l´abdicazione della politica. Il Partito democratico ha un programma elettorale, una proposta di legge firmata dal segretario, una delibera dell´assemblea programmatica, un´assemblea del gruppo che indicano una direzione precisa. Se il partito non vuole riaccendere il virus che ha colpito l´Ulivo, l´Unione. Anche sulla legge elettorale».
Si riferisce allo scontro tra i referendum?
«La direzione è chiamata a discutere e varare una proposta di legge sensata. Vedere che il Pd rischia di dividersi tra i sostenitori del referendum A e del referendum B è un problema. Ha fatto benissimo Bersani a richiamarsi allo spirito di squadra».
Vuole impedire ai dirigenti di appoggiare un quesito?
«Alla legge elettorale è legata la natura stessa del partito. Allora sui quesiti è giusto confrontarsi nel partito, dire la propria. Ma alla fine è altrettanto giusto sostenere la posizione comune. Altrimenti replichiamo il male che ha colpito il centrosinistra negli ultimi decenni. Si sceglie tutti insieme e il minuto dopo si va in ordine sparso».
l’Unità 8.7.11
Biotestamento, norma beffa: è vietato rifiutare le terapie
Votato un emendamento Binetti (Udc) e Barani (Pdl) per il quale si possono indicare solo i trattamenti a cui si vuole essere sottoposti ma non quelli che si rifiutano. Ristretta la platea alle persone in stato vegetativo.
di Jolanda Bufalini
Un testacoda, quelle che dovevano essere “disposizioni anticipate di trattamento” sono diventati divieti. Dice la deputata Pd Donata Lenzi: «Evidentemente si è perso il filo, tanto vale non fare alcun testamento» perché «se si va a ricostruire il testo finale, non si può fare il Dat in caso di coma permanente, le disposizioni valgono solo per l’ultimo stadio, non si possono esprimere opzioni, non si può dire no alla nutrizione forzata, quello che si scrive esprime solo un orientamento, non una volontà». Lenzi (bolognese e cristiano sociale) dà ragione al Fli Della Vedova, per il quale questo testo spalancherà le porte al contenzioso, al ricorso alla magistratura, «la maggioranza sta pensando di abolire l’ultimo articolo, quello che, dopo il comitato etico, prevede la possibilità di rivolgersi al magistrato. Ma è l’ordinamento generale che prevede questa possibilità, non il dat». Un altro testacoda, quindi, se la parlamentare d’opposizione ha ragione, poiché Fabrizio Cicchitto ha rivendicato, anche ieri, quella che definisce «un'operazione legislativa difficilissima, che alla fine riporterà la vicenda fuori dall'ordine dell'intervento di giudici e sentenza». Di più, il testamento biologico riguarda solo chi è in una condizione di «accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale». Per Eluana Englaro non si sarebbe potuto fare nulla. Ignazio Marino si rassegna all’ironia: «La maggioranza sancisca per legge il divieto di morire». Margherita Miotto, anche lei parlamentare cattolica del Pd «Qui stiamo parlando del diritto di lasciarsi morire e quindi di rinunciare a trattamenti sanitari, questo diritto è precluso dall’emendamento approvato che azzera due anni di lavoro in commissione». E se non bastasse «la validità della Dat inizia nel momento della morte corticale, che non è reversibile».
Sul testo che verrà approvato martedì alla camera ma che dovrà tornare (dopo l’estate) al senato, aleggia un referendum, Antonio Palagiano, relatore di minoranza (Idv): «Questa è una legge contro il testamento biologico, fatta per compiacere qualcuno, ma che va contro la volontà dei cittadini».
Sull’articolo 3, cuore del provvedimento perché affronta la questione di idratazione e nutrizione, si sono pronunciati in Aula Per Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini. Bersani si è rivolto al Parlamento facendo appello, con «il cuore in mano», «alla pietà verso la persona umana» dei parlamentari. Perché con questa legge «la libertà alle persone vere sarà lasciata solo da morti». La risposta di Casini al segretario del Pd è stata aperta nella forma, «nessuno può sottovalutare questo appello», ma ha sottolineato che «molti deputati Pd si sono astenuti o hanno votato con noi». Potrebbe trattarsi di una disponibilità a lavorare e smussare posizioni distanti.
Corriere della Sera 8.7.11
3.360 i pazienti in stato vegetativo in Italia
Per ognuno di loro lo Stato paga in media 165mila euro all’anno
Vietato indicare le cure rifiutate nel biotestamento
Scontro sul testo. Bersani: fermatevi
di Alessandra Arachi
ROMA — Erano due gli emendamenti della discordia all’articolo 3 sul testamento biologico, l’articolo clou di questo testo di legge. Ieri la Camera ne ha approvato uno, il 3.2020. Ma è stato sufficiente a far scoppiare la bagarre. Perché quest’emendamento, scritto da Lucio Barani (Pdl) e Paola Binetti (Udc), dice che scrivendo il proprio testamento biologico sarà possibile indicare soltanto i trattamenti cui si vuole essere sottoposti in caso di perdita di coscienza e non permette invece di scegliere quelli che non si vogliono. Praticamente si vanifica il concetto stesso di testamento biologico. Questo emendamento (approvato ieri mattina con 257 sì e 239 no) ha fatto infuriare le opposizioni e spinto il segretario del Pd Pier Luigi Bersani a fare una richiesta accorata: «Mi appello alla nostra comune umanità e alla pietà verso la persona umana che abbiamo imparato dai nostri padri e dalle nostre madri. Fermiamoci. Continuando ad approvare emendamenti annunciati si arriverà al punto che il legislatore dirà a una persona che potrà essere libera dalla tecnica, dalle macchine e dai tubi soltanto quando sarà morta e potranno essere avviate le procedure per il trapianto» . A Bersani ha risposto Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl. Già l’altro ieri i due avevano battibeccato sugli stessi punti del disegno di legge e ieri Cicchitto ha affondato: «La verità è che se non ci fosse stata la battaglia di Beppino Englaro con sua figlia Eluana non staremmo qui a discutere un testo di legge. Quella battaglia ha innescato un meccanismo giudiziario con sentenze di giudici anche contraddittorie. Ecco quindi cosa stiamo facendo in Parlamento: un percorso non scelto, ma obbligato da una sentenza» . La votazione a Montecitorio ieri si è interrotta all’ora di pranzo, a metà degli emendamenti all’articolo 3. Prima di votare il secondo emendamento che farà ancora più discutere la prossima settimana: l’idratazione e la nutrizione. Si può interrompere oppure no per un malato terminale? L’emendamento 3.3001, presentato dal relatore della legge, dice un no secco e fa fare un passo indietro rispetto alla mediazione raggiunta in commissione, e chiude la strada a qualsiasi compromesso con l’opposizione. «Mi auguro che in questi giorni non ci siano nuovi scontri, ma un lavoro comune con grande equilibrio» , prova a calmare gli animi Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc. E aggiunge: «Nessuno sottovaluti l’appello di Bersani di cui apprezzo lo spirito, ma si ricordi che in questi due giorni ho visto un grande senso di responsabilità e toni di reciproco rispetto e pacatezza. Non è un caso che molti gruppi, anche il mio, abbiano dato libertà di coscienza ai parlamentari» . Sul tema è intervenuto anche l’Osservatore Romano con un articolo intitolato: «Uccidiamo solo la sofferenza» . Il testo tornerà in aula alla Camera martedì prossimo, si devono ancora votare sei articoli e mezzo.
Repubblica 8.7.11
Biotestamento, siamo noi i padroni della nostra vita
di Umberto Veronesi
Per chi esprime il pensiero laico della società civile, al di fuori delle ideologie e delle fedi, i sentimenti di fronte alla legge sul biotestamento in via di approvazione alla Camera sono essenzialmente due: stupore e incredulità. Non capiamo come può il Parlamento prendere decisioni che calpestano i diritti individuali tutelati dalla Costituzione, quale quello, fondamentale, di decidere come vivere e come non vivere. E inoltre non crediamo che lo possa fare. Capiamo invece che il dibattito sulla vita, la sua qualità e la sua fine, passa attraverso dilemmi etici e filosofici, oltre che medico-scientifici, che la politica non riesce a trattare, e capiamo dunque la difficoltà per ogni singolo parlamentare nel dare un voto in piena consapevolezza e coscienza su questa materia.
Per questo la maggioranza di noi chiede di fermare l´iter legislativo, nella convinzione che l´assenza di una legge sia un male minore rispetto a una cattiva legge. La mancanza di una normativa permetterebbe a tutti, medici e cittadini, malati e famigliari, di comportarsi nel modo più appropriato, caso per caso, rispettando così al massimo l´unico punto fermo: la volontà della persona e la sua inviolabile dignità. Ci consideriamo un Paese civile e abbiamo fiducia nella nostra capacità di scelta come individui e come comunità. Inoltre siamo aiutati da strumenti condivisi anche a livello internazionale, come il nuovo codice di deontologia medica e la Convenzione di Oviedo sui diritti del malato. È vero che molti giuristi e molti medici, e io per primo, avevano auspicato una legge sul testamento biologico, come forma di tutela ulteriore della volontà della persona ed estensione naturale del Consenso Informato, già norma in Italia. Ma i fatti ci hanno purtroppo dimostrato che i tempi non sono maturi: ci siamo paradossalmente ritrovati di fronte ad un disegno di legge che, unico caso nelle democrazie avanzate, nega l´autodeterminazione dell´individuo.
Per capire il peso morale e intellettuale del tema del "fine vita", non è necessario fermarsi a meditare sulla morte. Tutti amiamo la vita, segretamente sogniamo l´immortalità e preferiamo rimuovere il pensiero della fine. Sono convinto però che la maggioranza di noi adulti è stato sfiorato da una situazione in cui ha percepito il pericolo di vita o si è domandato dove si colloca, per ognuno, l´asticella di quella vita che vale la pena di essere vissuta. Questo è il cuore del problema, così intimo, su cui il Parlamento si appresta a legiferare nel modo peggiore possibile: appropriandosi del potere di decidere per noi che cosa fare della nostra vita. Per esempio è stato approvato il "semplice" divieto di qualunque forma di eutanasia. Io mi chiedo però se i parlamentari conoscono il significato stesso del termine eutanasia. Esiste il lasciar morire (sospendere le terapie), l´aiutare a morire (aumentare le dosi di farmaco sapendo di anticipare la fine) e il far morire (indurre la morte quando richiesta). Giuridicamente c´è una grande differenza, ma eticamente no. Tutti e tre questi atti hanno lo stesso risultato: soddisfare il desiderio di una persona di mettere fine a una vita che egli giudica insopportabile per il dolore e non più dignitosa. Il legislatore dovrebbe dunque specificare cosa intende. Ad esempio il lasciar morire è ammesso anche dalla Chiesa: questo fu il caso infatti di papa Wojtyla ed anche l´aiutare a morire è stato considerato legittimo da papa Pio XII, come appare nel suo discorso al Congresso nazionale degli anestesisti del 1957.
Il testamento biologico, poi, è ancora più confuso. È nato come strumento di autodeterminazione, per dare la possibilità ai cittadini di dire no, se lo desiderano, alla vita artificiale: lo stato vegetativo permanente in cui un corpo può restare indefinitamente senza coscienza, senza vista, senza udito, senza gusto, appunto come una pianta. La legge attuale, invece, rendendo obbligatoria l´idratazione e alimentazione artificiale, che sono le condizioni di mantenimento dello stato vegetativo, di fatto ci impone la vita artificiale, che lo vogliamo o no. Tutto il mondo civile ha scelto un criterio per semplificare la complessità delle scelte che riguardano la vita individuale: la volontà della persona. In molti, in Italia, pensiamo che dovremmo adottarlo anche noi.
Repubblica 8.7.11
I padroni della vita
Dopo 20 anni di dibattiti e altrettante proposte, la Camera sta per approvare una legge sul biotestamento. Contestata dai laici e dai medici
di Maria Novella De Luca
Coscioni: il testo è nato sull´onda del caso Englaro per non lasciare il verdetto ai giudici
Vent´anni di dibattiti, 15 di battaglie parlamentari, più di 20 proposte di legge. E il risultato, in dirittura d´arrivo alla Camera, è una norma che toglie al malato l´ultima libertà di scelta E allontana l´Italia dal resto d´Europa
Melazzini: gli infermi vogliono essere curati, l´unica loro paura è quella di essere abbandonati
Una legge che decide sul come e il quando. Sui confini della vita e della morte. Sul domani di chi si ritrova ad un tratto prigioniero della malattia, della disabilità, del dolore. Del non essere più padrone delle proprie funzioni più semplici. E dunque senza voce, guidato, condotto, imboccato, vestito, portato per mano, in braccio, seppure con amore e rispetto. Legato ad una macchina, ad un respiratore, ad un sondino, ad una carrozzina, ad un letto. La legge sul biotestamento che la Camera approverà (probabilmente) tra feroci polemiche la prossima settimana, racconta tutto questo. Legifera su tutto questo. Ossia sul diritto a vivere o morire di persone incatenate ad una condizione senza speranza. E ci sono voluti vent´anni di dibattiti, 15 di battaglie parlamentari, più di 20 proposte di legge.
Alla fine si è arrivati a un testo che la maggioranza definisce "storico" e l´opposizione e gran parte del mondo scientifico ritiene invece "mostruoso". Perché come ha sintetizzato in una battuta cruda eppure efficace il segretario del Pd Pierluigi Bersani, è questo ciò che dice il legislatore: «Ti libererò dalla tecnica, dalle macchine e dai tubi soltanto quando sarai morto…».
Non c´è spazio né per la scelta né per la libertà del paziente nell´attuale testo sulle "Dichiarazioni anticipate di trattamento", che vieta la sospensione dell´idratazione e della nutrizione ai pazienti anche in stato terminale, prevede che il malato possa indicare soltanto i trattamenti a cui vuole essere sottoposto in caso di perdita di coscienza ma non quelli che rifiuta. Ma soprattutto, ed è l´elemento chiave, restringe la possibilità di utilizzare le "Dichiarazioni anticipate di trattamento" soltanto quando il paziente si trovi nello stato di "morte corticale". «In realtà – spiega Maria Antonietta Coscioni, co-presidente dell´Associazione radicale che prende il nome da suo marito Luca, affetto da sclerosi laterale amiotrofica e morto nel febbraio del 2006, dopo una lunga battaglia per i diritti civili dei malati - questo è un testo deciso due anni fa, nel giorno della morte di Eluana Englaro, il 9 febbraio del 2009, quando il partito pro-life del centro destra ma non solo, decise che i giudici non potevano né dovevano più decidere se fosse legittimo o meno interrompere la nutrizione e l´alimentazione di una persona in stato vegetativo». Come Eluana appunto. Che pure era stata bella e forte e aveva più volte ripetuto che per lei quello "stato" non poteva chiamarsi vita. Ma chi può e deve decidere della nostra vita? Può la politica sancire per legge il diritto a vivere o a morire?
