sabato 22 luglio 2006

l’Unità 22.7.06
Milziade Caprili Vicepresidente del Senato, di Rifondazione:
la fiducia è un atto estremo, ma serve per ricompattare
La discontinuità c’è, i dissidenti non se ne vogliono accorgere
di Simone Collini


Roma. «La fiducia, nel rapporto tra governo e Parlamento, è un atto estremo», dice il vicepresidente di Palazzo Madama Milziade Caprili. «Ma, senza fare gli ingenui, aiuta a compattare una maggioranza. E quello che abbiamo di fronte è un caso di scuola». Senatore di Rifondazione comunista, nel ‘90 era tra i deputati del Pci che non seguirono l’indicazione di astensione decisa dal gruppo, e con Pietro Ingrao votò no all’invio di un contingente militare italiano nel Golfo persico. «So cosa vuol dire un voto in dissenso e so cosa vuol dire prendere una decisione quando in campo ci sono valori riguardanti la pace e la guerra. Ma quello di oggi è un caso diverso. E inviterei tutti i parlamentari a riflettere nel merito della vicenda».
Senatore Caprili, come giudica il fatto che sull’Afghanistan si vada verso il voto di fiducia?
«Come vicepresidente del Senato non posso che considerare la fiducia un atto estremo, non la normale fisiologia del rapporto tra governo e Parlamento. Vi si può ricorrere qualche volta soltanto, altrimenti saremmo di fronte a un mutamento della Costituzione non dichiarato da nessuno ma di fatto attuato. Siccome però nessuno è ingenuo, è chiaro che sull’Afghanistan serve uno strumento, quale è la fiducia, che aiuti a ricompattare la maggioranza».
In questo modo si darebbe però la conferma di una debolezza della maggioranza al Senato, non crede?
«Al di là della fiducia, un problema di funzionamento al Senato si pone, è evidente. Ma non è di poco conto il fatto che questa struttura, così fragile, l’altro giorno abbia superato una prova molto complicata, dal punto di vista politico e del rapporto tra etica e società, approvando una mozione sulle cellule staminali».
Ora ci sono otto o nove senatori dissidenti che mettono a repentaglio la tenuta di questa struttura “così fragile”: sull’Afghanistan serve discontinuità, sostengono.
«Mi meraviglia il fatto che non si vada al merito della vicenda. Inviterei i dissidenti a farlo. Quando si parla di discontinuità, prima di tutto bisogna sottolineare che questo provvedimento prevede il ritiro dall’Iraq. Anche per quanto riguarda la missione in Afghanistan non si può non notare che siamo di fronte a un ridimensionamento, che non si è aderito agli inviti rivolti a potenziarla e soprattutto che c’è una mozione di indirizzo con la quale le forze che fanno parte dell’Unione si pongono il problema di un ripensamento delle missioni e anche una discussione della politica estera dell’Italia. Come si fa a dire che non c’è discontinuità di fronte a quanto detto dal ministro D’Alema alla Camera o da Ingrao in una recente intervista?».
Quattro dei senatori dissidenti sono di Rifondazione comunista. Userà il suo ruolo istituzionale per tentare di convincerli a votare sì? O crede che il partito possa ricorrere ad altri mezzi di persuasione...
«Il ruolo istituzionale, in questo caso, non credo che abbia un grande fascino nei loro confronti. Si può continuare la discussione, questo sì. Non per convincerli semplicemente a votare a favore, ma per farli riflettere sul fatto che una discontinuità nei fatti c’è. Per quanto riguarda altri mezzi... vengo da una storia per cui qualche volta si sono presi provvedimenti che oggi non starebbero né in cielo né in terra».
C’è chi sostiene che se Prodi non mettesse la fiducia sarebbe perché è in vista un patto con i centristi della Cdl.
«Il primo obiettivo di tutta questa operazione cosiddetta neocentrista è Prodi. E mi sembra che Prodi abbia risposto chiaramente a chi di dovere dicendo che se questo governo dovesse fallire si andrebbe alle elezioni. Allora, c’è un tentativo neocentrista? Figuriamoci. Ma non mettiamo in campo dietrologie che non esistono».
Seconda ipotesi: il governo pone la fiducia. Sicuri che non cada?
«Tra far cadere il governo e lasciarlo in vita, credo che l’argomento Afghanistan vada in secondo piano».

dopo l'intervista al Corsera di Fauso Bertinotti:
l’Unità 22.7.06

Senza sinistra niente «borghesi buoni»
di Bruno Gravagnuolo


Esiste ancora la borghesia? E in particolare esiste una «borghesia buona»? La recente intervista di Fausto Bertinotti al Corsera, piena di elogi verso quella parte dell’estabilishment economico e finanziario incline a un’«efficienza calvinista» fondata sull’«innovazione» e non «scaricata» sul lavoro, ha rilanciato entrambe le questioni. Problemi non nuovi, certo. Perché «classici» a loro modo, tanto sul piano sociologico quanto su quello storico- politico. E nondimeno il tema ridiventa urgente in Italia, nella stretta di uno scontro dove in ballo vi sono il ruolo dei ceti sociali. Quello dei costi e benefici che competono a ciascuno di essi, dentro risanamento e modernizzazione. E quello della scelta delle strategie e degli interessi da privilegiare. Partiamo allora da lontano, con breve digressione storiografica e al fine di isolare le definizioni indispensabili per affrontare la questione, prima di planare sull’oggi.
Borghese come è noto significa in origine «borghigiano», cittadino abitante del borgo, in contrasto con quello del «feudo». Indica acquisizione di «status» strappata ai rapporti feudali, che inchiodavano gli individui alla loro destinazione, servile o «vassalla», dentro le gerarchie medievali. Il borghese, tessitore, artigiano, notaio o speziale, era quindi l’individuo emancipato che non dipendeva più da una sorte ereditata, anche quando come borghese continuava a possedere terra fuori del borgo. In seguito però, e il termine si impone oltre il recinto marxista, borghese diventa per antonomasia il possessore dei mezzi di produzione. Che a differenza dei borghesi di prima, fa commercio dei «valori d’uso» e non si limita a barattarli o a riprodurli, come racconta John Locke all’inizio del secondo Trattato sul governo civile, ma li immette nel circuito del valore di scambio, sotto forma di beni e servizi, incluso il valore dei valori, cioè il denaro. Perciò secondo il vecchio Marx, non contestato su questo dal «borghese» Max Weber, da una parte ci sono i borghesi, dententori del capitale. Dall’altra i proletari, detentori della loro forza lavoro. Lo schema come è noto s’è allargato a dismisura, tra dibattiti e grandi trasformazioni economiche dalla prima rivoluzione industriale in poi. E tuttavia l’impronta di quel termine - «borghese» - è rimasta. Talché borghese, che all’inizio era il cittadino proprietario e l’unico in possesso del diritto di voto nelle Costituzioni liberali, resta classicamante l’imprenditore, anche commerciale. Il finanziare, il manager, il libero professionista, il grand commis, il grande funzionario di stato e di banca. Tutte le figure d’eccellenza selezionate per talento dalla pancia del famoso «terzo stato» che si contrapponeva al clero e all’aristocrazia ereditaria nei Parlamenti dell’Antico regime.
La novità «post-marxista» del 900 e oltre, sta in questo però: nella «moltiplicazione dei borghesi». Sia sul piano economico e della divisione del lavoro, sia su quello culturale. Infatti via via il Capitale si frammenta nel suo concentrarsi, moltiplicando le funzioni dell’econonia moderna. Appaltando e delocalizzando rami, aumentando i servizi a latere, anche quelli dello stato a sostegno. Ne deriva - secondo l’analisi che fu già del revisionista marxista Bernstein - una mancata polarizzazione tra le classi e anzi una esplosione di ruoli: dalla produzione ai servizi. Che genera un corposo «ceto medio» (anche imprenditoriale). Ma a questo vanno aggiunte due cose. L’azione storica del movimento operaio, che distribuisce la ricchezza. E innova col Welfare il reticolo delle istituzioni e degli addetti. E la dilatazione del capitale finanziario, che risucchia il lavoro produttivo, divenendo polmone e sostanza dinamica dell’economia, tramite il credito e le società finanziarie titolari di imprese. Se aggiungiamo poi l’automazione, la tecnoscienza e l’«economia immateriale» sotto forma di «net-economy», «immaginario» e flussi di informazione, allora il quadro è completo. E ancor più vale quanto già detto: la moltiplicazione dei borghesi. Sia come imprenditori, spesso «micro», sia come «individui imprenditivi», che magari illusioriamente si vivono come soggetti economici autonomi, e non dipendenti.
E il proletariato? Esiste eccome. Non più certo nei modi del bruto prestatore d’opera di un tempo, o almeno non solo. Benché poi cresca su scala planetaria il numero di coloro che dispongono solo delle loro braccia e che migrano sradicati dai loro mondi d’origine. Ma esistono, i proletari moderni, sotto forma di lavoro dipendente in Occidente. E di nuovi dannati della terra in cerca di inserimento. Nell’insieme, pur tra molti dislivelli un dato è certo: il lavoro dipendente è maggioranza straripante. Anche se sono cresciuti «i nuovi borghesi». Anche se la fatica operaia è diminuita. E anche se molti dipendenti si sentono «borghesi» (per via di bot e casa di proprietà). Del resto le statistiche sono perentorie. Giacché i dislivelli tra «high-class» e «low class» (ma non erano scomparse?) sono amentati paurosamente negli Usa, dopo la «rivoluzione reaganiana». Con conseguente impoverimento della mitica «middle class». E inoltre la differenza retributiva tra «manager» e «workers», che una volta era in termini di uno a decine di volte, è ora in termini di uno a migliaia di volte! Quanto all’Italia, nel 2004 il 10% delle famiglie più ricche possedeva il 43% dell’intera riccheza netta, mentre l’1% era posseduto dal 10% delle famiglie più povere. Laddove la metà di quel 10% di famiglie ricche possiede oggi a sua volta il 36% della ricchezza familiare netta. In una realtà dove la quota di reddito riservata al lavoro dipendente, in rapporto al valore aggiunto, è scesa di ben dieci punti (tra la metà dei 70 e i primi del 2000). E dove la quota dei profitti privati s’è alzata invece di sei sette punti già a metà anni 90, restando stabile fino ad oggi (dati Ocse e Fmi segnalati da Luciano Gallino su Repubblica del 19 luglio).
Perciò è una sciocchezza apologetica l’idea di un equilibrio di fortune progressivo a cui ci avrebbero condotto prima o poi le economie di mercato, magari liberate di «lacci e lacciuoli». Così come è un’autentica sciocchezza la leggenda di un’Italia tutta «medioceto» e lavoro autononomo, quando di contro gli autonomi non assomano che a sei milioni di individui - con molte miserabili partite Iva!- a fronte di ben 19 milioni di lavoratori dipendenti, e senza considerare svariati milioni di pensionati monoredito. E qui veniamo allo Stivale. La vera peculiarità italiana in tutto il quadro delineato? È la seguente: la borghesia classica è minoritaria e sottodimensionata. Al vertice c’è certo la grande borghesia imprenditoriale, erede di un capitalismo familiare in difficoltà. Ma alla base è dilagante la borghesia piccolo-imprenditoriale, sotto la quale si concentra la maggior parte dei salariati d’impresa dipendenti. È giusta allora l’idea bertinottiana di intercettare la borghesia virtuosa che allarga la produzione mercè innovazione e investimenti, concertando e non gravando sui salari. Essa corrisponde inoltre alle politiche del socialismo riformista di Turati, che cercava con Giolitti la sponda del grande capitale nel primo 900: capitale e lavoro alleati nel «patto dei produttori». E tale politica fu anche quella di Berlinguer con l’«austerità»: concordare il rilancio sulla base di priorità macreconomiche comuni. Una sorta di keynesismo all’italiana per un più equo modello di sviluppo, contro la rendita parassitaria. E tuttavia c’è un problema, ben intravisto nel dopoguerra da Togliatti, quando parlava di «ceto medio e Emilia Rossa». C’è la presenza in Italia dell’esercito della piccola impresa e degli «autonomi», minoritari ma forti e coesi. Un’ossatura egemonica. Sulla quale non a caso la destra antipolitica e populista ha costruito il suo blocco sociale i suoi miti. Da Bossi a Berlusconi, passando per Tremonti. Blocco di continuo aizzato dall’appello mediatico e «aziendalista» berlusconiano. Ebbene, il punto è trovare «buoni borghesi» anche in questo esercito, in questo «blocco». Isolando i più riottosi da coloro disposti invece ad accettare un quadro di regole virtuose: fisco premiale per le imprese, in cambio di investimenti e progetti. Flessibilità volta a stabilizzare il lavoro. Servizi finanziari e assistenza sul territorio, senza intralci burocratici. Diritti sindacali a carico delle imprese, in cambio di orari più elastici. E così via.
Ma c’è un’altra condizione, senza la quale i buoni borghesi - piccoli o grandi - non si trovano e non spuntano. Ed è la capacità per l’Unione al governo di mettere bene in campo il «suo» blocco sociale. Per premere sul resto del paese - dai taxisti a Montezemolo! - e far sentire la sua voce, i suoi valori, le sue finalità. Blocco che abbia al centro il lavoro, che oltre ad essere priorità costituzionale e dovere per chi ce l’ha già, è anche la realtà dominante del paese. Sia sul piano sociologico (i soli salariati dell’industria sono 5 milioni!). Sia su quello delle aspirazioni diffuse di chi il lavoro non ce l’ha ancora, anche per colpa dei «borghesi cattivi» e parassitari, nonché dei mali endemici di un’Italia alle prese con le sfide del mercato globale. In conclusione, solo se il lavoro sarà obiettivo e «spina dorsale» del blocco sociale del centrosinistra, sarà possibile sgretolare il blocco avversario. Ricucire cittadinanza (Bürgherlickheit) libertà e diritti sociali. Contro la falsa cittadinanza populista di destra. E intercettare alfine l’impresa, plasmandone in senso equitativo la forza. Ma tutto questo ha un nome: sinistra nell’Unione. Né massimalista né di centro, possibilmente. Perché senza sinistra non c’è Unione. E nemmeno «borghesi buoni».

