sabato 16 maggio 2015

Il Sole 16.5.15
La radio torna a guardare verso lo standard digitale
Ma in Italia coesisteranno per legge entrambi i sistemi
di Antonio Dini


La radio ricomincia a parlare digitale. La decisione della Norvegia di effettuare lo switch-off, la transizione completa del sistema radiofonico nazionale di quel paese dallo standard analogico della modulazione di frequenza (FM) al formato digitale (lasciando ai broadcaster la libertà di scegliere tra DMB e DMB+) riapre in Europa un dibattito che va avanti a fasi alterne da più di venti anni. A tanto risale infatti “l’invenzione” del Digital Audio Broadcasting, creato proprio in Europa e diventato, nelle sue tre principali varianti, lo standard mondiale della radiofonia digitale terrestre. Frutto di ricerca e sperimentazione, il DAB ad oggi è molto più che un’opzione, anche se finora nessun Paese aveva annunciato una transizione completa al nuovo formato come ha fatto la Norvegia: «È una novità importante destinata a lasciare un segno» dice Francesca Pasquali, docente di sociologia della comunicazione all’università di Bergamo.
Il mercato mondiale della radiofonia, rispetto a quello della televisione, è rimasto a lungo immobile: le trasmissioni in modulazione di frequenza stereofonica (tecnologia brevettata negli anni Trenta in alternativa a quella della modulazione d’ampiezza) sono cominciate tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. Da allora, l’unico cambiamento di sostanza è avvenuto negli ultimi anni grazie a Internet. «L’uso della radio – dice Pasquali – è cambiato sostanzialmente solo con la rete: dai podcast, trasmissioni registrate da scaricare, agli streaming delle radio tradizionali, che spesso hanno quadruplicato i canali a disposizione. Sino alle web-radio, sconosciute all’etere e molto popolari in rete, senza barriere alla diffusione e licenze di trasmissione a parte i diritti musicali».
La radio nel mondo è in diretta competizione con internet come mezzo di accesso alle informazioni. E per adesso vince largamente: le 51mila emittenti del pianeta trasmettono a 2,4 miliardi di apparecchi e almeno il 75% delle case nei paesi in via di sviluppo hanno una radio. La penetrazione di internet, soprattutto in aree meno ricche del pianeta, per adesso è molto più bassa. E anche la crisi dei mezzi di comunicazione tradizionale tocca solo relativamente la radio. Quello radiofonico infatti è un settore dove, per esempio, per la versione online la crescita della raccolta nel periodo tra il 2006 e il 2013 è stata del 28% .
In Italia, su una popolazione adulta di quasi 52 milioni di persone, gli ascoltatori radio secondo RadioMonitor di GFK sono 34 milioni. La Lombardia è la regione di gran lunga più “radiofonica”: poco meno di sei milioni di ascoltatori rispetto ai 3,3 milioni del Lazio, 3 milioni della Campania e della Veneto, 2,5 milioni di Sicilia, Emilia Romagna e Piemonte, poco più di due milioni di Puglia e Toscana.
«Per la radio il digitale – dice Pasquali – non è una trasformazione ma un adeguamento infrastrutturale. Richiederà comunque forti investimenti, ma troverà un pubblico già predisposto e in parte attivo. C’è da chiedersi casomai se non abbia più senso passare da Internet anziché dall’etere».
Il sistema radiofonico italiano è atipico rispetto ad esempio al mercato televisivo o dell’editoria cartacea. «A differenza della televisione – dice Sergio Serafini, membro dell giunta esecutiva di Aeranti, che assieme all’Associazione Corallo è la più grande aggregazione di radio e televisioni locali, agenzie e televisioni satellitari – dove cinque o sei canali fanno l’80-95% degli ascolti, per la radio il locale pesa molto di più. Le radio locali infatti hanno un ascolto del 33% e pilotano il 10% della pubblicità nazionale, oltre ovviamente a quella locale».
In un mercato strutturato in questa maniera, l’innesto del digitale terrestre porterebbe a cambiamenti significativi. Nonostante in Italia non siano ancora state fatte studi e simulazioni completi di quali potrebbero essere gli effetti, alcuni punti fermi ci sono. A partire dal tipo di transizione: «La legge stabilisce – dice Serafini – che radio tradizionale e DAB comunque coesisteranno. Il nostro switch-off non sarà completo come quello del digitale terrestre». C’è però un problema di costi: le trasmissioni attuali sono tecnicamente già digitali, perché è analogica non la produzione ma la sola messa in onda. Tuttavia, adeguare i ponti radio e gli impianti di emissione comporterebbe investimenti significativi. Anche qui, non ci sono ancora analisi dettagliate, ma l’idea è che siano cifre elevate, nell’ordine dei milioni di euro: «Siamo – dice Serafini – in un periodo di crisi, una delle più grosse concessionarie pubblicitarie è fallita di recente. Ecco, a fronte di una ventina di canali nazionali ci sono 300 radio comunitarie e 600 radio comunitarie locali, tra le quali pochissime potrebbero permettersi questi investimenti».
Sul fronte digitale in Italia operano Club DAB Italia, Eurodab Italia e la Rai, mentre Agcom ha autorizzato trasmissioni in Trentino, in Alto Adige, e in altre aree sono in corso piani provvisori di assegnazione delle frequenze. Materia complessa tecnicamente, che si inserisce in una normativa ancora più complessa. A fare da ostacolo, oltre ai costi per gli editori, il dubbio sull’effettivo interesse da parte del mercato e il problema delle frequenze da assegnare ai provider. Oltre naturalmente a una considerazione che tra gli addetti ai lavori è molto diffusa: «Quali vantaggi porta agli ascoltatori il DAB? E soprattutto – si chiede Serafini – quali vantaggi rispetto a Internet? Perché non puntare invece sulla rete? Passare al DAB mi lascia perplesso: giudicheranno certamente gli ascoltatori ma Internet offrirebbe vantaggi che il DAB non può dare, anche in mobilità».
El Pais
Giuseppina Manin
Se Internet ci avvicina alla trascendenza


Con l’età tendiamo a rivalutare il passato e rimpiangerlo, scrive lo scrittore spagnolo Luis Goytisolo per il quotidiano El País , facendo spesso torto al progresso che ha cambiato le nostre vite in modo irrevocabile. Ci sfugge, per esempio, quanto la rivoluzione digitale abbia influito sul nostro rapporto con la dimensione della trascendenza: «La Rete stabilisce una relazione intima con l’utente» intervenendo direttamente sul modo in cui il soggetto si percepisce. Dinamiche portate all’estremo nel selfie . Non sempre negative.
Corriere 16.5.15
Allen: fede e ideologia, illusioni contro il «non senso» della vita
di Giuseppina Manin


CANNES Ha mai sognato di uccidere qualcuno? «Come no, anche in questo momento» mormora Allen dardeggiando un lampo dietro le lenti spesse. Qualche giornalista magari…. La lista omicida di Woody è lunga e sempre aggiornata. In Irrational Man , ieri accolto con molti applausi, affida a un prof di filosofia, Joaquin Phoenix, la sua tesi nichilista: «Un centinaio di persone malvage in meno, e il mondo avrebbe tutto da guadagnare». Teoria forse condivisibile a parole, meno nei fatti. Perché delitto chiama delitto e, pur se non segue castigo, le conseguenze sono sempre devastanti. Woody, appassionato lettore di Dostoevskij, lo sa bene. E saggiamente i suoi crimini e misfatti li mette in pratica solo al cinema.
«Il delitto è irrazionale come lo è l’uomo — avverte —. Fragile e incapace di accettare la realtà, la morte, il non senso della vita, il nulla che inghiottirà lui, il mondo, il sole, l’universo… Shakespeare, Michelangelo, Beethoven… Tutto destinato a sparire».
Se ti fermi a pensarci, come accade al prof del film, ti aspettano solo la depressione, il rifiuto di vivere, scrivere, amare. «E allora, per cercare di andare avanti l’uomo si inventa delle illusioni, la religione, la politica, la speranza che, in cielo o in terra, ci sarà un Paradiso. Idee che nulla hanno a che vedere con la ragione, ma che talvolta servono. Non a caso la maggior parte dei sopravvissuti ai campi di sterminio erano comunisti convinti oppure cattolici. Anche se non ha fondamento, la fede aiuta a campare».
Chi invece, come il suo alter ego filosofo, non crede a nulla, nemmeno a Kant o a Kierkegaard, nemmeno a quegli imperativi categorici destinati a infrangersi contro la banalità del male, non trova di meglio che sostituirsi a Dio o al caso, intervenendo nella vita degli altri, decidendo chi debba vivere o morire. Scelte pericolose. Per sfuggire alla crisi esistenziale, molto meglio la soluzione Allen. «Fare film. La mia distrazione meravigliosa. Sul set sono io a decidere storie, amori, vita e morte. E quando non giro vado al cinema. Un’ora e mezza con Fred Astaire allontana l’incubo delle malattie, dell’ospizio, della fine».
L’antidoto ai prossimi 80 anni (li compirà il primo dicembre) è lavorare più che mai. «Sto scrivendo sei episodi per una serie tv prodotta da Amazon. Pensavo fosse una passeggiata invece è un’impresa difficilissima. Non so capacitarmi su come ci sia caduto dentro». E per il cinema un nuovo film è già alle porte. Top secret la storia il titolo, già noti i nomi del cast: Kristen Stewart, Bruce Willis, Jesse Eisenberg. «Scelgo grandi attori perché non occorre dirigerli. Basta non disturbarli».
Corriere 16.5.15
Quando Giolitti non voleva la guerra: i negoziati prima del conflitto
risponde Sergio Romano


Il 26 aprile 1915, i vertici del potere regio-governativo impegnavano l’Italia all’entrata nella Grande guerra con il Patto di Londra, firmato senza prima informare il Parlamento e contro l’orientamento sia della maggioranza parlamentare, sia della popolazione. Dopo 100 anni, gli studiosi sono ancora spaccati in due: chi vede la decisione bellica come un atto politico antiparlamentare e antidemocratico (se non addirittura anticostituzionale), e chi sostiene che il potere politico dell’epoca aveva il diritto di decidere la guerra, anche contro la volontà parlamentare e popolare. La Grande guerra finisce nel 1918; solo 4 anni dopo, in Italia il cammino verso la liberaldemocrazia si blocca per dirigersi verso la dittatura. Si possono retrodatare al 1915 i primi segnali antidemocratici dell’Italia? Infatti, nella odierna Costituzione il potere di decidere la guerra appartiene al Parlamento.
Giuseppe Gaudiosi

Caro Gaudiosi,
Nel sistema costituzionale italiano, alla vigilia della Grande guerra, vi è una evidente contraddizione. Secondo l’art. 5 dello Statuto Albertino, «al re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato lo permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune. I trattati che importassero un onere alle finanze, o variazione di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo ottenuto l’assenso delle Camere». Vittorio Emanuele III, quindi, non violava lo Statuto negoziando segretamente a Londra con gli Alleati l’ingresso dell’Italia nel conflitto. Ma la guerra sarebbe stata impossibile se le Camere non avessero conferito al governo il potere di stanziare le somme necessarie al finanziamento delle operazioni militari.
Quando si oppose alle intenzioni del governo, Giolitti non sapeva ancora quale parte il re avesse avuto nel negoziato con gli Alleati. Poteva contare sulla maggioranza della Camera e sperò per qualche giorno di convincere Antonio Salandra e Sidney Sonnino (presidente del Consiglio e ministro degli Esteri) a continuare le trattative con Austria e Germania per un accordo che avrebbe permesso all’Italia di scambiare la propria neutralità contro qualche vantaggio territoriale. Ma dovette rinunciare quando capì, dopo una conversazione con Vittorio Emanuele, che il re minacciava di abdicare e che la sconfessione dell’operato del governo avrebbe aperto una crisi costituzionale. Quanto ai sentimenti popolari in quel momento, caro Gaudiosi, è probabile che la maggior parte degli italiani non volesse il conflitto. Ma accanto a questa maggioranza silenziosa esisteva una minoranza vociferante e bellicosa che riempiva le piazze e voleva la guerra.
Giolitti uscì di scena, impose a se stesso il silenzio e rimase a Cavour, salvo un breve viaggio a Roma dopo Caporetto, per tutta la durata della guerra. Ma non cambiò le sue idee e lo disse con chiarezza, dopo la fine del conflitto, in un discorso pronunciato a Dronero il 12 ottobre 1919. Dichiarò che la guerra aveva complicato i rapporti fra gli Stati europei, che occorreva rafforzare la Società delle Nazioni e, con particolare riferimento all’Italia, che era necessario assicurare «la diretta influenza del Paese sulla politica estera». Non era logico, sostenne, che i trattati internazionali venissero negoziati dietro le spalle della Camera, salvo chiederle, a cose fatte, il denaro necessario per le spese di un conflitto. A chi invocava lo Statuto Albertino, ricordò che nel 1848 «il segreto diplomatico era la norma per tutti gli Stati d’Europa» e le guerre si facevano con soldati di mestiere. Ancora più esplicitamente disse: «Se il Patto di Londra del 26 aprile 1915 fosse stato portato all’esame del Parlamento, o anche solamente di una commissione parlamentare, ne sarebbero state rilevate le deficienze che ebbero poi conseguenze così disastrose».
Repubblica 16.5.15
Pyongyang e Seul: i due estremi che racchiudono il nostro mondo
La Storia ricomincia in Corea
di Slavoj Zizek