È lunga la storia del dibattito sul Biotestamento in Italia, ha diviso partiti e coscienze, il primo documento del Comitato Nazionale di Bioetica è del 1995, sull´onda di una discussione già attiva da anni in tutta Europa, con alcuni stati come la Danimarca che fin dal 1992 si erano dotate di una legge sul cosiddetto "living will", che dava cioè la possibilità ad alcune categorie di malati terminale di chiedere l´interruzione delle cure e del nutrimento.
«In tutti i pareri del Comitato di Bioetica – racconta il ginecologo Carlo Flamigni, che ne è tuttora membro – pur con un grande lavoro di sintesi tra laici e cattolici restava sempre aperta una porta alla libertà di scelta del paziente. Nel 2003, nel 2005, fino al 2008 quando però le cose sono cambiate, l´influenza del Vaticano si è fatta più forte, ed è passata la tesi che l´alimentazione e l´idratazione fossero non terapia ma cure dovute per alleviare la sofferenza….Tesi confutate da tutte le società scientifiche, eppure anche tra quelle posizioni già restrittive, e il testo che vedo oggi in Parlamento c´è una grande differenza. È come se di fatto si volesse fare una legge per renderla inapplicabile».
Una legge fatta di no dunque, sulla scia della legge 40 sulla fecondazione assistita, e sulla quale già si annuncia non soltanto un referendum, ma anche una valanga di ricorsi dei malati ai tribunali, e di sentenze che potrebbero, esattamente come per la legge 40, smantellarne l´intero impianto. Eppure, come precisa il medico e senatore Ignazio Marino, «il 90% degli italiani in realtà vorrebbero semplicemente poter scegliere». Decidere cioè se «utilizzare ogni tipo di tecnica presente e futura, ogni tipo di trattamento e cura pur in una condizione terminale - dice Marino, che tiene a precisare la sua fede cattolica – oppure poter decidere di interrompere lo stato di sofferenza in cui si trovano. Io so che molti cattolici condividono il mio pensiero, l´obiettivo del legislatore di destra, con una legge che autorizza le dichiarazioni anticipate di trattamento soltanto quando il paziente è praticamente morto, è quello di far fallire la legge sul Biotestamento. Quanti italiani andranno a depositare il loro testamento biologico, rinnovandolo ogni tre anni, sapendo che tanto l´ultima parola è del medico e che la loro voce non conta? Forse – conclude Marino anche lui con una battuta grottesca – forse a questo punto la maggioranza dovrebbe introdurre un emendamento che sancisca per legge il divieto di morire, introducendo magari l´obbligo di cure per i deceduti…».
Eppure, al di fuori della battaglia politica, e con toni pacati, c´è chi questa legge la difende. E la sua voce va ascoltata, perché Mario Melazzini, oncologo famoso e oggi presidente dell´Aisla, l´Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica, la malattia la vive sulla propria pelle. Aveva poco più di 40 anni Mario Melazzini, sposato felicemente e con tre figli, quando nel 2002 gli viene diagnosticata la Sla. Da medico Melazzini diventa paziente, attraversa il dolore, la disperazione, la paura, la sofferenza, la voglia di morire prima di ritrovarsi in carrozzina, del tutto dipendente dall´aiuto degli altri. «Invece ad un certo punto – racconta Melazzini – ho deciso che volevo e potevo convivere con la malattia, che volevo e potevo essere nutrito con un sondino, non la ritengo una violazione del mio corpo, da sempre mi occupo dei malati più gravi, quelli oncologici, nessuno mi ha mai chiesto di aiutarlo ad "andare via". I malati vogliono essere curati, l´unica loro paura è quella di essere abbandonati. Ritengo indispensabile che in Italia ci sia una legge sul fine vita, e ritengo giusto non interrompere l´idratazione e la nutrizione, che sono strumenti di supporto vitale per non inasprire le sofferenze dei malati e non sono certo cure. E difendo anche il ruolo decisionale del medico, che si fa carico del paziente, e di fronte ad alcune scelte può anche dire no… Perché magari dal momento in cui il malato ha scritto le proprie volontà a quando la malattia si manifesta potrebbero essere arrivate nuove terapie, nuovi farmaci che possono aiutare quel paziente non a prolungare la sua sofferenza, ma a stare meglio. E il medico deve agire».
Melazzini ha scelto. Molti altri pazienti non possono scegliere perché da tempo hanno perso il dono della lucidità o perché invece quel loro volere non possono esprimerlo, imprigionati in corpi senza voce e senza più forze. Da mesi in realtà gli stessi medici, e soprattutto i rianimatori, esprimono le loro perplessità su questo testo di legge (inasprito anche rispetto alle altre versioni votate dal centrodestra) al ministro Fazio, di fronte ad un corpus di norme che li rende enormemente responsabili. Racconta un medico anestesista di un famoso nosocomio romano: «Ci sono pazienti che si attaccano anche all´ultimo soffio di vita, altri che invece te lo chiedono con la voce, con gli occhi, con le mani: voglio la pace, voglio andare via…Non sarebbe giusto che potessero scegliere?».
Repubblica 8.7.11
Mina Welby: gli accordi per ottenere il plauso della Chiesa contano più delle persone
"Raccoglieremo firme per il referendum e da martedì partiranno i primi ricorsi"
di Caterina Pasolini
«Sono inorridita» dice Mina Welby. È lapidaria la moglie di Piergiorgio che per anni ha seguito l´avanzare della malattia che ha trasformato il suo compagno da un uomo pieno di interessi e di passioni nel sognatore imprigionato in un corpo immobile, violato dai tubi per nutrirlo e farlo respirare.
Legge sbagliata?
«Chiedevamo solo di poter scegliere: se continuare a vivere ad ogni costo o smettere le cure e morire in pace. Volevamo la possibilità di lasciar scritte le nostre volontà per quando non avremmo avuto le parole per affermarle. Invece con questa legge ci hanno trattato come merce di scambio: le nostre vite, il nostro diritto sembra valere poco o nulla per questo governo».
Governo disattento?
«Contano più gli accordi per ottenere il plauso della chiesa e nuove maggioranze. E così sulla nostra fine, sui nostri ultimi istanti, ora decideranno altri. Hanno tolto la libertà di scelta a noi, ma anche ai medici sui quali pende il codice penale».
Ora che farete?
«Da martedì come associazione Luca Coscioni andremo in piazza, raccoglieremo firme per un referendum che cancelli questa vergogna, organizzeremo ricorsi. E tutti i cittadini di buona volontà andranno dai notai a lasciare i loro testamento come segno di protesta. Perché questa è una scelta di vita non di morte».
Scelta di vita?
«Sì. Piero poteva muovere solo gli occhi, era nutrito da un sondino nella pancia, respirava con ventilatore automatico. Per lui che amava la vita quella non era più un´esistenza degna di essere vissuta. Io avrei voluto tenerlo accanto a me per sempre. Ma il mio era egoismo, la vita era sua, lui doveva decidere non altri. Così il mio più grande atto d´amore è stato lasciarlo andare».
Come?
«Per ottenere il diritto a staccare il ventilatore, nel dicembre del 2006, ci siamo rivolti ai giudici, ai tribunali, perché chi lo aiutava non venisse accusato di omicidio. Se ci fosse stata una legge sul testamento biologico come esiste negli altri paesi, Piero se ne sarebbe andato prima e con meno sofferenza. Con mio grande dolore, ma nel rispetto della sua volontà».
l’Unità 8.7.11
Doppio mercato
Il lavoro nel Paese delle diseguaglianze
I dati Istat. L’occupazione cresce ma solo se legata alla mano d’opera straniera
di Nicola Cacace
Nel primo trimestre 2011 l’Istat segnala un lieve aumento di occupazione su base annua (+116mila unità) dovuto essenzialmente agli stranieri (+276mila) mentre l’occupazione italiana continua a calare (160mila unità). In regime di bassa crescita continua a funzionare il doppio mercato del lavoro da buco demografico nascite dimezzate, da un milione a mezzo milione che fa sì che la domanda di sostituzione di lavori manuali “umili” avvenga quasi esclusivamente ad opera di una offerta straniera. Per due motivi: il primo, che ogni dieci sessantenni che vanno in pensione ci sono solo cinque italiani nati vent’anni prima (nascite dimezzate); il secondo, che alla domanda di lavoro dei lavori “più umili”, duri e mal pagati, rispondono gli immigrati. Ecco perché dal 2000 al 2010 gli immigrati sono stati quattro milioni grazie ai quali la popolazione residente è aumentata da 56 a 60 milioni. Volete un’idea del doppio mercato? Nel triennio 2007-2010 (quarto trimestre) l’occupazione italiana si è ridotta di 951mila unità mentre quella straniera è aumentata di 561mila, con saldo occupazionale totale di 390mila. I nostri ministri si consolano col tasso di disoccupazione italiano, 8,6%, inferiore a quello europeo che del 9%, dimenticando i dati che contano: il primato italiano degli inattivi in età compresa tra 15 e 64 anni che sono quasi 15 milioni, 37,8% il tasso di inattività, il primato italiano del tasso di occupazione, solo 57% della popolazione 15-64 anni è occupata, contro la media europea del 62% e di Germania e Olanda che è superiore al 70%.
Chi sono gli inattivi? I disoccupati che non hanno svolto ricerca attiva di lavoro nella settimana dell’indagine, perché scoraggiati dalla mancanza di lavoro.
Perché i giovani italiani non accettano i lavori che fanno gli stranieri? Per due motivi: sono lavori “mal pagati”, come quelli in agricoltura e allevamento, servizi alle famiglie, attività ospedaliere, pesca d’altura, edilizia, commercio, pulizia e cucina, tessile e abbigliamento, concerie, fonderie e meccanica di montaggio, alimentare, etc. E perché, avendo quasi tutti studiato per una laurea o un diploma, preferiscono emigrare o vivere “a spese della famiglia” in cerca di, o in attesa di, migliori occasioni. Quelli che fanno la morale a questi giovani (“vadano a scaricare cassette al mercato!”) dovrebbero meditare sulle tendenze salariali degli ultimi vent’anni in Italia, Paese dove si è realizzato il più grande aumento di diseguaglianze con forte peggioramento di paghe e diritti operai. E ricordarsi che l’Italia è oggi in Europa il Paese a più alta diseguaglianza sociale, a differenza di Paesi come Germania, Francia, Svezia e Danimarca che, anche per indici di eguaglianza sociale migliori dei nostri, sono più ricchi di noi, hanno un Pil che cresce di più e livelli di occupazione superiori.
da oggi Claudio Sardo, provenendo dal Messaggero, è il nuovo direttore dell’Unità, quello che segue è il suo primo editoriale
l’Unità 8.7.11
Nel segno dell’Unità
di Claudio Sardo
L ’Unità è il giornale delle idee, delle lotte, delle passioni civili che hanno radicato la sinistra nella storia italiana e ne hanno accompagnato la crescita democratica. Già il nome contiene una forza vitale, che è ragione non secondaria di questo lungo percorso. La tensione verso l’unità è stata nel tempo l’antidoto contro il settarismo, le tentazioni di autosufficienza, lo spirito minoritario o elitario. È stata una spinta continua al dialogo, all'apertura, al rinnovamento. È stata il mastice popolare che ha tenuto insieme il Paese nei momenti difficili. Non c’è bisogno di tornare ai tempi eroici della Resistenza e della Costituzione, alle grandi conquiste dei diritti sociali e del lavoro, ai pensieri lunghi di Enrico Berlinguer e Aldo Moro per apprezzare il valore della parola unità. Sotto questo segno, dopo la sconfitta del ’94, nacque l’Ulivo, che consentì all’Italia di raggiungere il traguardo storico dell’euro, senza il quale chissà se oggi saremmo ancora un Paese unito. Ma a ben guardare lo stesso vento nuovo, sospinto dalle amministrative e dal referendum, reca un'impronta simile.
All’origine della nuova speranza italiana ci sono le celebrazioni del 150 ̊ dell’unità nazionale, che il presidente Giorgio Napolitano ha fortemente voluto e che hanno rinsaldato le radici patriottiche e costituzionali dei progressisti e dei moderati, provocando invece gravi affanni e contraddizioni nella maggioranza Pdl-Lega. Ci sono le battaglie di questi mesi dei lavoratori, dei precari, degli studenti, dei ricercatori, che si sono ribellati alle crescenti disuguaglianze e ai muri divisori tra Nord e Sud, tra garantiti e non, tra giovani e adulti, tra chi è protetto da una corporazione e chi no. All'origine del vento nuovo c'è ancora la carica culturale del movimento delle donne, che ha opposto al berlusconismo la più radicale critica del linguaggio e dei comportamenti. Quella del 13 febbraio non è stata l’ultima piazza della contestazione ma la prima della ricostruzione: ne è testimonianza quel passaggio dell’appello che richiama la coscienza “civile, etica e religiosa della nazione” come il tessuto connettivo da preservare (e domani tornerà a riunirsi a Siena il movimento “Se non ora quando?”).
La parabola di Berlusconi sta declinando. Forse non si chiuderà solo il decennio dei suoi governi, ma anche quella che abbiamo chiamato Seconda Repubblica. In ogni caso non sarà un passaggio facile. L'onda lunga della crisi finanziaria e le paure dell'Europa rendono il momento assai insidioso. E la drammatica debolezza di un governo, ormai incapace di agire, aumenta i rischi per l'Italia e minaccia ancor più il nostro futuro. L'Unità sarà un giornale battagliero e aperto. Impegnato con ogni forza a raccontare la verità sull'Italia. La verità sui conti pubblici, sulle riforme negate per conservare i privilegi di pochi, sulle cricche, sulla crescita necessaria per uscire dalla tenaglia tra rigore economico e ingiustizia sociale. Questo Paese deve tornare a crescere. Lo chiedono innanzitutto i più deboli e la classe media impoverita dalla crisi. È la grande priorità nazionale, senza la quale rischiano di crollare tutte le ipotesi politiche.
Per fortuna, però, ci sono anche importanti novità sociali, che recano il segno della ricomposizione, della responsabilità nazionale, appunto dell' unità. Spicca tra queste il recente accordo sulla contrattazione, che ha ridato all'Italia la speranza dell'unità sindacale: non ci sarà svolta progressista senza unità tra le forze del lavoro (e non è un caso che il governo Berlusconi abbia sempre lavorato per la divisione). Ma altri processi unitari, pur trascurati dalle cronache, rappresentano un segno di speranza: dalla storica alleanza tra le cooperative bianche e rosse, che ora si pone alla base di un rilancio dell'economia sociale, alla Rete delle piccole imprese, degli artigiani e dei commercianti, che non vogliono restare esclusi dai processi di innovazione. C'è anche questo nelle vittorie di Giuliano Pisapia e del centrosinistra al Nord. E l'Unità intende raccontare quest'Italia che non accetta di finire in serie B, che vuole premiare il lavoro e l’impresa anziché la rendita, che si impegna per dare un futuro migliore ai propri figli.
