venerdì 5 marzo 2010

Repubblica Roma 5.3.10
"Rispettare le regole, la nostra rivoluzione"
La Bonino attacca "i potenti prepotenti" e carica i suoi: riscossa democratica
Una giornata dedicata anche all´economia della regione e alle sue eccellenze
di Laura Mari

Non c´è appuntamento, incontro o conferenza stampa in cui non ripeta perentoriamente il suo no a qualsiasi «accordo o soluzione aumma aumma» che possa risolvere il pasticcio dell´esclusione della lista del Pdl a Roma. Quello che chiede Emma Bonino, la candidata del centrosinistra alle regionali, è semplicemente «il rispetto delle leggi e della Costituzione». Lo ribadisce più volte anche durante la presentazione dei candidati della sua lista civica Cittadini per Bonino, con capolista la scrittrice Lidia Ravera e, tra i nomi in corsa, anche Lorena Guidi, Anna Vinci e i consiglieri regionali uscenti Luigi Canali, Giuseppe Celli e Peppe Mariani.
«A volte in questo Paese ha detto la Bonino chiedere il rispetto delle leggi sembra un atto rivoluzionario e dai ministri in questi giorni ho sentito pronunciare parole che in un Paese normale non avrei mai voluto sentire e che altrove avrebbero portato a un loro allontanamento immediato dall´incarico che ricoprono». Una condanna chiara e decisa, dunque, rispetto agli appelli alla piazza fatti nei giorni scorsi da ministri ed esponenti del Pdl che invitavano alla mobilitazione di massa e a urlare la propria rabbia per la riammissione della lista provinciale del Pdl. «Ora mi auguro ha proseguito la candidata del centrosinistra alla presidenza del Lazio che tutte le istituzioni dimostrino senso di responsabilità, perché oggi siamo arrivati al punto che la cultura del malaffare diventa quella del fare male e le stesse istituzioni non rispettano più le leggi che hanno fatto. Ma è bene ricordare ha chiarito la Bonino che senza lo stato di diritto non ci sono diritti e i potenti in questi giorni si stanno comportando da prepotenti».
Guardando al futuro, la candidata del centrosinistra ha ribadito che «queste elezioni possono essere un momento di riscossa democratica, non solo per il Lazio ma per tutto il Paese, un occasione per dimostrare e trovare la forza di dire che "il così fan tutti" non riguarda il nostro modo di fare politica». E fare politica, per la senatrice Emma Bonino, significa anche pensare al domani e, in particolare, all´economia della regione e ai vari settori imprenditoriali del Lazio.
«Il settore dell´audiovisivo è uno dei più grandi e importanti di questa regione» ha precisato la candidata durante l´incontro nella sede dell´Anica con il presidente Paolo Ferrari e gli imprenditori del settore della produzione e della distribuzione cinematografica. «Serve ha annunciato la Bonino una legge quadro di riordino di programmazione del settore. Ma serve anche un fondo regionale di sviluppo che attiri investitori esteri del settore». Insomma, bisogna guardare al panorama internazionale. «Dobbiamo far conoscere le nostre produzioni nel mondo ha sottolineato la candidata del centrosinistra perché sono tra i prodotti migliori del made in Italy».
In serata, la candidata radicale ha incontrato gli studenti dell´Istituto nazionale per i sordomuti, lanciando la proposta di «realizzare una mappatura dei servizi per i diversamenti abili e rifare la legge regionale sulle famiglie con disabilità».

l’Unità 5.3.10
Lidia Ravera: «Con Emma E contro il disincanto»
di J. B.

Conferenza stampa all’ora di pranzo con buffet per la presentazione della lista civica per Emma Bonino, cittadini/e, nella sede del comitato elettorale. E così, finalmente, anche Emma può mangiare qualche cosa. Sul palchetto Lidia Ravera, capolista, Anna Maria Malato, che è da anni l’anima delle liste di centro sinistra a Roma, e la candidata governatore.
Due motivi serissimi, spiega la scrittrice, mi hanno spinto a questa avventura. Il primo è «la mia passione per Emma, una diversa della politica italiana», il secondo, lei che politica l’ha fatta da ragazzina e ora si trova benissimo a fare la romanziera, lo dice con un microslogan: «Contro il disincanto riprendiamoci la politica».
La letteratura aiuta in politica perché è esercizio a mettersi nei panni degli altri: nel dolore, nel disagio nella fatica dei giovani perché precarietà significa non entrare nella vita piena, o dei vecchi il cui tempo è vuoto perché la società non è organizzata per loro. O nei panni delle donne e della loro dignità ferita, quando passano dall’essere «considerate quarti di carne a mozzarelle scadute». E una delle prime iniziative di Lidia Ravera sarà proprio un Osservatorio per la dignità delle donne. J.B.

l’Unità 5.3.10
«Subito la legge cinema» Emma Bonino incontra gli operatori di settore

«Una legge quadro per il riordino del settore cinematografico». Anche per Emma Bonino, candidata del centro sinistra alla presidenza della Regione Lazio è evidente l’urgenza di varare al più presto la tanto attesa normativa di settore. Lo ha annunciato ieri nell’ambito di un incontro fiume, svoltosi nella sede dell’Anica di Roma, di fronte agli addetti del mondo del cinema. Il distretto dell’audiovisivo del Lazio, infatti, è uno dei comparti industriali più importanti e sofferenti della regione, con oltre 200mila posti di lavoro. Secondo Emma Bonino uno degli obiettivi fondamentali è l’internazionalizzazione dell’audiovisivo laziale: «Dobbiamo far conoscere le nostre produzioni nel mondo, attraendo investitori esteri ma anche portando fuori i nostri prodotti. Il cinema italiano e la fiction sono tra i migliori prodotti del made in Italy». GA.G.

Gli Altri 5.3.10
Intervista
Marco Pannella: “Cari comunisti, ci siamo tanto odiati
di Andrea Colombo

Con la chioma argentata raccolta in una lunghissima coda di cavallo, Marco Pannella fuma una sigaretta dopo l'altra e quando parla, del ricorso radicale contro la lista di Formigoni in. Lombardia, appena accolto, sorride malizioso che pare un ragazzino. Fra le mani stropiccia sornione un foglio. «Questa citazione - spiega - è un documento storico. E del '45: leggila attentamente e prova a indovinare di chi è». Trattasi di una mezza paginetta in cui, con notevole acume, l'autore spiega perché l'anima del fascismo, nonostante la Resistenza, non è affatto morta in Italia, ed è destinata a risorgere più prima che poi. «Allora - incalza Marco - chi l'ha scritto?». Tiro a indovinare: «Togliatti». «Ma no sbotta un po` scandalizzato - è di uno più intelligente di Togliatti. E di Bottai». 


Dunque pensi anche tu che l'anima del fascismo fosse sopravvissuta quasi indenne alla Resistenza e alla Costituzione?
È stato un regime che perdura da tre generazioni a distruggere la Costituzione repubblicana e alternativa rispetto al fascismo. Il pensiero di Giustizia e Libertà, quel pensiero che è antifascista perché anticomunista e viceversa e che è anticlericale perché antifascista e anticomunista, è stato battuto subito, ed è stata imposta la continuità, con l'amministrazione dello stato fascista. La grande sconfitta si è verificata già alla Costituente. Riccardo Lombardi, in fondo, è morto con la tristezza manifesta dell'azionista battuto. 


Ma se da allora persino i neofascisti sono diventati antifascisti...
È il senso comune che in Italia è sputtanato. Il Dna del paese era tale che gli ha fatto riconoscere la metamorfosi del male fascista, una, volta battuto, ma non quelli che si erano vestiti da antifascisti per continuare la stessa opera. Dopo 60 anni, la Resistenza è un luogo comune. Però, messi alla prova dopo sei decenni di occupazione partitocratica, si ritrovano costretti a non farci vedere. Alle europee, il presidente della repubblica ritenne suo minimo dovere esercitare una certa moral suasion perché il sottoscritto andasse dopo 7 anni da Floris e per la prima volta dal '96 da Santoro. Solo con quelle presenze abbiamo preso 760mila voti. 
Di conseguenza non sono stato più invitato da nessuna parte. Quando mi chiameranno di nuovo saprò di essere diventato arteriosclerotico, matto e di non fare più paura. 


Ma mica ci siete solo voi radicali a reclamare l'eredità dell'azionismo. Repubblica non fa altro da 35 anni...
Ma Repubblica è l'opposto del Partito radicale. Letteralmente l'opposto. Non dimenticare che Scalfari col Mondo di Pannunzio aveva ben poco a che fare. Sia chiaro, è un ottimo imprenditore editoriale. Però costrinse Arrigo Benedetti, creatore e fondatore dell'Espresso, ad andarsene. Repubblica è stato il giornale di uno di quegli ex radicali che, come capita spesso anche agli ex comunisti, quando erano nel partito consideravano traditore chiunque non fosse d'accordo con loro e una volta lasciato il partito mantengono la stessa metodologia. 


E tuttavia, anche se isolati come dici tu, non si può dire che di successi non ne abbiate ottenuti in questi decenni di partitocrazia. Pensavo per esempio al referendum sulla responsabilità civile dei giudici che, se rispettato, avrebbe potuto evitare lo scontro fra poteri che dilania il paese da 15 anni.
Quel referendum lo avevamo stravinto, come quello sul finanziamento pubblico, sulla sanità, sul diritto di famiglia. Però è stato vanificato come tutte le nostre cose. Avevamo vinto grazie al popolo cattolico e a quello comunista, alla faccia dei vertici. Mi ricordo ancora quando nel cuore della notte mi telefonò Ingrao e mi chiese di rinunciare, tra i tanti referendum che proponevamo, almeno a quello contro la legge Reale. Io rifiutai e lui mi avvertì che avrebbe chiesto al suo partito di votare contro il nostro referendum. Ci rimasi un po' stupito dal momento che anni prima avevano linciato il povero De Martino proprio accusandolo di non essere stato abbastanza contrario a quella legge. Con quei referendum pareva davvero vicina una rivoluzione liberale. A favore dell'abolizione del Concordato, che noi proponevamo, era prevista una maggioranza del 70%, e sarebbe stata una vittoria anche del cattolicesimo liberale. Poi arrivarono i colonnelli, che in Italia si sono chiamati Corte costituzionale... 


Per te, insomma, c'è una divisione netta: da una parte il popolo comunista e cattolico, 
dall'altra i vertici di partito?

Il popolo comunista e cattolico è stato con noi nei momenti topici, quando ha dovuto scegliere. I vertici mai. Perfino Longo, che io adoravo, definì una iattura il referendum sul divorzio. Il vertice del Pci era tutto mobilitato per far fuori la legge Fortuna. Di me L'Unità diceva, chiamandomi leader del partito radicale tra virgolette, che cercavo di imporre il referendum per rompere l'unità fra cattolici e comunisti e anche per impedire l'unificazione sindacale che diceva, ma non era vero, essere fissata per l'inizio di luglio. E questo lo scriveva il 7 marzo del '74, a poche settimane dal referendum. Fu solo il 23 marzo, anche in virtù dei miei rapporti con Berlinguer, che quel giornale iniziò a parlare del referendum schierandosi a favore. 


Ma non era contrario al referendum anche Berlinguer?

Certo, era contrario. Ma aveva una posizione di ascolto nei confronti della nostra cultura liberale, azionista, siloniana. Era una persona non banale. Quando stavo facendo lo sciopero della fame per l'aborto, che durò novanta giorni, lo incontrai al bottegone. Fu sinceramente sorpreso quando capì che io non gli chiedevo di assumere la nostra stessa posizione ma di presentare una sua proposta in materia di legalizzazione dell'aborto. E a quel punto non è che riunì Direzione o 
Segreteria: mi accompagnò fuori dalla stanza in cui ci eravamo incontrati e in quel momento stesso annunciò che entro settembre sarebbe stato presentato un progetto del Pci sull'aborto. Poi mi invitò al congresso del Pci e ci fu un`accoglienza straordinaria. Lui stesso si alzò per stringermi la mano e i compagni, come se fossero finalmente stati liberati da un obbligo, applaudirono a lungo. 


Vuoi dire che con quel Pci degli anni '70 erano rose e fiori?
Ma figurati! Per esempio fui invitato a un altro congresso, nell`inverno 1978-'79. Ero di nuovo in sciopero della fame, fra l'altro per la legalità proprio come oggi. Avevo freddo e indossavo un maglione a girocollo blu, con loden sempre blu sulle spalle. Dissero che ero un provocatore e che mi ero presentato al loro congresso vestito da Nosferatu. Dal palco Amendola e Lama, due miglioristi, mi indicarono come il nemico assoluto annunciando che la mattina stessa mi avevano denunciato per offesa e vilipendio della Resistenza.



Cosa avevi fatto per meritare un'accusa così estrema?
Mi ero permesso di dire che a via Rasella prima di tutto non erano state ammazzate tutte SS ma che i morti, per la maggior parte, erano ragazzini di Bolzano che erano stati mandati a Roma senza averne alcuna voglia, e poi che si era trattato di un'operazione di guerra terroristica.


