sabato 24 aprile 2010

l’Unità 24.4.10
«Perché tanti giovani stanno con i Partigiani? Per fare vera politica»
Parla Chiara Gribaudo educatrice ventottenne di Borgo San Dalmazzo: «Con la Resistenza e la Costituzione si può ancora immaginare l’altra Italia»
Rifondare l’antifascismo «La nostra Carta è chiara: lì c’è il federalismo vero basato sulle autonomie comunali e c’è il ripudio della xenofobia attuale»
di Toni Jop

Sanno che non si può dare niente per scontato, che c’è bisogno della loro energia, che la vitalità è contagiosa come il credere insieme ai valori dell’antifascismo e della democrazia. Sono i giovani che «stanno» con i Partigiani, ragazze e ragazzi che hanno raccolto il testimone mai come ora preziosissimo per motivi anagrafici e per problemi politici dagli italiani che possono raccontare quello che hanno visto e vissuto durante il fascismo, la guerra e la lotta partigiana. Sanno che sono liberi di pensare e di muoversi perché prima di loro si è mobilitata una moltitudine a combattere per questo. È soprattutto loro questo 25 aprile. Perché contrastano l’arroganza (e il fascismo non più «velato») di chi vorrebbe cancellare la Festa della Liberazione con il silenzio, con l’imperio o con la forza del mercato. Rispondono allestendo stupefacenti iniziative solari e coinvolgenti, e persino commoventi. Come quella della Liberi Nantes, che farà tornare in vita il campo di calcio «XXV Aprile», fino a ieri abbandonato e lasciato alle intemperie. Chi sta coi Partigiani sa che la democrazia e l’antifascismo hanno bisogno di cure.❖

Parlano di secessione ma a Roma ci stanno comodi, parlano di territorio e democrazia,
ma per loro la soluzione è un nuovo statalismo centralista appeso a un leader che impone atti di fede e osservanza assoluta. Mistificano tutto, dalla storia al vocabolario. Sto nell’Anpi anche per trovare una casa che ospiti i valori su cui voglio fondare la mia esistenza». Chiara Gribaudo ha 28 anni, è nata, vive e lavora come educatrice precaria a Borgo San Dalmazzo, una decina di chilometri da Cuneo. Terra, a proposito, di buon vino e di partigiani. Chiara, che senso ha iscriversi all’Anpi alla tua età?
«Tu chiamale, se vuoi, tradizioni. Ecco, vengo da una realtà che si è conquistata una medaglia d’oro per ciò che ha fatto per salvare dallo sterminio molti ebrei. A Borgo c’era un campo si smistamento. Sono figli di questa terra Duccio Galimberti, Nuto Revelli, Giacosa, Mauri, Barbato».
Mai militato nelle file di un partito di sinistra? «Sì, ci ho provato. Sinistra giovanile, Ds, poi Pd. Ho fatto anche le primarie, ma mi sono sganciata. Mi ha respinto una fredda burocrazia, cercavo un caldo dibattito, ma non voglio sparare sulla sinistra, ha già abbastanza problemi per suo conto...»
Così, ti sei rifugiata nell’Anpi, delusa...
«Abbastanza. Nell’Associazione ho trovato quello che cercavo: lì sono custoditi tutti i valori in cui mi riconosco, dall’antifascismo alla Costituzione. È la Costituzione la cerniera che tiene assieme il nostro passato e il nostro presente. Attuare pienamente la Costituzione è già un grandioso programma politico, nella Carta ci sono tutte le risposte di cui la gente oggi ha bisogno. Non è un Vangelo, ma se si tocca lo si deve fare con immensa attenzione e sulla base di una coralità leale».
Questo vale anche per l’unità d’Italia?
«È stata la lotta partigiana che ha attualizzato il senso dell’unità del Paese. I partigiani combattevano contro fascisti, nazisti e invasori, sono morti per difendere l’integrità fisica e morale di un intero paese, né per il Nord, né per il Sud».
Cosa ti dice la parola «federalismo»?
«Penso faccia parte del mio bagaglio culturale se sta a indicare uno smistamento dei poteri verso il basso, in direzione di istituzioni molto rappresentative, come i comuni. Ma non credo che la Lega operi in questa direzione, le interessa rifondare il potere statuale su basi etniche, decisamente orribile e orribile la mistificazione cui fanno ricorso. Ma attenzione: non criminalizziamo tutti quelli che votano Lega. Non si identificano con Borghezio e nemmeno con la secessione. Il federalismo fiscale può essere utile se non è una mannaia contro i più deboli. L’Italia, ripeto, deve essere una comunità solidale stretta attorno alla Costituzione».
Speriamo. Ma oggi dobbiamo ben registrare una sorta di territorializzazione delle zolle politiche: a Nord la Lega, al centro il centrosinistra, a Sud...In mezzo c’è il presidente della Repubblica, delicato ago della bilancia... «Sì, un ago che, lo ammetto, potrebbe fare qualcosa di più in questa direzione. Intanto, converrebbe rifondare l’antifascismo; diciamo che l’antifascismo è il pilastro su cui riorganizzare moralmente il paese, togliendo terreno ai riscrittori della storia, come Pansa e soci. Siamo stati troppo tolleranti nei confronti di chi, come il premier, ha inteso sottrarsi a un principio politico comune a tutti i paesi occidentali. Bisogna inserire nella scuola lo studio di pagine non lontane della nostra vicenda collettiva. Sai come mi sono avvicinata all’Anpi? Ascoltando, alle superiori, i racconti di ex partigiani...». Scommetti su una identità italiana? «Sì, a patto che accetti di essere un’identità sempre in costruzione, multipla, fondata anche sulla relazione con gli ultimi arrivati».❖

il Fatto 24.4.10
Dal Cile al Belgio, i giorni neri del Vaticano
Nuove accuse contro alti prelati nello scandalo globale sulla pedofilia
Il vescovo di Bruges: “Ho abusato di un ragazzo”. Testimonianze sul religioso chiamato il “santo vivente” di Santiago

Quando ero ancora un semplice sacerdote, e per un certo tempo all’inizio del mio episcopato, ho abusato sessualmente di un giovane nell’ambiente a me vicino. La vittima ne è ancora segnata”. Comincia così la confessione di Roger Vangheluwe, vescovo di Bruges, che ha rassegnato le sue dimissioni dall’incarico episcopale, che il Papa ha prontamente accolto. Nel frattempo, si profila un nuovo scandalo, questa volta in Cile, dove Fernando Karadima, uno dei “prelati più influenti e rispettati” (come riferisce il New York Times) è stato denunciato da quattro uomini che lo hanno accusato di aver abusato di loro per vent’anni. Accuse che indignano i parrocchiani di Karadim, per i quali “il santo vivente”, come viene chiamato, “non avrebbe mai potuto abusare dei suoi fedeli”. Ma – scrive il Nyt – proprio questa settimana un cardinale cileno “ha confermato che la Chiesa locale ha investigato segretamente sulle segnalazioni”.
È davvero in crisi la Chiesa belga: chiamata ad un profondo rinnovamento da Benedetto XVI, che ha nominato primate André-Joseph Leonard (considerato conservatore), al posto del progressista (e arrivato a scadenza di mandato) Godfred Daneels, i belgi devono fare i conti con gli scheletri del passato. “Bisogna interrogarsi – ha detto ieri Leonard – sul modo in cui sono ammesse al sacramento dell’ordine le persone sulle quali ci sono dubbi sulla loro rettitudine”. Leonard ha anche fatto un appello alla diocesi perché “se qualcuno ha subito, nel suo passato, abusi sessuali, mai debba accettare ciò da un prete o da un vescovo”.
Le dimissioni di Vangheluwe avvengono dopo un lungo percorso del vescovo. “Nel corso degli ultimi decenni – dice il prelato – ho più volte riconosciuto la mia colpa nei confronti del giovane, come nei confronti della sua famiglia, e ho domandato perdono. Ma questo non lo ha pacificato. E neppure io lo sono. La tempesta mediatica di queste ultime settimane ha rafforzato il trauma. Non è più possibile continuare in questa situazione”. “È un giorno nero per la Chiesa belga”, chiosa il primate Leonard. “Nessuno – spiega – era al corrente del caso: la vicenda è stata una sorpresa anche per l’entourage del vescovo di Bruges”. Anche Daneels ha chiesto di partecipare a un incontro con le vittime. Il timore è che i casi nella chiesa belga siano molti altri. Leonard, da parte sua, ha la piena fiducia di Benedetto XVI. Non è detto che la stessa cosa sia riservata al cardinal Ossa, arcivescovo di Santiago, capitale del Cile, cheègiuntoall’incaricosotto il precedente pontificato di Giovanni Paolo II, il cui lustro è chiamato appare quanto mai diminuito alla luce delle rivelazioni che susseguono riguardo gli scandali di pedofilia. Si vedrà da come si svilupperà il caso Karadima. Una delle vittime del prelato chiamato in Cile “il santo vivente” James Hamilton, oggi 44enne ha raccontato all’Nyt di “aver ignorato all’inizio il prete mentre tentatva di baciarlo sulla bocca e di toccarlo. Fino a quando, durante un ritiro, Karadima diede un’ulteriore spinta al suo gioco sessuale”.
(A.Gagl.)

il Fatto 24.4.10
La mappa dei condannati di San Pietro
Dalle dimissioni alla cacciata, tutti gli uomini di chiesa che hanno pagato per gli abusi
di Andrea Gagliarducci