il manifesto 22.7.06
Indulto, lunedì alla camera nonostante Di Pietro
L'Italia dei valori insiste e annuncia 300 emendamenti. Antigone: «Un ostruzionismo incomprensibile»
di Alessandro Braga


Roma. Lunedì il provvedimento sull'indulto arriva alla camera, ma non senza difficoltà. L'Italia dei valori non molla e fa capire che durante la discussione in aula farà di tutto per impedire l'approvazione del testo licenziato dalla commissione giustizia.
Il capogruppo dipietrista alla camera, Massimo Donadi, annuncia l'ostruzionismo e la presentazione di ben trecento emendamenti al progetto di legge. «Ci stiamo attrezzando per la nostra battaglia in parlamento, che non è ideologica ma politica», fa sapere Donadi. Già in mattinata, durante il consiglio dei ministri, Antonio Di Pietro aveva ribadito la sua netta contrarietà all'indulto spiegando che, nel caso in cui il provvedimento venisse approvato dal parlamento, il suo partito sarebbe stato pronto addirittura all'appoggio esterno al governo. Una posizione su cui ha parzialmente fatto retromarcia nel pomeriggio, annunciando di aver soltanto fatto presente a Prodi «l'assurdità e l'abnormità della decisione che la coalizione si accinge a prendere».
Tuttavia i malumori «giustizialisti» dell'Idv non si placano. Ieri il ministro delle infrastrutture, insieme ai capigruppo alla camera e al senato e al portavoce Leoluca Orlando, ha inviato una lettera a tutti i capigruppo dell'Unione per chiedere un vertice di maggioranza prima della discussione del provvedimento in aula. «Altrimenti - chiosa Donadi - se lo votino pure con Forza Italia, che tanto garantisce i numeri sufficienti per approvare il testo». La prima conseguenza di questo irrigidimento è che anche Lega e Alleanza nazionale scelgono il terreno dell'intransigenza. Anche il partito di Bossi annuncia ostruzionismo in aula, mentre i nazional-alleati, per bocca di Maurizio Gasparri, fanno sapere che proseguiranno sulla strada del no all'indulto. «E' un gravissimo errore del centrosinistra, che dimostra ancora una volta di essere più attento ai responsabili dei delitti che ai cittadini onesti», afferma Gasparri. Alla faccia dei dodicimila detenuti (su 61mila, record storico) che uscirebbero dal carcere se il provvedimento venisse approvato. Ma non tutti nel partito di Gianfranco Fini la pensano come l'ex ministro delle comunicazioni. Gianni Alemanno infatti annuncia il suo sì all'indulto, ritenendo «insostenibile attualmente la vita carceraria».
Nel centrosinistra le rivendicazioni di Di Pietro trovano soltanto una parziale accettazione dal capogruppo alla camera dei Comunisti italiani Pino Sgobio, che chiede che le «critiche dell'Italia dei valori vengano ascoltate e valutate dall'intera maggioranza». Anche se è chiaro che «il provvedimento, tanto atteso e reclamato dalla popolazione carceraria, deve essere approvato». Per Gennaro Migliore del Prc la discussione di lunedì in aula non sarà che il primo passo, poi si dovrà procedere con l'amnistia e con la riforma del codice penale, senza dimenticare «le leggi riempicarceri come la Fini-Giovanardi e la ex Cirielli».
E alla vigilia dell'atteso dibattito alla camera sui problemi della giustizia ieri i detenuti del nuovo complesso penitenziario di Rebibbia sono scesi in sciopero per ottenere un provvedimento di indulto generalizzato. Proprio nel giorno in cui il Forum nazionale per il diritto alla salute dei detenuti e delle detenute chiede il passaggio della gestione della salute in carcere dal ministero della giustizia al sistema sanitario nazionale.
«Non è più tempo di fare melina - dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - l'ostruzionismo dell'Idv è incomprensibile. Il parlamento deve assumersi la responsabilità di non lasciare nell'inferno estivo delle carceri i 61mila detenuti italiani».

venerdì 21 luglio 2006

l’Unità 21.7.06
Il filologo che diede un «senso» all’Italia
Un anno fa moriva lo studioso Giovanni Semerano. Scosse il mondo culturale sostenendo l’origine accadica e non indoeuropea delle lingue occidentali

di Marco Innocente Furina


Un anno fa si spegneva a Firenze all’età di 92 anni Giovanni Semerano. Questo professore di latino e greco, tranquillo, mite, quasi schivo, con la passione dell’etimologia, ha sostenuto per tutta la sua vita di studioso una tesi rivoluzionaria, dirompente: le nostre lingue, le lingue parlate nell’occidente (l’italiano, l’inglese, il tedesco ecc.) non derivano dal ceppo comune dell’indoeuropeo, ma dall’accadico, lingua semitica usata per millenni in tutto l’oriente antico. L’indoeuropeo, la lingua dei cavalieri della steppa, che dal Caucaso si sarebbero diffusi imponendo il proprio idioma in Europa e in India appariva a Semerano poco più di un’astrazione. La teoria, nata alla fine del Settecento sulla base delle similitudini strutturali tra il sanscritto (l’antica lingua indù) e le lingue europee, aveva poi trionfato nell’Europa germanocentrica del XIX secolo. Gli europei (e gli indiani) da un lato e i semiti dall’altro. Uno schema noto, addirittura tragico nella storia del Novecento, che tuttavia non convinse mai questo tenace professore originario di Ostuni, in Puglia. Ma perché - si chiedeva Semerano - se le lingue europee hanno tutte questo illustre antenato comune l’etimologia di molte parole, specie dell’inglese e del tedesco, resta oscura?
Per inseguire la sua intuizione e dedicarsi a tempo pieno allo studio delle origini delle parole si trasferisce come direttore alla Biblioteca Laurenziana di Firenze e poi alla Biblioteca Nazionale.
Qui in trent’anni di lavoro e di studio produce il suo capolavoro, il monumentale Le origini della cultura europea, in quattro volumi editi da Leo Olschki.
I risultati delle sue ricerche sono straordinari. Con un lavoro paziente e meticoloso riesce a svelare l’antichissimo passato «mediterraneo» di termini, usanze e istituzioni che si credevano genuinamente occidentali. A cominciare dal corpo umano. «Mano» - spiega - deriva dall’accadico manu che significa calcolare, computare. Semerano indaga anche la toponomastica, da sempre tenacemente conservatrice, che rivela delle sorprese inimmaginabili. Così Cortona, quella Cortona che il mito voleva conquistata agli Umbri dai misteriosi Pelasgi, nasconde un’antica radice accadica dal significato di «terra» simile all’estrusco kurtun. Nello spostare il baricentro della civiltà verso oriente Semerano travolge anche gli idoli. Ne fa le spese nientedimeno che la prima parola della filosofia greca, l’apeiron di Anassimandro che non vuol dire «infinito» come tradurranno Platone e Aristotele ma «polvere», «terra» derivando dall’accadico eperu, terra, appunto. E se tutti gli uomini - come spiegava Anassimandro - vengono dall’«infinito» e tornano all’«infinito», questo non ricorda il motivo semitico (e biblico) del «polvere sei e polvere ritornerai»? La filosofia greca, nata sulle coste dell’Asia minore, finalmente paga il suo debito…
Che all’origine della cultura ellenica ci siano le grandi esperienze del vicino oriente non lo scopre certo Semerano, ma fa sempre impressione scoprire un altro passato dietro quei miti cosmogonici che credevamo fossero i primi vagiti di spiegazione del mondo. E così gli esseri primitivi figli della terra, i Titani, si spiegano con l’aramaico tit, «terra argillosa» e gea, la terra dei greci, in sumero già si pronunciava ga. Ancora: Cadmo «il fenicio», mitico fondatore di Tebe, in accadico è qadmu, «capostipite, predecessore, l’antico». Chiaro, no?
Insomma, alle spalle della mitologia dell’occidente, quella greca, si nasconde un passato remoto che viene dalla Mesopotamia. Del resto lo stesso Zeus, dio del cielo e della pioggia, cela antecedenti orientali: ziu o zinnu in accadico significano «pioggia», «piovere». Le sue teorie iniziano a fare scalpore e a lui si interessa addirittura Spadolini che gli affida la ricerca dell’etimologia della parola «Italia» che fino ad allora si pensava derivasse da vitulus «vitello», donde terra dei vitelli. Ma il professore aveva un’altra idea. Dimostrando che la i di vitulus era lunga mentre la i di Italia era breve era più probabile che il nome del nostro paese venisse da atalu «terra del tramonto» in accadico. Allo stesso modo i greci la dissero ausonia da eos «tramonto» e vi posero l’entrata dell’Averno, il regno dei morti. Veleggiando da est sull’Italia tramonta il sole…E Erebu, «oscurità» darà invece il nome all’Europa. Altro che fanciulla rapita da un bianco toro.
Una trasmissione culturale che in quel Mediterraneo delle origini non poteva che procedere da est verso ovest. Fu Sargon, il condottiero accadico che assoggettò la terra tra i due fiumi giungendo sino al mare superiore del sole calante (così i mesopotamici chiamavano il Mediterraneo), l’anello di congiunzione. E furono gli Etruschi che, con Erodoto e contro l’etruscologo Pallottino, fa giungere dalla Lidia in Asia minore, i mediatori culturali di quelle esperienze. Così il vicino oriente fecondò l’Italia ancora barbara. Le sue teorie attirarono l’attenzione dei giornali stranieri (il Guardian gli dedicò un’intera pagina) e trovarono conferma nelle scoperte archeologiche (l’assirologo Giovanni Pettinato rinvenì a Ebla un gran numero di tavolette che tradotte confermavano l’intuizione dello studioso). Nonostante tutto questo, però, il mondo accademico italiano gli restò ostile. Troppe le carriere, le cattedre che le sue tesi avrebbero demolito. Semerano tuttavia non si diede per vinto, continuando lo studio delle antiche lingue e civiltà del Mediterraneo. Le sue ultime opere furono L’infinito: un equivoco millenario, Il popolo che sconfisse la morte. Gli Etruschi e la loro lingua e La favola dell’indoeuropeo. Una festa dell’intelligenza li definì il filosofo Emanuele Severino, mentre Massimo Cacciari riconosceva che: «alle straordinarie ricerche di questo solitario devo moltissime indicazioni per tutta la dimensione etimologica del mio libro Arcipelago».
I linguisti restano scettici nei confronti delle sue teorie accusandolo di demolire la tesi dell’indoeuropeo senza riuscire a sostituirla con un altro sistema plausibile. Ma, forse, l’intuizione più bella, e più vera, di questo entusiasta fu di comprendere che la profondità del nostro passato non si lascia spiegare secondo i nostri schemi e confini attuali. Un passato dal respiro unitario in cui l’oriente trapassa nell’occidente senza cesure e in cui le due coste del nostro mare, checché ne dicano gli odierni crociati, non si debbono necessariamente scontrare perché appartenenti a due diversi mondi.


l’Unità 21.7.06

Sandro Curzi. Dobbiamo stare in campo e pesare, come ci invita a fare Ingrao. E dare fiato a una nuova sinistra, europea e radicale
«Se il partito non segue Bertinotti sarà una tragedia»
di Bruno Gravagnuolo