L’una incarna il vicolo cieco del progetto comunista. L’altra il capitalismo sfrenato Lo status ideologico del regime asiatico ricorda la mitica Shangri-la isolata da tutto

AMO Trouble in Paradise , la vecchia commedia di Lubitsch. Per questo prendo in prestito il suo titolo. Il “paradiso”, nel mio caso, si riferisce alla Fine della Storia di Francis Fukuyama (il capitalismo liberal-democratico come il migliore degli ordini sociali possibili) e il “guaio” è, naturalmente, l’attuale crisi, che ha costretto perfino lo stesso Fukuyama a rivedere le sue posizioni. La Corea divisa non è forse l’espressione più chiara, quasi clinica, della crisi in cui siamo precipitati dopo la fine della Guerra fredda? Da una parte, la Corea del Nord incarna il vicolo cieco del progetto comunista del ventesimo secolo; dall’altra, la Corea del Sud è al centro di uno sviluppo capitalistico impetuoso che l’ha portata a livelli strepitosi di prosperità e modernizzazione tecnologica (Samsung sta minacciando perfino il primato di Apple).
In Europa, la modernizzazione è avvenuta in un arco temporale di secoli, e dunque è stato possibile adattarsi alla stessa, ammorbidire il suo impatto dirompente, attraverso il Kulturarbeit, vale a dire la formazione di nuove narrazioni e miti sociali; in altri contesti invece – in modo esemplare nelle società musulmane – l’impatto della modernizzazione è stato diretto, senza schermi o differimenti, determinando il collasso del loro universo simbolico: queste società hanno perso il loro fondamento (simbolico) senza avere il tempo di stabilire un nuovo equilibrio (simbolico). Non stupisce allora che, in alcuni casi, sia stato necessario levare lo scudo del “fondamentalismo”, la riaffermazione psicotico-delirante- incestuosa della religione quale accesso diretto al Reale divino; il che ha prodotto effetti disastrosi, in particolare la rivincita dell’oscena divinità superegotica che esige tributi di sangue. Il dominio del Super-io è uno degli aspetti che accomuna la permissività postmoderna e il nuovo fondamentalismo. Ciò che li distingue è il luogo del godimento: nel primo caso, a dover godere siamo noi; nel fondamentalismo, a godere è Dio.
Forse il simbolo supremo della devastata Corea post-storica è l’evento musicale dell’estate 2012: Gangnam Style di Psy. Il video di questo brano è il più visto di tutti i tempi, dopo aver superato, su YouTube, il numero di visualizzazioni di Beauty and a Beat di Justin Bieber. Il 21 dicembre 2012, giorno in cui chi dava credito alle predizioni del calendario maya si attendeva la fine del mondo, Gangnam Style ha raggiunto il numero magico di un miliardo di visualizzazioni. È probabile allora che gli antichi Maya avessero ragione: ciò èeffettivamente il segno del collasso di una civiltà. Il testo della canzone e l’allestimento scenico del video si prendono gioco dell’insensatezza e della vacuità dello Gangnam Style (secondo alcuni, con intento sottilmente rivoluzionario); malgrado questo, è difficile non farsi catturare dal demenziale ritmo da marcetta, riprodurlo in modo puramente mimetico. Il Gangnam Style è un prodotto ideologico in virtù della distanza ironica che stabilisce con il suo contenuto. Molti spettatori trovano la canzone disgustosamente seducente, e cioè «amano odiarla», o, piuttosto, amano trovarla ripugnante, e così la ascoltano ripetutamente per prolungare il disgusto – questa natura compulsiva dell’oscena jouissance è ciò da cui la vera arte dovrebbe liberarci. Ma non dovremmo allora osare un parallelo tra un concerto di Psy in un grande stadio di Seul e gli spettacoli allestiti non molto lontano, oltre la frontiera, a Pyongyang, per celebrare gli amati leader nordcoreani? In entrambi i casi, non siamo forse di fronte a rituali neosacri indirizzati a una jouissance oscena?
Si potrebbe ritenere che in Corea, come altrove, sopravvivano numerose forme di saggezza tradizionale in grado di mitigare l’impatto traumatico della modernizzazione. Tuttavia, è facile riconoscere come queste vestigia della tradizione siano già state trans-funzionalizzate, tradotte in strumenti ideologici volti ad accelerare la modernizzazione stessa. Questa impressione trova conferma nella cosiddetta spiritualità orientale (il buddhismo), che invita a stabilire un rapporto più “gentile”, equilibrato, olistico ed ecologico con il mondo. Non basta affermare che il buddhismo occidentale – questo fenomeno pop che predica l’indifferenza verso le frenetiche e competitive dinamiche del mercato – è verosimilmente la via più efficace per prendere parte alla società capitalistica preservando l’apparenza della salute mentale (in breve, che è l’ideologia paradigmatica del tardo capitalismo); occorre anche aggiungere che non è più possibile contrapporre questo buddhismo occidentale alla sua “autentica” versione orientale.
La mia analisi sembra essere confermata da Propaganda, un documentario del 2012 (facilmente reperibile in rete) sul capitalismo, l’imperialismo e la mercificazione della cultura di massa in Occidente, in particolare sugli effetti pervasivi di questi fattori in ogni aspetto della vita delle moltitudini beatamente istupidite e zombificate. Si tratta di un mockumentary, una parodia che finge di essere nordcoreana, mentre in realtà è stata girata da un gruppo di neozelandesi. Vengono illustrati l’uso della paura e della religione per manipolare le masse e il ruolo dei media nel distogliere l’attenzione dai problemi cruciali attraverso una varietà di diversivi. Uno dei pregi del film è il modo in cui demolisce il culto della celebrità: affermando che Madonna o Brad e Angelina «vanno a fare shopping di bambini nei paesi del Terzo mondo »; analizzando l’ossessione occidentale per la vita “glamour” dei vip e l’individualismo, unitamente all’indifferenza per le condizioni di vita dei senzatetto e in generale di chi soffre; raffigurando i vip come strumenti di mercificazione, anche inconsapevoli, ruolo che spesso li conduce sull’orlo della follia – tutto questo è trattato in modo talmente puntuale da risultare spaventoso: è il mondo attorno a noi. Il documentario, in particolare la parte dedicata a Michael Jackson – uno sguardo su «cosa ha fatto l’America a quest’uomo» –, sa raccontare verità difficili da digerire.
Se cancellassimo quegli spezzoni in cui si esalta la saggezza del grande e amato leader ecc., Propaganda verrebbe a coincidere con una classica critica del consumismo, della mercificazione e della Kulturindustrie – specificamente nello stile del marxismo occidentale della Scuola di Francoforte. Ma si deve prestare attenzione a un’avvertenza all’inizio del film: la voce narrante rivela agli spettatori che, per quanto ciò che vedranno potrebbe imbarazzarli e scioccarli, il grande e amato Leader confida sul fatto che siano abbastanza maturi da sopportare l’orribile verità sul mondo esterno – parole che un’autorità benevola, protettrice e materna userebbe per comunicare a un bambino un evento spiacevole.
Per comprendere lo speciale status ideologico della Corea del Nord non possiamo evitare di chiamare in causa la mitica Shangri- la del romanzo di James Hilton Orizzonte perduto: una valle tibetana in cui la gente conduce una vita modesta ma felice, totalmente isolata dalla corrotta civiltà globale e sotto il comando benevolo di una élite erudita. La Corea del Nord è quanto di più simile a Shangri-la ci sia nel mondo reale. Nonostante la loro distanza abissale, la Corea del Nord e del Sud condividono una caratteristica di fondo: sono entrambe società post-patriarcali. Se il film Propaganda riesce a mostrare verità indigeribili, non è semplicemente a causa del fatto che un ingenuo sguardo straniero è in grado di cogliere aspetti nella nostra cultura che noi stessi, dato che vi siamo immersi, ignoriamo, ma piuttosto perché la radicale opposizione tra Corea del Nord e del Sud è sostenuta da un’identità di fondo segnalata dal titolo del film: si tratta di due forme estreme di atemporalità, di sospensione della storicità vera e propria.

IL LIBRO Problemi in paradiso di Slavoj Zizek (Ponte alle Grazie trad. di Carlo Salzani pagg. 266, euro 16)
Il Sole 16.5.15
Pechino. Il premier indiano vuole attrarre investimenti dal gigante asiatico finora poco interessato
Un nuovo corso tra Cina e India
Incontro Li-Modi - Siglati accordi per dieci miliardi di dollari
di Rita Fatiguso


Pechino Certo non basterà lo storico selfie dei premier Li Keqiang e Narendra Modi a segnare una svolta nei rapporti tra Cina e India, ma da ieri, di fatto, Nuova Delhi ha avviato un comune percorso di collaborazione ben definito con Pechino.
Intanto, ha incassato la sigla di ben 24 accordi del valore di una decina di miliardi di dollari, nel commercio, nel turismo, nel settore minerario, negli scambi culturali e nello sviluppo scientifico e tecnologico, come da copione, nella sede dell’Assemblea Nazionale del Popolo.
L’obiettivo della missione che si conclude oggi è anche quello di rendere appetibile l’India agli occhi degli imprenditori cinesi: nonostante gli sforzi dei due Governi, finora l’India ha avuto scarso appeal sul mondo delle aziende cinesi che preferiscono altri Paesi anche confinanti, soprattutto il Pakistan, per investire e aprire nuove attività. Colpa di differenze culturali ancora molto forti che condizionano la capacità di lavorare gomito a gomito e di progettare sviluppi in termini di imprese solide.
Non a caso, la Cina dovrebbe «rivedere il suo approccio» nelle relazioni con l’India, ha tenuto a precisare il pragmatico Narendra Modi: «Ho sottolineato la necessità per la Cina di rivedere il suo approccio su alcune questioni che ci impediscono di realizzare tutto il potenziale del nostro partnernariato», ha spiegato Modi in conferenza stampa, aggiungendo di aver «suggerito che la Cina adotti una visione strategica a lungo termine» nei rapporti con Nuova Delhi.
Quindi, non un’intesa occasionale anche se proficua, nell’immediato. Ma un percorso che porti a superare gli ostacoli e le rivalità tra i due Paesi per la supremazia nell’area forse più dinamica dal punto di vista degli sviluppi geopolitici.
«Le nostre relazioni si sono rivelate complesse negli ultimi decenni», ha ancora sottolineato Modi, che ieri ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping. «Ma noi abbiamo la responsabilità storica di trasformare questa relazione in una fonte di forza per entrambi e di forza benefica per il mondo», ha aggiunto.
Il capo del governo cinese da parte sua ha ammesso gli ostacoli che finora hanno impedito relazioni migliori: «Non neghiamo che vi siano alcune divergenze tra di noi, ma condividiamo ben più interessi reciproci che divergenze». Pechino ancora non ha superato l’onta della disputa sui confini che ha dato luogo a un breve ma violento conflitto nel 1962 nella zona himalayana. Né riesce a dissimulare il fastidio per l’asilo politico concesso dall’India al Dalai Lama e al governo tibetano in esilio.
Un esempio di impegno duraturo potrebbe essere anche l’impegno sulla lotta all’inquinamento globale, in fondo Cina e India sono tra i più importanti al mondo tra i Paesi più inquinanti, dovranno presentare piani di riduzione delle emissioni di gas serra quanto prima e soprattutto in anticipo rispetto alla conferenza internazionale sui cambiamenti climatici in calendario a dicembre a Parigi.
«I due Paesi lavoreranno insieme per far progredire i negoziati globali per un accordo alla riunione di Parigi, secondo una dichiarazione congiunta sul cambiamento climatico», è il messaggio pubblicato sul sito web del premier Modi. La sigla degli accordi non a caso è stata accompagnata da una dichiarazione che impegna Cina e India a tener conto dei principi di equità e di responsabilità comuni ma differenziate e delle rispettive capacità di intervento tra i paesi sviluppati e i paesi in via di sviluppo. Svizzera, Stati Uniti e Unione Europea hanno presentato le loro “promesse” per i tagli delle emissioni. Anche Cina e India stanno cercando di farlo, a modo loro, superando soprattutto l’antagonismo che, nel bene e nel male, li ha caratterizzati negli ultimi anni.
Repubblica 16.5.15
La rivoluzione dei pagamenti
Copenaghen ha deciso: dal 2016 si useranno solo le carte digitali e il telefonino In Canada la Banca centrale non stampa più banconote. L’Italia, però, resta indietro
Parte dalla Danimarca la crociata anti-cash ora il denaro è virtuale
di Federico Fubini