N on è possibile tracciare una mappa attendibile e precisa di quanti sono i sacerdoti che hanno effettivamente pagato per i aver effettuato o coperto i casi di pedofilia. L’unico modo è intrecciare articoli di giornale, archivi diocesani, sentenze di processi. E anche lì, qualcosa resta oscuro: che fine fanno i sacerdoti curati, dimessi dall’incarico o addirittura dimessi dallo stato laicale? A quel
punto, è molto difficile seguirne le tracce.
SACERDOTI COSTRETTI ALLE DIMISSIONI Il caso principe è quello di Francis Law, arcivescovo di Boston, che oggi è
arciprete a Roma nella Basilica di Santa Maria Maggiore. Travolto dallo scandalo (che dimostrò come il cardinale americano avesse coperto centinaia di casi di abusi, al limite trasferendo il sacerdote in un’altra diocesi), Law fu praticamente costretto a dare le dimissioni. Così come l’arcivescovo di Vienna Hermann Groer: accusato di molestie, è costretto a dimettersi nel 2005, ma solo tre anni dopo viene allontanato dalla diocesi di Vienna. Contro di lui, come contro Law, non si aprirà mai un processo canonico.
E sarebbero stati oltre 100 i sacerdoti costretti alle dimissioni negli Stati Uniti tra il 2002 e il 2003, dopo che era scoppiato lo scandalo pedofilia. La notizia venne riportata dal New York Times, ma è probabilmente parziale: l’inchiesta riguardava solo una quarantina di diocesi negli Usa, mentre in totale sono 194, quasi cinque volte in più di quelle prese in considerazione dal Nyt.
Ci sono anche casi di battaglie portate avanti direttamente dai vescovi: quello di Pittsburgh, Donald Wuerl, ne imbastì una contro Anthony Cipolla, sacerdote pedofilo: il vescovo lo sospese nell'88, il Vaticano lo ripristinò, e soltanto nel '95, dopo il ricorso di Wuerl, ne avallò la sospensione.
SACERDOTI CHE SI SONO DIMESSI PER LORO VOLONTÀ James Moriarty è il terzo vescovo d’Irlanda ad essersi dimesso spontaneamente dopo che erano state chiarite le sue responsabilità nel commettere abusi. Prima di lui, John Magee, vescovo di Cloyne, segretario di tre Papi, aveva per più di un anno usufruito di una strana soluzione: non amministrava la sua diocesi, ma ne era comunque il vescovo. Anche lui si è dimesso. E prima ancora si è dimesso Donal Murray, vescovo di Limerick. Fa parte dell’operazione purificazione voluta da Ratzinger il fatto che i vescovi si prendano le loro responsabilità. Non è sempre stato così: un’inchiesta del Dallas Morning Views, che ha monitorato un campione di 109 vescovi, ha stabilito che solo 11 si sono dimessi, mentre sono 41 quelli che sono semplicemente andati in pensione. Pochi di meno (39) stanno ancora gestendo la stessa diocesi.
DIMISSIONI ALLO STATO LAICALE È la massima punizione prevista dalla Chiesa. Un calcolo approssimativo stabilisce che – tra il 2001 e il 2010 – sono stati 600 i sacerdoti dimessi allo stato laicale, metà per decreto papale e metà per loro richiesta personale. È,
quest’ultimo, il caso di Stephen Kiesle, che – dopo aver passato tre anni in libertà vigilata per molestie a minori – nel 1985 chiese alla Congregazione della Dottrina della Fede (allora guidata da Ratzinger) le dimissioni allo stato laicale. Una richiesta sostenuta dalla diocesi. Dovette aspettare di compiere quarant’anni perché gli fosse concessa, secondo una consuetudine interna vaticana. Interessante notare come più della metà (325) dei sacerdoti accusati dimessi allo stato laicale siano statunitensi. L’ultimo caso di laicizzazione per abusi è quello di Dale J. Fushek, nella diocesi di Phoenix: il decreto è stato reso noto il 16 febbraio 2010. Si è trattata di una decisione – si legge nel comunicato della diocesi – presa direttamente da Papa Benedetto XVI.
PROCESSO CIVILE Ancora più difficile stabilire quanti casi di sacerdoti pedofili vadano effettivamente a processo. Le organizzazioni di vittime statunitensi (le più precise) hanno riferito di 37 casi arrivati a un processo civile: l’ultimo (marzo 2009) è quello a monsignor Herdigan, di Fresno (California). Il processo ha visto salire sul banco dei testimoni anche Mahony, ex vescovo di Los Angeles.

venerdì 23 aprile 2010

Agi.it 23.4.10
Terremoto: Settimanale "LEFT" su querela Prefetto L’Aquila
qui
http://www.agi.it/l-aquila/notizie/201004221529-cro-rt10216-terremoto_settimanale_left_su_querela_prefetto_l_aquila

l’Unità 23.4.10
Ratzinger chiamato in causa con Bertone e Sodano: hanno insabbiato
Lo scandalo travolge il tedesco Mixa e l’irlandese Moriarty
Vittima Usa denuncia il Papa Abusi, si dimettono due vescovi
Avvocato Usa attacca il Papa e i cardinali Sodano e Bertone per aver «insabbiato» le denunce contro preti pedofili. Si dimettono un presule in Irlanda e il vescovo di Augusta. Mea culpa della Chiesa d’Inghilterra e Galles.
di Roberto Monteforte

Papa Ratzinger, già prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’attuale segretario di Stato, cardinale Bertone e il suo predecessore, Angelo Sodano sono stati chiamati a rispondere per «frode e insabbiamento» davanti alla corte del tribunale di Milwaukee negli Usa. È l’avvocato delle vittime del clero pedofilo, Jeff Anderson che torna all’attacco contro la Santa Sede. L’accusa è di aver coperto le molestie sessuali di padre Lawrence Murphy, che avrebbe abusato di 200 ragazzini di una scuola per sordomuti. Questo è il terzo tentativo di chiamata in causa del Vaticano, del legale statunitense che denuncie analoghe, ancora pendenti, ha già avanzato davanti alle corti dell’Oregon e del Kentucky. L’avvocato Anderson è in possesso di lettere raccomandate della vittima al Vaticano in cui nel 1995 chiede aiuto per ridurre padre Murphy allo stato laicale. Anderson afferma che le lettere furono ricevute, ma rimasero senza risposta. Ora l’avvocato Anderson chiede che il Vaticano consegni le liste dei preti molestatori e i dossier segreti su tutti i casi di abuso da parte del clero. Contro la denuncia presentata in Oregon il Vaticano ha fatto ricorso alla Corte Suprema invocando l'immunità che spetta agli stati sovrani. Il giudizio è ancora sospeso.
Continuano le dimissioni di vescovi e le richieste di perdono alle vittime degli abusi. Il Papa ieri ha accolto le dimissioni del vescovo irlandese monsignor James Moriarty, portando così a tre il numero dei vescovi irlandesi che si sono dimessi a causa dello scandalo sugli abusi sessuali. Moriarty aveva presentato le sue dimissioni a dicembre, dopo un rapporto ufficiale che lo citava tra i prelati dell'arcidiocesi di Dublino che avevano coperto i casi degli abusi sessuali di preti su minori. Ieri monsignor Moriarty ha ammesso le sue responsabilità. «Avrei dovuto contrastare la cultura prevalente», ha detto. «Chiedo scusa a tutti i sopravvissuti e alle loro famiglie».
Dimissioni anche in Germania. Le ha presentate al pontefice il vescovo di Augusta, monsignor Walter Mixa, che ha ammesso dopo averlo negato di avere maltrattato bambini quando era sacerdote.
SI SCUSA LA CHIESA D’INGHILTERRA
Percorso di purificazione anche per la Chiesa d'Inghilterra e Galles. Ieri i vescovi cattolici hanno presentato le loro scuse ufficiali per lo scandalo degli abusi sui bambini, affermando che «non esistono scusanti» per quanto è accaduto. Il comunicato della conferenza episcopale inglese e gallese è stato presentato dall'arcivescovo di Westminster Vincent Nichols, che ne ha definito il contenuto «molto sentito» e «privo di ambiguità». Il testo, che verrà distribuito a tutte le diocesi in Inghilterra e Galles, afferma che i sacerdoti che si sono macchiati degli abusi hanno «gettato nella vergogna più profonda tutta la Chiesa». E prosegue: «Questi crimini terribili e la risposta inadeguata di alcuni leader ecclesiastici, addolorano tutti noi». I vescovi chiedono perdono alle vittime e «a chi si è sentito ignorato, non creduto o tradito» e sottolineano il dovere della Chiesa di evitare che gli stessi errori vengano ripetuti. «Le procedure che ora esistono nei nostri Paesi evidenziano ciò che si sarebbe dovuto fare subito. La piena cooperazione con gli organi competenti è essenziale».

l’Unità 23.4.10
La scienza di Ipazia e la violenza cristiana
Il film di Amenabar sulla filosofa del IV secolo trucidata da San Cirillo Non è Hollywood: è uno splendido affresco sull’intolleranza religiosa
di Alberto Crespi

Non capitava da secoli. Si è parlato molto, in questi giorni, di Ipazia: filosofa e matematica, nonché donna attiva in politica nell’Egitto del IV secolo dopo Cristo provincia romana che, prima dell’Impero, era stata non a caso governata da una donna, Cleopatra. La memoria di Ipazia è da sempre parte integrante del «pantheon» femminista, ma stavolta il motivo scatenante è un film: Agorà, fuori concorso a Cannes 2009, solo ora sugli schermi italiani. E se da un lato il dibattito filosofico e scientifico ferve, dall’altro l’uscita del film è accompagnata da un assordante silenzio della Chiesa, che ha deciso di boicottare Agorà sui suoi mezzi di comunicazione.
Bisogna capirli, poveretti: hanno già troppi problemi, di questi tempi, per commentare un film che per altro racconta un’incontrovertibile verità storica. Ipazia, «pagana» non convertita, fu uccisa dai parabolani, la guardia armata del vescovo Cirillo. Costui, poi fatto santo e tutt’ora venerato come tale, era uno spietato uomo di potere i cui sgherri ammazzavano allegramente tutti coloro che rifiutavano di adeguarsi ai nuovi costumi. Nel film, i parabolani ricordano i talebani, e possiamo capire che per la Chiesa avere simili criminali fra i propri «padri» sia fonte d’imbarazzo.
ORBITE ELLITTICHE
Il film di Alejandro Amenabar (The Others, Il mare dentro) è molto bello. È un raro esempio di film spettacolare e speculativo al tempo stesso. Non date retta a chi lo liquida come un prodotto hollywoodiano: non lo è. Ipazia è interpretata dall’inglese Rachel Weisz, figlia di genitori austro-ungheresi, e la produzione è quasi totalmente spagnola. Negli Usa, per la cronaca, non è nemmeno uscito. Lavorando sulle immagini ricorrenti del cerchio e dell’ellissi (Ipazia potrebbe aver intuito, qualche secolo prima di Keplero, le orbite ellittiche dei pianeti), Amenabar realizza una «falsa biografia» di un’eroina sulla cui vita ben poco sappiamo. Più che di Ipazia, Agorà parla di un’epoca in cui le religioni si combattono con violenza per assicurarsi il dominio sulle menti dei semplici. Ipazia non era una donna semplice. Vedere il film significa aiutarla, ancora oggi, nella sua lotta per la ragione.