Non c'è soltanto un'alternativa di governo da comporre. All'Italia serve un grande patto per la ricostruzione. Un impegno di portata costituente, il cui programma economico e sociale non potrà che avere l'orizzonte di un decennio e la dimensione dell'Europa. Come altre volte è accaduto nella storia, è più di sinistra costruire una larga convergenza attorno a un progetto di cambiamento concreto che non tentare da minoranza la conquista del Palazzo. Perché le politiche di uguaglianza e di innovazione hanno bisogno di condivisione e di responsabilità. Ovviamente hanno anche bisogno di radicalità nei valori, di rigore nei comportamenti, di rispetto per la legalità, di un grande senso etico e civico. L'Unità vigilerà, racconterà, discuterà, darà voce ai cittadini. E non farà sconti. Neppure al centrosinistra. L'Unità non è un giornale di partito. Nessuno potrà costringerci in uno spazio predefinito. Ma cercheremo anche noi di dare il nostro contributo a definire una nuova cultura democratica. E in questa cultura i partiti sono insostituibili strumenti di partecipazione, a disposizione in primo luogo di chi altrimenti sarebbe escluso dal potere economico e mediatico. Vogliamo uscire dal berlusconismo, combattendo anche quello che ha messo radici nel centrosinistra. In fondo, la contrapposizione tra società civile buona e partiti cattivi è stata la chiave che ha portato il Cavaliere al successo e che, insieme alla vulgata liberista, ha segnato l'epoca che dobbiamo superare. La nostra prospettiva è un'alleanza tra partiti e società, tra buona politica e movimenti innovativi. Così è accaduto nei momenti migliori della nostra storia. Il populismo e il leaderismo, invece, distruggono i corpi intermedi e il pluralismo sociale prima ancora che la buona politica. Ringrazio l'editore che ha avuto fiducia in me e mi dà la grande opportunità di dirigere questo giornale storico in un passaggio così importante. Ringrazio Concita De Gregorio per aver portato il testimone con passione e intelligenza: la sua amicizia mi onora e la sua impronta resterà nella nostra impresa collettiva. Mi impegnerò con tutte le forze, sapendo di avere al fianco colleghi appassionati, competenti, generosi. Un giornale, più di ogni altra cosa, è un lavoro collettivo, un'opera comune. Dei giornalisti che ci lavorano e anche dei lettori che lo apprezzano, lo criticano, ci si riconoscono. Considero un mio compito anche valorizzare questo elemento comunitario.
l’Unità 8.7.11
Se non ora quando
Un fine settimana all’insegna del confronto. «Dare voce a coloro che non hanno voce»
Nuovo protagonismo Cristina Comencini: «Faremo un bilancio per guardare al futuro»
Una valanga rosa verso Siena «Anche stavolta saremo migliaia»
di Augusto Mattioli
Quelle piazze piene del 13 febbraio le donne non le hanno dimenticate. Quel giorno è stato solo un inizio. Da allora hanno continuato a lavorare insieme, a dibattere sul loro ruolo, sui temi che le avevano indotte ad andare in piazza. Al di là delle appartenenze politiche. Come un fiume carsico, le donne del 13 febbraio tornano a farsi vedere e sentire. E lo fanno a Siena questo fine settimana. Si incontrano nella città del Palio per fare un bilancio di ciò che è stato fatto fino ad oggi, discutere ancora dei temi che maggiormente le interessano (il lavoro, la maternità, la rappresentazione che viene fatta del loro corpo, rapporto uomo-donna) e per capire cosa fare nei prossimi mesi della forza che, con le loro manifestazioni, hanno mostrato di possedere. «L’appuntamento di Siena non sarà certo la conclusione del nostro lavoro ha ricordato ieri la regista Cristina Comencini ma faremo un bilancio di ciò che abbiamo fatto e rilanceremo andando avanti con iniziative comuni e forti». «In effetti ricorda Albalisa Sampieri, del comitato senese Donne del 13 febbraio abbiamo lavorato molto in questi mesi per l’appuntamento di Siena. Sarà importante che prendano la parola le donne comuni». Con le loro testimonianze. Quella di Sofia Sabatino, per esempio, che è portavoce nazionale della rete degli studenti. O quella di Sohueir Katkhuouda, presidente dell’associazione nazionale delle donne musulmane in Italia. O della teologa Agnese Fortuna.
La due giorni senese sta lievitando di ora in ora. Il numero delle partecipanti dovrebbe superare quota 1200. Una presenza che ha spiazzato le organizzatrici senesi e nazionali che si dichiarano soddisfatte. Per questo motivo è stata addirittura cambiata la sede dell’incontro dal museo Santa Maria della Scala alla vicina Piazza sant’Agostino nei pressi del Liceo Classico Piccolomini che ha messo a disposizione un’aula multimediale per la sala stampa. Un piccolo segnale della disponibilità della città ad accogliere le donne di «Se non ora quando». Del resto anche l’appello ai senesi per ospitare nella propria abitazione alcune di loro è stato accolto per una settantina di persone. Collaborazione piena anche dalle istituzioni, a partire dal Comune. «Siamo orgogliosi ha sottolineato il sindaco Franco Ceccuzzi che Siena sia stata scelta per questo appuntamento. Spero che da questa città continui a soffiare quel vento che ha innescato qualcosa di importante nel nostro Paese come il protagonismo delle donne».
Repubblica 8.7.11
Perché le donne in piazza vogliono la metà di tutto
di Giancarlo Bosetti
Le donne di "Se non ora quando" vogliono diventare un movimento sociale, organizzato e duraturo nel tempo. E questa è la prima buona notizia che arriva dall´annunciata due giorni di Siena (domani, sabato 9, e domenica 10). La seconda è che, con loro, si affaccia non solo un bacino elettorale, ma anche una promessa di ricambio della classe dirigente politica.
L´onda che ha riempito le piazze il 13 febbraio scorso ha già raggiunto Milano, che ha ora una giunta comunale con sei donne e una vicesindaco, Maria Grazia Guida, che viene dal volontariato, ma la stessa onda ha dato propulsione al referendum che ha liquidato legittimo impedimento, nucleare e tutto il resto. Nei "sì" le donne hanno pesato più dei maschi, con un 59% contro il 55% (fonte Ispo). Il cammino di questo movimento è cominciato fin da quando il gruppo iniziale mise in scena lo spettacolo "Libere", di Cristina Comencini, che si presentava subito come l´inizio di qualche cosa di nuovo, fuori del teatro. E l´andatura si è fatta poi spedita, grazie alla determinazione di un gruppo largo di donne che guidano l´iniziativa finora senza una struttura definita di comando, ma non senza carattere e ambizioni crescenti. Si tratta del carattere di donne che intendono riscattare dignità e potere femminile al termine di un ciclo umiliante, ma non per dare protezione con le quote rosa a una sezione "debole" della società, quanto invece per dare alla meritocrazia quel che è dovuto, levando possibilmente di torno incompetenti ambosessi per collocarci persone con titoli professionali e capacità acclarate.
"Se non ora quando" prende di mira l´uso delle donne come carne da cannone non solo per le notti del sultano, ma anche il "tokenism", ovvero l´impiego di femmine selezionate alle sfilate di Salsomaggiore come "token", gettoni, segnaposto che stanno a dire che "la donna c´è" al governo, anche se si muove con andatura ambigua, un po´ da ministro che dichiara cose importanti, "da uomini", e un po´ da donna del capo, che parla solo se interpellata. Simboli illusori, specchietti per le allodole: il token/alibi, come ha scritto Chiara Volpato, ha una funzione precisa: salvaguardare lo status quo, togliendo forza alle voci di protesta in situazioni di forte squilibrio nei rapporti di potere.
Quant´era fiero Berlusconi di leggere la lista delle ministre "con la laurea" - pensate! Era la prova che non sono solo belle, anche brave! - , ma non è soltanto la "bella presenza" al governo e neanche soltanto l´harem di Arcore e Palazzo Grazioli a produrre indignazione. La caldaia era arrivata già a una pressione molto pericolosa per il Cavaliere (e l´esito degli scontri in tv con la Bindi avrebbero dovuto metterlo in guardia), ma a provocare l´esplosione è stata la congiunzione di questi comportamenti con un´economia e una società in cui per le donne "non c´è niente", per usare la sintesi della Comencini. I dati Istat (direttrice centrale una donna, Linda Laura Sabbadini) confermano la mesta condizione italiana nell´Europa dei 27: la media del tasso di occupazione femminile è oltre il 58%, l´Italia è al 46% con un catastrofico 30% nel Meridione. Ottocentomila donne sono state licenziate o costrette dall´azienda a lasciare il lavoro per una gravidanza e non l´hanno più recuperato. È in questo cronico contesto di oppressione materiale e psicologica che è andata in scena la vicenda della nipote di Mubarak.
La conseguenza è che, da una parte, il tasso di consenso verso il governo in questi ultimi anni è precipitato ed è cresciuto il risentimento della società italiana verso il primo ministro, mentre dall´altra non è cresciuto in misura equivalente il consenso per l´opposizione. Questa condizione contraddittoria ha generato una sensazione di generale impotenza e ha spinto molte donne italiane, impegnate qui e all´estero, con rilevanti posizioni nel mondo scientifico e accademico, nelle professioni, nei sindacati, nello spettacolo ad abbandonare un certo distacco e a riprendere interesse per la politica italiana. Questo spazio politico senza risposte è un vacuum che si può e si deve riempire. È questo il motore del gruppo dirigente di "Se non ora quando". Ha raccontato la linguista Fabrizia Giuliani che il giorno in cui, in un convegno a Utrecht, ha sentito una relazione che proponeva in parallelo i casi delle donne talebane e di quelle italiane e ha notato che nessuno reagiva più con stupore, ha deciso che bisognava finalmente trovare il modo di dire "basta".
Le donne di questo nascente movimento hanno in comune la caratteristica della prudenza, hanno visto troppe illusioni svanire. Ma hanno ambizioni. Questo spiega una certa virtuosa incompiutezza del disegno politico, che dovrà precisarsi trovando le vie di un accesso alla politica che aggiri le insidie. Non hanno intenzione di farsi catalogare come l´annesso di qualcuna delle correnti o dei leader della sinistra e del centrosinistra in servizio o in disarmo. Nei loro forum i vecchi nomi sono diventati pressoché impronunciabili, non per timidezza, ma per la conoscenza che hanno della giungla paludosa da attraversare. Sanno anche che anche il tono delle critiche a Berlusconi rischia di essere decodificato e degradato a banale etichetta di una corrente contro le altre. Forse riusciranno anche a portare parole nuove per un discorso pubblico dissanguato. Come spiegano chiaramente, non vogliono il ministero delle Pari opportunità, ma l´Economia, gli Interni e la Difesa, e anche il Primo ministro se non il Quirinale, dopo Napolitano. Non vogliono quote, ma "la metà di tutto". E forse qualcosa di più. Non si metteranno "sulla scia" di questo o di quello. Intendono iniziare una "nuova scia".
La Stampa 8.7.11
Dossier/ La scuola e i nuovi lavori
Niente prof per i prossimi dieci anni
Il ministero: dobbiamo smaltire tutti i precari I giovani: zero posti, costretti alla disoccupazione
di Flavia Amabile
GLI STUDENTI UNIVERSITARI «Il governo ha scelto di soddisfare i sindacati noi dobbiamo arrangiarci»
LA RIVOLTA «E’ una guerra tra poveri» Inviata una lettera di protesta al governo
L’AUTOCRITICA SUL WEB «Si rischia un disastro sociale e culturale, oltre che un danno per l’istruzione»
LE GRADUATORIE In alcune regioni già l’anno prossimo non ci sono abilitazioni disponibili
730mila insegnanti. Il dato fa riferimento ai docenti della scuola statale (Sono 89 mila nella scuola dell’infanzia, 248 mila nella scuola primaria, 161mila nella scuola media e 231mila nella scuola superiore)
128mila precari. Fra i docenti con contratto a tempo determinato ci sono sia quelli che hanno una cattedra annuale (23.277) sia quelli che hanno un contratto di supplenza per un periodo di tempo più limitato
ROMA
In coda tra i banchi Il doppio dramma della scuola italiana: tanti prof precari accumulati in decenni. Ora per smaltirli il ministero riserva pochi posti ai giovani laureati che sognano di insegnare
Ricordate i precari della scuola? E le promesse del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini: nel giro di pochi anni li assumeremo tutti? Il mondo dei giovani ha scoperto come andrà a finire: i precari verranno assunti, e loro rimarranno senza lavoro almeno per una decina d’anni.
Le cifre lasciano pochi dubbi su quel che accadrà, in particolare alle superiori. Il ministero ha calcolato che per il prossimo anno scolastico, il 2012-13, ci sarà bisogno di 26 nuovi prof abilitati, in media poco più di uno per regione. In realtà in alcune regioni non hanno bisogno di nuovi prof di lettere. Accanto alla casella di Lombardia, Friuli, Piemonte e Umbria c’è scritto molto semplicemente: zero.
Si dirà: ma ancora volete nuovi prof di lettere? E va bene che siamo un popolo di scrittori e poeti ma bisogna anche pensare al futuro, a materie più aperte al mondo scientifico e del progresso. Informatica, ad esempio. In totale 63 nuovi posti da prof da abilitare per il 2012-13. Zero in Calabria, Molise, Sardegna e Umbria dove, evidentemente, non hanno ulteriori necessità con le lezioni su computer e dintorni. Un posto in regioni come Lazio, Campania e Sicilia dove il numero degli studenti e l’ampiezza del territorio lascerebbero immaginare ben altra voglia di investire in una materia che dovrebbe essere alla base dei saperi di tutti gli studenti del Terzo Millennio.
Dopo aver letto tabelle su tabelle di cifre come queste i componenti del Coordinamento Liste per il Diritto allo Studio che fa parte del Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari ha deciso di scrivere una lunga lettera al ministro Gelmini per chiederle di ripensarci, di salvare il futuro dei giovani che da grandi vorrebbero diventare dei prof.
«Chi vuole fare l'insegnante se lo scordi, almeno per dieci anni. Se tutto andrà bene. Chi sta frequentando o vorrà iscriversi il prossimo anno a un corso di laurea in matematica, lingue, lettere, filosofia, scienze motorie, ecc., con l'intenzione di insegnare, sappia che non sarà possibile, perché i nuovi posti previsti dalle tabelle ministeriali per ottenere l'abilitazione all'insegnamento - anche nelle principali classi di concorso - ammontano sostanzialmente a zero fino al 2015. “Zero tituli”. E, presumibilmente, si discosteranno di poco dallo zero fino al 2018», spiegano.
Il motivo? Dare la precedenza ai precari, rispondono gli studenti. «Il governo ha compiuto la sua scelta (calcolata o subita): sta dalla parte dei già abilitati non ancora immessi in ruolo e inseriti nelle graduatorie a esaurimento. Una scelta, è inutile nasconderlo, che soddisfa pienamente le richieste dei sindacati e privilegia i “diritti acquisiti”. Il tempo di smaltimento delle suddette graduatorie è stimato dagli uffici ministeriali in sette anni (ma alcuni bene informati dicono dieci o quindici), perciò prima di quella data non vi saranno nuovi ingressi. E i giovani? Si arrangino. Del resto, quelli che vogliono insegnare rappresentano un modesto serbatoio di voti e sono alla fin fine innocui. Siano loro il capro espiatorio!».