LA LEGGE di Moore non è mai stata approvata in Parlamento, neanche con la fiducia, ma è pienamente in vigore e i suoi effetti sono ovunque: prevede che la potenza dei microprocessori raddoppi ogni diciotto mesi. La progressione della tecnologia accelera a una rapidità esponenziale, penetra nelle nostre vite, cancella abitudini e interi settori industriali, ma ne crea di nuovi capaci di una crescita esplosiva.
È successo anni fa alla musica, che si è progressivamente smaterializzata fino a entrare nei cellulari, ma ora sta per succedere al denaro. In questi giorni il governo danese ha proposto una misura che forse in futuro verrà ricordata come il punto di non ritorno: nel 2016, commercianti e imprese avranno diritto per legge di rifiutare pagamenti in monete e banconote di carta o in metallo. Ad eccezione di medici, dentisti, negozi di alimentari e pochi altri servizi essenziali, sarà obbligatorio saldare con un mezzo elettronico se richiesto da chi incassa. Banche e imprese potranno risparmiare i rischi e le spese, molto ingenti, che ora sostengono per gestire e trasportare il denaro fisico.
Non è del tutto una novità, ovviamente. Già oggi in Svezia gli autobus non accettano pagamenti in contanti e la diffusione di carte digitali di ogni tipo, con il rarefarsi della moneta fisica in circolazione, fa sì che le rapine di banca siano crollate da 110 nel 2008 a 16 nel 2011. In Canada la banca centrale ha smesso un anno e mezzo fa di stampare banconote, anche per incoraggiare i pagamenti con carta. In Kenya un terzo della popolazione è abbonato a M-Pesa, il sistema di bonifici via telefono con cui si versano salari o bollette, da poco esportato anche in Romania. E persino in Somaliland, tra Etiopia, Somalia e Eritrea, nel 2012 il numero di pagamenti via telefonino è stato pari a quello di pagamenti per carta di credito in Italia nel 2013: in entrambi i casi, 34 per abitante.
Ma c’è sempre un momento in cui tutto accelera e la qualità tecnologica cambia. Nella musica la Sony incastonò i compact disk in piccoli lettori con cui si poteva correre nel parco, ma pochi anni dopo la Apple di Steve Jobs distrusse quel modello con l’iPod: il contenuto non solo diventava più piccolo, ma si smaterializzava e portava con sé nuovi modi di ascoltare, produrre e vendere una canzone.
Con il denaro sta succedendo lo stesso, e la sola certezza è che abbiamo visto solo l’inizio. In Italia, per la verità, giusto quello. Con la Grecia, questo resta il Paese nel quale le transazioni elettroniche rappresentano la quota più bassa in Europa: appena il 13% del totale, contro una media del 40%. Nel frattempo però c’è un italiano che sta già guidando quella che ha tutta l’aria di essere la prossima rivoluzione tecnologica nel denaro immateriale, così come l’innovazione dei lettori digitali in Mp3 presero il posto di quelli di compact disk.
Per ora la moneta elettronica è sempre stata «scritturale»: un pagamento con bancomat in pizzeria corrisponde a una modifica nelle scritture contabili su due conti, di chi paga e di chi è pagato. In questo caso ogni transazione implica un passaggio dal sistema bancario. Roberto Giori, un imprenditore italo-svizzero erede di una dinastia di grandi produttori di macchine per la stampa di banconote, ha sviluppato un algoritmo per portare la smaterializzazione del denaro un passo più in là: non più con trasferimento fra due conti bancari, come accade con Visa, M-Pesa, Pay-Pal o la rete Bancomat, ma con la digitalizzazione della moneta «fiduciaria ». Nel progetto di Giori, ormai in fase di lancio, diventano immateriali le banconote stesse emesse dalla banca centrale.
L’autore del progetto conosce questo mondo da sempre: la De la Rue Giori, il gruppo di macchine da stampa di carta moneta che lui stesso ha gestito fino al 2001, controllava fino a pochi anni fa il 90% del giro d’affari globale delle macchine da stampa di denaro. Vi hanno fatto ricorso la Federal Reserve per i dollari, l’Italia, la Francia, il Giappone e centinaia di Paesi a ogni livello di reddito. Da qualche anno però Giori ha venduto l’azienda e ha sviluppato un nuovo modello di emissione di moneta digitale da parte delle banche centrale. Ogni banconota è numerata e tracciabile, mentre gli enormi costi di produzione e distribuzione materiale del denaro (100 miliardi l’anno nel mondo) vengono azzerati. Basta un numero di cellulare, e diventa possibile spostare con i gesto del dito sul touchscreen le banconote ridotta a icona al destinatario. Non c’è passaggio fra i conti bancari, è semplicemente un pagamento in moneta immateriale.
L’Uruguay sta sperimentando il “Giori Digital Money” e intende introdurlo in circolazione in autunno. Equador e Bangladesh hanno reso legale l’emissione di banconote elettroniche, nelle Filippine il progetto è allo studio. Sono più avanti della Danimarca. Forse perché chi arriva dopo, salta direttamente alla tappa successiva: magari in futuro succederà anche all’Italia.
Repubblica 16.5.15
La sinistra di Syriza sfida il governo Tsipras drena liquidità alle ambasciate
di ettore Livini


Riunione-maratona della segreteria con i deputati. Respinta la richiesta dell’ex-Troika di rafforzare le riforme Stipendi e pensioni pagate, ma molte agenzie governative non hanno liquidità e i fornitori restano a secco

MILANO Le trattative per il salvataggio della Grecia arrivano al nodo della “variabile Syriza”. L’ala più radicale del partito di Alexis Tsipras – forte di 30 voti decisivi in Parlamento – ha iniziato infatti ad affilare le armi contro eventuali compromessi al ribasso con l’ex-Troika. E in una riunione-maratona della segreteria politica con i deputati durata alcune ore nella serata di giovedì ha messo sulla graticola il vice-premier Yannis Dragasakis, chiedendogli di non fare passi indietro sulle promesse elettorali.
L’appuntamento, in teoria, era di routine. Un’occasione per fare il punto della situazione e decidere assieme quali nuovi passi fare. Il clima, confermano alcuni dei partecipanti, si è scaldato subito e l’incontro si è trasformato in un processo alla strategia del governo con i creditori. Il comunicato finale della serata dice tutto: «L’insistenza di Bce, Ue e Fmi a chiederci di implementare il memorandum siglato dall’esecutivo di Antonis Samaras soffocandoci finanziariamente confligge con il concetto di democrazia e rappresentatività dell’Europa – proclama –. Le nostre linee rosse sono le stesse del popolo ellenico. Vinceremo!». Linea su cui si sarebbero mossi anche molti uomini vicini al presidente del Consiglio. Dragasakis ha provato a gettare acqua sul fuoco: «A questo punto dei negoziati c’è bisogno di collaborazione piena e creativa tra l’esecutivo e Syriza – ha postato su Facebook – . Lavoreremo assieme per arrivare assieme a una soluzione positiva».
Se il buongiorno si vede dal mattino, è chiaro che per Tsipras non sarà facile nei prossimi giorni far quadrare il cerchio, accontentando i creditori – senza i cui soldi Atene rischia di finire prestissimo in default – e la minoranza del partito. La Grecia ha confermato ieri di aver accelerato le trattative per completare la privatizzazione del Pireo ai cinesi della Cosco. Un ramoscello d’ulivo teso a Bruxelles.
L’obiettivo rimane quello di arrivare a un piano di riforme condiviso entro pochi giorni, massimo fine maggio, da sottoporre all’approvazione del Parlamento ellenico e nelle altre aule della Ue dove per Costituzione è previsto un via libera a intese di questo tipo. Una lista di Paesi - Germania e Finlandia in testa – non proprio tenerissimi con le ultime scelte di Tsipras.
A scandire i tempi, come sempre in queste ultime settimane, è la drammatica crisi di liquidità. Il governo ha pagato regolarmente ieri stipendi e pensioni dovuti a metà mese. Ma molte organizzazioni pubbliche (come quella che stanzia le agevolazioni per gli agricoltori) sono rimaste a secco di fondi «per motivi tecnici». Atene in realtà ha pochi spiccioli in tasca. E già da qualche mese ha messo in stand by tutti i pagamenti non necessari, chiedendo persino ad ambasciate e consolati di rimpatriare tutta la liquidità che hanno in cassa.
Le uscite dello Stato si sono ridotte di 1,5 miliardi nei primi mesi del 2015, una scelta necessaria per mantenere in equilibrio i conti ma che sta soffocando decine di fornitori della pubblica amministrazione che non riescono a incassare i soldi che deve loro lo Stato. Tsipras non a caso ha fretta di chiudere e vuole che il caso della Grecia finisca sul tavolo di un summit Ue la prossima settimana a Roga. «Noi abbiamo fatto la nostra parte, ora tocca ai creditori fare qualche passo verso di noi», ha ribadito. Sperando siano passi sufficienti a convincere pure l’ala più radicale di Syriza.
Corriere 16.5.15
Assalto finale a Ramadi, strage di bambini a Palmira
di Guido Olimpio


WASHINGTON L’assalto al centro di Ramadi è iniziato con la tattica consueta dell’Isis. Una falange di sei kamikaze a bordo di veicoli blindati e riempiti d’esplosivo. Tra loro un inglese, Abu Musab al Britani. A far da ariete un bulldozer-bomba. Un colpo di maglio che ha distrutto le linee di difesa irachene e permesso ai mujaheddin di occupare il palazzo del governatore dove hanno innalzato il vessillo nero. Sempre ieri i jihadisti dell’Isis avrebbero ucciso 23 civili, tra cui 9 bambini, vicino alla città di Palmira, il noto sito archeologico siriano. Tra le vittime anche familiari di impiegati del governo siriano, riferisce l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria che ha dato notizia dell’ennesima strage.
Il nuovo rovescio per Bagdad era in parte atteso. Le unità, assediate da mesi, hanno ricevuto rinforzi sufficienti a tenere ma non a rovesciare il quadro strategico. E questo malgrado le promesse di «riconquista» lanciate dal governo. Solo poche settimane fa gli iracheni dicevano di voler liberare la provincia dell’Anbar dallo Stato Islamico, invece hanno incassato la sconfitta. Cocente. Ramadi è sulle strade che portano verso Giordania e Siria, ospita un importante bacino idrico, è un simbolo per i sunniti, divisi tra quanti sostengono il Califfo e coloro che sono rimasti fedeli al potere centrale. L’esercito si è rivelato ancora una volta incapace di fronteggiare l’emergenza, non abbastanza organizzato. La coalizione, guidata dagli Usa, ha dato un apporto relativo. A partire da ottobre - secondo nostri calcoli - ha condotto nella zona oltre 155 raid aerei. Utili, a patto che sul terreno ci siano forze in grado di interagire. Così non è stato.
Un esperto americano è arrivato a ipotizzare che al governo iracheno — e al suo protettore iraniano — interessi poco intervenire nella regione a maggioranza sunnita. Ciò non toglie rilevanza allo smacco militare e propagandistico. Sviluppo che segue la nuova sortita del Califfo. In un messaggio audio, registrato (forse) a marzo, ha chiamato a raccolta i suoi e preso di mira i sauditi.
Repubblica 16.5.15
Che cosa perdiamo se perdiamo Palmira
Stiamo perdendo la perla del deserto. L’Onu mandi i Caschi blu a difenderla
di Paolo Matthiae