Un aggiornamento: gli articoli usciti su Agorà dal 16 al 22 aprile
Mario Cirillo
Ipazia Immaginepensiero
16 aprile
Amenabar su Ansa http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cinema/2010/04/16/visualizza_new.html_1763470646.html

17 aprile
Aldo Lastella su Repubblica http://lastella.blogautore.repubblica.it/2010/04/17/
Tiziana Attili su Agoravox http://www.agoravox.it/Agora-e-Ipatia-la-grande-filosofa.html


18 aprile
Claudia Fiume su Newnotizie http://www.newnotizie.it/2010/04/18/agora-ipazia-il-film-che-litalia-finalmente-vedra/

19 aprile
Il silenzio della chiesa su Ansa http://sphotos.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-ash1/hs471.ash1/25822_118954021449590_100000049773227_300576_1285116_n.jpg
Agorà Ansa http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cinema/2010/04/19/visualizza_new.html_1764389552.html
Il Secolo XIX http://ilsecoloxix.ilsole24ore.com/p/spettacolo/2010/04/19/AMm6sjcD-cattolici_ipazia_amenabar.shtml
Davide Monastra su Eco del Cinema http://www.ecodelcinema.com/agora-amenabar-a-roma-racconta-la-sua-idea-di-cristianita.htm

20 aprile
Maria Pia Fusco su La Repubblica http://sphotos.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-ash1/hs436.ash1/24102_414709111807_605131807_5419781_5991188_n.jpg
Leonardo Jattarelli su Il Messaggero http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=98782&sez=HOME_CINEMA
Giulia Battafarano su Panorama http://blog.panorama.it/culturaesocieta/2010/04/20/rachel-weisz-dalla-filosofa-ipazia-di-agora-a-jackie-kennedy/
Oscar Cosulich su Il Mattino http://sphotos.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-snc3/hs376.snc3/24102_414714961807_605131807_5419918_5708958_n.jpg
Agorà su Genovapress http://www.genovapress.com/index.php/content/view/36764/46/
Agorà a Milano su C6 TV http://www.c6.tv/archivio?task=view&id=8933
Cinzia Romani su Il Giornale http://www.ilgiornale.it/spettacoli/il_mio_film_attacca_intolleranze_passato/20-04-2010/articolo-id=439002-page=0-comments=1
Paola Azzolini su Il Giornale di Vicenza http://www.ilgiornaledivicenza.it/stories/Cultura%20&%20Spettacoli/144941_martirio_da_laica_per_ipazia/
Achille Della Ragione su Napoli.com http://www.napoli.com/viewarticolo.php?articolo=33804

21 aprile
Armando Besio su La Repubblica http://sphotos.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-snc3/hs396.snc3/24102_414712096807_605131807_5419899_6820372_n.jpg
Franco Cardini su Panorama http://blog.panorama.it/culturaesocieta/2010/04/21/il-film-%C2%ABagora%C2%BB-di-alejandro-amenabar-autocritica-in-nome-di-dio/
Sergio Frigo su Il Gazzettino http://www.gazzettino.it/articolo.php?id=98878&sez=CINEMA
Clauda Costa su l'Essenziale http://www.essenzialeonline.it/cinema/Esce-in-sala-Agor-di-Amenabar_14443.html

22 aprile
Federico Orlando su Europa Quotidiano http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/117981/da_agora_a_ronconi_di_conformismo_si_muore
Laura Frigerio su Milano Web http://www.milanoweb.com/notizie/cinema-e-spettacolo/8673_-agora-la-vera-storia-di-ipazia-di-alessandria
Agorà su Liguria oggi http://www.liguriaoggi.it/2010/04/22/genova-presentato-il-film-agora-di-alejandro-abenabar/


l’Unità 23.4.10
Il cosmo rivelato dagli scrittori
Filosofia naturale Una «ininterrotta linea galileiana» da Dante all’Ariosto, da Leopardi a Calvino, fino a Gadda... I poeti sono strumenti di diffusione democratica del sapere. Ci spiega il perché un saggio del filosofo Mario Porro
di Pietro greco, Gaspare Polizzi

Se avesse scritto il suo saggio per la Letteratura italiana diretta da Asor Rosa per Einaudi – ricorda Mario Porro nel suo Letteratura come filosofia naturale (Medusa, Milano 2009) – Calvino lo avrebbe intitolato La letteratura e la filosofia naturale, e in un saggio del 1969 definiva Gadda l’ultimo «filosofo naturale». L’espressione per molto tempo è stata sinonimo di «scienza»: Newton scrisse i Principi matematici della filosofia naturale e ancora nel 1970 Monod sottotitolava la sua opera più nota – Il caso e la necessità – Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea. Ma la corrispondenza tra letteratura e «filosofia naturale» apparve allora, e lo è ancor oggi, provocatoria, forse soltanto perché molti «intellettuali» trascurano di guardare alla dimensione «naturale» presente in ogni narrazione.
Basterebbe ricordare come il rapporto tra cosmologia e letteratura permetta di ricostruire – è ancora Calvino che scrive – «una ininterrotta linea galileiana», che si estende da Dante ad Ariosto, Galileo, Leopardi e Calvino stesso, tutti scrittori cosmici e «lunari».
LUCREZIO
Dante è, con Lucrezio, il «poeta della scienza». Perché nella sua Commedia riesce a raccontare, come Lucrezio, tutta la scienza e tutto il dibattito scientifico del suo tempo. Un esempio per tutti: nel secondo Canto nel Paradiso ci sono tutte le conoscenze del tempo sulla Luna e sulla sua natura. Il Paradiso stesso è un compendio della cosmologia di Aristotele. Ma Dante è anche il primo e il più potente teorico di quel ménage a trois tra letteratura, filosofia e scienza di cui parla Calvino. E basta leggere il Convivio per rendersene conto. La conoscenza, inclusa la conoscenza della natura, spiega Dante, è l’aspirazione più nobile della natura umana: quella, razionale e angelica, che rende l’uomo simile a Dio. Purtroppo molte ragioni impediscono all’uomo di indossare «l’abito di scienza». La letteratura e, in particolare la poesia, sono strumenti utili a coloro che sono impediti se non proprio di sedersi al tavolo degli angeli, almeno di gustare le briciole del pane della scienza che vi viene spezzato. Il poeta, dunque, è strumento di diffusione democratica del sapere.
Anche Galileo si porrà il tema della diffusione della scienza – della filosofia naturale – tra il pubblico dei non esperti. E soprattutto dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius, il 12 marzo 1610, svilupperà la sua pericolosa idea: «comunicare tutto a tutti». Perché intuisce che o la filosofia naturale diventerà patrimonio di quell’opinione pubblica che proprio nel Seicento inizia a nascere o rischierà di perdere la sua partita.
Galileo ha un legame molto stretto – da autentico studioso, da critico direbbe Panofsky – con Dante e con Ariosto. Peraltro anche il legame tra Galileo, Leopardi e Calvino è intrigante: Calvino esalta la dimensione cosmica e «lunare» di Leopardi, confessando ad Antonio Prete (1984) che le Operette morali «sono il libro da cui deriva tutto quello che scrivo» (e pensava alle Cosmicomiche), ma impara anche da Leopardi a scegliere tra i passi galileiani, come avviene con il saggio Le livre de la nature chez Galilée (1985), nel quale alcune scelte corrispondono a quelle di Leopardi nella Crestomazia della prosa (1827), la prima antologia letteraria italiana, contenente a sua volta la prima antologia di prose di Galilei.
Per Calvino «l’opera letteraria come mappa del mondo dello scibile» è «una vocazione profonda della letteratura italiana», effetto di «una spinta conoscitiva che è ora teologica ora speculativa ora stregonesca ora enciclopedica ora di filosofia naturale ora di osservazione trasfigurante e visionaria» (1968). Ma non si tratta di una vocazione solo italiana. Lo dimostra il prezioso Piccolo atlante celeste. Racconti di astronomia, curato da Giangiacomo Gandolfi e Stefano Sandrelli (Einaudi, Torino 2009), che ci conduce alle più diverse forme di narrazione cosmica, dall’Atlante celeste al Sentimento del cielo, alle figure di Astronomi e ai racconti di Cosmologie, in compagnia di Asimov, Bellamy, Bradbury, Collins, Cortázar, Daudet, Høeg, Lem, Munro, Queneau, Stifter, Theuriet, Updike, Vukcevich, Wells (per citare soltanto gli stranieri), «un piccolo atlante per orientarci negli abissi dello spazio, in bilico tra finta scienza, vera scienza, delicate emozioni, artificio poetico, conquista tecnologica e inventiva luddista» (p. VIII), nella convinzione che ciò che accomuna scienza e letteratura è «cercare la misura dell’uomo», «adagiare su un foglio l’incommensurabile», «guardare in faccia il mondo» (p. XIV).
GADDA E LEIBNIZ
Ma la «filosofia naturale» è ancora più ampiamente letteraria nelle grandi narrazioni, nel grand récit (proposto da Michel Serres), che ha da sempre convissuto con la scienza, bisognosa, quando esce dal formalismo algoritmico, di ricorrere al pensiero figurale, all’analogia e alla metafora. E lo dimostra bene ancora Porro seguendo Gadda nel suo pensiero della complessità, modellato su Leibniz e illuminato dalla teoria dei sistemi e dalla cibernetica, o Primo Levi nel suo materialismo chimico.
Abbiamo bisogno di nuove mitografie, per comprendere meglio qual è il nostro posto nella natura e per cancellare il mito di una scienza esente dal mito. E la letteratura ha visto bene come le costanti mitiche irrorano la conoscenza e la scienza, come l’immaginario viene sempre rinnovato e rimodellato dai nuovi spazi aperti dalla «filosofia naturale».
A sessant’anni dalla scoperta del laser, sarebbe curioso leggere nuove «osmicomiche», che narrino ad esempio la vicenda della valigia coperta di specchi speciali, depositata sulla superficie della Luna da Amstrong e Aldrin il 20 luglio 1969, e che ancora riflette i raggi laser lanciati dalla Terra per misurarne la distanza al centimetro.

il Fatto 23.4.10
La Sindone
Dialogotra ateo e cristiano
Su MicroMega le tesi di Odifreddi e don Ghiberti su falso storico e simbolo della fede