Col clima di emergenza antiterrorismo di quell'anno? Sfido che si sono incazzati!
Ma io quelle cose le dicevo già da quattro anni. Laico, capitiniano lo sono sempre stato, fin da ragazzo. Il 27 aprile del '45 lo lessi su Risorgimento liberale che piazzale Loreto era stata una barbarie. Avevo 15 anni e rubavo i soldi a mio padre per comprare quel giornale, se possibile in doppia copia.. E queste cose contano. Mi piacerebbe che mi seguisse qualche volta una candid camera per vedere come mi accoglie la gente per strada. Certe volte mi chiedo questi ragazzi di 16 o 17 anni come fanno a volermi bene e a conoscermi, visto che nei Tg mi si vede pochissimo, tra i politici italiani sono al centonovantesettesimo posto quanto a presenze in video, e quelle rare volte mi inquadrano per cinque secondi con la faccia più da cretino possibile e col parlato che mi fa dire cose senza senso.



Insomma, è un rapporto complesso quello fra te e la tradizione comunista italiana...

Guarda, io credo di aver fatto parte della storia del comunismo italiano dal '47-48 in poi, come credo di aver fatto parte della storia deì cattolici italiani. La. storia comunista la ho vissuta, certo in modo singolare, ma i miei rapporti con Terracini erano quelli che erano e anche con Fausto Gullo, che nella storia del Mezzogiorno italiano non significa poco. E nell'ultimo periodo della sua vita mi difese molto Vittorio Vidali. Quando a Trieste rischiavo di essere linciato dai profeti della falsa coscienza, lui, che era tornato a vivere lì, disse che non bisognava toccarmi perché ero un guaio, però ero anche un compagno. 


E con Togliatti?
Beh, Togliatti non è che adorasse i radicali. Nella redazione di Rinascita si divertiva a leggere citazioni chiedendo poi: «Allora, chi è? E' Goebbels? E' Goering?». E concludeva: «No. E' Mario Pannunzio». Con tutto ciò, nel '53 mi diede ragione. Mi mandò a chiamare e decise che il partito doveva entrare nella nostra Unione goliardica italiana.



Ti consideri interno alla vicenda sia dei comunisti che dei cattolici. Eppure per molti versi io ho l'impressione che il rapporto politico più stretto sia stato quello con Bettino Craxi...
Bettino mi considerava un po' un fratello maggiore. Sulla scala mobile avevo cercato di convincerlo, e c'ero riuscito. All'inizio degli anni '90 aveva iniziato a fare scelte che non c'entravano niente con quel che era stato sino a quel momento. Tornato da New York si era messo a fare il proibizionista. Aveva fatto quello che lo stesso Andreotti aveva avuto il pudore di evitare: patti con il Vaticano che erano molto peggio di quelli lateranensi. E con tutto questo alla fine, nel momento dello sfascio, mi chiamò e mi disse: «Adesso è il tuo turno». «Ma che sei scemo?», gli risposi. E tuttavia è chiaro anche da un punto di vista umano che, nel momento della sconfitta, abbia detto quella cosa proprio a me, che appunto ero un po' come un fratello maggiore. 


E Berlusconi? Un po', almeno all'inizio, hai sperato che incarnasse un qualche modello liberale?
Berlusconi, allora, era da dieci anni culo e camicia col Pci. Il rapporto col Psi era solo l'apparenza. Per me e per noi aveva sempre manifestato molto rispetto: tra, l'altro sua madre gli diceva sempre, e lui mi ripeteva, che come amico doveva fidarsi solo di me. Tutti dicono che 
allora stavamo con Berlusconi, ma la realtà è che io uscii dal Parlamento proprio perché mi presentai contro Berlusconi e Fini. La direzione del Pds disse che era meglio Fini di Pannella e mi schierarono contro un altro candidato.

Pensi che altrimenti avresti potuto sconfiggerlo?
L'avevo fatto battere da Rutelli l'anno precedente: perché non è che allora Francesco avesse tutta questa popolarità. Ma contro il segretario del Msi noi ci scatenammo ovunque e D'Alema commentò che era così che si dovevano fare le campagne elettorali.

Torniamo a Berlusconi...
Fu lui nel '94, unilateralmente, a decidere di non mettere in campo suoi candidati in 8 o 9 collegi del nord dove noi ci presentavamo. Fu una scelta intelligente ma non per questo noi rinunciammo a candidarci anche in un solo collegio dove ci fosse il Msi. Il bello è che oggi proprio Fini è il leader che forse più si avvicina a un impianto liberal-democratico... I ragazzi di Farefuturo hanno affermato di essere politicamente figli di Pannella. Del resto lo stesso Fini fu mandato, giovanissimo, da Almirante a un nostro congresso. Eravamo gli unici a invitarlo ma lui un po' aveva paura e si fece rappresentare da questo ragazzino allora sconosciuto. Ma era il Msi comunque: mica santi. Quando arrivammo in questa sede i neofascisti si vedevano tutti in un bar qui vicino: ci trattavano da froci e rotti in culo. Poi però, quando fu necessario, gli avvocati glieli fornimmo noi, dato che Almirante aveva dichiarato che erano traditori del partito.

A un certo punto, nel '94, dovevi addirittura diventare ministro con Berlusconi...
Dopo le elezioni del '94 scelse di mantenere un rapporto con noi e disse che io sarei stato un ottimo ministro degli Esteri. Poi, mentendo, affermò che non si poteva fare per via di Martino e mi propose invece di fare il ministro della Giustizia. Gli risposi che non avrebbe retto lo scontro per come lo avrei fatto io. Quel che dicevo e pensavo allora, di Berlusconi era che rappresentava sia un pericolo che una possibilità. Comunque, ripeto, la speranza riposta nella Costituzione è stata distrutta dalla prima, non dalla seconda repubblica, e Berlusconi è un prodotto di quel disastro. 


Il Partito radicale è oggi il più antico partito italiano. Cosa vedi nel suo futuro?
Pensando all'ultimo Leonardo Sciascia, quello di A futura memoria, mi è venuto in mente che la nostra direi "bergsoniana" durata è il frutto di una volontà e di una consapevolezza, e che il compito dei vivi è quello di assicurare un futuro nella memoria. Credo che tutti dovrebbero riflettere sul fatto che non può esservi alcuna alternativa futura al presente senza una alterità 
presente che abbia forti ed esplicite radici nel passato. Ecco la spiegazione del fatto che siamo sempre stati avvertiti come il più precario dei partiti e tuttavia. oggi continuiamo ad assicurare questa durata. Dimmi cosa sei stato e come sei stato, e ti dirò se posso darti fiducia nel presente e per il futuro.

Repubblica 5.3.10
Perché siamo un Paese sull’orlo del Baratro
di Nadia Urbinati

Il nostro paese è sul crinale di un baratro politico e criminale e non sarà questa maggioranza a ripristinare la fiducia nella politica e nei partiti. Come altre volte in passato, un´altra Italia sarà necessaria a rimediare al disastro di una violazione sistematica e proterva della legalità e del civismo, nella pubblica amministrazione come nella società civile (la quale non è per nulla innocente). Questa maggioranza non lo può fare per ragioni che sono politiche prima che giudiziarie, connaturate ad essa e al messaggio che ha in questi anni confezionato e propagandato per creare una sua solida base elettorale.
All´origine della difficoltà del premier e del suo governo di varare lo sbandierato provvedimento anti-corruzione c´è questa endogena incapacità (e impossibilità) di distinguere tra interesse e giustizia, di vedere la corruzione e soprattutto di rinunciare ai suoi sperimentati vantaggi elettorali. Questa incapacità e impossibilità è contenuta nel messaggio contraddittorio che viene da Palazzo Chigi. Infatti, se il sistema di malaffare che ci rende ancora una volta così vergognosamente popolari nel mondo è davvero opera dei proverbiali quattro gatti e di birbantelli, allora che bisogno c´è di un intervento urgente? Non ce n´è proprio. Ma allora, perché dar voce a questa nuova fanfara dell´emergenza quando nel frattempo si rappresenta lo stato delle cose in un modo che non giustifica alcuna impellenza?
Una spiegazione facile è che l´idea del fare pulizia è molto popolare; e quando si è a ridosso di elezioni e si vuole, si deve, incrementare la propria popolarità. La propaganda della pulizia può pagare, e soprattutto lo può per un tempo che si vuole limitato. Un anno e mezzo fa, per la precisione nell´autunno del 2008, il presidente del Consiglio aveva annunciato la creazione di una nuova unità speciale che avrebbe dovuto eliminare la corruzione nelle amministrazioni pubbliche e garantire più trasparenza. La task-force non doveva avere il compito di polizia, ma di "intelligence". Proponendo una politica dell´emergenza per fronteggiare l´emergenza corruzione, il capo del governo parlò allora della corruzione come di una antica patologia nel nostro paese.
Mai parole furono più vere, eppure chi si ricorda oggi di quella task-force? La propagandata fa rumore e passa, non si sedimenta nella memoria. E la nuova ondata propagandistica mira a fare proprio questo: mostrare che si vuol "fare"; usare una strategia moralizzante per creare una nebbia di malaffare nella previsione che, finita la campagna elettorale, l´oblio del circo mediatico che macina tutto così in fretta da non lasciare quasi traccia farà il suo corso. Proprio come la task-force di un anno e mezzo fa, tra qualche mese ci si ricorderà a mala pena di questo can can di nomi.
Ma c´è una ragione ancora più radicale che suggerisce di diffidare di questi propositi di mettere in piedi un´impresa di pulizia morale, una ragione sintetizzabile in una domanda: come può un´oligarchia che con tempo e fatica si è consolidata in questi anni di politica berlusconiana fare leggi contro se stessa e per auto-liquidarsi? Ecco allora che si comprende l´uso dell´espressione "birbantelli": pochi ed esemplari agnelli sacrificali serviranno a chiudere presto il caso e a rimettere in moto la macchina senza troppe perdite collaterali.
Entrambe queste ragioni – la propaganda della moralizzazione e l´esemplarità del fare – inducono a pensare che non siamo proprio a un ritorno al passato, ma semmai a una escalation e in effetti a un grande peggioramento rispetto a mani pulite atto primo. Poiché allora un´intera classe dirigente fu spazzata via, non solo alcuni birbanti (la tattica dei "mariuoli" di Bettino Craxi allora non funzionò); nessuno aveva il potere di creare salvagenti perché la fine della Guerra fredda aveva reso quella vecchia oligarchia arrugginita, vulnerabile e nuda. Ma questa nuova oligarchia ha costruito i suoi anti-corpi in un ambiente ben diverso, un ambiente non protetto da alleanze internazionali; essa è quindi più forte, più radicata e resistente di quella che vedemmo naufragare diciotto anni fa. Infatti, oggi esiste un´oligarchia che non è ancora sotto accusa da parte dell´opinione pubblica perché ha nel frattempo costruito una macchina per creare un´opinione pubblica addomesticata e recettiva ai disvalori pubblici, grazie in primo luogo all´uso monopolistico dei media e alla pratica sistematica di nascondimento del vero.
Propaganda ed esemplarità si alimentano a vicenda: dunque i proclami propagandistici sulle poche mele marce e la promessa di un decreto anti-corruzione affinché l´acqua torni presto nel proprio alveo e scorra come sempre. Ecco il paradosso: una politica che si presenta come moraleggiante e che è contemporaneamente sovvertitrice di ogni valore legale ed etico. Queste due dimensioni si sono per anni alimentate a vicenda generando quel mostruoso connubio di attenzione morbosa dei media e di altrettanto sconvolgente immutabilità delle cose, con la conseguenza di un peggioramento radicale della situazione legale e etica. È per queste ragioni che ci troviamo su un baratro dal quale questa maggioranza non può salvarci.