In altri termini, una «guerra tra poveri». E i giovani hanno deciso di ribellarsi perché il problema dei precari esiste e va risolto - dicono - «ma non possiamo condividere che il prezzo di questa stratificata e annosa situazione lo debbano pagare unicamente i giovani, cioè noi».
La lettera è stata diffusa una settimana fa ed ha già scatenato un acceso dibattito in rete. Elio Franzini, docente di Estetica nell’Università statale di Milano, membro della Commissione ministeriale che ha stilato il Regolamento sulla formazione iniziale degli insegnanti: «Sarebbe un disastro sociale e culturale. Se questi numeri fossero confermati, e non si aprisse il tirocinio formativo attivo per un numero anche contenuto dei nostri giovani, sarebbe un danno per la scuola, che non avrebbe forze nuove, e per l’università, poiché renderebbe molto meno credibili alcuni importanti percorsi formativi», ha spiegato al sito Il sussidiario.net. Oltretutto le tabelle - aggiunge - appaiono anche sospette: «In tutte le classi di abilitazione il numero esatto dei precari coincide con quello del fabbisogno! Le graduatorie una volta erano pluriabilitanti, e fatte di persone che figuravano dunque più volte perché abilitate in più classi di concorso; tali graduatorie contengono anche persone che probabilmente - almeno in parte ora fanno altro nella vita e non insegnano più. Questi semplici elementi devono giocoforza legittimare un approccio molto più articolato».
l’Unità 8.7.11
Lo spettro della fame torna in Corno d’Africa come incubo di siccità
Il riscaldamento climatico globale ha accorciato di un terzo i cicli di pioggia E con l’aumento dei prezzi alimentari, milioni di famiglie senza acqua né cibo
di Shukri Said
La Somalia lancia un appello al mondo per superare la gravissima situazione umanitaria in cui versa per la prolungata siccità.
Da 60 anni non si ricordava una siccità come quella che sta vivendo l’Africa orientale. Il cambio climatico ne ha accelerato la frequenza. A partire dagli anni 80 il ciclo decennale si è ridotto a cinque anni e nell’ultimo decennio a 2/3. L’ultima siccità dal 2009 non si è più interrotta devastando l’agricoltura e distruggendo il bestiame. Agricoltura e allevamento costituiscono le uniche attività praticabili in molte zone della Somalia. Nelle regioni più colpite è caduto solo il 15% delle piogge previste tra ottobre e dicembre. Le aree più colpite sono quelle centro meridionali. Nella zona di Hiran sono 10 anni che le piogge non raggiungono il minimo per la sopravvivenza e un numero senza precedenti di somali si dirige verso il campo profughi di Dadaab in Kenya. Ogni giorno qui arrivano 1.300 persone tra cui almeno 800 bambini. Il numero degli arrivi giornalieri è decuplicato in un anno portando la popolazione a 400.000 persone quando ne erano previsti 90.000. Il viaggio è lungo, a volte mesi e molti muoiono lungo la strada spesso dopo aver bevuto da pozzi infetti rimanendo decimati da diarrea tifo e colera.
Da mesi decine di ong hanno denunciato la crisi alimentare che ha portato 2,5 milioni di somali, quasi un terzo dell’intera popolazione, a non avere acqua e cibo a sufficienza.
Se uno degli effetti della siccità è l’impennata del prezzo dei cereali che priva di nutrimento un numero sempre maggiore di somali, l’altro consiste nell’aumento delle bande di predoni che spogliano i profughi di quel poco che possiedono durante i viaggi della salvezza. Ma il peggior rischio è per la sicurezza con l’inasprimento dei conflitti latenti tra diversi gruppi etnici che si contendono pascoli e accesso all’acqua.
I racconti dei profughi raccolti nei campi sono quelli dell’orrore. Con le clavicole che sporgono come ali sopra i costati in rilievo e gli occhi troppo grandi per facce così magre, narrano di familiari lasciati lungo la strada ancora vivi ma senza speranza di finire il viaggio, di cadaveri mummificati dal calore che nessuno ha la forza di seppellire e che gli avvoltoi provvederanno a spolpare, di ossa sparse nel deserto e di carcasse di animali coperte di mosche fameliche. Un paesaggio allucinante.
Nella graduatoria degli stati depressi la Somalia vince sempre con almeno 2,5 milioni di persone in emergenza umanitaria di cui quasi un milione, soprattutto donne e bambini, in malnutrizione acuta.La siccità aggiunge il problema umanitario a quello politico e i profughi dell’acqua a quelli della guerra civile.I drammi della siccità non sarebbero così penosi e urgenti se la Somalia avesse un sistema istituzionale più efficiente di quello imposto anche pochi giorni fa dalla comunità internazionale (vedi l’articolo nella pagina precedente). Rassegnando le dimissioni lo scorso 19 giugno, Mohamed ha ottenuto di designare il suo Vice quale successore. Il neo Primo Ministro Abdiweli Mohamed Ali, nominato lo scorso 28 giugno, è anche lui un insigne docente universitario americano che ha concentrato i suoi studi economici particolarmente sulla finanza pubblica, il commercio internazionale e gli effetti delle scelte istituzionali sulla crescita economica. Quale primo suo atto ha nominato una commissione ministeriale per combattere la siccità e i suoi effetti. Dal canto loro, le Money Tranfert di origine somala hanno aperto un conto per raccogliere fondi per gli aiuti alla popolazione.
l’Unità Firenze 8.7.11
Stragi naziste sull’Appennino: dopo 67 anni, nove ergastoli
Giustizia è fatta per gli eccidi di Vallucciole, Castagno, Stia e Monte Morello In aula, i familiari delle 350 vittime civili. Alcuni erano bambini di pochi mesi
di Maria Vittoria Giannotti
Per sessantasette anni hanno condotto una vita tranquilla. Senza mai pentirsi di tutto quel sangue che si erano lasciati alle spalle. Ora gli eccidi nazisti perpetrati nel 1944 lungo l'Appennino tosco-emiliano hanno finalmente dei colpevoli. Mercoledì sera il Tribunale militare di Verona ha condannato nove, tra ex ufficiali e sottoufficiali tedeschi, ad almeno un ergastolo ciascuno. I condannati, ormai novantenni, facevano pare della divisione Herma Goehring, un corpo di spedizione nato per spezzare la resistenza, ma che spesso colpì la popolazione civile. Senza fermarsi davanti a vecchi e bambini. Le stragi, rimaste nella memoria di questi paese arroccati sulle montagne, sono quelle di Vallucciole, nel Casentino, Monte Morello, Castagno d’Andrea, Stia, Bibbiena, Mommio, nel Massese.
In aula, ad attendere la sentenza in un silenzio surreale, c'erano i familiari delle vittime, che non hanno mai smesso di cercare giustizia in nome di quegli innocenti, trecentocinquanta, morti senza un perchè. Per quei parenti, silenziosi e dolenti, la corte ha previsto anche dei risarcimenti.
«Questa sentenza dà pace a una comunità che da quasi 67 anni si porta dietro questa macchia ha sottolineato il sindaco di Stia, Stefano Milli -. È una ferita ancora aperta perchè ci sono ancora dei superstiti».
A Vallucciole, tra il 13 e il 18 aprile, furono uccise 108 persone, tra cui 22 bambini e ragazzi. Alcuni di loro, tra cui un bambino di appena tre mesi, furono sbattuti contro il muro per risparmiare le pallottole. «Dopo 67 anni finalmente e' stata fatta giustizia, per le vittime e per i loro familiari commenta Vannino Chiti, vice presidente del Senato. La democrazia non può dimenticare e non deve rinunciare a punire, anche a tanti anni di distanza. quei massacri».
«Queste sentenze mettono ordine nella storia e attribuiscono le giuste responsabilità, anche se i colpevoli giunti con parecchi anni di ritardo sul banco degli imputati non finiranno magari in carcere» osserva il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. In effetti, nessuno di questi ex ufficiali, sconterà mai un giorno di prigione. Per tutto questo tempo hanno potuto condurre indisturbati le loro esistenze, “protetti” dalle loro comunità e da alcune associazioni di ex combattenti.
il Fatto 8.7.11
“La Cgil è autoritaria”
Landini (Fiom) contesta la scelta della Camusso di firmare l’accordo con Confindustria
di Salvatore Cannavò
Se a Maurizio Landini chiedi se è pronto a rompere la Cgil ti risponde: “Neanche per sogno, la Cgil sono io”. E a Susanna Camusso che ieri (sul Fatto Quotidiano) accusava la Fiom di “populismo”, con la sua insistenza sul referendum, il segretario generale della Fiom replica: “La democrazia non è populismo o movimentismo” ma semplicemente il modo in cui un'organizzazione evita l'autoritarismo che invece è presente nell'accordo del 28 giugno. L'attacco diretto non c'è mai, com'è nello stile del personaggio, ma i punti di attrito con la Cgil e il suo segretario generale, sono evidenti.
Landini, si riconosce nella categoria di populista?
Nella mia esperienza non ho mai firmato se prima non ho avuto il consenso della maggioranza dei lavoratori attraverso il voto. Il diritto delle persone di votare è ciò che permette al sindacato di essere un soggetto di trasformazione con un'autonomia. Se viene meno questa verifica siamo in presenza di un modello autoritario di relazioni sindacali.
Sta dicendo che la Camusso ha firmato con Confindustria un accordo autoritario?
Dico che quello è un modello di accordo che disegna un'assenza di democrazia dei lavoratori. In Italia tutti i cittadini hanno diritto di fare referendum tranne i lavoratori nei luoghi di lavoro. Questo sistema permette all'azienda di scegliere con chi fare accordi.
In sintesi cosa contestate alla Cgil e a quell'accordo?
Il peggioramento delle condizioni e dei diritti dei lavoratori. Ad esempio quando si parla di tregua sindacale, una norma che la Fiat voleva applicare retroattivamente perché l'avrebbe favorita. A Pomigliano e Mirafiori la Fiom, che non ha firmato gli accordi, può scioperare mentre adesso, se le Rsu stabiliscono a maggioranza dei periodi di tregua , si vincola anche chi non è d'accordo. Fino alla possibilità di vedersi chiedere i danni per mancata produzione. Nel testo, inoltre, non vengono definiti i diritti indisponibili che non possono essere oggetto di peggioramento a livello aziendale.
Ma la Cgil sostiene che l'accordo non parla di deroghe, anzi certifica la supremazia del contratto nazionale.
Neanche nell'accordo del 2009 c'era la parola deroghe, ma dire “intese modificative” è la stessa cosa. La Cgil che non ha firmato nel 2009 oggi, con scarsa coerenza, invece firma.
La Camusso contesta: se la Fiat è contro vuol dire che
l'accordo è buono.
Come sempre la Fiat punta a rilanciare: infatti ha preso tempo fino a gennaio 2012. Vuole qualcosa di più.
Cosa?
Una legge oppure la rinegoziazione degli stessi accordi di Pomigliano e Mirafiori, ad esempio con la clausola di tregua sindacale. Il paradosso è che questo accordo dà tutto quello che la Fiat chiedeva (tregua, Rsa, non voto, derogabilità) ma la Fiat non si accontenta. Quindi non è vero che si è difeso un sistema ma lo si è peggiorato abbassando diritti e tutele.
Sta dicendo che c'è un problema strutturale in casa Cgil?
In Cgil c'è un problema democratico. A differenza di altre esperienze che ho vissuto, i segretari generali e il direttivo non hanno discusso del testo prima della firma, ma solo a cose fatte. Alla complessità democratica non si risponde con logiche autoritarie di comando.
Ora che fa la Fiom, “se ne farà una ragione”?
La Fiom discuterà e deciderà assieme ai lavoratori metalmeccanici in modo democratico. Quindi i lavoratori devono conoscere questo testo e avere la possibilità di esprimersi, Anche chi non è iscritto.
Allargherete la consultazione?
Dobbiamo trovare il modo di informare tutti anche perché i mesi di luglio e settembre coincidono con le assemblee per preparare la piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale. Quindi abbiamo bisogno di far votare gli iscritti e di parlare con tutti.
Di farli anche votare?
Lo discuteremo e decideremo nei prossimi giorni.
Non è che siete troppo “duri” e non capite la realtà del Paese?
Ma non stiamo chiedendo cose estremiste. Vogliamo “solo” applicare i contratti nazionali, le leggi, e riconoscere ai lavoratori dei diritti minimi. Nei giorni scorsi, la segreteria nazionale ha spiegato che la Cgil sosterrà i referendum elettorali. Come facciamo a chiedere la firma per riformare la legge elettorale e allo stesso tempo dire a un lavoratore che non può votare sui propri accordi? Nel Paese c'è domanda di democrazia e partecipazione e quindi la democrazia non è una cosa di movimento o populista.
Si è sentito tradito dall'accordo?
La categoria di tradimento per me non esiste. Ho provato rabbia perché hanno firmato senza che la categoria che rappresento potesse esprimersi. Ho pensato che c'è un problema di democrazia per i lavoratori e un problema di democrazia interna alla Cgil.
Ma con tutte queste divergenze è possibile stare nello stesso sindacato?
Assolutamente sì perché io sono la Cgil, cioè l'idea di democrazia e conflitto incarnata dalla Fiom. I gesti autoritari non aiutano ad affrontare le cose complesse.
La Stampa 8.7.11
Spagna, gli orrori di Franco Neonati rubati e venduti
Dopo 40 anni emerge un fenomeno sconvolgente Ospedali trasformati in supermarket dei bebè
di Mimmo Càndito
LA SCOPERTA. A portare alla luce la verità il ritrovamento di un 42enne del «suo» certificato di morte
849 Casi esaminati. Medici e suore dicevano ai genitori che il figlio era deceduto e poi lo affidavano alle coppie vicine al regime
700 Codici Dna. L’associazione dei «presunti adottati» ha creato un archivio genetico per aiutare il processo investigativo
UNA TRUFFA LUNGA DECENNI. Il traffico dei bambini è continuato dopo la morte del dittatore e fino al 1990
Sappiamo, tutti, delle Madri di Plaza de Mayo, e delle nonne, le Abuelas, che disperatamente tentano ancora di recuperare il filo della vita che lega la loro amorevole ricerca d’oggi ai figli perduti nell’orrore della «guerra sporca» che insanguinò l’Argentina della dittatura, sul finire degli anni Settanta. Ci sembrano storie d’un altro mondo e disumane, retaggi consegnati a orrori che mai la civile Europa avrebbe saputo scatenare. Ma ora - con alcune notizie che arrivano dai tribunali spagnoli - dobbiamo scoprire ancora una volta che le illusioni sulle quali abbiamo costruito l’identità d’una nostra supposta superiorità morale si bruciano all’evidenza d’una brutale verità.
Sono, queste, le notizie di un mostruoso traffico di neonati - «Probabilmente una rete internazionale», dice il Procuratore generale di Siviglia, Càndido Conde Pumpido - che ha unito in una collusione clandestina molti ospedali spagnoli, per un lunghissimo periodo di tempo, almeno dagli anni Cinquanta alla fine del secolo scorso. Tutto cominciò con la vendetta che il Caudillo Francisco Franco volle consumare in ogni angolo di Spagna, dopo la sua vittoria nella Guerra Civìl: i lealisti che lui aveva sconfitto andavano puniti in modo esemplare, facendoli lavorare fino a morte nella costruzione del sacrario franchista del Valle de los Caìdos, chiudendoli nella galere del regime e privandoli dei diritti più elementari.
