sabato 7 gennaio 2006

La Stampa, 02.01.06
Il coraggio è femminile
di Elena Loewenthal


Un breve viaggio ma una grande storia, quella delle tre donne italiane rapite ieri in Yemen, con il loro cammino di andata e ritorno: consegnate dai rapitori alle autorità locali di Mira come prima tappa di un rapido, quasi fulmineo ritorno alla libertà, loro hanno preferito ricongiungersi ai compagni uomini ancora prigionieri. Hanno, anzi, insistito per restare fra i rapiti, restituendo così al maschile plurale quella sua generica accezione che il più delle volte risulta, almeno per il sesso debole, un poco frustrante: chi l’ha inventata, la regola per cui uomini e donne insieme portano una desinenza plurale maschile?
Ma loro tre quella piccola, maschilistica devianza grammaticale l’hanno riempita di senso. Di un coraggio dai molti significati. Innanzitutto, il coraggio – virile quasi per antonomasia! – di sfidare il pericolo, anzi di buttarvicisi a capofitto anche se le circostanze ti offrono una comoda via di scampo. Invece di tornare a quella libertà che è, per noi figli dell’Occidente, ormai un privilegio scontato, queste tre donne hanno preferito tornare alla prigionia del sequestro. Cioè, a una vita in equilibrio su un filo d’acrobata.
Ma un altro, ancora più forte e importante coraggio, racconta questa storia di andata e ritorno. Questa storia di donne: proprio quelle donne che la legge tribale cui i rapitori appartengono proibisce di far prigioniere. Loro, le rapite, hanno deciso di violare (e far violare!) questa legge, in nome di un’altra. Quella che invece di considerare uomini e donne su due fronti opposti dell’esistenza li fa partecipi di un comune destino. Nel bene e nel male. Alla faccia dei rapitori, delle violenze d’ogni segno. Alla faccia, soprattutto, di una storia che per millenni ha fatto del suo meglio per metterli su due fronti opposti, gli uomini e le donne. E a sfidare una storia così, che in tanti luoghi della terra è ancora un presente, di coraggio ce ne vuole davvero tanto: bisogna proprio averlo tenuto in serbo, come hanno fatto le donne, per molto tempo.




La Stampa, 02.01.06
CENTROSINISTRA E LAICITA’
Non snobbate quei radicali rompiscatole
di Riccardo Barenghi


E’ un errore non solo elettorale ma politico e culturale, che i leader del centrosinistra - a cominciare dallo stesso Prodi - trattino con sufficienza, freddezza, sostanziale antipatia i nuovi arrivati. Ossia i radicali di Pannella, Bonino e Capezzone uniti ai socialisti di Boselli nella «Rosa nel pugno». Ha ragione lo storico leader radicale a protestare (come ha fatto venerdì scorso sul «Corriere della sera») per come vengono appunto maltrattati. E il problema non sono le troppe firme che le nuove forze politiche devono raccogliere per potersi presentare alle elezioni, sforzo che per ora non viene affatto aiutato dal resto dell’Unione. Magari fosse solo questo. E non è nemmeno l’amnistia, questione sulla quale si è manifestata nel centrosinistra un’eccessiva prudenza dettata dal timor panico di perdere voti (non a caso Prodi parla solo di indulto).

Il problema è che i radicali e i socialisti danno fastidio, parecchio fastidio, perché non mollano su un questione cruciale e scottante: la laicità dello Stato. Loro ne sono i suoi più strenui difensori (in compagnia del presidente Ciampi, che infatti l’ha voluta citare l’altro ieri). Tanto che non ne trovi uno che confessi di credere in Dio o in non meglio identificate entità soprannaturali, di aver scoperto in tarda età una vocazione religiosa o di essere sempre stato fedele nell’intimo. Anzi, più le gerarchie vaticane intervengono nella sfera politica e più loro rilanciano la sfida («aboliamo il Concordato»). Nel metodo come nel merito: la fecondazione assistita, la libertà di ricerca, la difesa dell’aborto, le coppie di fatto sono battaglie che li hanno sempre visti in prima fila, accompagnati non sempre e non da tutti i partiti del centrosinistra. Anzi, da alcuni (come la Margherita di Rutelli e nella fattispecie di Prodi), dichiaratamente osteggiati.

In gioco non ci sono le convinzioni etiche o religiose di questo o quel partito, questo o quel leader. In gioco c’è il futuro governo e il suo rapporto con il Vaticano. Prodi e Rutelli, ma in una certa misura anche Fassino e Bertinotti, non vogliono una campagna elettorale sull’onda di un scontro con la Chiesa. Avranno le loro ragioni. Ma la sorda resistenza a far entrare le tesi radical-socialiste (che poi sono condivise da milioni di elettori del centrosinistra, e anche da qualcuno dell'altra parte) nella discussione sul programma del loro eventuale governo, appare irragionevole e pure ipocrita. Quantomeno dovrebbero parlarne, fosse solo per scontrarsi. Invece si preferisce snobbarle, nasconderle sotto il tappetto. Una fatica oltretutto inutile, visto che si tratta di questioni all’ordine del giorno, nel vero senso della parola: sollevate un giorno dalla Politica, un altro dalla Chiesa, un terzo all’unisono. Cavarsela con un’alzata di spalle e «uffa ‘sto Pannella che rompiscatole», non sembra una strategia politica all'altezza. Perché stavolta come altre in passato (basti pensare al timido Pci di Berlinguer di fronte al divorzio), Pannella sta rompendo le scatole giuste.



Le Scienze, 02.01.06
Se la fame vien di notte
Favorisce l'obesità, e non solo...


Quello di svegliarsi ogni notte e sentire un irrefrenabile impulso a mangiare è un problema che – secondo uno studio dell’ Università della Pennsylvania - riguarda l’1,5 per cento della popolazione. La percentuale sale però decisamente se ci si restringe a quella parte della popolazione che ha già notevoli problemi di peso: questo comportamento affligge infatti ben l’8,9 per cento degli obesi. A sua volta, l’abitudine alle abbuffate notturne pone le premesse per gravi problemi di linea: la percentuale degli obesi fra quanti soffrono della sindrome del mangiatore notturno tocca infatti il 57,1 per cento.
L’aspetto più interessante della ricerca è però quello che mette in luce come questo comportamento sia fortemente correlato a situazioni di forte stress o a uno stato di depressione, manifesta o, più spesso, latente. Per questi pazienti è inoltre molto superiore il rischio di ricorrere a sostanze d’abuso, e in particolare a eccedere nell’assunzione di alcol: il problema interessa infatti il 30,6 per cento dei mangiatori notturni.
Secondo John P. O'Reardon, uno degli autori dello studio, chi soffre di questo disturbo farebbe bene a considerarlo un campanello d’allarme per il proprio benessere psicologico, mentre, per converso, gli psichiatri dovrebbero prestare maggiore attenzione a questa possibile complicazione nella terapia dei loro pazienti depressi, non foss’altro perché un forte incremento di peso, incidendo sull’immagine di sé che ha il paziente, può ostacolare il superamento della malattia.
© 1999 - 2006 Le Scienze S.p.A.




Le Scienze, 03.01.06
Se il parto è difficile, l'anoressia è in agguato
Lo afferma una ricerca condotta presso l'Università di Padova


Alcune specifiche complicazioni nel corso della gravidanza (come l'anemia o il diabete mellito), durante il parto o immediatamente dopo espongono il neonato al rischio di sviluppare nel corso degli anni una anoressia nervosa. Anche i problemi cardiaci neonatali, uno stato di ipotermia e una scarsa reattività agli stimoli, appaiono associati a una maggiore incidenza dell'anoressia. Situazioni di infarto placentare, di difficoltà di alimentazione, di peso ridotto alla nascita e un parto molto veloce sembrano invece aumentare la predisposizione a sviluppare il disturbo bulimico.
È questo il risultato di uno studio pubblicato sull'ultimo numero degli Archives of General Psychiatry - condotto da Angela Favaro, dell'Università di Padova, che ha seguito le vicende di oltre seicento persone nate nella clinica universitaria di quella città fra il gennaio 1971 e il dicembre 1979.
Quanto al meccanismo d'azione attraverso cui le complicazioni ostetriche potrebbero favorire i disturbi dell'alimentazione, Angela Favaro ipotizza che sia in primo luogo legato a eventuali danni dovuti a una situazione di ipossia, ovvero a un insufficiente apporto di ossigeno, a carico dei centri cerebrali, ancora in sviluppo, destinati al controllo della fame. A essi concorrerebbero però anche situazioni di alimentazione squilibrata nel corso della gravidanza e nel periodo neonatale.
© 1999 - 2006 Le Scienze S.p.A.




Liberazione, 04.01.06
Baget Bozzo, la Cina e noi
di Alfonso Gianni


Dalle colonne de Il Giornale Gianni Baget Bozzo apre una polemica, una volta tanto possiamo dire garbata, con Fausto Bertinotti, a seguito dell’intervista rilasciata a Rina Gagliardi su Liberazionedel 31 dicembre, dedicata per buona parte al recente viaggio in Cina di una nostra delegazione di partito. Fa eccezione al tono raziocinante dell’articolo, la chiusura immotivatamente sentenziosa, nella quale il segretario del Prc viene definito non marxista e accostato Proudhon (nel senso della “miseria della filosofia”). Ma pazienza, la vena polemista di Baget Bozzo doveva alfine emergere e anche per questo il suo articolo merita qualche considerazione e riflessione.
Il primo spunto polemico è fornito dall’accusa di non chiarire come mai il paese del comunismo sarebbe diventato quello del “perfetto capitalismo”. In effetti Bertinotti non lo spiega perché non sostiene affatto questa tesi nella sua intervista. La Cina non era il paese del “perfetto comunismo” realizzato, così come oggi non è immediatamente e banalmente assimilabile ai principali paesi capitalisti e neppure ai modelli astratti del capitalismo, così come sono stati definiti dalle teorie sia agiografiche che contestative.
Lo stesso gruppo dirigente del Partito comunista cinese ci ha ripetuto più volte, sulla scia di quanto disse Deng Hsiao-Ping e ribadito nel XVI congresso tenutosi nel 2002, che la costruzione del socialismo attraversa un periodo lunghissimo della storia umana, che può durare anche decine di generazioni.
Lungo questo percorso la Cina considera sé stessa, attraverso le affermazioni dei suoi attuali dirigenti, un paese in via di sviluppo e il modello economico che ha adottato un tipo originale e autoctono di “mercato socialista”.
Il carattere ossimorico di questa affermazione è fin troppo evidente e meriterebbe di per sé un’ampia riflessione. Quello che ci appare chiaro, e così si palesa anche al più distratto viaggiatore, è la netta prevalenza nella realtà del sostantivo sull’aggettivo. Il prodotto finale del lavoro, la merce, viene ostentata, la fatica umana e i conflitti sociali occultati.
Delle fabbriche che abbiamo visitato in questo dicembre 2005 abbiamo potuto vedere solo i prodotti finali (che non hanno nulla da invidiare, anzi, a quelli analoghi prodotti nell’occidente più sviluppato).
Quando mi recai in Cina 27 anni fa, poche settimane prima della svolta che determinò l’attuale corso della politica e dell’economia cinesi, mi furono mostrati i processi di lavorazione, operaie e operai concretamente al lavoro, medici e infermieri che operavano nelle sale operatorie degli ospedali e gli esempi potrebbero continuare. La differenza non può non essere colta ed è netta e esplicita.
Che dunque quella cinese sia una società compiutamente socialista è escluso dai suoi stessi dirigenti. L’argomento in discussione è casomai se in questo lunghissimo percorso i vari passaggi siano coerenti con il fine dichiarato, il socialismo, o meno; ovvero, come lo stesso Bertinotti ha affermato nei colloqui finali a Pechino, se si stiano costruendo concretamente elementi di socialismo nella società cinese o meno, visto che comunque noi stessi escludiamo la possibilità teorica e pratica della edificazione del socialismo in un solo paese.
Ed è precisamente su questo terreno d’analisi – mi pare assai concreta e tutt’altro che idealistica, a differenza di quanto afferma Baget Bozzo - che interviene il giudizio sulla attuale globalizzazione capitalistica.
Porsi al suo interno non è affatto una “opzione inevitabile”, come non lo è l’entrata nel Wto, le cui enormi contraddizioni si sono fatte sentire anche nella recentissima sessione di Hong Kong, della quale sarebbe però sbagliato parlare di un completo fallimento a differenza delle precedenti. La globalizzazione capitalistica può essere contrastata e combattuta senza venire meno al dovuto realismo della politica.
Gli stessi rapporti economici internazionali possono essere concepiti e praticati in modo alternativo a quello della ricerca del minor salario e del massimo profitto possibili.
Cosa c’è infatti di più reale di quel largo, tenace e persistente movimento mondiale contro il neoliberismo e la guerra, che sono i due pilastri della globalizzazione nella sua attuale fase, che fece coniare al più autorevole giornale nordamericano il termine di “seconda superpotenza mondiale”? Cosa c’è di più reale di quell’insieme di paesi che vanno dall’Africa, all’America Latina fino all’Asia che chiedono proprio alla Cina, come su un altro versante all’Europa, di giocare un ruolo ben diverso negli scenari mondiali per evitare che essi vengano letteralmente strangolati dalle logiche spietate della corsa al massimo profitto su scala mondiale? Altro che visione localistica e parcellare del conflitto.
Nello stesso tempo il carattere realistico e non utopico di una contrapposizione alla globalizzazione capitalistica è indubbiamente dato anche dalla quantità di conflitti locali, la cui valenza assume però caratteri sempre più universali, capaci spesso di spuntare delle vittorie sul campo. Quando questo avviene non solo è dimostrata la praticabilità e l’efficacia del conflitto, ma anche la possibilità di costruire delle zone liberate, delle “casematte” avrebbe detto Gramsci, dalla logica dell’impresa. Diversamente l’assunzione delle regole e degli interessi della globalizzazione capitalistica porta, qui sì consequenzialmente, a occultare e negare alla radice il conflitto.
«Lo sciopero non è esplicitamente ammesso né negato dalla legislazione del nostro paese, ma noi non pensiamo che sia la forma migliore per fare valere i propri diritti» ci
hanno detto i dirigenti dei sindacati cinesi (che raccolgono 137 milioni di iscritti) in quello che è stato sicuramente il più deludente degli incontri avuti. Da questa concezione non nasce alcun elemento di socialismo.
Baget Bozzo non ha torto nel ricordare che la concezione dei diritti della persona ha radici e effetti ben diversi nella cultura prevalente in Occidente e in quella affermatasi lungo i secoli in Oriente. Si tratta di un argomento affascinante, ma troppo denso per un breve articolo. Ma ciò che più schiaccia i diritti alla libera espressione e al conflitto
dei cittadini cinesi non sono solo le antiche e radicate tradizioni, quanto e più i modernissimi vincoli posti dall’economia di mercato e dalle esigenze dell’impresa.
Ma la Cina, caro Baget Bozzo, non è solo questo. Spazi di conflitto si stanno aprendo e non sono solo circoscritti aitantissimi scontri, in qualche caso degenerati in repressioni sanguinose come quello di qualche settimana fa, che contrappongono le autorità ai contadini che chiedono un indennizzo maggiore per le loro terre destinate ad una rapida urbanizzazione. E’ di pochi giorni fa lo sciopero riuscito di oltre 400 giornalisti contro il licenziamento di un reporter.
L’editoriale del settimanale Notizie dalla Cina, pubblicato dall’agenzia ufficiale di proprietà del governo Xinhua, espone, con il pretesto degli auguri di fine anno, veri e propri cahiers de doleance, nel quale si chiedono ad esempio moderazione nelle condanne a morte, tutela della vita dei minatori, equità nel pagamento dei salariati che vengono dalle campagne, attenzione alle condizioni dell’ambiente e altro ancora. Tutte rivendicazioni che entrano di fatto nel grande fiume delle lotte contro il neoliberismo e il conseguente neoautoritarismo. Segno evidente che anche tra i ceti intellettuali che occupano i posti delicatissimi della comunicazione di massa, dopo la reazione all’ingessatura ideologica dei libretti rossi, si fa strada un nuovo umanesimo (rendaozhuyi) congiunto ad una moderna sensibilità sociale. Il cammino dunque riprende e il comunismo, quello che c’è e quando c’è, è più che mai “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”.
Quanto al nostro presunto ritorno a Proudhon, in luogo di Marx, lascerei davvero perdere, caro Baget Bozzo. Non era forse Bettino Craxi, da lei molto stimato, che rivalutò il primo a scapito del secondo? Come si suole dire, diamo dunque a Cesare quel che è di Cesare.