Roma. «Sono preoccupato per quanto avviene in Rifondazione e rispetto le angosce del suo popolo che soffre le scelte sull’Afganisthan. Ma dobbiamo essere seri, come ha detto Ingrao e non buttare a mare quanto abbiamo ottenuto sulla politica esera italiana, che sta cambiando eccome». Plaude a Pietro Ingrao Sandro Curzi, consigliere Rai, membro della direzione di Rifondazione e ed ex direttore di «Liberazione». Lui il suo partito lo conosce bene e sa che la battaglia del nuovo corso voluto da Bertinotti sarà aspra. Ma è convinto di una cosa: non c’è alternativa alla «Rifondazione di governo». Per tenere fuori Berlusconi e inaugurarre una nuova stagione di sinistra. Con due sinistre al governo. E Rifondazione a far da traino unificante sul versante più radicale. Ma come?
Quattro deputati di Rifondazione hanno votato contro il decreto sull’Aganisthan e uno si è pure dimesso. Anche per il Senato c’è allarme mentre il partito è in subbuglio. Non sarà che siete rimasti orfani di Bertinotti?
«Stavolta Rifondazione ha scelto una strada ben diversa dalla desistenza e si è assunte responsabilità di governo. Una scommessa chiara, sorretta dalla maggioranza della direzione. Dove non è ammesso chiamarsi fuori. È la scomessa è: siamo o no partito di governo e di lotta?»
E tu che ne dici?
«Io sono un “piccista” e l’idea fu già del Pci. Già Gramsci andava in quel senso, fin dal tempo dell’Aventino a cui il Pcd’I nel 1924 non partecipò. Per stare in campo e pesare, come ci invita oggi a fare Ingrao»
Bertinotti ascende in cielo, caldeggiando visioni ampie e di governo. Ma il corpo del partito si contorce. Riuscirà l’ex segretario a far passare la sua linea dallo “scranno”?
«È il punto chiave. Insiema alla domanda: c’è un gruppo dirigente in Rc in grado di guidare l’operazione? Personalmente mi ritrovo molto nelle parole di Pietro Ingrao su La Stampa di ieri, un invito alla politica e al realismo. E non a caso tutti quelli che in Rc vengono dal Pci come me si ritrovano in quelle posizioni. Io ho perfino più fiducia di Ingrao - come ho detto in direzione - nel ruolo dell’Italia sotto la bandiera dell’Onu. Ho detto: siamo noi che dobbiamo innalzare la bandiera della pace. Viceversa la sofferenza di chi non è d’accordo viene da chi meno si riconosce in quella tradizione. Ma a questi compagni io dico: troppo comodo contentarsi di starsene all’opposizione. Magari sulle macerie di questo governo».
Insisto, il Bertinotti Presidente dà forza o infonde debolezza alla Rifondazione di governo?
«Lui ormai è il terzo uomo dello stato italiano. Il che ha un’enorme portata simbolica e politica. Non è la scelta di un momento. E ciò dà forza. Deve dar forza alla Rifondazione di governo. Se il partito non lo segue è una tragedia. La scelta di Fausto, al di là della fierezza per la carica, è il coronamento di tutta una storia e può spingere Rifondazione in avanti».
Ti sono piaciuti i giudizi di Bertinotti sui «borghesi buoni» con cui collaborare contro la rendita? Evoluzione in lui o mutamento genetico?
«Per noi che veniamo da una certa storia sono parole coerenti e inserite in un solco. Certo, quella di Fausto è una formazione diversa da quella mia e di Ingrao, fondata sulla ricerca delle alleanze. Ma in fondo il filone è lo stesso. E Bertinotti è stato un lombardiano, seguace di quel Lombardi che coraggiosamente decise di stare nel centrosinistra, mentre lo stesso Togliatti oscillava tra apertura e chiusura verso i socialisti al governo. Eppure quello fu un tentativo grande e anche il Pci andò avanti, con la linea delle riforme di struttura. Insomma oggi Rifondazione è nella scia della migliore sinistra italiana. La stessa che ha consentito al Pci di non finire come il Pcf o come i comunisti inglesi».
Ma allora a Rifondazione non competono nuove responsabilità? Non dovrà dare impulso a una nuova sinistra, specie se si farà il partito democratico?
«Senza dubbio. Fino ad ora c’è stato uno stallo in tal senso, aggravato anche da contrapposizioni personalistiche. Ma guardo con interesse a una sinistra a due gambe, una più radicale, l’altra più moderata e “compatibilista”, e alleate. Come altre volte è stato con socialisti e comunisti. Importante è non disperdere forze e non dividersi. Sennò saltano le prospettive per tutti».
Giordano deve porsi il tema di una Costituente di sinistra?
«Ovviamente. Se va avanti il partito democratico, in parallello deve andare avanti qualcosa del genere. Cioè la nascita di una forza di sinistra nuova, che sappia cooperare e anche competere con l’altra forza più moderata, e per un lungo periodo».
Un discorso togliattiano e dinamico il tuo?
«Sì e non lo nascondo né me ne vergogno. Anzi, negli ultimi tempi m’è capitato di complimentarmi spesso con Fausto perché lo trovavo “togliattiano”, restandone io stesso piacevolmente sorpreso. E quando glielo ho detto lui era un po’ stupito...»
Facciamo un altro passo avanti: Rifondazione dovrà andare oltre i confini del comunismo novecentesco per guidare la ricomposizione a sinistra nel solco di una nuova sinistra europea?
«Assolutamente sì. Questo del resto stava già nell’Eurocomunismo e prima ancora nel policentrismo togliattiano. Oggi il senso di marcia è verso un socialismo di sinistra europeo. Per raggruppare sul continente tutto ciò che è disperso a sinistra e nella sinistra più radicale».
E se il partito democratico non nasce?
«Allora il discorso cambia. E diventa quello di un rapporto coi Ds. Sempre nel senso della sfida di cui parlavo. E magari su questa altra strada troveremo pure Emanuele Macaluso».

aprileonline.info 21.7.06
Tra l'inizio e la fine c'è la vita
Con il voto del Senato riesplode il dibattito sull'eticità della ricerca sulle staminali. Ne parliamo con Giovanni Berlinguer, parlamentare europeo, membro del Comitato internazionale di bioetica
di Carla Ronga


Il dibattito sull'eticità dell'utilizzo della ricerca sulle cellule staminali embrionali è riesploso, improvvisamente, lo scorso 30 maggio quando il neo-ministro dell'Università e Ricerca Fabio Mussi, nella sua prima uscita internazionale per partecipare al Consiglio Ue sulla competitività a Bruxelles, fa un annuncio a sorpresa: "L'Italia ha ritirato il sostegno che aveva finora dato alla dichiarazione etica contro la ricerca sulle cellule staminali embrionali". Parole che segnano, in pratica, un "cambiamento di rotta" dell'Italia su questo delicato tema e che accendono immediatamente le polemiche. Seguono settimane di dibattito, in vista di un prossimo appuntamento decisivo: il Consiglio europeo di fine luglio, che dovrà decidere sui finanziamenti per questo settore di ricerca nell'ambito del VII programma quadro europeo sulla ricerca. Un appuntamento al quale l'Italia arriva con una posizione precisa: quella definita dalla mozione approvata mercoledì sera in Senato e che prevede l'impegno per il governo italiano a sostenere ricerche che "non implichino la distruzione di embrioni". Ma il documento d'indirizzo al governo apre anche alla ricerca "sugli embrioni crioconservati non impiantabili". Il governo, si afferma nella mozione, è infatti anche impegnato a "promuovere la ricerca scientifica avanzata tesa a individuare la possibile produzione di cellule staminali totipotenti non derivate da embrioni e a verificare la possibilità di ricerca sugli embrioni crioconservati non impiantabili".
Una posizione che segue appunto al ritiro dell'adesione alla dichiarazione etica che rappresentava, come dichiarato dallo stesso Mussi, "una pregiudiziale contraria" e segna dunque per il ministro una "correzione" rispetto a quanto fatto dal governo precedente con la dichiarazione etica, alla quale avevano aderito Italia, Austria, Germania, Polonia, Slovacchia e Malta.
Mussi è accusato di voler stravolgere la legge 40 sulla fecondazione medicalmente assistita (che vieta questo tipo di ricerca), ma è lo stesso ministro a precisare: "Questa posizione non tocca la legge 40 e le regole comunitarie che rispettano le restrizioni nazionali, ma - aggiunge - non mi sembrava giusto confermare la posizione del governo Berlusconi, che poneva l'Italia in una 'minoranza di blocco', capace di impedire il finanziamento della Ricerca in altri Paesi".
Un nuovo chiarimento arriva in occasione dell'audizione davanti alle commissioni congiunte Sanità e istruzione del Senato, lo scorso 15 giugno: il Governo, ribadisce Mussi insieme alla collega Livia Turco, rispetterà il programma dell'Unione sulle cellule staminali, così come intende applicare la legge 40 sulla procreazione assistita. Insomma, apertura alla ricerca a livello europeo, ma senza toccare la legge 40.
Nello stesso giorno, anche il Parlamento europeo dà il via libera al finanziamento della ricerca sulle cellule staminali nell'ambito del settimo programma quadro Ue per la ricerca 2007-2013: passa infatti una posizione trasversale, favorevole a mantenere i fondi già esistenti nel precedente quinquennio.
Mercoledì la mozione votata in Senato, che di fatto regolamenta le decisioni italiane in sede europea. Ne parliamo con il professor Giovanni Berlinguer, parlamentare europeo e membro del Comitato internazionale di bioetica.

Il centrosinistra ha segnato un punto a favore della ricerca anche in Italia?
Si è fatto un passo in avanti reale. La possibilità di ricerca vuol dire la possibilità che si possa ricercare, non i limiti. E' un buon compromesso per l'Italia.
Su tutta la questione delle cellule embrionali ci sono due date da tenere bene a mente. La prima è il 2001. E' l'anno in cui George W. Bush ha stoppato i finanziamenti federali per la ricerca sulle cellule staminali e ha autorizzato però l'utilizzo delle linee embrionali già create, le quali vengono usate ampiamente nella ricerca e vengono anche diffuse e vendute in gran parte dei paesi europei ed extraeuropei che le richiedono.
E poi c'è una seconda data, che stabilisce quando gli embrioni conservati non sono più impiantabili, in quanto c'è stato un deperimento funzionale che non li rende più moltiplicabili, la cosiddetta "cut off date".

Proprio l'inserimento della "cut off date" fa sollevare il mondo ecclesiastico che non esita a bollare il voto di ieri come "inaccettabile". Lo "strappo" dello scorso 30 maggio non è stato ricucito ...
Su molti punti c'è una posizione chiusa a ogni possibilità di accordi basati sui vantaggi delle persone. Si è giunti perfino a negare l'uso dei preservativi per donne malate di Aids anche nelle parti dell'Africa in cui c'è più alta natalità e minori cure, con il risultato di far nascere centinaia di migliaia di bambini portatori del virus e destinati ad un futuro assai incerto. I nostri cattolici preferiscono non fare nulla perché non riconoscono una linea fondamentale che ci è stata ricordata dal cardinale Martini secondo cui non è sempre possibile raggiungere il bene, ma quando questo non è possibile, si può operare in piena coscienza per affrontare il male minore o, più precisamente, il bene possibile in quelle circostanze e in quei tempi. Il loro è un principio integralista che viene sostituito a un principio parte degli interessi umani.

Il voto al Senato di mercoledì sera inasprirà ulteriormente il confronto in Parlamento e nel paese sui cosiddetti temi eticamente sensibili ...
Si parla moltissimo di temi eticamente sensibili e questi divengono frequentemente oggetto di battaglie di principio, di manifestazioni pubbliche, di lotte parlamentari, etc. Quello che mi stupisce maggiormente non è il confronto e neppure la sua asprezza, che deriva dalla grande novità dei temi, dalla loro originalità e dalla mancanza di precedenti che possano basarsi su un'etica tradizionale.
Ma mi stupisce ancora di più che si parli esclusivamente di due aspetti della vita: che sono la nascita e la morte.
Tra l'embrione concepito o il bambino partorito e la persona che sta per morire e vuol fare un testamento di vita, o vuole respingere le cure, o agogna ad avere una terapia di sostenimento e di lotta contro il dolore etc, c'è la vita di tutti, tutti i momenti della vita di tutti. E di questo nessuno si occupa. E come se si vedesse un film con il titolo di testa e poi "The end" . Tutto quello che c'è in mezzo scompare dallo sguardo dello spettatore. Eppure, in mezzo c'è la qualità della vita, la durata della vita. Perché ci sono Paesi dove c'è una vita intera da godere o da soffrire (In Italia, in Giappone l'aspettativa media è di ottanta anni) e ci sono Paesi dove non si arriva a 40 anni. Persone con una vita intera e persone con una mezza vita. Ci sono dei Paesi poveri dove 20 bambini su 100 muoiono prima di aver compiuto i 5 anni, e ci sono tutte le malattie non curate. C'è la strage delle donne. Nell'ultimo numero di Le Monde diplomatique è stato pubblicato un bellissimo articolo sulle "donne che mancano all'appello". In questo articolo – che riprende la ricerca condotta nel 1990 da Amartya K. Sen intitolata "Cento milioni di donne missing" - si punta l'attenzione in particolare su India e Cina. Oggi il numero di queste donne è ancor cresciuto, fino a creare uno squilibrio demografico in molti Paesi e ad attestare una profonda disuguaglianza tra i generi. Ecco, personalmente credo che la bioetica si debba occupare molto di più della vita quotidiana delle persone.

Come medico, esponente della Commissione cultura di Bruxelles e membro del Comitato internazionale di bioetica sei tra i principali attori della battaglia politica che si sta svolgendo in Europa. Puoi ripercorrerne le tappe principali?
L'Europa è partita anni fa, nel 1998, con l'approvazione da parte del Consiglio di una Convenzione bioetica ratificata da moltissimi Paesi, compreso il nostro. In questa Convenzione, per quanto riguarda l'embrione, vengono stabiliti due punti cardine: in primo luogo il divieto di creare embrioni esclusivamente a scopo di ricerca, in secondo luogo il principio per il quale i Paesi che desiderano sperimentare sugli embrioni possono farlo in rapporto con le proprie legislazioni, assicurando l'integrità dell'embrione. Quest'ultimo punto contiene, in effetti, una qualche dose di ipocrisia, essendo molto difficile da realizzare sul piano tecnico e pratico.
Nel sesto programma quadro (2000 /2207 ) è stata ammessa la possibilità di svolgere ricerche su cellule embrionarie nei Paesi che lo richiedono, con molte cautele e verifiche, sia di carattere etico che di carattere scientifico. Quindi per queste ricerche c'è un filtro maggiore: prima nel Paese proponente e poi nell'Unione.
Quando abbiamo discusso il settimo programma quadro (2007 /2013) c'è stata molta discussione nella Commissione Cultura e nella Commissione Ricerca e ci sono stati tentativi di vietare le ricerche sugli embrioni. Tentativi che sono stati sconfitti sia dal voto delle Commissioni, sia dal voto finale del 15 giugno sul Progetto.
Infine, c'era un gruppo di paesi (Germania, Austria, Slovachia, Polonia e Italia) che in base alle regole procedurali hanno potuto raggiungere i voti necessari a vietare ogni tipo di ricerca sulle cellule embrionali. Il distacco dell'Italia annunciato da Mussi ha ricreato le condizioni di agibilità di queste ricerche. Oggi, c'è il timore che la questione venga riaperta nel prossimo Consiglio di competitività, ma l'Italia non ritornerà sui suoi passi.