«PALMIRA è una città splendida per la posizione, la ricchezza del suolo, la gradevolezza delle acque. Da tutti i lati le sabbie assediano l’oasi e la natura l’ha sottratta al resto del mondo. Gode di una sorte privilegiata tra i due grandi imperi, quello dei Romani e quello dei Parti e sia l’uno che l’altro la corteggiano non appena riemergono i conflitti tra loro».
Così Plinio il Vecchio rievoca la straordinaria bellezza della perla del deserto, celebre per il colorito rosa delle pietre dei suoi monumenti, che risplendono di un indicibile incanto sotto il sole cocente che avvampa i palmizi che le hanno dato il nome dall’età di Hammurabi di Babilonia nel XVIII secolo avanti Cristo. Ma la città è ancora più antica e sondaggi archeologici recenti hanno provato che esisteva già nell’età di Ebla, almeno dal XXIV secolo avanti Cristo.
Le fonti antiche ricordano che Marco Antonio solo venti anni dopo la costituzione della provincia di Siria, poco dopo la battaglia di Filippi, aveva inviato la sua cavalleria per saccheggiare la ricca città e che i suoi abitanti, messi al corrente, abbandonarono la città, salvandola dalla distruzione. I suoi famosissimi arcieri furono un nerbo dell’esercito di Tito alla conquista di Gerusalemme e Adriano la proclamò città libera, mentre Caracalla all’inizio del III secolo le conferì l’ambito titolo di colonia romana. Fu soprattutto sotto gli Antonini e i Severi che Palmira cominciò, per la sua eccezionale prosperità derivante dalla funzione di protettrice delle carovane che attraversavano il Deserto Siro-Arabico, a erigere monumenti spettacolari. La sua potenza militare e politica emerse quando, dopo la disastrosa sconfitta di Edessa nel 260, l’imperatore Valeriano cadde prigioniero dei Parti e il signore di Palmira Odeinato assunse risolutamente l’iniziativa, attaccò i secolari nemici di Roma e, dopo averli respinti oltre l’Eufrate, li inseguì fino a Ctesifonte e assunse il titolo regale. Poco più tardi, nel 271, la sua vedova, Zenobia, che aveva concepito il disegno di conquistare la provincia imperiale dell’Egitto arrivò ad assumere il titolo di Augusta. La sfida contro Roma fu raccolta da Aureliano che, portando le legioni imperiali a trionfare delle agili ma inferiori schiere palmirene a Emesa, l’odierna Homs, domò le ambizioni della temeraria regina, che sembra aver finito i suoi giorni in un dorato esilio a Tivoli. Secondo lo storico Flavio Vopisco Aureliano fu implacabile con la città ribelle e così si sarebbe espresso in una sua lettera «Non abbiamo avuto pietà delle sue madri; abbiamo ucciso i loro figli, i loro vecchi, massacrato gli abitanti delle campagne».
Oggi Palmira, con i suoi monumenti leggendari, dal Tempio di Baal che, miracolosamente conservato nel suo temenos quasi intatto, è una testimonianza unica dell’architettura imperiale d’Oriente, al piccolo santuario di Baalshamin ancora oggi quasi integro, dagli spettacolari colonnati che spiccano dall’arco trionfale a tre portali e a quel gioiello raccolto di estrema suggestione che è il piccolo teatro romano fino alla valle delle tombe costellata delle diroccate torri funerarie ricchissime di sculture di uno stile provinciale tra i più significativi dell’intero impero, corre di nuovo un pericolo mortale, quello stesso della macabra sorte in cui è incorso un altro gioiello dell’architettura d’Oriente tra Romani e Parti, Hatra.
Nel 1751 il viaggiatore inglese R. Wood, riscoprendo i resti di quella città spettacolare, scrisse soltanto «scoprimmo allora in un solo momento la più grande concentrazione di rovine, tutte di marmo bianco, che ci fosse mai capitato prima di vedere». E poco più tardi, un filosofo francese, Costantin François conte di Volney, avventuratosi fino a Palmira «per interrogare i monumenti antichi sulla saggezza dei tempi perduti», arrivò ad affermare, lui stesso incredulo, che «l’Antichità nulla ci ha lasciato né in Italia né in Grecia che sia comparabile alla magnificenza delle rovine di Palmira».
Un sensazionale patrimonio culturale è oggi di fronte ad un inaccettabile destino di morte. Il Segretario Generale dell’Unesco ha già inequivocabilmente definito crimini di guerra le efferate e ripetute distruzioni di siti storici imperdibili in Iraq e in Siria. Per l’Italia il Ministro Franceschini ha chiesto giustamente la costituzione di Caschi blu dell’Onu a difesa di monumenti che sono tesoro ineguagliabile del patrimonio mondiale, come solennemente affermato dall’Unesco. Il grido di dolore del Direttore Generale delle Antichità di Damasco, Maamoun Abdulkerim, non può cadere nel vuoto.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu sta per affrontare questo tema. I grandi del pianeta devono essere concordi per affermare che Palmira non può essere abbandonata ad un destino di morte, perché sarebbe un’onta incancellabile su tutti i massimi responsabili politici dei nostri tempi per tutti i secoli a venire.
Repubblica 16.5.15
La sparatoria dal balcone a Napoli
Maurizio De Giovanni: “Il degrado non c’entra non siamo più capaci di riconoscere la follia”
di Conchita Sannino


NAPOLI . «Ora non venitemi a dire che questo massacro esplode per una lite sui panni da stendere». Le ossessioni invisibili che deragliano in tragedia, le nascoste nevrosi che sfociano nel sangue, lo appassionano da sempre. Maurizio De Giovanni, il giallista di culto, l’ex impiegato di banca diventato caso letterario, l’autore che ha dato vita al malinconico Ricciardi, commissario anni Trenta che “vede i morti”, o all’inquieto e contemporaneo ispettore Lojacono, stavolta però parla «da cittadino».
De Giovanni, se un infermiere incensurato si trasforma in un cecchino che spara dal balcone, non c’è altro colpevole?
«Non è vero, siamo tutti colpevoli. Una follia del genere non esplode senza segni. È impossibile che non ci sia stata mai una manifestazione di malessere. Dobbiamo dirci che non esiste più quello che chiamavamo “controllo sociale”. Chi è in grado, chi ha voglia, dal vicino di casa al familiare, di penetrare il grado di prostrazione in cui scivola una persona? Siamo attaccati alle tastiere, collegati col mondo ma, più di ieri, non sappiamo l’altro cosa abbia dentro. Frettolosi: perché in fondo scoprire quel pensiero costerebbe fatica, o disagio. Allora meglio parlare tanto, in 140 caratteri o con le faccine, e non aprirsi mai. Tutti presi da cose prevalentemente inutili da “taggare”, “postare”. Questa è la prima sensazione. Poi c’è un’altra riflessione da fare».
Si riferisce alle armi detenute legalmente?
«Sì, questo fa spavento. Noi non siamo in America, dove il modello delle armi per tutti è legato alle lobby di chi le vende. Io penso che non può bastare neanche una fedina penale pulita e una documentazione impeccabile a concedere la possibilità di avere un’arma. Dovrebbe accadere in casi molto rari, e su robuste motivazioni. Perché quel possesso implica l’elevata possibilità che il fucile a pompa o la pistola vengano usati, anche in un eccesso di legittima difesa. E soprattutto: chi è autorizzato dovrebbe essere sottoposto a controlli rigorosi, ma affidati a strutture sanitarie, ad esperti psichiatri. Si fa, questo? O la norma prescrive solo un burocratico rinnovo?».
De Giovanni, forse suona insolito, stavolta Napoli è uno sfondo come tanti?
«Di più, voglio essere drastico. Nessuno osi collegare questa strage allo stereotipo del degrado. Penso al carabiniere che nel cosentino uccise la moglie e si suicidò, alla madre albanese che a Lecco ammazzò i suoi tre figli. Napoli conta purtroppo, tra le sue anime, anche una strutturata dimensione criminale, ma qui non c’entra: qui assistiamo a una follia individuale, che esplode dentro quel deserto a cui somigliano sempre di più condomìni, metropoli. Con i disagi stipati sotto, nel fondo delle nostre vite iperconnesse».
Repubblica 16.5.15
“La religione è solo un pretesto per chi si sente fuori dal gruppo”
di Caterina Pasoilini


ROMA . «Aggredire a 12 anni una ragazzina per motivi religiosi? È possibile, ma nel senso che la croce, la fede diversa, molto probabilmente sono diventati per il bambino senegalese il tratto comune che univa i compagni di classe, il simbolo del gruppo dal quale si sentiva rifiutato, escluso». Massimo Ammaniti, psichiatra, psicologo dell’età evolutiva, è cauto nel valutare la storia di Terni. Lui che da decenni studia la difficoltà di crescere, invita alla prudenza.
La croce come simbolo del nemico?
«Più che il nemico, penso che possa rappresentare il mondo nuovo che l’alunno non capisce, non conosce perché lontano dalle sue radici, un universo dal quale si sente tenuto a distanza, separato. Un mondo diverso che rifiuta forse perché si sente rifiutato lui per primo. Succede a quell’età, i gruppi sono forti, chiusi».
La religione come pretesto?
«Accade, come dimostra un fatto raccontato recentemente dal New York Times. Un ragazzino di origine musulmana che si sentiva escluso e preso in giro dai compagni, esasperato ha gridato: Io sono di Al Qaeda. Ovviamente non lo era né aveva una famiglia di terroristi, ma quello era l’unico modo che aveva trovato per ribadire la sua identità».
Ma qui c’è stata anche violenza fisica.
«Ci sono spesso casi di bullismo nelle scuole medie, sono però più spesso i gruppi che prendono di mira il singolo, il diverso, il più debole facendone oggetto di scherno. Potrebbe essere accaduto che il ragazzino si sia sentito preso in giro, non capendo la lingua, oppure sia stato tenuto in disparte. E quel gesto contro la bambina, lo abbia vissuto come un modo di riaffermare la sua identità».
Botte per affermare la propria identità?
«I maschi, a qualsiasi età, non sopportano di essere esclusi, derisi. Non tollerano di sentirsi feriti, deboli. Non lo ammettono e non lo vogliono fare vedere, per un maschio è gravissimo mostrarsi vulnerabile e così reagisce aggredendo».
Le femmine sono più capaci di inserirsi?
«Sì, sono più adattabili, più capaci di trovare compromessi, di mediare, di capire cosa prova o pensa chi sta davanti a loro, e questo aiuta nei rapporti sociali».
Troppi conflitti a scuola?
«I problemi di inserimento nelle scuole si moltiplicano, anche perché a quell’età spesso si detesta quello che non si conosce, ciò che si teme. Troppo spesso i bambini fanno gruppi, escludono, o litigano con altri ragazzini solo perché non sanno nulla di loro, non sanno leggere i loro comportamenti, i reali sentimenti dietro la facciata».
Cosa si dovrebbe fare?
«I docenti dovrebbero a inizio anno fare una sorta di carta di identità in cui ogni studente si racconta, sino a formare un grande tabellone con le loro storie. Dovrebbero aiutare i bambini a capire il punto di vista dell’altro, a comprendere che dietro un comportamento da sbruffone c’è spesso un timido. Capire il punto di vista, le difficoltà degli altri renderebbe i rapporti profondi e migliori, stemperando aggressività e violenza». Partendo dalla scuola, arrivando nella società.
Repubblica 16.5.15
Fecondazione, un diritto restituito
di Elena Cattaneo