Repubblica 5.3.10
Il Paese diverso nel sogno liberale di Pannunzio
A cento anni dalla nascita, ritratto del fondatore del "Mondo", intellettuale rigoroso, protagonista di battaglie politiche, economiche e culturali che volevano modernizzare il paese
di Eugenio Scalfari

Mario Pannunzio oggi avrebbe cent´anni insieme al suo amico Ennio Flaiano che abbiamo ricordato due giorni fa e all´altro suo amico Arrigo Benedetti il cui centenario ricorrerà tra pochi mesi. Ma io un Pannunzio e un Benedetti centenari non posso immaginarmeli e in un´Italia come quella di oggi meno che mai.
Mario è morto 42 anni fa, il suo Mondo aveva chiuso un paio d´anni prima, il mitico Sessantotto stava cambiando i pensieri e i costumi in tutta Europa, ma lui, se anche fosse stato nel pieno delle sue forze, non l´avrebbe capito e neppure degnato d´uno sguardo d´attenzione. Il giovanilismo non lo riguardava, arrivava puntuale ad ogni generazione, contestava i padri, reclamava diritti, dimenticava doveri e poi sfumava come nebbia al sole in attesa di ripresentarsi con le generazioni successive.
Il giovanilismo della sua generazione si era affacciato sulla scena negli anni Trenta in pieno fascismo; gare sportive, littoriali della cultura (fascista), un po´ di Fronda al seguito di Bottai e di Ciano. Insomma niente che lo riguardasse. Mario era figlio d´un avvocato che era stato comunista e di una mamma di buona famiglia lucchese; era nato in un bel palazzo settecentesco del Fil Lungo, la via aristocratica della città. Aveva una sorella che amava molto. Ma la sua vera passione era il cinema, la letteratura e Alexis de Tocqueville, sul quale fece la sua tesi di laurea. Quella tesi, arricchita da riflessioni e ricerche successive, fu il suo unico libro.
Mario apparteneva infatti ad una specie molto rara tra gli intellettuali: quella dominata da una sorta di pudore culturale. Le persone colte non debbono esibire la loro cultura che sarà sempre e comunque un ennesimo del patrimonio culturale disponibile. E poi le persone colte non possono cimentarsi col mercato per misurare il loro valore in pubblico come si trattasse d´una gara di corsa o di salto. Perciò si scrive soprattutto per sé e per i pochi amici. Con essi si discute e con essi ci si misura, ma anche questi cenacoli siano improntati a discrezione e a molta ironia. L´ironia, lo "humour", la sprezzatura, niente retorica, niente eloquenza. In fondo c´era parecchio snobismo, ma di quello buono.
Con queste premesse era evidente che con i ragazzi del Sessantotto non ci sarebbe potuta essere alcuna congenialità, ma la sorte comunque gli risparmiò quel confronto che lo avrebbe parecchio infastidito.
Si è detto che Pannunzio sia stato essenzialmente un frondista, un oppositore del potere qualunque ne fossero i colori. Ma dall´interno stesso del potere, come appunto fu la storica Fronda che nacque nel Parlamento di Parigi per sbalzare di seggio il cardinal Mazzarino.
Il frondismo di Pannunzio sarebbe quello imparato nell´Omnibus fondato e diretto da Longanesi nella seconda metà degli anni Trenta, in cui Mario lavorò; e poi proseguito in proprio quando insieme a Benedetti fondò il settimanale Oggi che vide la luce nel ´39 e fu definitivamente soppresso dal Minculpop nel ´42 dopo aver subìto molte sospensioni e sequestri.
Il frondismo è una definizione esatta per Longanesi: fece la Fronda al fascismo mentre ne era un importante collaboratore propagandistico. Poi, dopo il 1945, fece la Fronda rispetto alla democrazia, in nome d´un conservatorismo borghese e aristocratico che Il Borghese da lui fondato si propose di evocare. Solo che un conservatorismo di quel tipo in Italia non era mai esistito, perciò Il Borghese longanesiano non evocò nessuno, e dopo la morte del suo fondatore, diventò un settimanale decisamente fascista perché non esisteva alcuno spazio disponibile: la Fronda può infatti aver senso sotto una dittatura ma non in un regime democratico.
Pannunzio infatti fece la sua brava Fronda sotto il fascismo. Quando il regime soppresse Oggi Mario Missiroli lo andò a trovare per manifestargli (molto riservatamente) la sua solidarietà e gli disse una frase che coglieva perfettamente quella situazione: «Vi hanno soppresso – gli disse come ha spesso raccontato – non per quello che scrivevate, ma per quello che non scrivevate». La Fronda si fa esattamente così. Ma dopo l´8 settembre non era più tempo di quel dissenso e quella sottile ironia: era tempo di guerra e Pannunzio e Benedetti parteciparono a quella guerra, Arrigo sull´Appennino tosco-emiliano, Mario a Roma in clandestinità con gli amici del Partito liberale da poco rifondato da Carandini, Cattani, Libonati, stampando e distribuendo alla macchia il Risorgimento liberale che poi ebbe la sua bella stagione dopo l´arrivo a Roma della quinta Armata nel giugno del ´44 e fu uno dei giornali di partito più interessanti fino al ´47, quando la guida del Partito liberale passò in altre mani.
La vicenda di Mario Pannunzio e dei suoi amici con il Partito liberale merita qualche approfondimento perché è illuminante sulla natura che il pensiero e la cultura liberale hanno avuto nel nostro Paese.
Quanto al pensiero fu sostanzioso, limpido e in linea con il liberalismo europeo ereditato dall´Ottocento. Guizot, Tocqueville, Benjamin Constant in Francia, i liberali inglesi di Gladstone, la Lega antiprotezionista di Cobden e tutta la grande tradizione riformista anglosassone.
Qui da noi a capo del filo c´era il conte di Cavour e poi la Destra storica con Marco Minghetti e Silvio Spaventa in particolare: libero commercio, libero mercato, ma anche regole che combattessero i monopoli, ripartissero equanimemente il reddito, impedissero privilegi, garantissero eguaglianza delle condizioni di partenza e tenessero aperto l´accesso al mercato.
In quei primi anni subito dopo il disastro della guerra e la ritrovata democrazia, le più alte voci della cultura liberale in Italia furono quelle di Benedetto Croce e Luigi Einaudi. Ai loro fianchi emergevano i Calogero, gli Omodeo, i De Ruggiero, i Salvatorelli, gli Jemolo, i Ruffini, i Romeo, un gruppo di storici e di intellettuali di sentimenti profondamente liberali ma anche assai sensibili ai temi della eguaglianza sociale. Insomma "Giustizia e libertà", il Partito d´Azione come costola moderna del pensiero liberale. Ipotesi che Croce ed Einaudi non accettarono mai perché per loro il liberalismo era una filosofia politica più che un partito e la filosofia non ammetteva contaminazioni.
Pannunzio e i suoi amici si sentivano e si trovarono con un piede nel liberalismo classico e con un altro nel Partito d´Azione. In realtà il Partito liberale dal ´47 in poi ebbe una torsione conservatrice e confindustriale che l´ala carandiniana non accettò. Il Partito d´Azione nel frattempo si polverizzò in mille pezzi e cessò di esistere. Vennero insomma a mancare i fondamenti politici del loro pensiero.
Il vuoto poteva essere riempito in un solo modo: fondando un giornale al servizio di una cultura politica che fu chiamata di sinistra liberale. Così nel 1949 nacque Il Mondo. I numi tutelari erano Croce, Einaudi, Salvemini.
Il sodalizio giornalistico-politico fu caratterizzato dal tandem Pannunzio-Ernesto Rossi. Ma attorno a Pannunzio si formò uno stuolo di collaboratori che rappresentava il meglio della cultura "liberal" di quegli anni, più a sinistra dello stesso fondatore e direttore del giornale.
L´elenco è già stato fatto infinite volte ed è inutile ripeterlo qui se non per ricordare alcuni nomi particolarmente significativi: Vittorio De Caprariis, Francesco Compagna, Vittorio Gorresio, Enzo Forcella, Alberto Moravia, Vitaliano Brancati, Sandro De Feo. Di Flaiano si è già detto. Più tardi arrivarono Arbasino, Siciliano, Ronchey, ma a nominarli tutti ci vorrebbe una pagina intera.
Gli avversari erano chiaramente individuati: i comunisti da un lato, i clericali dall´altro. L´antifascismo era il sentimento fondante e la lotta contro i "padroni del vapore" altrettanto. Dunque i confini politici erano netti, ma con la Dc di De Gasperi, il colloquio c´era ed anche con Giolitti e Riccardo Lombardi. Con Togliatti no, ma con Giorgio Amendola sì.
Non c´erano in questo gruppo né Longanesi né Indro Montanelli. Loro continuarono a fare Fronda. Quella di Indro era una Fronda popolare, senza lo snobismo longanesiano. Talvolta il popolare ebbe qualche venatura populista, sempre sorretta da un formidabile mestiere che però con Mario Pannunzio non ebbe nulla a che vedere.
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Anch´io ho collaborato al Mondo, dal 1949. Ne accenno qui poiché per me quella collaborazione, le amicizie che ebbi, l´aria che in quelle stanze respirai furono l´inizio d´un lungo percorso che dette vita prima all´Espresso e poi alla Repubblica e ha avuto e ha qualche significato nel giornalismo e nella for-mazione di tre generazioni di italiani.
Vi collaborai in vario modo. Con articoli di contenuto economico e politico, con i convegni degli amici del Mondo che si svolsero tra il 1955 e il 1963 ed elaborarono una vera e propria piattaforma programmatica che costituì la struttura culturale del centrosinistra inaugurato col governo Fanfani del ´62 e con il governo Moro del ´63. Infine ebbi con Pannunzio una lunga frequentazione privata quasi quotidiana insieme alla cerchia più intima che si raccoglieva intorno a lui la sera in alcune trattorie e caffè, da Nino in via Rasella e in via Borgognona, da Giovanni in via Marche, al Caffè Rosati, al Golden Gate e allo Strega in via Veneto, da Rosati e Canova a Piazza del Popolo.
Si faceva notte fonda e ci si divertiva a discutere, ma quasi mai di politica e ben poco di letteratura. Si scherzava. Si motteggiava, e se volete, si cazzeggiava. La letteratura in realtà era alla base di questi nostri conversari, ma una base implicita, fatta di «gusci di noce e frammenti di vetro colorati» come scrisse poi Italo Calvino per descrivere la sua «leggerezza profonda». Ecco, i discorsi erano apparentemente frivoli ma in realtà intessuti di leggerezza pensosa e questo rendeva quelle serate preziose per ciascuno di noi che vi partecipavamo.
Quando Mario è morto ho passato una giornata di grande commozione. Come per la morte d´un padre. Ma i nostri rapporti si erano raffreddati e poi interrotti già da tempo. La linea dell´Espresso, che all´inizio era stata parallela a quella del Mondo, col passar degli anni si era divaricata: noi eravamo aperti verso i socialisti, Il Mondo reagì attestandosi su una posizione liberal- repubblicana. Sfumature senza molto significato. La crisi dei nostri rapporti in realtà era avvenuta nel momento della dissoluzione del Partito radicale che avevamo fondato nel ´55 e si spense nel ´63, ereditato da Marco Pannella che ne fece tutt´altra cosa.
Per quanto mi riguarda, dico personalmente e non politi-camente, fu la rottura d´un figlio che si voleva affrancare dalla tutela paterna, con il dolore che rotture del genere comportano.
Ricordare oggi questi fatti significa cercare il senso d´una vicenda privata che ebbe an-che qualche risvolto pubblico e che è così remota da esser diventata la preistoria d´un´anima ormai molto lontana da quella di allora.

il Fatto 5.3.10
Il più grande licenziamento della storia
Riduzioni agghiaccianti: quasi 130 mila posti di lavoro, 82 mila docenti e 45 mila tecnici.
di Marina Boscaino

I precari sono 200 mila persone in carne e ossa, docenti e personale tecnico. Hanno 39 anni in media: troppo vecchi per rifondare la propria identità professionale, troppo giovani per arrendersi.
Si tratta del maggior licenziamento di massa della storia, enormemente superiore all’affare Alitalia, in prima pagina per settimane. Riduzioni agghiaccianti: quasi 130 mila posti di lavoro, 82 mila docenti e 45 mila tecnici. C’è chi rileva con pedanteria che il totale non corrisponde a chi non lavorerà, perché una parte verrà assorbita dai pensionamenti. Dobbiamo rallegrarci? La categoria precariato è così fluttuante che non merita nemmeno un inquadramento specifico nei “meno” del saccheggio di diritti costituiti dall’operazione Gelmini-Tremonti. Duecento mila sono solo i supplenti con incarico annuale fino al 30 giugno, cui vanno aggiunti i circa cinquantamila reclutati per periodi brevi. Abile creazione del sistema per mantenere la propria immobile esistenza, prodotto da politica e amministrazione, mercificando vite e consentendo alla scuola costi bassi ma senza garanzie, il precariato ha visto il suo boom con la scolarizzazione di massa. Tra il 1960 e ’75 il concorso non riuscì soddisfare la domanda di insegnanti e così politiche economiche e amministrative stabili e condivise fecero del precariato un metodo di reclutamento ispirato dall’incapacità di concepire la scuola come luogo di cittadinanza. Non si attuò un’attenta programmazione e non si selezionò il personale in modo adeguato ai compiti richiesti dalla Costituzione: perfino per le materie in sofferenza di organico furono attuati concorsi a distanza di decenni.
Le cause: indisponibilità ad affrontare i problemi di gestione del personale; mutato atteggiamento verso la spesa pubblica in istruzione. In mezzo una giungla di provvedimenti, frutto di consociativismo spinto e di dissennato e traversale disinvestimento su un modello di scuola funzionale a un mondo in continuo cambiamento.
Risposte occasionali, provvisorie, “toppe” su situazioni sempre prossime a conflagrare; estemporanee decisioni condizionate da tornate elettorali o da fasi di maggiore rivendicazione da parte di chi – intanto – in una condizione di precarietà economica, lavorativa, esistenziale, mandava avanti parte della scuola italiana. Uno dei molti possibili esempi di schizofrenia politico-amministrativa è quello dell’istituzione nel 1998 delle Siss – Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario; nel 2000 è bandito un megaconcorso per accesso a cattedra e conseguimento di abilitazione; in parallelo, si dà vita a corsi riservati, rivolti a insegnanti (detti “precari storici”) con almeno 360 giorni di supplenza, ancora per l’abilitazione. Fu così abilitato un numero di insegnanti sproporzionato, che generò peraltro un’incresciosa quanto ovvia tensione tra “storici” e “sissini”. Il consociativismo ha prodotto sanatorie, stabilizzazioni ope legis, aggiustamenti di graduatorie, corsi abilitanti. In mezzo, donne e uomini per cui, anno dopo anno, la cabala si compiva nei corridoi di qualche provveditorato, in attesa di una chiamata tardiva per chissà dove, ad anno scolastico già iniziato. E non dimentichiamo gli studenti, di tutte le età, che negli anni, ogni anno, hanno visto sfilare anche 3 o 4 supplenti e per i quali la continuità didattica è stata formula suggestiva, mai praticata.
“Non pagheremo noi la vostra crisi” era uno degli efficaci slogan dell’Onda. Invece quella crisi la stiamo pagando tutti. Ma loro più di tutti: studenti precari e precari precarizzati.

l’Unità 5.3.10
Superiori senza legge Ma il 27 scade l’iscrizione
Scuole nel caos Il testo Gelmini non è ancora stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale
Termini strettissimi. Ma per quale progetto stanno optando le famiglie? Ci sarà una proroga?
di Fabio Luppino

Una situazione surreale. Sono in corso le iscrizioni alle superiori, ma la cosiddetta riforma epocale Gelmini non è ancora legge. Il modo dozzinale di procedere del governo che stavolta pagano le famiglie.