Liberazione, 04.01.06
Manicomi
Storace? Noi lo conosciamo già


Gentile redazione, i propositi di fine anno del ministro Storace farebbero sorridere se non lo conoscessimo come già Presidente della regione Lazio. All’onorevole Storace le associazioni dei familiari e scientifiche di Viterbo fecero un’interrogazione su un caso di un ragazzo ricoverato in un istituto privato accreditato, interrogazione che si dovette ripetere dopo un anno per la sopravvenuta morte del paziente. Né alla prima, salvo una letterina di facciata in cui ci garantiva il suo interessamento, né alla seconda interrogazione ci fu risposta. Oggi capiamo bene perché. Perché, usando l’alibi della legge 180 che non funziona, si vogliono caldeggiare gli affaristi senza scrupoli che lucrano sul disagio mentale, mascherando dietro a strutture abbellite ed infiorate i nuovi manicomi. La legge 180, inglobata poi nella legge 833, prevede la presa incarico con i Centri di salute mentale aperti 24 ore su 24, dovrebbero esserlo e ci dovrebbero essere dei letti per consentire di superare le crisi ed evitare il ricovero, le strutture a vario grado di protezione, il Trattamento sanitario obbligatorio, con delle garanzie per il paziente, il reinserimento sociale e l’inserimento lavorativo, il coinvolgimento delle famiglie. Tutto questo esige un territorio dotato di comunità, case alloggio, case famiglia e soprattutto di personale, quindi risorse che sono state da sempre sottratte e negate alla salute mentale. Il ministro Storace pensasse e agisse per far rispettare la normativa esistente, gli standard previsti dal Progetto obiettivo nazionale per la salute mentale, ad attivare le risorse per la completa
applicazione della legge 180, per le strutture intermedie, a togliere il blocco delle assunzioni, ad assicurare la continuità terapeutica per provvedere ad eliminare quel calvario a cui sono sottoposti pazienti e famigliari ogni tre mesi, ogniqualvolta cioè cambia il medico. Proponiamo al ministro Storace di essere il “Brubaker” della situazione di farsi ricoverare, in incognito, in un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, di farsi contenere farmacologicamente, di farsi legare, di farsi prendere in carico da un Centro di Salute Mentale e, magari, di farsi rinchiudere in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario, suggeriamo ad esempio Montelupo Fiorentino. Dopo parleremo dei suoi propositi di mettere mano alla legge 180.

Associazione familiari e sostenitori sofferenti psichici della Tuscia Psichiatria democratica
Viterbo


Liberazione, 04.01.06
Ma quale complotto
di Rina Gagliardi


Nella “Società dei sublimi maestri perfetti”, organizzazione segreta di tipo più meno massonica, fondata nell’Ottocento da Filippo Buonarroti, vigeva la seguente ferrea regola: chi si iscriveva, ignorava i veri obiettivi finali, strategici, della consorteria, la cui conoscenza era riservata soltanto a chi ne occupava i (per altro ristrettissimi) vertici.
Succedeva così che per molti adepti, la “Società” era, appariva, dedita a scopi più o meno patriottici o risorgimentali; invece, il gruppo dirigente sapeva che il suo scopo finale era il comunismo.
Che c’entra questa storia (della quale era un raffinato cultore Alessandro Natta) con la bufera che si è scatenata nell’affare Unipol- Bnl-Ds? C’entra, non poco, proprio a proposito del tema più citato in questo periodo: il rapporto tra morale e politica. Certo, il Buonarroti era abissalmente lontano dai
politici attuali - era, in sostanza, un cospiratore di professione, un terrorista, un estremista giacobino o giù di lì. A suo modo, però, appunto molto estremista, mise in pratica un’idea molto contemporanea: la separazione totale tra dirigenti e diretti, tra chi conosce e chi non conosce, tra chi agisce e chi progetta. In breve: fu un precursore - sia pure in forme che oggi ci appaiono grottesche oltre che profondamente autocontraddittorie - della distinzione tra morale e politica. Proprio quella menzogna che i nostri “machiavellini” in trentaduesimo citano e stracitano ad ogni piè sospinto. Proprio la pseudoteoria secondo la quale la sfera pubblica non solo possa, ma “debba” funzionare in termini del tutto diversi, pressoché antitetici, da quella privata e personale.
Proprio quella logica riaffermata e ribadita da dirigenti diessini pur rispettabilissimi, come Bersani o Sposetti - i quattrini non hanno odore e non sono né di destra né di sinistra, sono solo e sempre quattrini. Necessari alla politica più dell’aria che respira. Se dovessimo, d’istinto, trarre una lezione da questa ingarbugliata matassa, che si va vieppiù ingarbugliando, sarebbe in fondo molto semplice: l’errore sta tutto lì, in quel “non olet” brandito come una Weltaschaung rispettabile, anzi come legge “sovramorale”, alla quale accomodarsi sic et simpliciter. Se dovessimo spiegare in termini razionali perché la tempesta che avvolge da mesi la Quercia ci inquieta, non poco, sarebbe alla fine solo un sospetto: non solo il movimento cooperativo, come ha detto Bruno Trentin, «ha perso l’anima », ma la politica come tale, e la politica di sinistra, sta correndo esattamente lo stesso rischio.
****
Perché, se no, il corpo militante diessino sarebbe così “sgomento”, secondo le dichiarazioni di Antonio Bassolino? Per un verso, non ha nulla da dubitare, in realtà, sulla moralità personale dei suoi dirigenti - Piero Fassino e Massimo D’Alema sono persone serie e perbene, sono “cittadini esemplari”, come stava scritto sulla tessera del Pci di tanti anni fa. Per un altro verso, non nutre ingenue illusioni d’antan sul proprio partito, e sulla sua “diversità” assoluta - diamine, il Pci non fu sciolto a suo tempo perché era ancora troppo “diverso”? Eppure, la doppia (e pur tardiva) scoperta che il movimento cooperativo è dedito, “come tutte le altre imprese” capitalistiche, allo spregiudicato gioco di manovre, scalate e guerre finanziarie tipico del capitalismo attuale, e che il partito maggiore della sinistra appoggia questa condotta senza se e senza ma, in una “sim-pateia” così profonda che porta facilmente a sbagliare alleanze epersone, è di quelle che non possono che destare sgomento e diffondere, come si diceva una volta, disorientamento di massa. Che è poi anche la paura di finir male, assorbiti dai postdemocristiani, irrisi dai giornali amici come da quelli nemici, insomma colpiti e affondati.
Quel segretario di partito che, in spregio ad ogni seria deontologia giornalistica, finisce “nudo al telefono” su un giornalaccio, senza per altro dire nulla né di davvero compromettente né di giudiziariamente rilevante, fa comunque male - puoi strillare finchè vuoi che pubblicare il verbale di un’intercettazione è una schifezza, un obbrobrio, una scelta che dovrebbe sempre essere perseguita (noi così la pensiamo, ndr.), ma la schifezza è successa, ti pesa addosso come una pietrata. E restituisce di te, come minimo, un’immagine di debolezza.
In molti la sensazione più forte è che sono saltati non solo i confini tra morale e politica, ma tra economia e politica.
La politica ancella delle banche, delle cordate economiche, degli interessi di non si capisce chi. Ma un normale, normalissimo militante diessino lo sapeva che stava lavorando, in ultima istanza, “per” Consorte invece che per il suo partito? Non lo sapeva, proprio come gli adepti della “Società dei sublimi maestri perfetti”.
***
Sembra davvero inutile rifugiarsi, a questo punto, nella sindrome del complotto, come stanno facendo i massimi dirigenti della Quercia. Quale complotto? Sul più autorevole quotidiano italiano, il Corriere della sera è squadernato, da mesi, un progetto politico chiarissimo: pericoloso, anzi mortale, ma del tutto trasparente.
L’idea è quella di dar vita a un nuovo assetto del sistema politico italiano che espelle da sé, organicamente, la sinistra, anche in termini generici o di pura memoria storica. L’idea è che il Partito Democratico in fieri, così come il Partito Conservatore in divenire, diventino pure varianti, l’una un po’ più verso sinistra l’altra affacciata più decisamente a destra, di un unico Partito Neoborghese, che detta i contenuti essenziali, dalla politica economica (il liberismo, l’interesse d’impresa) alla collocazione internazionale. Quale complotto? Secondo questo progetto, i Ds, certo, devono scomparire, farsi triturare in polvere impalpabile, ridursi ad un’appendice organica di Rutelli-Veltroni-Montezemolo, con la benedizione di Carlo De Benedetti.
Certo che Massimo D’Alema deve esser fatto fuori - o accontentarsi della sua Sant’Elena - in quanto “oggettivamente” portatore di passato, di memoria, di postcomunismo. Ma è tutto scritto, tutto detto, tutto portato avanti con la inesorabilità della lotta politica, tipica delle fasi elettorali come già è questa in avanzato svolgimento.
Tutto, a questo punto, i Ds possono fare fuorché gridare alla cospirazione.
Né possono pretendere, mentre continuano a sostenere l’operazione Bnl e la sua piena “legittimità”, che sia loro riservato uno statuto speciale di salvaguardia dalle leggi - spietate e spurie - dello scontro dei poteri. Non possono fare, alla fin fine, come gli ucraini o i polacchi che vogliono l’occidente, le bellezze del liberismo, la competizione dell’economia, salvo poi rivendicare il loro diritto, chissà perché, ad avere da Putin il gas “a prezzi politici”, e non di mercato - è solo, naturalmente, una suggestione analogica.
La verità è che, per l’ennesima volta, i Ds sono in mezzo al guado - oltre che in mezzo alla bufera. Negli ultimi anni di percorso politico, la loro strategia ha galoppato verso l’ideologia occidentale e neoliberale: solo che l’approdocoerente e logico di questo percorso è proprio l’autoscioglimento, quello “definitivo” e senza rimpianti: ma a questa scelta di cancellazione qualcosa, nel profondo, e per fortuna, continua ad opporsi, a resistere. E’ pur vero che, come dice Cesare Salvi, il partito si è messo da solo “nella tagliola”, ma la reazione naturale alla tagliola sarebbe quella di uscirne fuori, di liberarsi, di mettere in atto una terapia seria di “risanamento”.
Che potrebbe, audacemente, incominciare là dove il dolore, oggi, è più intenso: in politica, la “questione morale” è oggi essenziale. Non è l’onestà dei singoli, è, appunto, la probità della politica. Dell’essenza di una politica di trasformazione, radicale o “riformista” che sia, i suoi fini generali, i suoi mezzi, i suoi soggetti. La sua coerenza.