Caro don Ghiberti, propongo di iniziare questo nostro scambio sulla Sindone partendo da lontano: cioè, dal tempo in cui conosciamo la sua esistenza. Che, comunque, non è così lontano quanto quello al quale vorrebbero risalire coloro che la ritengono autentica.
Mi permetto di ricordare, che la conquista di Costantinopoli del 1204 rivelò all’Occidente la cornucopia di reliquie conservate nei santuari di Bisanzio. Comprate o trafugate dai Crociati, in breve tempo esse andarono ad arricchire il patrimonio di meraviglie sacre conservate nelle chiese medievali, per l’elevazione spirituale dei fedeli e materiale del clero, e furono sbeffeggiate dal Belli nel sonetto La mostra de l’erliquie.
[...] Benché alcune di queste reliquie siano (state) conservate nelle basiliche più sacre della cristianità, da Santa Maria Maggiore a San Giovanni in Laterano, chiunque argomentasse seriamente oggi a favore della loro attendibilità storica verrebbe quasi sempre preso per matto. Quasi, ma non sempre, almeno a giudicare dai milioni di fedeli che accorrono a Torino a vedere la Sindone. O meglio, una delle quarantatré sindoni di cui si ha notizia: alcune con immagini, altre no. Molte andate distrutte da incendi e, come già ironizzava Calvino, prontamente rimpiazzate. Una, quella “miracolosa” di Besançon, distrutta per ordine del Comitato di salute pubblica durante la Convenzione nazionale della Rivoluzione francese.
LA PRIMA APPARIZIONE
La Sindone di Torino, un telo di lino di circa quattro metri per uno, apparve per la prima volta nel 1353 presso Troyes, nel cuore della regione di Chartres e Reims, famose per le loro cattedrali. Il telo reca una doppia immagine, fronte e retro, di un cadavere nudo, rappresentato secondo i canoni e le proporzioni dell’arte gotica dell’epoca: figura rigidamente verticale, gambe e piedi paralleli, tratti del viso più caratterizzati di quelli del corpo. La presenza di segni di ferite in perfetto accordo con il racconto evangelico della passione poteva far supporre che quella fosse un’immagine impressa dal corpo di Cristo sepolto, stranamente mai menzionata nei testi sacri, né rappresentata iconograficamente nel Primo millennio.
Nel 1389 il vescovo di Troyes inviò però un memoriale al Papa, dichiarando che il telo era stato “artificiosamente dipinto in modo ingegnoso”, e che “fu provato anche dall’artefice che lo aveva dipinto che esso era fatto per opera umana, non miracolosamente prodotto”. Nel 1390 Clemente VII emanò di conseguenza quattro bolle, con le quali permetteva l’ostensione ma ordinava di “dire ad alta voce, per far cessare ogni frode, che la suddetta raffigurazione o rappresentazione non è il vero Sudario del Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o tavola fatta a raffigurazione o imitazione del Sudario”.
Alla testimonianza storica del Pontefice di allora, evidentemente diverso dai suoi successori di oggi, possiamo ormai aggiungere la conferma scientifica della datazione al radiocarbonio effettuata nel 1988 da tre laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo, su incarico della diocesi di Torino e del Vaticano: la data di confezione della tela si situa tra il 1260 e il 1390, e l’immagine non può dunque essere anteriore.
Stabilito che la Sindone è un artefatto, rimane da scoprire come sia stata confezionata. L’immagine è indelebile, essendo sopravvissuta sia a ripetute immersioni in olio bollente e liscivia effettuate nel 1503 in occasione di un incontro tra l’arciduca Filippo il Bello con Margherita d’Austria, sia al calore di un incendio del 1532, che la danneggiò in più punti. Inoltre, è negativa (le parti in rilievo sono scure, quelle rientranti chiare), unidirezionale (il colore non è spalmato), tridimensionale (l’intensità dipende dalla distanza tra la tela e la parte rappresentata), e ottenuta per disidratazione e ossidazione delle fibre.
Siamo dunque di fronte non a una pittura ma a un’impronta, che certo non può essere stata lasciata da un cadavere. Dal punto di vista anatomico, infatti, le immagini frontale e dorsale non hanno la stessa lunghezza (differiscono di quattro centimetri), ma hanno la stessa intensità, benché il peso avrebbe dovuto essere tutto scaricato sul retro. L’avambraccio destro è più lungo del sinistro. Le braccia sono piegate, ma le mani ricoprono il pube, il che richiederebbe una tensione delle braccia o una legatura delle mani. Le dita sono sproporzionate, e l’indice e il medio sono uguali. Posteriormente si vede l’impronta del piede destro, benché le gambe siano allungate. Dal punto di vista geometrico, l’impronta stereografica lasciata da un corpo o da una statua sarebbe distorta e deformata, soprattutto nella faccia: esattamente come accade per la famosa “maschera di Agamennone”, che è distorta proprio perché aderiva al volto del defunto, e contrasta apertamente con la raffigurazione veristica della Sindone. Solo un bassorilievo di poca profondità può lasciare un’impronta simile.[...]
Fantasia e Ragione.
A ciascuno dei fatti oggettivi che ho esposto è naturalmente possibile opporre opinioni soggettive, invocanti cause naturali o soprannaturali, nel tentativo di ricondurre la ragione alla fede. La più fantasiosa fra quelle avanzate, tra pollini e monetine, è certamente l’ipotesi che imprecisati fenomeni nucleari avvenuti all’atto della resurrezione atomica di Cristo abbiano modificato la struttura del telo, cospirando a falsarne la datazione in modo da farla coincidere proprio con il periodo della sua apparizione storica. Evidentemente, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Coloro che invece hanno orecchie per intendere, intendono che il fatto miracolo-
so non sussiste. Per me, dunque, il caso è chiuso. Ma sono curioso di conoscere la sua opinione sull’argomento: quello oggettivo che ci presenta la Sindone, ma anche quello soggettivo che ho esposto io.
Piergiorgio Odifreddi

Caro professor Odifreddi, vedo che siamo ambedue nativi della provincia di Cuneo e questo mi dà gioia e mi provoca simpatia. I cuneesi sono “quelli del gozzo” (quante bisticciate da ragazzo con quelli della provincia di Torino), ma anche se non si fanno tanti complimenti, per lo più finiscono per capirsi. [...] A me sembra innegabile che l’immagine presente sulla Sindone raffiguri un uomo morto a causa della tortura della crocifissione. Lei ha enumerato parecchie anomalie presenti nella figura sindonica, ma queste aumentano la stranezza misteriosa del reperto, senza però impedire la constatazione di fondo che dicevo: immagine di un uomo morto per crocifissione. La reazione di chi guarda questa immagine può essere varia: una persona con un po’ di cuore sente compassione per tanta sofferenza e indignazione per quella dimostrazione di crudeltà raffinata; sorge intanto la curiosità di capirci qualcosa. Chi ha un po’ di conoscenza della vicenda di Gesù di Nazareth si rende facilmente conto della corrispondenza che passa tra la vicenda dell’uomo della Sindone e quella che ha portato Gesù alla morte: glielo dice una tradizione di devozione, ma soprattutto ne ha conferma da quel poco o tanto che conosce dei racconti evangelici della passione di Gesù. A questo punto, se chi guarda ha la fede, nasce un sentimento spontaneo di interesse affettuoso per un oggetto testimone di un evento tanto importante per la sua vita.
Mi sembra che questo sentimento sia di natura prescientifica, perché viene prima che siano state poste e affrontate tutte le domande che il reperto suggerisce. Queste domande sorgono ben presto e io che guardo ci vado dietro con molto interesse, ma non mi sento condizionato dalle risposte che posso udire, perché la funzione di segno comunque è svolta da quell’oggetto, qualunque cosa possa pensare della datazione della sua origine e della modalità di formazione della sua immagine (che sono poi le due domande fondamentali provocate da quel reperto).
DEVOZIONE E DISTRUZIONE
Penso che questa lettura sia determinante, perché relativizza non solo la scienza ma la Sindone stessa: il suo interesse fondamentale consiste nell’essere un segno e questo funziona indipendentemente dalla consistenza della sua natura (la scritta “senso unico” ha la stessa forza di segno sia che la trovi incisa su una lastra di metallo prezioso sia che l’abbiano stampata su cartongesso). La povertà di certezze è la forza della Sindone, e a me personalmente la rende anche cara. Partendo da questa lettura delle cose, non mi sento condizionato al discorso dell’autenticità. C’è chi dice: per continuare a proporre la devozione alla Sindone, la Chiesa deve decidersi a definirne l’autenticità; e c’è chi dice: l’autenticità è del tutto esclusa e quindi la Sindone deve essere eliminata. Non condivido nessuno dei due presupposti: che sia stata detta l’ultima parola sull’autenticità oppure che siano state portate prove definitive della non autenticità; e comunque non mi sento condizionato né dall’uno né dall’altro, perché nel primo caso comunque non avrebbe senso parlare di definizione (la Sindone non è un articolo di fede) e nel secondo caso resterebbe immutata la sua efficacia di segno.
Il discorso a questo punto è tutt’altro che finito, ma può svolgersi in uno stato d’animo sereno. M’interessa molto sapere se questo lenzuolo ha veramente avvolto il cadavere di Gesù.
[...] Certo è la causa di Gesù che viene in gioco con la Sindone. Se non fosse così, i misteri che essa porta in sé interesserebbero sì gli scienziati, ma verrebbero discussi in un loro gremio ristretto, se ne scriverebbe su qualche rivista letta da una dozzina di lettori, e tutto finirebbe lì. Certo la Chiesa ha la sua parte in questa proposta devozionale, ma credo proprio di poter dire – dall’esperienza delle tre ostensioni di cui ho avuto una
particolare responsabilità – che il tono apologetico è stato evitato il più possibile, a costo anche di essere decisi nel determinare un orientamento corrispondente a chi avesse voluto pronunciamenti impropri.
Ognuno ha il suo modo di sentire, ma l’impostazione fondamentale ha cercato di essere coerente e ha avuto la gioia di sentirsi confermata dell’insegnamento del Papa, quando venne in pellegrinaggio nel 1998. Per conto nostro si ripeteva spesso che la Sindone non ha bisogno delle nostre esagerazioni; ciò che conta è l’attenzione e la disponibilità di vita di fronte al suo messaggio.
Giuseppe Ghiberti

il Fatto 23.4.10
La proprietà e la Carta
Come si conciliano le indicazioni della Costituzione con il “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” su cui si fonda l’Europa?
di Lorenza Carlassare