Il pasticcio delle liste è la conseguenza di cosa sia il diritto e l’iter legis per il centrodestra. La pura formalità trattata con arroganza toglie il diritto alla contesa politica. Ma in un campo che riguarda milioni di ragazzi il governo sta procedendo con il meccanismo che oggi gli è scappato di mano come se niente fosse. Sono in corso le iscrizioni alle scuole superiori. La scadenza è il 27 di questo mese. La cosiddetta riforma Gelmini non è ancora legge, però. I regolamenti varati dal governo non hanno avuto la firma del capo dello Stato, né, tanto meno, la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, atto, l’ultimo, che perfeziona e mette in vigore una legge.
COSA È IN VIGORE?
Un pasticcio vero che riguarda centinaia di migliaia di ragazzi e le loro famiglie. A quale tipo di scuola si stanno iscrivendo? In punta di diritto non a quella riformata e anzi si stanno ponendo in essere le condizioni per dei ricorsi amministrativi capaci di bloccarne gli effetti. In quale caso si sceglie in forza di una legge che non c’è? «La riorganizzazione della scuola superiore imposta dal ministro Gelmini si sta sempre più rivelando come un'iniziativa improvvisata dicono Francesca Puglisi e Davide Zoggia, della segreteria pd, responsabili scuola ed enti localiMancano ormai venti giorni al termine ultimo per le iscrizioni e il governo non ha ancora pubblicato sulla Gazzetta ufficiale i regolamenti di riordino. Forse Gelmini pensa che le leggi si possano render tali pubblicandole sul sito internet del ministero, ma le cose non stanno così». «Lo stesso governoaggiungonoha portato via agli enti locali la facoltà di organizzare l'offerta formativa territoriale: dopo tanto parlare di federalismo, la destra si comporta nella maniera più centralista. Molti enti locali rivendicano il loro diritto ad essere protagonisti su formazione e scuola e cercano di dare una risposta alle famiglie, che rischiano di non avere tempo per scegliere consapevolmente gli indirizzi di studio, e alle scuole per potersi organizzare».
TUTTO VERO SOLO SUL WEB
In questo momento la legge non c’è, è indubbio. Cosa devono fare le famiglie? E, soprattutto, cosa devono rispondere le scuole alla richiesta di chiarimenti? Il ministero continua, appunto ad inondare di comunicazioni online sulle scuole e sulla riforma, ma di effettivo non c’è nulla. Una repubblica delle banane. Così come la deroga che è sta-
ta data ai presidi per fare i bilanci. Un mese in più per redigere un documento il cui valore è del tutto virtuale. Sì, perché i capi d’istituto (a cui è stata inviata settimane fa una circolare con l’invito ad usare i fondi propri per l’offerta formativa per pagare i supplenti) avranno segnato a credito centinaia di migliaia di euro che non avranno mai. Sono i soldi che lo Stato gli deve dare per anticipi impropri che le scuole sono state costrette a fare. Nel complesso si tratta di cifre che toccano il miliardo di euro. Soldi virtuali, come, al momento, la riforma della scuola secondaria superiore.❖

l’Unità 5.3.10
Fine vita e voto segreto
Marino «strappa» un mezzo sì a Fini
di Susanna Turco

Al dibattito sul libro del senatore-chirurgo va in scena un duetto sull’imminente passaggio alla Camera del testamento biologico Il presidente della Camera: «Prerogativa citata dal regolamento»

Fuori impazza il delirio delle liste del Pdl bocciate e della relativa eventuale legge per uscirne. Dentro, per restare in tema ma anche no, si discute di fine vita e biotestamento. Una questione di quelle che, nel gergo spiccio di Palazzo, vanno a «dopo le Regionali». Vale a dire tra mille miglia di parole. E che invece sarà discussa solo tra qualche settimana, alla Camera.
Per ora se ne parla nella sala del Mappamondo, alla presentazione del libro di Ignazio Marino, Nelle tue mani. Medicina, fede, etica e diritti. C’è il senatore del Pd, ovviamente, e c’è anche il presidente della Camera Gianfranco Fini. Fa uno strano effetto vederli accanto: esteticamente compatibili, spesso ammiccanti l’un con l’altro, perfettamente concordi sulla legge che si dovrebbe fare, e sull’atteggiamento che si dovrebbe avere. Una legge non prescrittiva. Un dibattito non ideologico. Non questa e non così, dunque.
Per questa via, parte il siparietto che anticipa gran parte delle discussioni che ci saranno tra qualche settimana. L’ex leader di An chiede a Marino: «Siamo alla vigilia del dibattito in aula: auspici speranze, o timori?», E poi insinua: «Sapendo che c’è il voto segreto...». Il senatore del Pd coglie la palla al balzo: «Beh, sapendo che il voto segreto è una prerogativa del presidente della Camera...». «Non mi metta nei guai», lo blocca Fini, «è una prerogativa citata esplicitamente dal regolamento, e quindi almeno da questo punto di vista non avremo problemi applicativi». Marino: «Già capisco che il voto segreto verrà usato, quindi». Fini alza le mani. Il regolamento della Camera, del resto, è chiaro. Prevede il segreto per le votazioni che incidono sui diritti della persona umana: e aggiunge che «in caso di dubbio, decide il presidente della Camera».
Ignazio Marino, che tutto questo lo sa e lo auspica, fa un passo oltre: «Io la penso come quel presidente della Corte Suprema degli Usa, un repubblicano, che nell’88, in pieno dibattito sul biotestamento disse: “Nel tema del fine della vita, lo Stato è straniero per il paziente: deve decidere chi è legato a lui da vincolo d’amore”. Qui da noi invece la legge indica quali sono le terapie cui una persona deve essere sottoposta. Allora facciamo un gesto di ragionevolezza: una legge leggera,un articolo solo, che dice che c’è l’ obbligo di somministrare tutti i trattamenti sanitari necessari, in assenzadi biotestamento: arriverei anche ad ammettere l’obbligo di idratazione e alimentazione, eccetto per chi abbia indicato di non volerle». Fini ringrazia, ma non si sbilancia, dice «vediamo che sorte avrà il suo invito». Eppure, sostiene la stessa cosa quando predica di «non applicare gli schemi della polemica politica, ma piuttosto tentare di immedesimarsi in chi vive realmente il dramma». Del resto, ilsuo fedelissimo Benedetto Della Vedova è pronto da tempo, a presentare in Aula la proposta di una soft law: la legge leggera di cui parla Marino. ❖

l’Unità 5.3.10
Da Mosca agli Usa l’orchestra low cost 40 dollari a concerto
La Moscow State Radio Symphony Orchestra viaggia in bus e dorme in alberghi dimessi. Per mangiare ci si ferma da Wall-Mart. La protesta al New York Times: «È degradante»

Quaranta dollari a serata. Certo non sarà l’orchestra del Bolshoi, o la sarabanda di musicisti avventurosamente
contrabbandati come tali nel film di Mihaileanu, «Il Concerto». Ma trapela un’aria un po’ tzigana dalle sconcertanti traversie americane della Moscow State Radio Symphony Orchestra. Una novantina di elementi catapultati da una parte all’altra degli States, su e giù sulla cartina geografica a bordo di autobus, un ricamo a zig zag tra cittadine di provincia che impazziscono per la musica classica ma hanno budget ridotti all’osso. E tirano sul prezzo. Per tirare hanno tirato parecchio, in effetti, tanto che qualcuno se ne è lamentato telefonando al New York Times. Se per le grandi orchestre europee ci sono alberghi a cinque stelle e una diaria di 100 dollari oltre all’ingaggio, l’orchestra moscovita ha dovuto accontentarsi del «lusso sfrenato» di hotel low cost, camere doppie, lunghe trasferte in autobus e neanche un centesimo di diaria. Va già bene se nel pernottamento è inclusa la colazione. Per il resto ci si arrangia, l’autista del torpedone è sempre disposto a fermarsi da Wall-Mart per comprare qualcosa da mangiare. E per ogni concerto si portano a casa 4 biglietti da 10 dollari. «È degradante. Sono sconvolto», ha protestato con il New York Times Sergei Levitan, ingegnere meccanico che vive a Manhattan, ma è russo e conta amici tra gli orchestrali.
Cinquantatré concerti in 67 giorni, un giorno di riposo ogni due settimane. Quincy, Urbana, Modesto, Savannah, ma anche San Diego, Las Vegas, Atlanta, Saint Louis. Tirando la cinghia. Gli organizzatori quotano l’ingaggio della Moscow State Radio Symphony Orchestra tra i 50 e i 75.000 dollari, quasi la metà di quello che prenderebbe un’orchestra più nota, un quarto dei Berliner Philharmoniker, senza contare hotel e diaria. E magari i musicisti di Mosca non saranno altrettanto prestigiosi «i fiati sono un po’ deboli» ma hanno alle spalle molti concerti e numerose incisioni per la Naxos, la più famosa etichetta di musica classica.
E infatti li chiamano per questo. A Worcester, Massachusetts, li hanno voluti per una serata dedicata a Tchaikovsky. Perché e sembra una battuta rubata al film di Mihaileanu «assolutamente nessuno suona Tchaikovsky come lo suonano i russi». E a un costo più basso di quanto farebbe qualunque orchestra made in Usa: i musicisti sono più dispendiosi e i sindacati si avventerebbero sull’incauto impresario che volesse tirare sul prezzo. «Le orchestre americane sono difficili da vendere», conferma il presidente dello State Theater di New Brunswick, che ha ospitato i musicisti moscoviti.
In fondo per la musica valgono le stesse regole globalizzate di qualsiasi altra merce. E la tounée americana è una sorta di delocalizzazione itinerante, azzeramento dei diritti sindacali incluso. È andata male a chi è partito dalla Russia sognando di vedere un po’ d’America e l’ha vista dal finestrino di un bus, salvo un pomeriggio di straforo a New York. Quanto alla paga, beh, non tutti gli orchestrali se ne lamentano molti in effetti sono studenti o free-lancer assoldati per l’occasione e a casa non guagnano di più. Ma c’è un ma. «C’è una diretta relazione tra come suoniamo e come siamo pagati». La qualità ha ancora un prezzo.❖

Repubblica
Quel celibato da abolire
di Hans Küng

Abusi sessuali in massa ai danni di bambini e giovani ad opera di preti cattolici, dagli Usa alla Germania, passando per l´Irlanda: un enorme danno di immagine per la chiesa cattolica, ma anche segno palese della sua crisi.

