sabato 18 maggio 2019

il manifesto 18.5.19
La sospensione della prof è un atto squadrista
Leggi razziali. Difendere Rosa Maria Dell’Aria vuol dire difendere noi stessi e la nostra costituzione, il principio della divisione dei poteri, della tutela delle nostre libertà fondamentali
di Christian Raimo


Ho avuto in classe militanti neofascisti, studenti che affermavano che i campi rom andavano bruciati, altri che erano a favore la pena di morte, sedicenni a favore delle classi differenziali e per la sterilizzazione dei disabili, altri che pensavano che la legislazione sullo stupro fosse esagerata, eccetera.
Ma mai, mai, mai ho pensato che la politica dovesse uscire dalla classe, o potesse pregiudicare la libertà e il lavoro della comunità educante. La scuola serve a questo. Anche per questa ragione la sospensione e la riduzione dello stipendio dell’insegnante palermitana per quindici giorni e la sua riduzione è un atto squadrista. E va proclamato uno sciopero generale. La storia del lavoro scolastico fatto da un gruppo di studenti per la giornata della memoria, e presentato alla professoressa Rosa Maria Dell’Aria è una storia vergognosa.
Per diverse ragioni: si mette in discussione la libertà di insegnamento, si aggrediscono i diritti di una lavoratrice, si crea il precedente della delazione; la vicenda parte da un tweet di un militante di estrema destra, il giorno dopo la sottosegretaria leghista ai Beni culturali Lucia Borgonzoni è intervenuta su Facebook commentando: «Se è accaduto realmente andrebbe cacciato con ignominia un prof del genere e interdetto a vita dall’insegnamento. Già avvisato chi di dovere».
A Palermo è poi partita un’ispezione – decisa da chi’ -, con conseguenti interrogatori alla professoressa e ai ragazzi, ed è stato emesso un provvedimento di sospensione contro l’insegnante. Va proclamato uno sciopero generale. La Lega – attraverso l’uso offensivo delle istituzioni – ha pensato di difendere le sue politiche, attaccando una docente e gli studenti, e in loro l’intera struttura democratica di cui la scuola è la metonimia. L’elemosina politica elargita da Matteo Salvini, che ora vuole incontrare l’insegnante e gli studenti per spiegare come siano differenti il suo decreto sicurezza dalle leggi razziali è una dichiarazione ancora più aggressiva e vile. Salvini, si comporta come se non fosse il capo del partito, il vicepremier e il ministro di un governo che può sanzionare pubblicamente l’operato di Lucia Borgonzoni e di Marco Bussetti, che è l’unica cosa che va richiesta, oltre a proclamare uno sciopero generale.
Come si è capito facilmente lo squadrismo mediatico di una destra culturalmente succube della propaganda neofascista, funziona con atti polizieschi nei confronti di inermi – le intimidazioni, i fermi di chi protesta pacificamente nei comizi elettorali di Salvini sono ormai seriali – e una penosa propaganda sedicente pop, fatta di supplì, Nutella e pupazzetti di Zorro. Anche per questo va proclamato uno sciopero generale.
Difendere Rosa Maria Dell’Aria vuol dire difendere noi stessi e la nostra costituzione, il principio della divisione dei poteri, della tutela delle nostre libertà fondamentali. Come ha scritto Paolo Pecere ieri: “Gli studenti di Palermo hanno mostrato con la loro ricerca è che gli atti dei politici di oggi prima o poi saranno giudicati da un libero dibattito storico, quando Salvini si starà godendo la pensione e avrà smesso di postare le sue merende e le sue provocazioni”.
Da adulti dobbiamo ammettere che dopo un ragazzino di Torre Maura, una sedicenne svedese, ancora una volta sono dei ragazzi a indicarci cosa vuol dire un’ecologia del discorso democratico: l’idea di considerare il presente alla luce del futuro, che manca quasi del tutto nella politica di oggi, è stata portata in primo piano non da un partito di opposizione ma dalla classe di una scuola superiore. Anche per loro va proclamato uno sciopero generale. La gravità del fatto, eversivo delle garanzie costituzionali richiede una risposta eccezionale da parte di insegnanti, studenti e sindacati della scuola, una lotta su più piani e con più metodi che portino al ritiro della sospensione con scuse ufficiali e a una indagine sull’ufficio scolastico e su tutta la catena che ha portato a questa decisione. Va proclamato uno sciopero generale e i solerti esecutori di questo ordine spregevole vanno sanzionati.

Il Fatto 18.5.19
A difesa della Carta restano gli studenti
di Tomaso Montanari e Francesco Pallante


Il caso della professoressa Rosa Maria Dell’Aria, colpita da sanzione disciplinare perché avrebbe omesso di vigilare sul contenuto di un lavoro dei suoi studenti è di inaudita gravità: perché chiama in causa fondamentali principi costituzionali, quali la libertà di insegnamento (art. 33), il diritto all’istruzione (art. 34), la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21). Si tratta di diritti che Norberto Bobbio considera presupposti necessari a rendere realmente tale una democrazia. Vengono, inoltre, in evidenza le disposizioni costituzionali per le quali i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica (art. 54) e i pubblici impiegati quello di porsi all’esclusivo servizio della Nazione (art. 98). “Repubblica” e “Nazione”: non “governo” né, tantomeno, singoli “ministri”.
E quei ragazzi che, in una scuola della Repubblica, imparano a usare gli strumenti della filologia e della storia, e li usano per dimostrare le matrici fasciste di leggi, politiche, atteggiamenti attuali, avverano ciò che, in assemblea Costituente, prospettava Concetto Marchesi: è “nella scuola il presidio della Nazione”.
Una Repubblica – è necessario ribadirlo? – che la Carta fondamentale connota in senso antifascista (XII disp. trans. fin.) e costruisce sull’uguaglianza e la non discriminazione di tutti gli esseri umani (art. 2 e art. 3). E una Nazione definita non certo in base alla purezza del sangue della stirpe che la popola, bensì al paesaggio e al patrimonio storico e artistico forgiato dalle innumerevoli popolazioni che nei secoli hanno calcato, modellandola, la Penisola (art. 9): una Nazione, in altre parole, intesa come costruzione artificiale, aperta, in perenne trasformazione.
La distanza dal fascismo non potrebbe essere più grande. Rendendo gli ebrei una sottocategoria di cittadini, le leggi razziali avevano affermato un’idea di Nazione intesa come dato naturale, chiuso, immodificabile. Per mantenerne la genuinità occorre isolare gli elementi impuri: riservando loro uno status giuridico separato prima ancora che relegandoli fisicamente in luoghi destinati soltanto a loro. Lo scopo dichiarato dell’intera legislazione razziale è esattamente questo: intervenire a difesa della razza italiana, per proteggerla da ogni possibile minaccia di contaminazione.
L’idea di cittadinanza è indissolubilmente legata a quella di uguaglianza. Se l’autorità può di più o di meno nei confronti di qualcuno, allora a rilevare è il privilegio di chi ha meno doveri o più diritti, vale a dire, lo status che differenzia il privilegiato rispetto agli altri. Esattamente com’era prima del 1789. Ed esattamente come ora, in Italia, dispone l’art. 14, co. 1, lett. d), del decreto-legge n. 113 del 2018, convertito nella legge n. 132 del 2018 (decreto sicurezza o decreto Salvini).
Tale disposizione introduce un’inaudita discriminazione all’interno della categoria dei cittadini, basata sulla possibilità, in caso di condanna definitiva per reati di matrice terroristica, di revocare la cittadinanza a coloro che l’hanno acquisita nel corso della loro esistenza e non anche a coloro che cittadini lo sono per nascita da genitori italiani. Come a dire: anche una volta acquisita la cittadinanza, lo straniero non potrà mai essere realmente ritenuto un italiano come gli altri (perché non ha sangue italiano nelle vene). Lo scopo è lo stesso di un tempo: la difesa degli italiani, quelli veri. Quando si tratterà di punire il responsabile di talune condotte criminali, a venire in luce non sarà, dunque, quel che egli ha compiuto, ma chi è. Il punto è decisivo: la stessa azione sarà punita diversamente a seconda di chi ne è l’autore, in clamorosa violazione del principio di uguaglianza formale sancito dall’art. 3, co. 1, Cost. Chi replica che l’ordinamento già prevedeva ipotesi di revoca della cittadinanza non coglie nel segno, perché quelle ipotesi valevano (e valgono) tanto per i cittadini dalla nascita quanto per quelli che lo sono diventati nel tempo: non creano una categoria di cittadini di secondo rango, come invece fa il decreto Salvini. Che è, sostanzialmente, una legge razziale: perché discrimina in base al sangue. Ed è una legge totalitaria, perché può togliere la cittadinanza italiana anche a chi non ne ha più un’altra: creando apolidi privi del “diritto di avere diritti”.
Siamo al cospetto del più grave scostamento dal quadro costituzionale mai verificatosi nella storia repubblicana. La questione è a tal punto delicata che in Francia ben due Presidenti della Repubblica – Sarkozy, prima, Hollande, poi – sono stati costretti a rinunciare all’introduzione di norme analoghe. Da noi, il presidente della Repubblica è rimasto in silenzio. Per fortuna, a levare la voce a garanzia della Costituzione ci hanno pensato gli allievi della professoressa Dell’Aria.

Il Fatto 18.5.19
Rai e La7, Zingaretti fugge dal confronto in tv con Salvini
di Gi. Ros.


Nicola Zingaretti fugge dal confronto con Matteo Salvini. Domenica scorsa il leader leghista era ospite a Raitre da Lucia Annunziata. A fine trasmissione, dopo un’intervista serrata, la giornalista dice: “Ora non verrà più da me…?”. “Verrei anche domenica prossima”, la risposta del ministro. “Domenica (domani, ndr) c’è Zingaretti, sarebbe disponibile a un confronto con lui?”. “Certamente”. Nello stesso giorno, però, la Rai fa un comunicato per avvertire che il confronto Salvini-Zingaretti a Mezz’ora in più non si può fare per questioni di par condicio. Nelle ultime domeniche, infatti, sono stati intervistati i diversi leader e un faccia a faccia non previsto metterebbe il programma fuori dalle norme. Qualche concorrente, però, deve aver seguito il botta e risposta tra la conduttrice e il vicepremier. Così durante la settimana dalle trasmissioni de La7 sono partiti diversi inviti a Salvini e Zingaretti per verificare la disponibilità a un confronto prima del voto. Ma, a quanto si apprende da alcune fonti, il leader del Pd ha risposto di no. A conferma della voce secondo cui il fratello del commissario Montalbano non sia esattamente un cuor di leone.

Il Fatto 18.5.19
Il maresciallo Mandolini disse al teste Casamassima: “Ti rendi conto di quello che hai fatto?”
di Antonella Mascali


Un’altra relazione di servizio, del 2016, in piene indagini bis sull’operato di carabinieri, è stata depositata ieri dal pm di Roma Giovanni Musarò al processo Cucchi. Il documento sembra confermare la paura di uno dei 5 carabinieri imputati, a vario titolo, di omicidio preterintenzionale, falso in atto pubblico e calunnia per la morte nel 2009 di Stefano Cucchi, avvenuta secondo la Procura in seguito al pestaggio subito dopo l’arresto. La relazione del 26 ottobre 2016, firmata dal maresciallo Roberto Mandolini, accusato di aver falsificato il verbale dell’arresto e di aver scaricato le responsabilità sulla polizia giudiziaria, riguarda un colloquio che avrebbe avuto con Riccardo Casamassima, il carabiniere che ha fatto riaprire le indagini e che – secondo la difesa Mandolini – avrebbe mentito. “Stai tranquillo, ne esci fuori, si legge nella relazione, la Procura sta avanti, non posso dirti di più. Lo so che non hai fatto nulla, fidati di me”. E Mandolini: “Ti rendi conto di quello che hai fatto? Cosa vogliono i Cucchi da me? La Cucchi (la sorella Ilaria, ndr) vuole un confronto con me! Col padre lo deve fare, perché lei dice una cosa e il padre un’altra!”. Una conversazione che per l’accusa confermerebbe la paura di Mandolini per quanto potessero accertare i magistrati sul depistaggio. Ieri, l’appuntato Vincenzo Accinno, chiamato dalla difesa, ha detto di aver visto Mandolini e Casamassima insieme “ma per una frazione di secondo, stavo andando in bagno”. Un anno fa, al processo, Casamassima aveva confermato quanto detto al pm e cioè che Mandolini, dopo l’arresto di Cucchi, gli avrebbe detto: “È successo un casino, i ragazzi hanno menato un arrestato”. Sempre al processo, ha raccontato di un altro incontro con Mandolini del 2016: “Cercai di aiutarlo, gli consigliai di andare dal pm a dire le cose come andarono anche perché la procura stava avanti (aveva già le intercettazioni, ndr) e lui non aveva partecipato al pestaggio”.

Il Fatto 18.5.19
“Fermate la nave”. Genova non vuole il cargo delle armi
Città mobilitata - Dopo i camalli e la Cgil, l’appello del mondo cattolico: “Via dal porto, non saremo complici della morte”
di Andrea Moizo e Ferruccio Sansa


Fermate la Bahri Yanbu. Genova si schiera contro la nave saudita che trasporta armi. Dopo i camalli e la Cgil arriva l’appello delle associazioni cattoliche. Una scossa della società civile in una città che si riscopre viva dopo il colpo terribile del Ponte Morandi.
Il cargo saudita è atteso in porto lunedì, ma di ora in ora aumenta la mobilitazione. Camalli e Cgil hanno organizzato un presidio, ma cosa succederà se la nave attraccherà non si sa. Erano stati proprio i lavoratori del porto a raccogliere la denuncia di Amnesty International. Ma ieri è arrivato un appello delle associazioni, dalle Acli a Libera. Gruppi che in città raccolgono migliaia di iscritti, giovani soprattutto: “Chiediamo che le Autorità si adoperino per impedire l’attracco della nave. L’anima aperta della nostra città, già ferita da tanta sfortuna, non deve essere costretta a tollerare questa complicità con la morte”.
Ieri, Cgil e Culmv (la Compagnia Unica dei portuali) si sono riunite in assemblea: fermare la nave? La linea, condivisa dalla segreteria, è che “non ci sono i presupposti per un’azione sindacale, date le rassicurazioni della prefettura sull’assenza di armi in imbarco. Ci sono, però, presupposti per un’azione politica. Un presidio dei varchi portuali per sollecitare in futuro un monitoraggio degli imbarchi della Yanbu e della compagnia saudita”. Questa la linea ufficiale. Ma più voci, dal Collettivo Autonomo Lavoratori del Porto a Genova Antifascista, chiedono un intervento più significativo. Come Francesca Bisiani di Amnesty: “Per noi la nave è da fermare. Non imbarcherà armi, ma le porta in un teatro di guerra con civili e la legge 185 impegna l’Italia a impedirlo. Appoggeremo qualsiasi iniziativa, purché pacifica”.
Le autorità si limitano a dichiarare che a Genova la nave imbarcherà materiale civile. La Yanbu doveva attraccare il 10 maggio a Le Havre per caricare cannoni Caesar da 155 mm, mentre ad Anversa aveva imbarcato munizioni. Ma in Francia la mobilitazione di portuali, sindacati e pacifisti ha impedito l’attracco. Non è la prima volta che la Bahri Yanbu attracca in Italia. A Genova è già stata il 6 gennaio e il 15 marzo, mentre tra il 7 e l’11 novembre del 2018 era a Livorno. Impossibile sapere cosa abbia caricato. Il timore è che le armi provenienti anche dall’Europa siano utilizzate nella guerra in Yemen.
L’Arabia è schierata con il presidente Abd Rabbih Mansur Hadi. Sul fronte opposto i ribelli sciiti con Iran ed Hezbollah. Mentre Al Qaeda mette radici. In mezzo c’è la popolazione di un paese meraviglioso, raccontato negli 70 da Pier Paolo Pasolini nel film Le mura di Sana’a, e oggi tra i più poveri del pianeta.
La flotta della compagnia nazionale saudita Bahri Shipping conta 6 navi utilizzate per il trasporto di armi. Oltre alla Yanbu ci sono Jeddah, Tabuk, Abha, Yazan e Hofuf. Il 9 giugno 2016 a Cagliari la Jeddah caricò armi prodotte dalla Rwm Italia, branca nostrana della tedesca Rheinmetall. Le navi della Bahri (che secondo i Lloyd’s nell’ultimo anno hanno spento per settimane i trasponder rendendosi invisibili ai radar) sono state fotografate nel porto yemenita di Aden, controllato dai sauditi. In altre immagini, pubblicate da Repubblica, si riconoscono Lav 700, armi utilizzate dalle milizie alleate di Riad.
Ma ci sono anche viaggi in Libia – dove l’Arabia fiancheggia il generale Khalifa Haftar – evidenziati nei dossier Onu dove si parlava di una violazione dell’embargo. Rischiano così di suonare vuote le parole del presidente francese Emmanuel Macron: “Abbiamo chiesto la garanzia che le armi non siano utilizzate contro i civili. L’abbiamo ottenuta”. Macron è tranchant: “L’Arabia e gli Emirati sono alleati della Francia. Li supportiamo totalmente”.