La Stampa, 04.01.06
Scienziate al sorpasso
DELLA RICERCA SONO POCHE (E RESTANO AI MARGINI)


SI può parlare di un approccio femminile al sapere scientifico? Il Centro Eleusi-Pristem dell’Università Bocconi di Milano porta avanti da alcuni anni uno studio sul rapporto tra donne e scienza che ha già prodotto due momenti di sintesi: la mostra itinerante "Scienziate d’Occidente. Due secoli di storia" e il quaderno "Donne di scienza, cinquantacinque biografie dall’antichità al 2000". Analizzando la vita delle scienziate, non emerge uno stereotipo, tanto meno quello di una donna poco femminile, troppo cerebrale, a volte stravagante e magari un po’ ridicola. Le caratteristiche comuni sembrano essere altre: da sempre le donne hanno privilegiato il campo della divulgazione e questa vocazione si esprime tuttora, affiancando frequentemente l’attività di ricerca a quella didattica. Rispetto al passato, nei paesi industrializzati, c’è un maggior riconoscimento delle capacità delle donne. Nei Paesi del Nord Europa meno donne sono impegnate nella ricerca e più in politica. In Italia la presenza femminile nella scienza sta aumentando, anche se richiede ancora sostegno e incentivazioni.
I dati presentati in settembre nel Sesto Rapporto del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario (Cnvsu) parlano chiaro: il numero di donne che conseguono la laurea è maggiore di quello degli uomini. Dieci anni fa le donne costituivano circa il 53 per cento dei laureati, oggi sono il 56 per cento, e cresce il numero di donne che scelgono matematica, scienze e tecnologie (dal 13,9 per cento relativo al 1998/1999 al 15,4 per cento del 2003/2004), riducendo il divario tra i due sessi in questo campo. Al Politecnico di Torino è in corso il progetto "Donna: professione ingegnere" per l’attribuzione di borse di studio a studentesse che si iscrivono ai corsi di Ingegneria, con priorità per quelli di elettrica, meccanica, aerospaziale, informatica e telecomunicazioni, caratterizzati da una minore presenza femminile. Il bando fa riferimento alla necessità di contrastare stereotipi sociali molto radicati secondo cui la professione dell’ingegnere, per attitudini intellettuali e comportamentali, si adatterebbe di più agli uomini. Anche l'Università di Trento ha avviato un progetto (LA.DO.TE: Lavoro, Donne, Orientamento e Tecnologia) per favorire le condizioni di accesso e la presenza delle donne nel settore dell'Information Technology. Comunque, una volta laureate, per le donne l’inserimento a pieno titolo nel mondo della ricerca non è semplice e spesso le aspetta un lungo periodo di precariato. L’ultima rilevazione del gruppo Genere&Scienza, attivo dal 2000 presso il Centro per la Ricerca Scientifica e Tecnologica di Trento (ITC-irst), mostra che il numero di ricercatrici all’interno dell’istituto si è accresciuto (11 per cento nel 1990 e 22 per cento alla fine del 2004) ma la situazione non è cambiata riguardo al tipo di contratto, che non raggiunge i livelli più elevati. I dati europei confermano la tendenza osservata in Italia: nella maggior parte dei paesi dell’Unione, il numero di donne laureate è proporzionalmente superiore a quello degli uomini laureati, ma il mercato del lavoro in campo scientifico è dominato dalla presenza maschile. Secondo il rapporto ETAN del 2000, più del 60 per cento dei ricercatori in biologia sono donne, ma dirigono solo il 6 per cento dei laboratori che contano.
La Commissione Europea ha avviato misure volte a raggiungere l’integrazione di genere nel Sesto Programma Quadro (dal 2002 al 2006) e indagini statistiche per studiare il fenomeno. A sua volta, l'UNESCO ha promosso un progetto di rete internazionale chiamato Ipazia (scienziata vissuta dal 370 al 415, fatta uccidere dal vescovo Cirillo) e la creazione di un sito internet: www.womensciencenet.org come strumento di comunicazione tra le ricercatrici. Il problema è sotto osservazione anche negli Stati Uniti. Dichiarando che "ancora esistono delle barriere per la piena partecipazione delle donne, non soltanto nelle scienze e in ingegneria, ma pure nella carriera accademica" (rappresentano la metà dei laureati con Ph.D, ma appena un quarto dei professori), i leader di nove delle più prestigiose istituzioni americane come le Università di Harvard, Princeton, Stanford, o il Massachusetts Institute of Technology (MIT) hanno annunciato, il 6 dicembre scorso, che saranno fatti sforzi per rimuovere gli ostacoli. Il mondo della ricerca è stato messo in subbuglio, un anno fa, dalle affermazioni di Lawrence Summers, Presidente di Harvard, riguardo a "ragioni biologiche"che spiegherebbero il minor peso femminile in campo scientifico. Ad ogni modo, Summers ha avviato la formazione di due "task force" per indagare sulla presenza delle donne nell'intera struttura universitaria e nelle facoltà di Scienze e Ingegneria. Al MIT, guidato da Susan Hockfield, sembra che le cose vadano meglio. L'ultimo rapporto interno mostra un incremento del numero delle donne in posizioni di rilievo. E considerato che il MIT è un serbatoio di Premi Nobel, è un indicatore che fa sperare per il futuro.
Rosalba Miceli




La Stampa, 04.01.06
Un cielo azzurro regola i bioritmi
LA LUCE BLU STIMOLA L’EMISSIONE DI CORTISOLO, L’ORMONE CHE, CON LA MELATONINA, PRESIEDE ALL’ALTERNANZA SONNO/VEGLIA


DALL’ATOMO alle stelle, tutto si muove, pulsa, si trasforma seguendo un ritmo. Nel caso degli esseri viventi, il più evidente, con la durata di un giorno, scandisce l’alternarsi della veglia e del sonno, la pressione sanguigna, la secrezione ormonale, l’escrezione renale, la temperatura corporea e altri parametri vitali. E’ il ritmo circadiano, dal latino «circa dies». L'orologio biologico che regola il ritmo circadiano si trova nei neuroni del nucleo soprachiasmatico nell’ipotalamo, posto alla base del cervello. Come tutti gli orologi, anche il nucleo soprachiasmatico, deve però essere sincronizzato con l'ambiente esterno e in particolare con la rotazione del nostro pianeta su se stesso, che determina il giorno e la notte. Per essere efficiente, l’organismo deve inoltre sincronizzarsi con il variare del rapporto giorno/notte determinato dal susseguirsi delle stagioni e dalla latitudine. I disordini dei ritmi circadiani che intervengono nella regolazione del sonno e dei parametri vitali sono spesso causa di patologie. Chi è obbligato a cambiare frequentemente il turno di lavoro o chi per professione o diletto vive in modo disordinato, è più esposto a malattie e infortuni. Il segnale ambientale in grado di sincronizzare l'orologio biologico é la luce, in particolare la radiazione blu con lunghezza d’onda attorno ai 480 nanometri (480 miliardesimi di metro). In pratica, il colore del cielo in una bella mattina tersa e brillante. Questa scoperta è recente. Fino al 1997 si pensava che fosse solamente l’intensità luminosa e non una particolare lunghezza d’onda a sincronizzare il ritmo circadiano. Inoltre, era convinzione comune che i meccanismi alla base della sincronizzazione dell’orologio biologico non differissero fondamentalmente da quelli della funzione visiva. In realtà, le cellule e gli eventi biochimici attivati dall’azione sincronizzante della luce blu sono diversi da quelli del sistema visivo. Noi vediamo gli oggetti grazie alla luce che gli oggetti stessi riflettono formandone l'immagine. Questa è focalizzata dal cristallino dell’occhio sulla retina, dove eccita molecole della famiglia delle opsine nei coni e bastoncelli, cioé nelle cellule fotosensibili. I coni e i bastoncelli trasformano la luce in un impulso che viaggia nel nervo ottico e raggiunge la corteccia cerebrale occipitale, dove si elabora l’immagine. La luce blu che sincronizza i ritmi circadiani, invece, non viene recepita dai coni e bastoncelli ma da un altro tipo di cellule fotosensibili che risiede nella parte anteriore della retina. Sono cellule di tipo nervoso che hanno in superficie una particolare opsina sensibile alla luce blu che si chiama melanopsina e che trasforma la luce blu in un segnale nervoso convogliandolo nel nucleo soprachiasmatico. Questo meccanismo non forma immagini coscienti ma regola l’orologio biologico, che a sua volta trasmette le informazioni all’intero organismo tramite il sistema nervoso simpatico e la secrezione di alcuni ormoni. In pratica, il nostro organismo sa che é notte (o giorno) in modo autonomo e non-cosciente. Gli ormoni principali regolati da questo meccanismo sono la melatonina e il cortisolo. La melatonina è prodotta nella ghiandola pineale solo in assenza di luce e costituisce il messaggero biochimico della notte in grado di influenzare tutti gli organi del corpo. Il cortisolo, invece, è stimolato dalla luce blu; lo stimolo avviene al mattino al risveglio e l’ormone prepara l’organismo all’attività fisica e mentale. L’esposizione alla luce nel modo disordinato che lo stile di vita moderno spesso impone non favorisce un buon ritmo biologico. I costi sociali e sanitari di questa situazione cominciano solo ora ad essere considerati, ma appaiono notevolissimi. A questi risultati scientifici si é arrivati grazie a ricerche originate dall’osservazione che molte persone non-vedenti hanno un normale ritmo di melatonina e cortisolo, un regolare ritmo del sonno e degli altri parametri vitali. In queste persone, l’esposizione alla luce durante le ore notturne è in grado di inibire la produzione di melatonina esattamente come nelle persone vedenti. In non-vedenti che invece hanno disturbi del sonno e un ritmo di melatonina disordinato, la luce non causa nessun effetto. Si è allora capito che i meccanismi fisiologici della visione cosciente sono diversi da quelli che regolano i ritmi circadiani. L’uso sconsiderato di sorgenti di luce artificiale - l’inquinamento luminoso - produce effetti negativi di tipo culturale, scientifico ed ecologico denunciati da varie società di astronomi e di astrofili. A questi si dovrebbero ora aggiungere gli effetti sul nostro orologio biologico e sulla nostra salute.
(*)Istituto di patologia sperimentale, Locarno, Svizzera
Georges Maestroni (*)






Corriere della Sera, 04.01.06
La ricetta per essere felici? Il lavoro
Troppa pigrizia, invece, alla lunga genera insoddisfazione
I ricercatori dell'Università di Goteborg ne sono sicuri: impegnarsi a fondo per raggiungere un obiettivo è la cosa che appaga di più


GOTEBORG (Svezia) - Il segreto della felicità? Di sicuro una vincita alla lotteria non dispiace a nessuno e fa molto bene al morale - oltre che al portafogli - ma sembra che in questo caso l'effetto benefico duri troppo poco e lasci presto spazio al ritorno dell'insoddisfazione. La formula della felicità, comunque, esiste veramente, e a quanto pare il segreto del buon vivere è sempre stato a portata di mano: il lavoro.
FATICA E OBIETTIVI - Proprio così: dopo aver studiato le dichiarazioni rese in proposito da centinaia di persone di tutto il mondo, i ricercatori dell'Università di Goteborg sono giunti alla conclusione che la cosa che più rende felici è lavorare sodo. Potrà sembrare strano, ma pare che non ci sia nulla di più gratificante dell'impegnarsi professionalmente e dare il meglio di sé per raggiungere un obiettivo. A patto ovviamente che il lavoro in questione sia quello giusto per noi, perché altrimenti può trasformarsi in un vero incubo e dare luogo ad ansie e frustrazioni.
ATTIVITA' E RELAZIONI SOCIALI - Secondo Bengt Bruelde, autore della ricerca svedese, è comunque importante essere attivi, tenere la mente occupata e darsi da fare. Sempre. Perché troppa pigrizia, alla fine, genera insoddisfazione e - quindi - infelicità. Anche le relazioni sociali giocano un ruolo fondamentale ai fini del raggiungimento della felicità: come spiega Averil Leimon – della British Psychological Society – accanto al lavoro duro non devono mancare buoni rapporti con famiglia, amici e colleghi, considerati «valido vaccino contro la depressione».
Alessandra Carboni





Liberazione, 05.01.06
Il ventre materno conteso da Chiesa e Stato
Il saggio di Marina D’Amelia e quello di Marcela Jacub raccontano la storia della rappresentazione
della maternità: un discorso pubblico in cui dio e legge convergono nel definire, stabilire regole
di Beatrice Busi