La nostra Costituzione è il “risultato della confluenza dell’ideologia socialista e di quella cristiano sociale con quella liberale classica” (Bobbio). Lo si vede in particolare nel titolo III che, dopo le norme a protezione dei lavoratori (artt. 35-40), tutela la libertà economica: all’affermazione di un diritto e di una libertà segue subito l’indicazione di limiti e fini: “L’iniziativa economica privata è libera”, ma non può svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e l’attività economica può essere indirizzata “a fini sociali” (art. 41). Della proprietà privata “riconosciuta e garantita dalla legge” (art. 42) la legge stessa può determinare i modi d’acquisto, di godimento e i limiti “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Lo schema è costante; anche alla proprietà terriera privata (art. 44) la legge “impone obblighi e vincoli” al fine di “conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali”, fissa “limiti alla sua estensione... promuove e impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive, aiuta la piccola e media proprietà”. L’obiettivo di fondo non è eliminare l’iniziativa economica e proprietà privata – costituzionalmente riconosciute e come tutti i diritti (a partire dall’art. 13) limitabili soltanto con legge del Parlamento – ma renderle “accessibili a tutti” (l’art. 42 riecheggia la Rerum Novarum). Un pensiero unitario domina la Costituzione economica: allargamento del numero dei proprietari, difesa della funzione sociale della proprietà e dell’attività economica. Non par dubbio che la dottrina sociale cattolica abbia esercitato un influsso preminente: il programma economico sociale della Costituzione, se realizzato, non porterebbe infatti a una società socialista con un’economia diretta dallo Stato, e neppure a una società dominata dalle grandi imprese private, ma ad una società dove la proprietà è diffusa e non concentrata. Gli articoli successivi ne sono la riprova: la Repubblica promuove la cooperazione a carattere di mutualità e lo sviluppo dell’artigianato (art. 45), riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende “nei modi e limiti stabiliti dalla legge” (art. 46), incoraggia e tutela il risparmio favorendone l’accesso “alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese” e, a tali fini “disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito” (art. 47). Norma quanto mai opportuna, visto le recenti ‘gesta’ delle istituzioni bancarie e il poco o nullo rispetto per i risparmiatori!
Dagli atti dell’Assemblea costituente risulta chiaro come tutti, al di là delle differenti visioni dell’economia, dai comunisti ai democristiani ai liberali fossero concordi nella lotta alle “concentrazioni monopolistiche”. Alle parole di Togliatti e Fanfani si aggiungono quelle di Einaudi, economista liberale, per il quale i monopoli sono “il male più profondo”, “il danno supremo dell’economia moderna”, “vera fonte della disuguaglianza, vera fonte della diminuzione dei beni prodotti, vera fonte della disoccupazione delle masse operaie”. In questo clima fu approvato l’art. 43: “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, agli enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie d’imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano preminente interesse generale”. Due le condizioni, dunque, perché le imprese possano essere espropriate: che “abbiano preminente interesse generale”; che siano relative “a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia o a situazioni di monopolio”. La previsione di forme autoritative d’intervento pubblico ha quindi carattere eccezionale, la Costituzione non ha inteso incamminarsi sulla strada del collettivismo. Tuttavia il comma 3 dell’art. 41 “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” implica, almeno, un indirizzo di politica economica che tenga conto dei fini sociali.
Come si conciliano le indicazioni della Costituzione col “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” su cui si fonda l’Europa? Molto ne hanno discusso giuristi ed economisti. L’opinione che non siano incompatibili parte dalla libertà d’iniziativa economica che, data la pluralità e coesistenza di più soggetti che ne usufruiscono, è legata al principio della libera concorrenza , a un mercato “regolato” (come vuole l’Europa) da una disciplina antitrust. Una disciplina “che predetermini le regole del gioco valide per tutti”, assicurando la libera esplicazione su un piano di parità delle capacità imprenditoriali di tutti gli operatori: “La libertà di pochi è potere, non libertà” dice Alessandro Pace. Del resto una disciplina antimonopolistica è già implicita nell’intento di evitare il rischio di monopoli espresso alla Costituente da tutte le parti politiche e formalizzato nell’art. 43. Un mercato ‘regolato’, una libera concorrenza che non incida però su altri interessi primari tutelati dallo stesso art. 41 che fonda la libertà economica. Negli ultimi decenni l’idea del primato dell’economia sulla politica ha inciso sul nostro sistema mettendo in ombra valori essenziali. L’alternativa (scrive Natalino Irti) è tra “ordine giuridico del mercato e mercato degli ordini giuridici” dove gli Stati, in concorrenza, offrono alle imprese benefici e immunità per attirare gli affari entro le rispettive sfere anziché rivendicare il primato delle decisioni politico-giuridiche e assumere il governo dell’economia.

giovedì 22 aprile 2010

Repubblica 16.4.10
Il congresso si svolge a bordo di una nave, da Savona a Palma di Maiorca
E ora la psicanalisi se ne va in crociera
di Luciana Sica

Umberto Galimberti: "Sembra un viaggio in quella terra confusa che oggi è la psicoterapia, in balìa dell´instabilità di cui il mare è una bella metafora"

Il nostro mare affettivo: la psicoterapia come viaggio»: titolo brillante per un congresso. Tanto più se si tiene in crociera. E parlare degli itinerari dell´anima e nel frattempo andare per mare sarà anche vista come un´idea mediatica, ma non sembra neppure così malvagia. Perché l´impressione è un´altra, se diversi terapeuti escono da cenacoli ristretti, e si mostrano per quello che sono: "veri" e variamente attrezzati ad affrontare il dolore, senza disdegnare la dimensione del piacere. È su una nave - da oggi a martedì prossimo - che la Federazione italiana delle associazioni di psicoterapia ha scelto di tenere il quarto appuntamento congressuale. Salpa da Savona, per attraccare a Barcellona, Palma di Maiorca, Ajaccio: alla fine le adesioni sono state circa 400 (familiari compresi).
L´idea è venuta alla presidente della Federazione, Patrizia Moselli, che difende la metafora legata al mare, assai più del possibile effetto di risonanza che neppure la fa inorridire: «Il viaggio rappresenta il "percorso" della psicoterapia, un´avventura interiore dalle rotte imprevedibili, l´apertura di nuovi orizzonti mentali». Nessun sopracciglio sollevato, nessun timore di facili battute? No, dice la Moselli: «La nostra è un´associazione di associazioni, con una visione non unica ma unitaria della psicoterapia. Tutti hanno trovato interessante creare uno spazio vitale per un confronto aperto tra modelli teorici e clinici diversi. E poi, perché dovremmo infastidirci, se si parla di noi?».
È vero che qui non si tratta di psicoanalisti più o meno "classici", anzi per la maggior parte dei loro diretti concorrenti: post-cognitivisti, o anche terapeuti della famiglia e della bioenergetica, comunque rappresentanti di approcci ben riconoscibili (cognitivo, corporeo, integrato, analitico-dinamico, sistemico, umanistico). In più si è sempre coltivato il sospetto che anche tra queste scuole ci sia una certa competizione - visto che il mercato della psiche non è poi un´astrazione. Ora invece si ritrovano a navigare nelle acque del Mediterraneo.
Umberto Galimberti, outsider del congresso anche se ospite di gran fama, ha un suo punto di vista di segno comunque problematico: «La crociera a me sembra un viaggio in quella terra confusa che è oggi la psicoterapia, in balia dell´instabilità di cui il mare è una bella metafora. Approderà su qualche terra sicura? Penso di no perché, come già ci avvertiva Eraclito: "Per quanto tu cammini e percorra ogni strada, non raggiungerai mai i confini dell´anima, tanto è profondo il suo logos"».
Domattina Galimberti terrà una relazione su «Il viaggio della psicoanalisi-psicoterapia: dalle origini romantiche all´età della tecnica», estranea all´intonazione delle solite litanie: «Nello scenario contemporaneo, dominato dall´efficienza e dalla funzionalità, l´anima - che si alimenta anche di ciò che razionale non è - soffre. E allora: o il ricorso agli psicofarmaci, o il cammino più arduo della conoscenza di sé che avviene anche attraverso una rivisitazione delle proprie idee. Senza un loro vaglio critico, non è consentito comprendere il mondo in cui viviamo e i suoi rapidi cambiamenti... Ad esempio, non è il caso di pensare che oltre all´"inconscio pulsionale" di cui ci ha parlato Freud si sia formato un "inconscio tecnologico", che a nostra insaputa ci governa e di cui le varie scuole di psicoterapia ancora non si occupano?».
Cinque giorni di interventi, workshop, lectures, sessioni parallele. Con un finale a sorpresa: una video intervista con Zygmunt Bauman (a cura di Rodolfo De Bernart), legata al dibattito conclusivo sul tema del narcisismo nell´era post-moderna della liquidità dov´è proprio la dimensione dell´intimità - il "reciproco coinvolgimento" - a rischiare il naufragio.

VENDOLA: «Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione».
Repubblica — 19 marzo 1985 pagina 4

IL GAY DELLA FGCI

di STEFANO MALATESTA



ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".

l’Unità 17.4.10
Vendola star tra i delegati «Parlare alla società civile per preparare l’alternativa»
Nichi Vendola, al congresso dell’Arci «gioca in casa», torna tra gente che conosce. La sinistra dice «si deve aprire alla società civile» e trovare un’alternativa che «parli alla pancia del paese» Fischi per la ministra Meloni
di M. GE.

«Compagno Bersani, così non ce la facciamo, i partiti hanno esaurito la loro funzione, dobbiamo aprirci alla società civile, siamo come quel contadino che vuole un gran raccolto anche se non lo merita e finge di non vedere che il terreno è deserto». Promemoria per un «lavoro possibile da fare insieme», lo chiama Nichi Vendola, che al congresso Arci gioca in casa («l'Arci è stato uno dei luoghi della mia formazione») e approfitta per dire qui, applauditissimo, la «sua» nel momento di burrasca. Titolo: «Rifondazione della politica, necessaria vista l'inadeguatezza di quello che c'è». Sinistra e Libertà, come il Pd. Dice «noi», Nichi, intende «sinistra».
PARTITA DI POKER
Ma va giù duro con il «compagno Bersani», che della platea Arci è stato ospite giovedì. «Berlusconi parla alla pancia del paese, la tua alternativa no», gli dice a brutto muso.
Che alle porte ci possano essere nuove elezioni, lo convince poco. Quella è una «partita di poker» tutta nel centrodestra. E indica solo che «è ripresa convorticosità l'infinita transizione della politica italiana».
La sinistra per ora resta “un rebus”. Perciò «dalla crisi del centrodestra, per ora, esce solo un paese spostato verso la parte più reazionaria e xenofoba», la sua lettura. Mentre «con Bersani una parte del centrosinistra si ostina a non capire la portata di una sconfitta non solo elettorale ma culturale».
E d’altra parte: «Non sconfiggeremo il berlusconismo cercando un antiberlusconi che non c'è e se ci fosse gli assomiglierebbe terribilmente».
I sondaggi sul suo nome? «Di solito in quelli perdo, mi devo preoccupare?». La soluzione, per ora, è di di lungo periodo. «Seminare» la sinistra, dice Nichi. Che è “grande passione e non la critica alla destra perché non mantiene quello che promette”. E “nessuna genuflessione”, davanti alla Chiesa o ai poteri fori.
APPLAUSI
La platea apprezza e si spella le mani. Qualcuno storce la bocca: «Per ora è retorica». Ma spera che non lo resti a lungo. «Tirare fuori le unghie», suggerisce don Luigi Ciotti. Quale sia il nemico da combattere l’ha ricordato il messaggio ai partecipanti della ministra Giorgia Meloni. Fischiato sonoramente dalla platea.
Dice che la situazione in Italia è più «rosea» di come la vede l'Arci. Che il «disastro» potrebbe persino essere «provvidenziale». E spiega la sua ricetta è tutta a base di sarte, falegnami, calzolai, tradizione. Quanto alla «formazione». Privilegiare l'uguaglianza formativa, spiega, è stato un errore.