Era un clima di divisione netta tra due mondi, i vincitori e gli sconfitti, che non soltanto produceva norme e sanzioni di cementificazione della spaccatura ma, anche, costruiva un modo di pensare dove gli sconfitti potevano subire impunemente qualsiasi sopruso. E nasce in quella «cultura» - non necessariamente per volontà istituzionale, ma certo in un permissivismo ufficiale di punizione dei «rossi» - la costruzione di questa rete di «furto» di neonati venuti alla luce da famiglie segnate dalla loro fedeltà repubblicana. Non si sa quanti siano, la memoria è difficile da ricostruire, ma intanto - mentre le investigazioni proseguono (e l’International Herald Tribune ne disvela ora alcune storie accorate) - 849 casi sono già stati portati in evidenza giudiziaria.
Tutto nasce accidentalmente, dalla scoperta improvvisa d’un uomo, Antonio Barroso, oggi di 42 anni, che trova per un errore (o presunto errore) anagrafico d’essere un figlio adottivo. Le sue ricerche lo portano fin nei registri d’un ospedale dove sarebbe nato e poi morto già nei primi giorni di vita. Ma poiché morto non lo è, il pasticcio comincia a rivelarsi in tutta la sua mascheratura; non solo, ma vengono progressivamente a manifestarsi situazioni simili anche in altri ospedali spagnoli, e appaiono storie ingarbugliate di suore che raccontano menzogne, di medici che ingannano le puerpere, di neonati registrati come deceduti - addirittura sepolti, in fosse comuni o in loculi anonimi - che invece sono stati consegnati a misteriosi acquirenti. «È talmente estesa questa situazione che stiamo ricostruendo - dice il giudice Conde Pumpido - che per forza si deve pensare a una grossa organizzazione gangsteristica che aveva il suo centro di smistamento a Madrid».
Come le Madres e le Abuelas argentine si sono organizzate, allo stesso modo Antonio Barroso ha creato un’associazione di «presunti adottati», l’acronimo è Anadir, e ha costituito un archivio genetico già di 700 codici di Dna, per aiutare il processo investigativo della magistratura spagnola e ancorare a un data-base scientifico l’accertamento della verità. Per molti di questi casi interverrebbe la prescrizione, definita ormai dal lungo tempo trascorso, ma opera in sede giudiziaria l’estensione della vigenza del crimine che il giudice Baltazar Garzòn sancì nel 2008 per il giudicato dei delitti commessi dal franchismo. La Spagna che si stava lentamente liberando dalla memoria greve di Franco si trova ora a misurarsi con l’orrore d’una storia la cui vera dimensione non è nemmeno ipotizzabile: le suore che, sempre più numerose, confessano il commercio di neonati, i medici che rivelano la falsificazione dei registri d’ospedale, i sospetti che sempre più si allargano sulla vita innocente di centinaia (migliaia?) di casi aprono un percorso drammatico che segna a fondo non solo il passato franchista ma la persistenza anche in democrazia di un inquietante mistero criminale.
il Fatto Saturno 8.7.11
Zagrebelsky e C.
Non date la colpa al Papa
di Lucia Ceci
F. Cassano, L’umiltà del male, Laterza, pagg. 96, • 14
E. Mauro - G. Zagrebelsky, La felicità della democrazia, La-terza, pagg. 192, • 15
LA FINE DI UNA stagione si consuma sempre con una resa dei conti: chi è stato responsabile di cosa. Negli italici confini del secolo breve è capitato almeno tre volte: Caporetto, 8 settembre, tangentopoli. Il redde rationem investe le persone, i fatti, le cose. Ma gli intellettuali sono interessati anche ad altro: le cause. Accade dunque, nel crepuscolo del berlusconismo, che i professionisti dell’analisi di lungo periodo si adoperino per individuare il vizio d’origine di tanto sfa-celo. E poiché la scena, con le notti di Arcore, si consuma su un terreno etico in cui il privato si mesce col pubblico e ha il volto seducente e da tutti decifrabile di una prostituta minorenne, appare naturale chiamare in causa l’azionista di maggioranza dell’ethos pubblico italiano: la Chiesa cattolica. In questi mesi di crisi torna a riaffacciarsi il teorema che evoca la presenza del papato nel territorio nazionale quale forza fiaccatrice degli anticorpi civili : dal fascismo a Scilipoti, passando per l’evasione fiscale, la corruzione, il bunga-bunga. Così, più che in altri momenti, ci troviamo a imparare da Ezio Mauro come, nello sfacelo delle istituzioni democratiche, la «riconquista» dei vescovi sia «quasi un Dio italiano che cammina, una sorta di via italiana al cattolicesimo». E contemporaneamente ci imbattiamo nel dito di Gustavo Zagrebelsky, puntato contro «l’enorme concentrazione di potere mondano» di cui la Chiesa dispone. E nei suoi profetici richiami perché essa si purifichi dai beni della terra e dal potere sulla terra. Pena la salvezza della laicità e, dunque, della democrazia. Una Chiesa di santi. Una laicità senza se e senza ma. Eppure non si può mettere sulle spalle di Pietro il peso dei guasti della democrazia in Italia. Ora è vero che la gerarchia cattolica ha rinunciato da troppo tempo a parlare di Dio. E sente piuttosto il dovere di intervenire su temi lontani dalle Sacre Scritture e dalle vite concrete delle donne e degli uomini. Che vuole raggiungere direttamente il legislatore nelle pieghe di un tessuto politico fragile e gregario. Ma non si può ignorare che l’essere cattolici si riduce all’esser stati battezzati, che i vescovi orientano sempre meno le menti, le scelte morali, le decisioni elettorali degli italiani. La longa manus della Chiesa (così la chiamano Mauro e Zagrebelsky) riesce solo a muovere un ceto politico impegnato nella spartizione di prebende, il cui cinismo resiste ai colpi di ogni indignazione. Da parte mia mi sottrarrei volentieri al compito di individuare il germe che fornisce la cifra specifica del deficit di etica pubblica nel-l’Italia di oggi. Perché non sono capace di fare un ragionamento semplificato. Avrei bisogno di tirare in ballo crisi del sistema dei partiti, mutamenti di assetti internazionali, tradizioni civiche, culture politiche, guelfi e ghibellini. E il ragionamento sarebbe meno incalzante. Una cosa però la voglio dire. Se proprio non posso sottrarmi alla semplificazione tirerei in ballo il tradimento delle élites democratiche e delle forze politiche che dal 1994 in avanti le hanno rappresentate. Perché in 17 anni di berlusconismo hanno guidato il Paese per 101 mesi, cioè 8 anni e mezzo, se mettiamo insieme i governi Dini, Prodi, D’Alema, Amato. Perché il loro narcisismo etico – per usare una categoria centrale nell’ultimo libro di Franco Cassano, L’umiltà del male – il loro atteggiamento di superiorità morale le ha rese incapaci di una mobilitazione in grado di innervare la politica.
Se il Grande Inquisitore è riuscito ad avvelenare i pozzi non è solo per la sua potenza, ma anche perché il campo gli è stato lasciato libero dalla presunzione di quelli che Dostojevski nella sua Leggenda chiama i dodicimila santi.
Repubblica 8.7.11
Celine. Com’è difficile celebrare un genio cattivo
di Alan Riding
Le riviste gli hanno dedicato corposi supplementi letterari, ma i funzionari pubblici dovrebbero restare in silenzio
Il critico del "Nyt" sul caso dello scrittore che divide la Francia
Il suo capolavoro "Viaggio al termine della notte" uscì nel 1932, cinque anni prima che lui abbracciasse l´antisemitismo
Com´era prevedibile, il cinquantenario della morte di Céline ha scatenato in Francia un mare di polemiche. All´inizio di quest´anno, quando il suo nome fu inserito dal Ministero della Cultura nell´elenco delle personalità da celebrare nel corso del 2011, ci furono moltissime reazioni indignate. «L´antisemitismo discredita Céline, come uomo e come scrittore», dichiarò scandalizzato Serge Klarsfeld, chiedendo la cancellazione di qualsiasi iniziativa ufficiale. Tanto che alla fine il ministro della cultura Frédéric Mitterrand fu costretto a ritirarne il nome dal programma delle celebrazioni. Un gesto che gli estimatori di Céline denunciarono immediatamente come un atto di censura intollerabile nei confronti di uno dei più grandi scrittori del XX secolo. Da allora le discussioni continuano, senza impedire tuttavia che il romanziere sia oggi al centro di convegni, letture, aste e spettacoli. Per non parlare delle molte pubblicazioni giunte in libreria, tra cui, oltre l´ottima biografia scritta da Henri Godard, Cèline (Gallimard), anche una ricca raccolta di testimonianze sullo scrittore, D´un Céline l´autre (Robert Laffont), al cui interno figurano una trentina di pagine inedite della figlia Colette. (Fabio Gambaro)
PARIGI. Gli anniversari di solito sono una buona occasione per celebrare grandi artisti del passato. E così sembrava dovesse essere anche per lo scrittore francese noto con il nome d´arte di Louis-Ferdinand Céline, morto cinquant´anni fa. I preparativi per commemorare la ricorrenza erano già in fase avanzata quando qualcuno ha cominciato a rimarcare che Céline era un feroce antisemita, che fomentò l´odio nei confronti degli ebrei prima e durante l´occupazione tedesca della Francia.
Il problema è che la Francia venera ancora Céline, non per le sue idee politiche ma per il suo modo di scrivere, soprattutto in Viaggio al termine della notte. Quando questo straordinario romanzo semiautobiografico fu pubblicato, nel 1932, cinque anni prima che Céline abbracciasse l´antisemitismo come suo nuovo credo, fu subito salutato come un capolavoro, e oggi nella letteratura francese moderna occupa un posto paragonabile a quello che occupa per la letteratura inglese l´Ulisse di Joyce.
Ma è possibile separare il Céline scrittore dal Céline uomo?
Nel suo caso, la distinzione non è così netta, perché ha scritto anche tre pamphlet contro gli ebrei – Bagattelle per un massacro (1937), Scuola di cadaveri (1938) e Le belle bandiere (1941) – che vendettero bene proprio perché era un autore famoso. Per i suoi ammiratori, però, importano soltanto i suoi meriti letterari.
Lo sconcerto per i comportamenti personali di artisti acclamati naturalmente non è un fenomeno inedito. Anzi, siamo attratti, come se sentissimo il bisogno di sgonfiare il mistero del loro dono, da biografie che "umanizzano" creatori famosi sottolineando i loro limiti come coniugi, o la loro nevrotica insicurezza, o il loro debole per l´alcol e le droghe.
Ma è un altro discorso quando gli artisti cercano (o, come spesso succede, ci si aspetta che cerchino) di influenzare l´opinione pubblica. In questi casi, possono aspettarsi di essere giudicati per qualcosa di più che per la loro arte.
Sono innumerevoli gli esempi di artisti, in particolare scrittori, che hanno preso posizioni politiche. Aleksandr Solzhenicyn, ad esempio, è ricordato, da un numero di persone molto superiore a quello dei suoi lettori, per aver denunciato il comunismo sovietico; il premo Nobel per la letteratura del 2010, Mario Vargas Llosa, nel 1990 si presentò senza successo alla corsa per la presidenza del Perù; e la dissidenza esplicita dell´artista cinese Ai Weiwei recentemente gli è costata un soggiorno dietro le sbarre.
Al tempo stesso, il coinvolgimento politico comporta il rischio di finire dal lato sbagliato della storia. E in questo senso si può tracciare un parallelo tra Céline e Richard Wagner.
Nel saggio Il giudaismo nella musica, pubblicato da Wagner sotto uno pseudonimo nel 1850, il grande musicista scriveva della «nostra naturale ripugnanza contro la natura giudaica». Anche se la sua animosità nei confronti degli ebrei non era livorosa come quella di Céline, l´antisemitismo è associato alla sua identità pubblica fin dagli anni Trenta, quando diventò il compositore preferito di Hitler.
Quindi dovremmo boicottare la sua musica? Israele per molto tempo ci ha provato, anche se il direttore d´orchestra israeliano (e nato in Argentina) Daniel Barenboim ha sfidato questo divieto ufficioso, eseguendo nel 2001 a Gerusalemme l´ouverture wagneriana del Tristano e Isotta, e dichiarando l´anno scorso che «un giorno dovremo liberare Wagner» dalla sua associazione con Hitler e i nazisti.
Potrà succedere lo stesso per Céline? Non è stato certo l´unico scrittore francese a vomitare dichiarazioni antisemite durante l´occupazione tedesca. Ma mentre, per fare qualche esempio, Pierre Drieu La Rochelle si suicidò e Robert Brasillach fu fucilato dopo la liberazione, Céline fuggì in Danimarca, e dopo un´amnistia tornò in Francia, nel 1951, da uomo libero. Comprensibilmente, per qualcuno il desiderio di vederlo punito non è finito con la sua morte.
D´altra parte, a differenza di Drieu La Rochelle e di Brasillach, Céline è ancora molto letto e insieme a Proust e a Camus rappresenta la pietra angolare della letteratura francese del Novecento. Ed è sicuramente per questo motivo che all´inizio di quest´anno il ministero della Cultura francese ha considerato normale includere l´anniversario della sua morte tra gli eventi culturali rilevanti del 2011.
Poi Serge Klarsfeld, famoso cacciatore di nazisti che perse il padre nell´Olocausto, è intervenuto, sostenendo che la Francia non doveva celebrare un uomo che perorava lo sterminio degli ebrei. Temendo problemi, il ministero della Cultura si è affrettato a dissociarsi da Céline e dall´anniversario, suscitando però lamentele e accuse di censura.
Tutto questo trambusto tuttavia non è stato inutile. Quest´anno è uscita una nuova, importante biografia di Céline, più altri libri che analizzano aspetti diversi della sua scrittura. Numerose riviste inoltre hanno dedicato allo scrittore corposi supplementi letterari. Ma almeno i funzionari pubblici oggi dovrebbero restare in silenzio. E gli ammiratori del Céline scrittore non possono più ignorare il Céline uomo. Un genio? Probabilmente. Cattivo? Senza dubbio.