Con la modernità il ventre materno è diventato uno dei campi di competizione preferiti negli esercizi di biopotere di Stato e Chiesa, molto interessati al disciplinamento e al controllo di corpi e anime.
Se, come ha suggerito Benedetto XVI, è vero che lo “sguardo benevolo e amoroso degli occhi di Dio” si posa sull’essere umano fin da quando è ancora informe nell’utero materno, è però indubbio che su quella “piccola realtà ovale e arrotolata” si sono già posati anche gli occhi del grande Leviatano, il “Dio mortale”. L’inquietante consapevolezza delle donne di essere state oggetto di questo incrocio di sguardi indiscreti, viene accresciuta dagli interessanti testi di due storiche, Marina D’Amelia e Marcela Jacub.
Due modi di fare la storia della maternità e della rappresentazione del materno molto diversi tra loro ma che insieme ci raccontano efficacemente come la Legge e il discorso pubblico convergano nello sforzo incessante di definire non solo regole, comportamenti e codici morali delle madri, ma anche nel giudicare e stabilire che cosa sia la maternità. Insomma se “Dio ci scruta e ci conosce”, anche lo Stato fa piuttosto sul serio.
In Italia la storia delle donne si è occupata del tema molto proficuamente, producendo ricerche e studi importanti tra le quali La storia della maternità pubblicata nel 1997 e curata dalla stessa D’Amelia per Laterza e Madri.
Storia di un ruolo sociale, un testo curato da Giovanna Fiume e pubblicato da Marsilio nel 1995. Già allora, dieci anni prima del referendum sulla procreazione medicalmente assistita e degli attacchi scomposti alla legge sull’interruzione di gravidanza, l’introduzione di Giovanna Fiume delineava i contorni della posta in gioco. «Attorno alla maternità si sta svolgendo, in questo scorcio di millennio, una dura battaglia che vede coinvolti molti e agguerriti combattenti. (…) Gerarchie ecclesiastiche, governi, scienziati, giuristi e magistrati, persino organismi internazionali, combattono, prima che per imporre il proprio punto di vista per orientare scelte demografiche, politiche sociali o altro, sul piano delle rappresentazioni culturali che, a ben guardare, fanno perno attorno alla delicata questione della riproduzione della specie. E, dunque, alle donne che biologicamente sono predisposte a tale compito».
Recentemente, Marina D’Amelia con il suo libro La mamma pubblicato da Laterza (pp. 331, euro 14,50), ci ha offerto un altro notevole contributo, dimostrando come non solo nel “maternalismo fascista” ma anche in età liberale la rappresentazione pubblica della maternità sia stata un’importante tecnologia discorsiva nella costruzione dell’identità nazionale.
Infatti all’origine del “nation building” all’italiana emerge quella figura della “madre eroica e sacrificale” che avrà una lunga egemonia come rappresentazione idealtipica. D’Amelia ne descrive assestamenti e adeguamenti anche attraverso schizzi biografici e vissuti familiari di donne esemplari per la cultura e la società italiana, dal Risorgimento alla Resistenza: il ruolo pubblico delle “madri patriottiche” come Maria Mazzini Drago e Adelaide Cairoli, o lo scambio polemico di lettere tra Sibilla Aleramo e la fondatrice dell’Unione femminile Ersilia Majno sul libro Una donna, ma anche il ruolo dell’esaltazione della figura di Rosa Maltoni, “una donna all’antica”, nella mitopoiesi fascista del Duce.
L’impero del ventre della storica e femminista francese Marcela Jacub, tradotto in Italia da Ombre corte (pp.214, euro 17,50), ci riconduce invece all’azione direttamente intrusiva dello Stato nei legami genitoriali e il suggestivo titolo del libro si riferisce all’autoevidenza di cui pare dotato il giudizio di senso comune che la madre di un bambino sia colei che l’ha partorito. In realtà, sul piano giuridico si tratta di un’acquisizione recente e per imporla «è stato necessario ricorrere a mezzi estremi: sorvegliare le gravidanze, mettere in galera gli “impostori”, proibire determinati accordi, strappare i bambini dalle mani degli usurpatori; in breve far capire che la questione biologica del parto è un vero e proprio affare di Stato».
Ripercorrendo i mutamenti del diritto francese dall’Ancien régime ai giorni nostri e ricostruendo lunghi e ingarbugliati processi che sono divenuti anche clamorose vicende di cronaca, Jacub ci mostra come il “voyeurismo giudiziario” abbia preso corpo in una vera e propria “polizia della maternità”. Se il Codice napoleonico si basava sull’istituto del “possesso di stato” ed è stata la riforma francese del 1972 ad instaurare il cosiddetto “impero del ventre” fondato sul parto, il regime di verità che governa la legittimazione dei legami di filiazione è in continua ridefinizione e la sfida lanciata dalle nuove tecnologie riproduttive all’antico adagio “mater semper certa est” ha complicato di molto la questione.
Ma uteri in affitto e contratti di gestazione, donazioni di ovuli e di sperma, fanno semplicemente da lente d’ingrandimento su un dato storico: la maternità lungi dall’essere una relazione naturale è una “costruzione giuridica come un’altra”. Del resto, come sottolinea la studiosa francese, «il fascino del diritto sta nella sua capacità di mostrarci come ciò che ci sembra la cosa più evidente e personale poggi in realtà su impalcature istituzionali complesse, impalcature che è sempre possibile smontare e rimontare».
Il suggerimento suona attualissimo nel clima politico italiano e mette sull’avviso ad intraprendere battaglie limitandosi alla difesa di leggi dello Stato, più o meno laico che sia, soprattutto se in gioco c’è la libertà delle donne.
La lezione che ci viene dalla storia è che il piano delle rappresentazioni simboliche e quello giuridico sono entrambi continuamente coinvolti nell’irregimentazione dei comportamenti sociali. Si tratta dunque di concentrare l’azione politica sulla potenza affermativa della cultura e dell’etica delle donne, sedimentate nei decenni ma sempre in continua interrogazione per non lasciarsi mai (sor)prendere dalle tecnologie del potere.






Liberazione, 05.01.06
Il documento dell’assemblea “Usciamo dal silenzio”
La libertà femminile all’origine della vita


Il 14 gennaio saremo in piazza perché:
1) C’è un evidente e insidioso attacco alla 194, una legge che funziona, autorizzando l’aborto senza favorirlo, proteggendo la salute delle donne e diminuendo drasticamente il numero delle interruzioni di gravidanza. L’indagine voluta dal ministro Storace, le proposte di guardiani della morale e di dissuasori nei consultori, i ripetuti violenti attacchi delle gerarchie ecclesiastiche all’autodeterminazione – oltre a penalizzare la professionalità degli operatori –rappresentano un’intimidazione nei confronti delle donne, soprattutto delle giovanissime e delle straniere.
2) Siamo convinte che la I nascita di una nuova vita parli della relazione tra i sessi e della responsabilità maschile nella riproduzione e nella sessualità.
Dagli uomini non vogliamo solidarietà, ma il riconoscimento di essere parte in causa.
Chiunque si arroghi il diritto di imporre una gravidanza non desiderata in termini di divieti, aiuti e controlli, considera le donne una categoria sociale a potestà limitata.
3) Difendere la 194 significa guardare più lontano, alla libertà di donne e uomini di decidere di sé, delle proprie vite e di quelle a venire.
Dello stesso orizzonte di libertà - in cui includiamo il concetto fondamentale di laicità dello stato - parla la manifestazione nazionale di Roma “Tutti in pacs”, con la quale abbiamo costruito un ponte ideale. E non possiamo dimenticare che se l’aborto resta una scelta mai desiderata, ma talvolta necessaria, la libertà di progettare la propria vita e – se lo si desidera - di diventare madri, è messa a rischio dall’incertezza e dalla precarizzazione del lavoro.
Non vorremmo che la precarietà diventasse il contraccettivo del futuro.
Dopo il 14 gennaio ci saremo ancora per chiedere alla politica impegni preelettorali su questi temi e per continuare il lavoro di rete attraverso il sito www.usciamodalsilenzio. org e le assemblee autoconvocate.




La Stampa, 05.01.06
DALLA CLONAZIONE ALLA PREDETERMINAZIONE DEL SESSO: LE RISPOSTE DI RICERCATORI E FILOSOFI A UN QUSTIONARIO SULLA RIVISTA ONLINE «EDGE»
La paura fa cento
Gli scienziati raccontano le idee pericolose
di Giovanna Zucconi


Ci aspetteremmo che i cervelloni vedano più in là del classico uomo della strada, e paventino per l'umanità insidie invisibili e inimmaginabili per noi comuni mortali. Invece, interpellati dalla rivista online Edge su quale sia l'idea o la prospettiva che li spaventa di più, oltre cento scienziati e filosofi hanno fornito risposte che in apparenza rientrano nella sensibilità corrente. Tutte insieme, però, le loro repliche sono un appassionante e anche inquietante autoritratto collettivo: così alcune fra le migliori menti della nostra generazione pensano il mondo, il futuro, i rischi per il pianeta, così pensano il proprio pensiero.

Fra i pericoli, alcuni hanno, prevedibilmente, tirato in ballo l'ambiente, altri la manipolazione genetica e le biotecnologie, e uno perfino, come destabilizzazione suprema, la solitudine. Assoluta: niente telefono, email, televisione, giornali, e ovviamente nessun contatto con altri esseri umani. Soli, e in silenzio.

Per quanto spaventevole e surreale possa apparire l'idea di ventiquattrore senza connessione alcuna, se non con i propri pensieri o con la mancanza dei suddetti, considerare la solitudine addirittura una minaccia per l'umanità così come la conosciamo sembrerebbe una provocazione. E infatti lo è. Sul filo del paradosso, così ha risposto il neurobiologo californiano Leo Chalupa alla domanda posta dalla rivista Edge: qual è, secondo lei, l'idea più pericolosa oggi in circolazione? Pericolosa non perché è falsa, ma perché potrebbe rivelarsi vera? Chalupa argomenta appunto che l'iper-informazione che ci bombarda è una forma di totalitarismo, serve a intasare l'attività neuronale, cioè a impedirci di pensare. E che un'intera giornata di solitudine sarebbe perciò eversiva: molti, pensando e ripensando, metterebbero in discussione la società in cui viviamo.

Risposta non banale e anzi dirompente, come si vede: perché tutt'altro che banale è la domanda. Mentre già sul web germinano sterminati dibattiti su quale sia l'idea scientifica attualmente più pericolosa, l'idea tout court più fertile è stata senz'altro quella di porre la questione, e a una comunità di grandi firme del pensiero contemporaneo. L'autore dell'iniziativa è John Brockman, mitico agente letterario newyorchese, il quale ha fondato e dirige l'elitario cyber-salotto Edge, nel quale dialogano virtualmente biologi e scrittori, economisti e futurologi. Già l'anno scorso pose un'unica domanda (in che cosa crediamo senza poterlo provare?) a un gruppo di scienziati: le risposte sono appena uscite in volume, presso l'editore inglese Free Press, con introduzione di Ian McEwan.

Ma in un mondo dominato dalla paura, da mille diverse paure, la domanda per il 2006 sembra ancora più centrale. Certo, la storia della scienza è costellata di scoperte che con il senno di poi appaiono rivoluzionarie, mentre all'epoca sembrarono tremende minacce. Copernico e Darwin sono gli esempi più ovvi. E oggi, quali sono le idee più pericolose, cioè forse davvero rivoluzionarie? Secondo John Brockman, oggi per la prima volta l'umanità possiede «gli strumenti e la volontà per intraprendere uno studio scientifico della natura umana».
Dimostrare scientificamente che cos'è un uomo: questa sarebbe la paura più paurosa e insieme più entusiasmante, quella che contiene tutti i possibili timori dello scienziato. Gli interventi che stanno affluendo, dal primo gennaio, nel sito www.edge.org sembrano confermare, e declinare in tante prospettive diverse, appunto questa sgomentevole sensazione di vertigine: di baratro, oppure di orizzonte da esplorare.

Alcuni descrivono un brivido metafisico, perplessità e timori tutt'altro che razionali e «scientifici». L'idea che spaventa più di tutte Rodney Brooks, direttore del Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory del MIT, è che l'uomo sia solo: che cosa accadrà, si domanda, se scopriremo che la trasformazione spontanea della materia inanimata in materia vivente è straordinariamente improbabile?
Risposta: «scoprire che siamo soli nel sistema solare non sarebbe uno shock. Ma soli nella galassia, o peggio ancora nell'universo, ci spingerebbe alla disperazione. Cioè verso la religione, come àncora di salvezza». John Horgan, giornalista scientifico, paventa (a sorpresa) che l'uomo non abbia un'anima. Charles Seife, altro giornalista e professore alla New York University, teme «il nulla». Il neuroscienziato Robert Provine sostiene che l'idea più pericolosa è quella più difficile da accettare: che non esista trascendenza. E molti altri riflettono intorno a temi spirituali e religiosi, di gran lunga l'argomento più frequentato dagli scienziati interpellati da Brockman. Magari per dichiarare pragmaticamente (come lo scrittore David Bodanis) che, se fosse vera, l'idea islamista dell'Occidente al capolinea sarebbe la più spaventosa di tutte.