Il Fatto 18.5.19
“Votiamo subito lo stop alle bombe verso Riad”
Lia Quartapelle - La deputata Dem propone ai 5Stelle di approvare una risoluzione per sospendere l’export
di Salvatore Cannavò


Il Pd sulla questione delle armi italiane all’Arabia saudita cambia posizione e lancia l’appello al M5S: “Votiamo insieme la sospensione delle forniture”. E rilancia anche sul porto di Genova: “Il governo ha chiuso i porti ai migranti e invece li lascia aperti alle bombe”.
La posizione è di Lia Quartapelle, giovane deputata della Commissione Esteri della Camera che ha presentato una risoluzione al governo per procedere in tal senso. Il cambio di atteggiamento è secco perché quella fornitura fu autorizzata durante il governo Renzi, nel 2016.
In che consiste la risoluzione presentata alla Camera?
Nel chiedere al governo di sospendere la fornitura di armi. La sua origine è dovuta dalla situazione in Yemen dove il rapporto del panel di esperti indipendenti sulle violazioni del conflitto, dell’agosto 2018, ha rivelato le “grandi violazioni” dei diritti umani. A questo si è aggiunto il caso Kashoggi (il giornalista saudita ucciso per ordine del principe bin Salman, ndr.) e quindi la decisione di alcuni Paesi europei a partire dalla Germania di sospendere la fornitura
Nella maggioranza di governo si obietta però che la sospensione non è tecnicamente possibile.
Il problema non è tecnico, la realtà è che sia la legge 185 del 1990, che regola il commercio internazionale di armi, sia il Trattato internazionale sul commercio di armi, ratificato nel 2013, permettono una discrezionalità della politica. E quindi chiediamo che ci sia un’iniziativa politica in tale senso anche in considerazione del fatto che il M5S, nella passata legislatura, si era addirittura detto favorevole a una moratoria della vendita di armi. Posizione molto più forte della semplice sospensione.
Se accogliessero la vostra proposta, questa sarebbe approvata? E voi quindi auspicate un voto comune con il M5S?
In Parlamento ci sarebbero i numeri, anche perché la risoluzione porta la firma di Laura Boldrini. Aggiungo che noi siamo disposti a votare il testo della risoluzione presentata dal M5S che è più blando del nostro, ma che loro non vogliono mettere in discussione. Il M5S non vuole assumersi la responsabilità politica e non vogliono votare perché aspettano un accordo con la Lega.
Perché la Lega si oppone?
La sua posizione è molto filosaudita e molto determinata in quel senso, ma il problema non è la posizione della Lega ma il M5S.
Ma è stato il Pd, con il governo Renzi, ad aver autorizzato quella. Fate autocritica?
Non è stato semplice far accettare questa posizione al Pd. Abbiamo fatto dei passi avanti e ora è la posizione di tutto il partito. Chiedo invece al ministro Toninelli come fa a parlare di porti chiusi ai migranti e lasciare che attracchi una nave che porta armi? Su questo abbiamo chiesto al governo un chiarimento ma non abbiamo avuto risposta.
Comunque il suo partito ha cambiato posizione?
Abbiamo detto che avremmo considerato una sospensione nel caso altri Paesi l’avessero fatto. E ora siamo coerenti. Come Pd ci eravamo mossi in vari momenti contattando la Spd che è al governo in Germania, per assumere una posizione comune.
Quella fornitura è stata un errore?
Dal punto di vista della legalità internazionale capisco perché la decisione fu presa, non c’erano prove di violazione dei diritti e l’Arabia intervenne perché chiamata dal governo yemenita. La situazione si è poi evoluta e anche se la nostra è stata un’evoluzione sicuramente lenta, non si capisce perché si continui a rinviare una decisione che potrebbe essere presa subito.

Corriere 18.5.19
In Missouri un’altra legge contro l’aborto


Il parlamento a maggioranza repubblicana del Missouri ha approvato ieri una legge che vieta l’aborto dopo 8 settimane di gravidanza, unendosi così ad altri Stati americani che stanno limitando il diritto all’aborto. La legge prevede che l’aborto possa essere consentito oltre le 8 settimane solo per emergenze mediche, ma non in caso di stupro o di incesto. I medici che la violano rischiano da 5 a 15 anni di carcere, mentre le donne che abortiscono non verranno perseguite legalmente. Mercoledì scorso il governatore dell’Alabama ha firmato una misura ancora più restrittiva — la più dura negli Stati Uniti — che proibisce l’aborto tranne nel caso in cui la vita della madre sia a rischio: l’intenzione è di spingere la Corte suprema a riesaminare il diritto all’aborto garantito con la storica sentenza «Roe v. Wade» nel 1973.

il manifesto 18.5.19
Le fragili famiglie di Ken Loach ai tempi del precariato
Cannes 72. «Sorry We Missed You», il film in concorso del regista inglese ci parla dell'oggi e dei tanti che non ce la fanno a sopravvivere
di Cristina Piccino


CANNES C’è un’ostinazione in Ken Loach, 82 anni,due volte Palma d’oro (con Il vento che accarezza l’erba, 2006 e Io, Daniel Blake, 2017) che lo spinge a battersi col presente e, insieme, a condurre il proprio spettatore a una consapevolezza quasi esasperata. Sorry We Missed You – presentato in concorso – parla dell’oggi, ci dice dei tanti che non ce la fanno a sopravvivere con l’affitto da pagare, dei figli e senza le «garanzie» – seppure sempre più blande del «posto fisso». Lo hanno perso, o forse non lo hanno mai avuto e in quella che è la società attuale, con l’obbligo di «reinventare» il concetto stesso di lavoro, e quello della vita, devono afferrare ciò che arriva. Ma questa invenzione – del lavoro, della vita – non è quasi mai sinonimo di creatività, o di una maggiore libertà, in questi casi significa sempre ricatti, violenza, un massacro quotidiano. Ricky (Kris Hitchen), il protagonista del nuovo film del regista inglese, scritto dall’abituale complice Paul Laverty, prova a uscire dai debiti accumulati con un fallimento lavorando per una società che consegna pacchi. La moglie, Abby (Debbie Honeywood) si occupa di anziani e malati gravi a domicilio, li lava, li veste, li nutre, fa fronte alle loro crisi di panico o di follia, a quel vuoto di famiglie che semplicemente li hanno abbandonati. Vaga tutto il giorno da una casa all’altra,i figli li incrocia se va bene la sera, ricordandogli al telefono i compiti, il cibo da scaldare nel forno;hanno sedici anni il ragazzo, e la disperazione dell’adolescenza rabbiosa e fragile divisa con gli amici tra graffiti sui muri, bravate, saltare la scuola, risse. E undici la più piccola, saggia e spaventata, che piange quando i genitori litigano.
PER ABBY le cose sono diventate peggiori dopo avere venduto l’automobile per comprare il furgone di Ricky. Eppure è sempre dolce, non alza la voce, coi figli cerca di mediare – e di mantenere la tacita promessa di non alzare mai le mani su di loro scambiata col marito – per bilanciare una presenza nelle loro giornate divenuta sempre più rada. Neppure a Ricky va meglio, la società per cui lavora, una specie di Ubs o Tnt impone ritmi senza respiro, si piscia nella bottiglia perché come a Walmart o deliveroo o amazon la produttività è tracciata da un un bip meccanico: rallenta, si paga.
NESSUNA COPERTURA, nessun diritto nessuna indennità anche se ti rompono la faccia. Cosa significa vivere così, quali sono gli effetti di una simile realtà, sul corpo e sulla testa? Sorry We Missed You parla di questo. Ci dice alla Loach, ovvero senza mezze misure, le conseguenze delle nuove economie sempre più liberiste sulle società ma soprattutto si addentra tra gli effetti di questo precariato divenuto regola sui sentimenti delle persone. Vale per tutti, anche se qui nel modo più feroce: fabbriche, uffici, giornali,nessuno può lasciare se «precario», non sono permesse – la malattia, la maternità, la famiglia, perché c’è sempre qualcuno pronto a prendere il tuo posto. E se la pratica può talvolta essere diversa quest’ansia è ormai uno stato mentale persino auto-imposto.
COME SI AMA, come si sta insieme, semplicemente come si fa a vivere emozioni e relazioni? La famiglia del film si frantuma sempre più, ciascuno dalla sua parte mentre cresce l’ossessione, e con questa la paura di non riuscirci del protagonista. Ribellarsi è (di nuovo?) no future per i ragazzini, boicottare è un gesto d’affetto. È proprio la lente di questa intimità, di un vissuto affettivo disperso tra assenze e stanchezze la scommessa e la riuscita del film. In questo spazio la «cronaca» sociale assume una sua verità tangibile, che riguarda la vita di ciascuno, la interroga e insieme costruisce una consapevolezza. Distogliere lo sguardo dopo è forse un po’ più difficile.

Corriere 18.5.19
Storia e miti
«La ribelle Giovanna d’Arco non sia usata dai gilet gialli»
Dumont: ho voluto una bambina per il ruolo, no alla politica
di Stefania Ulivi


Cannes «Giovanna d’Arco è un’icona intramontabile. La storia inquietante di questa ragazzina analfabeta che in pochi anni diventa guerriera e santa, il suo processo iniquo e la sua morte la pongono come simbolo della condizione umana, non solo femminile. È un mito e la sua rappresentazione è con me un canto rituale». Due anni fa Bruno Dumont, uno degli autori più strenuamente irregolari del cinema francese, portò alla Quinzaine des Réalisateurs Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc, un musical ispirato agli scritti di Charles Péguy, punto di partenza anche del nuovo film, Jeanne, in gara oggi nella sezione Un certain regard. Il racconto della fase finale della vita della Pulzella d’Orleans, in piena Guerra dei cent’anni, tra il 1429 e la morte sul rogo.
«Molto è stato scritto su di lei, molti i film girati. Il suo fascino è intramontabile. Parla al nostro presente di religione, monarchia, socialismo, ambiente, guerra, pace — racconta Dumont — . Ho scelto ancora una volta di affidarmi a Péguy perché lui, pur essendo ateo e anticlericale, è il solo pensatore importante della mistica francese. Si è posto contro ogni forma di dogmatismo. E ha saputo indagare come pochi l’eterno mistero della Francia. La vita di Giovanna d’Arco porta in superficie le contraddizioni che abbiamo sempre nascosto».
Perché la figura di Giovanna d’Arco, la ragazzina che guidò il suo popolo nella resistenza contro gli inglesi, è un concentrato di contraddizioni: agisce in nome di Dio ma è critica della Chiesa, è stata canonizzata ma è la Chiesa che l’ha messa sul rogo. «È tutto lì: essere o non essere. Lì sta l’origine del pensiero francese e la sua arroganza», sostiene il regista sessantunenne.
La protagonista di Jeanne è ancora Lise Lesplat Prudhomme, la stessa attrice di Jeannette. «Perché una bambina? La maggior parte della attrici che l’hanno interpretata non avevano la sua età: Giovanna è morta a 19 anni. Ingrid Bergman quando ha girato con Roberto Rossellini ne aveva 39. Tanto per sottolineare la sua modernità a prescindere dal tempo. Ai nostri occhi di spettatori del XXI secolo, i dieci anni di Lisa accentuano l’aspetto di innocenza, speranza, forza folgorante della Pulzella d’Orleans. Gli eroi e le loro storie vanno reiterati per non perdere la memoria. Il mistero che lei rappresenta deve essere rinnovato a ogni generazione: mille film di lei non basterebbero a esaurirlo».
Il suo, spiega, è «un inno alla battaglia umana di cui Giovanna è metafora contro tutti i dogmatismi. Compreso quello della forza delle donne, contro ogni idea di segregazione».
Tanto spiazzante risultò il tono del musical sull’infanzia della pulzella, quanto rigorosa apparirà questa seconda parte. Dumont mostra anche i suoi carnefici che discutono con assoluta naturalezza dei metodi di tortura da utilizzare, come fossero gesti comuni, quotidiani. «Il male e il bene non sono vicini, sono facce della stessa medaglia. È solo una questione di dosi. Certo, è terrificante».
Ogni parte politica, nella storia di Francia, ha cercato di appropriarsi della sua figura. Ultimo arrivato è il movimento dei gilet gialli per cui anche diversi artisti stanno simpatizzando. «Loro sono il naufragio della cultura francese. I dannati di una sottocultura dominante “gialla e fosforescente”. Sono dei dementi, una demenza che nasce dall’invelenimento della sottocultura che li ha alimentati. E il cinema, attraverso film e autori ignominiosamente incensati anche dai media, ha contribuito alla demenza generale. Tutti gli artisti del sistema sono la causa dei gilet gialli. Vogliono appropriarsi anche di Giovanna d’Arco? Io dico: la lascino tranquilla».

venerdì 17 maggio 2019

Repubblica 17.5.19
L’intervista alla leader Cdu
Kramp-Karrenbauer "La Lega ci preoccupa la Germania sarà vigile"
di Tonia Mastrobuoni