Torniamo alle regole della ricerca. Regole che – è bene ricordarlo – normano la ricerca pubblica, non quella privata, impedendo proprio allo Stato (che dovrebbe agire in nome di interessi generali) di concorrere con il privato (che agisce in nome di interessi particolari). Come valuti l'esistenza di questa doppia morale?
In Italia, questa possibilità non c'è, ma in molti altri Paesi si. La decisione morale viene presa in base a chi paga. C'è del denaro lecito, che è quello dei privati, che può essere utilizzato in qualunque impresa farmaceutica e con qualunque tipo di embrioni, e c'è un denaro sublimato, per esempio dalla predilezione di Bush per l'integralismo religioso, che è vietato impiegare nelle istituzioni pubbliche.
Un'altro caso di doppiezza morale è quello della Germania, la quale ha vietato la produzione e l'uso di cellule staminali embrionali ma non l'utilizzazione di cellule prodotte altrove, in particolare negli Stati Uniti, in Israele, in Australia. Come se le cellule staminali di altra provenienza siano moralmente "sdoganate" dal loro atto di nascita perché precedono la data delle decisioni del governo tedesco. E' un evidente guazzabuglio di aspirazioni, interessi, imbrogli culturali che non potrà reggere ancora a lungo.

Corriere della Sera 21.7.06
Migliore: ho sofferto. Quei compagni violano un patto «Caruso mi ha deluso, dopo le botte prese insieme. C’è poca umiltà se Cannavò critica Ingrao»
di Giuliano Gallo


ROMA - «Ho parlato con tutti, dopo. Mica interrompiamo i rapporti umani... Abbiamo litigato certo, ma penso che si possano fare discussioni senza delegittimare mai l’altro. Gliel’avevo detto in tutte le salse che i loro comportamenti avrebbero inflitto un danno al partito. Perché violavano un patto fra di noi, il senso della comunità». Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione Comunista alla Camera, giura che la notte scorsa ha dormito («Ma solo perché quando sono stressato mi viene più sonno...»), ma ammette che quei quattro compagni che hanno votato no gli hanno fatto proprio male. Ma chi è che l’ha fatta soffrire di più, fra i quattro?
«Sicuramente Francesco Caruso. A parte che abbiamo preso più volte le botte assieme... L’ho conosciuto quando tornò a Napoli nel 2001, prima del G8. Di lì in poi mi sono sempre sentito molto legato a lui, anche umanamente. E credo anche lui».
E gli altri? Anche loro non sono degli estranei.
«Salvatore Cannavò l’ho incrociato la prima volta quando stavo organizzando il primo controvertice del G7 a Napoli, nel ’94. Prima di essere iscritto a Rifondazione. Insomma, ci sono alcuni compagni, che anche per un fatto di generazione ho vissuto come dei fratelli. Sul piano umano rimane molto, ma c’è stata una lacerazione grossa: proprio perché abbiamo fatto più cose insieme, perché il patto di lealtà fra di noi è sempre stato molto sentito, tutto mi ha procurato più sofferenza».
Subito dopo il voto lei ha parlato di arroganza. Era molto arrabbiato, e non riusciva a nasconderlo.
«Secondo me dire che non è vero che questo atto ha prodotto dei danni, e che invece è un pretesto utilizzato dalle destre, è un giudizio arrogante. Se tutto il resto del partito la pensa diversamente, almeno si deve avere l’umiltà di riconoscere che la tua posizione è minoritaria. C’è ad esempio questa dichiarazione di Gigi Malabarba, che dice: se si allarga il governo all’Udc, vuol dire che c’era un disegno precedente, e che noi siamo stati presi in giro. Quindi, dice, ce ne dobbiamo andare. Insomma, adesso vuole pure dettare la linea... Poi c’è Salvatore Cannavò, che risponde con spocchia ad un’intervista sulla Stampa , nella quale Pietro Ingrao ammetteva che lui avrebbe votato sì alla missione in Afghanistan. "Ingrao vanifica la battaglia per la pace", dice Cannavò. Un atteggiamento di supponenza che mi pare francamente eccessivo»».
Ma secondo lei, erano tutti in buona fede, oppure no?
«No, non ho mai dubitato della loro buona fede. Ma adesso mi sento diviso, preda di sentimenti contrastanti: da un lato sento la responsabilità di un gruppo dirigente di cui sono una parte, dall’altra sono pieno di rabbia. Un sentimento che ha a che vedere con la politica, ma per me la politica è la vita».
Anche per loro però, arroganza a parte, non deve essere stata una scelta facile...
«Mi sono consultato con centinaia di iscritti, ho parlato con la gente per strada. Ci davano ragione, dicevano che le nostre scelte erano giuste. E allora mi sembra che questa loro decisione, questo aver voluto portare fino in fondo una scelta, alla fine fosse estranea alle scelte della nostra base...».
In fondo lei nasce «Disobbediente», e in fondo i suoi compagni questo hanno fatto: hanno disobbedito.
«Al G8 di Genova ero proprio nel corteo dei Disobbedienti. Per me il senso di appartenenza ad una comunità è molto forte. E quando si compiono azioni politiche che danneggiano questa comunità, mi incazzo molto. Ho sentito troppo volte distinguere il partito e le coscienze. Ma non ci sto a ridurre tutto al tormento di singole coscienze e alla burocratica volontà di un partito che impone la propria linea. Credo che non esista nessun partito dove si discute più che in Rifondazione... Pensare che quando ero in segreteria nazionale ero stato uno dei più accaniti nel voler candidare i compagni delle minoranze, per far entrare gli esterni. Era il mio percorso, del resto».
E adesso, che ne sarà di loro?
«Ho addirittura sentito parlare di ritorsioni, una parola a cui sono allergico. Non ci saranno conseguenze disciplinari, ci sarà una valutazione politica sui comportamenti. Certo, dalla base ci stanno rinfacciando il fatto di averli scelti, di averli fatti deputati. Ho ricevuto decine di telefonate, e quando aprirò il computer temo che troverò centinaia di e mail».
E Bertinotti? Prigioniero del suo ruolo istituzionale non ha potuto commentare in diretta, ma probabilmente non è stato molto contento, no?
«Non ci ho parlato, ma posso immaginare cosa abbia passato. Del resto ho visto dalla sua espressione alla Camera: conoscendolo, si capiva cosa stava provando».
Adesso c’è l’appuntamento più difficile, il Senato.
«Seguiamo con preoccupazione l’argomento. Adesso il gioco cambia. Il dissenso è stato espresso, ma ora bisogna resistere alle sirene centriste. L’importante è resistere, convinti che le cose possono cambiare. E che ogni giorno ha la sua pena».

Il Giornale 21.7.06
E il partito rimpiange già il padre-padrone Fausto
Dietro il caos di questi giorni l’assenza di Bertinotti. E la mancanza del suo pugno di ferro
di Luca Telese


Roma. Ricapitolando: le lacrime alla Camera di Mercedes Frias e Donatella Mungo, il pianto di commozione di Alì Rashid, il turbamento introverso di Paolo Cacciari, la rabbia di Elettra Deiana. E poi le lettere a Liberazione, le assemblee di pacifisti autoconvocate, le invettive di Gino Strada, molto più feroci con i compagni che votano di quanto non fossero contro i parlamentari di centrodestra. Se dentro la famiglia (un tempo) felice di Rifondazione la crisi sembra aperta, bisogna tornare a Lui, a Fausto Bertinotti e al suo precipitoso addio, a quel trauma non digerito: dopo tredici anni di leadership pressoché indiscussa e paternalistica, il passaggio brusco al vertice istituzionale di Montecitorio, e quindi all'assenza. La perdita del padre, insomma.
Si sa, di solito ai marxisti e ai postmarxisti le chiavi di lettura psicanalitiche fanno venire l'orticaria: ma non c'è dubbio alcuno che dentro la pioggia di reazioni emotive che attraversano il partito in queste ore non si può non leggere una sindrome freudiana, gli effetti dell'abbandono traumatico del genitore che lascia i suoi figli per trovare una nuova casa. E dentro questo choc, il punto interrogativo di una biografia politica e umana che con la sua virata improvvisa rischia di compromettere il futuro del suo partito. I tempi delle leadership personali ci hanno abituato a questi rapporti di amore-odio viscerali, al trauma delle autocensure, delle sfuriate, dei cordoni ombelicali che si tendono senza spezzarsi, dei dissensi a pugni stretti. Achille Occhetto è da tempo un padre ripudiato della Quercia, Gianfranco Fini nel 1999 disse ai colonnelli di An che era pronto a lasciarli per fondare una lista personale, non si contano le lettere di scomunica di Romano Prodi alla Margherita, di cui l'estate scorsa - nel momento di massimo gelo - arrivò a dire: «Non posseggo quella tessera». Ma certo nessuno fino a ieri pensava che anche il bertinottismo potesse arrivare a scindere la sua strada da quella del partito. Sembrava insomma che «il ragazzo con le magliette a strisce» (autodefinizione coniata per il libro scritto con la regista Wilam Labate), l'ex giovane socialista di Varallo Pombia (il luogo di nascita del subcomandante), l'ex metalmeccanico intransigente dei cancelli della Fiat, l'uomo che «non aveva mai firmato un contratto» (leggenda metropolitana sempre contestata dall'interessato), fosse l'ultimo leader che temperava il suo naturale narcisismo con una concezione antica del partito, con un senso di servizio indiscusso. E il segretario-padre era stato decisivo per tenere insieme quella galassia iridescente di radicalità vecchie e nuove, correnti «neo», «archeo» e «post» che erano unite solo dalla leadership bertinottiana. Al congresso di Venezia tutto era sincreticamente fuso, e la corda non si strappò nemmeno quando una giovane delegata trotzkista di Milano accusò come solo una figlia ribelle poteva fare: «Compagno Bertinotti, non ci sono alternative. O si sta con i padroni o si sta con gli operai, e tu, purtroppo, hai scelto i padroni!». Il paradosso vuole che i trotzkisti di Marco Ferrando, che nel partito del padre-contestato sono rimasti fino all'ultimo, siano usciti proprio ora, che si è affermata la leadership «materna» di Franco Giordano. Il padre-padrone Bertinotti era stato anche il segretario autoritario che contiene il dissenso con il pugno di ferro e depenna il leader della minoranza dalla lista elettorale, solo per un «reato d'opinione». Giordano è un uomo di letture femminili, uno che ha come «scrittore» preferito Marcella Serrano e il suoi alberghi di donne tristi, uno che dice: «Ho introiettato la cultura della nonviolenza» e che ancora oggi non minaccia espulsioni. Bertinotti, invece, sembra essersi disinteressato del suo partito come certi mariti che si rifanno una vita con una nuova moglie, e ha usato Rifondazione per arrivare a Montecitorio, così come Massimo D'Alema usò i Ds per arrivare a Palazzo Chigi. Una macchina lanciata oltre il limite di velocità consentito, che arriva alla meta, ma con il contagiri impazzito, il radiatore rovente e il motore fuso. È curioso che malgrado le lacrime e le crisi, Rifondazione non abbia ancora consapevolezza della sua sindrome di abbandono, che nessuno abbia ancora ipotizzato «il parricidio». Così, per paradosso, è possibile che accada il contrario: che se il padre non tornerà rapidamente all'ovile, alla fine sia proprio lui a sentire il bisogno di un infanticidio. Infatti, l'unico modo per consentire a Bertinotti una nuova vita, per dimenticare il sub comandante Fausto, il suo meraviglioso massimalismo estetico, i suoi niet, l'affondamento del governo Prodi e la lotta partigiana contro i Ds, ecco, l'unico modo per consentire al Bertinotti istituzionale ed ecumenico di dimenticarsi di quel padre che cresceva un figlio ribelle e contestava il sistema, è liberarsi di quel figlio: lasciarlo solo nella sua crisi di crescita.

Ansa 21.7.06
Afghanistan: Bertinotti, si prosegua
Seguo da esterno travaglio del Prc, dirigenti sono bravi

(ANSA) - ROMA, 21 LUG - 'Contiamo che si prosegua'. Lo afferma Bertinotti riferendosi alle tensioni nella maggioranza sulla proroga della missione in Afghanistan. Il presidente della Camera spiega che, pur nel rispetto del proprio ruolo istituzionale, segue 'il travaglio che riguarda il Prc con grande coinvolgimento emotivo, pur se senza una partecipazione diretta. In ogni caso - rileva il presidente della Camera - mi pare che il gruppo dirigente attuale stia facendo benissimo'.

Agi 21.7.06
GOVERNO: BERTINOTTI, COINVOLGIMENTO EMOTIVO PER VICENDE PRC
(AGI) - Roma, 21 lug. - Il presidente della camera Fausto Bertinotti si chiama fuori dal dibattito interno di Rifondazione comunista sulla vicenda del voto sulle missioni militari all'estero ma non nasconde di seguire "con grande coinvolgimento emotivo" quanto sta accadendo. Interpellato al termine dell'incontro con l'Unione delle camere penali, Bertinotti rileva, "da osservatore esterno", che "il gruppo dirigente sta facendo molto bene, non sta facendo rimpiangere i predecessori". D'altronde "e' evidente che, per chi ha una lunga storia in un partito, si vivano con partecipazione le vicende interne, sarebbe ridicolo negarlo". Proprio per questo "personalmente sono intensamente solidale". (AGI) -

Apcom 21.7.06
PENA MORTE/ BERTINOTTI: LOTTA PER ABOLIRLA NON AMMETTE DEFEZIONI
Messaggio presidente Camera a 'Nessuno tocchi Caino'

Roma, 21 lug. (Apcom) - "In occasione della presentazione del Rapporto 2006 di Nessuno tocchi Caino 'La pena di morte nel mondo' e della consegna del premio 'L'Abolizionista dell'Anno 2006', sono lieto di far pervenire a Lei, caro segretario, ed a tutti gli intervenuti il mio saluto più cordiale". E' il messaggio inviato dal presidente della Camera, Fausto Bertinotti, al segretario dell'Associazione 'Nessuno tocchi Caino', Sergio D'Elia.