CARO direttore, la Consulta con la sentenza di giovedì, eliminando il divieto di accesso alla fecondazione assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche, ha restituito ai cittadini di questo Paese un diritto che era stato loro sottratto ed ha messo fine a una crudeltà imposta da una legge ingiustamente punitiva verso il desiderio di genitorialità.
Legge concepita, approvata e difesa da chi, nel Paese, antepone e impone l’etica personale alla scienza, alla ragionevolezza, alla sofferenza delle persone e non ha timore di farlo, come ribadito per la quarta volta due giorni fa, in spregio alla Costituzione. Nell’attesa, doverosa, della lettura del dispositivo e delle motivazioni della sentenza, ho letto i tanti commenti e le reazioni che hanno accolto con favore questa notizia. La mia gratitudine va a quei resistenti malati, familiari, associazioni e avvocati che, in questi anni, non hanno mai smesso di lottare per l’affermazione di diritti fondamentali della persona nell’interesse di tutti. Preziose al riguardo sono le riflessioni e le testimonianze raccolte durante il convegno, svoltosi lo scorso 8 aprile in Senato promosso dall’Associazione Luca Coscioni, in corso di pubblicazione.
Mi auguro che potremo esprimere la stessa soddisfazione anche quando, fra qualche mese, la Corte si pronuncerà in merito all’ulteriore ricorso che ha per oggetto la Legge 40 e, in particolare, il divieto di donare gli embrioni soprannumerari alla ricerca scientifica. Con le conoscenze accumulate sulle cellule staminali embrionali umane ne è stata scoperta una surrogata, la cellula staminale pluripotente indotta, i cui vantaggi e svantaggi rispetto alle staminali embrionali umane vere sono oggetto di studio in tanti laboratori nel mondo, incluso il mio. Laddove vantaggiose la scienza e poi la medicina le adotterà. Ma è difficile immaginare che possano sostituirsi alle embrionali vere in ogni studio (tanti dei quali ancora da immaginare) poiché quelle staminali vere rappresentano una straordinaria opportunità per studiare una finestra dello sviluppo umano fisiologico altrimenti impenetrabile. Con gli importanti risultati ottenuti con embrionali umane in modelli animali di Parkinson oggi in Svezia e negli Usa si stanno progettando le prime sperimentazioni cliniche nei Parkinsoniani. Non è ancora un successo ma è una delle strade da percorrere, con buona pace di chi, per anni, ha sostenuto irragionevolmente e antiscientificamente l’inutilità di queste cellule ancora prima di studiarle.
Il coinvolgimento di decine di tribunali in sede civile e amministrativa e il plurimo intervento della Corte costituzionale ci raccontano che la libertà ed i diritti fondamentali sono sempre un bene in pericolo, precario, recessivo se non coltivato, la cui difesa e affermazione incombe a tutti noi e, per altro verso, indicano le difficoltà di una parte della politica nel correggere in tempi accettabili gli errori o, me- glio, “orrori” legislativi del passato.
Presso le Camere sono incardinati ragionevoli progetti di riforma organica della materia, così come ci sono, trasversalmente, sensibilità parlamentari che consentirebbero di anticipare e risolvere, almeno per una volta, le questioni legate alla Legge 40 in tema di libertà prima che si esprima di nuovo la Consulta. Se ciò avvenisse sarebbe un segnale di rinnovata vitalità di un legislatore spesso pronto a denunciare il protagonismo della magistratura ma molto meno reattivo nell’adoperarsi affinché, con leggi ben fatte e aggiornate, i cittadini non abbiano necessità di ricorrere alla giurisdizione.
Docente all’università degli Studi di Milano e senatrice a vita
Il Sole 16.5.15
Giustizia. Ma il vicepresidente Legnini difende il Ddl: «Indiscutibile passo in avanti, il parere deve essere ancora discusso e votato
Anticorruzione, critiche della commissione Csm
di Giovanni Negri


Milano «Illogico», «intempestivo», «sconcertante». Riporta indietro le lancette del tempo, ad altre stagioni di conflitto tra politica e magistratura, la reazione della maggioranza di governo al parere del Csm (ancora da votare da parte del plenum) che affronta sì il disegno di legge di riforma del processo penale, ma non risparmia pesanti critiche sui temi oggetto di provvedimenti ormai vicini al varo definitivo. Dalla corruzione, sulla quale l’intervento che verrà approvato definitivamente dalla Camera la prossima settimana è insufficiente, alla prescrizione, per la quale si sollecita il blocco dopo l’esercizio dell’azione penale o, almeno, la condanna di primo grado, alle intercettazioni delle quali non va vietata la pubblicazione per sintesi.
Il testo è stato messo a punto dal Consigliere di Area Piergiorgio Morosini, già segretario di Magistratura democratica, ed è stato approvato all’unanimità in commissione per essere votato in plenum mercoledì prossimo, alla vigilia del via libera finale al disegno di legge anticorruzione. Ne prende però le distanze il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini per il quale il disegno di legge sui reati contro la pubblica amministrazione (che rivede anche il falso in bilancio) rappresenta «un indiscutibile passo avanti».
Nel merito, il parere chiede di affrontare senza timidezze un’emergenza criminale come la corruzione, contro la quale un semplice aumento delle sanzioni non è sufficiente. Servono anche misure sulle pene accessorie, come l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, e interventi premiali per chi collabora. Sotto tiro anche il falso in bilancio, per il quale le sanzioni previste per le società non quotate escludono ilo ricorso alle intercettazioni.
Durissima la reazione dal fronte della maggioranza. David Ermini, responsabile Giustizia del Pd e relatore del disegno di legge anticorruzione, si dice «sorpreso, anzi sconcertato. Il giudizio proposto al vaglio del plenum dalla sesta sezione del Csm è incomprensibile e va in senso contrario a quello espresso da magistrati in prima linea, come Raffaele Cantone e Francesco Greco, e da associazioni autorevoli come Libera e Transparency International». E poi Ermini contrattacca: «Tutti lavoriamo perché questo Paese esca dalla palude, ognuno faccia la sua parte: ad esempio, dal Csm ci aspettiamo solerzia, a quasi un anno dall’approvazione della Legge Madia, nella deliberazione e pubblicazione dei bandi per la copertura degli incarichi direttivi che rimarranno scoperti il 31 dicembre 2015».
Si aggiunge la presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti che bolla il testo del parere come intempestivo, «visto che le misure anticorruzione diventeranno legge la prossima settimana» e illogico, «visto che accusa il Parlamento di disorganicità, proprio quando stiamo varando una legge organica e di sistema».
Al ministero della Giustizia, nel silenzio di Andrea Orlando, si fa sentire la voce del viceministro Raffaele Costa (Ncd) che agita il bastone: «ogni giorno che passa si rafforza l’esigenza di riformare il Csm. Le invasioni di campo sono solo una sfumatura delle criticità che sono sotto gli occhi di tutti».
Repubblica 16.5.15
Rodolfo Maria Sabelli
“Bisogna avere più coraggio nel combattere il malaffare”
intervista di L. Mi.


ROMA «Prescrizione bloccata definitivamente almeno con il primo grado, corruzione trattata per quello che è, un reato grave come la mafia». Parte da qui il presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli per criticare le mosse del governo.
Stop and go sulla prescrizione per la corruzione. Alla Camera era aumentata del doppio, ma ora la maggioranza vuole fare marcia indietro e ridurla. Che impressione le fa questo tira e molla?
«Prima ancora delle critiche tecniche credo che in questo modo si trasmettano messaggi negativi su un tema, quello della lotta alla corruzione, che richiede al contrario coerenza e forte determinazione».
È in atto uno scontro politico tra Pd e Ncd. Aumento per la corruzione sì, ma non troppo. Spostare da una parte all’altra del codice penale questo aumento è la stessa cosa oppure il risultato è negativo?
«Si dovrebbe fare per la corruzione quel che è stato fatto per altri reati gravi, come l’omicidio colposo, la violenza sessuale, l’associazione mafiosa. Cioè aumentare il termine ordinario modificando l’articolo 157 del codice penale che è la norma base per disciplinare il tempo necessario a prescrivere».
Che succede, invece, se questo aumento, peraltro ridotto, viene spostato in un altro articolo del codice, il 161, che regola il rapporto tra prescrizione e atti del processo?
«C’è una differenza molto importante. Col testo approvato alla Camera il reato di corruzione, anche qualora non venga scoperto, ha una prescrizione ordinaria di 15 anni, dando per buono l’aumento di pena da 8 a 10 che scatterà con la legge anti-corruzione. Invece, se si segue la strada del 161, la corruzione si prescriverà in 10 anni se non vengono compiuti prima atti processuali. Ma la corruzione è un reato talmente grave che deve essere trattato come i reati di mafia».
E cioè?
«Prescrizione raddoppiata, ma anche intercettazioni, attività sotto copertura. Strumenti investigativi previsti anche dalle convenzioni internazionali e che continueranno a mancare anche dopo la riforma».
Ma questa riforma della prescrizione, nel suo complesso, è giusta o sbagliata?
«La scelta è del tutto insufficiente. Bisogna avere più coraggio, non basta sospendere temporaneamente la prescrizione dopo la condanna di primo grado, ma bisogna sterilizzare i suoi effetti negativi bloccandola definitivamente almeno con la sentenza di primo grado. In questo modo non accadrà più che l’obiettivo del processo possa essere l’estinzione del reato, e non l’accertamento dei fatti». (l. mi.)
Corriere 16.5.15
La battaglia nei dem sul concetto di «impresentabili»
di Monica Guerzoni


Nel variegato mondo del Pd, anche quella degli «impresentabili» è una questione di punti di vista. Rosy Bindi è preoccupata. Tanto da aver avviato una verifica sulla corrispondenza tra i curricula dei candidati e il codice di autoregolamentazione, che la commissione parlamentare approva di prassi alla vigilia delle urne. Luca Lotti, invece, non è preoccupato. «Io conosco bene la lista Pd della Campania e non vedo impresentabili — commenta il sottosegretario a Palazzo Chigi — Il Pd in tutta Italia ha fatto liste presentabili, votabili... Quindi chi in Campania vuole votare persone votabili, può votare Pd e può votare De Luca». Da «impresentabili» a «votabili» dunque, questione di punti di vista. Quello di Rosy Bindi è che la politica deve arrivare prima della magistratura, selezionando con occhio vigile la propria classe dirigente invece di accorgersi a liste compilate che qualcosa (o qualcuno) non va. «Un tempo sulle candidature i partiti facevano da filtro, ora tutto questo è saltato» osserva sconfortata Rosaria Capacchione. La senatrice «dem», sotto scorta per le sue inchieste sulla camorra, approva lo screening, ma bacchetta: «Bisognava farlo un po’ prima». L’Antimafia vorrebbe vagliare nomi e storie prima del 31 maggio e la presidente Bindi è consapevole dell’enormità del lavoro: «I candidati sono moltissimi. Ci soffermeremo sulle Regioni che presentano maggiori criticità. Alla luce del nostro codice, più rigoroso della Severino, prenderemo in esame i profili». Nell’attesa della guida alle liste pulite, il procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti invita i partiti ad attenersi a quel codice di autoregolamentazione che loro stessi hanno firmato: «Il discrimine per determinare se una persona è candidabile è il rinvio a giudizio». E chi è «solo» indagato? «È teoricamente candidabile, ma qui entra in discussione anche la scelta e l’etica dei partiti». Roberti tocca il punto nevralgico: in politica l’etica dovrebbe arrivare prima degli avvisi di garanzia. La Bindi condivide e si augura che l’Antimafia approvi presto «un codice che prescinda dai provvedimenti della magistratura».
Corriere 16.5.15
Subito trasparenza sul candidato De Luca
di Marco Demarco


È da escludere, perché equivarrebbe a un clamoroso sovvertimento delle regole democratiche, che Renzi possa conoscere in anticipo le intenzioni dell’Alta Corte a proposito della Severino. E che l’incostituzionalità della legge si possa dare per acquisita. Così come non è affatto prevedibile che la decisione tanto attesa possa arrivare prima del voto regionale o della proclamazione degli eletti. No, no, e poi no. Nulla di tutto questo è lontanamente e ragionevolmente ipotizzabile.
Resta allora da spiegare cosa intenda Renzi quando a domanda sulla candidatura di Vincenzo De Luca e sugli impedimenti della legge Severino risponde rilassato che il caso è «risolvibile». Risolvibile come? L’altra strada, che annullerebbe il ricorso alla Consulta, quella di una riscrittura parlamentare della legge, è stata infatti esclusa dallo stesso Renzi, almeno a ridosso delle elezioni, onde evitare un provvedimento «ad personam». E allora davvero non si capisce da dove spunti tanto immotivato ottimismo. Viceversa, e tanto più che all’annuncio della soluzione possibile non ha fatto finora seguito il dettaglio, l’interrogativo sul come si possa venire fuori da questo garbuglio non solo è legittimo, ma diventa ogni giorno di più ineludibile. Le ragioni? Perché, piaccia o non, in ballo ci sono la certezza del diritto, l’autonomia dei poteri costituzionali, la coerenza legalitaria del Pd e, certo non in ultimo, la credibilità dello Stato.
De Luca, si sa, è candidato dal centrosinistra alla presidenza della giunta regionale campana. Una condanna in primo grado per abuso di ufficio lo rende però incompatibile con la carica a cui aspira. Nel caso di vittoria sarà sospeso per un periodo massimo di 18 mesi in attesa della sentenza di appello. Nel frattempo, il Tar potrebbe sospendere la sospensione. Ma attenzione: potrebbe. Il che vuol dire che non è certo. Sul punto, però, anche Renzi sembra prendere per buona l’idea che i Tar lavorino tutti «in automatico», come se fossero articolazioni locali di un unico tribunale robotizzato. Lo si intuisce quando accenna ai precedenti del sindaco di Napoli, De Magistris e dello stesso De Luca, quando era sindaco di Salerno. Ma in ogni caso occorrerebbe comunque del tempo per decidere: giorni, come a Salerno; settimane, come a Napoli. Nel caso inedito della Regione, allora, cosa succederà nel periodo di vuoto? Chi governerà la Campania? Nessuno risponde. Renzi sorvola, pur avendo avuto un ruolo determinante come segretario del partito che ha scelto De Luca e pur avendolo tuttora, questo ruolo, come presidente del Consiglio titolato a sospendere un governatore interdetto. Da parte sua, De Luca si limita invece a valutare i fatti e i precedenti dal suo unico e interessato punto di vista. Comunque, mai con argomenti inconfutabili. Ed entrambi lasciano intendere che la legittimazione popolare del voto vincerebbe sull’efficacia della legge, avvalorando un principio contestato quando ad agitarlo era Berlusconi. Allo stato attuale, è perfino da verificare se davvero, una volta eletto, e prima di essere sospeso, De Luca possa nominare un vice a cui lasciare la direzione della Campania. Si fa notare, infatti, che la procedura statutaria per la nomina della giunta è lunga e complessa, e fa slittare ogni adempimento alla non breve discussione sulle linee programmatiche del presidente. Si parla di un mese e più dal giorno del voto. Il punto è: per quanto tempo Renzi potrà rinviare senza danni alla propria immagine, la firma del decreto di sospensione? Troppe incognite, come si vede. Quasi una scommessa. E resta tutta da dibattere la questione se sia responsabile trattare una regione alla stessa stregua di un cavallo su cui puntare o di una partita di campionato.
Corriere 16.5.15
La variabile giustizia sul voto di maggio
di Massimo Franco