Abusi sessuali in massa ai danni di bambini e giovani ad opera di preti cattolici, dagli Usa alla Germania, passando per l´Irlanda: un enorme danno di immagine per la chiesa cattolica, ma anche segno palese della sua profonda crisi.
Il primo a prendere pubblicamente posizione a nome della Conferenza episcopale tedesca è stato il suo presidente, l´arcivescovo Robert Zollitsch (di Friburgo). La sua condanna degli abusi, definiti «orrendi crimini», e la richiesta di perdono sono primi passi nel processo di assunzione di responsabilità per fare i conti col passato, ma altri devono seguire. La presa di posizione di Zollitsch mostra indubbiamente gravi errori di valutazione, che vanno contestati.
Prima affermazione: Gli abusi sessuali compiuti dai sacerdoti non hanno nulla a che fare con il celibato.
Obiezione! È indiscutibile che tali abusi si verifichino anche in seno alle famiglie, nelle scuole, nelle associazioni e anche nelle chiese in cui non vige la regola del celibato.
Ma come mai si registrano in massa proprio nella chiesa cattolica, guidata da celibatari? Chiaramente queste colpe non sono attribuibili esclusivamente al celibato. Ma quest´ultimo è la più importante espressione strutturale dell´approccio teso che i vertici ecclesiastici cattolici hanno rispetto alla sessualità. Diamo uno sguardo al Nuovo Testamento: Gesù e Paolo sono stati sì esempio di celibato a servizio degli uomini, ma lasciando ai singoli la piena libertà a riguardo. Pietro e gli altri apostoli erano sposati nell´esercizio del loro ufficio. Questa rimase per molti secoli una condizione ovvia per i vescovi e i presbiteri ed è mantenuta fino ad oggi in oriente anche nelle chiese unite a Roma, come in tutta l´Ortodossia, quanto meno per i preti. La regola romana del celibato è in contraddizione con il Vangelo e l´antica tradizione cattolica. Deve essere abolita.
Seconda affermazione: E´ «totalmente errato» ricondurre i casi di abuso a difetti del sistema ecclesiastico.
Obiezione! La regola del celibato non esisteva ancora nel primo millennio. In occidente fu imposta nell´undicesimo secolo sotto l´influsso dei monaci (volontariamente celibi) soprattutto del Papa di Canossa, Gregorio VII, a fronte della decisa opposizione del clero in Italia e ancor più in Germania, ove solo tre vescovi si arrischiarono a proclamare il decreto di Roma. I preti protestarono a migliaia contro la nuova regola. Il clero tedesco così si espresse in una petizione: «Forse il papa ignora la parola del Signore: "chi può capire, capisca"? (Mt 19,12)? In questa affermazione, l´unica sul celibato, Gesù sostiene la libera scelta di questo modo di vivere». La regola del celibato diventa così assieme all´assolutismo papale e al clericalismo forzato uno dei pilastri essenziali del «sistema romano».
Diversamente da quanto avviene nelle chiese orientali, si ha l´impressione che il clero celibatario occidentale, soprattutto attraverso il celibato, si differenzi totalmente dal popolo cristiano: un ceto sociale a sè stante, dominante, che fondamentalmente si erge al di sopra del laicato, ma è del tutto sottomesso al Papa di Roma. L´obbligo di celibato è il motivo principale della catastrofica carenza di sacerdoti, della mancata celebrazione dell´eucarestia, carica di conseguenze, e, in molti luoghi, della rovina della cura personale delle anime. Tutto questo viene dissimulato attraverso la fusione delle parrocchie in «unità di cura delle anime», con parroci costretti a operare sopra le forze. Ma quale sarebbe il miglior incoraggiamento alla nuova generazione di sacerdoti? L´abolizione della regola del celibato, radice di ogni male, e permettere l´ordinazione delle donne. I vescovi lo sanno, ma dovrebbero anche avere il coraggio di dirlo. Avrebbero il consenso della gran maggioranza della popolazione e anche dei cattolici i quali, stando a tutti i più recenti sondaggi, auspicano che ai preti sia consentito sposarsi.
Terza affermazione: I vescovi si sono assunti responsabilità sufficiente.
È ovviamente positivo che vengano ora intraprese serie misure mirate all´indagine e alla prevenzione. Ma non sono forse i vescovi stessi responsabili della prassi decennale di insabbiamento dei casi di abuso, che spesso ha condotto solo al trasferimento dei colpevoli all´insegna della massima riservatezza? Chi in precedenza ha insabbiato è credibile oggi nel ruolo di indagine? Non dovrebbero essere istituite commissioni indipendenti? Finora nessun vescovo ha ammesso la propria corresponsabilità. Ma potrebbe far rimando alle istruzioni ricevute da Roma. Al fine di garantire il più assoluto riserbo la Congregazione vaticana per la fede dichiarò di propria esclusiva competenza tutti i casi importanti di reati sessuali ad opera di religiosi, così i casi relativi agli anni 1981-2005 finirono sulla scrivania dell´allora Prefetto, il Cardinal Ratzinger. Quest´ultimo inviò non più tardi del 18 maggio 2001 una missiva solenne sui gravi reati («Epistula de delictis gravioribus») a tutti i vescovi del mondo, ponendo i casi di abuso sotto segreto pontificio («secretum Pontificium»), la cui violazione è passibile di punizione ecclesiastica.
La Chiesa non dovrebbe quindi attendersi un «mea culpa» anche da parte del Papa, in collegialità con i vescovi? E, come ulteriore riparazione, che la regola del celibato, che non fu permesso mettere in discussione durante il concilio vaticano secondo, possa essere ora finalmente presa in esame liberamente e apertamente in seno alla chiesa. Con la stessa apertura con cui oggi finalmente si fanno i conti con i casi di abuso sessuale dovrebbe essere discussa anche quella che è una delle loro cause strutturali fondamentali, la regola del celibato. È questa la proposta che i vescovi dovrebbero avanzare senza timore e con forza a Papa Benedetto XVI.
(traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 5.3.10
Intervista a Jeremy Rifkin
Ci salverà la terza rivoluzione industriale

L´INTERVISTA Parla l´economista americano. Esce oggi il suo nuovo libro: "La civiltà dell´empatia"
Troppi segnali indicano che siamo davvero a un punto di svolta della specie umana
Per le generazioni giovani è scontato che il mondo è fatto di condivisione e cooperazione

NEW YORK. Nel nuovo saggio di Jeremy Rifkin che esce ora in Italia, La civiltà dell´empatìa (Mondadori, pagg. 648, euro 22), c´è un primo messaggio che in apparenza è rassicurante. Sulla scorta di una robusta evidenza scientifica, l´autore spiega che noi siamo una specie animale "empatica", allenata a provare compassione, partecipazione, solidarietà. Il secondo messaggio è decisamente allarmante. La nostra empatìa per millenni si è esercitata entro cerchie ristrette, dalla famiglia alla comunità agricola fino allo Stato-nazione, non è commisurata all´estensione globale della nuova comunità umana. Riprogrammare la nostra coscienza, applicare l´empatìa su scala planetaria, è urgente se vogliamo evitare la distruzione della nostra specie (e di molte altre). Una terza componente interessante del libro è un piano ambizioso per risolvere l´equazione energetica. Si tratta di applicare all´energia il modello Internet, nel senso di una rivoluzione dal basso, un sistema di produzione e di consumo diffuso, capillare, decentrato e flessibile. Presidente della Foundation on Economic Trends di Bethesda, docente alla Wharton School, autore già popolarissimo nel mondo intero con saggi come La fine del lavoro (1995) o Economia all´idrogeno (2002), Rifkin in questa intervista discute le tesi della sua ultima opera, la più ambiziosa e impegnativa di tutte.
L´avvertimento che lei lancia non può essere preso alla leggera: siamo vicini a una sorta di implosione globale, lo stadio finale e autodistruttivo delle varie rivoluzioni industriali.
«Non voglio suonare come l´ennesimo profeta dell´apocalisse, ma troppi segnali indicano che siamo davvero a un punto di svolta nella storia delle specie umana, il nostro destino può giocarsi in modo fatale entro pochi decenni. Due segnali recenti lo confermano. Uno è stato la grande crisi alimentare del 2008, che precedette (e in realtà provocò) il collasso della finanza globale: sotto la pressione della crescita cinese e indiana il petrolio toccò 147 dollari al barile, i rialzi delle derrate agroalimentari provocarono tumulti del riso e del pane in tante nazioni emergenti. Il secondo segnale è stato il fiasco del vertice di Copenaghen sull´ambiente: gli stessi leader che non avevano saputo prevedere il disastro del 2008, sono stati incapaci di affrontare il cambiamento climatico».
Lei mette sotto accusa la cultura attraverso cui noi, e le nostre classi dirigenti, interpretiamo il mondo.
«Siamo ancora prigionieri della tradizione illuminista, del pensiero di Locke e Adam Smith: quello che ci rappresenta l´uomo come un essere razionale, materialista, individualista, utilitarista. Se continuiamo a usare questi strumenti intellettuali del XVIII secolo, siamo davvero condannati. Entro quella cornice culturale è impossibile per 6 miliardi di persone affrontare la scarsità delle risorse naturali. Copenaghen è fallito perché dei leader come Obama e Hu Jintao hanno continuato a pensare in termini geopolitici tradizionali, secondo gli interessi degli Stati-nazione anziché quelli della biosfera».
L´empatìa può avere effetti perversi, aumentando l´entropìa: questo è un concetto che lei ha già usato in passato, nel senso di un degrado che distrugge l´energia disponibile. Un esempio storico?
«L´impero romano fu capace di espandere l´empatìa dei suoi cittadini creando una comunità molto vasta unita dallo stesso destino. Ma al tempo stesso spinse lo sfruttamento della sua base agricola fino all´estremo, fino a provocare un esaurimento che fu la vera causa del declino, prima delle invasioni barbariche. La storia si ripete. Oggi su scala ben più ampia. Più le civiltà diventano complesse, più si moltiplicano le connessioni fra gli esseri umani; ma al tempo stesso vengono richiesti maggiori flussi di energia e questi aumentano l´entropìa. La Terza Rivoluzione industriale che io disegno, nascerà dalla necessità di mitigare l´impatto entropico delle prime due. Come le altre rivoluzioni industriali, sarà trainata da una convergenza tra le nuove tecnologie della comunicazione e dell´energia. Le prime civiltà idraulico-industriali si fondarono sull´invenzione dell´alfabeto; la seconda rivoluzione industriale dall´Ottocento al Novecento fu l´incontro fra corrente elettrica, telegrafo, radio, tv».
Per questo oggi lei vede in Internet una benefica opportunità, e ha fiducia nei giovani che sono cresciuti dentro questo nuovo universo della comunicazione?
«La generazione che si è affacciata alla conoscenza nel terzo millennio dà per scontato che il mondo è fatto di condivisione e cooperazione. Le vecchie generazioni hanno ancora un´idea del cambiamento dettato dall´alto verso il basso, i giovani vivono in una dimensione decentrata, sono interconnessi orizzontalmente, senza gerarchie. La mia generazione ammirò le foto della terra prese dall´Apollo nella spedizione sulla luna, fu la nostra prima esperienza di empatìa verso l´intero pianeta visto da fuori. I nostri figli ogni giorno attraverso GoogleMap si percepiscono come cittadini del pianeta terra. Disastri come i terremoti ad Haiti e in Cile, con Twitter si trasformano nell´occasione di un´immediata solidarietà umana su scala globale. Questi ragazzi abituati a usare Skype per parlarsi col compagno di Tokyo intuiscono che siamo un´unica famiglia planetaria, per loro è più facile comprendere che ogni gesto quotidiano in ogni angolo del mondo ha un impatto in tempo reale sulla biosfera e colpisce la specie umana ovunque essa si trovi. Lì si è già avviata la transizione verso una nuova forma di coscienza».
In questa Terza Rivoluzione industriale che è alle porte, il modello Internet può salvarci anche dalla crisi energetica? In che modo?
«Le nuove tecnologie della comunicazione convergono con le energie rinnovabili. È quello che io chiamo l´energia distribuita, o diffusa. Perché le fonti rinnovabili – sole, vento, energia biotermica, biomasse da rifiuti – si trovano in mezzo a noi, equamente ripartite su ogni metro quadro della superficie terrestre. A differenza delle energie fossili come il petrolio e il carbone, la cui concentrazione territoriale è stata fonte di enormi problemi geopolitici».
In pratica che cosa significa abbracciare il modello dell´energia diffusa?
«Significa convertire ogni singola casa, ogni palazzo, in una piccola centrale energetica che usa il sole, il vento, i rifiuti, li immagazzina e li redistribuisce. Significa che l´energia non consumata per i propri bisogni va ripartita secondo una logica di cooperazione e di solidarietà. Non è socialismo bensì un´economia di mercato ibrida. Proprio come Internet, con fenomeni come i software "open source", ha prefigurato un superamento del capitalismo puro ibridandolo con elementi di socialismo. Tutto questo sta già cominciando ad accadere, ed è più vicino a voi di quanto crediate».