"La cerimonia odierna - prosegue Bertinotti - oramai tradizione preziosa e consolidata, ci dà l'occasione per dire grazie una volta ancora a 'Nessuno tocchi Caino' e a coloro che ne animano la coraggiosa azione di informazione e di sensibilizzazione. Ma oggi abbiamo anche l'opportunità per unire idealmente in questo ringraziamento tutte le associazioni e tutti i movimenti che, ovunque nel mondo, con la loro attività appassionata diffondono la cultura dei diritti e rivendicano una civiltà giuridica più aperta ed avanzata".

"In questa grande forza - sottolinea il presidente della Camera - espressa direttamente dalla società civile, la politica e le Istituzioni debbono trovare le ragioni più profonde per proseguire nel difficile cammino che conduce all'abolizione della pena di morte. Un obiettivo, questo, che non ammette defezioni né distinzioni di parte, che va al di là dei perimetri angusti fissati dalla geopolitica e che ha un unico, inderogabile punto di riferimento: il rispetto intransigente della dignità dell'uomo e dei diritti che su di essa si radicano".

"E' questo - conclude Bertinotti - il valore prioritario che ciascuno di noi ha il dovere morale di affermare, il patrimonio ideale da globalizzare in questo tempo così tormentato, la via per costruire una convivenza in cui la capacità di giudicare secondo equità e misura si alimenti di una sincera disposizione ad ascoltare, a comprendere e ad includere. E in questo mondo, un mondo che possa dirsi realmente costruito dall'uomo e per l'uomo, non c'è posto per la pena di morte".
29 luglio 2006
gli alberghi nei dintorni di Viareggio, dal sito dell'ENIT


Giunge notizia di difficoltà nel reperire sistemazioni alberghiere a Viareggio per questa data; oltre al fatto che è un sabato d'inizio ferie infatti per la stessa sera è prevista la rappresentazione della "Turandot" al Festival Pucciniano di Torre del Lago e una rappresentazione de "La Tempesta" shakespeariana alla Versiliana di Marina di Pietrasanta.
Pubblichiamo allora l'elenco degli alberghi nell'immediato entroterra della zona, presumibilmente meno affollati. Abbiamo preso in considerazione le località di Camaiore, Pietrasanta e Lucca. Camaiore è a 14 km da Viareggio, Google Maps dice a 30 minuti d'auto. Pietrasanta è a 15 km e viene data per distante 22 minuti, Lucca è a 31 km e sempre secondo Google Maps ci si arriva in 36 minuti per l'autostrada:

CAMAIORE (NON Lido di Camaiore)
Distanza: 14.1 km (circa 30 min)

CERÙ stelle: 3
Via Gombitelli - Gombitelli
Tel.: (+39) 0584971901

LE MONACHE stelle: 3
Piazza XXIX Maggio
Tel.: (+39) 0584989258

VILLA GLI ASTRI stelle: 3
Via Di Nocchi, 35 - Nocchi
Tel.: (+39) 0584951590

CONCA VERDE stelle: 2
Via Misciano, 22 - Misciano
Tel.: (+39) 0584989686


PIETRASANTA (NON Marina di Pietrasanta)
Distanza: 15.6 km (circa 22 min)

PIETRASANTA stelle: 4
Via Garibaldi, 35
Tel.: (+39) 0584793726

GRAPPOLO D'ORO stelle: 3
Via Comunale, 36 - Casone - Strettoia
Tel.: (+39) 0584799422/3

PALAGI stelle: 3
Piazza Carducci, 23
Tel.: (+39) 058470249

VERSILIA GOLF stelle: 3
Via Della Sipe, 100 - Montiscendi
Tel.: (+39) 0584752730

DA PIERO stelle: 2
Via Traversagna 3/5
Tel.: (+39) 0584790031

STIPINO stelle: 2
Via Provinciale, 50
Tel.: (+39) 058471448


LUCCA
Distanza: 31.2 km (circa 36 min)

LOCANDA L'ELISA stelle: 5
Via Nuova Per Pisa 1952 - Massa Pisana
Tel.: (+39) 0583379737

AC HOTEL LUCCA stelle: 4
Viale Europa 1135
Tel.: (+39) 058331781

ALBERGO VILLA MARTA stelle: 4
Via del Ponte Guasperini, 873
Tel.: (+39) 0583370101

CELIDE stelle: 4
Viale Giusti 25
Tel.: (+39) 0583954106

GRAND HOTEL GUINIGI stelle: 4
Via Romana 1247
Tel.: (+39) 05834991

ILARIA stelle: 4
Via Del Fosso, 26
Tel.: (+39) 058347615

NAPOLEON stelle: 4
Viale Europa, 536 - San Concordio
Tel.: (+39) 0583316516

RESIDENZA DELL'ALBA stelle: 4
Piazza Dell'Alba, 63
Tel.: (+39) 058347615

VILLA AGNESE stelle: 4
Viale Marti, 177 - San Marco
Tel.: (+39) 0583467109

VILLA LA PRINCIPESSA stelle: 4
Via SS. Del Brennero, 1616 - Massa Pisana
Tel.: (+39) 0583370037

VILLA S. MICHELE stelle: 4
Via Della Chiesa - S. Michele In Escheto - Massa Pisana
Tel.: (+39) 0583370276

CARIGNANO stelle: 3
Via Per S. Alessio 3680 - Carignano
Tel.: (+39) 0583329618

DA CARLOS stelle: 3
Via Nuova Per Pisa, 5901 - Santa Maria del Giudice
Tel.: (+39) 0583379482

LA LUNA stelle: 3
Corte Compagni 12
Tel.: (+39) 0583493634

PICCOLO HOTEL PUCCINI stelle: 3
Via Di Poggio, 9
Tel.: (+39) 058355421

REX stelle: 3
Piazza Ricasoli 19
Tel.: (+39) 0583955443

SAN MARCO stelle: 3
Via San Marco 368 - San Marco
Tel.: (+39) 0583495010

SAN MARTINO stelle: 3
Via Della Dogana, 7/9
Tel.: (+39) 0583469181

UNIVERSO stelle: 3
Piazza Del Giglio 1
Tel.: (+39) 0583493678

VILLA RINASCIMENTO stelle: 3
Santa Maria del Giudice
Tel.: (+39) 0583378292

VILLA VOLPI stelle: 3
Via Di Gugliano, 47 - Le Capanne - Mammoli-Mastiano
Tel.: (+39) 0583406137

BERNARDINO stelle: 2
Via Di Tiglio, 109 - Arancio
Tel.: (+39) 0583953356

DIANA stelle: 2
Via Del Molinetto, 11
Tel.: (+39) 0583492202

DIANA DIPENDENZA stelle: 2
Via Della Dogana, 18
Tel.: (+39) 0583492202

IL GIARDINETTO stelle: 2
Via Nazionale, 769 - Ponte a Moriano
Tel.: (+39) 0583406272

MELECCHI stelle: 2
Via Romana 41 - Arancio
Tel.: (+39) 0583950234

MODERNO stelle: 2
Via Vincenzo Civitali, 38 - San Concordio
Tel.: (+39) 058355840

STIPINO stelle: 2
Via Romana, 95
Tel.: (+39) 0583495077

VILLA CASANOVA stelle: 2
Via Di Casanova, 1004 - Balbano
Tel.: (+39) 0583548429

Oltre che agli indirizzi precedenti, una ricerca di sistemazione può essere fatta anche qui

giovedì 20 luglio 2006

aprileonline.info 20.7.06
Migliore: ''Questo governo è un bene per il Paese''
I punti di discontinuità con il governo Berlusconi. Le dimissioni di Paolo Cacciari. Il ddl al Senato. Il rapporto con l’Unione. Sono i temi dell’intervista al capogruppo del Prc
di Angelo Notarnicola


Gennaro Migliore è il volto nuovo di questo inizio di legislatura. Pur essendo alla sua prima esperienza in Parlamento, a soli 38 anni riveste il ruolo di capogruppo del Prc-Sinistra europea. Cresciuto politicamente a Napoli, diventa il primo segretario nazionale dei giovani del Prc. Nel 2001 viene eletto responsabile Esteri e Pace. Nel 2005 entra a far parte della Segreteria nazionale del partito. In questo periodo matura le conoscenze necessarie per affrontare nel merito le difficili questioni di politica estera su cui è impegnata L’Unione ed in particolare il gruppo che egli stesso rappresenta, Rifondazione comunista. Lo raggiungiamo al telefono, durante una pausa, piuttosto movimentata, del dibattito parlamentare sul rifinanziamento delle missioni militari all’estero.

Nel recente passato, hai seguito attentamente tutti i diversi passaggi di politica estera del centrodestra. Quali sono i maggiori punti di discontinuità segnati dal governo di centrosinistra?
Il punto di discontinuità principale dalla politica estera del governo Berlusconi è sicuramente il ritiro delle nostre truppe dall’Iraq. Un ritiro completo, che segna anche un’inversione di tendenza della più generale politica estera italiana. Vorrei sottolineare alcuni aspetti molto interessanti - presenti anche nel dibattito parlamentare di oggi - come ad esempio il fatto che l’Italia non parteciperà mai più a conflitti condotti unilateralmente. Questo è un altro segno di assoluta discontinuità con il passato e con l’amministrazione Bush. Inoltre, il centrosinistra ha raggiunto una convergenza politica sul fatto di prevenire ogni conflitto e sul rilancio del processo di Pace. Il passaggio dal codice militare di guerra al codice di pace. In questo ci sono elementi di discontinuità molto forti, ottenuti dopo ore di mediazione con tutte le forze dell’Unione.

Eppure, nonostante la forte discontinuità con il passato e il ruolo di responsabilità rivestito dal Prc in questa fase così delicata, si prende atto delle dimissioni di Paolo Cacciari dal ruolo di parlamentare. Come interpretare un gesto così forte?
E’ una decisione individuale. Rispetto il travaglio della persona. Penso che ci sia un dissenso molto più serio di ciò che viene riportato. Noi crediamo che la sua decisione individuale debba essere revocata. In questo momento, abbiamo intenzione di tenere insieme sia il rispetto per la persona che il dissenso nei confronti della scelta di metodo e di merito. Nessuno ha mai posto una questione di dimissioni. Penso che sia opportuno definire un rientro di questa possibilità.

Alla Camera, nonostante alcuni deputati contrari, non c'è alcun problema. Il ddl passerà a maggioranza. Al Senato invece, cosa accadrà?
Spero che nelle prossime ore si delinei una posizione nella quale prevalga il senso di coesione di questa maggioranza, che è un bene prezioso per il Paese e in particolare per il nostro partito, che l’ha voluta con tanta forza.

Le situazioni "difficili" al Senato si ripresenteranno. Nel centrodestra, stando agli ultimi sviluppi, si rinforza la leadership di Silvio Berlusconi. Questo con ogni probabilità renderà insostenibile la vita politica di noti dissidenti del Cavaliere. Pensi che sia possibile accoglierli nell’Unione?
L’allargamento della maggioranza è un’opzione politica fuori dall’orizzonte della coalizione. Da questo punto di vista, per quanto mi riguarda, non c’è alcuna richiesta in questo senso. Ciò che conta è che non cambi l’indirizzo politico, il programma e quindi anche la maggioranza de L’Unione. Se ci sono singoli dissidenti non lo so. Certo non li stiamo cercando noi. In questo senso c’è una distanza da un’azione politicista e un dissenso profondo rispetto a tutti quelli che propongono non tanto un cambio di numeri ma di politica.




Avvenire 16 luglio 2006
"UN DETENUTO OGNI TRE è MALATO DI MENTE"


Roma. "Se le carceri scoppiano la colpa è della legge Basaglia". E' questa l'opinione di Patrizio Gonnella, presidente di "Antigone", associazione attiva per i diritti dei detenuti. Riprendendo l'analisi svolta sull'"Unità" del sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, Gonnella sostiene che non si è mai provveduto all'introduzione di strutture psichiatriche in grado di sostituire i manicomi,aboliti dalla legge 180. "Su 60.000 detenuti - afferma Gonnella - almeno 20.000 sono malati psichiatrici. E gli psicofarmaci sono utilizzati su larga scala". Una soluzione potrebbe dunque emergere oltre le polemiche politiche, come affermato dal criminologo Francesco Bruno: " Se ci fossero adeguate strutture sanitarie potrebbero lasciare il carcere metà dei detenuti". Per Bruno, infatti, vale "la priorità del diritto alla salute", che dunque richiede l'assunzione di misure alternative per coloro che in carcere rischiano la vita, in particolare tossicodipendenti, affetti da Aids e cardiopatici. La discussione è nata sul settimanale "Left" con un intervento di Massimo Fagioli. Lo psichiatra denuncia la tendenza a privilegiare la pena e la custodia sulle esigenze terapeuttiche.