È invece prevedibile, perché condiviso dalle masse di non-scienziati, il timore (della psicologa Diane Halpern) per il potere di scegliere il sesso dei propri figli. Altrettanto per le minacce ambientali, riassunte ad esempio dall'australiano Paul Davies (paura che la battaglia contro l'effetto serra sia perduta) o, sul fronte opposto, dal caporedattore di Nature Oliver Morton (paura di ammettere che il pianeta non è in pericolo).

Apocalittici e ottimisti si contrappongono su ciascuno dei grandi temi scientifici. Pochi però, fra noi non-scienziati abituati a ricorrere spensieratamente a pillole e pasticche, si sarebbero aspettati l'unanimità che neurobiologi e psichiatri (uno per tutti: Samuel Barondes di San Francisco) mostrano contro il Prozac e tutti i farmaci che alterano la personalità; o più in generale, contro l'illusione della medicina di ottenere l'immortalità. Pochissimi, sempre fra noi proni alle idee dominanti, avrebbero l'impudenza di indicare, come fa Mihalyi Csilszentmihalyi, il libero mercato come male supremo. E ancora meno, forse, coloro che pensano, con il filosofo Daniel Dennett, che esistano ormai più idee che cervelli per ospitarle ed elaborarle... Esclusi i presenti, naturalmente: perché le idee pericolose e affascinanti raccolte da Edge trovano al contrario elaborazioni fervide e provocanti. Come dimostrano le fulminanti sintesi, qui raccolte, di quattro pensatori già noti al pubblico italiano: Steven Pinker, Richard Dawkins, Jared Diamond e Howard Gardner.
giovannazucconi@gmail.com

Il razzismo ha basi scientifiche
La rivoluzione del genoma umano ha scatenato un enorme dibattito sui pericoli della clonazione. Penso sia un fuoco di paglia. Quando la gente capirà che clonazione non significa resurrezione dell'anima né produzione di organi di ricambio (...), nessuno la vorrà. Altrettanto, quando la gente capirà che i geni hanno anche effetti negativi (per esempio, se innalzano il quoziente di intelligenza in un figlio, lo predispongono contemporaneamente a malattie genetiche), i «bambini su ordinazione» perderanno ogni attrattiva. Invece, l'idea di individuare differenze genetiche alla base delle caratteristiche psicologiche di interi gruppi di persone, è molto più verosimile e molto più incendiaria. E attualmente la comunità scientifica non è attrezzata per fronteggiarla.
Steven Pinker psicologo, Harvard University

Studiare il cervello minaccia la morale
La responsabilità e l'espiazione come principi morali sono incompatibili con una visione scientifica del comportamento umano. In quanto scienziati, crediamo che il cervello umano, benché non funzioni come un computer, sia certamente governato dalle leggi della fisica. Quando un computer funziona male, non lo puniamo. Individuiamo il problema e lo risolviamo, in genere sostituendo un componente danneggiato dell'hardware oppure del software. (...) Invece quando un essere umano si comporta male, vengono sbandierati i concetti di colpa e di responsabilità. Ma una visione davvero scientifica, meccanicistica, del sistema nervoso, non rende insensata l'idea stessa di responsabilità?
Richard Dawkins Biologo evoluzionista, Oxford University

I popoli primitivi fanno la guerra
I popoli primitivi danneggiano l'ambiente e fanno la guerra. Perché questa idea è pericolosa? Perché in troppi oggi credono che i popoli primitivi non vadano maltrattati perché sono troppo buoni o saggi o pacifici per fare le cose cattive che facciamo solo noi, cittadini cattivi degli stati cattivi. Questa idea è pericolosa perché se crediamo che sia questo il motivo per non maltrattare le popolazioni primitive, allora dimostrarne la veridicità significa giustificare ogni violenza contro di loro. E ci sono prove schiaccianti che questa idea sia vera. Dovremmo trattare bene gli altri per ragioni etiche, e non sulla base di teorie antropologiche ingenue e probabilmente false.
Jared Diamond Biologo e geografo, University of California Los Angeles

L'umanità può distruggere il mondo
La speranza nella sopravvivenza dell'umanità e nel progresso poggia su due presupposti: 1) nell'umanità, le tendenze costruttive possono bilanciare le tendenze distruttive 2) gli esseri umani agiscono in base a prospettive di lungo termine. Il mio ottimismo e la mia intera opera sono basati su questi presupposti. Eppure ora rimango sveglio di notte a causa di un pensiero pericoloso: per la prima volta nella storia noi umani viviamo in un mondo che noi stessi potremmo distruggere. (...) Il mio pensiero pericoloso è che il senso etico innato all'uomo possa essere distorto verso finalità distruttive (chi è un terrorista per una società, per un'altra società è un combattente per la libertà) oppure sopraffatto da altre motivazioni, come la ricerca del potere, la gratificazione immediata oppure l'annichilimento dei propri nemici.
Howard Gardner Psicologo, Harvard University






ANSA, 05.01.06
Nobel scopre molecola depressione
Ricerca diretta da Paul Greengard a New York


Scoperta la molecola coinvolta nello sviluppo della depressione e associata con la principale azione terapeutica dei farmaci antidepressivi. La scoperta e' frutto dei lavori diretti dal Nobel per la Medicina Paul Greengard presso la Rockefeller University di New York. I ricercatori hanno scoperto che la quantita' di questa molecola, P11, e' scarsa in pazienti depressi, e che se si aumenta nel cervello di roditori 'depressi', si ottiene lo stesso effetto degli antidepressivi.





Corriere della Sera, 05.01.06
La notizia è stata annunciata dalla rivista Science
Scoperta la molecola della depressione
E' stata chiamata P11. Se si aumenta la sua concentrazione ci sono miglioramenti come sotto l'effetto dei farmaci


ROMA - E' stata individuata una molecola che migliora l'umore: la sua carenza causa depressione, mentre la sua somministrazione ha lo stesso effetto terapeutico dei farmaci antidepressivi e questi agiscono aumentandone la quantità nei neuroni. Tutte queste importantissime scoperte che rivoluzioneranno la cura delle malattia sono annunciate dalla rivista Science. La molecola, scoperta alla Rockefeller University di New York dal Nobel del 2000 per la Medicina Paul Greengard, si chiama P11 ed è forse l'anello mancante a lungo cercato per capire le basi molecolari della depressione, e la base d'azione di alcuni dei farmaci più usati contro questa malattia, quali gli «inibitori del reuptake della serotonina».
LA RICERCA - I ricercatori hanno scoperto che P11 è responsabile del numero di recettori (molecole di ricezione del segnale nervoso esposte alla superficie dei neuroni) per la serotonina, il neurotrasmettitore del «buon umore». Greengard, che insieme a Eric Kandel ha preso il Nobel proprio per i suoi studi sulla trasmissione del segnale nel sistema nervoso, ha diretto una serie di esperimenti per dimostrare il coinvolgimento di P11 nella depressione, per scoprire il suo meccanismo d'azione in modo puntuale, infine per dimostrare come queste informazioni possono essere usate a scopo terapeutico.





La Stampa, 05.01.06
MORTA LA RAGAZZA DEL CIRCEO
Quegli occhi simbolo della paura
di Elena Loewenthal


Quegli occhi sembravano saltar fuori dalla foto sui giornali. Sbarrati. E vuoti. Anzi, no: pieni ma solo di terrore. Vivi? Forse. E comunque mai più come prima. Quante volte li abbiamo rivisti, dentro le nostre emozioni. Nella memoria. Nelle parole dette e in quelle taciute. Quante volte ce li siamo sognati, gli occhi di Donatella Colasanti.

Noi che nel 1975 eravamo non ancora adulti ma nemmeno più bambine: le prime adolescenti postsessantotto. Le prime a goderci, con beata sicurezza, la rivoluzione femminista. A darla per scontata senza averla dovuta combattere. Per noi, cresciute sopra le gioiose ceneri dei reggiseni che qualcun’altra aveva buttato sul rogo sputando sangue e fatiche, il massacro del Circeo è stato lo spettro ricorrente. L’onda lunga di quella paura che mamme e nonne ci raccontavano e che noi guardavamo con una sufficienza un poco incredula. Paura degli uomini. Dei loro soprusi. Di violenze che a noi parevano incredibili. E invece, ecco gli occhi di Donatella. E il silenzio di Milena Sutter: una ragazza proprio come noi. E Donatella e Rosaria. Allora il drago cattivo esisteva ancora! Allora, le nostre nonne e mamme non avevano tutti i torti, a dirci di non dare troppa confidenza ai maschi. Di non allontanarci da sole con loro. Di non andare troppo baldanzose incontro al nostro destino di donne (e prima ancora di adolescenti) finalmente liberate. Questo ci dicevano allora e hanno continuato a dirci, tenaci nella nostra memoria, gli occhi di Donatella: un male tremendo, irrimediabile. Di fronte al quale restiamo indifese. Perfino adesso che siamo grandi, adulte, madri, inevitabilmente emancipate.

Quegli occhi ora chiusi per sempre ma di certo mai in pace, ci sgomentano oggi proprio come allora. Sono un tuffo di memoria che toglie il respiro, sono una fitta al cuore.




ANSA, 06.01.06
Il cervello 'sente' il silenzio
Lo studio di due neurologi francesi


Il cervello e' in grado di 'sentire' anche il silenzio. Ad esserne convinti sono due neurologi francesi, Pierre Fonlupt e Julien Voisin. Secondo gli studiosi dell'istituto nazionale delle ricerche francese, quando siamo immersi nella completa assenza di suoni si attiva una specifica area, proprio la stessa che diventa attiva quando siamo all'ascolto di qualunque suono. Secondo gli esperti la scoperta potrebbe avere utilita' nel capire come trattare i disturbi d'attenzione.






Liberazione, 06.01.06
Doppiezza e politica devono divorziare
di Piero Sansonetti


L’altro giorno Rina Gagliardi ha scritto su questo giornale un articolo molto bello e chiaro (le capita spesso,anche per questo conviene abbonarsi a “Liberazione”...) nel quale, tra le altre osservazioni rivolte al partito di D’Alema e Fassino, ha sviluppato questa critica: usano una doppia verità, una doppia morale, una distinzione tra ciò che si fa e ciò che si dice, tra quello che devono sapere pochi eletti e quel che deve sapere il resto del partito. E’ un vecchio vizio della sinistra. Lo si attribuiva anche a Togliatti.
Ieri il “Corriere della Sera” ha raccolto le opinioni di tre intellettuali tra i più noti del centrosinistra (tutti e tre di provenienza Pci), non proprio concordi con l’analisi di Rina: Beppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci, il filosofo Biagio De Giovanni, collaboratore del “Riformista”, e Alberto Asor Rosa (troppo noto e intellettualmente complicato per trovargli una qualifica...).
Proviamo a riassumere in forma brevissima le loro opinioni. Vacca: la tesi della Gagliardi è irricevibile perché la Gagliardi pone una questione morale ma io non capisco cosa si intenda per questione morale,né dal punto di vista etico né dal punto di vista giuridico. Sembra un po’ il ragionamento di don Ferrante, quello dei “Promessi Sposi”, il quale sosteneva che la peste, non essendo né sostanza né accidente (dal momento che il reale si divide in sostanza e accidente), non esiste. E Berlinguer? Sbagliò.
Asor Rosa: Il problema non è la doppia verità, che c’è sempre stata, ma il suo contenuto. In questo caso si è usata la doppia verità per nascondere operazioni economiche estranee al senso comune della sinistra. E’ vero.
De Giovanni: La doppia verità è nella natura stessa della politica. Basta pensare a Machiavelli.Dunque oggi non sono Fassino e D’Alema ad essere doppi,bensì la politica stessa.
Il ragionamento di Asor e quello di De Giovanni sono molto diversi, ma si completano.
Entrambi - seppure da punti di partenza lontani - ammettono l’uso della doppiezza, e la considerano parte integrante dell’arte della politica.
Non mi convincono. Per una ragione di fondo. Pensare che la politica moderna debba ancora rinchiudersi dentro i confini disegnati da Niccolò Machiavelli mezzo millennio fa, è l’errore che in questi anni sta paralizzando il rinnovamento della sinistra e dell’intellettualità. (Aveva ragione Romano Luperini, che ieri, su questo giornale, ha lamentato l’assenza di intellettuali come Pasolini, Fortini, Volponi, i quali usavano il loro essere intellettuali per ricercare, studiare, innovare, e in questo modo combattere dentro l’arena della politica e non vivere al rimorchio della politica). La sinistra del novecento ha sempre scontato questo limite: considerare la tattica (la doppia verità) il sale di tutto, e la presa del potere il fine che ogni cosa giustifica. Su questa strada ha perso. Se vuole rinascere, rinnovarsi davvero, tornare ad essere un lume di speranza, la sinistra deve convincersi che i “mezzi” sono importanti quanto i “fini”, e che Machiavelli è vecchio. Il contrario esatto di quel che hanno fatto i Ds nella vicenda Unipol.