Italia — uno dei Paesi fondatori della Ue e uno dei Paesi più grandi e più potenti in Europa — ci costringono e costringono la Germania ad essere molto vigili. Anche se alla fine sono i cittadini che decidono. E dobbiamo accettarlo, finché è chiaro che ci sono elezioni democratiche. E su questo non ci sono dubbi, finora».
Nella sua famosa risposta a Emmanuel Macron sulle riforme europee lei non sembra condividere il suo entusiasmo sull’Ue. Vuole anche lei un’Europa più piccola, come il cancelliere austriaco Kurz?
«Il mio entusiasmo per l’Europa è enorme. Penso anche, però, che non si misuri in quante competenze le si riconoscano. Sono convinto che abbiamo bisogno di un’Europa più forte, che agisca di comune accordo soprattutto nelle questioni cruciali.
Per me sono la sicurezza, la difesa, l’innovazione e l’obiettivo di mantenere il nostro benessere. È ciò che vogliono anche i cittadini, stando ai sondaggi. Insieme a una risposta comune ai cambiamenti climatici».
Lei ha proposto di spostare la sede del Parlamento da Strasburgo.
Perché provocare la Francia?
«Una delle critiche che torna nei confronti della Ue è che il Parlamento si riunisce in posti diversi.
Accoglierei la proposta di Manfred Weber: che sia il Parlamento stesso a decidere dove riunirsi. Ma in un posto solo».
La crisi finanziaria ha danneggiato i rapporti tra la Germania e il Sudeuropa. Che cosa farà per migliorare l’immagine del suo Paese in Grecia, in Italia o in Spagna?
«Il dibattito degli ultimi anni di crisi finanziaria ed economica è stato soprattutto sulle sue origini e su come superarla. Ho grande rispetto per ciò che è stato fatto in Grecia, in Spagna o in Portogallo: hanno fatto enormi sforzi. E molti sacrifici. Resto comunque della convinzione che i conti pubblici in ordine siano un presupposto essenziale per la stabilità finanziaria».
Uno dei temi che hanno fatto esplodere il populismo, ad esempio in Italia, è l’immigrazione. Dublino è uno scandalo, ma la riforma è morta. Come aiutare l’Italia e la Grecia?
«La crisi dei profughi del 2015 è nata proprio perché l’Europa non ha funzionato. Lo dobbiamo ammettere. Dublino non va. Siamo stati a guardare troppo a lungo e con troppa poca attenzione mentre i Paesi ai confini della Ue facevano i conti con numeri crescenti di profughi. Li abbiamo lasciati soli. È uno degli errori che abbiamo fatto nella politica tedesca. Anche nella Cdu: lo dico sinceramente. Perciò dobbiamo pensare a come riformare il sistema.
Ad esempio quali proposte su Dublino adottare. Potremmo dare più soldi ai Paesi che sono ai confini della Ue perché facciano i conti con i flussi. Ma qualcuno potrebbe anche dire: non voglio. Certamente è qu esta una delle maggiori sfide che il nuovo parlamento e la nuova Commissione Ue dovranno affrontare».
È giusto bloccare le navi delle Ong che salvano vite nel Mediterraneo?
«È una questione molto difficile. È giusto non lasciare affogare le persone in mare. Qualsiasi altra decisione tradirebbe l’ideale umanitario europeo. Ma voglio essere molto brutale: è chiaro che il modello di business degli scafisti e della criminalità organizzata è quello di provocare una situazione in cui degli esseri umani vengono messi in una situazione di rischio di vita perché contano sul fatto che saranno salvati».
Ci sono molte speculazioni sul fatto che Angela Merkel possa lasciare prima del 2021. Non sarebbe meglio anche per lei?
«È nell’interesse mio e di Angela Merkel fare una buona politica in Germania per i cittadini e il paese. C’è ancora molta strada. Nei prossimi mesi si porrà la questione della collaborazione nel governo. Alla luce di eventuali cambiamenti economici e finanziari, il Contratto di coalizione sarà ancora all’altezza? E questo governo sarà ancora in grado di rispondere a queste sfide? È una decisione che prenderemo insieme, e sottolineo insieme, nella Grande coalizione. Voglio dirlo con ancora maggiore chiarezza: voglio una legislatura stabile, anche guardando alle responsabilità che ci aspettano in Europa. L’idea che dopo le elezioni europee, quando nessuno sa come si alleeranno i partiti nel Parlamento, si crei una situazione in cui la Germania provochi in modo superficiale una crisi di governo o vada a elezioni anticipate, non è l’idea che ho di responsabilità. Che trascende i confini nazionali. La Germania è uno dei Paesi più potenti in Europa ed è importante che restiamo pronti ad agire. Per dirla in modo ancora più esplicito: non mi alzo tutte le mattine con una sega in mano per andare alla Cancelleria e segare la poltrona di Angela Merkel. Sono negata con le cose manuali e dico molto chiaramente: non è il mio stile».

Repubblica 17.5.19
Gli eroi dimenticati del bus
A due mesi dal rogo a San Donato, non si parla più della cittadinanza a Rami e Adam
E i 51 ragazzi presi in ostaggio, tra incubi e paure, sono tutti seguiti dagli psicologi
dalla nostra inviata Brunella Giovara


Crema — I bravi ragazzi sono piuttosto delusi, e anche arrabbiati. La cittadinanza italiana per meriti speciali è una chimera che non è mai arrivata, e lunedì fanno già due mesi dal giorno che sconvolse loro e anche tutta l’Italia. L’autista che prende in ostaggio il pullman con 51 studenti, due prof, una collaboratrice scolastica, lui vuole fare un grande gesto, dare fuoco a tutto sulla pista di Linate, ma i ragazzi sono svelti, veloci, furbi, pur nel dramma, nascondono un telefono e riescono a chiamare la mamma, e così arrivano i carabinieri, e il grande rogo che consuma il bus non brucia anche loro, anche se la cosa enorme che gli è successa quel giorno — era sulla strada per San Donato Milanese — resta «incollata nella mia testa, io non riesco a dimenticare niente di quel giorno. Io ricordo tutto perfettamente ».
Adam El Hamami ha 12 anni, sta seduto impaziente sulla sedia del Barber Shop di piazza Duomo, mentre il papà Khalid, cittadino marocchino residente in Italia, si fa tagliare i capelli dall’amico Iead, parrucchiere palestinese-cremasco che taglia anche Salah, e tutta la nazionale egiziana. Ma la scuola, come va? «Bene». E il resto, va tutto bene? «Non tanto. Di notte ho gli incubi». E che fai, allora. «Mi alzo e vado nel lettone con la mamma, così mi riaddormento ». Il padre invece è paziente: «Io dormo sempre sul divano, lo faccio perché Adam ha bisogno di riposare, deve studiare, andare bene a scuola». La settimana scorsa la sindaca di Crema, Stefania Bonaldi, ha chiamato la prefettura di Cremona, un’altra volta: «Ci sono novità sulla cittadinanza a Rami e Adam?». «Non sappiamo ancora niente». Bonaldi: «Capisco la delusione dei ragazzi. Purtroppo non ci sono notizie certe, io stessa non ne ho. Più che chiamare…».
«Non si sono più fatti sentire…, io non so niente», così dice Rami Shehata, 13 anni, che in questi giorni è nella città della sua famiglia, Mansura, Egitto, e l’altra sera è stato ospite della televisione egiziana, «mi hanno anche dato un premio, una stella con il mio nome e i ringraziamenti», adesso aspetta che lo chiami il presidente, «sappiamo che mi riceverà, sono molto contento, è il presidente dell’Egitto!», l’altro suo Paese. Ogni tanto sogna fuoco e urla, «anche la settimana scorsa, e mi sento male». Un giorno «Salvini mi ha detto "sei come mio figlio", poi ha cambiato idea, ha detto che la legge non si tocca». Non pensa che sia giusto, bisogna mantenere le promesse fatte, e ai ragazzi, poi. «Tutto il mondo pensa che ormai siano cittadini italiani, ma non è vero!», dice suo padre Khaled, «logico che siano arrabbiati ». Sei arrabbiato, Rami? «Un po’». E tu, Adam. «Io non penso alla politica, penso solo a studiare e a giocare a calcio. Non so se mi importa ancora», ma si vede che gli importa. Il padre dice «non deve essere preso in giro. Io sono solo un gessista, lavoro con il cartongesso ma i cantieri sono fermi, al momento sono disoccupato. Però capisco che questa ricompensa se la meritano, 40 minuti di terrore, con la pistola e il coltello. Mio figlio è nato in un ospedale italiano, parla italiano, è italiano, ma non lo è». Il figlio sorride, ha grandi occhiali tondi e i pantaloni della tuta stretti con degli elastici, una moda nuova dei ragazzi, «è molto sensibile, molto intelligente », sa anche che il leone di San Marco proprio di fronte al negozio del barbiere significa che Crema era della Serenissima, un tempo. Studia la storia della sua città, è un cremasco.
«Io sogno sempre l’autista», racconta il ragazzo, sta sull’attenti come il calciatore da centrocampo che vorrebbe diventare, o un carabiniere che aspetta l’ordine. L’autista Ousseynou Sy, uno che sembrava un uomo tranquillo, «esce dalla prigione e mi viene a cercare». Allora lui si alza, sveglia la mamma e le dice «ho fatto un brutto sogno», come fanno tutti i bambini che hanno paura, la notte.
Anche gli altri quarantanove sognano il fuoco, l’uomo che grida «da qui non esce vivo nessuno», e «lo faccio perché non voglio più morti nel Mediterraneo», alle volte basta l’odore della benzina o sentire qualcuno urlare, e si torna alla mattina del 20 marzo, sulla strada Paullese. La sindaca Bonaldi: «Gli esperti lo avevano previsto», dopo l’euforia di essere vivi, e le interviste, le foto, «sono stati invitati di qua e di là», poi arriva il down, ci si sente soli, non si dorme, sono esperienze enormi per chi è grande, pensate a come la vive uno che fa la seconda media. Cinzia Sacchelli, responsabile del servizio di psicologia dell’Asst di Crema: «Ognuno ha un suo modo di rielaborare e reagire a quanto ha vissuto. I ragazzi sono ancora sottoposti a situazioni in cui viene loro chiesto conto di quanto successo, e il passato viene rivissuto continuamente. Molti hanno una paura forte rispetto alla loro sopravvivenza, sintomi di ansietà, nervosismo, maggiore reattività, disturbi del sonno, timore di stare soli», non è semplice uscire dal trauma, tanto che ci sono a disposizione anche esperti del metodo Emdr, nato dalle esperienze dei reduci di guerra, del Vietnam soprattutto. E gli psicologi dell’Asst, e quelli del ministero. «Io ci sono andato quattro volte », dice Rami, «due volte con il papà, poi a scuola». Adam, «una volta sola, c’era una dottoressa, vorrei tornarci ». E a scuola ne parlate? Adam: «No, mai», neanche con i compagni di classe. A casa? «Sì», ma poi la mamma si mette a piangere, pensa che quella volta non gli ha creduto subito, sembrava uno scherzo, si capisce che ha i sensi di colpa. Dopo, sono diventati eroi. In televisione, a Porta a Porta e da Fabio Fazio e nei talk show del pomeriggio, con i carabinieri, con il cappello da carabiniere, con Dybala allo stadio, con il ministro dell’Interno che gli ha offerto il gelato, e beh, non basta un gelato.

Corriere 17.5.19
Il corsivo del giorno
Lo «sciopero del sesso» delle femministe usa per difendere l’aborto
di Gianluca Mercuri


L’attrice Alyssa Milano è una femminista splendidamente battagliera: tra le massime artefici del successo di #MeToo, ora ha lanciato l’hashtag #SexStrike. Incita le donne allo «sciopero del sesso» in segno di protesta contro la legislazione anti-abortista che sta dilagando nell’America trumpiana. A indurla all’iniziativa è stata in particolare la legge della Georgia che vieterà l’aborto ai primi segni di battito cardiaco fetale. L’Alabama è andata oltre, mettendolo al bando «in ogni stadio e anche nei casi di stupro o incesto». Sostiene Milano: «Finché le donne non avranno il controllo sui loro corpi non possiamo rischiare la gravidanza. Unitevi a me e non fate sesso finché non riavremo l’autonomia del nostro corpo».
Robert Shrimsley, sul Financial Times , nota una contraddizione, visto che «donne pronte ad aderire a una campagna del genere difficilmente vanno a letto con uomini cui vanno spiegate queste cose». A quel punto, ironizza, «le contestatrici dovrebbero lasciare i loro fidanzati progressisti e mettersi con politici antiabortisti, in modo che la loro mossa abbia un vero effetto». Più seriamente, Shrimsley trova che lo sciopero dia l’idea che le donne «trattino il sesso come qualcosa che fanno (anzitutto) per gli uomini più che per se stesse». E aggiunge che questo tipo di battaglie «sono una delle ragioni per cui i progressisti perdono così spesso». Il politicamente corretto estremizzato che allontana la gente comune, insomma, e finisce per distrarre dal merito della questione.
Però è vero anche il contrario: la pioggia di restrizioni antiabortiste negli Usa e la voglia di rovesciare la sentenza del 1973 che legalizzò l’aborto stavano diventando routine poco mediatica. Col suo sciopero, Alyssa Milano ci ha costretti a riparlarne.

Il Fatto 17.5.19
Armi, da Leonardo 171 milioni di intermediazioni. Ma non si sa a chi
Commerci - È la cifra pagata da Leonardo nel 2017 per i caccia Eurofighter al Kuwait. Ma la legge non rivela i nomi dei “sensali”
di Salvatore Cannavò


Le industrie belliche pagano fior di milioni di intermediazione sulle commesse. Solo Leonardo, nel 2017, ha pagato 171 milioni per le forniture di Eurofighter al Kuwait. Ma, pur essendo in regola con la legge 185, questi compensi sono oscuri. Non si riesce a sapere a chi vengano pagate le somme, piuttosto rilevanti, né chi sono i soggetti abilitati né che tipo di attività viene effettivamente svolta. Si prenda il caso Leonardo discusso ieri all’assemblea annuale degli azionisti (in cui è stato approvato un bilancio in utile di 510 milioni). Alla riunione ha preso parte, avendo acquistato una quota simbolica, Finanza Etica, per conto della Rete Disarmo, chiedendo conto proprio di queste somme. “Pur non essendo possibile collegare esplicitamente alle aziende le singole intermediazioni – scrivono le associazioni pacifiste – è molto probabile che una di esse per un controvalore di 171 milioni riguardi Leonardo e il contratto di vendita dei caccia Eurofighter al Kuwait”.
Nel chiedere conferma del dato, Finanza Etica domanda se sia possibile “conoscere che tipo di attività di ‘negoziazione od organizzazione di transazioni’ è stata effettuata dagli intermediari”, di conoscere “i nomi e gli status” di questi soggetti per capire come sia possibile “arrivare a un controvalore così alto di remunerazione”. Inoltre, nella domanda posta ai vertici della società, si chiede anche di ottenere “un dettaglio di tutti gli altri compensi per attività di intermediazione pagati da Leonardo, anche per casi che non sono elencati”. Una richiesta di trasparenza a cui purtroppo non è dato riscontro. Nella risposta scritta della società, che abbiamo potuto leggere, è ovviamente ammessa l’intermediazione “di 171.345.825 euro riferita al velivolo Efa in Kuwait”.
Dopodiché Leonardo rivendica la liceità delle operazioni compiute in nome delle “autorizzazioni all’intermediazione ex lege 185/90” e che “permettono a una azienda italiana regolarmente iscritta al Registro nazionale delle imprese di emettere un ordine nei confronti di un fornitore di materiali di armamento”. Non offre nessuna luce sulle altre intermediazioni perché implicherebbe “la disclosure di dati riservati”, trattandosi “di informazioni estremamente sensibili per l’azienda”.
Insomma, nessuna risposta grazie alla contrattazione secretata e a una legislazione che nonostante la legge 185 è ancora opaca. La relazione annuale – che a norma di legge il governo presenta ogni anno al Parlamento – offre molti dati, ma rende molto difficile andare in profondità. In particolare nel caso delle intermediazioni.
Questa voce tratta “delle forniture di materiali di armamento o di servizi effettuate ‘estero su estero’ da società iscritte al Registro nazionale delle imprese presso il segretariato generale della Difesa, senza che vi sia movimentazione fisica dall’Italia del materiale o dei servizi oggetto della fornitura”. Insomma, i “sensali” tra l’azienda costruttrice e il paese di destinazione. Un mondo oscuro e interessante al tempo stesso.
L’andamento di questa voce è piuttosto anomalo. Nel 2016 ammontava a 37,5 milioni a fronte di 14,6 miliardi di autorizzazioni per esportazioni di armi. Nel 2017 c’è un boom incredibile: a fronte di minori autorizzazioni, il cui importo scende a 9,5 miliardi, il valore delle intermediazioni schizza a 531 milioni, +1315%. Nel 2018 le autorizzazioni scendono di molto, a 4,77 miliardi e le intermediazioni tornano al livello del 2016, 39,8 milioni.
Chi beneficia del pagamento, in che forme, per quali tipi di armamenti, non è dato sapere. Quello che si desume dalla relazione annuale riguarda solo grandi importi per grandi commesse.
Così nel documento si può leggere che “sul valore complessivo del 2018 incide un’autorizzazione di circa 1,6 miliardi di euro per 12 elicotteri NH-90” prodotti da Leonardo, la ex Finmeccanica. Sul valore del 2017 influiva un pacchetto contrattuale di 4,2 miliardi per la fornitura di navi e batterie costiere al Qatar costruite da Fincantieri. Sul valore complessivo del 2016, invece, “influiva una commessa di 7,3 miliardi per la cessione di 28 aerei Eurofighter Typhoon al Kuwait, ancora di produzione Leonardo.
Per capire meglio la situazione occorrerebbe scorrere l’elenco dei soggetti abilitati iscritti al Registro nazionale delle imprese tenuto dal ministero della Difesa che, però, non divulga i dati.
“Non capiamo a chi si paghino queste intermediazioni – dice Francesco Vignarca della Rete disarmo – visto che le trattative per la vendita di armi le fanno i governi. E comunque crediamo che su una materia come questa i segreti non dovrebbero mai essere posti”.