La stampa.it 20 luglio 2006
IL NOVANTUNENNE LEADER DELLA SINISTRA COMUNISTA «UNA FORZA ONU? PRIMA BISOGNA CHIEDERSI SE L’ONU ESISTE ANCORA, E A ME PARE CHE ESISTA POCO»
Ingrao: «Anch’io avrei votato sì al rifinanziamento
Non possiamo spaccare la sinistra su questo»
di Riccardo Barenghi


ROMA. La Camera dei deputati ha appena votato il disegno di legge che rifinanzia le missioni militari all’estero, compresa quella in Afghanistan. Un gruppetto di deputati della sinistra radicale e pacifista ha votato no, nonostante al governo ci siano Prodi, il centrosinistra e pure il loro partito (Rifondazione). Nonostante tutto insomma, pacifisti senza se, senza ma e senza governi amici. Anche Pietro Ingrao, novantuno anni e storico leader della sinistra comunista italiana, è un pacifista senza se e senza ma. Ma stavolta...
Stavolta Ingrao, se fosse ancora in Parlamento come voterebbe?
«Voterei sì. Penso che questo strappo compiuto da alcuni compagni di Rifondazione non sia una cosa buona, francamente non sono affatto d’accordo con questo atto di dissenso. E spero ardentemente che in Senato, dove la maggioranza ha pochi voti di scarto, questo dissenso rientri. Considererei grave affossare o anche ferire seriamente il governo di centrosinistra appena nato, ridando spazio a Berlusconi. Sarebbe un assurdo».
Eppure lei ha fatto una battaglia di quarant’anni per affermare il diritto al dissenso nel Pci e nella politica in generale.
«Un momento, prego. Io ho sempre difeso e difendo anche oggi il diritto al dissenso, e non credo che i dissidenti siano “traditori” da cacciare. Penso però che il loro sia un pesante errore politico. L’errore cioè di guardare solo all’Afghanistan, di fermarsi lì. Intendiamoci, io resto un pacifista assoluto, ho forti dubbi su quella guerra e sulla nostra missione, non penso affatto sia un’impresa giusta. Ma oggi la questione afghana va messa dentro un contesto più ampio, dall’Iraq a Israele al Libano, alla Palestina. Io inviterei questi compagni dissidenti a guardare la sostanza e l’insieme della nuova politica estera italiana».
E lei che giudizio dà di questi primi atti di Prodi e di D’Alema?
«Un giudizio buono. Mi sembra che la posizione del governo e del ministro degli Esteri in particolare abbia buone ragioni. Io non ho mai sentito posizioni critiche così nette come quelle espresse da D’Alema nei confronti della politica israeliana. Come faccio a non capire che questa è una novità largamente positiva? Come posso pensare all’Afghanistan senza considerare l’Iraq, una guerra dalla quale finalmente ce ne andiamo? Come si fa insomma a non vedere che mentre la situazione mediorientale peggiora di ora in ora, il governo italiano prende una posizione saggia?».
Lei nota una discontinuità con la politica estera del governo precedente?
«Eccome se la noto. Prima c’era Berlusconi che ha gettato l’Italia mani e piedi nell’aggressione americana all’Iraq. Oggi appoggiare il governo significa appoggiare una svolta netta rispetto a prima, dall’Iraq dove il conflitto è sempre in atto alla tragedia scoppiata in Medio Oriente. La mia posizione critica sull’Afghanistan la devo allora misurare guardando alla scena mondiale, altrimenti perdo la bussola e non vedo più l’orizzonte. Se invece guardo lontano, vedo che il governo italiano si sta muovendo cercando un equilibrio difficile tra posizioni sanguinosamente in urto, per aiutare soluzioni di pace. Ecco, il valore del mio voto lo devo misurare su tutto questo, non su Kabul».
Una parte del movimento pacifista e ovviamente gli stessi dissidenti fanno però un richiamo alla coerenza: abbiamo sempre votato no, perché dovremmo cambiare oggi? Solo perché c’è un governo amico?
«Non è una questione di governi amici o nemici, ma di come interveniamo efficacemente sul nuovo incendio che dilaga in tutta l’area mediorientale. E allora la coerenza non c’entra, perché più si restringe la vicenda a un solo aspetto (l’Afghanistan), più si creano divisioni in uno schieramento che invece deve restare unito per poter pesare sul nuovo dramma che si è aperto. Se in questo nuovo tragico scenario non ci si adopera per costruire una solida iniziativa del governo, sostenuto da un’Unione compatta, mancheremmo sulla prima questione cruciale che ci troviamo di fronte dopo la vittoria elettorale, rischiando addirittura di ridare carte allo sconfitto Berlusconi. Questo è il sale della politica».
Nell’estate del 1990, quando il Pci (ancora c’era) si astenne sulla risoluzione dell’Onu che dava sostanzialmente il via libera alla prima guerra del Golfo, lei si dissociò dal suo partito. Fece un appassionato intervento alla Camera e votò contro. I dissidenti di oggi non sono come quel dissidente di allora?
«Ripeto che non metto in discussione il loro diritto a dissentire. Ma c’è un merito del problema, e il merito di allora è molto diverso da quello di oggi. Mettiamola così, un po’ brutale: io avevo ragione mentre loro hanno torto. La mia ragione la si è vista dopo, con tutto quello che è successo e sta succedendo ancora nel mondo. Il loro torto è invece di non guardare il mondo ma solo la questione afghana, che a questo punto mi pare secondaria dal punto di vista generale. Secondaria anche per la politica estera italiana: che razza di governo di centrosinistra sarebbe se non si misurasse prima di tutto con la nuova tragedia che abbiamo di fronte agli occhi?».
A proposito, lei è favorevole a una forza multinazionale dell’Onu, con caschi blu italiani, in quelle zone?
«In via di principio ovviamente sì. Ma prima bisogna chiedersi se l’Onu esiste ancora, e a me pare che esista poco. Annichilita, cancellata, ridotta spesso a un pupazzo nelle mani del Presidente degli Stati Uniti. Magari allora si riuscisse a restituire all’Onu quel ruolo che le è stato tolto, anche con la nostra complicità. Dovrebbe essere l’Onu stessa a ritrovare una sua autonomia, una sua purezza. Cominciando proprio dall’Iraq, dove c’è o dovrebbe esserci ma non si vede e non si sente».

mercoledì 19 luglio 2006

intervento a Radio Tre Mondo di mercoledì 19.7.06
L.Manconi: "quello che mi preme dire è che un carcere più umano, un carcere che veda affermati e tutelati i diritti di chi vi è recluso,un carcere che offra delle opportunità ai detenuti è il principale contributo che noi possiamo dare alla sicurezza collettiva, in primo luogo di chi non sta in carcere. Il discorso sulla sicurezza, che viene in genere agitato strumentalmente, non va affrontato chiudendo a doppia tripla quadrupla mandata i detenuti dentro le carceri perché il risultato è produrre nuovo crimine. Detenuti che non hanno possibilità di emancipazione, di formazione, di istruzione, di lavoro sono detenuti destinati fatalmente alla recidiva, a riprodurre il crimine. Carceri disumane sono un attentato alla sicurezza di chi non c'è in carcere, cioè dei cittadini che ritengono che il carcere non li riguardi, sono loro le principali vittime di un carcere disumano, oltre ovviamente chi dentro il carcere vive, detenuti e agenti di polizia penitenziaria."
Il conduttore: ecco Manconi, purtroppo abbiamo ancora solo un minuto, questo tipo di progetto però di cui lei parla, quanto tempo richiederà?
L. Manconi: "Molto! lo dico senza false illusioni, se però si pongono adesso in maniera intelligente e razionale le basi io credo che in tempi anche medi, cioè nel giro di alcuni anni, e soprattutto, fatto fondamentale, se verrà approvato l'indulto e l'amnistia, cioè se si interviene sull'emergenza,potremo metter mano a quelle riforme di sistema, riforme del carcere nel suo insieme, senza le quali ovviamente, ma tutti lo sappiamo, nemmeno un indulto nemmeno un'amnistia potranno essere efficaci."


Corriere della Sera 19.7.06
Embrioni, patto nell’Ulivo Ma Rifondazione è contraria
La Gagliardi: penalizza la donna. Mussi: accordo accettabile
di Giovanna Cavalli


ROMA - Da una parte la Margherita, dall’altra Rifondazione e in mezzo ci stanno i Ds. Si replica sulle cellule staminali lo schieramento ad alto rischio dell’Unione. Che oggi in Senato potrebbe spaccarsi sul voto alla mozione dell’Ulivo per la ricerca sugli embrioni scritta da Andrea Ranieri dei Ds e Paola Binetti dei Dl. E destinata a regolamentare le decisioni italiane in sede europea. Perchè il Prc non l’ha firmata e così com’è non pare che la firmerà. Ritenendo inaccettabile la premessa di fondo della salvaguardia della vita umana fin dal suo concepimento. Sul documento si è discusso ieri fino a tarda notte e il confronto è ripreso stamattina. Ore e ore di diplomazia tra i partiti della maggioranza per evitare una crisi. E una possibile beffa: ovvero che possa passare con più voti una analoga mozione del centrodestra, predisposta da Rocco Buttiglione. Che potrebbe intercettare i consensi dei cattolici dell’Unione. Con risultato che il governo Prodi avrebbe un mandato su un tema chiave di politica estera basato su una proposta dell’opposizione.
Il documento che il Prc ha scaricato riprende le istanze etiche care alla Margherita, ma anche ai cattolici diessini. «Un accordo accettabile» l’ha definito con realismo però certo senza grande entusiasmo il ministro per la Ricerca e l’Università Fabio Mussi. Nel dispositivo si impegna il governo «a votare contro il finanziamento di ogni tipo di ricerca che comporti distruzione di embrioni umani». Spiega Rina Gagliardi, senatrice del Prc: «Così non va bene. I Ds, per ottenere il consenso della parte più cattolica dello schieramento, hanno sacrificato la laicità e soprattutto l’autonomia della donna. Il preambolo è troppo ideologico e lega la posizione dell’Unione alla difesa totale della legge 40 sulla procreazione assistita. Per noi poi la questione dell’impiantabilità degli embrioni non è solo un problema scientifico ma etico».
Paola Binetti dei Dl ha fatto notte fonda per raggiungere un’intesa possibile con Rifondazione: «Ce la mettiamo tutta per trovare una soluzione che sia scientificamente ed eticamente avanzata». Una mozione «miracolosa» che consenta «di far proseguire una ricerca coraggiosa salvaguardando però la tutela e lo statuto dell’embrione. Che mai e poi mai possa diventare oggetto di ricerca. Questo per noi è un punto irrinunciabile». Sì alla sperimentazione sulle staminali adulte, su quelle del cordone ombelicale, un no deciso alla distruzione di embrioni, per quanto alto sia lo scopo scientifico. La Binetti è ottimista: «La troveremo l’intesa. L’Italia dei Valori è con noi. La Rosa nel Pugno? Per fortuna in Senato non c’è».
L’unico punto su cui senz’altro sembrano tutti d’accordo è non sconfessare la posizione di Mussi. Che ha tolto il veto italiano alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. E infatti si intende vietare la distruzione di embrioni, non l’utilizzo delle staminali embrionali. Su tutto il resto il governo si prepara a un’altra giornata incerta.

Corriere della Sera 19.7.06
Olanda, sì al partito pedofilo
«È incitamento alla violenza»
L’ira delle associazioni in difesa dei bambini
di Grazia Maria Mottola


Pedofili riuniti in un partito. Pronti a lanciarsi nella corsa verso il Parlamento. Nella civilissima e avanzata Olanda. Terra di tolleranza. Estrema. Roccaforte della libertà. Che significa anche diversità. Proprio come inneggia lo slogan del «Pnvd», acronimo di Partito dell’amore fraterno, della libertà, della diversità. Peccato che includa anche quello verso i bambini. Lunedì il tribunale dell’Aja lo ha legittimato, contro ogni ricorso, a presentarsi alle prossime elezioni politiche di novembre. Con una motivazione: «La libertà di espressione, di riunirsi, inclusa la libertà di organizzarsi in un partito politico, sono le basi per una società democratica. Spetta agli elettori giudicare il programma». In pratica: i promotori non hanno commesso alcun crimine; secondo il giudice chiedono solo una riforma costituzionale. Una sentenza che ha messo in ginocchio gli oppositori, associazioni a tutela dei diritti dei bambini, da mesi in lotta contro «le proposte immorali del Pnvd». Sotto accusa la richiesta di abbassare il limite del consenso per gli atti sessuali da parte dei minorenni, da 16 a 12 anni. Nel contesto di una più generale volontà di cambiamento: che implicherebbe l’introduzione dell’amore con gli animali, libertà di girare nudi, legalizzazione della pornografia infantile, educazione sessuale sin da bambini, proiezione di film hard durante il giorno, fatta eccezione per quelli violenti (solo di sera). Idee condivise in Olanda da poche centinaia di proseliti. Ma, con minime differenze, diffuse nell’universo virtuale attraverso centinaia di siti, cosiddetti di pedofilia culturale. Dà l’allarme il quotidiano cattolico Avvenire , con un editoriale a firma di Marina Corradi: «Con la sentenza del tribunale dell’Aja cade l’ultimo dei tabù ancora condivisi in quello che è forse il più liberale dei Paesi del Nord Europa: l’inviolabilità dell’infanzia. E cade l’ultima deriva del concetto di tolleranza, tanto amato dalle culture liberal». Non si tratterebbe dunque di tolleranza in nome dei diritti democratici, ma «di un radicato individualismo, la conseguenza pratica per cui non c’è alcun valore assoluto alla radice della convivenza civile, ma tutto è soggettivo e in nome della libertà dei singoli ogni scelta è ammissibile».
Sul piede di guerra anche le associazioni italiane in lotta contro la pedofilia. A cominciare da Meter: «La decisione olandese offre a tutti i pedofili del mondo lo stimolo a continuare imperterriti nei loro misfatti e violenze - avverte don Noto -. Quando al Pnvd, il loro sito è stato oscurato anche grazie alle nostre segnalazioni. Hanno dovuto persino cambiare simbolo visto che il primo, Nvd, era simile a quello di una società di sicurezza. Ma purtroppo non basta. Nella rete i siti pedofili proliferano come funghi».
Ne sa qualcosa anche Telefono Arcobaleno: «Abbiamo denunciato ben sei siti olandesi, ma sono tuttora attivi - spiega il presidente, Giovanni Arena -. Nessuno di loro risulta collegato al partito Pnvd, ma quest’ultimo è solo la punta dell’iceberg». Di fatto, mentre gli aspiranti al Parlamento si limitano a proporre modifiche legislative, secondo Telefono Arcobaleno, l’azione più insidiosa è la propaganda della mentalità pedofila su Internet. «Quello dei boylovers è un universo, una rete internazionale - sottolinea don Noto -. Purtroppo, per quanto ci diamo da fare, le denunce non riescono a star dietro all’espansione».
Così, mentre i promotori di Pnvd si apprestano a raccogliere le firme per presentare i propri candidati al Parlamento olandese, il Web provvede a supportare in tutto il mondo la loro «filosofia». Come il «sito di P», italianissimo, che precisa di «non incitare la gente a commettere reati», ma nello stesso tempo dice di dimostrare «al mondo qual è la differenza tra chi ama i bambini e chi li maltratta». E non è il solo. A memoria storica della pedofilia il Web ospita ancora il sito The pedophile liberation front , dismesso nel 1998, ma attivissimo con il suo «Manifesto»: idee in sette lingue, italiano compreso, mai abbandonate.