giovedì 4 marzo 2010

Agi 4.3.10
Lavoro: Vallauri, Statuto fondamentale opzione politico-sociale

Roma, 4 mar. - Lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, la legge 300 del 1970, fortemente portato avanti dai giuristi socialisti, e' stato la fondamentale opzione politico-sociale, non a caso ancora oggi sotto la minaccia di un ribaltamento. Lo ricorda "a tanti smemorati" lo storico Carlo Vallauri, per il quale su quella legge, "si richiedeva un impegno, un appoggio maggiore dei comunisti, che non vollero darlo, tanto da non votare neppure a favore della legge Brodolini-Giugni, quasi fosse una pagina di arretramento". Legge di civilta', dunque, che con l'art. 18 sanciva e sancisce il divieto di licenziamento senza giusta causa. Scritto articolo per articolo - rammenta lo storico - dal giuslavorista socialista Gino Giugni che di fatto introdusse 'il diritto del lavoro' nell'ordinamento giuridico italiano e fatto diventare legge da un 'ministro socialista', azionista, Giacomo Brodolini, nella realta', il primo a porre l'urgenza dello Statuto fu Riccardo Lombardi. E Vallauri cosi' rimanda alla lettera che Lombardi scrisse il 27 settembre 1962 all'allora Presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, che guidava con un monocolore Dc, il primo centro-sinistra, la 'creatura' di Lombardi, riportata nel libro 'Lombardi e il fenicottero', edizioni 'L'asino d'oro'. "Caro Presidente, mi permetto di insistere sull'opportunita' di non ritardare almeno l'annuncio delle conversazioni coi sindacati ai fini dello Statuto dei Lavoratori: siamo in presenza di una massiccia pressione sui salari - scriveva Lombardi - e occorre dare non solo l'impressione, ma la certezza che se non moltissimo si puo' fare in fare di retribuzioni, tuttavia il governo di centro-sinistra dara' un bene piu' prezioso e pregiudiziale: un nuovo clima nei luoghi di lavoro, maggiore liberta' sindacale e dunque politica, un maggiore potere ai lavoratori. Credo superfluo insistere sull'enorme valore dell'iniziativa e sulla opportunita' di dare corso alla circolare del Ministero delle Partecipazioni relativaa cio' che si puo' fare subito, sulla stessa materia, nelle imprese pubbliche. Credimi - concludeva Lombardi - cordialmente fiducioso". Il contenuto della lettera di Lombardi: nuovo clima nei luoghi di lavoro, maggior liberta' sindacale e politica, piu' potere ai lavoratori, "vale ancora oggi - conclude lo storico - in termini di maggiore dignita' umana". (AGI)

Repubblica 4.3.10
La cultura dell’illegalità
di Guido Crainz

Appena un mese fa si erano largamente imposti i peana alla modernizzazione degli anni Ottanta e ai suoi profeti ma alcuni nodi di fondo sono presto riemersi in tutta la loro profondità e gravità. La fragilità di una rimozione non è stata infranta solo da qualche scellerata esultanza mentre L´Aquila crollava o dalle mazzette nascoste in un pacchetto di sigarette: è stata infranta, molto di più, dalla "illegalità ordinaria" che intercettazioni e indagini hanno portato alla luce.
È stata infranta dall´evidenza di un "sistema", per dirla con Denis Verdini: un "sistema" che ha riproposto ad un Paese molto distratto e quasi immemore alcune domande di fondo. Più di un elemento aggiunge ragioni di riflessione, e il confronto con Tangentopoli è talora illuminante. In quegli anni, ad esempio, non pochi indagati sostennero che "rubare per il partito" era un male minore, e la tesi improntò di sé frettolose proposte di amnistia e teoremi assai discutibili. Era un vero e proprio rovesciamento della realtà – la corruzione politica è un attentato alle istituzioni, molto più devastante di un furto privato – ma segnalava talora un disagio profondo: senza di esso non capiremmo appieno neppure i terribili suicidi di quei mesi. Si intrecciarono (e in qualche modo si nascosero a vicenda) la lacerante sensazione di un trauma e quella forte volontà di autoassoluzione di cui Craxi fu l´alfiere più lucido.
È stata quest´ultima a prevalere e a improntare di sé larga parte della memoria pubblica: appena un mese fa, appunto, la "riabilitazione" del leader socialista ha segnalato che un lungo percorso è stato compiuto in un breve volger di anni. Era un approdo preparato da tempo: in una narrazione diffusa le responsabilità di quel tracollo si erano progressivamente e sensibilmente spostate da Tangentopoli a Mani Pulite, dai corrotti ai giudici.
Ora quella narrazione mostra tutte le sue crepe e tornano di stringente attualità alcune delle questioni emerse fra anni ottanta e anni novanta, segnalate dall´impetuoso ed "estremo" imporsi della Lega Nord ben prima che dalle indagini giudiziarie. Si scorrano libri e riviste di quel torno di tempo (Se cessiamo di essere una nazione; La grande slavina; A che serve l´Italia?, e così via): li attraversa un sofferto interrogarsi sul modo di essere del Paese, non solo sui processi di corruzione che attraversavano il ceto politico. Naturalmente questi ultimi apparivano in piena evidenza, e gli anni Ottanta avevano segnato un rilevante salto di qualità. Vi era stato compiutamente in essi quell´affermarsi della tangente come metodo che lo scandalo petrolifero del 1974 aveva fatto emergere: la cultura della tangente – per citare un titolo di Giorgio Bocca – aveva ormai invaso o stava invadendo in modo irreversibile l´industria di stato e un numero crescente di amministrazioni pubbliche. Ed appunto Bocca, seguendo un processo milanese di metà decennio, coglieva «un profondo convincimento del ceto politico: le tangenti sono necessarie all´amministrazione come il lievito alla panificazione». Dal canto suo il Censis segnalava ed elogiava le energie che si sprigionavano dalla società ma avvertiva anche al loro interno un «annerirsi nel profondo della dimensione collettiva». Avvertiva l´affermarsi di una «dislocazione selvaggia e particolaristica in cui tutto c´è tranne moralità collettiva, coscienza civile, senso delle istituzioni».
Queste e altre riflessioni furono rapidamente rimosse e accantonate da gran parte dell´opinione pubblica nell´euforia che accompagnò il crollo del vecchio sistema politico. Ci si illuse che potesse trovare voce e spazio una robusta società civile e avesse così avvio una salvifica "seconda Repubblica": si scoprì presto che non era così. Si scoprì presto quanto pesassero ormai le tendenze e i valori che si erano corposamente affermati nel decennio precedente: la rivincita privatistica, le varie forme di deregulation legislativa ed etica, lo sprezzo per le regole e i vincoli collettivi, il trionfo di un "individualismo protetto" che chiede allo Stato il minimo di interferenze e al tempo stesso il massimo di "protezione". Tendenze libere ormai di affermarsi senza gli anticorpi solidaristici, politici e morali che le avevano contrastate sin lì: anche per questo poté largamente prevalere la proposta che si era confusamente delineata attorno al composito polo del centrodestra. Si affermarono e trovarono espressione politica, in altri termini, tendenze che si erano consolidate in un lungo percorso, nel progressivo indebolirsi di altri e differenti modelli che pure erano stati presenti nella storia della Repubblica.
Che cosa è successo in questi anni? Perché quelle tendenze sono state così labilmente contrastate e appaiono oggi molto più solide e pervasive di allora? Quali sono state le responsabilità dirette e indirette della politica? Un´analisi sommaria di alcune leggi volute dal centrodestra, e della cultura sottesa ad esse, fa comprendere bene quanto i messaggi della politica abbiano consolidato in modo prepotente quei processi. Si aggiunga la visione del mondo variamente esposta in più occasioni dal premier o la molteplicità dei segnali che sono andati nella stessa direzione, ma non ci si fermi qui. Si ripensi ancora, su un altro versante, alla crisi dei primi anni Novanta. In quel trauma il centrosinistra non seppe contrapporre alla trionfante antipolitica di Berlusconi e di Bossi le modalità limpide di una "buona politica", radicalmente diversa da quella – pessima – che aveva segnato l´agonia della Repubblica. Mancò l´occasione, forse irripetibile, di proporre una riconoscibile e netta inversione di tendenza, caratterizzata in primo luogo dalla trasparenza delle scelte e degli orientamenti, dal privilegiamento del merito e delle competenze, e così via. Dalla capacità cioè di proporre un modo diverso di "essere italiani", su tutti i terreni. "L´Italia che noi vogliamo" o "rifare l´Italia" sono rimasti slogan vuoti e disattesi. Immediatamente dimenticati dopo le campagne elettorali, e incapaci persino di caratterizzarle in profondità. Si sono logorate e consumate così in larga misura anche le potenzialità che il centrosinistra è stato pur capace di mettere in campo, dall´esperienza dei sindaci a quella delle "primarie". Ed è doveroso ricordare, infine, che non poche indagini giudiziarie lo coinvolgono ora direttamente.
Per questo una reale inversione di tendenza appare oggi molto più difficile di prima, e collocata più di prima nel lungo periodo. Per questo essa esigerebbe una radicalità intellettuale e politica di cui non si scorgono le tracce. Per questo sarebbe così necessaria.


Repubblica Roma 4.3.10
Candidata a giudizio Emma s'infuria
di Giovanna Vitale

Il caso della candidata a giudizio Emma: "Dovevate avvertirmi"
Ma D´Innocenzo si difende: contro di me false accuse
Il rinvio a processo risale a quando era responsabile di una struttura sanitaria a Torino

NON ne sapeva niente, Emma Bonino. Perciò quando le hanno riferito che uno dei suoi candidati nel listino bloccato, Marinella D´Innocenzo, era sotto processo per concussione, è andata su tutte le furie. Forse, se l´avessero informata prima, la direttrice dell´Ares 118 non sarebbe stata inserita - per mancanza di un requisito fondamentale - nell´elenco dei 14 eletti automaticamente in caso di vittoria. Se l´è presa innanzitutto con i suoi: «Perché non me l´avete detto?», li ha rimproverati l´aspirante governatrice del centrosinistra.
«Non è possibile che questa cosa non risultasse da nessuna parte», ha insistito la Bonino, chiedendo un rapporto dettagliato sulla vicenda. Per capire meglio, decidere il da farsi. «Premesso che io sono garantista sempre e, per quanto mi riguarda, si è innocenti fino alla sentenza definitiva», s´è sfogata con Riccardo Milana, responsabile del suo comitato elettorale, «tuttavia dovevo essere informata. Magari avrei fatto una scelta diversa».
Era stato lo staff del Pd a suggerire il nome di Marinella D´Innocenzo, dal 2008 capo dell´Ares 118, rinviata a giudizio l´anno scorso per un episodio accaduto quando dirigeva il Sant´Anna-Regina Margherita di Torino. Il problema, adesso, è tecnico: a listino già presentato, nessuno può essere depennato.
Dottoressa D´Innocenzo, perché quando le hanno proposto di candidarsi lei non ha fatto presente che era stata rinviata a giudizio dal tribunale di Torino per concussione?
«Perché nessuno me l´ha chiesto. E poi non solo la mia vicenda giudiziaria era cosa nota, è stata su tutti i giornali per diverso tempo, ma attiene a un´accusa che non ha niente a che vedere con la gestione della cosa pubblica. Per intenderci non sono sotto processo perché ho amministrato male o perché ho rubato soldi pubblici».
Però l´accusa è pesante: concussione.
«È il prezzo che si paga quando si cerca di fare le cose per bene. Nel caso specifico, quand´ero direttore generale del Sant´Anna, ho avviato una maxi-riorganizzazione dell´ospedale che forse ha dato fastidio a qualcuno».
A chi? Ci spiega perché è stata rinviata a giudizio?
«Io intendevo assegnare l´incarico di responsabile del dipartimento di Oncoematologia pediatrica a una dottoressa che, alla luce del curriculum, era la più brava. Invece il direttore sanitario voleva un´altra persona, che però aveva un curriculum inferiore. A dirlo non sono io, risulta dagli atti».
Hanno deciso di processarla solo per questo? Sembra un po´ poco.
«Il giudice si è basato sulla denuncia del direttore sanitario, il quale ha sostenuto che io avrei fatto pressioni su di lui, minacciandolo addirittura di licenziamento, se non avesse firmato la delibera d´incarico per l´oncologa pediatrica da me indicata».
Magari era una sua amica...
«Vogliamo scherzare? Si tratta di una professionista di prim´ordine, all´altezza dell´incarico delicatissimo - stiamo parlando di bambini malati di tumore - che intendevo affidarle. Una specialista impegnata da anni a lavorare sul trapianto di midollo e sulle cellule staminali».
Evidentemente però il giudice ha creduto al suo accusatore...
«Ha ritenuto che la vicenda dovesse essere approfondita in dibattimento perché c´era la mia parola contro la sua. Peccato però che io quella delibera non l´ho mai adottata e non è stato dato corso all´incarico».
Lo rifarebbe?
«Tutto, dall´inizio alla fine. Io sono orgogliosa della mia vita professionale. Dovunque sono andata ho risanato i bilanci, riorganizzato le aziende, motivo per cui mi sarò fatta dei nemici».
Insisto: se le cose stanno così, perché non lo ha raccontato a chi le ha proposto la candidatura?
«Ma è una cosa che non c´entra nulla col mio profilo! Si tratta di un processo, tra l´altro rimandato più volte, che non formula accuse né di natura appropriativa né di mala gestione. Come direttore generale io rivendicavo, e rivendico tuttora, il diritto di nominare una persona che se lo merita, con il curriculum migliore. A giugno ci sarà la prossima udienza, spero di potermi liberare presto di questo incubo».
Dicono che la Bonino sia molto irritata: se glielo chiedesse farà un passo indietro?
«E perché dovrei? Dimettendomi per motivi elettorali come impone la legge, ho rinunciato a un anno da direttore generale dell´Ares e sono tornata a fare la semplice impiegata. Senza entrare nel merito delle accuse, non si può negare a una persona il diritto costituzionale all´elettorato passivo. Chi come me si è sempre battuta per la legalità e per il merito dovrebbe piuttosto essere premiata».