Il Fatto 17.5.19
Silvia Romano doveva sparire
Cinque mesi e nessun colpevole
di Massimo A. Alberizzi


Sono quasi sei mesi che Silvia Romano è stata rapita a Chakama e di lei non si sa più nulla. Notizie provenienti da sciacalli sono state diffuse senza alcuna verifica. Comportamenti sciagurati che hanno fatto traballare le speranze della famiglia – madre, padre e sorella – oscillate tra il desiderio di rivedere Silvia viva e vegeta e terrore di non poterla abbracciare mai più. Ora si apre uno spiraglio, che fa intravedere una soluzione del grave episodio criminale. La ragazza milanese potrebbe essere stata testimone di un episodio di violenza e qualcuno avrebbe potuto farla rapire per evitare le gravi conseguenze provocate da una sua possibile denuncia. Ma Silvia ha scritto tutto in un suo memoriale. È bene che resti in vita perché un eventuale suo omicidio su commissione potrebbe avere effetti ancora più gravi per i mandanti del suo rapimento.
Nei mesi scorsi più volte sono state messe in giro notizie inventate secondo cui Silvia sarebbe stata portata dai suoi rapitori in Somalia. Il contesto somalo è complicato e difficile, ma nell’ex colonia italiana dove tutto è distrutto e Mogadiscio ridotta a un cumulo di macerie, gli attentati sono continui, ci si muove solo con una buona scorta armata facendo attenzione ai banditi e alle gang di tagliagole islamici, dove la vita non vale niente e si può essere ammazzati per una bottiglietta di Coca Cola, una cosa funziona a dovere: le telecomunicazioni. Non è quindi difficile parlare con qualche leader governativo, qualche signore della guerra o addirittura qualche capo islamico (c’è perfino qualcuno che incarna tutte e tre le figura assieme). Bene, un’indagine in proposito porta a una sola conclusione: Silvia Romano non è mai stata portata in Somalia.
Per parlare invece di Chakama, occorre conoscere il contesto del villaggio in cui il 20 novembre dell’anno scorso Silvia è stata portata via da un commando armato. “Si tratta di un territorio completamente a economia rurale lontano dalle vie di comunicazione – spiega qualcuno che conosce molto bene la zona ma che non vuole sia reso pubblico il suo nome – è un grande comprensorio che abbraccia 17 villaggi e sotto villaggi (da noi si parlerebbe di frazioni, ndr), anche in Kenya piuttosto sconosciuto. A Chakama occorre andare apposta, non è un punto di passaggio, dove si capita per caso. È lontano da tutto, non arrivano i giornali, non si riesce a captare neppure la radio. Non ci sono negozi se non piccole botteghe, si vive di agricoltura e si campa ancora con il baratto. Non si vedono facce estranee e i pochi forestieri che arrivano vengono immediatamente notati dai locali. Insomma un modus vivendi senza alcuna relazione con il terrorismo organizzato. Quando è stata rapita, Silvia è stata caricata in spalla e portata verso il fiume, piuttosto che su un mezzo verso la strada più comoda e agibile”.
Uno scenario che apre numerose ipotesi ma che lascia anche spazio a parecchie domande. Per esempio, nessuno conosce le ultime telefonate di Silvia perché non si sa dove sia finito il suo telefono che era rimasto nella sua stanzetta di Chakama al momento del suo rapimento. È rimasto spento e bloccato per 40 giorni, poi qualcuno l’ha acceso e i messaggi whatsapp che le erano stati indirizzati sono stati ricevuti. Quindi il cellulare è rimasto inattivo ed è rimasto così per settimane. Altro mistero: che fine ha fatto la scheda telefonica italiana di Silvia. Non era installata su nessun telefono perché lei in Kenya non la utilizzava. Riposta da qualche parte in camera sua nel villaggio dove soggiornava, è sparita.
Gli inquirenti italiani si sono recati in Kenya e a Nairobi, la capitale dell’ex colonia britannica, hanno avuto colloqui con i loro omologhi locali. Si è discusso delle indagini senza grande soddisfazione. I poliziotti kenioti mostrano una sorta di reticenza a parlare della vicenda di Silvia Romano. Perché? Hanno commesso qualche errore nelle ricerche? Hanno battuto realmente tutte le strade? Oppure è coinvolto qualche pezzo grosso? Il Paese non è certamente un esempio di trasparenza, ma di solito su queste cose, da qualche anno, si mostra assai collaborativo con i nostri investigatori. Proprio qualche mese fa dalle parti di Malindi sono stati arrestati alcuni italiani che dovevano sanare i loro conti con la giustizia del nostro Paese.
Forse qualche forte pressione diplomatica potrebbe portare a una chiara definizione della questione e non è detto che la ragazza non possa tornare finalmente a casa. Perché nessuno ha pensato di stanziare una ricompensa seria (non i risibili 8.000 euro messi a disposizione delle autorità keniote) per chi darà notizie certe sulla sorte di Silvia?

Il Fatto 17.5.19
“Ci sfruttiamo da soli” A colloquio con Ken Loach
“Sorry, We Missed You” – La pellicola potrebbe consegnare a Ken Loach la terza Palma d’Oro in carriera
di Anna Maria Pasetti


Ken Loach si presenta con un braccio rotto perché “stavo combattendo i fascisti!” scherza con la consueta ironia. E con altrettanta consuetudine è invitato col suo nuovo film al Festival di Cannes, dove già vanta due Palme d’oro. “Non penso certo a una terza, già sono stati troppo generosi con me” ma Sorry We Missed You è un’opera che, vincesse un ulteriore premio, nessuno si scandalizzerebbe. Perché ci porta ancora una volta nei territori della verità più vera, quelli che Loach governa con maestria tuttora inarrivabile. Ambientato nella Newcastle dove già aveva situato I, Daniel Blake nel 2016, il film è un’esplorazione del mondo del lavoro, di come è cambiato, laddove i precari non sono più sfruttati dal “padrone” ma arrivano addirittura a sfruttare se stessi, spesso autodistruggendosi. “Una situazione totalmente intollerabile che naturalmente nasce da scelte politiche” chiosa il cineasta da sempre vate dei labour.
“Se c’è da trovare un colpevole contingente quello risponde al nome dei social democratici su base internazionale e non solo britannica: hanno perseverato rompendo ogni promessa, mentre il loro compito era di interrompere il meccanismo perverso della competizione fra corporazioni, sì proprio quello, il capitalismo selvaggio nel peggiore dei termini”. Se è vero il tema non sia nuovo, “nuove sono invece le istanze che l’hanno peggiorato e vedo poca speranza a breve termine” chiosa il quasi 83enne regista inglese. Dunque come se ne esce? “Un passo in avanti, paradossalmente, lo stava facendo il mio Paese quando tre anni fa fu eletto Jeremy Corbyn a guidare i social dem: sotto la sua spinta il partito si è spostato notevolmente a sinistra tentando in ogni modo di ostacolare privatizzazioni e creare nuovi posti di lavoro specie a tutela dell’ambiente. I lefties britannici l’hanno capito e da 100mila iscritti sono arrivati a mezzo milione; poi però sono arrivati i problemi nel momento in cui il partito si è diviso, con Corbyn ostacolato dai parlamentari del suo stesso colore, per non parlare dei media che non l’hanno mai sostenuto”. E gli effetti sono quelli che vediamo negli scenari dei suoi film, fra cui appunto Sorry We Missed You: poveri (lavoratori) sempre più indigenti. La pillola è amara e Loach non intende addolcirla: “Da una statistica recente fatta dall’Onu risulta che nell’ultimo anno le banche del cibo in Regno Unito sono aumentate del 18%: un numero spaventoso. In altre parole – aggiunge il regista – siamo quasi dentro a una catastrofe sociale, economica e ovviamente politica”. Impossibile, parlando di politica Uk, non affrontare il tema Brexit sul quale Ken il Rosso offre una disamina precisa. “È un tema delicato, specie per la sinistra. Se fosse nata da accuse squisitamente economiche, ovvero quale critica ai sistemi capitalistici perpetrati dalla Ue, allora avrebbe avuto un senso, ma non è mai stata intesa così, è sempre stata un dibattito delle due destre contrapposte, una moderata che non vuole cedere alle richieste anche minime dell’Unione e l’altra estrema che vuole lasciare l’Europa per intensificare le pratiche capitalistiche, quelle alla Trump”. E rispondendo a una domanda identitaria Loach non ha dubbi: “Stare nell’Europa degli europei, delle persone, e non dei sistemi di sfruttamento economico: questo sì che è il sogno di chi crede nella ‘vera’ Unione”. In una Cannes che già si presenta ancor più “social-politica” delle edizioni precedenti – anche se è presto fare bilanci – le parole del grande cineasta britannico tuonano quanto le guerriglie dei ragazzini nelle banlieue parigine, i protagonisti di un altro esplosivo film del concorso dall’emblematico titolo Les Misérables. “La gente è furiosa, si sfoga sui più deboli, sui migranti ad esempio. La rabbia non si contiene più: what’s next?”.

Corriere 17.5.19
Cannes 2019 Il regista britannico in concorso con «Sorry We Missed You»
Le famiglie fragili di Loach
«Il lavoro precario rovina anche i sentimenti
No allo sfruttamento. Un’altra Palma? I fulmini non cadono mai nello stesso posto»
Ormai è intollerabi le la lotta tra poveri innescata dal sistema capitalistico
Le nuove generazioni sembrano confuse: c’è chi si ribella ai genitori e chi subisce
di Paolo Mereghetti


I fulmini non cadono mai nello stesso posto» risponde ironico a chi gli profetizza una terza Palma d’oro con Sorry We Missed You (Ci dispiace non averla trovata, la frase standard con cui chi consegna i pacchi lascia al destinatario assente un avviso). E in quella battuta c’è più sincerità che scaramanzia: a 83 anni (che compirà il 17 giugno), Ken Loach non ha perso la lucidità politica e la rabbia socialista ma con un braccio al collo («ho fatto a botte coi fascisti» scherza) sembra meno combattivo di un tempo. Soprattutto meno retorico. E forse per questo il suo nuovo film, ieri in concorso a Cannes, conquista e commuove, lontano dalle intemerate contro la Thatcher o i suoi epigoni e più attento al privato e ai suoi temi.
«Per documentarmi sul mio film precedente — Io, Daniel Blake — avevo frequentato molte mense per poveri e sono stati colpito dal numero crescente di persone che le frequentava. Persone che magari avevano un lavoro ma non sufficiente per sfamare la famiglia. Negli ultimi anni il precariato ha assunto un nuovo volto, quello dell’auto-sfruttamento. Per guadagnarti da vivere devi accettare tipi di lavoro che ti negano qualsiasi garanzia — malattie, ferie, riposi — e sottoporti a una continua incertezza».
È la scelta che decide di fare Rocky (ci sarà qualche parallelo con l’eroe di Stallone?) quando si indebita (e vende l’auto della moglie) per comprare un furgone e accettare un lavoro come autista-fattorino per una società che consegna i pacchi delle multinazionali. Massima libertà e autonomia, gli dice il minaccioso manager, basta rispettare tempi e ordini. Il che vuol dire un orario di lavoro che inizia alle 7 e finisce alle 21, con una bottiglia per non perdere
Loach ci mostra tutto con puntigliosa precisione, senza dimenticare la concorrenza fratricida che si insatura tra i vari autisti, ma poi dedica buona parte del film a raccontarci cosa succede agli altri membri della famiglia: la moglie Abbie, che assiste vecchi non autosufficienti e non avendo più l’auto passa troppo tempo aspettando gli autobus; il figlio maggiore Seb, che non capisce le scelte dei genitori e preferisce saltare la scuola per seguire i suoi amici graffitari; e la più piccola Lisa Jane, la più fragile e quindi la più esposta alle tensioni familiari. Loach è molto lucido nell’analizzare la realtà. «La concorrenza che il sistema capitalistico ha innescato tra i più poveri per sopravvivere è intollerabile, non si può definire altrimenti. Così come le nuove generazioni sembrano confuse e pronte a perdersi, chi ribellandosi all’autorità dei genitori come Seb, chi subendo e introiettando le inquietudini e le ansie dei genitori». Ma il conseguente invito all’impegno politico («dobbiamo lottare per cambiare, con il voto ma anche con lo sciopero») finisce per passare quasi in secondo piano nel film, che sembra prudentemente ottimista sulla forza della famiglia nell’assorbire e stemperare i problemi.
Forse è merito del suo sceneggiatore Paul Laverty, forse il regista Loach è meno arrabbiato del militante Loach (che ironizza su Salvini, ammette gli errori della sinistra sulla Brexit — che era diventata «un referendum tra destra moderata e destra estrema» — e stigmatizza le politiche xenofobe di Ungheria, Polonia, Usa e Brasile), fatto sta che il film sorprende e conquista proprio per il modo in cui i problemi lavorativi ed educativi finiscono per confrontarsi intorno alla tavola familiare.
Sia Rocky che Abbie dovranno fare i conti con i prevedibili (e tragici) inconvenienti di lavoro, con i problemi scolastici (e non solo) di Seb, con l’ingenuità un po’ fanciullesca di Lisa Jane, eppure per una volta il regista inglese evita di trarne materia per un comizio cinematografico. Preferisce scavare nel fragile rapporto tra impiego e vita privata e offrire allo spettatore un cinema che non vuole più convincere ma solo far riflettere.