Il programma del «Pnvd»
SESSO LIBERO Il programma del «Pnvd» propone la soppressione della funzione del premier, la libertà di circolare nudi, la legalizzazione delle droghe, il sesso con gli animali e i film porno durante il giorno, l’educazione sessuale dei bambini, l’abbassamento del consenso per i rapporti sessuali da 16 a 12 anni

l’Unità 19.7.06
Indulto, a piccoli passi
Sì all’emendamento «anti-Previti»


PRIMO VIA LIBERA all'indulto. Tra polemiche. L'Aula della Camera stralcia il provvedimento dell' amnistia da quello dell'indulto con il voto contrario di Lega e Idv e l'astensione di An. Mentre la commissione Giustizia della Camera approva il testo del rela-
tore Enrico Buemi (Rnp) che prevede uno sconto di pena di tre anni anche per i reati finanziari e contro la Pubblica Amministrazione. Escludendo solo quelli ad elevata pericolosità sociale come mafia, terrorismo, violenza sessuale e pedo-pornografia. Il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro è sul piede di guerra e minaccia di uscire dal governo se passa «l'accordo scellerato che si sta profilando tra Cdl e Unione» su questo fronte. In più scrive una lettera a Romano Prodi per chiedere che del provvedimento di clemenza se ne parli prima al Consiglio dei ministri di venerdì. Avvertendo che lui non ci sta a che «uno dei primi provvedimenti sulla giustizia adottati dalla maggioranza sia quello di liberare Previti». Ed è proprio Previti il protagonista involontario di questa giornata parlamentare. Di Pietro lo invoca per protestare contro la decisione adottata dall'Unione di estendere il provvedimento di clemenza anche a chi ha commesso reati finanziari e contro la Pubblica Amministrazione. E l'opposizione lo cita a proposito di un emendamento che passa con i voti della maggioranza in commissione. Un emendamento che esclude dall'indulto le interdizioni perpetue. Così come prevedeva invece il testo originario di Buemi. Insieme alle interdizioni temporanee che invece potranno beneficiarne. Previti infatti venne condannato, con sentenza confermata dalla Corte di Cassazione il 4 maggio, a sei anni di reclusione. Più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici nell'ambito della vicenda Imi-Sir per corruzione in atti giudiziari. Polemiche anche sull’emendamento di Federico Palomba dell'Idv e che punta a escludere dall'indulto i reati finanziari e quelli contro la Pubblica amministrazione come corruzione e concussione. La maggioranza lo boccia insieme a Forza Italia. An vota a favore, mentre l'Udc è assente. Erminia Mazzoni (Udc) ne presenta anche un altro di emendamento solo per non far rientrare nel provvedimento di clemenza il reato di «corruzione in atti giudiziari». Quello per il quale Previti è stato condannato. Ma anche questa proposta di modifica viene bocciata. E nell'Unione i maldipancia non devono essere pochi se c'è chi, come Mantini, si astiene sull'emendamento Palomba (invece di votare «no» come il resto dei deputati dell'Unione) e chi parla di un accordo maggioranza-Fi per inserire nel testo i reati finanziari pur di portare a casa il provvedimento grazie al lasciapassare degli «azzurri». Senza il quale al Senato l'indulto difficilmente potrebbe vedere la luce.

l’Unità 19.7.06
Cardinal Scola catto-leninista
di Bruno Gravagnuolo


Il cattoleninismo. Con tutto il rispetto e fatte le debite eccezioni, andrà pur detto che l’atteggiamento della gerarchia ecclesiastica italiana, specie quella più vicina al Pontefice, rasenta ormai un integrismo inaccettabile. Ammantato di «pluralismo» e retorica «teo-liberal». Prendete l’ultima intervista del cardinal Scola, Patriarca di Venezia, al Corsera. Vi si teorizza la distruzione integrale della scuola pubblica, in spregio del ruolo che la Costituzione assegna alla scuola e allo stato, e dell’obbligo fatto al secondo di promuovere la prima «in ogni ordine e grado». Il modello del Cardinale? Semplice: diffusione capillare della scuola privata contro la scuola unica pubblica. A carico dello stato però! Sia in termini di «accreditamento» che di « risorse». Dunque per Scola, tutto il bilancio pubblico scolastico va destinato alle private. Restando pubblici solo controlli e regole minime. Ebbene, nemmeno il neo-devoto Adornato s’era spinto a tanto. Nemmeno Buttiglione e Baget Bozzo. E il tutto con l’insensato argomento che «il meticciato» avrebbe bisogno di «autonomie e decentramento» (che ci sono a iosa!). Laddove è invece evidente che tante scuole per tante tribù esaltano il contrario del meticciato. E cioè la ridda dei fondamentalismi comunitari. Non basta. Perché richiesto sull’insegnamento religioso nelle scuole così concepite, Scola ribadisce pure che è impossibile rinunciare al cattolicesimo e all’ora di religione: per ovvii motivi di traditio religiosa... Morale, l’idea di Sua Eminenza è quella di un pluralismo privatistico tutto dentro Madre Chiesa: Extra Ecclesia Nulla salus. Allo stesso modo in cui il Lenin più liberale ammetteva la pluralità solo dentro il bolscevismo... E sulla stessa falsariga, già delineata da Benedetto XVI, in un indimenticabile dialogo con l’ex mangiapreti Pera. Lungo la quale il Papa si spingeva a sostenere (assurdamente) che il pluralismo Usa è tale soltanto entro la comune radice cristiana fatta di tante confessioni. E chiaro adesso cosa c’era dietro la polemica contro le mancate «radici cristiane» nella Costituzione europea? Null’altro che questo: Controriforma del terzo millennio. Più «spiriti animali» dell’economia, ovviamente. Un «addendo» che non guasta. Non inevitabile. Ma naturaliter compatibile con la scuola di Scola. E a meraviglia anzi.

aprileonline.info 19.7.06
Un inferno chiamato Poggioreale
Carceri. Un appello lanciato dai detenuti del penitenziario napoletano rilancia la necessità di un provveddimento di amnistia e indulto. La condizione dei reclusi è infatti disumana
di Patrizio Gonnella


Se non ora quando? Non è più il tempo di fare melina. L'Unione al governo deve dare prova di compattezza e civiltà nell'affrontare la questione penale e penitenziaria. Vorremmo che fra cinque anni di lettere-denuncia come quelle provenienti da Poggioreale non ce ne fossero più. Se non ora quando? La clemenza è un atto indefferibile per tornare nella legalità. Dopodichè si dovrà riformare l'intero sistema. Un indulto generalizzato di tre anni porterebbe finalmente il numero di detenuti al di sotto della capienza regolamentare. Se non ora quando? L'amministrazione rinnovata (si spera) delle carceri non deve consentire che avvengano storie come quelle raccontate dal di dentro del carcere napoletano. I diritti umani o sono universali o non sono nulla. Francesco Saverio Borrelli, in altra epoca, invocava pre tre volte la parola resistenza. Vorremmo che l'estate non trascorra nel segno della resistenza ma della fiducia, della giustizia e della clemenza.

Patrizio Gonnella - presidente di Antigone

Dobbiamo espiare, ma non siamo bestie
Noi detenuti di Poggioreale continuiamo lo sciopero pacifico per amnistia e indulto e per le condizioni in cui viviamo in questo stabilimento.
Noi sappiamo che dobbiamo espiare la nostra pena, ma non possiamo espiarla come bestie.
Chiediamo i nostri diritti:

1) in una stanza di capienza di quattro detenuti ce ne sono nove;
2) per ogni stanza non può segnarsi a visita medica più di un detenuto, se un altro detenuto sta male deve aspettare il giorno seguente;
3) se per caso viene il dottore non chiama tutte le visite mediche;
4) la mattina quando viene la conta e chiedi di segnarti a visita medica o modello 13, il brigadiere ci chiede cosa dobbiamo fare, noi vorremmo sapere se il brigadiere è anche dottore;
5) noi detenuti in fornitura per un mese abbiamo un litro di lisofer diluito con acqua, un rotolo di carta igienica per ogni detenuto, uno straccio per lavare il pavimento, lo spazzolone per lavare il pavimento non lo abbiamo mai ricevuto, dobbiamo usare la scopa per spazzare e lavare e, se ci sono scope, ci viene cambiata dopo circa 3 o 4 mesi;
6) le nostre famiglie con i nostri figli stanno ore intere ad aspettare per presentare i documenti per i colloqui, e questo vale anche se piove a dirotto, o se c’è il sole che non si può respirare all’ombra;
7) quando ci chiamano per fare il colloquio, aspettiamo sette giorni per un’ora di colloquio (ma in realtà taciamo per circa 45 minuti), siamo intasati come bestie nella stalla;
8) noi chiediamo di andare dal barbiere, ma ci viene imposto che deve andare un solo detenuto per ogni cella, se in cella ci sono nove detenuti, l’ultimo deve aspettare nove mesi prima che arrivi il suo turno, sempre se va tutto bene, perché a volte il barbiere non viene proprio;
9) quando scendiamo a passeggio dovremmo fare due ore di passeggio complessive, una al mattino e una pomeridiana, ma in realtà noi come passeggio facciamo solo 45 minuti per turno;
10) quando facciamo domanda per lo psicologo e l’educatrice non siamo mai chiamati;
11) quando andiamo in chiesa e, sarebbe la casa di Gesù, non si riesce a capire se coloro che portano la parola di Dio sono religiosi o sono guardie;
12) servizi igienici per modo di dire, perché di igienico non c’è niente, ci sono celle nelle quali il gabinetto non funziona e per lo sciacquone dobbiamo usare la bacinella;
13) non si può fare una doccia dopo cinque giorni stando in una cella in nove detenuti, perché ci sono solo 2 finestre ma una non si può aprire perché ci sono nove brande, non si respira per il caldo e vi lascio immaginare come si suda;
14) i medicinali dobbiamo comprarceli noi, se vogliamo stare un po’ meglio, poi gli infermieri mancano totalmente di professionalità, e non si capisce se sono guardie, guappi o infermieri;
15) le guardie quando fanno la perquisizione buttano i nostri indumenti come stracci per tutta la stanza, quando ci arriva il pacco del colloquio, non si sa se le nostre famiglie l’hanno trovato nella spazzatura;
16) ci sono tv che non funzionano, dovrebbero essere cambiate, ma ci chiedono di metterle fuori dalla cella, ma poi ci vorrebbe molto tempo per riaverla, ci sono stanze che hanno chiesto la sostituzione della tv da quattro mesi, ma non si è mai avuto risposta;
17) a volte non si riesce a dormire e vorresti guardare la tv, ma in realtà viene spenta a mezzanotte, mentre negli altri stabilimenti penali non viene spenta;
18) per quanto riguarda il vitto: il latte è diluito con l’acqua, per nove detenuti ci danno il vitto per cinque, esempio: in nove riceviamo per cena tre confezioni di sottilette e così ci hanno portato della mozzarella acida, noi l’abbiamo dovuta buttare via, e non abbiamo mangiato il secondo;
19) a passeggio sembra di essere nel deserto, non c’è acqua e il bagno non funziona. I materassi sono da vomito e scaduti, i cuscini mi sembrano cordoli di cemento, e c’è chi la biancheria la tiene nelle ceste della frutta. I termosifoni servono per arredamento, visto che d’inverno non si accendono quasi mai;
20) vi siete mai chiesti perché si uccidono tanti detenuti? Non credo, perché bisognerebbe stare in questo inferno per capirlo.
Noi possiamo dirvi che chi si uccide ha smesso di soffrire, perché viviamo da bestie. Sicuramente andremo in paradiso, visto che noi all’inferno già ci siamo, siamo a Poggioreale.

il manifesto 19.7.06
Giacomo Leopardi
Autoritratto menzognero in forma di lettera
di Ivan Tassi


Guardati, ti scongiuro dal lasciar trasparire che vi sia mistero nella mia mossa. Parla di freddo, di progetti, di fortuna, e simili...
Non credete a tutto ciò che dice la voce del poeta mentre si divincola nelle «Lettere», ora ripubblicate nel Meridiano Mondadori a cura di Rolando Damiani. Vigilano su di lui lo sguardo implacabile del padre, e la gelida tirannide della madre Chi dice io sembra indossare, missiva dopo missiva, una diversa maschera stilistica, che gli permette di trascinare la compassione del destinatario sulla sua lunghezza d'onda, costruendo un provvisorio teatro in cui figura nel ruolo dello sventurato eroe