(L´autore ha scritto recentemente il saggio And The Show Went On: Cultural Life in Nazi - Occupied Paris) (Traduzione di Fabio Galimberti)
© The New York TimesLa Repubblica
il Fatto Saturno 8.7.11
Icone della gauche
Foucault a destra?
di Marco Filoni
CHE MICHEL FOUCAULT sia stato un grande filosofo va da sé. Le sue opere rimangono fra le più interessanti, lette e discusse del Novecento. Non solo. Il filosofo ha anche segnato il pensiero politico: l’influenza dei suoi concetti, considerevole nel mondo intellettuale, lo è stata ancor di più nel campo della sinistra francese. Perciò soltanto pensare di ridiscutere la sua “collocazione” politica appare un’operazione azzardata. Si capisce allora il dibattito che ha suscitato, Oltralpe, il coraggioso libello di José Luis Moreno Pestaña, Foucault, la gauche et la politique (pubblicato dall’editore Textuel di Parigi), con le conseguenti reazioni indignate – fra tutte, quella di Serge Audier apparsa su Le Monde. Coraggioso perché, in fondo, con una semplice domanda demolisce un mito strutturato e potente: ma Foucault era davvero di sinistra? L’imbarazzante questione è posta con grazia. Senza venerazione né irriverenza. Bensì con una sana distanza che permette all’autore di non fare del filosofo un’icona, ma studiarlo come oggetto di una sociologia degli intellettuali. Insomma, si libera dal vecchio ritornello “cosa è di destra” e “cosa è di sinistra” nel pensiero di Foucault. Il filosofo si incaricò di cause dimenticate o snobbate dai colonnelli del materialismo storico (come la prigione o il potere psichiatrico), e per questo è sempre stato considerato un rinnovatore del pensiero della sinistra, di-screditata dagli scogli del marxismo. Però Pestaña mostra una realtà più complessa, studiando il suo autore sotto tre aspetti: la vicenda biografica; la sua traiettoria accademica; il suo impegno politico. Il tutto attraverso la lettura delle opere pertinenti dal punto di vista politico. Scopriamo così che il filosofo è stato incostante: comunista durante gli studi all’École Normale Supérieure; vicino al potere gaullista nei primi anni da docente; con il Sessantotto militante nell’estrema sinistra e poi, alla fine degli anni Settanta, a flirtare con il neoliberismo. È questa la pietra dello scandalo per i foucauldiani: perché il loro idolo ha avuto questa virata liberale negli ultimi anni della sua vita? L’autore non cede alla via più semplice: non la vede né come evoluzione né come involuzione. Piuttosto che denunciare questa svolta, cerca di comprenderla. E lo fa leggendo le differenti frazioni dello spazio politico con le quali Foucault viene a tessere le proprie relazioni – sia in campo economico con il marxismo, che in quello giuridico con il liberalismo. Insomma, dopo aver scoperto che Marx non era marxista, tocca riconsiderare Foucault che, in fondo, non fu così foucauldiano.
il Fatto Saturno 8.7.11
Tutte le donne del dittatore
Da Eva a Evita
Hitler amava la Braun quanto il suo cane. Dalla moglie di Mao a Claretta, cosa significa vivere accanto a un tiranno
di Emilio Gentile
VARIA È STATA LA FINE di mogli e amanti dei dittatori nel XX secolo. Evita, la moglie del presidente argentino Juan Domingo Peron, morì di cancro nel 1952, quando il marito era ancora al potere, e fu glorificata come la santa laica del peronismo. Completamente diversa fu invece la fine di alcune mogli dei dittatori comunisti. La seconda moglie di Stalin si suicidò nel 1932, dopo essere stata brutalmente insultata dal consorte. La moglie del dittatore comunista rumeno Nicolae Ceausescu fu fucilata col marito nel 1989, quando il loro regime fu abbattuto dalla rivoluzione popolare. L’ultima moglie di Mao Zedong, Jiang Qing, fu arrestata subito dopo la morte del marito nel 1976: processata e condannata all’ergastolo, si suicidò in carcere nel 1991.
Tragica, ma per loro libera scelta, fu la fine di due giovani donne, che amarono potenti dittatori quando erano trionfanti in trono, e vollero rimanere al loro fianco fino alla morte, quando precipitarono nella polvere. Così fece Clara Petacci, amante di Mussolini, uccisa con lui dai partigiani il 28 aprile 1945. Due giorni dopo, a Berlino, si suicidava Eva Braun, l’amante che Hitler aveva sposato poche ore prima di uccidersi, dopo aver fatto avvelenare la sua amata cagna Blondi.
Per curiosa coincidenza, Clara ed Eva erano nate nello stesso anno, il 1912, ed erano diventate amanti dei loro dittatori quasi nello stesso periodo. Eva incontrò Adolf per la prima volta, casualmente, nel 1929, quando egli aveva quaranta anni ed era da poco diventato, come capo del partito nazionalsocialista, uno dei politici più votati e acclamati in Germania. Clara incontrò per la prima volta Benito nel 1932, quando il duce aveva quarantanove anni e da dieci era saldamente al potere di un regime totalitario.
La relazione fra le due ragazze e i due dittatori si consolidò contemporaneamente nel corso degli anni Trenta, ma con una differenza sostanziale. Benito era sposato con figli mentre Adolf rifiutava il matrimonio e la paternità. Attribuendosi un genio sovrumano, Hitler non voleva generare figli banalmente umani, mentre sosteneva che un uomo di grande intelligenza doveva scegliersi «una donna stupida e rozza». Il Führer si considerava idealmente lo sposo della Germania e il padre di tutti i tedeschi, ai quali aveva sacrificato la sua vita privata. Per questo, mantenne Eva nell’ombra, ammettendola solo nelle riunioni private con i pochi gerarchi e le loro famiglie nella sua casa sull’Obersalzberg. E forse per questo, i maggiori biografi di Hitler hanno considerato Eva Braun un personaggio storicamente insignificante. Nel 1952, Alan Bullock la definiva una ragazza di modesta levatura mentale, la cui vuotaggine non dava fastidio al dittatore. Venti anni dopo, Joachim Fest la menzionava appena un paio di volte nella sua biografia di Hitler, considerando molto più importante, per la vita del capo nazista, la turbolenta relazione amorosa avuta con la nipote Geli Raubal, morta suicida nel 1931. Ma anche Eva tentò due volte il suicidio, credendosi trascurata da Hitler. Che forse per questo le si affezionò di più.
Memorie e testimonianze di gerarchi nazisti e delle loro consorti hanno tramandato immagini di Eva contrastanti, fra la vacua fanciulla trattata dall’amante con indifferenza, e l’innamorata devota, che Hitler ricambiava con sincero affetto. Altrettanto contrastanti sono i giudizi di due recenti biografe di Eva, che hanno ricostruito la sua vita con accurate ricerche e un severo vaglio delle testimonianze. Per Angela Lambert, era «una ragazza borghese rispettabile e di buona educazione», che non era antisemita e neppure iscritta al partito nazista, «ma ebbe la sfortuna di innamorarsi di un mostro», sacrificandogli tutta se stessa. Invece secondo Heike B. Görtemaker, nei quattordici anni di intima relazione con Hitler, la ragazza di famiglia piccolo borghese divenne «una capricciosa, intransigente sostenitrice dell’assoluta fedeltà nei confronti del dittatore», credente nella sua ideologia, e capace di conquistarsi nella corte privata del Führer una «posizione inattaccabile», tanto che i gerarchi desiderosi di essere nelle grazie del loro capo, come Speer o Goebbels, «si videro costretti anche per questa ragione a farle la corte».
Eva amava Hitler. È difficile dire quali erano i veri sentimenti di Hitler verso di lei. Un giorno, fantasticando su un suo addio alla politica, il Führer disse ai commensali: «Non prenderò nessuno con me, salvo la signorina Braun; la signorina Braun e il mio cane». Forse, in quel momento, Hitler era sincero. Forse amava veramente la signorina Braun come il suo cane.
il Fatto Saturno 8.7.11
Evoluzione
L’uomo, per caso
di Raffaele Liucci
È UN LIBRO da raccomandare agli esperti di alieni, che quasi sempre li dipingono con fattezze umanoidi. Forse più nanerottoli di noi, con quattro dita invece che cinque, una testolina glabra, ma comunque assai simili all’homo sapiens. Soltanto illusioni, specchio di un antropomorfismo perverso. Se anche ci fosse vita su altri pianeti, essa avrebbe assunto forme per noi inimmaginabili. Come ci ha spiegato il grande Stephen J. Gould – il vero nume tutelare dell’ultimo lavoro del filosofo della scienza Telmo Pievani, La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto presso Cortina – se riavvolgessimo il nastro dell’evoluzione, otterremmo uno scenario radicalmente diverso da quello attuale. L’uomo non ci sarebbe più. Ogni processo evolutivo è infatti una «sequenza di eventi irripetibili e generosi». Se, per esempio, 60 milioni di anni fa un meteorite non avesse polverizzato i dinosauri , dando il via libera ai mammiferi, forse oggi, al nostro posto, ci sarebbero dei magnifici rettili piumati. Più che figli di Dio, noi umani siamo figli di quel meteorite. Pievani ha scritto un libro stuzzicante e irriverente. Non piacerà a quanti – teologi e filosofi della storia – assegnano una nicchia privilegiata all’uomo nell’universo. Corbellerie! Fra 5 miliardi di anni, prima di esplodere, il Sole si espanderà e inghiottirà la terra. La biosfera, probabilmente, si sarà già esaurita da tempo. E il bipede? Si estinguerà entro qualche migliaio d’anni, come il 99 per cento delle specie che l’hanno preceduto («Allegria!», direbbe Mike Bongiorno). In un grande libro che abbracciasse l’intera parabola del nostro pianetino (i 4,5 miliardi di anni già trascorsi e i 5 che ci attendono), l’homo sapiens non troverebbe spazio neppure in una nota a piè di pagina. Assai più rilevanti di lui sono stati i batteri e altri organismi unicellulari. Insomma, dobbiamo farcene una ragione. Siamo il frutto della contingenza, l’esito di «un’evoluzione che non ci aveva previsto». Ma scoprire che nessuna mano invisibile ha mai guidato le nostre sorti, non significa precipitare nell’orrido del nichilismo, come sentenziano i sacerdoti più corrucciati. La nostra vita, infatti, può avere un senso anche se non è incastonata in un disegno che la trascende. Perché siamo noi a costruirla, giorno dopo giorno, in un mix «di libertà e di conseguente responsabilità morale» (Gould). La storia siamo noi.
La Stampa 8.7.11
Intervista a Tullio Regge
Per un giorno Einstein mi ha tradito
“Arrivai a Princeton e lui se n’era appena andato” Il grande fisico racconta i suoi primi 80 anni
di Piero Bianucci
LA SCIENZA. «È il grande gioco di capire come funziona il mondo»
LA FISICA. «Siamo in una fase di stallo, non vedo idee originali»
CONTROCORRENTE. Sono per gli Ogm e contro il fumo. I primi non hanno mai ucciso»
LA POLITICA. «Ho avuto un seggio a Strasburgo, accanto a me c’era Napolitano»
Lunedì il compleanno Tullio Regge è nato a Torino l’11 luglio del 1931. È noto per l'introduzione nella meccanica quantistica dei poli di Regge. I suoi studi hanno permesso tra l’altro l’elaborazione di una versione semplificata della relatività generale di Einstein. Da giovane è stato buon giocatore di rugby, fino a che una forma di distrofia muscolare non lo ha progressivamente costretto su una sedia a rotelle.
Ottant’anni l’11 luglio. Ottant’anni controcorrente? Tullio Regge, uno dei fisici italiani più creativi della generazione dopo Fermi, scuote la testa dai capelli rossi e sgrana gli occhi. «Dipende. Una volta per sbloccare i lavori edilizi del nuovo istituto di fisica ho fatto lezione in una strada dove passavano i tram. Poco dopo i politici locali l’hanno inaugurato in pompa magna. Ho fatto divulgazione della scienza quando i miei colleghi la disprezzavano. Mi piaceva l’ecologia quando non era praticata da fondamentalisti e ora detesto i Verdi. Mi batto perché i disabili abbiano pari opportunità: è normale per chi come me vive su una carrozzina. Difendo gli Ogm e attacco le sigarette: è logico, gli Ogm non hanno mai fatto male a nessuno mentre ogni anno milioni di persone muoiono di cancro ai polmoni».
E nella scienza? I «Poli di Regge», la versione semplificata della relatività di Einstein e il primo tentativo di mettere d’accordo relatività e meccanica dei quanti furono momenti di rottura. E non ha detto di recente che la fisica è finita?
«Non è esattamente così. La fisica non è finita semplicemente perché la fisica, ma vale per la scienza in generale, non finirà mai. Oggi siamo in uno stallo. Non vedo grandi novità, teorie originali. Ma succede sempre così. Pensi a Newton, che sistema i moti di pianeti e stelle con la legge di gravità, a Maxwell che sistema l’elettromagnetismo. Poi viene Einstein e con la relatività speciale e generale dimostra che quelle teorie erano solo approssimazioni. Ma la relatività non va d’accordo con la meccanica dei quanti, che Einstein stesso aveva contribuito a fondare con il concetto di fotone, la particella di luce. Ora sono di moda le Teorie del Tutto...»
Pensa alle superstringhe?
«Sì, una strada interessante. Ma non definitiva. Insomma: la mia è, se vuole, una forma di religione, un dogma: oggi non c’è fisica originale perché siamo alla ricerca di un nuovo paradigma. Ma se lo si troverà avremo solo spostato un po’ più avanti la frontiera. Questa idea che il Principio è irraggiungibile dovrebbe piacere ai preti...» Il paradigma della fisica oggi è il Modello Standard delle particelle elementari. Lei una volta mi disse che è un modello poco elegante. Se al Cern di Ginevra trovassero la particella di Higgs, detta anche “particella di Dio”, ultimo tassello del Modello Standard, cambierebbe idea?
«Se la trovassero sarei contento ma ripeto: non sarebbe che un passo» Un altro grande fisico italiano, Luciano Maiani, una volta mi disse che sarebbe bello trovare la particella di Higgs ma sarebbe ancora meglio non trovarla perché in questo caso bisognerebbe inventare una nuova fisica.
«Questo è un vezzo di noi fisici. Ci piace quello che non si capisce. Non gli darei torto» Dopo Fukushima l’energia nucleare è morta?
«Fukushima dimostra che anche le soluzioni migliori alla lunga rivelano pericoli. Ma sono contrario al cosiddetto principio di precauzione strombazzato dai Verdi: accettarlo porta alla paralisi della scienza. In Francia ci sono 50 centrali nucleari e finora tutto è andato bene. Comunque l’energia nucleare non è una soluzione definitiva: l’uranio finirà, come il petrolio».
Dunque bisogna puntare sulla fusione nucleare, sul progetto Iter, appena partito a Cadarache, in Francia?
«La fusione nucleare è interessante, ma se ne parla nel 2050».
Lei è stato per vent’anni all’Istituto di Princeton, dove c’era Einstein. E’ un destino che i nostri scienziati vadano all’estero?
«Sono nato a Borgo d’Ale, provincia di Vercelli. Mi sono laureato in Fisica a Torino con Mario Verde. Lì ho incontrato Gleb Wataghin, che mi da dato uno sguardo internazionale. Fu lui a mandarmi negli Stati Uniti a studiare le particelle elementari dal 1954 al ’56 all’Università di Rochester. Poi sono andato in Germania, dal grande Heinsenberg. Un mio lavoro sui momenti angolari complessi ebbe molta fortuna perché accorciava i calcoli di cento volte. Ero stupitodi questo successo: tutti ne parlavano, a me non sembrava niente di speciale. Di lì è venutoil resto. Ho avuto un posto all’Università di Princeton, e poi all’Istituto, ma Einstein era morto il giorno prima, non l’ho conosciuto. Un altro mio lavoro attirò l’attenzione di Wheeler, all’epoca il maggiore studioso di relatività generale. Ma ho sempre conservato la cattedra di relatività che avevo ottenuto nel 1961 in Italia. E sono tornato qui nel 1979, quando negli Usa mi diedero la Medaglia Einstein».