L’incognita dell’economia rimane sullo sfondo, bilanciata da timidi segnali di ripresa. Il tema che sta affiorando nelle ultime ore, però, e che può diventare imbarazzante per il governo, è quello della corruzione; e non solo per la presenza di candidati che lo stesso Matteo Renzi ha definito impresentabili. La novità è il giudizio liquidatorio, e secondo il Pd ingeneroso, che ieri il Consiglio superiore della magistratura ha dato sulla riforma. Il parere che mercoledì prossimo sarà portato all’esame dell’aula del Csm parla di interventi «sporadici e frammentari», che «per la loro disorganicità risultano insufficienti».
È un colpo alle norme anticorruzione sulle quali Palazzo Chigi ha investito molto; e che dovevano essere una delle medaglie da mostrare all’opinione pubblica in vista delle elezioni regionali di fine mese. Se a questi giudizi si abbina la sentenza della Corte costituzionale sui rimborsi delle pensioni, che ha riportato in bilico i conti pubblici, si profila un conflitto strisciante di tipo istituzionale. Già sulla Consulta, la maggioranza non aveva nascosto il suo disappunto. L’agenzia di rating Standard&Poor confermava ieri che la sentenza sulle pensioni rimette in forse «il conseguimento degli obiettivi di bilancio».
Ora riaffiora verso il Csm, il cui comportamento viene ritenuto «incomprensibile» dal Pd: tanto più perché contraddirebbe quello di altri magistrati. Non si tratta solo di una delusione legata all’investimento sulle misure contro la corruzione, del quale la nomina a commissario di Raffaele Cantone è il simbolo. Il problema di Palazzo Chigi è che il «parere» arriva dopo le parole del capo dello Stato, Sergio Mattarella, e di papa Francesco sui guasti che questi fenomeni provocano; e nel bel mezzo di polemiche montanti sulla composizione delle liste per le Regionali.
La presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi, ha deciso di aprire un’inchiesta per vedere se davvero esistano degli «impresentabili» tra gli alleati del Pd in Campania, e non solo. Renzi ieri ha schivato l’argomento precisando che «ci sono alcune liste con candidati impresentabili. Ma sul Pd sono pronto alla prova del nove». La confusione e gli episodi di trasformismo, tuttavia, promettono di allargare l’area opaca delle alleanze elettorali.
Per Renzi significa ritrovarsi con l’ennesimo fronte aperto, sapendo che i suoi avversari contano sul voto di maggio, come sullo sciopero nella scuola e sul «buco» delle pensioni, per metterlo in difficoltà. È significativo che Palazzo Chigi neghi il «significato nazionale» delle prossime Regionali: quasi volesse mettere le mani avanti. Eppure, si può essere certi che il Pd valorizzerà il risultato, se le urne lo premieranno; o, se a Renzi dovesse andare male, lo esalteranno gli oppositori del governo. Con la magistratura come fattore neutrale ma incombente.
Repubblica 16.5.15
Il bivio del premier davanti ai ribelli Pd
Il nodo del Partito della Nazione: perde a sinistra non sfonda a destra
Il voto ex berlusconiano non si dirige verso il Pd
E l’area del malcontento resta il serbatoio di Lega e 5Stelle
di Stefano Folli


LA CRONACA è amara in questi giorni per il capo del governo. La scuola, le pensioni, le polemiche sugli “impresentabili” nelle liste elettorali descrivono un mese di maggio pieno di spine. Al contrario, l’incoraggiamento di Standard&Poor’s, ossia il giudizio positivo di una delle grandi agenzie di “rating” sulle riforme fatte fin qui, è una spinta importante per Renzi. Il suo profilo di leader riformatore ne esce rafforzato ed è questo che conta: all’estero, ma soprattutto nell’opinione pubblica interna.
Il presidente del Consiglio riceve molte critiche, ma anche i suoi avversari gli riconoscono l’impegno dinamico a favore delle riforme. Anche chi non apprezza il merito dei provvedimenti — e lo dimostrano le tensioni sulla scuola — riconosce al premier una volontà di agire al limite della caparbietà: caratteristica essenziale per definire un progetto politico. Eppure gli interrogativi non mancano, più di un anno dopo l’inizio dell’era Renzi. Interrogativi che non trovano risposta, ma che sembrano turbare l’ex sindaco di Firenze. Il quale dà a volte l’impressione di correre, correre sempre e spesso in solitudine, perché non può fermarsi. A meno di non voler disperdere il lavoro svolto fino a oggi.
È questione che non riguarda l’agenda del governo, le riforme approvate e quelle da completare, il “Jobs Act” e la pubblica amministrazione, ma tocca un nodo strategico: lo spazio politico, elettorale e persino culturale del “partito della nazione”, la formazione renziana nell’anima e nel profilo pubblico che dovrebbe di fatto sostituire il vecchio Pd. Qualcosa che ha a che fare con i voti, quelli presi in passato e quelli da prendere in futuro.
Sotto questo aspetto non tutto va come Renzi aveva previsto. Al 40 per cento e oltre delle elezioni europee si sovrappone oggi un 37-38 per cento vaticinato dai sondaggi. Non è poco, ma è anche vero che i consensi al Pd e al suo leader arrivano in assenza di un competitore credibile e in grado di sfidarlo sul terreno del governo. Significa che il quadro generale meno negativo di un anno fa (le risorse finanziarie messe in campo dal Bce, l’economia che offre timidi segnali di risveglio, la recessione forse finita) non si traduce in una forte e definitiva avanzata dal partito di Renzi come nuova forza egemone. Al contrario, il progetto politico incontra gravi ostacoli.
Sembra che il premier non riesca a scegliere fra due opzioni. La prima prevede una ricomposizione all’interno del Pd con la minoranza oggi marginale e carica di rancore. Si potrebbe pensare a un’intesa di cornice, un vero e proprio patto da rinnovare, volto a facilitare lo sforzo comune in favore delle riforme. Una simile iniziativa, privilegiando i problemi del Pd e del centrosinistra, rallenterebbe il percorso verso il “partito della nazione”. Che infatti è un’altra cosa. È l’idea di una formazione leggera e trasversale, molto aperta verso il centro e anche il centro-destra, che sconta di perdere una costola a sinistra, ma non se ne cura troppo. Infatti ritiene di ereditare i consensi dei centristi e del mondo berlusconiano in disarmo. É proprio questo disegno a suscitare oggi qualche perplessità. Si capisce che il Pd sta perdendo qualcosa alla sua sinistra e non solo per via di Civati e Fassina. Il punto è che i voti persi non sono compensati dai consensi che provengono dall’area di centrodestra. Quindi è il “partito della nazione” a correre dei rischi. Il voto ex berlusconiano non confluisce in misura massiccia verso Renzi, semmai si disperde in mille rivoli o finisce nell’astensione. E chi continua a crescere nei sondaggi sono le due liste di Grillo e Salvini che raccolgono il malcontento e offrono un punto di riferimento anche alla destra.
Il partito di Renzi per ora è il Pd senza la costola di sinistra e invece con un parziale sostegno delle liste minori di centro. Ma lo sfondamento trasversale verso il centrodestra non c’è o non c’è ancora. Le elezioni regionali saranno il banco di prova per capire se il progetto è ancora valido, o invece se è stato un errore aprire un conflitto così aspro a sinistra.
Repubblica 16.5.15
Corradino Mineo
“Matteo userà la tv per rafforzare il suo potere”
Il prossimo cda sarà eletto con la vecchia legge, con o senza riforma il governo manterrà il controllo della Rai
di T. Ci.


ROMA «Vuole la verità? Il nuovo cda sarà eletto quasi certamente con la legge Gasparri». Così sostiene Corradino Mineo, senatore critico del Pd.
Perché prevede che finirà così, Mineo?
«Mi sembra che si vada in questa direzione. E d’altra parte la riforma pensata dal governo è una legge Gasparri con poteri ancora maggiori attribuiti all’amministratore delegato di nomina governativa. E continuerà lo spoil system ».
Cosa c’è che non va nella riforma?
«Oggi dovresti dare alla Rai più autonomia dal governo. Dovresti garantire all’azienda il tempo di costruire una vera politica culturale. La riforma della Rai pensata da Renzi, invece, attribuisce ancora più potere all’esecutivo. Sotto questo aspetto, peggiora persino la legge Gasparri».
Lei pensa che il ritardo della riforma sia dovuto alla volontà del premier di mantenere la lottizzazione?
«Guardi, per Renzi forse è meglio nominare il cda con la Gasparri. Ma in ogni caso, con la riforma o senza, il governo manterrà il controllo assoluto della Rai. E poi…».
Dica.
«Matteo ha un progetto rivoluzionario, sul quale non sono d’accordo. Lui pensa che tutte le riforme – quella della Rai, della pubblica amministrazione, della scuola, del fisco, del lavoro – debbano essere delle deleghe totali al governo. Il quale governo si riassume in una persona, il premier eletto con un ballottaggio che esercita il controllo militarizzato sull’unica Camera rimasta. Lui ritiene che solo così, con un uomo solo, si salvi l’Italia. Io penso di no».
Lei come salverebbe la tv pubblica?
«Negli ultimi venticinque anni c’era il duopolio Rai-Mediaset. Ecco, devi innanzitutto pensare a una riforma complessiva di tutto il sistema, non solo di viale Mazzini. E poi scusi, oggi ci sono tre Rai: una di servizio, quella commerciale di Rai1 e quella delle Regioni. Tutte e tre non si reggono, almeno separiamo le funzioni in modo che si sappia cosa si spende, per che cosa e che prodotto si offre ai cittadini ».
E invece Renzi?
«Temo che voglia usarla come uno strumento di potere. Per esempio sarebbe molto popolare abolire o ridurre drasticamente il canone, ma così le tre Rai fallirebbero. Oppure può essere utile togliere il tetto pubblicitario alla Rai, danneggiando le tv di Berlusconi per indurlo così a tornare al tavolo del Nazareno...».
Repubblica 16.5.15
Partiti e democrazia, la legge in cantiere
di Claudio Tito