https://spogli.blogspot.com/2019/05/repubblica-17.html

giovedì 16 maggio 2019

Repubblica 5.16.19
Se il M5S guarda a sinistra
di Piero Ignazi


Negli ultimi tempi il Movimento 5 Stelle si è spostato a sinistra. Questo cambiamento è evidenziato da una serie di passaggi: la rivendicazione del valore della Resistenza con conseguente partecipazione alle manifestazioni del 25 aprile, la critica feroce al tradizionalismo della Lega sui temi della famiglia e della parità di genere, la proposta del salario minimo, e una, per quanto timida, marcia indietro sui temi della sicurezza e dell’immigrazione che fin qui lo avevano assimilato al partner di governo. L’indeterminatezza ideologica del M5S, che non si è mai limitato a definire i propri riferimenti cultural-politici, ha reso possibile, e indolore, questo ennesimo cambio di corsia. Nulla di strano se tra qualche settimana assistessimo a una inversione ad U. Ma ora, alla vigilia del voto europeo, i pentastellati si sono posizionati in un territorio tradizionalmente presidiato dalla sinistra. E questo crea non pochi problemi al Pd. Già l’introduzione del reddito di cittadinanza aveva mandato in confusione i democratici, oscillanti tra la denigrazione del provvedimento anche con argomenti tipici della destra neoconservatrice (assistenzialismo per gli scrocconi) e la rivendicazione dell’aver adottato per primi una misura analoga, seppur in sedicesimo (il reddito di inclusione approvato dal governo Gentiloni). Adesso i 5 Stelle cingono d’assedio il Pd ancora più strettamente. Non gli lasciano nemmeno l’esclusiva della bandiera pro-Europa perché hanno abbondonato le intemerate anti-euro e anti-Ue urlate nel corso delle precedenti elezioni europee. Grillo tace e Di Battista anche. Tutto questo mette a rischio la prospettiva strategica di Zingaretti. Il nuovo segretario aveva indicato un obiettivo preciso: indirizzare il partito lungo una linea di sinistra socialdemocratica per recuperare quei voti popolari andati verso i 5 Stelle. Un proposito che colpiva nel segno quando i pentastellati erano attratti dall’orbita leghista e ne condividevano o ne subivano la spinta destrorsa. In quella fase l’alleanza di governo si colorava sempre più di verde e il Pd avrebbe avuto molte armi in mano per recuperare i (tanti) consensi che aveva perso in quella direzione. Il problema è che questa strategia doveva essere messa in atto da tempo. L’incredibile ritardo nella scelta del nuovo segretario ha lasciato il Pd in una sorta di limbo, senza una linea precisa, proprio nel momento di maggiore difficoltà dell’avversario. Ora che la nuova leadership ha impresso una chiara direzione di marcia, il partito rischia di rimanere spiazzato dalla rapidità con cui il M5S ha reagito. È stato perso un anno: un ritardo imperdonabile perché c’era bisogno di tempo per riconquistare il tradizionale elettorato popolare della sinistra. Dopo che il Pd si era ritirato nei centri storici e nei bei quartieri (con qualche eccezione, vedi Milano), «ritornare nelle periferie», come recita il mantra piddino di questi mesi, non è certo una impresa agevole, ammesso che sia ancora possibile. Tra l’altro la concorrenza si è ulteriormente allargata. Non ci sono solo gli arrabbiati antipolitici da contrastare. Sta crescendo una mobilitazione neofascista e/o xenofoba che alimenta risentimenti e aggressività verso la sinistra, i diversi, gli stranieri e, inevitabilmente, gli ebrei: i nemici di sempre della destra rivoluzionaria a partire da fine Ottocento. Ancora una volta il Pd arriva troppo tardi all’appuntamento con i propri potenziali elettori. Le sirene che cercano di attrarli sono molte e molto stridule, mentre il Partito democratico è praticamente afono. La sua voce si sente appena, sussurrata con grazia dal segretario; e per questo non riesce ad arrivare alle orecchie di quell’elettorato che il Pd vorrebbe riportare a casa. Per vincere servono parole forti e chiare.

il manifesto 16.5.19
Alabama choc: l’aborto è reato da ergastolo
Stati Uniti. Criminalizzato anche per stupro e incesto, carcere per i medici che lo praticano: è la legge più oscurantista di sempre negli Stati uniti. Associazioni e donne sul piede di guerra: la legge potrebbe finire alla Corte suprema
Stati uniti, manifestazione delle donne contro l’abolizione dell’aborto
Stati uniti, manifestazione delle donne contro l’abolizione dell’aborto
di Marina Catucci


NEW YORK Lo Stato dell’Alabama ha passato quella che è, ad oggi, la legge sull’aborto più restrittiva del Paese. Grazie al voto positivo del Senato locale, è stato approvato con 25 voti a favore e 6 contrari, un provvedimento che punisce con l’ergastolo i medici che praticano aborti, nessuna eccezione ammessa, nemmeno per i casi di incesto e stupro. Unico caso contemplato per interrompere una gravidanza è se questa espone la vita della madre a un serio pericolo.
I repubblicani dello Stato hanno spinto l’approvazione della legge con l’obiettivo esplicito di rovesciare Roe v. Wade, la causa della Corte suprema che dal 1973 legalizza l’aborto a livello federale, e si uniscono ai loro compagni di partito di altri Stati che si sono mossi con lo stesso fine. Come nel caso della legge sul battito cardiaco fetale della Georgia, secondo cui l’aborto è vietato quando è possibile rilevare il cosiddetto «battito cardiaco» del feto, vale a dire dopo le sei settimane, periodo entro il quale molte donne non sono neppure consapevoli di essere incinte.
Anche sull’espressione stessa «battito cardiaco fetale» si è accesa una polemica tra i difensori dei diritti riproduttivi delle donne e i repubblicani, in quanto considerata dai primi tecnicamente impropria e strumentale, visto che a sei settimane è più corretto dire che l’embrione pulsa, perché non è ancora dotato di un vero organo cardiaco.
Nell’ultimo anno ben 21 nuove leggi sono passate in 16 dei 50 Stati Usa per introdurre nuove misure che limitano il diritto all’aborto. Da quando Trump è entrato alla Casa bianca, nel 2017, queste restrizioni riguardano 28 Stati, più della metà; in 15 le restrizioni limitano le interruzioni di gravidanza alle prime 6 settimane.
Dopo il voto del Senato, l’associazione per la difesa dei diritti civili (Aclu) dell’Alabama, sostenuta dalla Aclu nazionale, ha annunciato su Twitter che intenterà una causa per fermare la legge. La causa verrà probabilmente vinta ma ciò non fermerà i repubblicani che, tra ricorsi e contro-ricorsi nelle corti minori, mirano a portare il caso davanti alla Corte suprema, dove siedono ben due giudici ultra conservatori nominati da Trump e ampiamente contestati da democratici e società civile, Neil Gorsuch e il controverso Brett Kavanaugh, accusato di molestie da quattro donne e integralista cattolico.
La governatrice dell’Alabama, Kay Ivey, repubblicana, non ha ancora preso pubblicamente posizione riguardo la legge, ma le sue idee contro l’aborto sono ben note. Ivey ha sei giorni per firmare il disegno di legge: quando questa legge passerà sarà grazie alla firma finale di una donna.
Staci Fox, presidente della rete di consultori Planned Parenthood del sud est del Paese, intervistato dalla Cnn prima del voto della Camera, ha detto: «Anche gli autori di questo disegno di legge sanno che è palesemente incostituzionale e non passerà in tribunale. In Alabama abbiamo visto anno dopo anno gli sforzi per cancellare il diritto all’aborto diventare sempre più audaci. Penso che con questo presidente alla Casa bianca e ora Kavanaugh alla Corte suprema, la politica conservatrice in Alabama si senta incoraggiata a fare questo atto eclatante contro l’assistenza sanitaria per le donne».
Per arrivare fino alla Corte suprema, però, fanno notare molti esperti di legge Usa, il caso o i casi avranno bisogno di qualche anno. E se ciò avverrà si spera che accada sotto un’altra presidenza e con un clima politico diverso da quello oscurantista introdotto da Trump e dal vice presidente Pence.

La Stampa 16.5.19
In Alabama l’aborto è fuorilegge
anche in caso di stupro o incesto
di Paolo Mastrolilli


In America l’attacco alla legalità dell’aborto, e non solo, è cominciato. La legge approvata ieri in Alabama, che lo vieta in quasi tutti i casi, è solo l’ultima di una serie di iniziative prese per spingere la Corte Suprema a bandire l’interruzione di gravidanza. La strategia usata, però, lascia intravedere un sistema che potrebbe essere adottato per erodere molti altri diritti, e cambiare i meccanismi della democrazia Usa.
Il testo votato consente l’interruzione di gravidanza solo nei casi in cui ci sia un «serio pericolo» per la sopravvivenza della madre. Nessuna eccezione per lo stupro e l’incesto. Le donne che violeranno la legge non verranno incriminate penalmente, ma i medici sì, e rischieranno fino a 99 anni di prigione. In altre parole, una ragazza stuprata sarà costretta a partorire, e se un dottore la aiuterà ad abortire riceverà l’ergastolo.
La legge ora è sul tavolo della governatrice repubblicana Kay Ivey, ma anche se decidesse di non firmarla, una maggioranza semplice basterebbe al parlamento locale per scavalcare il suo veto. Gli attivisti “pro choice” hanno già annunciato che faranno causa, come volevano i promotori dell’iniziativa.
Dall’inizio dell’anno ad oggi, sono 7 gli stati americani che hanno passato provvedimenti diversi per limitare o vietare le interruzioni di gravidanza. Oltre all’Alabama, lo hanno fatto Georgia, Mississippi, Arkansas, Kentucky, Utah e Ohio. L’obiettivo immediato è ridurre il più possibile gli aborti, ma quello finale è il bando. I promotori delle leggi infatti vogliono provocare le cause dei “pro choice”, nella speranza di arrivare fino alla Corte Suprema, dove la maggioranza conservatrice rafforzata da Trump con le nomine dei giudici Gorsuch e Kavanaugh potrebbe rovescire la sentenza Roe vs. Wade, che nel 1973 aveva legalizzato l’interruzione di gravidanza. Non sarà facile, ma le dimissioni del moderato Kennedy hanno aperto uno spiraglio. Se poi il presidente verrà rieletto, e potrà sostituire anche la liberal Ginsburg, il successo sarebbe a portata di mano.
Trump in passato aveva dichiarato di essere favorevole all’aborto, ma ora sostiene di aver cambiato posizione. Essere “pro life” per lui è indispensabile, se vuole che la sua base di evangelici e conservatori torni a votarlo l’anno prossimo.
Il metodo
L’operazione in corso però lascia intravedere un metodo che potrebbe essere replicato, per annullare altri diritti come quelli dei gay o delle minoranze, ma anche per scalfire le regole della democrazia americana. Un esempio che viene in mente è il braccio di ferro in corso tra la Casa Bianca e il Congresso, sui poteri di inchiesta che la Costituzione affida al Parlamento. Dopo la pubblicazione del rapporto Mueller sul Russiagate i democratici hanno aperto una serie di indagini, come peraltro avevano fatto i repubblicani durante la precedente amministrazione, ad esempio su Bengasi, che forse è costata la presidenza a Hillary Clinton per il caso email.
Trump ha risposto ordinando a tutti i suoi collaboratori di non cooperare, dicendo che il caso è chiuso. Anche se fosse così, in questo modo ha aperto una nuova disputa, non più sulla eventuale collusione col Cremlino, ma sul rapporto tra i poteri dello Stato. I democratici hanno già presentato alcuni ricorsi, e l’obiettivo immediato del presidente è perdere tempo e frenarli, almeno fino alle elezioni. Il problema che ha posto però è grave e di lungo termine, e forse lui spera che alla fine venga risolto in suo favore dalla Corte Suprema. Così le sue nomine dei giudici, a tutti i livelli, diventano l’elemento del mandato di Trump che probabilmente avrà l’impatto più concreto e duraturo sulla società americana.

La Stampa 16.6.1
Merkel: “Preoccupata per la Ue
Dobbiamo difenderne i valori
Salvini non può entrare nel Ppe”
La leader chiude alla Lega: nessun punto in comune, a Weber non servono i suoi voti “Spero che l’Italia trovi la strada per una maggior crescita, la stabilità dipende da tutti”
di Nico Fried Stefan Kornelius