Ci fu poi l’amicizia con Primo Levi. Che cosa ha pensato alla notizia del suicidio?
«Credo che con quel gesto abbia voluto riprendere in mano il proprio destino di fronte a qualche problema che sentiva più grande di lui».
Lei ha fatto anche un’esperienza politica.
«Nel 1989 mi offrirono una candidatura come indipendente nelle liste del Pci e sono diventato parlamentare europeo. Cinque anni. Interessanti i primi due, poi un po’ meno. Pensi che seduto accanto a me c’era Napolitano, dal lato opposto il giovane Fini, in mezzo Rosy Bindi. Quando il Pci si è sciolto mi sono sentito ancora più libero. Devo dire che la politica allora non era come oggi: non dominavano ignoranza e volgarità».
Esperienza chiusa?
«Ho rivisto Fini ad un Costanzo Show. Mi viene in mente che qualcuno una volta parlandomi di non so quale politico mi disse: è molto intelligente, infatti non crede a quello che dice».
Con la scienza lei ha anche giocato: dalla ciclide di Dupin ha ricavato una poltrona che è stata prodotta industrialmente con il nome di Detecma 1. Con i frattali ha fatto al computer molti disegni ironici, tra i quali una «Viola del pensiero debole» dedicata a Gianni Vattimo.
«Una rivincita. Prima di passare a Fisica ho fatto due anni al Politecnico. Avevo tutti 30 ma di disegno ebbi 21. Scrivendolo sul libretto il professore mi disse che stava facendo un falso in atto pubblico, avrebbe dovuto bocciarmi. Ma la scienza è sempre gioco. Il gioco di capire come funziona il mondo».
Corriere della Sera 8.7.11
Dalle grotte di Lascaux alla Gioconda, al web: un cosmologo di Cambridge sottolinea la centralità dell’elemento figurativo
Il futuro della scienza è nelle immagini
Barrow: «La grafica computerizzata aiuta a comprendere meglio l’universo»
di John D. Barrow
A miamo le immagini. Sono le prime cose che vediamo. La nostra mente non è stata fatta per i numeri, le lettere, i libri contabili, gli spartiti musicali o le equazioni matematiche — tutto questo è solo un’appendice aggiunta alla storia umana. I nostri sensi si sono evoluti in un ambiente che abbiamo imparato a capire e ricordare in forma di immagine. Da questi umili primi passi abbiamo ereditato una predilezione per le raffigurazioni. Le troviamo divertenti, educative, memorabili ed evocative. I primi reperti di antropologia culturale ci mostrano figure incredibilmente sofisticate, come quelle delle grotte di Lascaux, che sarebbero considerate opere d’arte anche secondo gli standard attuali. Le immagini hanno avuto un ruolo nel fornire alle società primitive legami utili per la loro sopravvivenza, hanno connotato interi periodi della storia umana con il loro stile e i loro soggetti e hanno mantenuto in vita tradizioni e memorie comuni per lunghi periodi di tempo. Sono state un riferimento per la contemplazione religiosa e ci hanno innocentemente usato come soggetti. In tutte queste occasioni le immagini cercano di rappresentare e racchiudere qualche aspetto della realtà in una forma che abbia un impatto immediato: qualcosa che sia memorabile senza bisogno cha la si ricordi. Ogni ramo dell’attività umana ha le sue icone. Tutti ne conosciamo molte nei campi dell’arte e del design. Dalla Gioconda all’Alhambra, alla mappa della metropolitana di Londra, alcune immagini si impongono nel tempo ed esercitano una grande influenza. Danno forma alla nostra percezione e concezione del mondo. Lo stesso accade nella scienza. Alcune immagini hanno accompagnato i nostri progressi nella comprensione dell’universo, altre si sono dimostrate così efficaci nel comunicare la natura della realtà da entrare a far parte del processo stesso del pensiero, come i numeri o le lettere dell’alfabeto. Altre ancora, altrettanto autorevoli, ci sono diventate così familiari da passare inosservate nella pratica scientifica, sono entrate a far parte del vocabolario della scienza che usiamo senza pensarci. Le immagini e le figure hanno avuto un ruolo fondamentale nel plasmare la nostra visione scientifica del mondo. Alcune sono così poco evidenti da determinare il nostro modo di fare scienza o di descrivere la realtà senza che ce ne accorgiamo. Altre sono icone onnipresenti e dominano la presentazione di interi rami della scienza o della sua storia. Altre ancora sono di natura estetica, ma con un substrato scientifico che le rende importanti per la nostra storia. L’uso di diagrammi e figure nella scienza e nella sua esposizione è un’attività che non ha più un imperativo artistico. A volte gli scienziati che creano una nuova forma di rappresentazione visiva tracciano loro stessi quelle immagini, ma più spesso la versione finale viene eseguita da altri. Un disegnatore tecnico (o anche un programma di computer) produrrà dai loro schizzi una versione più gradevole. Quale vero artista seguirebbe questa via? Gli scienziati cercano di presentare le informazioni in modo immediatamente riconoscibile, ma a volte accade che i loro sforzi acquistino una durata e un’autorità maggiori di quanto avessero mai immaginato. Nel fare queste considerazioni, notiamo un potente stimolo tecnologico che fornisce agli scienziati nuovi modi di utilizzare le immagini. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una delle più grandi rivoluzioni della storia umana. La creazione e la rapida diffusione di Internet e del World Wide Web hanno radicalmente mutato il nostro modo di pensare e di raccogliere informazioni, superando la capacità biologica dei singoli individui e consentendo il reperimento e lo scambio istantaneo di immagini. L’intero sviluppo della scienza moderna, peraltro, è accompagnato da un aspetto fortemente visuale. L’avvento di computer piccoli e poco costosi, dotati di una grafica superba, ha cambiato il modo in cui molte scienze operano, e in cui tutte le scienze presentano i risultati di esperimenti e calcoli. Molto tempo fa, i computer erano enormi e tremendamente costosi, ed erano appannaggio di grandi gruppi di ricerca ben finanziati, che studiavano questioni di grande portata. Costruivano bombe, predicevano il tempo, o cercavano di comprendere il funzionamento delle stelle. La rivoluzione del personal computer ha cambiato tutto. Ha permesso che si diffondessero studi su argomenti come il caos e la complessità. La matematica è diventata una disciplina sperimentale. Singoli individui possono seguire problemi prima inaffrontabili, semplicemente guardando quello che succede quando vengono elaborati dal programma di un personal computer. Il risultato, il più delle volte, è una sequenza di immagini o filmati dello sviluppo e del compiersi di un processo complesso. Non esiste una formula semplice che ci dica come le galassie assumano le forme e le dimensioni che vediamo, o che tipo di drammatica turbolenza risulti dalla serie di rapide attraversate da un fiume che scorre velocemente. Questi problemi sono troppo complessi per essere risolti con precisione usando solo carta e matita. Ma le immagini e i filmati riescono a mostrare i punti cruciali di questi fenomeni, trasformando le equazioni matematiche che controllano il loro comportamento in immagini. Il rapido sviluppo di una grafica spettacolare ha permesso a chiunque di presentare le sue conclusioni in un modo più visivamente sofisticato di quanto il cinema sapesse fare appena vent’anni fa. La rivoluzione del Pc ha reso la scienza più visiva e immediata. Ha migliorato la capacità intuitiva della mente umana di cogliere attraverso l’esperienza l’andamento di modelli complessi, creando film di esperienze immaginarie di mondi matematici. Gli ultimi dieci anni hanno anche visto una crescente accentuazione della visualità in molte aree della cultura. I film sono sempre più contrassegnati dalla presenza di effetti speciali visivi. La gara a inserire sempre più immagini di catastrofi rende quasi superflua la trama. Il teatro sperimentale porta sul palcoscenico nuove sfide tecniche che amplificano l’esperienza visiva. La musica popolare è accompagnata dall’onnipresente video o Dvd, il suono non è più sufficiente. I film d’animazione hanno raggiunto nuovi livelli di sofisticazione, e persino i libri hanno i loro siti web. Le parole non bastano più. In questo clima, la sfida è quella di pensare al ruolo delle immagini nella scienza, non solo oggi, ma nell’arco di molte centinaia di anni. Ci sono immagini, grafici, figure e mappe che hanno un ruolo chiave nell’ampliare la nostra comprensione del mondo. Nel mio libro Le immagini della scienza ho raccolto una selezione personale di queste icone speciali. Molte di queste immagini figurerebbero nella galleria scientifica della maggior parte di noi, mentre altre sono state scelte con criteri più soggettivi, dato che la loro importanza non è immediatamente evidente o il loro significato non è stato riconosciuto prima. Le immagini scientifiche spesso non riguardano solo la scienza. Possono essere interessanti perché sono di origine scientifica, ma hanno comunque un’innegabile natura estetica. Oppure possono essere state in primo luogo opere d’arte e possedere anche un messaggio scientifico. Ciascuna immagine ha una storia. A volte ci parla dell’autore, a volte dell’intuizione scientifica che ne scaturisce o della tecnica di rappresentazione, a volte succede che l’immagine in sé assuma un’importanza imprevista che stimola una linea di pensiero del tutto nuova, altre volte, infine, è semplicemente una rivelazione dell’inatteso. (Traduzione di Maria Sepa)
l’Unità 8.7.11
Tra Barocco e Settecento. Trionfo Barberini
La Galleria Nazionale di Arte Antica nel palazzo a Via Quattro Fontane ora è completa, dopo lo sfratto del Circolo Ufficiali. Appena inaugurate le sale al secondo piano: da Luca Giordano a Ribera, alle vedute del Canaletto
di Renato Barilli
Da pochi mesi si sono chiuse, per i visitatori di tutto il mondo affluenti a Roma, le sale di Palazzo Farnese, ma ora si aprono, pienamente restaurate, quelle di Palazzo Barberini, e rimarranno visibili per sempre, in quanto proprietà dello stato italiano, che le gestisce attraverso il polo museale romano retto dalla soprintendente Rossella
Vodret, con direzione affidata ad Anna Lo Bianco. E dunque, tra i due maestosi edifici si è come compiuta una staffetta, che è anche il passaggio da una prestigiosa manifestazione del Rinascimento maturo a una piena realizzazione del subentrante barocco.
Un confronto tra i due Palazzi potrebbe risolversi a favore del primo dei due, quanto a collocazione, dato che il Farnese che l’ha voluto, Alessandro, fondatore della dinastia, e poi papa col nome di Paolo III, non esitò a far spianare lo spazio anti-
stante in una ampia piazza, e così la facciata si può contemplare a distanza.
Invece l’altro edificio, pur sorgendo sul colle «più alto» di Roma, il Quirinale, sporge sull’angusta Via delle Quattro Fontane e quasi si nasconde alla vista. Ma non importa, i tre geni dell’architettura barocca che vi hanno posto le mani in successione, il Maderno, il Borromini e il Bernini, hanno giocato di superbi inganni ottici per allargarne la vista, con la soluzione di mettere in prospettiva le incorniciature dei finestroni, che così risucchiano gli sguardi e li convogliano in profondità.
Ma il tramando tra i due Palazzi si pone soprattutto nel segno della pittura. Il Farnese, diciamolo pure, non fu fortunato nelle imprese decorative ospitate, in quanto il padrone di casa, Paolo III, proprio perché divenuto papa, dovette dirottare il genio di Michelangelo verso il Vaticano, a lavorarvi nelle due grandi Cappelle, la Sistina e la Paolina, e così i suoi eredi dovettero accontentarsi delle soluzioni attardate dei Manieristi. Ma proprio al confine col Seicento un abitante del momento, il cardinale Odoardo, ebbe la buona idea di scommettere sul genio con cui si apriva il nuovo secolo, Annibale Carracci, pur chiamandolo a lavorare in uno spazio minore e di appoggio, una Galleria alquanto marginale.
Tuttavia il pittore bolognese vi poneva le premesse di tutta la grande arte del Seicento, e soprattutto apriva la strada al principale dei suoi successori, Pietro da Cortona. Ebbene, questo è il fulcro della staffetta, Pietro ruba la favilla ad Annibale, e
va ad ampliarla a dismisura nel soffitto del salone centrale del Barberini, chiamato da una figura in definitiva equivalente al Farnese, Maffeo Barberini, anche lui di lunga vita, e salito in età avanzata al soglio pontificio col nome di Urbano VIII.
IL SOFFITTO STUPEFACENTE
Sono tempi di riaffermazione del dogma cattolico contro le varie riforme protestanti, e dunque al Cortona viene affidato un tema theologically correct, Il trionfo della Divina Provvidenza, ma l’artista ne fa un’apoteosi di giganti atletici che superano ogni limite, sciamano fuori dal soffitto per invadere le pareti bombate e tesservi una maglia splendida, centuplicando l’ardore di carni vive e il tripudio di motivi naturalistici che già ardevano nella Galleria Farnese, ma là ancora trattenuti da linee divisorie, mentre qui l’incendio divampa sovrano, senza soffrire di limiti e di interruzioni. Un tempo quella maestosa epifania era aduggiata dal fatto che sotto di essa venivano stipati altri capolavori, tutto perché il pianterreno era occupato da un Circolo Ufficiali che non se ne voleva andare, ma ora lo sfratto è stato eseguito, e dunque il gigantesco affresco «provvidenziale» sovrasta incontrastato sullo stupefatto visitatore.
Ma se quello è senza dubbio il vertice dell’intero percorso, non bisogna sottovalutare la strepitosa quadreria che si succede in una serie di sale, dal pianterreno al piano nobile e ora anche in un appena inaugurato secondo piano.
lA GRANDE QUADRERIA
Ci sono ben pochi equivalenti, per ampiezza ed esaustività in Italia, anche se altrove (Uffizi, Brera, Musei Vaticani, Galleria Borghese) si possono contare capolavori più favolosi, qui però tutte le età e le scuole sono validamente rappresentate, talora con opere dimesse e di routine, talaltra con punte di eccellenza che spiccano, per ogni secolo della nostra arte. Le alte sale del pianterreno e del primo piano consentono i grandi formati, mentre al secondo piano appena inaugurato le pareti si abbassano, e il visitatore deve pure affrontare qualche dislivello nel passare da una stanza all’altra, ma vi può ammirare, seppure in formati ridotti, i prolungamenti che mancano invece altrove. Ci sono i protagonisti del tardo barocco come gli eredi del caravaggismo, Jusepe Ribera in testa, e i grandi affrescatori, nei momenti di riposo, come il Gaulli e Luca Giordano, quindi si varca il capo del Settecento, davanti a cui altre pinacoteche si arrestano incerte e titubanti, qui invece si affermano le glorie della scuola romana anche in quel secolo di transizione, con il Benefial, il Traversi, e i primi accenni di neoclassicismo dal Batoni al Mengs, e un vasto capitolo di vedutismo, che proprio nell’Urbe può mettere in campo il grande talento del Pannini, non inferiore al Canaletto e al Guardi. Ma soprattutto è confortante la certezza che tutto quel patrimonio è a nostra disposizione in permanenza.