AGI, 06.01.06
So per esperienza diretta che la malattia psichiatrica e' alterazione del pensiero senza coscienza, e' distruzione della vitalita': e' specificita' dell'essere umano perche' l'animale non impazzisce mai perche' non ha il pensiero non cosciente ne' la realta' psichica.
E' quanto sostiene lo psichiatra e psicoterapeuta Francesco Riggio in merito alla notizia diffusa da 'Science' della scoperta del Premio Nobel per la Medicina Paul Greengard per cui alla base della depressione ci sarebbe la proteina 'P11': sperimentata sui topi se scarseggia compaiono comportamenti simili a quelli delle persone depresse, se invece i livelli sono sufficienti l'effetto e' simile a quello dei farmaci anti-depressivi, per cui il tono dell'umore si alzerebbe.
"La malattia psichiatrica e' malattia del pensiero specie di quello senza coscienza - spiega Riggio - E lo psichiatra deve se ha l'idea di cura per la guarigione, scoprire questo pensiero senza coscienza che non sta nel linguaggio verbale e nel comportamento cosciente ma nelle immagini interne, nei sogni: per accedere a questa idea di cura per la guarigione bisogna rifarsi alla teoria e prassi di Massimo Fagioli e dell'Analisi Collettiva".
Fondamentale, insomma, per lo psichiatra che vuole trattare e curare la malattia psichiatrica, "e' avere una teoria della mente non cosciente ed una prassi conseguente valide – aggiunge Riggio - conoscere la pulsione di annullamento, la negazione che e' deformazione della realta' umana: l'eziologia della malattia psichiatrica che non e' malattia dell'organo cervello insomma non e' la stessa di quella della medicina organica".
Messe cosi' le cose, per comprendere la depressione, il male oscuro che spegne la gioia di vivere, che rende pesanti e nere le giornate, "bisogna rifarsi ad una ricerca, ad un lavoro iniziato negli anni '50-'60 da Fagioli nel confronto diretto con i malati di mente, approdato negli anni '70 alla formulazione teorica con tre libri e poi ad una prassi, l'Analisi Collettiva - conclude Riggio - chiesta nel 74-75 dalla gente comune e che tuttora prosegue in uno studio privato sul pensiero senza coscienza, sulle immagini interne violente che il paziente si porta dentro per rapporti interumani sbagliati fin dal primo anno di vita cosi' da recuperare quella dimensione di vitalita' andata distrutta e che e' causa di depressione". (AGI)




Corriere della Sera, 07.01.06
Donne lontane dal potere
«La parità? Fra 200 anni»
Londra, rapporto della Commissione pari opportunità
Progressi troppo lenti. «E in Italia ci vorrà più tempo»


Ci vorranno almeno duecento anni perché le donne inglesi raggiungano la parità con gli uomini. Pur avendo, loro, il 20 per cento di presenza femminile in Parlamento e l’11 per cento dei posti di direttore nelle più grandi aziende. E l’Italia? Quanto ci metterà il nostro Paese, dove in Senato siede appena l’8,1 per cento di donne e alla Camera l’11,5? Quando verrà raggiunta la parità se nei consigli di amministrazione delle maggiori cinquanta imprese italiane le donne sono un misero 1,3 per cento e in quelle quotate in Borsa arrivano solo ad un risicato 2,6?
CRESCITA LENTA — Spera di no, in cuor suo, ma ritiene fortemente probabile che andando avanti di questo passo impiegheremo molto più tempo delle inglesi la direttrice centrale dell’Istat, Linda Laura Sabbadini, che ha curato un volume dal titolo «Come cambia la vita delle donne». «In verità le donne stanno crescendo ovunque in Italia rispetto a dieci anni fa. Imprenditrici, dirigenti — soprattutto nella pubblica amministrazione; primari, presidi, magistrati, presidenti della Corte dei Conti. La crescita però è lenta. Quanto alla politica, lì addirittura si va indietro ». Duecento anni per le donne inglesi, che pure stanno molto meglio delle italiane. Ma nel Paese che trent’anni fa ha consentito proprio ad una donna, Margaret Thatcher, di diventare premier, non sono contenti affatto. Secondo il rapporto della Commissione per le pari opportunità, al tasso d’incremento attuale occorreranno 200 anni e 40 elezioni per raggiungere la parità in Parlamento. Fuori, nelle aziende e nel settore giudiziario, bisognerà aspettare 40 anni.
RUOLI DIRETTIVI—L’Italia ci arriverà molto dopo. Sabbadini ha confrontato i dati del 1993 con quelli del 2003-2004. Nel 1993 su 100 imprenditori le donne erano 15, due anni fa sono diventate 22. Le libere professioniste sono raddoppiate (dal 19 al 26%), le donne dirigenti passano dal 15 al 23 per cento. Nei ruoli direttivi e nei quadri salgono dal 32 al 37%. Ma sono percentuali comunque basse rispetto all’Europa. Nei luoghi decisionali, poi, c’è ancora molta strada da fare. Più donne nelmondo del lavoro non significa infatti parità. Perché, sottolinea Anna Maria Parente, responsabile nazionale del coordinamento donne della Cisl, «il nodo cruciale è quello dei luoghi della rappresentanza. Nelle professioni le donne aumentano, ma ai vertici degli ordini professionali? Parliamo del sindacato — continua Parente —, delle banche, delle aziende, dei partiti. Perché nessuna donna è ancora diventata segretario di partito? Le modalità organizzative e i tempi di lavoro sono maschili, non sono congeniali alle donne, che devono conciliare lavoro e maternità, oppure lavoro e cura delle persone in famiglia. Se continuiamo ad adeguarci a questo modello i tempi per arrivare ad una parità vera fra uomini e donne saranno lunghissimi ».
NEI PARTITI — I dati dell’Istat confermano: tra i ministri economici non c’è neppure una donna, tra tutti gli altri solo 2, in questa legislatura. Negli organi decisionali delle organizzazioni imprenditoriali (Confindustria, Confartigianato, Confcommercio, Confagricoltura) il dato complessivo raggiunge il 3,2 per cento. Tra i sindacati la situazione è migliore ma il peso maggiore lo dà la Cgil (38,8 per cento contro il 13,3 della Cisl e il 15,9 della Uil). Nei partiti, al di là delle quote rosa sì o no, e con lo spettro di una legge elettorale che lascia ogni decisione sulla lista ai dirigenti nazionali (quasi tutti uomini), solo i Verdi hanno una presenza femminile di quasi parità (48,3 per cento) contro il 43 dei Comunisti italiani, il 33 dei Ds, il 31 di Rifondazione, il 15 della Margherita, l’8 di Forza Italia, il 7 di An, il 6 dell’Udc. «Quello che ci vuole è un cambiamento di prospettiva», dice la studiosa della condizione femminile Elvira Banotti, tra i fondatori di una nuova formazione, il partito europeo delle donne (www.pde-articolo51.org), la cui presidente è Adriana Padovano Spano. Per la Banotti «occorre lasciar perdere l’obiettivo della parità, concetto sbagliato, e puntare al cambiamento della cultura». Ma la presidente di Arcidonna Valeria Ajovalsit traccia un quadro ancora più fosco: «Con la nuova legge elettorale decideranno i partiti. Se non ci saranno donne nei primi dieci posti delle liste, in Parlamento la presenza femminile si annullerà ».
Mariolina Iossa

lunedì 2 gennaio 2006

Repubblica 2.12.06
Stop alle distinzioni fra marito e convivente. Il ministro: difendiamo le donne e chi subisce discriminazioni
Le donne vittime
Stupri, molestie e violenze in casa giro di vite e condanne più dure
Il piano della Pollastrini: aggravanti per il coniuge
di Concita De Gregorio


Via libera all´utilizzo delle intercettazioni ambientali e telefoniche durante le indagini
L´insulto o la violenza contro un gay diventa aggravante di reato Più tutela della vittima durante il processo

ROMA - È una sorpresa trovare nella stanza del ministro Barbara Pollastrini, Diritti e Pari opportunità, il pubblico ministero Silvia Della Monica celebre per essersi occupata non senza difficoltà anche personali di "mostro" quando lavorava a Firenze e di massoneria a Perugia. «Il nostro capo dipartimento», la presenta il ministro. Della Monica ha sulle ginocchia la cartellina che contiene il nuovo disegno di legge contro la violenza domestica, i maltrattamenti e le molestie persecutorie a sfondo sessuale. Una legge che vuole difendere le donne e tutti i «discriminati per ragioni sessuali», gay e trans inclusi. Siamo qui a parlare, in anteprima, proprio di questo: il testo sarà portato in consiglio dei ministri entro dicembre, è stato studiato di concerto con il ministro della Giustizia Clemente Mastella, è ispirato al modello spagnolo (quella sulla violenza domestica è stata la prima legge del governo Zapatero). La legge italiana prevede pene più severe per la violenza che avviene tra le mura domestiche con aggravante se a commetterla è il coniuge o - assai importante - il convivente. Un´apertura alle coppie di fatto, altro tema in calendario al ministero. Dunque: fino a sei anni di carcere, pena che consente l´uso delle intercettazioni telefoniche e ambientali durante le indagini. Per la prima volta, inoltre, una legge si occupa delle molestie persecutorie (telefonate, sms, pedinamenti, lettere, mail), in inglese "stalking": pene da uno a quattro anni aumentate di un terzo se le minacce sono gravi con possibilità, anche in questo caso, di utilizzare le intercettazioni in deroga alla norma generale. Misure cautelari decise dal giudice per interrompere le persecuzioni che arrivano fino agli arresti domiciliari o al carcere per il molestatore. Fino ad oggi era un reato da contravvenzione, 516 euro di ammenda: la differenza è radicale. Inoltre, estensione della legge Mancino contro le discriminazioni razziali, etniche e religiose anche all´orientamento sessuale e all´identità di genere: l´insulto o la violenza contro un gay diventa aggravante di reato e reato in sé. Si aggiungano la maggiore tutela della vittima nel processo (potranno testimoniare una sola volta nel corso delle indagini preliminari con l´incidente probatorio, cosa che riduce il disagio del teste oltre che i tempi del processo) e nessun faccia a faccia con l´aggressore. Un osservatorio permanente in cui saranno coinvolti anche i centri antiviolenza (tre milioni di euro stanziati in Finanziaria) sarà attivo al ministero.
È la prima legge concepita in queste stanze «in intesa con i ministri di Giustizia, Lavoro, Interni, Famiglia, Politiche sociali, Scuola e Comunicazione», dice Pollastrini. Sarà varata dal consiglio dei ministri e poi sottoposta al Parlamento dopo la Finanziaria «e soprattutto dopo che qui abbiamo definito bene la missione, i confini di competenza e le forze disponibili al ministero». Prima di tutto quindi Pollastrini si è occupata delle deleghe: con un decreto del 19 luglio ha avuto tutte le deleghe nazionali e internazionali in materia di Diritti umani e sociali. Di seguito il gruppo di lavoro: sono arrivati il pm Della Monica, Stefano Ceccanti a capo dell´ufficio legislativo, l´ex sindaco di Modena Alfonsina Rinaldi ad occuparsi della segreteria politica, Marcella Ciarnelli dall´Unità a far da portavoce, l´ex senatrice ds Graziella Pagano per i rapporti istituzionali. «Poi, vista la coperta stretta della Finanziaria, abbiamo dovuto fare delle scelte. Primo, i diritti umani e dunque il programma contro la tratta degli esseri umani e il rifinanziamento di quello contro le mutilazioni genitali. Secondo, un piano d´azione contro la violenza alle donne e alle identità di genere». Qui il ministro sospira. «La verità è che le élites e le classi dirigenti, anche nel centrosinistra, non hanno capito bene cosa rappresentino le donne oggi. Non hanno colto per esempio fino in fondo il senso del discorso di Clinton a Blair: "dobbiamo passare completamente all´epoca delle pari opportunità". Non hanno capito che senza l´espansione della funzione attiva delle donne non si riuscirà a rivoltare il paese, a renderlo più dinamico tollerante rispettoso e non ci sarà vera crescita. Noi dobbiamo trovare la via italiana fra il modello Sègolene Royal e il quello delle quote: una via fatta di regole, libertà e responsabilità».
Regole, in primo luogo. «Perché nel comitato di bioetica, che decide delle sorti del corpo delle donne, non ci devono essere tante donne quanti uomini? Perché non alla Corte costituzionale, tra i direttori e i vice della Rai, nelle aziende? In Spagna in Francia, in Giappone ci sono piani per raggiungere il 65 per cento dell´occupazione femminile, da noi siamo al 45, al sud al 27». Ecco allora una prima misura, già approvata in Finanziaria e in vigore da gennaio: le aziende delle «aree svantaggiate» (soprattutto dunque al Sud) che assumeranno una donna avranno un risparmio ulteriore, con l´Irap, di 150 euro al mese per lavoratrice. «In Svezia in Germania e nel Nord Europa ci sono leggi che puntano ad avere nell´arco di 7-8 anni almeno il 40 per cento di donne nei cda delle società quotate in borsa. Il 10 per cento all´inizio e poi ad aumentare, con incentivi e premi, con beneficio economico per chi lo fa. Cominciamo a pensarci anche noi. Per ogni dirigente donna uno sgravio fiscale. Penso però anche ai Tar, alla Banca d´Italia: l´assemblea di Bankitalia è uno spettacolo deprimente da questo punto di vista, e l´obiezione che già sento che non ci sono donne di qualità a quell´altezza è l´ultimo grande bluff degli uomini che detengono il potere. Posso fornire elenchi lunghi così di economiste e filosofe della scienza, di magistrate e analiste di primissimo livello. Arginiamo la fuga all´estero, questo patrimonio è la nostra vera risorsa».
La legge contro la violenza, allora. «Si comincia da qui, si deve abbattere il muro della vergogna e dell´impunità. È una questione anche di cultura. Col ministro Fioroni siamo d´accordo per studiare un piano che inserisca i temi della non violenza e del rispetto della persona nei programmi scolastici, con Gentiloni parleremo presto di codici per la Rai e per il mondo delle comunicazioni. Bisogna però anche, insieme, punire. Rendere socialmente odioso quel che ancora è in qualche modo tollerato. In Italia un omicidio su quattro avviene in casa, ogni tre morti violente una è una donna uccisa dal marito, dal convivente. Ogni giorno almeno 7 donne subiscono violenza. Allora: non devono più essere tollerate le molestie continuate e gravi in famiglia, nei luoghi di lavoro, per strada. Chi fa violenza a gay, lesbiche, transessuali a causa della loro identità deve essere punito. Se il violento è un parente o un convivente la circostanza è più e non meno grave. Si parte da qui: da una grande e coraggiosa sferzata, serve uno sguardo laico e fiducioso». Sembra un augurio rivolto soprattutto ai suoi colleghi di governo. Sono giorni in cui le donne ds si scontrano - Turco contro Serafini - per la legge sulla droga. «Io non capisco perché se discutono due donne è un litigio e se lo fanno due uomini è un confronto. Gli uomini passano il loro tempo in guerre di potere, se due donne hanno diverse opinioni è subito una bega da cortile. Stiamo molto, molto attenti a usare le parole ad applicare le categorie: è un fatto culturale, vede, lo è anche nei giornali e in tv. Poi certo, trovare uno stile che tenda all´armonia è auspicabile per tutti ma per le donne, ancora una volta, è un compito in più».