Agenzia Radicale 20.4.10
Donne, aborto e «misoginia di Stato»
Intervista a Carlo Flamigni
di Paolo Izzo

Le edizioni L'Asino d'Oro portano in libreria due volumi curati da Carlo Flamigni e Corrado Melega:RU486. Non tutte le streghe sono state bruciate e La pillola del giorno dopo. Dal silfio a oggi. Due libri distinti per due farmaci assai diversi, per impiego e per composizione, ma sui quali si fa ancora molta confusione. Due manuali che dicono veramente tutto quello che occorre sapere sulla interruzione di gravidanza farmacologica e chirurgica, nonché in genere su prevenzione e salute in materia di ostetricia e ginecologia. Libri pensati e scritti per le donne, dunque, che però dovrebbero leggere anche e soprattutto gli uomini.
In occasione, in questi giorni, dell'uscita del primo volume (il secondo è previsto per la fine di aprile), abbiamo intervistato il professor Carlo Flamigni, già ordinario di Ostetricia e Ginecologia all'Università di Bologna, membro del Comitato Nazionale di Bioetica e Presidente Onorario dell'AIED (Associazione Italiana per l'Educazione Demografica), cui andranno i suoi ricavi per la vendita di questi libri.

Professor Flamigni, lei e il suo collega Corrado Melega iniziate questo primo volume con una dedica sarcastica agli "orchi" del Consiglio Superiore della Sanità, che hanno recentemente stabilito che "l'unica modalità di erogazione" della RU486 debba essere il "ricovero ordinario". Su questo farmaco, che già arriva con notevole ritardo rispetto ad altri Paesi, ci sono ancora forte ostilità e molta confusione?

Fare confusione è un modo per governare. Basti pensare al libro di Eugenia Roccella e Assuntina Morresi, "La favola dell'aborto facile", per rendersene conto. In esso, sono tante le affermazioni ingiuste e quelle non vere, a partire dal senso di "solitudine e abbandono" che sconvolgerebbe la donna che abbia deciso di ricorrere alla RU486, fino al tasso di mortalità che le due signore forniscono e che cresce incongruentemente man mano che si va avanti nella lettura del loro testo. Due brave ragazze come Roccella e Morresi farebbero bene a occuparsi di cose di cui invece nessuno si rende conto.

E cioè?

Per esempio, l'uso assolutamente improprio che fanno le nuove cittadine, soprattutto dell'Europa dell'Est, che vanno a comprare le prostaglandine in farmacia dicendo di avere mal di stomaco... e ci sarà certamente qualche medico che fa loro le ricette (e questa secondo me è già notizia di reato). Poi ne prendono quantità eccessive e spesso finiscono in ospedale, perché gli effetti collaterali di enormi quantità di prostaglandine sono dannosi, anche mortali. Questo è un dramma che c'è sempre stato: se si va indietro nel tempo, le donne morivano di appiolo, un derivato del prezzemolo nonché antico metodo per abortire prima degli antiprogesteronici.

Ritiene ci sia il rischio che si torni all'aborto "fai-da-te"?

Un altro problema vero è questo: c'è un numero smisurato di medici che si rifiutano di intervenire, facendo obiezione di coscienza; in alcune regioni si arriva quasi al 90% di obiettori. Quindi diventa sempre più difficile rispettare i tempi: ci sono ragazze impaurite perché vengono rinviate e c'è un problema di sicurezza, perché più avanti interrompi la gravidanza, maggiori rischi fai correre alle donne. Poi c'è la fuga dagli ospedali, dove le donne sono trattate male e magari, di fianco allo sportello in cui vanno a prenotare l'IVG, trovano la segreteria del Movimento per la Vita che fa loro un secondo processo! Queste donne, allora, ricorrono alle amiche per ottenere un"indirizzo" alternativo, che può portarle all'estero, nell'ambulatorio privato di uno dei medici dell'ospedale che ha fatto obiezione oppure da una "mammana", che interrompe la gravidanza con metodi antichi. I rischi sono alti. Si sta riorganizzando un mercato dell'orrore.

L'obiezione di coscienza dei medici è ovviamente molto legata alla religione cattolica. Ve la prendete spesso, nel libro, con l'ingerenza del Vaticano nella medicina e nei rapporti tra medico e paziente.

Le esprimo un concetto che vale per tanti problemi: questo è un Paese che ha molto più bisogno di compassione che di religione. Invece gli viene somministrata una grande quantità di religione e una scarsissima quota di compassione. Una sera guardavo la tv per cercare di addormentarmi e ovunque andassi si parlava del papa, di santi, di miracoli, della sacra sindone... Era tutta una propaganda fidei. Capisco che la Chiesa cattolica ne abbia bisogno in questo brutto momento... ma un po' di compassione, non dico di laicità, anche per me?

Ritiene che viviamo in uno Stato teocratico?

E' uno strano Stato teocratico, dove in fondo le persone che credono in Dio sono pochissime, ma le persone che hanno rispetto per il potere della religione sono molte, cominciando dai partiti politici che si contendono la capacità del Vaticano di distribuire i voti dei fedeli. Tutti sono sicuri che, se fanno qualcosa contro la religione, quei voti li perderanno. Così si mettono in quella posizione, che di solito si usa per definire gli animali, che si chiama "lordosi di accettazione".

Che poi si traduce in un attacco alle donne. In una vera misoginia. A molti uomini farebbe bene la lettura del vostro libro...

Una volta invece sono stato accusato da una compagna femminista, su Liberazione, di essere paternalista. Si ricorda quando Giuliano Ferrara propose una moratoria contro l'aborto? Risposi: perché no? Ma prima vogliamo il rispetto per le donne! Che invece ci si aspetta di portare in televisione con l'obbligo di andarci in mutande e più le mutande sono piccole e più faranno carriera; di portare nelle ville dei magnati per vedere se hanno capacità tecniche di fare politica. Bisogna prima insegnare ai fratellini a rispettare le sorelline, bisogna prima insegnare la libertà sessuale... Ci vuole una società giusta che non tolga il lavoro alle donne, che conceda loro la possibilità di badare ai figli oltre che a lavorare in fabbrica. Non so se sono paternalista, ma penso di dire cose in cui molti di noi credono... La misoginia è nel potere che prevarica e che ha un'interpretazione del sesso femminile molto utilitaristica. Penso che siamo di fronte a una misoginia di Stato.

Voi scrivete che la legge 194 funziona bene ed è ben applicata, ma che l'unica modifica che fareste è proprio sul tema dell'obiezione di coscienza.

Quando la 194 fu approvata, l'obiezione di coscienza era necessaria perché c'erano vecchi ostetrici che, quando avevano deciso di fare quel mestiere, al pensiero di dover interrompere una gravidanza sarebbero morti d'infarto. Invece, da quel momento in poi ci siamo trovati di fronte al "problema" che la IVG fa parte della tutela della salute delle donne: se fossi un medico cattolico che non vuole interrompere le gravidanze, non andrei in un ospedale pubblico di ostetricia dove la prevenzione e la salute della donna sono al centro del mio lavoro. Vado a fare un'altra cosa! Cioè: non metto un musulmano a vendere carne di maiale! Questo andrebbe rivisto della legge, anche perché io stesso ho avuto molti collaboratori che sono venuti a dirmi che volevano fare obiezione, ma non perché fossero religiosi, ma perché: "mi rompo le scatole", "è una cosa ripetitiva", "mi danneggia nella carriera, perché se il direttore sanitario cattolico sa che non ho fatto obiezione, la prossima volta che ci sarà da assegnare un posto di aiuto non lo dà a me". La libertà è un conto, ma quando c'è di mezzo la salute delle donne non ci può essere un criterio acritico per cui uno decide quello che vuole sulla base di principi e interessi privati e nessuno va a vedergli nelle tasche...

A un certo punto del libro, fate un'osservazione a proposito del fatto che un vero passo in avanti per la salute delle donne fu la sentenza della Corte costituzionale del febbraio 1975, quando fu introdotto "l'equilibrio psicologico" della donna tra i motivi che potevano far ricorrere alla IVG.

E' la sentenza nella quale si dice per la prima volta che può esistere un problema di salute per la donna che non sia fisico e si mettono le basi per quella che poi è la materia fondante della legge 194: ha più diritti chi è già persona di chi persona deve ancora diventare. Il problema della salute è stato poi gestito con enorme saggezza dal legislatore e la legge 194 è molto solida. Recentemente è stata attaccata con la scusa che, con l'aborto, venga espulso dal grembo materno un feto che potrebbe sopravvivere: non è così, perché se il medico si rende conto di una tale possibilità (da ecografia, peso, settimane di gravidanza), allora non si può più parlare di salute psicologica. Ma in quel caso vale ancora la condizione di necessità: se il feto è diventato "l'assassino di sua madre", lo tolgo dal grembo, poi semmai lo consegno a qualcuno che cercherà di farlo sopravvivere... E' una legge molto saggia, la 194. La si confronti con la legge 40, che è una legge fragile, costruita e scritta controvoglia da gente che non l'amava e che l'ha riempita di passerelle che oggi servono al magistrato che va a cancellare quello e a togliere quell'altro...

Quando c'è una possibilità che il feto sopravviva?

Dopo la 22esima settimana. Prima di questo tempo il feto non ha alveoli polmonari e non ha capacità di vita esterna al corpo della madre. Infatti è lì che scatta il meccanismo della condizione di necessità: dopo la 22esima settimana l'interruzione si fa quando è a rischio la vita della donna. E' una norma che già esisteva prima della 194 e che fa tacere tutte le altre norme: la condizione di necessità.

Ma quando inizia, effettivamente, la vita umana?

Quando il feto si iscrive al sindacato! La vita personale, lei dice? La vita personale comincia quando lo dice la madre. E' un personalismo che deriva dal vecchio mondo femminista: bisogna che l'embrione si sia annidato nel grembo materno, ma anche che la donna l'abbia riconosciuto come proprio figlio. Quindi questo esclude le nascite per violenza e per caso... E' necessario che ci sia il contatto con il grembo della madre, che è quello che lo mette in connessione con il mondo, con la società, ma è anche necessario che la madre voglia fare questo gesto, cioè che lo riconosca come figlio.

La nascita è la vera cesura, comunque...

Lo è sicuramente sul piano del codice civile.

Un'ultima domanda, sul ruolo degli uomini. Nella sessualità una mezza importanza ancora ce l'abbiamo, ma nella procreazione contiamo sempre meno...

Non ne farei una questione tecnica. Fare un figlio è un piano di sviluppo del modello familiare particolare al quale quasi tutti noi teniamo. Il problema forse non è neanche capire qual è il nostro ruolo, ma come uomo e donna, insieme, dovrebbero guardare alla vita sessuale. Una definizione della vita sessuale potrebbe essere quella di una bellissima insalata russa, dentro la quale c'è fare figli, ma c'è anche divertirsi, farsi le coccole, rispettarsi, dialogare. E quando c'è una insalata russa da mangiare, nessuno pensa di mangiare solo la maionese. Nel momento in cui si dialoga, ci si fa le coccole, si può anche immaginare di allargare la propria famiglia, di avere qualcuno da crescere. Gli uomini e le donne hanno un modo diverso di guardare alla procreazione: gli uomini immaginano di continuare a vivere e amano il pensiero della vita familiare che continua. Le donne tengono molto ad avere qualcuno da amare. Insieme, tutto questo, vuole dire fare un figlio.