Quando Giacomo Leopardi nel 1816, a diciotto anni, cominciò a inviare le sue prime lettere, non esitò a servirsi della comunicazione epistolare per guadagnarsi ripetuti attestati di riconoscimento presso l'attempata e sorda Repubblica dei Letterati d'Italia: ringraziò Francesco Cancellieri, erudito romano, per averlo menzionato nella sua Dissertazione intorno agli uomini dotati di gran memoria; confessò fin dall'inizio a Pietro Giordani - che allora gli appariva il più eccellente tra gli scrittori del tempo - il proprio «insolente e smodato desiderio di gloria»; tentò inoltre di immettersi, con alcuni articoli che non vennero presi in considerazione, nel dibattito sul classicismo e sulla poesia romantica; e mentre ad Antonio Fortunato Stella, suo futuro editore milanese, inviò con altrettanto scarso successo il Saggio sugli errori popolari degli antichi, ad alcuni possibili mecenati (Vincenzo Monti, Angelo Mai, Leonardo Trissino) dedicò tra il 1818 e il '24 le prime elaborate canzoni. Eppure, nel momento in cui l'amico Pietro Brighenti gli consigliò in quegli stessi anni di adottare strategie promozionali più efficaci, e di raggiungere un'immediata gloria pubblicando una raccolta di lettere, Leopardi rispose: «suol esser pericoloso il pubblicar le lettere troppo recenti, o a motivo delle persone che vi si nominano, o per altri rispetti».
Per quanti oggi si apprestano a riaprire le Lettere di Leopardi - pubblicate, a cura di Rolando Damiani, nella collana dei Meridiani Mondadori - un simile rifiuto potrebbe suonare come un campanello d'allarme, che invita a formulare da subito alcune domande cruciali: quali sono i supposti pericoli di cui ci ha parlato Leopardi? E come hanno agito sulla dinamica instaurata dallo scambio epistolare? E ancora: in che misura il loro minaccioso spettro è destinato a condizionare le nostre operazioni di lettura?
Capitoli di una crudele censura
C'è innanzitutto da considerare un problema di trasparenza. Diversamente dalle «lettere di oggi» - scriveva Virginia Woolf nel 1930 - le «lettere di un tempo» venivano elaborate «con tutte le arti del maestro scrivano», per «passare da una mano all'altra», «essere lette ad alta voce» e «infine riposte a futura testimonianza in qualche cofanetto di famiglia». Nel caso di Leopardi, però, l'atteggiamento della famiglia nei confronti delle lettere è tutt'altro che benevolo: coincide con la supervisione di un'accanita «polizia casalinga», pronta a sorvegliare le ansie di un giovane genio, a spiare clandestinamente - e, se necessario, a cestinare - ogni sua missiva troppo «liberale». Mi riferisco alla «censura domestica» che Leopardi denuncia in una lettera del 1819, e che - come ha fatto notare una volta Giorgio Manganelli, parlando del carteggio fra Giacomo e suo padre Monaldo - avvicina certe zone dell'epistolario a una garbata tragicommedia: da una parte, arroccato in un passatismo reazionario e vetusto, troneggia il tirannico Monaldo, ostile ai sistemi filosofici e letterari del figlio e capace - oltre che di alimentare i suoi sensi di colpa per gli spostamenti e le fughe da Recanati - di impedire o ritardare la pubblicazione dei suoi scritti più sconvenienti attraverso ingerenze nella corrispondenza, velate ingiunzioni e consigli di sottile e ricattatoria perfidia; dall'altra si annida Adelaide, gelida madre di Giacomo, che gli vieta di inviarle messaggi e si tramuta, per noi lettori, in un silenzioso, ferreo guardiano-tesoriere, deciso a vessare figli e marito pur di ostacolare contatti vitali, relazioni, viaggi, e tutto ciò che possa comportare sperperi e richieste di danaro.
Sotto lo sguardo implacabile di simili autorità, si divincola nelle Lettere la voce di Giacomo, che per tutta la vita si vede pedinato (anche a distanza) e costretto a utilizzare - direbbe Stendhal - «l'unica risorsa degli schiavi», la menzogna; e quando si accorge, nel 1822, che la sua corrispondenza, prima di essere consegnata, viene aperta e letta «in casa», si ingegna non soltanto a escogitare nomi fasulli, indirizzi immaginari e alternativi fermoposta per evitare le intercettazioni, ma riesce, in parallelo, a mettere a punto una sorta di linguaggio in codice, in grado di confondere, blandire o assecondare a bella posta le aspettative di eventuali intrusi, di alludere alla «realtà» senza pronunciarla in maniera diretta, per lasciarla trapelare sui moduli di una innocua, insospettabile lunghezza d'onda.
«Guardati, ti scongiuro» - scrive al fratello Carlo, ancora nel 1831, in procinto di fuggire a Napoli al seguito di Antonio Ranieri - «dal lasciar trasparire che vi sia mistero nella mia mossa. Parla di freddo, di progetti, di fortuna, e simili»: dietro il salvacondotto del freddo - e dei malanni che gli vengono associati in tante lettere - può allora agire l'arte di un'onesta dissimulazione, spesso adoperata come uno scudo, anche a salvaguardia del proprio lavoro letterario.
Primo avvertimento, dunque: non credere ciecamente a Leopardi quando promette - per esempio a Giordani, nel '17 - che tutte le sue «frasi», anche le «piccolissime», verranno «dal cuore». Soprattutto alle prese con le missive ai familiari bisognerà invece tener presente la maledizione di un'imperterrita, difensiva (auto)-censura. Per poi disporsi a rintracciare gli altri «pericoli», contro cui il resto dell'epistolario, col passare degli anni, si appresta a sferrare un potente contrattacco. Anche se, infatti, una lettera - come scriveva Denis Diderot, nel 1762, a Sophie de Volland - dovrebbe porgere al destinatario «una storia fedele della vita», un registro «esatto» di tutti i «movimenti del cuore», «ci vuole un bel coraggio per non nascondere niente». Nessun dubbio che in questo senso l'autobiografia in frammenti disseminata nelle Lettere avrebbe potuto costituire una sorta di baratto in perdita: di fronte ai lettori, Leopardi non poteva comportarsi come il venerato modello di Alfieri, che nella sua Vita regalava al pubblico le spettacolari gesta del poeta vate; e tantomeno come Goethe - citato in un messaggio del '26 - che con il memoriale Poesia e verità saldava il proprio io alla Storia in un affresco di pubblico interesse.
Tutto è insensataggine
Rispetto a modelli di tale levatura, «che cosa posso fare io» - sembra chiederci l'epistolografo Leopardi nel '19 - «non conosciuto da nessuno, vissuto sempre in un luogo che senza il Dizionario non sapresti dove sia messo»? C'era forse qualche ragione per cui i suoi eventuali ammiratori si appassionassero ai resoconti di un individuo «ingabbiato» in un «detestato soggiorno», nella «notte orribile» di Recanati, dove «tutto è morte, insensataggine, stupidità»? E quali sarebbero poi state le loro reazioni allo scoprire che il loro amato scrittore - una volta trasferitosi a Roma, Pisa, Bologna, Firenze, Napoli - continuava ad essere un «povero sepolto», sfigurato nel corpo e martirizzato dal pensiero, «stecchito e inaridito come una canna secca»: un uomo «piccolo», in fin dei conti, «proprio da nulla», al quale «fa nausea» rispecchiarsi sulla superficie autobiografica della scrittura epistolare?
Secondo (e ultimo) avvertimento allora: ogni singola lettera di Leopardi costituisce la trionfante rivalsa di un io che riesce a veicolare una «nera materia» attraverso un'abile manipolazione dei registri linguistici. Perché Leopardi - ce lo testimonia lo Zibaldone - sa benissimo che non è lecito «far pompa della propria infelicità», ma sa anche che la sofferenza, debitamente filtrata, può arrivare a rappresentare un innegabile blasone di grandezza. Non rinuncia allora a raccontare la propria disperazione ai corrispondenti: sintonizzandosi tuttavia sulla loro diversa frequenza, si preoccupa piuttosto di mantenere aperto il canale della comunicazione, prediligendo di volta in volta stilemi tali da garantire, al loro cospetto, l'epifania di una «spaventosa», «orrenda vita». E se a colloquio con gli intellettuali preferisce indossare le vesti retoriche del gentiluomo, e affidare i propri dolori ad architetture strutturali di elegante fattura, di fronte agli amici più intimi non esita a ridurre al minimo gli artifici, ricorrendo a espressioni addirittura brutali per descrivere i disagi della sgangherata «macchina» del suo corpo e le derisioni subite dal «gobbo de' Leopardi». Chi dice io, in ogni caso, sembra indossare, lettera dopo lettera, una differente e funzionale maschera stilistica, che gli permette di trascinare la compassione del destinatario su una comune lunghezza d'onda: costruisce, attraverso la pubblica scena del discorso epistolare, un provvisorio teatro, dove gli risulta possibile esercitare col beneplacito degli spettatori il ruolo dello sventurato eroe protagonista. Anche solo per sentirsi eventualmente rispondere con le nobili parole che Manzoni, nell'Adelchi, mette in bocca ad Anfrido: «Soffri e sii grande».
«Quando scrivete a qualcuno» - raccomandava del resto Madame de Merteuil, nelle Liaisons dangereuses - «è per lui e non per voi: dovete dunque cercare di dirgli meno quello che pensate voi, che quello che gli fa più piacere». Inutile specificare che le verità contenute nelle Lettere, modellate nel rispetto di questo fondamentale assioma, una volta riunite in volume avrebbero svelato le manovre di un abile attore, e gettato comunque sinistre ombre di discredito sull'antico casato dei Leopardi. E non si può che rimanere in parte stupiti quando Rolando Damiani, nella sua introduzione, ci chiede di lasciar da parte un simile deterrente alla divulgazione della raccolta, per esortarci a considerarla come «un libro romanzesco di genere autobiografico ed epistolare, che ha finito per sostituire il progetto di un vero e proprio romanzo».
Può darsi. A patto che il lettore si assuma la piena responsabilità dell'assemblaggio di quell'ipotetico romanzo, e non si comporti come se fosse stato Leopardi in persona a orchestrarne gli intrecci sulla scorta di una libera progettazione. Anche se la voce che ascoltiamo in una lettera - specificava Gorge Sand nel 1855 a proposito delle sue Lettres d'un voyageur - assomiglia a quella di un «eroe romanzesco», il circuito epistolare non è infatti soggetto alle rigide «regole dell'arte», e scatena anzi «impressioni e riflessioni più personali» rispetto a quelle dei romanzi. Altrimenti, ignorando gli spartiacque che separano vita e letteratura, finiremo per trascurare il fatto che le Lettere non sono governate dai meccanismi della pura fiction; e che le loro tonalità romanzesche, nel caso di Leopardi, non sono tanto da considerare come una spia di finzione, quanto come una delle svariate strategie utilizzate per sedurre e adescare i destinatari.
Una enigmatica eredità
Al di là degli espedienti romanzeschi - c'è piuttosto da chiedersi - le Lettere non racchiudono alcuna ulteriore attrattiva? Se proprio non si vogliono indagare come un calendario operativo, capace di far affiorare - assieme alla «noia» dell'esistenza - anche preziosi indizi in merito ai «maledetti studi» e alla gestazione delle opere di uno scrittore, si possono pur sempre affrontare come una sorta di garbata partita a scacchi fra Leopardi e i suoi corrispondenti.
Da questa edizione mancano purtroppo le mosse effettuate dagli altri partecipanti al gioco (ovvero le missive inviate in risposta al poeta), presente invece nella versione dell'Epistolario allestita, nel 1998, da Franco Brioschi e Patrizia Landi: ma un agile e esauriente commento si prende la briga di aprire uno spiraglio sui retroscena di ogni lettera, e di ricostruire le tensioni e i vettori del campo di forze in cui Leopardi, giorno dopo giorno, ha lottato per inserire il proprio frammentario autoritratto.
Quell'autoritratto, composto da un mosaico di lettere mai definitivamente assemblate, torna a ripresentarsi ai nostri occhi come un'enigmatica eredità: è, a suo modo, una sfida che ci impone di maneggiare e far interagire tasselli impuri, e come tali passibili, nella loro ambigua miscela, di essere messi ogni volta in discussione alla luce di sotterranee battaglie con l'indicibile. Dopo aver riconosciuto le regole del gioco, all'ultimo corrispondente di Leopardi - noi lettori - non resta che eseguire la propria mossa.

Edizioni
L'ultimo anello di una catena
Oltre ad aver scritto il saggio Leopardi e il principio di inutilità (Longo Editore, 2000) e la biografia All'apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi (Mondadori, 1998), Rolando Damiani ha curato, per i Meridiani Mondadori, il volume delle Prose di Leopardi, e il saggio biografico che accompagna le immagini dell'Album Leopardi. Sempre per i Meridiani, Damiani ha inoltre apprestato nel '97 una nuova edizione critica dello Zibaldone, in tre tomi, corredata di commento, che tuttavia contrae forti debiti con lo Zibaldone curato nel '91 da Giuseppe Pacella, per Garzanti, a seguito di un esemplare lavoro di esegesi filologica. Sommandosi alle Poesie (curate da Mario Andrea Rigoni), alle Prose e allo Zibaldone, le Lettere costituiscono dunque l'ultimo anello di una catena, e vanno a completare quello che pochi anni fa Lucio Felici prospettava come un possibile «corpus di riferimento»: un nuovo «tutto Leopardi», che si affianca all'edizione di Tutte le opere curata da Francesco Flora, per Mondadori, tra il 1937 e il 1949, o a quella curata da Walter Binni, nel 1969, per Sansoni.