Repubblica 2.12.06
Il presidente consegna al Quirinale i premi De Sica a registi e attori.
E rilegge gli anni della protesta
Napolitano: "Ripensiamo il '68 cinema di novità ma anche di furori"
Elogio di Rondi, direttore della Biennale della contestazione
"Era una stagione di movimenti, con le sue ragioni e i suoi schematismi"
di Silvia Fumarola


ROMA - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano riceve al Quirinale il cinema italiano per i premi De Sica e torna ai tempi della contestazione giovanile. «Il ‘68 è stato un´epoca di movimenti» esordisce «una stagione che aveva le sue ragioni e una sua forza vitale ma anche i suoi schematismi e i suoi furori». Ha al suo fianco Gian Luigi Rondi, presidente dell´associazione e anima dei David di Donatello: era alla guida della Biennale di Venezia, investita dalla contestazione, e ne fu bersaglio. «Ora» dice il presidente «possiamo guardare con maggiore serenità a quelle vicende e alle persone coinvolte senza negare le ansie di rinnovamento che naturalmente si riproducono, ed è bene che si facciano sentire; ma liberandoci da ogni residuo di impostazioni troppo parziali o puramente negative».
Cerimonia sobria, in clima bipartisan: se Napolitano da una parte elogia Rondi, andreottiano, citando una lettera indirizzatagli nel ‘71 da Visconti con cui caldeggiava la sua candidatura alla Mostra di Venezia, dall´altra premia Citto Maselli, sottolineando l´evoluzione della sua ricerca registica. Da appassionato, chiede sostegno per il cinema. «Non immaginavo che già nei primi mesi del mandato mi si sarebbero presentate queste occasioni per riflettere sul ruolo che hanno teatro, cinema, danza e musica, in cui operano le nostre risorse più significative per dare all´Italia coscienza di sé e farla apprezzare all´estero». Il ministro della cultura Francesco Rutelli lo ringrazia, annunciando una legge di sistema da portare in Parlamento nel 2007. «Occorre che lo Stato snellisca le norme e dia risorse certe perché il cinema italiano sta tornando ai vertici: è dovere delle istituzioni far sì che la tendenza si consolidi».
Sorridono i premiati: Mariangela Melato, Gigi Proietti, Margherita Hack, Kim Rossi Stuart, Antonio Avati, Uto Ughi, Maurizio Scaparro, Paolo Portoghesi, Ennio Calabria, Vania Traxler Protti, Aleksandr Sokurov, il sindaco di Roma Walter Veltroni a cui va il riconoscimento «per meriti letterari e cinematografici». L´applauso più affettuoso, con gli invitati nel Salone dei Corazzieri in piedi, va a Fernanda Pivano: Napolitano interrompe il rigido protocollo, andandole incontro e scambiando qualche battuta con lei. Poi s´intrattiene con gli ospiti, insieme alla signora Clio. Veltroni intitolerà a Vittorio De Sica una sala del Palazzo delle Esposizioni, e il figlio del maestro, Christian, presente con i fratelli Emi e Manuel, fa un appello perché Roma trovi uno spazio per proiettare i classici. Maselli è commosso, scambia una battuta con Ettore Scola: «Hai visto, caruccio Giorgio... Il premio mi dà la carica per il nuovo film Questa sinistra, uno sguardo sulla realtà politica italiana».

Repubblica 2.12.06
LA STORIA
Ma il 1968 del cinema italiano cominciò prima dei movimenti di piazza
Bertolucci, Bellocchio & C. quelli dei pugni in tasca
di Paolo D'Agostini


ROMA - Il ‘68 del cinema in realtà comincia prima, o molto prima, del ‘68 dei movimenti studenteschi. In Francia con i primi film di Truffaut, Godard e degli altri ragazzi terribili della Nouvelle Vague. In Inghilterra con il Free Cinema di Gioventù amore e rabbia o Morgan matto da legare. E, oltre che in molte altre parti del mondo, anche in Italia. Dove il ventitreenne Bernardo Bertolucci da Parma con Prima della rivoluzione nel ´64, e il ventiseienne Marco Bellocchio da Piacenza con I pugni in tasca nel ´65, firmano i due manifesti di una rivoluzione non solo generazional-giovanile ma anche stilistica. Che però non ebbe lo stesso seguito e le stesse conseguenze dell´azione (violentemente e aggressivamente critica prima che creativa) e delle opere dei cugini francesi. Perché da noi il "cinema di papà" non solo manteneva saldamente il potere ma, soprattutto, manteneva intatta una carica vitale (Fellini) e anche trasgressiva (Antonioni) inesistenti altrove.
I nostri due campioni di quella stagione aspra e irruenta (ma confermatisi tali - campioni - ben al di là delle peraltro sacrosante intemperanze giovanili) si sono, per la prima volta assoluta, confrontati pubblicamente in un faccia a faccia moderato lo scorso ottobre alla Festa di Roma da uno dei suoi direttori Mario Sesti. «Erano», ricordava Bertolucci, «due film se non fratelli cugini: il mio dolcemente e malinconicamente autobiografico e quello di Marco atrocemente autobiografico».
Detto questo, però, le parole pronunciate ieri dal Presidente della Repubblica rievocavano, più che le istanze artistiche ed espressive di quella stagione, i termini di una polemica politico-culturale molto italiana e molto interna alla storia della sinistra italiana e del suo ‘68 (e dintorni). Polemica che in particolare intorno al nodo istituzionale della Biennale di Venezia, alla battaglia per la riforma del suo statuto risalente ad epoca fascista, vide scendere in campo agguerritissimi gran parte dei cineasti di sinistra - in un panorama cinematografico che era quasi tutto di sinistra - contro la nomina del democristiano Gian Luigi Rondi. E il Presidente ha fatto ieri riferimento a un episodio che proprio il nostro giornale ha ricordato (sul "Domenicale" dell´8 ottobre) nel celebrare il centenario di Luchino Visconti: pubblicando ampi stralci di una lettera che il "conte rosso", distinguendosi dai suoi compagni, indirizzò a lui, allora responsabile culturale del Pci, in difesa del celebre critico, persona «capace, professionalmente provata e sufficientemente sensibile a ciò che la situazione richiede», stigmatizzando come «ingiusto e ingiustificato» osteggiarlo per ragioni politico ideologiche.
Quel clima, quell´atmosfera, quel "68 del cinema italiano", che aveva avuto negli exploit giovanili di Bellocchio e Bertolucci ma anche nelle prime prove di altri registi giovani o un po´ meno giovani come i Taviani e Ferreri, come Liliana Cavani e Roberto Faenza la sua anticipazione artistica, si propagò, in nome di battaglie, secondo Francesco Maselli, per niente estremiste e distruttive ma responsabilmente e giustamente politiche, soprattutto nei santuari dei festival. Con l´abbattimento, in primo luogo, della Mostra veneziana che avrebbe poi tardato un decennio a risorgere. Sostituita lungo i primi anni Settanta dalle barricate del "controfestival" allestito in pieno centro di Venezia, leggendariamente animato da figure come Cesare Zavattini e Pier Paolo Pasolini. Il quale, se il primo non si faceva pregare alla chiamata scapigliata e giovanilista, non fu certamente tenero nei confronti dei movimenti studenteschi e giovanili. Ma non mancò all´appello. Che cosa resta oggi? È la domanda che le pur equilibratissime parole del Presidente lasciano un po´ sospesa in aria.

Repubblica 2.12.06
Gli oscuri Anni Cinquanta
Un convegno di storici a Roma
di Lucio Villari


Al centro della discussione il clima indotto dalla guerra fredda. Quando in Italia, anche gli intellettuali moderati, denunciavano censure e repressioni