MATERIALI RESISTENTI
Il concerto del 25 aprile all’ex campo di concentramento di Fossoli con il meglio del rock indipendente italiano sarà trasmesso in tempo reale sul nostro sito web Unita.it

Repubblica 22.4.10
25 aprile, nell´Anpi boom di partigiani junior
Iscritti a quota 110 mila, uno su dieci sotto i 30 anni
di Maria Cristina Carratù

ROMA - Più che mai rinvigorita. L´Anpi, l´associazione dei partigiani, fa un bilancio alla vigilia del 25 aprile, dal quale risulta che ha raggiunto 110 mila iscritti, nel 2009. Un boom mai visto. Ma soprattutto, dovuto alle nuove leve di «ragazzi partigiani», giovani e perfino giovanissimi che di guerra e Resistenza hanno solo sentito parlare, ma convinti di poter contribuire lo stesso alla causa per cui i partigiani doc lottarono e morirono: la democrazia e la Costituzione.
Un 25 aprile in cui non mancano le polemiche. A Mogliano, in provincia di Treviso non si suonerà "Bella ciao". Anche se il sindaco leghista, Giovanni Azzolini nega: «Nessun problema a far suonare ´Bella ciao´ alla banda comunale, se i partigiani lo chiedono», meglio, però, la ‘Canzone del Piave´, «che celebra il fiume sacro alla patria». Azzolini ricorda di «essere iscritto all´Anpi», non vuole sentire parlare di veti e davanti alle tv locali e sul web canta "Bella ciao" e parla di «fraintendimento». Tuttavia, ritiene che l´inno al Piave è più adatto, «tanto più che proprio da Mogliano la Terza Armata partì per riconquistare l´Italia». Protesta l´Anpi, ricordando che ‘Bella Ciao´ è «canzone di tutti».
I partigiani snocciolano i numeri: a controbilanciare il 10% di iscritti, ovviamente in calo, di partigiani storici e di ‘patrioti´ delle Sap e delle Gap (le Squadre e i Gruppi di Azione Patriottica), uomini e donne che hanno doppiato da un pezzo gli 80 anni, c´è ormai un altro 10% di ‘juniores´ fra i 18 e i 30 anni, mentre il grosso degli iscritti (60-65%) appartiene alla fascia, ampiamente «postbellica», di 35-65enni. Una vera rivoluzione, anagrafica e culturale, resa possibile dal nuovo statuto che dal 2006 ha aperto le porte dell´Anpi a chiunque dichiari e sottoscriva di essere «antifascista». Nel giro di tre anni si è passati così da 83 a 110 mila iscritti, con un più 27 mila che, confrontato con il calo costante degli anni pre-riforma (dai 75 mila iscritti del 2000 se ne stavano perdendo centinaia l´anno), ha riportato l´entusiasmo nei comitati di tutta Italia.
Ma guai a pensare che la modifica dello statuto sia stata un escamotage anti-età: «Noi abbiamo combattuto per valori che tutti gli uomini hanno dentro, e che spetta a tutti difendere, in qualunque epoca» sostiene Silvano Sarti, 84enne protagonista della Resistenza fiorentina e presidente dell´Anpi di Firenze. Dove, nelle due sezioni più grandi della provincia, i giovani di 18-35 anni sono passati in tre anni da zero a 342, i 35-60enni sono più di due terzi degli iscritti, e a capo di un´altra è stato da poco eletto il segretario più giovane d´Italia: «Chi si associa all´Anpi» spiega Sarti «semplicemente ama la Costituzione e vuole difenderla. E chi deve scendere per primo in piazza se non dei giovani con le gambe buone?». E che non si tratti solo di numeri, lo dimostra, spiega il vicepresidente dell´Anpi nazionale Armando Cossutta, quel che avviene nelle sezioni e nei comitati provinciali: «Pieni di gente di ogni classe sociale, di ogni professione, di ogni età, felici di avere uno spazio che i partiti non offrono più: limpido, pulito, senza arrivismi». La «nuova giovinezza» dell´Anpi «sembra figlia anche della crisi della politica». E il sindaco di Firenze Matteo Renzi ha invitato l´intera giunta a iscriversi all´Anpi, con lui in prima fila.

Repubblica 22.4.10
La sinistra e la sfida del futuro
di Guido Crainz

L´ultimo esito elettorale del centrosinistra rende impossibile eludere ancora il problema: la fase iniziata quasi vent´anni fa con la crisi verticale della "repubblica dei partiti" non ha visto consolidarsi una ipotesi riformatrice adeguata alle esigenze del Paese. Le difficoltà e le divisioni del centrodestra non offuscano questo nodo ma rendono ancor più urgente affrontarlo.
Mai, forse, le forze progressiste o di sinistra erano state così isolate - culturalmente, prima ancora che elettoralmente - rispetto al cuore produttivo della nazione, e incapaci al tempo stesso di offrire riferimenti e prospettive alle inquietudini di vecchie e nuove povertà e precarietà. Non è un giudizio troppo drastico: a quale idea-forza ci si può oggi richiamare per convincere un elettore indeciso, un astensionista amareggiato, un giovane deluso? Sembra quasi impossibile, inoltre, che la sinistra sia stata simbolo, in passato, di buon governo a livello locale. Abbia saputo mettere in campo - non solo nelle regioni rosse - capacità organizzative e pragmatiche, abbia contribuito a colmare forti deficit di democrazia del paese. Sia apparsa a una larga parte degli italiani, negli ormai lontanissimi anni settanta, come l´unica forza in grado di garantire il cambiamento. Sembra impossibile, infine, che tutto questo sia progressivamente scomparso dalla scena già nella fase immediatamente successiva, e che negli anni novanta gli eredi di quell´esperienza abbiano buttato al vento la possibilità di offrire al paese devastato da Tangentopoli esempi e prospettive di buona politica.
Le questioni da affrontare erano certo enormi: la costruzione di una nuova idea di sinistra era compito difficilissimo, ma al tempo stesso indifferibile, sin dagli anni settanta e ottanta. Crollati, ben prima del 1989, i riferimenti internazionali, entravano allora in crisi anche altri capisaldi della tradizionale cultura della sinistra. La "centralità della classe operaia", ad esempio, veniva simbolicamente travolta dalla "marcia dei quarantamila" del 1980, mentre già la crisi petrolifera del 1973 aveva affossato, assieme all´idea di uno "sviluppo senza limiti", anche le culture progressiste e industrialiste che su di essa si erano fondate. Nell´incapacità di misurarsi appieno con questi nodi la sinistra di formazione comunista iniziò a perdere identità e profilo, e a far emergere quella carenza di progettazione riformatrice che gli anni dei governi di "unità nazionale", dal 1976 al 1979, portarono pienamente alla luce. A ciò si aggiunga, infine, la difficoltà di comprendere le colossali trasformazioni sociali e culturali degli anni ottanta.
È una sinistra già in difficoltà, insomma, quella che giunge alla crisi dei primi anni novanta: elettoralmente indebolita e culturalmente gracile. Contagiata almeno in parte – alla periferia, ma non troppo marginalmente – dalle derive che le indagini dei giudici portavano allora alla luce.
Di fronte al crollo degli altri partiti era ormai il momento di un rinnovamento profondo, capace di coinvolgere energie pur presenti nella società civile: e invece quel crollo, che sostanzialmente risparmiò i differenti eredi del Pci, sembrò favorire a sinistra il permanere delle vecchie prassi partitiche. L´unica società civile che entrò in campo fu quella chiamata a raccolta dall´antipolitica di Umberto Bossi e - per altri versi - dal "partito azienda" costruito in pochi mesi da Silvio Berlusconi. A fronte di questo discutibile "nuovo" la sinistra si presentò sempre più come il "vecchio", il residuo della "partitocrazia". Neppure lo shock del 1994 fu salutare: l´immediato fallimento della prima alleanza fra Berlusconi, Fini e Bossi alimentò l´illusione di poter ancora godere di rendite di posizione, di non aver bisogno di un forte profilo culturale e programmatico. Questa incapacità di rinnovamento, e di ricambio dei gruppi dirigenti, è stata il vero scoglio su cui si sono infrante le esperienze pur avviate, le energie pur messe in campo.
Il primo governo Prodi, ad esempio, è certamente stato il governo migliore degli ultimi quindici anni: perché, però, anche quel governo seppe solo in parte parlare al paese? E perché la sua ispirazione più feconda non trovò continuazione?
Non era inarrestabile la marcia del centrodestra. Subito interrotta nel 1994, essa sembrò di nuovo giunta al capolinea nel suo primo quinquennio pieno di governo: e già nell´estate del 2004 gli stessi giornali del centrodestra parlarono apertamente di "crisi del berlusconismo". In quello stesso torno di tempo un centrosinistra frastornato dalla sconfitta elettorale del 2001 trovava nuova forza - quasi suo malgrado - grazie alle spinte che venivano dal basso: si pensi al movimento dei Girotondi, che ebbe culmine nella manifestazione nazionale a Roma dell´autunno del 2002. Una festa della democrazia, per usare le parole di allora di Eugenio Scalfari: «Un vigorosissimo ritorno in campo di moltissimi che per molte ragioni si erano tirati indietro». Si pensi anche alle energie coinvolte dalla Cgil nella difesa dello Statuto dei lavoratori, o all´amplissima mobilitazione per la pace dell´anno successivo, che vide mescolarsi culture molto diverse. Si pensi anche ad altre risorse che il centrosinistra ha pur avuto: dall´esperienza dei sindaci alla grande speranza delle "primarie". Queste stesse spinte vitali appaiono oggi largamente inaridite: di nuovo, perché? Senza dare risposte convincenti a questi interrogativi sarà difficile riaprire realmente la discussione sul futuro. E senza dar vita a nuovi cantieri di riflessione, in cui convergano molteplici energie intellettuali e differenti centri propulsivi, sarà difficile frenare l´involuzione di un centrosinistra che ha bruciato leader e ipotesi di ricambio, e perso progressivamente una reale capacità di rapporto con la sua stessa gente.
L´inversione di tendenza di cui si avverte il bisogno implica un impegno di lungo periodo ma il tempo a disposizione non è moltissimo: le divisioni del centrodestra e i progetti sempre più espliciti del premier rendono questo compito ancora più urgente.

l’Unità 22.4.10
Conversazione con Christine Bergmann
«Prima di tutto viene
il dolore delle vittime»
La commissaria indipendente dopo lo scandalo pedofilia in Germania: «Lavoreremo su prevenzione e risarcimenti. Soli per troppo tempo gli abusati»
di Laura Lucchini