Berlino. Signora cancelliera, l’Europa si trova dinnanzi a elezioni decisive?
«Si tratta senz’altro di elezioni di grande importanza, elezioni speciali. Molti sono preoccupati per l’Europa, anch’io lo sono. Da questa preoccupazione nasce in me un senso di responsabilità ancora più forte che mi spinge a occuparmi assieme ad altri del destino di quest’Europa».
Affermerebbe che «mai l’Europa è stata così tanto in pericolo»?
«Mi riesce difficile confrontare la situazione attuale dell’Europa con i pericoli dei decenni precedenti, poiché allora non ero presente, mentre oggi sono attivamente coinvolta. Dall’esterno la situazione si può valutare meglio. Ma indubbiamente l’Europa deve riposizionarsi in un mondo che è cambiato. Alcune certezze, maturate nell’ordinamento postbellico, non valgono più».
Sono le parole del presidente francese Macron, che è pure attivamente coinvolto.
«È vero, ma non lo è da così tanto tempo. In parte giudica ancora la situazione da una prospettiva in qualche modo esterna. È positivo se osserviamo la nostra Europa da diversi angoli prospettici. Non basta più fare riferimento ai sette decenni di pace, per dare una motivazione all’Europa. Se l’Europa non avesse più una motivazione rivolta al futuro, anche l’opera di pace sarebbe in pericolo prima di quanto si pensi».
Che cosa comportano per l’Ue le sfide globali di Cina, Russia e Usa?
«Ogni volta ci spingono a trovare posizioni comuni. A causa dei diversi interessi, questo spesso risulta essere difficoltoso. Ma ci riusciamo, pensiamo alla nostra politica nel conflitto ucraino. Nel frattempo anche la nostra politica per l’Africa segue una strategia comune, che alcuni anni fa sarebbe stata ancora impensabile. In questo modo andiamo avanti, passo dopo passo. Tuttavia, finora la nostra forza politica non corrisponde alle nostre capacità economiche».
Negli anni scorsi, qual è stata la cesura principale?
«Sicuramente la decisione della Gran Bretagna di uscire dall’Ue. Inoltre, con l’euro e nella migrazione abbiamo attraversato crisi vitali. Entrambi i progetti d’integrazione europea degli Anni 90, cioè la valuta e l’apertura dei confini in linea con Schengen, erano giusti e importanti. È risultato però che non erano sufficientemente preparati per affrontare sfide e tempeste. Nell’euro abbiamo fatto miglioramenti. Su Schengen, non siamo ancora fuori pericolo».
A queste due crisi lei deve appellativi controversi: cancelliera dell’austerità e cancelliera dei rifugiati. Saranno questi i meriti che le verranno attribuiti nei libri di storia?
«Di questo non mi preoccupo. Quello che conta è che l’Unione monetaria e l’euro siano stati salvaguardati. Le riforme in Irlanda, Spagna, Portogallo e Grecia si sono rivelate giuste, anche se non nego che l’impatto sulla popolazione è stato notevole. E il tema della migrazione ci accompagnerà anche per i prossimi decenni. Negli scorsi quattro anni, anche in Europa abbiamo percepito le ripercussioni del terrore e della guerra civile nel Vicino e Medio Oriente e abbiamo aiutato i bisognosi. Allo stesso tempo, occorre contribuire a far sì che anche i Paesi africani si avviino verso uno sviluppo economico positivo e sostenibile. Questo è nell’interesse di entrambe le parti».
Entrambi gli appellativi contengono il rimprovero nei suoi confronti di avere spaccato due volte l’Europa: fra Nord e Sud nella crisi monetaria e sostanzialmente fra Est e Ovest nella crisi dei profughi, il che ha portato anche al rafforzamento dei populisti. Riconosce questa responsabilità?
«L’intera portata delle decisioni prese è valutabile solo considerando le ripercussioni che avrebbe avuto una politica di segno opposto. Se nella crisi dell’euro e nell’emergenza profughi non avessimo agito o lo avessimo fatto diversamente, le conseguenze sarebbero state, a mio avviso, molto più gravi rispetto ad alcuni problemi di oggi. Queste non sono decisioni nate a tavolino, ma risposte alla vita reale. Se nel mondo quasi settanta milioni di persone sono in fuga, allora era comprensibile che l’Europa dovesse farsi carico di oltre un milione di loro. Capisco che ciò possa creare controversie sociali, che vanno poi gestite. E da questa situazione abbiamo tratto anche alcuni insegnamenti».
I Paesi del Sud continuano a essere preoccupati per il prossimo rigore di bilancio.
«La crisi debitoria nell’eurozona ci ha mostrato che in alcuni Paesi c’erano sviluppi economici negativi, che erano e sono da correggere. Sì, è vero che abbiamo bisogno di una convergenza, quindi di un allineamento economico dei Paesi membri, in cui dobbiamo orientarci però verso la concorrenza mondiale con la Cina, gli Usa e Sud Corea. Se fosse solo un allineamento verso la media europea, le prossime crisi tornerebbero a colpirci duramente».
Negli scorsi anni, Macron si è presentato in Europa con verve e come riformatore, con sempre nuove proposte. A lei viene attribuita sempre l’immagine di chi frena. Perché è così difficile per lei trovare una via di mezzo con Macron?
«Troviamo sempre una via di mezzo. Inoltre, la Germania ha avviato una serie di iniziative. Mi riferisco al nostro impegno nei Balcani o ai cosiddetti Compacts with Africa durante la presidenza tedesca del G20. In questo modo, abbiamo messo in moto un processo che faciliterà gli investimenti privati nei Paesi africani. Anche con la nostra agenda G20 sulla Sanità globale abbiamo posto degli accenti. Certo che discutiamo tra di noi. Vi sono differenze di mentalità e di comprensione dei ruoli. È sempre stato così. Macron non è il primo presidente francese con cui collaboro».
Seguite gli stessi progetti per la costruzione dell’Europa?
«A grandi linee naturalmente sì, ma non dobbiamo dimenticare che è diversa la visione che i nostri Paesi hanno di se stessi. Dopo la Seconda guerra mondiale la Francia, facendo parte degli Alleati, ovviamente ha avuto un ruolo diverso da quello tedesco. La Francia è una potenza nucleare, nel consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha il diritto di veto. Tuttavia, dai nostri diversi punti di partenza e dalle nostre diverse visioni giungiamo sempre a compromessi. In tal modo facciamo molto per l’Europa, anche oggi».
Ultimamente, l’opinione pubblica ha avuto l’impressione che Macron prenda le distanze dalla stretta cooperazione con la Germania anche per motivi di politica interna. Il vostro rapporto è ulteriormente peggiorato?
«No. Assolutamente no. Vi sono state asincronie. Quando ha parlato alla Sorbonne, da noi c’erano appena state le elezioni federali. Poi è seguito un periodo insolitamente lungo per formare il governo. E vi sono differenze di mandato e cultura politica. Io sono la cancelliera di un governo di coalizione con obblighi verso il Parlamento molto più forti rispetto al presidente francese, che non può assolutamente accedere all’Assemblea nazionale. Tuttavia, nelle questioni fondamentali – la direzione in cui si evolvono l’Europa e l’economia, quale responsabilità abbiamo per il clima e l’Africa – siamo quasi sulla stessa lunghezza d’onda. Questo vale anche per la questione degli ambiti in cui eventualmente è necessario agire indipendentemente dagli Stati Uniti, anche se in realtà non auspico una tale situazione».
Parliamo delle priorità post-elettorali. Già due giorni dopo, in agenda ci sarà il tema delle cariche.
«Questo tema sarà in agenda perlomeno fino al Consiglio europeo del 21 giugno. Il 28 maggio discuteremo unicamente di come procedere. Il Consiglio europeo deve presentare una proposta per l’elezione del presidente della Commissione, che sarebbe bene trovasse anche una maggioranza nel Parlamento europeo. È qui che si vota».
E di nuovo scoppia il conflitto sull’importanza dei candidati di punta.
«Questo conflitto c’è da quando questa idea è stata attuata per la prima volta».
Lei non era una sostenitrice della candidatura di Jean-Claude Juncker.
«Ho sempre manifestato un certo scetticismo nei confronti del principio del candidato di punta, naturalmente non nei confronti di Juncker. Ma sono un buon membro del Partito popolare europeo, che ha inserito nei suoi statuti la decisione di nominare un candidato di punta. Quindi: il Ppe ha un candidato di punta, che si chiama Manfred Weber, e io mi adopererò affinché lui diventi il presidente della Commissione, se dalle elezioni usciremo come la maggiore forza politica».
Preferirebbe vedere Weber alla guida della Commissione o Jens Weidmann a capo della Bce?
«Non discuto di quest’alternativa. Weber è il candidato di punta, questa è una grande prova di fiducia. Gode del sostegno del grande gruppo parlamentare del Ppe e al Congresso del partito ha avuto la meglio contro un altro candidato. Ora mi adopero per lui. Ciò non esclude che la Germania abbia altre personalità di spicco per altre cariche».
Weber ha detto che bloccherebbe subito i colloqui per l’adesione della Turchia. Lei ha sempre rifiutato un’interruzione.
«Gli attuali eventi successivi alle elezioni amministrative non rendono più probabile un’adesione della Turchia. Al contrario, sono motivo di una preoccupazione di fondo per gli sviluppi in Turchia. Io ho sempre detto che non intravedo una piena adesione della Turchia. I negoziati vengono peraltro condotti a risultato aperto. Io ho sempre parlato di rapporti particolari con questo Paese, che per noi è così importante. I valori politici in molti punti sono diversi, eppure vi sono interessi comuni; pensiamo solo alla Siria e alla lotta al terrorismo islamico. La politica estera viene sempre fatta in un mix di valori e interessi, anche qui bisogna trovare il giusto equilibrio».
Dopo le elezioni, anche il bilancio Ue sarà al centro dell’interesse. Lei voleva risolvere la questione già molto tempo fa. Ma non se n’è fatto niente. Quali sono ora le sue priorità, dove saranno necessari slittamenti di risorse?
«Non ci siamo messi d’accordo sul quadro finanziario perché non tutti gli Stati membri erano convinti che dovessimo farlo prima delle elezioni».
La Francia era decisamente contraria.
«Dobbiamo risolvere la questione adesso. Sarà insolitamente complicato, tanto più che dobbiamo considerare anche l’uscita della Gran Bretagna e al contempo non sappiamo a quali programmi i britannici forse parteciperanno ancora».
I debiti italiani rappresentano nel complesso un fattore di rischio per il bilancio e la stabilità dell’euro?
«Mi auguro che l’Italia trovi la strada verso una maggiore crescita. Dipendiamo tutti gli uni dagli altri. Lo abbiamo visto nella crisi dell’euro: nessuno nella zona euro agisce in modo autarchico o isolato. Questo vale anche per la Germania, se da noi dovesse indebolirsi la crescita».
A proposito di Italia: Salvini porterebbe volentieri la Lega nel Ppe. E Orban aprirebbe volentieri il Ppe in questa direzione. È immaginabile?
«No».
Non ci sarà nessuna collaborazione con Salvini o con raggruppamenti di orientamento simile?
«È evidente che abbiamo approcci diversi, per esempio nella politica migratoria. Già questo è un motivo per cui il Ppe non può aprirsi al partito del Signor Salvini. Certo è che Weber nell’elezione a presidente della Commissione non si assoggetta ai voti di questi partiti. Che lo votino o no, non si può influenzare».
Tutte le esternazioni di Orban fanno intuire che non è interessato a una cooperazione costruttiva con il Ppe. Forse lei dovrebbe respingere la sua richiesta e pregarlo di andarsene?
«Il Ppe ha istituito un gruppo di tre probiviri che dopo una certa scadenza si occuperà del tema Fidesz. Che attualmente è sospeso. Il Ppe adotterà, a tempo debito, una decisione».
Le attività dell’estrema destra populista sono rivolte contro l’Ue. Si discute di pene per le infrazioni. Dopo le elezioni intende adoperarsi per un nuovo meccanismo sanzionatorio?
«Sfrutteremo pienamente tutti gli strumenti previsti dal Trattato di Lisbona. Tutto il resto richiederebbe modifiche dei Trattati».
Sarà sufficiente?
«Abbiamo procedure d’infrazione, nonché la procedura ai sensi dell’articolo 7 con le relative sanzioni. Per sanzioni più dure dovremmo modificare il Trattato di Lisbona, il che andrebbe deciso all’unanimità. Dato che gli Stati membri sono i “Signori dei Trattati”, non sarà molto facile. Io suggerisco di utilizzare le possibilità previste nel Trattato. È assolutamente fuori discussione che debbano essere salvaguardati i valori su cui poggia l’Unione europea».

il manifesto 16.5.19
Gaza, Nakba permanente
Palestina. Ieri migliaia di persone hanno commemorato il 71esimo anniversario della Nakba, la "catastrofe" del 1948 che trasformò in profughi centinaia di migliaia di palestinesi. Gaza, in condizioni sempre più precarie, è stato il centro delle manifestazioni. Oltre 60 i feriti per gli spari israeliani
Manifestazioni palestinesi per la Nakba
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Ieri sono scesi in strada a migliaia. In Cisgiordania, Gaza, nei centri abitati palestinesi in Israele, per commemorare il 71esimo anniversario della Nakba, la “catastrofe” che nel 1948 vide oltre 700mila palestinesi fuggire o cacciati via dalle loro case dopo la proclamazione dello Stato di Israele. Non sono manifestazioni rituali. Piuttosto sono la rappresentazione concreta di una questione mai risolta, di diritti sempre negati, di un popolo che 71 anni dopo resta in buona parte sotto occupazione israeliana o è costretto a vivere lontano dalla sua terra d’origine, in campi per rifugiati. La Nakba non è mai finita e c’è un luogo che più di altri lo conferma, la Striscia di Gaza, dove in meno di 400 kmq vivono come sardine in scatola due milioni e centomila palestinesi che da 12 anni fanno i conti con il blocco israeliano.
Non sorprende che Gaza sia stata ieri la protagonista delle commemorazioni della Nakba. Almeno 10mila palestinesi hanno raggiunto le linee di demarcazione con Israele per manifestare nei luoghi dove ogni venerdì, dal 30 marzo del 2018, proseguono incessanti le proteste contro il blocco israeliano. Manifestazioni che il governo Netanyahu denuncia come un attacco alla sicurezza del Paese citando i lanci di palloni e aquiloni incendiari da parte dei palestinesi che provocano roghi nelle campagne israeliane a ridotto di Gaza. Ieri decine di dimostranti sono stati feriti dal fuoco dei soldati israeliani che, nell’ultimo anno, ha ucciso circa 250 palestinesi.
Pochi giorni fa esasperazione e rabbia hanno innescato l’ennesima escalation militare: raid aerei israeliani, lanci di razzi palestinesi, distruzioni, morti e feriti. Ma per Gaza non è cambiato nulla, era e resta una prigione a cielo aperto. Il tira e molla delle restrizioni israeliane è sfiancante. Qualche giorno l’agenzia delle Nazioni Unite, Unrwa, ha ricordato che la metà dei palestinesi di Gaza dipendono da aiuti alimentari e ha lanciato un appello per un ulteriore stanziamento di 60 milioni di dollari entro giugno per aiutare più di un milione di rifugiati. «Dai meno di 80mila che ricevevano assistenza sociale nel 2000 oggi ci sono più di un milione di persone che hanno bisogno di aiuti alimentari senza i quali non riuscirebbero ad arrivare a fine giornata» scrive l’agenzia. Circa 620mila abitanti di Gaza sono in stato di povertà assoluta e circa 390mila appena sotto la soglia di povertà. Matthias Schmale, direttore delle operazioni dell’Unrwa, ribadisce che l’assedio di Israele ha peggiorato sensibilmente le condizioni della popolazione.
Sarebbe un errore considerarla un’emergenza umanitaria come tante altre. Piuttosto è una emergenza politica causata dall’ occupazione e dal blocco. Il mondo finge di non vedere e liquida il problema come una conseguenza dello scontro tra il movimento islamico Hamas, al potere a Gaza, e Israele. Intanto A meno di cento chilometri da Gaza, nella città costiera di Tel Aviv, invece sono giorni di svago grazie allo svolgimento dell’Eurovision Song Contest, la gara musicale che quest’anno si tiene in Israele dal 14 al 18 maggio. Un evento che non tutti gli israeliani guardano con favore. Gruppi e ong progressiste si sono uniti ai palestinesi nel chiedere il boicottaggio dell’Eurovision che, spiegano, offre una vetrina a Israele e oscura la realtà. Gli attivisti palestinesi inoltre hanno organizzato a Gaza delle iniziative musicali parallele all’Eurovision – Gaza Message, Globalvision e Gaza Vision – che si svolgono di sera tra le rovine di un palazzo distrutto dai bombardamenti israeliani delle settimane scorse. Sabato, nella serata conclusiva dell’Eurovision a Tel Aviv, quando si esibirà Madonna, a Gaza, tra detriti e rovine di case colpite dai raid aerei, suoneranno e canteranno band e artisti locali che non hanno possibilità di esibirsi sui palcoscenici internazionali. Da lontano parteciperà un genio della musica, Brian Eno.

il manifesto 16.5.19
«L’indifferenza sembra perbene. Ma uccide proprio come l’odio»
L'intervista. Parla Philippe Claudel, autore di «L’arcipelago del cane» (Ponte alle Grazie) che richiama le tragedie dei migranti nel Mediterraneo e indaga, lungo le piste narrative del polar, il confine a volte tragicamente banale tra il bene e il male, l’indifferenza e la capacità di indignarsi e «prendere parte». Una voce preziosa e raffinata al servizio di una nuova narrativa civile
di Guido Caldiron