Repubblica Roma 4.3.10
Bonino incontra gli industriali "Patto per far ripartire il Lazio"
E annuncia: "Sosterrò la candidatura di Roma ai Giochi 2020"
di Chiara Righetti

«Tra un po´ ci fidanziamo, sono ore che siamo insieme», scherza Emma Bonino con Maurizio Stirpe, presidente di Confindustria Lazio, al termine dell´incontro con gli industriali che le hanno presentato la loro agenda per il futuro della Regione. Dalla semplificazione alle infrastrutture, dalla green economy alla sanità, gli stessi punti messi due settimane fa sul tavolo di Renata Polverini. Serena, a chi le chiede come abbia vissuto le ore d´attesa per la decisione sulla lista Pdl, risponde solo: «Intensissimamente, a discutere di sviluppo del Lazio. Una Regione che può ripartire, se metteremo le imprese in grado di lavorare, puntando su reti, internazionalizzazione, ricerca».
Il colloquio con le giunte degli industriali si chiude, spiega Stirpe, con alcuni punti fermi: «Abbiamo condiviso la necessità di un riequilibrio territoriale, di un riassetto istituzionale e di un cambio di metodo, per elaborare insieme un progetto che valorizzi le vocazioni dei territori». Bonino propone una ricetta fatta di «legalità e regole certe, perché anche i programmi più nuovi, se non applicati con nuovi metodi, rischiano di finire male». Sul riequilibrio tra Roma e i territori, ribadisce che vorrà in giunta rappresentanti di tutte le province. Mentre sulla sanità spiega: «Mi conforta aver trovato idee simili alle mie, sia sul metodo (gli Stati generali della salute) che sul merito, quello di coinvolgere il sociale e lasciare che gli ospedali si occupino dei malati». Annuncia che renderà permanente il comitato per il credito alle imprese, ma soprattutto parla di Europa: «Dobbiamo usare di più i fondi Ue, applicare tutte le iniziative per le piccole e medie imprese, internazionalizzare per aprirci a nuovi mercati». Infine cita l´impulso alla green economy e all´economia del benessere e del tempo libero, partendo da innovazione, ricerca, infrastrutture. Gli industriali rilanciano, indicando fra le priorità un´infrastruttura a provincia: la Roma-Latina, la Orte-Civitavecchia, la Salaria, la Latina-Frosinone. Poi salta fuori il nodo nucleare (ospite Polverini, tutto era finito con un «meglio parlarne dopo le elezioni»). «Mi pare che la politica istituzionale non sia favorevole, ma è un tema da approfondire», risponde Stirpe (a domanda) con qualche imbarazzo. Bonino però non si fa pregare, e ribadisce: «Sapete che su questo punto abbiamo una divergenza. E sapete che il mio non è un "No" al nucleare nel Lazio, ma in sé, sul piano costi-benefici».
«Un´occasione fondamentale per metterci in sinergia col mondo - dice invece della candidatura di Roma a ospitare le Olimpiadi 2020 - Non sarà semplice, c´è concorrenza, ma la sosterrò con forza, come ho fatto per l´Expo a Milano». «Un´opportunità straordinaria in una città in trasformazione - concorda Aurelio Regina, presidente della Uir Roma - E un fattore facilitante per completare infrastrutture necessarie e ridare impulso al turismo. Quasi più per il dopo che per i Giochi in sé, che pure sono una vetrina fondamentale. Stimiamo possano portare investimenti per 13,5 miliardi di euro: 3 per Fiumicino, 6 in infrastrutture, gli altri per impianti sportivi e turistici».
In serata Bonino incontra l´Aiop, che rappresenta 113 case di cura convenzionate. «Pubblico e privato - promette - devono essere in grado di operare in una situazione di pari opportunità, con le stesse regole e gli stessi standard». E oltre all´impegno per superare il commissariamento, si dice decisa, in caso di vittoria, a rinegoziare almeno su due aspetti il piano sanitario col governo: per ottenere più fondi dal sistema sanitario nazionale in base all´aumento della popolazione, e per escludere dai conti della sanità la spesa dei policlinici per insegnamento e ricerca.

il Fatto 4.3.10
La versione di Sabatinelli
Il radicale che ha bloccato Milioni. Deunciate altre illegalità in Italia
di Caterina Perniconi

Nella sede del partito radicale a Roma c’è un cartellone con una scritta rossa: “Viva Beltrandi”. Sotto, qualcuno ha scritto a penna “e perché Sabatinelli no???”. Marco Beltrandi è il relatore della delibera che ha stabilito le nuove regole della par condicio. Diego Sabatinelli è l’uomo che si trovava in tribunale quando i delegati del Popolo della libertà non sono riusciti a consegnare le liste in tempo. Entrambi elevati al ruolo di eroi dai radicali, potrebbero aver cambiato il corso degli eventi politici. Dopo la bocciatura da parte della Corte d’Appello di Roma del ricorso presentato dal Pdl, i radicali hanno voluto precisare le loro posizioni. E non solo quelle del Lazio. Perché anche in Lombardia il loro ricorso è stato accolto e in molte altre province si stanno svolgendo procedure legali. A Potenza, Bologna e Arezzo ai radicali è stato negato l’accesso agli atti, e sono scattati successivi ricorsi. “La fase della presentazione delle liste è strutturalmente irregolare – dice Mario Staderini, segretario dei Radicali italiani – le firme vengono fatte in bianco, i candidati inseriti all’ultimo minuto e falsificate le autenticazioni. Questa cosa succede dappertutto, sono dieci anni che lo denunciamo, anche con lo sciopero della fame di Emma Bonino, e finalmente i casi clamorosi di Roma e Milano ci hanno aiutato a dimostrarlo”.
Dopo la denuncia per violenza privata a carico dei militanti radicali presentata dal Pdl a Roma, è scattata subito una contro denucia per calunnia.
E nel corso di una lunga conferenza stampa, i testimoni Diego Sabatinelli e Atlantide Di Tommaso hanno raccontato, insieme all’avvocato Giuseppe Rossodivita, la loro versione dei fatti: “Sabato mattina – ricostruisce l’avvocato – Diego Sabatinelli si trovava in tribunale a Roma, all’interno dell’ufficio elettorale centrale, come delegato della lista Bonino-Pannella. Alle 11.45 tutte le liste erano già state presentate, tranne quella del Pdl. A mezzogiorno scadeva il termine e alle 12.30 i testimoni Atlantide Di Tommaso e Gerardo De Rosa, delegati della lista socialista, notano Alfredo Milioni, delegato del Pdl, avvicinarsi all’area delimitata dall’ufficio elettorale, proveniente dall’esterno del Tribunale, con della documentazione tra le mani”.
Di Tommaso ha tenuto a precisare di aver notato Milioni perché lo conosceva personalmente, in quanto ex militante socialista, e quindi di averlo riconosciuto.
“Di Tommaso e De Rosa – racconta ancora l’avvocato – avevano osservato lo strano atteggiamento dell’altro delegato del Pdl, che nonostante potesse entrare nella stanza libera per la consegna, aspettava fuori, rimaneggiando il materiale. De Rosa ha ripreso la scena del delegato chino sullo scatolone col telefo-
nino, suscitando la reazione di quest’ultimo che ha urlato la frase ‘e mò lo stai a fa apposta’. A questo punto De Rosa avverte i carabinieri dello strano comportamento e dell’ingresso tardivo di Milioni. Ma mentre i delegati discutono l’accaduto con le forze dell’ordine, i due funzionari del Pdl si allontanano spontaneamente e piuttosto furtivamente, uscendo dall’area delimitata. Si sono ripresentati alle 12.45 e hanno tentato di entrare con la documentazione mancante, ma era già intervenuto il magistrato e la zona era stata fatta presidiare dai carabinieri. A quel punto c’è stata una discussione tra il magistrato, i delegati delle varie liste e il senatore Pallone del Pdl, arrivato sul posto. Solo in quel momento Di Tommaso e Sabatinelli hanno protestato simbolicamente contro l’accaduto sdraiandosi a terra”.
Ma anche per un altro motivo: “Mi hanno insegnato che a pensar male si fa peccato – dice Sabatinelli – e dato che i carabinieri facevano entrare i dipendenti, ho temuto che qualche documento potesse sfuggire di mano in mano. Allora mi sono sdraiato, anche se ero praticamente seduto, perché il busto era eretto e non intralciavo i dipendenti, per vedere meglio. É evidente che questa non è violenza. E abbiamo anche le immagini, registrate dal videotelefono di De Rosa. Noi chiediamo da anni il rispetto della legalità durante queste procedure, Non sarà difficile individuare chi mente”.

il Fatto 4.3.10
L’Europa si vergogna dell’Italia
“Reporters sans Frontières” ci ha retrocessi al 49esimo postoper autonomia dell’informazione
di Alessandro Cisilin

Bruxelles. Ogni volta che il governo e la maggioranza zittiscono l’informazione sale il rumore non appena si varca il confine di Domodossola. La cornice più immediata è quella europea, dove l’Italia ha un passato – quello di uno dei sei paesi fondatori delle Comunità – nonché un presente demografico ed economico – sicché, nonostante la crisi, piaccia o meno rimane tra i paesi “principali” dell’Unione – e questo spiega le titubanze burocratiche rispetto a un’eventuale reazione concreta, ma al contempo non frena lo sconcerto e la correlata marginalizzazione politica del nostro Paese. Sul tavolo della Commissione si appesantisce il plico delle denunce di violazioni alla libertà di informazione, così come al Consiglio d’Europa a Strasburgo pende un esposto degli ex eurodeputati Lucio Manisco e Giuseppe Di Lello. L’esecutivo europeo fa trapelare insofferenza, e un mese di stop elettorale all’informazione televisiva viene percepito come l’ennesima offesa berlusconiana alla libertà di stampa, che col Trattato di Lisbona – che fa propria la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea – diventa giuridicamente vincolante. Di più, il caso italiano viene avvertito come un cavallo di Troia tanto nelle relazioni esterne – vedi le battaglie sulla libertà di informazione in Iran – quanto nelle convulse trattative per imporre un po’ di decenza democratica agli ultimi arrivati nell’Unione e ai paesi candidati. I vertici politici continentali per il momento evitano commenti espliciti per evitare le consuete reazioni rovinose dei media di Palazzo Chigi – tipo “l’’Europa è anti-italiana” lamentano che “i Trattati non consentono di muoverci in tema di libertà di informazione” – fatto contestato dalla maggioranza dei giuristi europei – e attendono quantomeno un’indicazione dell’europarlamento. Nei mesi scorsi l’assemblea, con soli tre voti di scarto – e tanto di scandalo per le presunte “pressioni indebite” sul voto
decisivo di alcuni deputati moderati aveva bocciato una risoluzione che impegnava la Commissione a legiferare in materia. Ora l’ennesima azione di censura sta mobilitando i parlamentari centristi (a cominciare dai liberali italiani) all’ennesima iniziativa parlamentare, da avviare già alla plenaria della prossima settimana. Una risoluzione parlamentare peraltro giace già, ed è quella votata quasi all’unanimità dall’Europarlamento nel 2004, che auspicava addirittura, contro il conflitto di interessi e le sue conseguenze istituzionali, la sospensione dell’Italia dalle riunioni del Consiglio Europeo, fatto del tutto inedito nella storia continentale. Bruxelles palesa
dunque il suo rinnovato allarme per la tenuta democratica italiana, a causa anzitutto dei bavagli all’informazione, ma non se la sente ancora di esautorare Palazzo Chigi in materia. Fuori dai protocolli diplomatici parlano le agenzie indipendenti. L’organizzazione americana “Freedom House” ha declassato l’Italia a paese solo “parzialmente libero”, onta concessa in Europa solo alla Turchia. La francese “Reporters Sans Frontières” nell’ultimo anno ha ugualmente retrocesso il nostro paese ai minimi europei, ovvero al quarantanovesimo posto in tema di libertà di informazione. Il suo vertice, Jean-François Julliard, commenta ora sdegnato: “il silenzio elettorale è una misura pericolosa, inverosimile e assurda”. E ci spiega l’ovvio: “E’ anzitutto missione dell’emittenza pubblica quella di dar voce e permettere il confronto pubblico a tutte le posizioni in campo”.

l’Unità 4.3.10
Se il soldato Omar torna dalla sua guerra
La scarcerazione del giovane di Novi: tornare alla vita dopo i più atroci crimini se si accetta che tutto sia scaturito dai vissuti. E con un codice intelligente
di Luigi Cancrini