1956: la Grande Crisi del comunismo e dei comunisti, specialmente gli italiani. Grandi ripensamenti, allora, degli uomini di cultura comunisti. E gli intellettuali non comunisti, ma che non erano anticomunisti? Quale era il clima culturale di cinquanta anni fa in Italia? Ecco dei frammenti del tempo che fu; degli anni "intorno" al 1956.
Con la data "Natale 1954" un gruppo di critici e scrittori diffuse un appello che, nel clima conservatore e democristiano, dovette apparire per lo meno inconsueto. Lo avevano firmato Anna Banti, Alberto Carocci, Luigi Chiarini, Roberto Longhi, Alberto Moravia, Carlo Muscetta, Luigi Russo. Nessuno di loro era comunista (Muscetta era simpatizzante, ma la sua formazione era azionistica), ma il testo fu pubblicato con rilievo su l´Unità del 31 dicembre. Era un regalo per l´anno nuovo e un preoccupato segnale di una tensione politica che sarà molto viva nella seconda metà degli anni Cinquanta. Il testo era in difesa di Gaetano Salvemini, Arturo Carlo Jemolo, Piero Calamandrei, Mario Melloni e Franco Antonicelli fatti segno, da tempo, di intimidazioni da parte di esponenti di un governo che si sarebbe potuto definire blandamente di centrosinistra (era presieduto da Mario Scelba con vice presidente Giuseppe Saragat) e dalla variegata destra italiana. Era sotto accusa il loro antifascismo pubblicamente manifestato e la loro intransigenza democratica e laica, anche se Jemolo e Melloni, il futuro Fortebraccio, erano cattolici. Stava creandosi in Italia una politica "artificiale", sull´onda melmosa del maccartismo, che vedeva pericolosa e sovversiva la normale evoluzione della vita democratica e giudicava eccessiva la creatività artistica (specialmente nel cinema e nella critica letteraria e storica). I firmatari dell´appello rivendicavano perciò la necessità di ristabilire forme normali di relazioni tra le istituzioni e la libera ricerca intellettuale.
«A dieci anni dalla Resistenza - scrivevano - , ogni intellettuale, ogni antifascista è persuaso che la sua protesta non resta espressione individuale e velleitaria, ma corrisponde alla più profonda e diffusa coscienza di libertà e di distensione del popolo italiano. Per questo oggi intendiamo riconfermare tali sentimenti, e salutare con spirito di solidarietà quanti si rendono conto della necessità e della possibilità di dare uno stabile corso civile e democratico, di là dal susseguirsi al potere di questa o quella formazione governativa, a tutta la vita italiana nell´ambito di più sereni rapporti internazionali».
Parole quanto mai lievi e civili se si pensa che si era in tempo di guerra fredda, di ricatto atomico, di scontro senza quartiere tra stalinismo imperante (anche se il dittatore era scomparso da oltre un anno) e Occidente capitalistico. Erano parole di democratici che sognavano perfino come possibile l´alternanza di "questa o quella formazione governativa...". Ma erano sogni proibiti: il 1955 infatti cominciava male e si preparavano tempi duri. E´ interessante rievocarli per sottrarsi al fascino e ai miti della prima repubblica e leggere meglio la faticosa evoluzione, anche attuale, del nostro sistema sociale.
Ai primi di luglio 1955 la rivista Emilia pubblicava una lettera aperta di Francesco Flora, un autorevole critico letterario, al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Flora denunciava soprusi e censure prevalentemente clericali (alcuni mesi prima Vitaliano Brancati aveva scritto un pamphlet contro la censura dilagante che aveva impedito, tra l´altro, la messa in scena a Roma della sua commedia La Governante), e indicava la dilagante "avversione verso l´intelligenza" che il governo e le istituzioni centrali e periferiche dimostravano in vari modi. Qualcosa di grottesco stava infatti penetrando nella vita culturale italiana. Pareva si stesse costruendo un regime di tipo salazariano: un clerico-populismo felpato, anestetizzante, ispirato da un sempre più ieratico Pio XII il quale informava gli italiani che gli era apparsa la Madonna. Inevitabili, quindi, le censure e gli interdetti. Si interruppero ad esempio le rappresentazioni al Teatro Eliseo di Roma della Mandragola di Machiavelli (con uno straordinario Sergio Tofano) e Flora dava notizia a Gronchi di numerosi episodi analoghi: la polizia «non consentiva in alcuni comuni emiliani il dibattito su Bellissima e Senso di Visconti» e cercava di impedire che «la signora Marie Seton, collaboratrice del grande regista Eisenstein, proiettasse e illustrasse il film Time in the sun. Sembra che in questa occasione un funzionario di questura abbia detto: "Ma chi è questo Einstein? Sarà un film sulla bomba atomica!"». E ancora, «il veto che la Direzione generale dello spettacolo ha creduto di poter porre alla rappresentazione de La camera buia di Tennessee Williams in un teatro sperimentale di Bologna. E vogliamo sorvolare sull´amenità di imporre allo stesso teatro che il titolo di una commedia Ritratto di Madonna fosse mutato in Ritratto di donna?».
Insomma, forse era l´invadente presenza dell´ambasciatrice degli Stati Uniti Claire Boothe Luce a rendere più accesi, nel nostro paese, gli ultimi fuochi del maccartismo americano? Non è facile dirlo. Seppure in quel clima distorto, i registi continuavano a fare film, gli scrittori a scrivere, i teatri a funzionare. Ma, quando nel 1956 furono rivelati i crimini di Stalin e, in autunno, vi fu l´insurrezione ungherese, il moderatismo italiano ebbe un´arma polemica in più.
E questa volta furono i registi, i più grandi, a protestare. Il 7 settembre 1959, Roberto Rossellini inviò una lettera aperta al ministro del turismo e dello spettacolo, il democristiano Umberto Tupini. La lettera di Rossellini era stata inviata all´Agenzia Italia che ne aveva però trasmesse soltanto poche righe ai giornali. Il regista decise allora di rivolgersi direttamente a l´Unità che la pubblicò due giorni dopo. Era un invito al nuovo ministro a rompere con le pratiche del governo nei confronti della libertà espressiva (era stato bloccato, tra l´altro, un progetto di film su Matteotti) di cineasti e sceneggiatori. Scriveva Rossellini: «Il cinema nazionale - e per cinema nazionale intendo quel settore dell´attività cinematografica che tale è riconosciuto in Italia e nel mondo - non può dichiararsi sotto alcun aspetto soddisfatto del lavoro svolto da più di dieci anni dalla Direzione generale dello spettacolo e dalle persone che le sono preposte». E dopo avere elencato le ragioni di tale giudizio, Rossellini toccava il punto della protesta (che fu sottoscritta da De Sica, Fellini, Bolognini, Amidei) coinvolgendo anche, con straordinaria intuizione, la neonata televisione: «Gli esempi quotidiani mi convincono purtroppo che il cinema e la televisione hanno servito un prodotto sintetico e artificiale della cultura e della conoscenza, con il risultato che questi mezzi hanno sollecitato lo sviluppo mentale dei bambini, ma hanno anche ristretto l´apertura mentale dell´adulto. Infatti lo slogan corrente dei facitori di spettacoli è quello di produrre per un pubblico che ha la mentalità media del dodicenne». E Rossellini incalzava nel denunciare quanti proteggevano «il cattivo gusto, la diseducazione morale, la banalità» di questi potenti mezzi di comunicazione. Il regista si assumeva quindi la responsabilità piena della denuncia. Franchezza che il 9 settembre Rossellini manifestava a un convegno che si teneva all´isola di San Giorgio nell´ambito della Mostra del cinema, in corso in quei giorni a Venezia. Alla presenza, tra tanti, di registi come René Clair e David Lean, Rossellini dichiarò: «La censura italiana è forte perché noi siamo deboli. È tempo di finirla con film per adulti infantiliti. Il cinema deve assumere una sua precisa funzione sociale, portare avanti un suo messaggio civile. Dobbiamo essere in grado di lavorare non più con fibre artificiali ma con le fibre della verità». E a questa disarmata profezia, cinquanta anni dopo, non si potrebbe togliere neanche una virgola.

Corriere della Sera 2.12.06
Napolitano e il Sessantotto: anche furori e schematismi
«Ora si può dare un giudizio sereno su quegli anni»
di Lorenzo Fuccaro


ROMA — Parlare di cultura e di cinema alla cerimonia di consegna dei premi «Vittorio De Sica» consente al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di indugiare sul '68, sulla «contestazione» e di criticarne il settarismo e la faziosità. Quella, nota, fu «un'epoca o una stagione che aveva le sue ragioni e la sua forza vitale, e anche i suoi schematismi e i suoi furori». Osservando quel tempo convulso, il Capo dello Stato rileva però che «ora possiamo guardare con maggiore serenità a quelle lontane vicende e alle persone che vi furono coinvolte, senza tendere a negare le ansie di rinnovamento che naturalmente si riproducono, ed è bene che si facciano sentire, ma liberandoci da ogni residuo di impostazioni troppo parziali o puramente negative».
Napolitano cita un ricordo personale, indotto dalla presenza del critico Gian Luigi Rondi «di cui tutti conosciamo la tenacia e la passione con cui ha sempre fatto ininterrottamente la sua parte e portato avanti il suo impegno», e al quale rivolge «espressioni di considerazione e di amicizia». «Mi riferisco — afferma il Presidente — alla lettera, da poco ritrovata in archivio che il grande Luchino Visconti mi scrisse nel febbraio del 1971 per svolgere sagge considerazioni sul modo con cui le forze dell'opposizione di allora avrebbero dovuto condursi rispetto ai problemi che lo interessavano e per esprimere un motivato giudizio di fiducia in Gian Luigi Rondi».
Napolitano, a quel tempo, era responsabile del settore cultura del Pci. Ed è appunto a lui che si rivolge Visconti, uno dei registi tra i più importanti e da sempre considerato un compagno di strada dei comunisti ma poco incline al settarismo. La circostanza fu il dibattito sorto su chi potesse dirigere la Mostra di Venezia.
Il nome di Rondi, uomo legato al campo dei moderati — a quel tempo critico cinematografico del quotidiano romano Il Tempo
— era stato avanzato dalla maggioranza guidata dalla Dc ed aveva suscitato una forte polemica da parte del Pci. Ebbene Visconti scrisse a Napolitano — la lettera è stata ritrovata recentemente nell'archivio dell'Istituto Gramsci ed è stata presentata alla rassegna dedicata al maestro milanese nel quadro della festa del cinema a Roma — per esprimere, come ricorda oggi il Capo dello Stato, «un motivato giudizio di fiducia» su quel candidato. Visconti, insomma, nel suo ragionamento seppe sfuggire «i furori» del tempo.

Corriere della Sera 2.12.06
Il ritorno degli atei
Libri, riviste, siti web. In nome di Darwin e Hume
di Antonio Carioti


«Un tempo dirsi atei pareva di cattivo gusto e ci si dichiarava agnostici per apparire più rispettosi verso i credenti. Oggi però, di fronte alla crescente pretesa delle chiese, specie la cattolica, di imporre le credenze religiose in un contesto pubblico, di introdurle nelle costituzioni e nelle leggi, il pudore di una volta è venuto meno e l'ateismo è diventato una forma di legittima difesa dall'aggressività integralista». Così Carlo Augusto Viano, autore del pamphlet anticlericale Laici in ginocchio (Laterza) e di un articolo intitolato Elogio dell'ateismo apparso su «MicroMega», interpreta il revival della polemica antireligiosa in Occidente.
In effetti, se in Francia Michel Onfray ha scalato le classifiche con il Trattato di ateologia (tradotto in Italia da Fazi), anche l'America dei predicatori evangelici e dei teocon, dove mai potrebbe essere eletto presidente un ateo dichiarato, mostra interesse per i fautori dell'incredulità. Un servizio su «Us News and World Report» c'informa dei buoni risultati ottenuti in libreria dallo scienziato evoluzionista Richard Dawkins con
L'illusione di Dio (lo tradurrà Mondadori) e da Sam Harris, già autore del bestseller ateo La fine della fede (Nuovi Mondi Media), con la sua aspra Lettera a una nazione cristiana. Mentre continua a far discutere il modo in cui Daniel Dennett cerca di spiegare la fede in termini darwiniani nel saggio
Rompere l'incantesimo, di prossima uscita da Raffaello Cortina Editore.
E l'Italia? Finora i lettori hanno premiato testi che non attaccavano la religione in quanto tale, ma l'attuale pontefice (l'anonimo Contro Ratzinger edito da Isbn), o elogiavano il relativismo più che l'ateismo, come ha fatto Giulio Giorello nel pamphlet Di nessuna chiesa (Raffaello Cortina). Ma si espandono anche le associazioni culturali apertamente antireligiose, come l'Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (www.uaar.it), nella quale sta per confluire l'analogo gruppo Nogod (www.nogod.it). L'Uaar, che pubblica da dieci anni la rivista «L'Ateo», conta nel suo comitato di presidenza nomi come Margherita Hack, Piergiorgio Odifreddi, Danilo Mainardi, Sergio Staino, Laura Balbo. E il suo sito web registra una costante crescita di accessi.
Un riscontro in libreria viene dal successo di Un'etica senza Dio (pp. 109, e 12), testo filosofico di Eugenio Lecaldano che in breve ha raggiunto la quinta edizione e per Laterza è il titolo più venduto del momento. L'autore, legato all'empirismo di David Hume, afferma senza esitare che «l'ateismo è la cornice concettuale più favorevole all'affermarsi di una moralità». È l'esatto contrario del celebre motto «se Dio non esiste tutto è permesso», coniato da Fjodor Dostoevskij: «Se si fa dipendere la morale — spiega Lecaldano al "Corriere" — da una rivelazione divina, s'inducono i fedeli a ripetere dei comportamenti in modo passivo, invece di fare appello alla loro responsabilità e abituarli a riflettere con la propria testa. Così il credente non riesce a salvaguardare l'autonomia dei principi etici, perché finisce per pensare che la soluzione alle questioni morali risieda nella fedeltà ai contenuti di una tradizione religiosa, trascurando le esigenze e i reali sentimenti delle persone, spesso non rispondenti ai dettami della dottrina». Molto meglio, per Lecaldano, fare a meno di Dio: «L'idea che la moralità sia indipendente dalle tradizioni confessionali e accomuni tutti gli esseri umani, a prescindere dal loro credo, consente di adeguare le concezioni etiche ai bisogni delle persone e ai problemi nuovi che si presentano. Inoltre aiuta a superare le situazioni di conflitto causate dalla scelta di mettere in primo piano le identità particolari di natura culturale e religiosa».
Se è dunque plausibile un'etica senza comandamenti divini, si possono anche spiegare le origini della vita e dell'uomo senza ricorrere a una dimensione trascendente? La risposta positiva viene dal filosofo della scienza Telmo Pievani, assai polemico, nel libro Creazione senza Dio (Einaudi, pp. 137, e 8), verso chi ritiene che vi sia l'impronta di un «disegno intelligente» nel mondo naturale: «Questa teoria non ha basi scientifiche e trovo inaccettabile che in America si pretenda di insegnarla a scuola insieme all'evoluzionismo. Ma Darwin va preso sul serio anche sul piano filosofico: la sua è una sfida alle fedi, perché dimostra che l'esistenza dell'uomo si può spiegare senza fare ricorso a un intervento sovrannaturale. Ciò non significa però che le teorie darwiniane comportino l'inesistenza di Dio. In questo dissento da Dawkins e Dennett, mentre ritengo possibile un dialogo tra forme diverse di sapere: quella scientifica e quella filosofico-religiosa. Il Dalai Lama si è confrontato in modo proficuo con studiosi darwiniani».
Più difficile è però dialogare con i cristiani. In un saggio sul numero di «MicroMega» appena uscito, Pievani critica non solo Benedetto XVI, ma anche il teologo eterodosso Hans Küng, grande rivale del Papa, e il suo libro L'inizio di tutte le cose (Rizzoli, pp. 266, e 18): «Ratzinger — spiega lo studioso — pretende di annettere e subordinare la ragione scientifica a una razionalità più ampia illuminata dalla fede, scartando come irrazionale l'idea darwiniana che la specie umana si sia evoluta solo per mutazioni casuali e selezione naturale. Küng invece respinge apparentemente le suggestioni del disegno intelligente, ma cerca comunque di reimmettere nel discorso scientifico temi di carattere teologico».
Insomma, i motivi di conflitto prevalgono sulle ipotesi di convergenza. Basta sentire Viano: «Fra il credente e l'ateo non c'è la simmetria asserita da chi considera indimostrabile tanto l'esistenza quanto l'inesistenza di Dio. Le società umane hanno elaborato vari mezzi ordinari di conoscenza, generalmente condivisi, attraverso cui si può accertare qualcosa. Chi afferma l'esistenza di un essere non conoscibile con quegli strumenti, deve accollarsi l'onere della prova. Per questo mi pare legittimo sostenere che, fino a prova contraria, Dio non c'è».