Tre cadaveri di sconosciuti trovati sulla spiaggia e la vita nell’isola sembra destinata a mutare per sempre. Richiamando più o meno esplicitamente le tragedie dei migranti nel Mediterraneo, Philippe Claudel indaga in L’Arcipelago del cane (Ponte alle Grazie, pp. 204, euro 16,00) i sentimenti tristi di questi anni di ricorrenti crisi umanitarie, muri che crescono e barbarie che si diffonde. Fedele al percorso già intrapreso, tra gli altri suoi romanzi, con La nipote del signor Linh, Le anime grigie e Il Rapporto, lo scrittore e regista francese membro dell’Académie Goncourt – che è stato tra gli ospiti del recente Salone di Torino -, indaga, lungo le piste narrative del polar, il confine a volte tragicamente banale tra il bene e il male, l’indifferenza e la capacità di indignarsi e «prendere parte». Una voce preziosa e raffinata al servizio di una nuova narrativa civile.
Questo romanzo sembra tradurre un’urgenza: la necessità di agire di fronte al silenzio che spesso circonda la sorte di chi attraversa il Mediterraneo in cerca di una vita migliore.
Il Mediterraneo si è trasformato dal nostro «mare comune» in una sorta di gigantesca frontiera d’acqua. I media raccontano ogni giorno le storie di persone che muoiono in mezzo al mare, senza che però questo provochi spesso delle reazioni che vanno al di là dell’emozione del momento, senza che le persone sentano di dover chiedere ai loro governanti di cambiare politica e di trovare delle soluzioni umane e efficaci. Perciò mi sono detto che ciò che non riescono a fare giornali e tv, vale a dire ad incidere davvero sull’opinione degli individui, forse la letteratura può contribuire a farlo. Facendo sì che attraverso un romanzo le persone si pongano almeno delle domande in più, inizino a riflettere…
Lo scrittore francese Philippe Claudel
Al pari di quanto avviene nelle sue opere precedenti, anche ne «L’arcipelago del cane» lei sembra giocare con i codici del noir per indurre nel lettore la voglia di indagare, di scoprire quanto sta accadendo. Un meccanismo che spinge chi legge anche ad interrogarsi su se stesso?
Quando si vuole spingere chi legge a compiere una riflessione complessa che lo può porre in una posizione scomoda, c’è bisogno che il percorso che lo condurrà fin lì risulti il più possibile intrigante, che giochi con le corde della seduzione narrativa. E in questa prospettiva nulla funziona meglio del polar, della metrica dell’indagine poliziesca con la tensione in cui precipita il lettore. Non si tratta però solo di catturare la sua attenzione con questo strumento, ma anche di coinvolgerlo, di far sì che si trasformi a un svolta in «detective», che svolga la propria indagine personale e che, nel caso di questo romanzo, dopo essersi chiesto chi siano le persone trovate morte sulla spiaggia e chi li abbia uccisi cominci a domandarsi: «Io come avrei reagito, cosa avrei fatto di fronte a tutto questo?». Non a caso si cita spesso il noir come la nuova letteratura sociale: ponendoci tutte queste domande finiamo per interrogarci su come funzioni il nostro mondo e, magari, su come vorremmo cambiarlo.
In questo caso il noir si misura anche con il mito, addirittura con l’eredità della tragedia greca e le sue metafore…
In effetti ho cercato di costruire una sorta di favola, di «mito moderno» se mi passate il termine, una storia che evoca apertamente le strutture mitologiche e la loro capacità di illustrare le contraddizioni e gli abissi dell’animo umano. Così, i personaggi del libro – il sindaco, il parroco, il dottore o la maestra – sono in realtà degli archetipi, proprio come quelli che incontriamo nella mitologia o nella tragedia greche. Non a caso non hanno nome , perché sono chiamati a incarnare forze, figure e idee che vanno ben al di là della loro persona. Ciò detto, in ogni mio romanzo cerco di non lavorare solo sulla storia, ma anche sulla forma stessa della struttura narrativa, cercando di adattarla il più possibile allo spirito dei tempi. Evocare il mito, in questo caso rimanda al tentativo di rintracciare un’architettura essenziale del reale, quasi lo scheletro della società contemporanea attraverso figure che esprimono caratteri e sentimenti universali.
Il mondo in cui viviamo appare immerso nell’odio, eppure il suo romanzo sembra dirci che la viltà e l’indifferenza a volte possono produrre esiti anche peggiori.
In realtà credo che viltà e indifferenza siano solo delle forme più «educate» di odio, più presentabili in società ma che conducono irreparabilmente ai medesimi risultati. Ho l’impressione che il vero motore del mondo sia l’egoismo, che ciascuno di noi è davvero troppo preso da se stesso e le sue faccende per occuparsi di qualcosa o qualcun altro. La figura dell’«altro» ci ispira vuoi indifferenza vuoi odio, il che vuol dire in qualche modo le diverse tonalità di qualcosa che si traduce nel rifiuto se non nel rigetto vero e proprio. Nella storia umana questa presenza è stata spesso vissuta come un arricchimento – qualcuno che arrivava da luoghi a noi fino ad allora sconosciuti e che portava con sé beni o conoscenze che ci erano ignote -, ma oggi è ridotta ad essere vissuta solo come un pericolo. E l’esito di tutto ciò è che stiamo costruendo per gli altri, ma anche per noi stessi, un mondo inumano.
«L’arcipelago del cane» è da questo punto di vista una sorta di «luogo dell’anima», ma ricorda in modo sinistro anche la vecchia Europa. Abbiamo perso la capacità di indignarci?
È vero, ho costruito un paesaggio immaginario che però assomiglia molto all’Europa, come al resto dell’Occidente che passo dopo passo, attraverso questa chiusura verso l’esterno, sta perdendo se stesso e la sua civiltà. Il vero problema è che delle voci come quelle della maestra del romanzo, che vuole provare un’altra via, che non ha paura del cambiamento e dell’incontro, sono ridotte al silenzio, minacciate e ostracizzate. L’importante è che però, proprio come fa lei, non si perda mai la voglia di indignarsi e di reagire. Solo così avremo tutti un futuro.

Il Fatto 16.5.19
La galassia nera dei “demoni” di Salvini
di Tomaso Montanari


In America, un libro come questo avrebbe la forza del Watergate. E in un qualunque Paese europeo, un libro che dimostrasse come il vicepremier e ministro dell’Interno è circondato da postnazisti che ne conducono la politica estera (e forse i flussi di finanziamento) e ne modellano l’ideologia e la retorica porterebbe a una crisi di governo. Temo che questo non succederà con I demoni di Salvini. I postnazisti e la Lega, di Claudio Gatti (oggi in libreria per Chiarelettere): ma mi domando cosa penseranno, dopo averlo letto, Sergio Mattarella (che fermò, a costo di lacerare la Costituzione, Paolo Savona ma non mosse ciglio contro la nomina di Salvini) o Luigi Di Maio e Matteo Renzi, che condividono la responsabilità (seppur in misura diversa) di aver inquinato, dandola in mano a un uomo di queste frequentazioni, la nostra sicurezza nazionale.
Non si tratta di un libro politico: è, nello stile asciutto e fattuale del suo autore, una classica inchiesta giornalistica. Aiutato dal fatto di vivere a New York, fuori dall’involuzione del giornalismo italico, Gatti allinea fatti, date, testi e lunghe interviste che confermano il canovaccio offertogli da una gola profonda: l’ingegner Alberto Sciandra, nazista pentito che è stato il primo infiltrato nella Lega (organizzatore, tra l’altro, della sceneggiata celtica con Bossi alle fonti del Po, nel 1996).
Ne scaturisce la ricostruzione agghiacciante della (riuscitissima) infiltrazione politica che spiega come sia possibile che un partito autonomista abbia abbracciato i più sanguinari centralisti, da Milosevic a Putin, attuale idolo di questa galassia nera.
Il libro dimostra come un nutrito gruppo di post-nazisti, formatisi nell’entourage eversivo di Franco Freda e del suo discepolo Maurizio Murelli (undici anni di galera alle spalle), sia entrato a livelli apicali nella Lega, fin dalla fondazione. Matteo Salvini nasce e cresce, politicamente, in questo ambiente. Si smonta la leggenda (abilmente costruita) del “comunista padano” e l’attuale uomo forte del governo è restituito alla sua identità reale: quella di un uomo di estrema destra nutrito di retorica, idee e soprattutto frequentazioni esplicitamente postnaziste. Non mancano i nessi col nazismo storico, quello di Hitler: nel lontano 1976 al futuro senatore Borghezio viene trovata in casa una divisa da ufficiale nazista (ah, la mania delle divise!), e Gianluca Savoini (per un lungo periodo portavoce di Salvini, e l’anno scorso tra gli organizzatori del suo viaggio in Russia da ministro dell’Interno) aveva nel suo ufficio della redazione della Padania una cornucopia di simboli hitleriani.
Ma non si tratta affatto di un manipolo di nostalgici, siamo lontani dai patetici sfigati di Forza Nuova o dai picchiatori di CasaPound: si tratta di politici lucidi, scrittori, editori che hanno abbandonato “la via del guerriero” e scelto quella “del sacerdote”. Una categoria pericolosa perché dissimulata, questa dei postnazisti. “Ma la più pericolosa di tutti – scrive Gatti – è quella dei cinici calcolatori che pensano di poter usare i postnazisti intelligenti. È la categoria di Matteo Salvini”, che “ha reso presentabile il pensiero postnazista”. Il cardine di questo pensiero è la teoria della “sostituzione del popolo”: per cui l’etnia europea bianca e cristiana sarebbe minacciata da un complotto giudaico-massonico che la vuole sostituire con neri musulmani. Una teoria espressa in termini quasi identici nel Mein Kampf di Hitler, nelle rivendicazioni di Brenton Tarrant (lo stragista delle moschee neozelandesi) e nei discorsi di Salvini: e questa affermazione non è un’illazione, o una calunnia, ma il semplice frutto di un banale confronto testuale, dalla forza dirompente.
Ciò che Gatti dimostra è che Salvini non è semplicemente saltato, all’ultimo momento, su una retorica “di destra”: la sua integrale sottoscrizione dell’essenza ideologica del postnazismo mondiale è invece il frutto di un lungo e accurato lavoro di un gruppo politico che ora viene per la prima volta messo a nudo.
Non si tratta di discutere come e quanto Salvini sia fascista: il punto non è quanto filologico sia il suo recupero del passato, ma quanto devastante sia il suo progetto per il futuro. Il consenso alle sue tesi è vasto, ed è stato alimentato da un’ingiustizia sociale devastante e da un disinvestimento in scuola e cultura che portano le firme di governi di centrosinistra almeno quanto quelle dei governi di centrodestra. Dunque, il punto non è costituire un fronte antifascista con chi ci ha condotto a questo punto, ma invertire la rotta finché siamo in tempo: capire quali demoni siano stati liberati da trent’anni di liberismo selvaggio è vitale, e questo libro sconvolgente è un passo nella direzione giusta. Visto che uno dei protagonisti è Marcello Foa, è verosimile che la Rai non gli dedicherà molto spazio: invece leggerlo e discuterlo è davvero fondamentale. Per il futuro della democrazia italiana.

Bombe per lo Yemen, guerra in Parlamento
Commercio d’armi - I 5Stelle chiedono risposte al sottosegretario Picchi (Lega)
Bombe per lo Yemen, guerra in Parlamento
di Salvatore Cannavò



Come anticipato dal Fatto, il M5S ha deciso di muovere un altro pedone nella sua partita a scacchi con la Lega. Stavolta si tratta di un tema altamente sensibile, il commercio di armi verso l’Arabia Saudita e che Ryad utilizza contro i civili nello Yemen.
L’iniziativa è stata annunciata ieri dal senatore Gianluca Ferrara, capogruppo del M5S in commissione Esteri in nome dei “diritti umani prima degli affari”. A essere interpellato è il sottosegretario leghista agli Esteri, Gianluca Picchi, a cui è andata la delega sulla legge 185 che regola le autorizzazioni del commercio di armi con l’estero.
Il gesto ha una valenza importante perché riguarda la possibilità o meno di bloccare il flusso di commesse che partono dal nostro Paese verso l’Arabia Saudita in virtù dell’autorizzazione concessa nel 2016 dal governo Renzi, dal valore di 411 milioni. “Oggi ho presentato un’interrogazione parlamentare – dichiara Ferrara – per conoscere le ragioni per cui non si sia ancora provveduto a sospendere le consegne delle bombe aeree della Rwm vendute dal governo Renzi all’Arabia Saudita, che le utilizza in Yemen in violazione del diritto internazionale. Vogliamo capire dalla Farnesina, nello specifico dal sottosegretario Guglielmo Picchi, che ha la delega in materia, se la legge 185 del 1990 non fornisce sufficiente copertura legislativa per procedere subito con la sospensione”, conclude il senatore.
Il punto è tecnico e politico allo stesso tempo. Sul piano tecnico, le bombe aeree prodotte a Domusnovas, in Sardegna, dalla Rwm Italia sono il frutto di accordi pluriennali di vendita autorizzati nel corso del 2016 dal governo Renzi. Nel 2016, però, la risoluzione del Parlamento europeo del 25 febbraio chiedeva all’Unione europea di imporre un embargo sulle armi all’Arabia Saudita “tenuto conto delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale”. Tale determinazione non è però stata ritenuta sufficiente dall’Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento (Uama), a cui la legge conferisce il potere di concedere le autorizzazioni, e che risponde al ministero degli Esteri, quindi a Picchi che ha la delega, ad accertare le gravi violazioni dei diritti umani che avrebbero potuto costituire un fattore ostativo al rilascio delle autorizzazioni.
Gli interroganti lamentano il fatto che i contratti di fornitura sono secretati e quindi non si possono conoscere le condizioni di una eventuale disdetta, ma ricordano anche che il Trattato internazionale sul commercio di armamenti (Att), ratificato dall’Italia il 2 aprile 2014, stabilisce che, “qualora, a seguito dell’iniziale concessione di un’autorizzazione all’esportazione di materiali d’armamento, uno Stato esportatore venga a conoscenza di nuove informazioni rilevanti, esso può rivalutare la suddetta autorizzazione dopo eventuali consultazioni con lo Stato importatore”.
Da qui la richiesta al governo di sapere se la legge 185 non fornisca già di per sé “sufficiente copertura legislativa per procedere alla sospensione prevista dall’articolo 15”. E quindi si passa alla sottintesa domanda politica: il governo, e in particolare la Lega, ha la volontà o meno di chiudere questa partita che desta ormai uno scandalo insostenibile?

IL Fatto 16.5.19
Il “culto del Duce” mai rinnegato del numero uno
di Urbano Croce


Non manca mai, Marco Bonometti, alla ricorrenza del 28 aprile. In molti dicono di averlo visto più di una volta seduto, tra i banchi della chiesetta sotto il colle Cidneo, a Brescia. Qui l’Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della Repubblica Sociale Italiana organizza ogni anno una messa per ricordare l’anniversario della morte di Benito Mussolini. Tutti in città sanno della messa in suffragio che si tiene nella Chiesa di S. Stefano, anche quest’anno partecipata da “pezzi” della Brescia che conta, imprenditori medi e piccoli, oltreché da ex militanti nostalgici del Msi.
Bonometti non ha mai negato le sue simpatie fasciste. Famosa la polemica per la sua partecipazione ufficiale a Salò all’inaugurazione, qualche anno fa, della mostra “Il culto del Duce”. E chi frequenta il suo ufficio sa quanto ci tenga alle collezioni di busti di Mussolini, in bella mostra.
Giacca, cravatta e fascio littorio per l’ex presidente degli industriali bresciani, ora a capo di quelli lombardi, che sogna da tempo la scalata in Confindustria nazionale, fallita una prima volta nel 2016, e che da ieri è indagato per finanziamento illecito ai partiti.

Bianchi e repubblicani: la carica degli anti abortisti
In Alabama l’interruzione di gravidanza sarà illegale anche in caso di stupro: i medici rischiano fino a 90 anni di carcere
Bianchi e repubblicani: la carica degli anti abortisti
di Giampiero Gramaglia | 16 Maggio 2019

IL Fatto 16.5.19
L’America bigotta e ipocrita di Donald Trump fa un altro passo indietro verso lo smantellamento dei diritti civili conquistati negli ultimi cinquant’anni


Dopo la Camera, il Senato dell’Alabama ha approvato con una netta maggioranza – 25 voti contro sei – la legge più restrittiva dell’Unione sull’aborto, che lo vieta in tutte le circostanze, anche in caso di incesto o stupro. Unica eccezione, quando è in gioco la vita della mamma. Prima dell’Alabama, altri quattro Stati – da ultimo, recentemente, la Georgia – hanno approvato leggi dette “del battito di cuore”, che proibiscono l’aborto da quando si percepisce il battito del cuore del feto, cioè ancora prima che una donna s’accorga di essere incinta.