C’È L’ARTICOLO 49 della Costituzione che richiama una legge per disciplinare la normativa interna dei partiti, cioè per la democrazia interna. Io sono pronto a discutere nel merito di una proposta di legge su questo». Le parole sono di Matteo Renzi. Che cita una norma mai attuata della Carta costituzionale.
LO fa rivolgendosi alla minoranza interna e in riferimento alle riforme appena approvate — l’Italicum — e quelle in discussione come la revisione del bicameralismo paritario.
Per il presidente del consiglio si tratta di un modo per arrivare il prossimo mese al confronto sull’abolizione del Senato con un’arma in più da utilizzare. Un argomento da spendere nel tentativo di ridurre il dissenso dentro i suoi gruppi parlamentari. Il punto è chiaro: c’è una componente del Pd che vive con disagio la sua leadership (e lui vive con fastidio le loro critiche). Ha contestato la nuova legge elettorale, non accetta l’impianto della riforma costituzionale in discussione a Palazzo Madama e in questa fase critica il testo sulla “buona scuola”. Utilizza dunque questi argomenti, al di là della loro effettiva problematicità, per avvertire che stanno diventando sempre più angusti i margini di una convivenza all’interno dello stesso soggetto politico. E che lo spazio per una fuga più o meno corposa si sta ampliando.
La risposta del leader democratico allora si basa appunto sull’articolo 49 della Costituzione. È come se dicesse: stabiliamo per legge le regole che ci consentano di stare insieme e che garantiscano la sopravvivenza di culture e sensibilità. E magari avviamo la discussione in Parlamento già a giugno, contestualmente all’esame della riforma del bicameralismo. Il presidente del consiglio vorrebbe infatti un testo comune già dopo le elezioni regionali del 31 maggio. Non un’iniziativa del governo, ma del Parlamento.
Certo, Renzi avanza la sua proposta sull’onda di una esigenza che ormai si è manifestata in maniera esplosiva in questi mesi dentro il Partito democratico. Anche perché si stanno modificando di fatto i canoni che informano la vita di un soggetto politico che passa dal 25% al 40% dei voti. Cambia la base elettorale, si amplia lo spettro dei potenziali elettori e con il tempo si trasforma anche la militanza.
Per di più è ormai evidente che ci sia bisogno di indicare quale sia il “metodo democratico” con cui i cittadini si associano in partiti. È il contesto nuovo in cui si muove il sistema politico che lo esige. La natura nuova delle formazioni e anche il nucleo su cui poggia l’Italicum. Un sistema elettorale che spinge verso liste uniche e grandi agglomerati reclama una disciplina capace di gestirne democraticamente la vita interna. Soprattutto se si considera che circa la metà degli eletti approderà alla Camera attraverso la candidatura “bloccata” e quindi decisa dai vertici del partito. Come si scelgono i “concorrenti”? Quali sono gli organi di garanzia? Sono necessarie le primarie almeno per i capilista? Come viene garantita la presenza delle minoranze interne?
Sono quesiti che necessitano una risposta in tempi brevi. Anche perché questa legge elettorale accompagna un sistema dei partiti che da tempo ha perduto qualsiasi collante ideologico. E a differenza della cosiddetta Prima Repubblica, le formazioni politiche svolgono la loro attività in un clima di incertezza. Anzi la loro debolezza è sostanzialmente manifesta ed è determinata proprio dalla disaffezione dei cittadini verso la politica. Una fragilità che scatena la nascita dei “partiti personali”. Legati ad un leader e non a un complesso di ideali, basti pensare a Forza Italia e al Movimento 5Stelle. «Il partito personale — avvertiva però Norberto Bobbio — è una contraddizione in termini. Ma sta diventando la regola ».
È vero che in parte alcune regole sono state già introdotte con la legge che ha abolito il finanziamento pubblico dei partiti e ha aperto la strada al finanziamento privato. Per accedere al 2x1000 nella dichiarazione dei redditi, ad esempio, i partiti sono obbligati a rispettare alcuni requisiti tra cui la dotazione di uno statuto. E a quello stesso provvedimento si richiama l’Italicum per indicare i soggetti in grado di presentare i candidati. Ossia solo i partiti che hanno uno statuto posso depositare le liste elettorali. Ma si tratta di condizioni insufficienti, incapaci di assicurare la convivenza democratica e la trasparenza delle scelte. Un testo unico e più organico potrebbe invece avere l’effetto persino di rilegittimare la politica agli occhi dei cittadini. Tenendo però presente una potenziale conseguenza: se si introducono delle norme per disciplinare i partiti, per prevedere i criteri con cui si seleziona la classe dirigente e i candidati, allora sarà più complicato contestare una forma ulteriore di sostegno economico alla politica. Soprattutto in un sistema in cui ritornano le preferenze.
Corriere 16.5.15
Il ministro Giannini
«Blocco degli scrutini? I sindacati sono divisi E io li ho già ricevuti per ben tre volte»
intervista di Claudia Voltattorni


Che fate, li precettate?
Sorride. «Non è una decisione che spetta a me». Però sul blocco degli scrutini minacciato dai sindacati chiarisce: «Io ritengo che sia molto grave, la protesta si fa in tanti modi ma non scaricando sui ragazzi e sul momento cruciale della vita della scuola un punto di vista». La Camera sta votando la riforma della «Buona scuola». In piazza del Pantheon, i sindacati convocano un’assemblea aperta per dire no alla riforma. La ministra dell’Istruzione Stefania Giannini è in Aula e, nonostante le proteste passate, presenti e future dei «suoi» sindacati, si mostra tranquilla.
Il 5 maggio hanno scioperato oltre 600 mila prof, in ogni scuola sono pronte mobilitazioni, sit-in, flash mob, fino al blocco degli scrutini di giugno: non c’è troppa tensione intorno alla riforma?
«Il sindacato fa il suo mestiere. Ma io sono fiduciosa: sul blocco degli scrutini mi pare che ci siano già posizioni molto diverse, forse questa mossa non è così condivisa. Ma c’è un percorso di dialogo, con i sindacati ci rivedremo, anche se è bene ricordare che io li ho già ricevuti per ben tre volte».
Loro si lamentano di non essere stati ascoltati...
«Questa è una negazione dei fatti che sono avvenuti».
Secondo loro, le modifiche al ddl approvate in commissione Cultura non bastano.
«I cambiamenti si fanno sul merito delle cose, si tratterà di capire quali sono i punti su cui bisogna cambiare. I falsi miti sono stati già demoliti, vediamo cosa resta in superficie».
Il preside ad esempio: continuerà ad essere l’uomo dai superpoteri?
«Per il dirigente c’è il riconoscimento del principio di responsabilità legato all’organizzazione e alla progettazione dell’attività didattica della sua scuola, e questo non è il contrario della collegialità. Nel ddl non c’è alcun principio di dirigismo, né assenza di democrazia: se attribuisci responsabilità a chi dirige, gli dai gli strumenti per esercitare l’autonomia, inclusi i soldi, ma lo chiami anche al coinvolgimento degli organi della scuola, collegio docenti, consiglio d’istituto e comitato di valutazione: la responsabilità è complementare alla collegialità».
Tra i prof, quasi tutti, c’è la paura di un preside che faccia il bello e il cattivo tempo...
«Ma oggi è già così! Con la “Buona scuola” tutto quello che farà dovrà comunicarlo e motivarlo: la parola chiave è trasparenza, come si fa a parlare di corruzione?»
Ma il problema resta: chi lo controlla?
«Il principio di valutazione si applica a tutti, dai dirigenti, ai docenti al funzionamento complessivo della scuola. La scuola italiana si deve chiedere: vuole accogliere l’inizio di un serio processo di valutazione e autovalutazione? Perché il confronto è culturale».
A vedere il calo della partecipazione ai test Invalsi, sembra che la risposta sia no...
«Ho assistito con amarezza alla protesta anti Invalsi visto come simbolo della cultura della valutazione. Sul come valutare si deve discutere, ma bisogna pur partire con un sistema, no? In Lombardia c’è stata un’astensione vicina allo zero, ma nel Sud è stata quasi del 40%, proprio lì dove c’è maggiore sofferenza e dove l’intervento è più urgente: perché la scuola dell’obbligo deve combattere le disuguaglianze e dare a tutti pari opportunità».
Il tempo stringe, perché non assumere i precari per decreto?
«Lo stralcio del ddl è escluso: il precariato dei docenti è un debito pubblico umanizzato lasciato dai precedenti governi che va risolto una volta per tutte, ma non si può scorporare dal resto della riforma e il tema è così centrale per l’Italia che deve coinvolgere il Parlamento, cui chiediamo responsabilità».
Cosa dice ai prof?
«È comprensibile il timore del cambiamento, ma bisogna vincere la paura. A loro dico: abbiate fiducia nei vostri mezzi, siete voi i protagonisti di questa trasformazione, non la subite, non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza».
Anche lei andrà alla lavagna come Matteo Renzi?
«Il tema scuola appassiona entrambi, è una battaglia che condividiamo fin dall’inizio, ma poi ognuno usa i suoi strumenti. Io sto alla lavagna per mestiere, è meno scenografico che lo faccia io».
Repubblica 16.5.15
Agnese Renzi ci prova, ma il suo liceo è un fortino del no
di Massimo Vanni


FIRENZE . Non parlate di “Buona scuola” ai colleghi di Agnese, la first lady. Trovare un prof che plauda alla riforma voluta da suo marito Matteo Renzi, al liceo scientifico Ernesto Balducci di Pontassieve, poco lontano dalla casa del premier, è quasi una “mission impossible”. Non che ci fossero molte speranze, in un istituto dove gli Unicobas sono il primo sindacato e dove si è scioperato con oltre l’80% delle adesioni. Agnese però, che sfila puntuale sotto la barra d’ingresso sulla sua Volkswagen Sharan, non si è data per vinta: nell’assemblea sindacale è pure intervenuta per sostenere le ragioni della riforma. Ma perfino il blocco degli scrutini, nonostante le minacce di precettazioni, non è ancora un capitolo chiuso. «All’inizio non mi sembrava così male, il piano assunzioni e il rapporto col mondo del lavoro mi parevano cose interessanti. Pure sui presidi manager non sono così negativa, anche se in Italia non c’è la cultura», dice Elisabetta Vatteroni, docente d’inglese. «Sono però sobbalzata sui finanziamenti alla scuola privata, perché quella pubblica deve venire prima di tutto», aggiunge la prof iscritta al Gilda. «Ci sono cose positive, ma sulla valutazione degli insegnanti non ci siamo: non si può pensare di farla col minimo dei costi, affidandola al preside, si formino piuttosto dei valutatori. Si dice sempre che gli insegnanti non vogliono cambiare ma è il governo ad avere un atteggiamento chiuso, a rifiutare il dialogo », sostiene Gabriella Torano, che insegna italiano e latino.
«Il nome? Meglio di no», dice un prof di educazione fisica, ex Cgil. «Ma il preside che decide tutto proprio non va: come si fa a giudicare un docente? Non siamo al tornio, dove puoi misurare i pezzi e vedere se sono fatti bene. C’è il rischio che si vada per simpatie, che si crei competizione dove dovrebbe esserci solo collaborazione», aggiunge. Fabrizia De Lorenzi che insegna scienze umane, è «assolutamente contraria». Motivo? «Sono contraria alla scuolaazienda e poi capisco l’esigenza della valutazione ma attribuirla ai presidi è assurdo: non hanno una specifica formazione». Docente d’italiano e dirigente Unicobas, Federico Gattolin è ancora oltre. Perché il punto, spiega, non è come si valuta: «La valutazione come accesso ad un migliore o peggiore stipendio è inaccettabile. È solo il potere del merito e io rifiuto la logica meritocratica». E poi: «Questa riforma è l’attacco più organico alla scuola che abbia mai visto e la reazione si spiega con la difesa della propria dignità ».
Precaria come Agnese, Catia Caroti vede una luce: «Almeno c’è l’assunzione dei 100mila precari, anche se non si è capito bene come saremo reclutati», dice la prof che insegna inglese. Federico Petrucci, impegnato nel tirocinio formativo attivo necessario per accedere al concorsone, non è invece convinto: «Peccato, speravo proprio che si aprisse qualche possibilità in più». Franco Banchi, storia e filosofia, ne è certo: «Così com’è la riforma non funziona, la scuola non è un ministero. E Renzi può pagarla cara alle regionali».
Repubblica 16.5.15
Gianni Cuperlo
“La legge sulla scuola è una innovazione a metà, non puoi farla contro docenti e studenti”
“Riforma senza coraggio se il premier stavolta dialoga allora la cambi con noi”
di Annalisa Cuzzocrea


Un piano per tutti i precari e vanno riviste le chiamate nominative e il 5 per mille
Fassina se ne andrà?
Spero ci ripensi. Di certo nel Pd serve una sinistra, soprattutto a Renzi