La Stampa 8.7.11
Pompei, offerta francese 200 milioni per salvarla
Gli industriali parigini: pronti a pagare, ma dateci un piano concreto
di Giuseppe Salvaggiulo
Patrimonio dell’umanità La città di Pompei fu distrutta da un’eruzione del vicino vulcano Vesuvio, nell'anno 79 dopo Cristo Gli scavi archeologici ebbero inizio nel 1748, durante il regno di Carlo di Borbone. Dal 1997 è nella lista dei siti Unesco
Sprechi Il teatro romano ristrutturato con innesti di cemento è stato sequestrato dai pm
Le Domus L’area è grande 65 ettari, di cui 45 scavati e 15 visitabili Sono 15 mila le domus rinvenute
I crolli Il più grave lo scorso 6 novembre: frana la Scuola dei gladiatori Un altro pochi giorni dopo
LA TRATTATIVA Decisivo il ruolo dell’Unesco, che ha favorito due riunioni
GLI OSTACOLI Interpellata anche la Farnesina: serve un «ok» diplomatico
I francesi salveranno Pompei? Di sicuro vogliono farlo. E sono già pronti a staccare assegni milionari. Ma devono fare i conti con la burocrazia e i ritardi dei nostri apparati pubblici, oltre che con una possibile diffidenza «diplomatica» per la colonizzazione di un simbolo italiano.
La vicenda è in pieno svolgimento e prende le mosse dal crollo della Scuola dei gladiatori il 6 novembre 2010, definito da Giorgio Napolitano «una vergogna per l’Italia» e raccontato impietosamente da tutti i giornali e le tv del mondo. Tra dicembre e gennaio l’Unesco (che nel 1997 dichiarò Pompei patrimonio dell’umanità) invia una missione speciale. In primavera, gli inviati dell’Unesco scrivono una relazione con diversi appunti critici (in particolare sul commissariamento in ambito Protezione civile, chiuso l’anno scorso).
A giugno, quando si teme che l’Unesco inserisca Pompei nella «danger list» dei «siti in pericolo», accade qualcosa. Un gruppo di importanti industriali francesi si rivolge all’Unesco, offrendo massiccia disponibilità economica per il sito archeologico. L’organizzazione internazionale, che non ha compiti diretti di gestione, offre il suo prestigio internazionale come «facilitatore». Contatta il ministero per i Beni culturali e organizza un incontro a Parigi tra gli imprenditori e gli emissari di Giancarlo Galan.
Ci sono almeno due riunioni riservate tra la metà e la fine di giugno. La cordata francese spiega le sue buone intenzioni. Ad ascoltarle Massimo De Caro, braccio destro di Galan, e un dirigente della struttura ministeriale di valorizzazione del patrimonio culturale diretta da Mario Resca.
Manca però un rappresentante della sovrintendenza o del ministero in grado di spiegare ai francesi quali sono le esigenze di tutela da soddisfare. Insomma i francesi hanno già in mano il carnet degli assegni, ma vorrebbero sapere che cosa intende fare l’Italia dei loro quattrini.
Non solo. Forte di una lunga esperienza sul campo con studiosi «pompeiani» di valore, l’Unesco fornisce suggerimenti. La storia di Pompei è lastricata di finanziamenti annegati in progetti insensati. Dunque, più che una generosa donazione una tantum tra un’emergenza e un’altra, serve un impegno finanziario di lungo periodo. Per dire: attualmente nell’area archeologica di 65 ettari (di cui 45 scavati con 15 mila edifici e solo 15 ettari visitabili) lavora un solo archeologo, mentre l’ultimo mosaicista andato in pensione nel 2001 non è mai stato rimpiazzato.
Serve un progetto a lunga scadenza con scadenze precise, per ipotizzare un contributo di dieci-venti milioni di euro l’anno per diecivent’anni. Nelle riunioni di giugno, i francesi chiedono garanzie. Il ministero non è in grado di presentare una «lista della spesa». Dunque si prende atto dei buoni propositi e ci si aggiorna, in attesa di un progetto del ministero. Anche perché una questione con riverberi mediatici di portata internazionale richiede una valutazione ulteriore. Si pensa infatti di interpellare anche il ministero degli Esteri. Insomma, accettare i soldi francesi per salvare Pompei richiede un ok del governo. Nel frattempo, l’Unesco concede altri due anni di tempo congelando la «danger list». E il report conclusivo della missione di gennaio, contrariamente a quanto previsto, viene inviato al ministero per i Beni culturali ma non reso pubblico.
Resta un ultimo capitolo. Gli industriali campani vogliono accodarsi ai francesi. Ma mentre i transalpini sono disposti a pagare i restauri di domus e mosaici, gli imprenditori napoletani sono interessati ad attività collaterali: biglietteria, servizi turistici, opere edilizie. Business. Il che fa temere a Italia Nostra che all’ombra del mecenatismo francese si nasconda l’ennesima speculazione italiana. Anche perché la legge salva-Pompei prevede deroghe ai piani urbanistici anche per interventi slegati dalla tutela. E quindi alberghi, sale ricevimenti, outlet...
Corriere della Sera 8.7.11
Galan: per Villa Adriana i fondi necessari entro luglio
Erano gli anni Sessanta del secolo scorso quando Catia Caprino, soprintendente di Villa Adriana, minacciava di impedire l’accesso ai visitatori della magnifica residenza imperiale, se non fossero giunti finanziamenti adeguati alle complesse necessità di quel luogo, vasto e leggendario «monumento» che, come si sa, non coinvolge solo l’archeologia o la storia di Roma e della sua civiltà. Ma, come si sa, è fin troppo facile nel nostro Paese comporre beveroni impressionanti con cui gettare l’allarme per questo piuttosto che per quel vandalismo, sia esso un crollo o un’insopportabile incuria. Incuria che però non colpisce Villa Adriana, e questo grazie sia all’impegno eroico di dirigenti e funzionari della Soprintendenza che ai finanziamenti che, seppur limitati, vengono spesi, nonostante un «garbuglio» burocratico-amministrativo in assoluto micidiale. Infatti, come ben sanno i soprintendenti, il saper spendere non è tutto. È il poter effettivamente spendere ciò che conta. Ed è qui che il discorso si complica moltissimo e rende il tracciato burocratico-amministrativo assai prossimo a fenomeni parossistici, propri di un’amministrazione pubblica afflitta da nevrosi normative e legislative paralizzanti. Dei finanziamenti per Villa Adriana dirò subito. Quando si parla di personale insufficiente e di scarsissimi finanziamenti per le necessità del patrimonio archeologico, monumentale, storico-artistico, archivistico, paesaggistico, si dice qualcosa di assai concreto e di materialmente ineludibile. Nel Codice dei beni culturali c’è scritto che «la conservazione del patrimonio culturale è assicurata mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro» . Ogni nozione sopra indicata avrebbe bisogno di essere finanziata e sostenuta in ogni modo: così lo studio, oppure la prevenzione o la manutenzione o il restauro. E non sto parlando della «valorizzazione» , né della ricerca e accoglienza di numerosissimi visitatori, ecc, ecc. In realtà, Villa Adriana entro luglio avrà i finanziamenti richiesti e lo stesso accadrà per la Domus Aurea e per il Palatino, dato che sono stati recuperati 20 milioni di fondi residui. Desidero comunque precisare quanto segue: sono decisamente convinto che le modalità di spesa del ministero per i Beni e le Attività culturali andrebbero «regolate» secondo ingegnerie finanziarie e contabili che tengano conto del fatto che dallo studio al restauro c’è di mezzo «un tempo» non sovrapponibile al tempo inflessibile di una Finanziaria o di una manovra di sviluppo. Se non si pone mano a una simile riforma e se non si abbatte l’orribile macchina burocratico-amministrativa che opprime il lavoro delle nostre Soprintendenze, non sarà affatto virtuoso il nostro impegno a vantaggio dei beni culturali. E tanto per anticipare, per una volta almeno, Sergio Rizzo, in qualità di ministro segnalo che sulla straordinaria città romana di Sepino nel Molise incombe il pericolo rappresentato da un progetto di impianti eolici che sconvolgerebbero tracce archeologiche e memorie topografiche importantissime. Come si sa, a me non piace praticare «il trionfalismo di iniziative propagandistiche» . Dunque, Villa Adriana ma non solo. Sarebbe sufficiente infatti riflettere sul futuro delle indagini archeologiche condotte lungo il tracciato della linea C della metropolitana di Roma. Dico questo perché lì dentro c’è il sogno di una Roma che darebbe alla capitale d'Italia un ruolo assolutamente unico nel campo del più affascinante immaginario storico. Giancarlo Galan ministro per i Beni culturali
Mariapia Veladiano ha rivelato che Marco Bellocchio ha comprato i diritti del suo libro «ma non so se farà un film e in ogni caso io non parteciperò alla sceneggiatura, perché lui è un artista strepitoso e io il linguaggio delle immagini non lo conosco»
Corriere della Sera 8.7.11
Nesi stravince il premio Strega
Allo scrittore di Prato 138 preferenze. Seconda Veladiano con 74
di Paolo Fallai
H a vinto la rabbia per un’Italia del lavoro che sembra scomparsa e per una volta è stato un successo senza discussioni. Edoardo Nesi, con Storia della mia gente, edito da Bompiani, ha riportato il premio Strega in casa Rizzoli, dopo quattro vittorie consecutive del gruppo Mondadori-Einaudi. «Sono onorato per questo premio, voglio dedicarlo ai tanti che hanno perso il lavoro» le prime parole di Nesi, che si è aggiudicato 138 voti. Doppiando nella classifica finale il secondo classificato Mariapia Veladiano con La vita accanto (Einaudi) che ne ha raccolti 74. Terzo Bruno Arpaia, con L’energia del vuoto (Guanda) e 73 voti. Non hanno spinto fino in fondo la proverbiale capacità di rastrellare voti, in casa Mondadori Einaudi. La sfida in famiglia è stata vinta dalla Veladiano che ha distanziato Mario Desiati con Ternitti (Mondadori), che si è fermato a quota 63. Ma neanche messi insieme i voti dei due candidati mondadoriani avrebbero raggiunto Nesi. La più contenta di tutti l’esordiente precoce, Luciana Castellina, con La scoperta del mondo (Nottetempo), che di voti ne ha raccolti 45. Favorito alla vigilia, Edoardo Nesi era già stato nella cinquina dello Strega nel 2005 con L'età dell'oro. Il libro che ha vinto quest’anno non sembra ripercorrere scelte spesso inclini ad una certa facilità commerciale, che pure hanno caratterizzato la storia dello Strega: in un’opera a metà strada tra romanzo e saggio, raccontando la «sua» Prato invasa dai cinesi, Nesi ripercorre l’illusione perduta del benessere diffuso, l’inganno della globalizzazione, ma anche la scomparsa di un’etica del lavoro. Una storia, in parte autobiografica, che parte proprio dalla chiusura della fabbrica di famiglia per illustrare la fine del distretto tessile di Prato e quello che ha significato la crisi della piccola industria italiana di provincia con i conseguenti licenziamenti di massa. «Un libro di resistenza» l’ha definito Nesi, ma anche un grido di dolore per il modo in cui è stata spazzata via la vitalità dei nostri piccoli imprenditori. Soddisfazione prevedibile in casa Bompiani. Elisabetta Sgarbi, mentre gli applausi coprono la voce del vincitore, ricorda: «Ci abbiamo creduto sempre, è dal 2005 che sosteniamo Edoardo Nesi e alla fine di questo lungo percorso abbiamo raccolto un successo atteso. Lo merita lui, lo merita la Bompiani e la capacità di aver proposto qualcosa di nuovo» . Paolo Mieli, presidente di Rcs Libri, ha voluto «rendere omaggio agli altri quattro finalisti, a cominciare da Luciana Castellina. Quest’anno è stata una gara diversa, piena di fair play. È bello vincere in questa atmosfera» . E Luciana Castellina non ha perso il sorriso neanche per un attimo: «Il grande vantaggio di avere quasi 82 anni è che non ho ansia per il mio avvenire letterario. La mia carriera è alle spalle» . Ma la Castellina non ha tradito la vocazione politica: «Si attribuiscono al Premio Strega tante colpe che non sono del Premio ma del modo in cui è strutturata la vita editoriale italiana dove ci sono sempre più concentrazioni. C’è una legge in Parlamento su come tutelare il pluralismo, speriamo bene. Io cambierei la struttura dell’editoria» . Il resto, tra tanti libri, è cinema. Mariapia Veladiano ha rivelato che Marco Bellocchio ha comprato i diritti del suo libro «ma non so se farà un film e in ogni caso io non parteciperò alla sceneggiatura, perché lui è un artista strepitoso e io il linguaggio delle immagini non lo conosco» . Ospite in una serata povera di politici Dario Franceschini ha chiarito il gossip di giornata su un interessamento di Roberto Benigni per il suo libro Daccapo. «Macché, mi ha fatto i complimenti, dicendo che era perfetto per un film. E io gli ho chiesto se conosceva qualcuno nell’ambiente del cinema. Tutto qui, scherzando» . La serata — in cui mondanità e afa si sono contese le battute peggiori — si era aperta con una novità: il Premio Speciale in memoria di Franco Alberti assegnato all’unanimità dal comitato direttivo del Premio Strega a Giuseppe Galasso. Il resto lo ha fatto quella benedetta lavagna, affidata a Melissa P. come segnapunti e l’inamovibile cappello di Antonio Pennacchi, vincitore del 2010 e quindi, di diritto, presidente del seggio. Piuttosto seccato nei confronti di qualunque critica espressa all’amato premio. Tanto che nella diretta televisiva, se l’è presa con i critici liquidandoli: «Che ci provino loro a scrivere un libro come il mio» . Pillole di vivacità in una serata che ha avuto un solo momento di tensione alla prima conta parziale quando Nesi e Arpaia erano appaiati con 30 voti a testa. Inutile, e quindi essenziale, secondo lo stile di questo rito estivo, ricordare le tante proposte di riforma di un premio che nessuno vuole davvero riformare. «Modifiche?— ripeteva Tullio De Mauro —. In autunno, credo, qualcosa riusciremo a fare. Magari a settembre, col fresco. Abbiamo ricevuto delle proposte, alcune mi paiono interessanti. Per ora le abbiamo raccolte. Ma prima di ogni cambiamento, che non decido io, bisognerà sentire i titolari del marchio, l’azienda Alberti, i 400 Amici della Domenica e il comitato direttivo» . Ieri sera De Mauro ha chiarito meglio: «I 400 non sono voti vitalizi. Ci pensa il buon Dio ogni anno a rimuovere una quindicina di votanti» . E mentre l’intera giuria provvedeva agli scongiuri di rito, il Ninfeo si svuotava con la sensazione che l’unica vera riforma sarebbe rendere palese il voto. I giochi delle case editrici ci sarebbero sempre, almeno potremmo criticarli con nomi e cognomi.
Terra 8.7.11
A piazza Vittorio il cinema è rock
di Alessia Mazzenga
qui
http://www.scribd.com/doc/59541053