Il voto nel Senato di Montgomery, la capitale dello Stato, era stato rinviato la settimana scorsa, quando la seduta del Senato venne interrotta in un contesto caotico. Il provvedimento deve ora essere firmato dalla governatrice repubblicana Kay Ivey, che non s’è ancora pronunciata, ma che s’è sempre dichiarata contro l’aborto. Se la legge entrerà in vigore, praticare l’interruzione di gravidanza nello Stato sarà un reato punito fino a 99 anni di carcere; solo tentarlo costerà una condanna a dieci anni. C’è il rischio, osservano i critici del provvedimento, che misure così drastiche incoraggino procedure clandestine e penalizzino i poveri e le minoranze, mentre per i ricchi sarebbe più facile aggirare la norma trasferendosi in un altro Stato. Unanime la protesta dei democratici: diversi aspiranti alla nomination democratica per Usa 2020 si sono pronunciati, da Biden a Sanders, alle donne in lizza. Il provvedimento, però, spiegano analisti del New York Times, non è stato concepito per essere attuato, perché le riserve sulla costituzionalità sono numerose, ma proprio perché i giudici sollevino la questione e facciano finire il caso alla Corte Suprema. Su una cui sentenza del 1973, nel caso ‘Roe vs Wade’, si fonda il riconoscimento dei diritto costituzionale di porre termine a una gravidanza, diritto non avallato da nessuna legge federale: fino ad allora, spettava agli Stati decidere in merito. L’Alabama è uno degli Stati più conservatori: il suo politico più in vista è stato George Corley Wallace, governatore per quattro mandati, sempre in corsa per la presidenza dal ’64 al ’76 – e sempre sconfitto -, costretto su una sedia a rotelle per le conseguenze d’un attentato, definito dai suoi biografi “il perdente più influente del XX secolo”, ostinatamente favorevole alla segregazione razziale nel periodo delle lotte degli afro-americani per i diritti civili.
Lo Stato partecipa a un largo movimento conservatore che vuole riportare la questione dell’aborto davanti alla Corte Suprema, sfruttando il fatto che le recenti nomini di giudici conservatori da parte del presidente Trump hanno creato i presupposti per un giudizio che rimetta in forse l’affermazione del diritto costituzionale all’aborto. La partita alla Corte Suprema è forse più aperta di quanto i conservatori non sperino: Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh, i due giudici designati da Trump e che dovevano dare alla Corte un’impronta decisamente conservatrice, hanno finora assunto posizioni discordanti in casi che avevano a che fare con la pena di morte, la genitorialità responsabile, i diritti degli imputati


Repubblica 16.5.19
In occitania
Nel castello dell’ideologo nero che sogna la “rimigrazione”
Renaud Camus è il padre di teorie razziste note sul web. Allievo di Barthes, scrittore di nicchia e ormai ex amico di Carrère, è diventato famoso per avere ispirato l’attentatore in Nuova Zelanda
di Anais Ginori


PARIGI - «Chiediamo ai Paesi e alle principali aziende del digitale di agire contro il terrorismo e l’estremismo violento sulla rete». Riuniti a Parigi con altri capi di Stato e di governo, la premier neozelandese, Jacinda Ardern, e il presidente francese, Emmanuel Macron, lanciano ‘l’Appello di Christchurch’ due mesi dopo la diffusione in diretta su Facebook degli attacchi terroristici contro due moschee in Nuova Zelanda. «L’obiettivo è dare indicazioni di lavoro in termini di reattività di fronte ad incidenti come questo e di collaborazione tra piattaforme, Stati e società civile”, sottolinea il comunicato dell’Eliseo.
Ad annunciare la propria adesione all’iniziativa congiunta di Nuova Zelanda e Francia sono stati finora una ventina di capi di Stato e di governo, tra cui i premier del Canada, Justin Trudeau, della Norvegia, Erna Solberg, dell’Irlanda, Leo Varadkar. Arrivati a Parigi la premier britannica Theresa May, il re Abdallah di Giordania e il presidente senegalese Macky Sall che saranno i primi a firmare il codice volontario per sradicare il terrorismo e la propaganda online, stilato dalla Arden e da Macron. Gli Stati Uniti hanno invece deciso di non firmare l’appello. «Continuiamo a sostenere gli obiettivi generali rappresentati dall’appello», precisa la Casa Bianca secondo cui la rinuncia a sottoscrivere l’appello è motiva dal rispetto della «libertà d’espressione».
Numerose invece le adesioni dalla Silicon Valley: Google, Amazon, Facebook, WhatsApp, Instagram, YouTube, Microsoft, Twitter. Le aziende, si impegnano anche a rivedere «gli algoritmi e gli altri processi che potrebbero guidare gli utenti e amplificare il contenuto terroristico ed estremistico violento».
PLIEUX - C’era una volta un castello con un nobile decaduto che dall’alto della sua torre scrutava l’orizzonte, convinto che l’invasione dei barbari fosse alle porte. Di persona Renaud Camus è molto meno astioso, inquietante e apocalittico della favola nera che racconta nei suoi ultimi testi.
L’intellettuale francese apre il portone del suo castello in Occitania con un largo sorriso, sgranando gli occhi azzurri. Si fa fotografare volentieri davanti a un’installazione intitolata “la Ferocia” dell’artista corso Marcheschi o seduto dietro alla gigantesca scrivania, circondato da sterminate biblioteche. Camus vive nel castello con il suo compagno, un ragazzo elegante come pure lo scrittore settantenne, in lino beige, panciotto e cravatta.
L’improvvisa notorietà all’estero non gli dispiace. Anche se è dovuta a un giovane neozelandese che ha sterminato cinquanta persone nella moschea di Christchurch, a qualche migliaio di chilometri dal Château de Plieux. Il manifesto del terrorista neozelandese Brenton Tarrant era intitolato “The Great Replacement”, espressione coniata da Camus per descrivere la presunta sostituzione dei popoli europei con altri popoli, in particolare arabo-musulmani.
«Quel manifesto era mortalmente noioso, non l’ho neppure terminato» commenta con una punta di snobismo, evitando di lasciare trasparire qualsiasi pathos. «E comunque nei miei testi è scritto che sono profondamente non-violento e pacifista ». Cambia discorso. Quando all’estero cercano notizie sulla “grande sostituzione”, racconta, trovano estratti di “Tricks”, uno dei suoi pochi libri tradotti: racconti erotici omosessuali, pubblicati negli anni Settanta con la prefazione del suo mentore, Roland Barthes.
C’è stato un tempo in cui Camus era un intellettuale rispettato. Prima di diventare un reietto, una “Bestia Nera”, come dice lui stesso, era uno scrittore di culto per alcuni, incensato da Libération e Nouvel Obs. La sua personale svolta è cominciata nel 2002 quando ha deciso di fondare il partito dell’“In-noncence”, con l’obiettivo di lottare contro la «grande sostituzione».
Ha già partecipato simbolicamente a due presidenziali e ora si candida alle europee. Nella lista in vista del 26 maggio figura un rappresentante dei gilet gialli e un francese di origine algerina convertito al cattolicesimo. Uno dei punti del programma recita: «Non bisogna uscire dall’Europa ma farne uscire l’Africa che la colonizza profondamente ». Nel 2015 era stato condannato proprio per aver scritto che i musulmani stavano «colonizzando » l’Europa. «Ribadisco », dice ora. Plaude a Matteo Salvini che ha chiuso i porti ma preferisce Viktor Orbán, ancora più deciso nel bloccare l’immigrazione. Marine Le Pen non lo convince perché, dice, «tergiversa » e non vuole organizzare la «rimigrazione». È la sua ultima, pericolosa proposta, ovvero il trasferimento in massa all’estero di chi non è in regola e ma anche di chi «non segue usi e costumi francesi». Plieux è un delizioso paesino arroccato sulle colline, con le case in pietra, le persiane azzurre, ringhiere di fiori. È una cartolina della Francia eterna. Ma Camus si accende di rabbia quando ne parla: aProvate ad andare a fare una passeggiata di sera vicino alla stazione di Agen», la città più vicina. «Guardate come si è ridotta Parigi e immagino sia così anche per Roma. Ormai il cammino è segnato: si va verso le bidonville globali».
Dice cose f atte apposta per scandalizzare, come quando si paragona ai partigiani che combattevano l’occupazione tedesca. Il suo discorso colto è pieno di buchi e contraddizioni. Ha delle cifre sulla presunta “sostituzione”? Glissa, è «un sentimento, una percezione». Gli facciamo notare che dall’Ottocento in poi sono state accolte varie ondate di migranti, anche italiani. Risposta: «Erano individui, non popoli che volevano rimpiazzare il nostro». La sua, dice, non è xenofobia. «Anzi sono contro l’appiattimento dei popoli e delle civiltà, voglio preservare la possibilità di mondi stranieri».
Nella grande sala da pranzo c’è un ritratto di Emmanuel Carrère. I due scrittori si sono frequentati per vent’anni. «Ti ammiro e ti considero come un amico» scrive Carrère in una lettera pubblicata nella raccolta “Propizio è avere ove recarsi”. L’amicizia è finita con la metamorfosi di Camus da raffinato dandy a “ideologo di estrema destra”, “oracolo dei gruppi identitari”: così l0 definisce adesso Carrère osservando l’evoluzione di un uomo solo che a un certo punto ha trovato, anziché lettori, dei seguaci. «Quegli individui la cui vocazione è ingabbiare in pesanti certezze un pensiero danzante» osserva Carrère che forse alludeva a qualcuno come Dominique Venner, amico di Camus, suicida nel 2013 dentro a Notre-Dame. Verner aveva lasciato un messaggio in cui sosteneva che il “Grand Remplacement” era una delle ragioni del suo gesto.
Niente sembra turbare Camus, come se la sua controversa dottrina politica fosse anche un’opera letteraria.
In cima alla Torre c’è la scrivania dove l’estate scrive il suo diario, al quarantesimo volume, già pubblicato da Fayard prima che l’editore rompesse con lo scrittore maledetto. Oggi l’intellettuale si autopubblica, vende su Amazon, si promuove sui social. Vive con la pensione e qualche diritto d’autore. Spiega di non avere fondi per fare campagna elettorale. È riuscito però a registrare un video che, secondo le regole elettorali, sarà trasmesso sulla tv pubblica nei prossimi giorni.
Nell’ultima versione de “Le Grand Remplacement” Camus ha aggiunto una lunga risposta a Carrère in cui ironizza sul comodo appartamento del romanziere nel decimo arrondissement .
Vi siete più sentiti? «Sono diventato un infrequentabile anche per lui». Un altro storico amico, Alain Finkielkraut, ha interrotto le relazioni. «È d’accordo con me ma dice che l’espressione ‘grande sostituzione’ è troppo violenta».
Per consolarsi parla del successo di Michel Houellebecq, che l’ha citato in “Sottomissione” immaginandolo come ghostwriter di Marine Le Pen alle presidenziali del 2022. Lui nega sia possibile. Potenza della letteratura.

Repubblica 16.5.19
Il reportage
“Per noi pochi yuan e lauree inutili” La crisi taglia le ali ai ragazzi di Pechino
Il rallentamento dell’economia e l’ostilità di Trump frenano le aspettative dei giovani cinesi che non trovano impieghi adatti al titolo di studio. Ma la disoccupazione miete vittime anche nel digitale e nell’industria
dal nostro corrispondente Filippo Santelli


PECHINO — La parolaccia che tormenta i giovani d’Occidente, disoccupazione, non fa parte del vocabolario di Yue Lian. Come molti studenti cinesi dell’ultimo anno, anche questa 23enne laureanda in management della finanza ha già ricevuto un paio di offerte. Ma se oggi è qui a Pechino, tra le bancarelle di una fiera del collocamento allestita allo Stadio dei lavoratori, è perché non facevano al caso suo. «Una banca mi ha proposto l’ufficio marketing – racconta stringendosi al petto la cartellina dei curriculum come fosse un tesoro – però non ho studiato cinque anni per fare telefonate». Così si è vestita bene, pantaloni neri e cappotto cammello, ha preso il treno dallo Hebei, dove si trova il suo Tangshan College, ed è arrivata nella capitale, per capire se può offrirle qualcosa di più adatto ai sacrifici che la famiglia ha fatto per lei. «Trovare un posto a 6 mila renminbi al mese (circa 900 euro, ndr ) non è un problema, se ti accontenti di pagare l’affitto e mettere insieme il pranzo con la cena. È trovarne uno buono che è difficile. Sono in ansia. Decisamente, non potevo laurearmi in un anno peggiore».
Decisamente, basta guardare i dati di aprile: industria, investimenti e consumi crescono tutti sotto le attese, gli ultimi ai minimi da 15 anni. L’economia cinese stava già rallentando, poi a peggiorare le cose sono arrivati i dazi di Trump. In questo clima le aziende ci pensano tre volte prima di assumere. Così il premier Li Keqiang ha riconosciuto con inusuale candore che il Paese quest’anno avrà un problema nuovo, inedito: l’occupazione. I funzionari di Partito devono dargli assoluta priorità, in particolare per «i lavoratori migranti e i nuovi laureati». Categorie che sulla carta non potrebbero essere più lontane: da una parte il proletariato dal colletto blu di cantieri e fabbriche, dall’altra i giovani di belle speranze e camicia bianca. In realtà due facce dello stesso intoppo sulla strada cinese verso il benessere.
«Hai visto che pure Didi e Meituan licenziano?», fa Wang Yin, 22 anni e modi spicci. Didi, cioè la Uber cinese, e Meituan, l’app delle consegne a domicilio, sono metafore del momentaccio. Campioni hi-tech, nei cui uffici lavorano brillanti programmatori. Ma anche colossi del terziario, che impiegano autisti e fattorini. «Mi avevano detto che studiare nuovi media era la scelta migliore, ora invece anche il digitale se la passa male », dice Wang. Non è questione di essere “choosy”, rivendica, «ma di trovare qualcosa che sia adatto alle mie aspettative». Dà un’altra occhiata agli stand, dove i reclutatori intervistano file di candidati. Un’azienda immobiliare, una di trattori, una che organizza corsi privati, non il massimo. «Le grandi imprese come Alibaba o quelle straniere ormai prendono solo gente con il master – fa lei, laureata che noi diremmo triennale – quelle piccole non hanno cultura dello sviluppo professionale e possono fallire da un giorno all’altro».
Certo che un cattivo lavoro è meglio di nessun lavoro. E per quanto manipolato, il tasso di disoccupazione ufficiale è di poco superiore al 5%, visto dall’Italia fa invidia.Ma la religione dell’istruzione come ascensore sociale è ancora viva tra le famiglie cinesi, colonna del patto sociale che legittima il Partito. Per questo il fattaccio di Mindray è stato uno choc: l’azienda biomedicale di Shenzhen aveva reclutato 450 laureandi nelle migliori università del Paese, salvo poi avvisarne 200 che il loro contratto era saltato, gli affari vanno male. Dopo tre giorni di tempesta mediatica, alla fine l’impresa è tornata sui suoi passi, confermando le assunzioni.
Ma se carriera e stipendi dorati non sono più scontati neppure per gli alunni di Beida o Tsinghua, gli atenei di punta del Paese, figurarsi per quelli di seconda o terza fascia. Quest’anno la Cina sfornerà 8 milioni e 340 mila laureati, un record storico, tutti con pari aspettative. La metro di Pechino è tappezzata di pubblicità di app per cercare lavoro.
Il paradosso è che in un Paese dove le imprese private creano il 90% della nuova occupazione, ora qualcuno rivaluta i cari vecchi dinosauri di Stato. Almeno a loro il governo può vietare i licenziamenti. «Io ero fortunata – dice con occhi timidi e nervosi Zhang Mei, 30 anni – lavoravo alle risorse umane di una grande azienda ferroviaria di Stato, ma poi è stata spostata in un’altra provincia per le norme anti inquinamento».
Zhang, che qui a Pechino ha famiglia, ha deciso di non seguirla, incassando una mini indennità e mettendosi alla caccia di nuovo posto. «Ma le imprese private non si fidano di me, e ci sto mettendo più tempo del previsto, sono già due mesi. Non c’è nessun tipo di supporto nella ricerca».
Ecco l’altra mancanza, per un Paese che di fatto non ha mai avuto problemi di impiego: non esistono politiche in tema. Per 40 anni l’esplosione cinese ha fatto da sola, garantendo un posto ai contadini che arrivavano in città, e uno meglio pagato ai loro figli. Ora il governo sta cercando di inventarsi qualcosa, un embrionale sistema di formazione professionale per gli operai disoccupati causa robot, che però in tanti casi non sanno neppure leggere.

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