ROMA Ha passato il pomeriggio a parlare con gli insegnanti che protestavano a piazza del Pantheon, Gianni Cuperlo. «Era giusto esserci», dice prima di tornare alla Camera a votare. Perché la riforma della scuola - secondo il leader di Sinistradem deve cambiare. E perché la sinistra del Pd «serve a Renzi prima di tutto».
Quali sono le modifiche necessarie per approvare questa riforma?
«Stabilizzare 106mila docenti e investire oltre 3 miliardi sull’edilizia è un fatto importante, ma è ovvio che si deve affrontare il tema degli abilitati di seconda fascia. Non puoi dire a persone che insegnano da anni e con professionalità “scusateci ma dovete tornare alla casella di partenza”. C’è un’assenza di coraggio che emerge prima di tutto nel metodo ».
Quale?
«I padri costituenti avevano ipotizzato la scuola come un organo costituzionale al pari di Parlamento e magistratura. Anche per questo ogni riforma deve coinvolgere i soggetti che dovranno tradurla. Come puoi pensare di cambiare la scuola “contro” l’opinione della maggioranza di insegnanti e studenti?».
Non crede alla volontà di dialogo del governo?
«La dimostri. Le piazze non si sono riempite di tradizionalisti o gente disinformata. Il timore, fondato, è che si smarrisca il carattere universalistico dell’istruzione ».
Si può migliorare?
«Sì, ora alla Camera e poi al Senato, ma serve la volontà. Sui precari, con un piano pluriennale di assunzioni compatibile con la finanza pubblica e il percorso parallelo dei nuovi concorsi. Sul 5 per 1000 invertendo le percentuali: l’80 per cento al fondo di perequazione e il 20 alla contribuzione diretta. Almeno se vogliamo evitare che il dumping tra le scuole ricche e le altre aumenti ancora. Sulle superiori parificate l’invito è a rileggere la Costituzione. Infine va rivista la chiamata nominativa da parte del preside, perché qui entra in gioco un altro principio costituzionale: la libertà e autonomia dell’insegnante che dovrà essere valutato da chi ha titoli e competenze per farlo».
Cosa farete se la riforma non cambia?
«L’autogestione».
Sia serio, la voterete o no?
«Noi il testo vogliamo migliorarlo davvero. Alla fine giudicheremo il risultato». Su Jobs act e Italicum siete stati sconfitti. Non teme una marginalizzazione della sinistra nel partito?
«Quel che temo non è una minoranza irrilevante, ma un partito della Nazione che per vincere sacrifica una parte di sé». Lei fa parte della sinistra masochista di cui parla Renzi?
«Ho visto che nel concetto ha assemblato Miliband a Londra e Pastorino a Bogliasco. A Renzi lo ripeto con garbo: se pezzi del Pd guardano altrove è un problema anche tuo. Forse la sinistra masochista è quella che per espandere il consenso non ha scrupoli a stringere accordi con degli impresentabili o con pezzi della destra. Potrai anche vincere nelle urne, ma a quale prezzo?».
Civati è andato via, Fassina lo farà. Che ne pensa?
«Vorrei davvero che Stefano ci ripensasse. L’uscita di Pippo per me è una sconfitta del Pd che avevamo immaginato e oggi non c’è. Vedo anch’io che allo sportello del renzismo c’è gente in coda e parecchi ricevono premi e coccarde. A me preoccupa di più il flusso di chi prende l’uscita senza luminarie e clamori».
Lei resta?
« Per anni ho pensato che stare in questo partito fosse un destino. Ora sento che quell’appartenenza va costruita giorno dopo giorno. È un onere ma anche una sfida. Non ritengo Renzi un usurpatore. Al contrario, gli chiedo di fare lo statista e non il capo. Mi guardo attorno e vedo troppe rotture, troppi muri alzati, non verso le minoranze interne ma verso pezzi di società e di popolo. È questa la ragione profonda di una sinistra nel Pd. È qualcosa che serve prima di tutto al premier. Appena passo da Palazzo Chigi lo scrivo sulla lavagna».
Corriere 16.5.15
Piazza e palco, le tre anime pd al Pantheon
di Monica Guerzoni


In piazza del Pantheon il Pd approda diviso in tre. I renziani vecchi e nuovi, che sfidano gli sparuti manifestanti per spiegare la «Buona scuola» e fanno il pieno di incitazioni poco affettuose: «Malpezzi vattene!». I bersaniani dialoganti, che si tengono a distanza di sicurezza dal palco delle sigle sindacali per schivare gli improperi degli insegnanti. E infine gli antirenziani senza se e senza ma, che spavaldamente impugnano il microfono e incassano, in egual dose, applausi e fischi. Ne sa qualcosa Fassina, salito sul palco per gridare il suo «no» alla riforma e costretto, prima e dopo, a duellare con i precari. «Siamo pronti a non votarla», giura l’ex viceministro. Ma ai manifestanti non basta. «Vallo a dire ai tuoi colleghi che in Aula votano tutto», lo affronta una prof. Per i più arrabbiati Fassina è «la foglia di fico», «ci vuole spaccare», «ci prende in giro»... E giù «buuu!», misti a incoraggiamenti e pacche sulle spalle. Un bel paradosso, per l’esponente della sinistra dem che ha legato alla scuola il suo addio al Pd: «Se non cambia, me ne vado». Ma i più imbarazzati sono i riformisti dialoganti, rimasti sotto al palco. «Perché noi non parliamo? — chiede Enza Bruno Bossio a Epifani — Tu sei troppo esposto, ma io non ho paura». Alla fine si decide che no. Meglio lasciare la piazza alla spicciolata, a comizio iniziato. Come spiega un deputato il palco è roba «da bianco o nero», non da grigio: «Noi la battaglia degli emendamenti la facciamo, ma poi la legge ci toccherà votarla...».
La Stampa 16.5.15
1967, così la sinistra si divise su Israele
di Maurizio Molinari


Lo strappo dell’Unità, le accuse di Rinascita e il cambiamento di posizione dell’Espresso ma anche le risposte dell’Avanti! e i dubbi di Mondo Operaio: Valentino Baldacci descrive Comunisti e socialisti davanti alla guerra dei Sei Giorni (Edizioni Aska) in uno studio di 638 pagine che ricostruisce la svolta della sinistra italiana che davanti al conflitto del 1967 si lacerò su Israele a causa dell’influenza dell’Urss sul Pci.
Il valore del libro sta nella mole di documenti raccolti, non solo sui giornali ma sui leader politici, da Giancarlo Pajetta a Enrico Berlinguer, che consentono di rivivere un terremoto di posizioni che cambiò l’identità della sinistra italiana.
Protagonista e erede della resistenza antifascista che si era battuta contro le persecuzioni degli ebrei e per la nascita di Israele, il Pci voltò le spalle allo Stato ebraico facendo proprie le posizioni dell’Urss che nel 1967 sposò il rifiuto totale dei Paesi arabi nei confronti di Israele. Lo strappo avvenne facendo debuttare in Italia, in maniera quasi istantanea, le tesi sovietiche su «razzismo», «espansionismo» e «imperialismo» del sionismo per delegittimare le fondamenta dell’esistenza di Israele, occidentale e dunque nemico. Il leader socialista Pietro Nenni e l’Avanti!, con gli articoli di Aldo Garosci, si opposero alla svolta filo-Urss in Medio Oriente del Pci, mostrando però incertezze e venature - a cominciare dalle pagine di Mondo Operaio - che vent’anni più tardi avrebbero portato Bettino Craxi a convergere con il Partito Comunista.
La Stampa 16.5.15
Internet, auto verdi e addio al suk
A Rawabi nasce la nuova Palestina
Nella città tecnologica finanziata dal Qatar: “Questa è la collina della speranza”
di Maurizio Molinari


Spina dorsale Rawabi è situata lungo la direttrice dove dovrebbero sorgere altre città hi-tech del futuro Stato palestinese A destra, i palazzi in costruzione

Bandiere del Qatar, cucine italiane, wi-fi in strada, trasporti pubblici «green» e appartamenti per 40 mila abitanti: benvenuti a Rawabi, la prima città palestinese costruita letteralmente dal nulla, dove le famiglie dei «pionieri» iniziano ad arrivare.
Anwar Hussein, 48 anni, docente all’Università di Bir Zeit, ha versato 140 mila dollari per un appartamento di quattro stanze con vista sulle valli della Cisgiordania perché «dopo essere vissuto in Arizona e Canada ho scelto come casa in Palestina un luogo che mi garantisce un’alta qualità di vita». La moglie Samah annuisce, mostrandoci la casa «dove entreremo a fine mese» a seguito della decisione del governo israeliano di allacciare Rewabi alla rete idrica Mekorot, facendo arrivare acqua corrente in ogni appartamento.
Sono 623 gli immobili già venuti che stanno per ricevere altrettante famiglie del ceto medio-alto palestinese. Altri sono destinati a creare «un nuovo mercato immobiliare» come spiega Isa Rishmaui, imprenditore di Betlemme, cristiano, 41 anni, che ha deciso di investire qui i ricavati della sua azienda turistica «perché Rawabi è l’unica città palestinese che appartiene al XXI secolo».
Ceto borghese e cristiani
Per comprendere cosa intende bisogna fare 30 minuti di auto dal centro di Ramallah, raggiungendo le colline - in arabo «rawabi» - dove nel 2007 la società finanziaria Diar Real Estate Investment Company del Qatar ha deciso di investire un miliardo di dollari per realizzare dal nulla una città hi-tech, progettata per assomigliare al sobborgo di una metropoli nordamericana attirando i palestinesi che arrivano dall’estero, i professionisti e le famiglie giovani pronte a investire. «Ci siamo trovati davanti numerosi e ostacoli ma i risultati sono davanti ai vostri occhi» dice Bashar Masri, ceo della società Massar, responsabile dei lavori, parlando dalla futura piazza di un centro commerciale con oltre duecento negozi e mille posti macchina.
È posizionato nel cuore dell’abitato, che si articola in strade circolari con palazzi eleganti e case arredate con design moderno, solo in parte già terminate. Un milione di mq è già costruito, ne restano altri cinque da completare. A essere finito è l’anfiteatro per gli show notturni, al cui fianco sorgeranno sei ristoranti, cinque banche, scuole, un campo da calcio e parchi per il tempo libero. Il tutto immerso in un manto di duemila alberi, percorso da strade dove - residenti a parte - potranno circolare solo trasporti locali con carburanti «green».
Rawabi sfida ogni cognizione esistente di città palestinese: non c’è il bazar come a Hebron, il mercato della frutta come a Gerico o un centro governativo come a Ramallah. E non c’è il legame, atavico, il territorio di un villaggio e la «hamula» (grande famiglia) che vi risiede da secoli. C’è invece uno «show room» dove si vendono appartamenti e negozi con simulazioni tridimensionali. Esplorando Rawabi ci si affaccia in Medio Oriente inconsueto. «Abbiamo acquistato la terra da duemila famiglie palestinesi, impieghiamo 10 mila operai arabi, e ogni anno acquistiamo 100 milioni di materiale edile da aziende israeliane» spiega Amir Dajani, manager della Bayt Real Estate Investment Company, descrivendo un progetto che «prende corpo con le risorse che ci sono» senza tabù politici.
La cautela dell’Anp
D’altra parte l’unico finanziatore è una società privata del Qatar, ovvero l’Emirato accusato di sostenere Hamas a Gaza. Proprio questa matrice spiega la cautela del presidente palestinese Abu Mazen, che qui non è ancora venuto pur esprimendo sostegno. «Ciò che non comprendiamo è perché il governo palestinese non abbia mantenuto l’impegno a versare 140 milioni di dollari le scuole pubbliche - sottolinea Bashar Masri - ma abbiamo trovato una soluzione, le faremo private». Anche i rapporti con Israele sono altalenanti: il via libera del governo Netanyahu all’allaccio della rete idrica è arrivato alla vigilia del viaggio a Washington - per il discorso al Congresso Usa - mentre tardano i permessi per la rete stradale. «Quando avremo raggiunto 2000 famiglie serviranno strade più grandi attraverso territori amministrati da Israele» preannucia Masri, sottolineando però che «non vogliamo diventare motivo di contrasto nel negoziato» perché «la priorità è creare la prima città palestinese per il ceto medio-alto».
Fra i consigli che Masri ha più apprezzato vi sono quelli del sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai, che è venuto a Rawabi e ha suggerito di «concentrarsi sulle strutture-chiave». È la genesi di una città dove gli acquirenti sono in gran parte coppie giovani, con l’84 % delle donne che lavorano e il 10% di cristiani. Ecco perché la venditrice Shadia Jarafar, 27 anni, di Hebron, camicia viola e pantaloni attillati, assicura che «investire qui significa scommettere sul futuro». Bashar Masri va oltre: «Se avremo successo, sorgeranno altre Rawabi in Palestina, diventando la spina dorsale dello Stato indipendente».