Mi capita spesso di pensare ad Omar, ad Erika e a tanti altri giovanissimi autori di reati orrendi come a degli alberi colpiti da uno tsunami che li ha piegati e sbattuti a terra con un’assoluta mancanza di pietà. Travolti da qualcosa che è accaduto intorno a loro prima (molto prima) che dentro di loro rubando loro quelli che avrebbero dovuti essere gli anni più straordinari della loro vita. E in questo modo li penso, mi dico, perché conosco, lavorando, loro invece che quelli che da loro sono stati uccisi e perché so, conoscendoli quel poco che è possibile conoscere un altro essere umano quando così poco conosciamo noi stessi, che il loro reato, l’omicidio che hanno commesso ha avuto comunque origine nel buio di una infelicità di lunga durata, di una sofferenza che non ha trovato parole per raccontarsi, di un dolore cupo che, visto o non visto, consapevole o lontano dalla coscienza, li ha avvitati a lungo prima che la passione cieca di un momento li spingesse a un gesto che si svolge nell’atmosfera sospesa del sogno. Quando la mente se ne va per suo conto e perde, con una leggerezza folle, il contatto con la realtà.
Difficile non pensare, certo, che un atteggiamento di questo tipo sia basato su una pretesa, fantastica anch’essa e sogno in qualche modo anch’esso, di comprendere e giustificare tutto quello che accade nella mente di un essere umano. Il problema è, tuttavia, che questo modo di guardare alla storia della persona ed a come a questa storia il fatto terribile che (le) è accaduto si collega, è l’unico che permette di aiutarci a sentire e a far sentire a colui o a colei che lo ha commesso la responsabilità di averlo commesso. Sta nella visione laica di una psicologia che cerca le origini del reato nella serie complessa dei vissuti che l’hanno preceduto, penso, l’unica possibilità che abbiamo di aiutare la persona a riprendere possesso di ciò che ha fatto. Di sentirsene autore, infelice e parziale ma sostanzialmente responsabile. Di iniziare un percorso che la renda capace di donare alla sua coscienza e alla memoria dell’altro un pentimento autentico. Un pentimento da cui si rinasce ad una vita che è insieme nuova e vecchia perché segnata per sempre da quello che comunque è accaduto.
L’ultima riflessione da fare a proposito di Omar, di Erika e di tanti altri alla cui cura ed alla cui riabilitazione tanti moralisti hanno difficoltà ancora oggi a pensare prima che a credere, è quella che riguarda il modo curioso in cui con tanta facilità gli stessi moralisti accettano e riconoscono la possibilità di uccidere collegata all’uso delle armi da parte di persone che si impegnano o impegnano altri in una guerra sentita e proposta come «giusta» o «santa». C’è qualche cosa, in realtà, di mostruoso nell’idea per cui uccidere sotto l’ombrello di bandiera per cui si combatte facendo il lavoro del soldato sia un gesto normale, destinato a non incidere sui valori morali di noi tutti e sull’equilibrio psichico di chi le armi le usa. Lo dicono, inesorabilmente, i dati sul numero, altissimo e difficile da capire altrimenti, dei soldati che uccidono o che si uccidono a casa loro, quando tornano da un fronte di guerra in cui hanno ucciso o contribuito ad uccidere altri esseri umani, come dal fronte delle guerre fra Israele e i paesi arabi come ben raccontato in un film che andrebbe proiettato in tutti i licei del mondo, il titolo del film è «Il valzer del Bashir», dedicato ai rimorsi di chi coprì il massacro di Sabra e Shatila. Insegnando il male oscuro che resta nell’anima di chi a queste guerre ha partecipato senza sapere fino in fondo la gravità di quello che in esse, anche per sua mano, accadeva.
Omar che torna alla vita dopo un lungo periodo di reclusione e di cura è questo e molto altro. È il segno di come un codice penale intelligente (il nostro codice penale minorile) ed il lavoro appassionato di tanti operatori straordinari possono arrivare a salvare delle vite, considerandole per quello che sono, fiori delicati sopravvissuti ad uno tsunami.

il Fatto 4.3.10
Liberi pistoleri in libero Stato
La Corte suprema Usa dà il via a un’ulteriore diffusione delle ami personali
di Angela Vitaliano

Il giorno del giuramento di Barack Obama, un negozio di armi di Fort Knox fece registrare una vendita record di armi e, in tutti gli Usa l’incremento fu del 49%. Cifre che raccontano la realtà di un paese in cui la figura del cow boy armato fino ai denti, non è mai tramontata e il possesso delle armi è considerato ancora essenziale per la “legittima difesa”. Da oltre 30 anni molti Stati, attraverso leggi restrittive, hanno messo al bando le armi non autorizzate e, soprattutto, la possibilità di girare armati nei locali pubblici. Questo fino al giugno del 2008 quando la Corte Suprema è intervenuta nel caso “Heller versus DC”, in cui Dick Heller, residente a Washington chiedeva, in ottemperanza al Secondo Emendamento, che gli venisse concesso il possesso di una pistola. Il distretto di Columbia, di cui Washington fa parte aveva, sulle armi, la legislazione più rigida di tutti gli Usa. Fino a meno di due anni fa, la legge dello Stato non consentiva il possesso di armi in casa e, a coloro che avevano una licenza, faceva esplicito divieto di tenerla con il colpo in canna. Per comprendere la rigidità del provvedimento, bisogna tener presente la realtà di Washington in cui aree ad alto tasso di criminalità, dove il “grilletto facile” era diventato una norma, restano numerose. La Corte Suprema sostenne, con una spaccatura al suo interno, il punto di vista di Dick Heller, evidenziando come la messa al bando delle armi fosse in contrasto con il Secondo Emendamento. Una decisione che fece sussultare chi ha ancora negli occhi le immagini di stragi come quella della scuola di Columbine e altre scene di simile violenza. Inevitabilmente, da allora, in molte altre città, qualcuno s’è svegliato con spirito guerrigliero e ha deciso di seguir l’esempio di Heller. Così ieri la Corte Suprema ha ascoltato il caso di “McDonald versus Chicago” in cui, Otis McDonald, chiedeva il rispetto della sua libertà di possedere un’arma. Sebbene la decisione definitiva sia attesa per giugno, è sembrato chiaro che la Corte Suprema fosse di nuovo spaccata sulla decisione e, purtroppo, incline a dar torto all’avvocato della città dell’Illinois che “candidamente” ha ricordato come l’annullamento del bando potrebbe mettere in serio pericolo la vita di cittadini innocenti. Un punto rispetto al quale i giudici hanno obiettato che le conseguenze negative di un provvedimento non possono indurre a non esigerne il rispetto. Se il possesso delle armi, dunque, viene equiparato alla libertà di espressione, rientrando cioè fra i
diritti inalienabili della persona, il giudice non può autorizzare limiti o divieti in nome di possibili conseguenze negative. Ora, se è vero che la Corte ha mantenuto una coerenza di pensiero, mantenendo lo stesso principio per rigettare un tentativo di limitazione del diritto di aborto e per autorizzare la città di Washington a procedere con i matrimoni omosessuali, è pur vero che quella della liberalizzazione delle armi resta una spina nel fianco per l’amministrazione Obama che, finora, non ha lanciato nessuna campagna particolare come temuto dai “pistoleros”. La verità è che la preoccupazione di molti cittadini è cresciuta in maniera esponenziale soprattutto dopo che alcuni Stati, come la Virginia, hanno autorizzato il possesso delle armi in locali dove si vende l’alcol. Il limite che vieterebbe di servire alcolici al possessore di un’arma non sembra rassicurare coloro che non vedono di buon occhio l’accoppiata “alcol/armi”. È partita, inoltre, una campagna per chiedere agli Starbucks di vietare esplicitamente l’ingresso alle persone armate. La catena (a differenza di altre che hanno aderito immediatamente) non sembra disposta a cedere gettando una pesante ombra sul suo presentarsi come luogo di relax. Forse, da oggi, sarà il caso di chiamarli Saloonbucks e andarci con lo sceriffo.

il Fatto 4.3.10
Prima causa di morte non naturale
Se togliersi la vita diventa un record spagnolo
di Alessandro Oppes

I suicidi hanno superato gli incidenti stradali come prima causa di morte non naturale. Non è più un problema esclusivo dei paesi scandinavi o dell’Europa dell’est. È successo, per la prima volta nel corso dell’anno 2008, anche in Spagna. Un dato, quello diffuso dall’Istituto nazionale di statistica, che non ha mancato di provocare sconcerto, anche se c’è già chi tenta di spiegarlo semplicemente come una conseguenza della maggiore sicurezza stradale, dimostrata da un calo netto – meno 20% – degli incidenti. Ma non basta per spiegare un fenomeno che comincia ad apparire inquietante. Anche perché, se i suicidi sono stati quasi 3500, il numero di persone che hanno tentato di togliersi la vita è dieci volte superiore. Ci provano, molto più spesso, le donne, che in genere ricorrono all’intossicazione con medicinali, ma in realtà, nella maggior parte dei casi, i morti sono uomini, che fanno ricorso a metodi più violenti: le statistiche parlano di un tasso di suicidi, ogni 100 mila abitanti, di 11 per il sesso maschile e 3,5 per quello femminile.
Insomma, anche se si tratta di cifre che distano ancora molto da quelle di paesi come la Lituania (che occupa il primo posto al mondo secondo l’Oms, con 68 morti ogni 100mila abitanti), la Russia, il Kazakhstan, l’Ungheria o la Slovenia, ce n’è comunque abbastanza per far scattare il campanello d’allarme. Finisce il mito della Spagna come paese assimilabile all’America latina o a quelle regioni del mondo (in particolare i paesi musulmani e una parte di quelli asiatici) in cui la tendenza al suicidio è stata sempre considerata un fenomeno del tutto marginale.
È cambiato qualcosa negli ultimi anni? Probabilmente sì. Depressione, stress, consumo di alcol e droghe: l’aumento di tutti questi fattori di rischio ha contribuito ad avvicinare pericolosamente la Spagna agli standard dei paesi del nord Europa e dell’est. Gli esperti non mancano di rilevare un dato, forse il più preoccupante di tutti: ormai da anni le statistiche indicano che il paese si è consolidato in maniera stabile in vetta alle classifiche dei maggiori consumatori di cocaina del mondo. E anche altre droghe, come l’hascisc e l’ecstasy, hanno invaso il mercato con conseguenze che gli psichiatri ritengono devastanti sulla stabilità psicologica. Anche perché l’età media di chi fa ricorso a queste sostanze tende sempre di più ad abbassarsi, fino a comprendere persino un numero consistente di adolescenti. Un problema che, finora, le autorità sanitarie hanno invano tentato di affrontare con una serie di campagne di sensibilizzazione. La questione, infatti, è molto più complessa e ha a che fare con le difficoltà della lotta alla criminalità organizzata: la Spagna è stata individuata da tempo dai grandi cartelli del narcotraffico come la più facile porta d’accesso europea per la droga da distribuire in tutto il continente. Ma quello che doveva essere soprattutto un luogo di transito ha finito per trasformarsi in centro privilegiato di consumo, anche per la facilità di disporre di sostanze stupefacenti a prezzi inferiori rispetto a quelli degli altri paesi europei.
Secondo il presidente della Fondazione spagnola di psichiatria e salute mentale, José Giner, il settore sanitario si dovrebbe impegnare più a fondo “nella prevenzione dei fattori di rischio legati alla condotta suicida”. Oltre al consumo di droghe, indicato come uno dei più pericolosi, ai primi posti figurano anche l’alcolismo, la depressione e lo stress. L’importanza della prevenzione, sottolineata con forza nel corso dell’ultimo congresso nazionale di psichiatria, si spiega anche con un dato inquietante: più della metà delle persone che si sono suicidate nell’ultimo anno, appena un mese prima della morte si erano rivolte al loro medico di famiglia per confidargli, magari a volte in maniera confusa, un problema che poi le ha portate al gesto estremo. Saper interpretare un gesto, un segnale, una frase – gli psichiatri ne sono convinti – potrebbe aiutare a salvare diverse vite.

il Riformista Lettere 4.3.10
Un'altra voce rinchiusa in Iran
Caro direttore, a Teheran si può arrestare un regista, insieme alla moglie e alla figlia. Rinchiudere la sua voce. Jafar Panahi, che con Il palloncino bianco e Il cerchio ha saputo raccontarci l’Iran dopo lo scià e prima, durante e dopo la “rivoluzione” islamica di Kho- meyni, non deve parlare, non de- ve esprimersi. Non può dire al- l’Europa che cosa sta succedendo nell’antica, gloriosa Persia, culla di linguaggio e identità. Fu pro- prio Reza Pahlavi a voler ripristi- nare per il paese il nome “Iran”, da “ariano”: per distinguere quel- la terra dalle altre nazioni arabe. E forse è vero: la lingua persiana è dolce, i modi iraniani sono gen- tili. Ora l’Iran si distingue, inve- ce, per violenza e censura. E noi, nel nostro “ariano” Occidente, re- stiamo a guardare. Senza vedere.
Paolo Izzo