Assistenza e prevenzione. Su questi due binari lavorerà la commissione indipendente per le vittime degli abusi, creata dal Governo tedesco dopo lo scandalo delle violenze sessuali si bambini in scuole e collegi cattolici e laici. A due giorni dall’inizio della tavola rotonda in cui si confronteranno il governo, la Chiesa, le vittime e gli insegnanti, la commissaria straordinaria per le vittime Christine Bergmann, è sicura che sarà un «momento importante e una grossa chance». Ma non mancano le polemiche.
Da tre mesi in Germania emergono in continuazione nuovi casi di abusi sessuali a danno di minori, consumati tra gli anni ’60 e ’90, in collegi e scuole cattoliche e laiche. Da quando il rettore del collegio gesuita berlinese Canisius, a metà gennaio, rese pubblici i primi casi, invitando tutte le vittime a denunciare, l’effetto domino ha fatto cadere nello scandalo una dopo l’altra le scuole più prestigiose del paese. Collegi con lunghe tradizioni, come i Chiostri di Ettal, il coro delle voci bianche di Ratisbona o la scuola laica e progressista di Odenwald, vincolata all’Unesco, sono state macchiate da denunce di abusi, violenze e pratiche sadiche da centinaia di vittime.
«Ora la chiesa collabora» «La Chiesa è una delle istituzioni che a lungo ha nascosto gli abusi. Ora però sta cercando di collaborare», ci ha detto ieri Bergmann. Ma ha ricordato che «se gli abusi dentro la Chiesa sono stati circondati da un silenzio imposto dall’istituzione chiusa, lo stesso avviene nelle famiglie». In famiglia, infatti, ancora oggi si consumano impunemente violenze sui minori: «non bisogna parlare degli abusi sessuali come se riguardassero solo il passato, avvengono purtroppo ancora».
Christine Bergmann è stata ministra di Famiglia del Governo Schröder e si è già occupata di prevenzione della violenza. La sua commissione affiancherà il lavoro della tavola rotonda fin da venerdì. In questo incontro, in cui c’è grande attesa anche per capire quale sarà la linea della Chiesa, si formeranno due gruppi di lavoro. I primo affronterà il tema della prevenzione, e sarà coordinato dalle ministre di Famiglia e Educazione, Christina Schröder e Annette Schavan (della Cdu). Il secondo, coordinato dalla ministra di giustizia Sabine Leutheusser-Schnarrenberger (FDP, liberali), si occuperà di questioni giuridiche. Dovrebbe proporre nuove leggi o norme contro gli abusi e soluzioni al nodo dei risarcimenti.
In molti casi, infatti, i reati sono prescritti: le vittime hanno bisogno di tempo per elaborare le violenze e avere la forza di denunciare: «Il discorso dei risarcimenti sarà sicuramente uno dei punti, anche se per le vittime è decisivo in primo luogo il riconoscimento della violenza subita», dice Bergmann.
L’attenzione della commissione per le vittime si concentra in particolare su un gruppo consistente di persone, per le quali, «l’abuso si colloca lontano nel tempo, tra gli anni ’60 e gli anni ’80, e che però portano dentro le ferite e le conseguenze della violenza». In Germania l’abuso sessuale prescrive 10 anni dopo che la vittima ha compiuto 18 anni, cioè quando ne ha 28. La maggior parte delle persone che hanno denunciato finora hanno però superato i 30. Per loro, in particolare, è importante «il riconoscimento della violenza e l’assistenza, perché durante lungo tempo sono state lasciate sole».
La «squadra» di Bergmann, cinque persone, riceve le segnalazioni dei casi per fax, posta o mail. Alle vittime viene offerto ascolto e assistenza per muovere i primi passi. E, se necessario, viene consigliata una terapia per superare il trauma.
Quel che manca all’azione del governo è la mancanza di dati statistici sullo scandalo, che dipende in particolare dall’estrema frammentazione dei comitati o degli enti che raccolgono le denunce e le segnalazioni, senza coordinarsi affatto. In ogni Land la Chiesa ha la sua commissione, ogni scuola coinvolta, ogni ordine monastico. Tanto che Bergmann ammette: ancora non si può dare una dimensione numerica né al numero di vittime né quello dei responsabili. Sulla stampa sono comparsi più di 300 casi.❖

l’Unità 22.4.10
Le vittime Usa al Papa «Hai nominato un vescovo che ha coperto abusi»
Contestate dalle vittime di abusi le ultime nomine del Papa negli Usa. Il neo arcivescovo di Miami avrebbe coperto preti pedofili. Quello di Springfield ha definito «Opera di Satana le denunce legali contro il clero».
di Roberto Monteforte

Una scivolata di Benedetto XVI sarebbero le sue ultime due nomine di vescovi negli Usa. Almeno per la principale associazione statunitense che organizza le vittime degli abusi «Snap» (Survivors Network of those Abused by Priests). Sotto tiro sono due nomine quella di monsignor Wenski alla guida della arcidiocesi di Miami al posto del dimissionario Favalora, dimessosi con otto mesi di anticipo formalmente per motivi di salute, ma in realtà perché sospettato di aver «coperto» alcuni casi di pedofilia. Ma anche monsignor Wenski è la denuncia del direttore esecutivo di Snap, David Clohessy quando era alla guida della diocesi di Orlando avrebbe gestito con «inganno, ritardo e spericolatezza» il problema della pedofilia che ha visto responsabili alcuni sacerdoti. «Il Papa promuove un vescovo con un passato preoccupante quanto a sicurezza dei bambini». Respinge l’addebito il neo arcivescovo. Afferma che sin dal 1990 nella sua diocesi vigeva la «tolleranza zero» contro i preti pedofili. Assicura di essere stato «molto fermo e molto forte» di fronte alle accuse che hanno coinvolto alcuni dei suoi sacerdoti. «Non ho nulla da scusarmi», taglia corto. La pedofilia è problema ancora caldo anche a Miami. Il suo predecessore, monsignor Favalora, ha dovuto affrontare lo scandalo di oltre 40 preti pedofili e vedersela con il potente fondatore dei Legionari di Cristo, monsignor Maciel Degollado, pedofilo e violentatore.
AZIONI DEL DIAVOLO
L’altra nomina contestata dal Snap riguarda monsignor Thomas Patrocki, che da vescovo ausiliario di Chicago è stato nominato alla guida della diocesi di Springfield in Illinois. Tre anni fa osserva sempre Clohessy attribuì «a Satana le azioni legali contro la Chiesa Cattolica per lo scandalo della pedofilia». «Questo dimostra commenta che il Vaticano è più interessato alla purezza dottrinale che alla sicurezza dell'infanzia». Il neo vescovo ha ammesso che la Chiesa deve affrontare la piaga delle molestie sessuali per contribuire a riportare fiducia nell' istituzione.
Un’altra testa è caduta in Irlanda. Benedetto XVI avrebbe accettato le dimissioni del vescovo irlandese James Moriarty per le sue responsabilità nell'aver coperto in passato abusi sessuali commessi da sacerdoti a Dublino. La decisione dovrebbe essere comunicata oggi. Monsignor Moriarty, vescovo di Kildare e Leighlin, aveva presentato le sue dimissioni il 23 dicembre scorso in seguito alla pubblicazione del rapporto Murphy, la commissione governativa, che lo accusava di non aver indagato abbastanza a fondo, quand'era ausiliare nell'arcidiocesi di Dublino sulle accuse mosse nel 1993 nei confronti di un prete pedofilo, padre Edmondus.❖

il Fatto 22.4.10
Ipazia, la congiura dei mediocri
In attesa di Agorà, ecco chi era la filosofa che diresse la scuola neoplatonica
Era ascoltata dal popolo e consultata dai potenti: per questo fu uccisa
di Giovanni Ghiselli

Sta per uscire Agorà, il film di Amenábar su Ipazia, una donna di grande levatura uccisa nel 415 d. C. da monaci fanatici detti parabalani, un’orda sanguinaria istigata al massacro dal vescovo Cirillo di Alessandria d’Egitto. Aspettando l’opera cinematografica, scopriamo chi era questa martire del pensiero. Utilizzerò fonti antiche: la Storia Ecclesiastica di Socrate Scolastico, le Epistole di Sinesio, un discepolo di Ipazia, neoplatonico e pure cristiano illuminato, che divenne vescovo di Tolemaide e morì poco prima di lei, rimpiangendone lo “spirito divinissimo”, poi un epigramma di Pallada, un maestro allontanato dalla scuola in quanto non cristiano, tutti contemporanei di Ipazia. Inoltre, la Vita di Isidoro di Damascio, ultimo scolarca dell’Accademia neoplatonica di Atene, fatta chiudere da Giustiniano nel 529. Gli autori sono concordi nel presentare Ipazia come intelligente, bella, generosa. All’inizio del V secolo Alessandria era un centro commerciale e culturale tra i più importanti dell’impero romano d’Oriente e pure una città turbolenta per la presenza di tre gruppi religiosi che si facevano guerra: ebrei, cristiani e pagani. Ma vediamo i testi a partire dall’epigramma di Pallada: “Quando ti osservo, mi prostro davanti a te e alle tue parole,/vedendo la casa astrale della vergine,/infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto/Ipazia sacra, bellezza delle parole,/astro incontaminato della cultura”. Ipazia nacque intorno al 370. Suo padre Teone le insegnò le scienze matematiche. La discepola divenne presto più brava del maestro. Diresse la scuola neoplatonica. Era ascoltata dal popolo e consultata dai potenti per la magnifica libertà di parola, per il fatto che era dialettica nei suoi discorsi e per le sue competenze matematiche, geometriche, astronomiche e filosofiche. Per tali motivi suscitò invidia, l’anima della congiura dei mediocri contro l’individuo eccezionale. La mente del complotto era Cirillo: la venerazione e il prestigio che pretendeva come capo della religione vincente, andavano a una pagana, a una femmina! Il rancore divenne pernicioso, per Ipazia, quando l’iniquo prelato vide una ressa di uomini davanti alla casa di lei. Motivi sessuali non c’erano: Damascio racconta che la donna era vergine, sebbene facesse innamorare molti, e, addirittura, a un uomo malato d’amore, “gettò una delle pezze usate per il mestruo e gli disse: questo tu ami, giovane, niente di bello”. Cirillo “si rodeva a tal punto che tramò la sua uccisione, fra tutte la più empia”. Si può dire di Ipazia quanto P. B. Shelley scrisse dell'eroina di Sofocle: “Che sublime ritratto di donna! Alcuni fra noi, in una precedente esistenza, si sono innamorati di un'Antigone: ecco perché non troveranno mai completa soddisfazione in un legame mortale!”.
Ma torniamo ad Alessandria. Negli anni precedenti l’imperatore Teodosio “il Grande” aveva fatto distruggere gli edifici ellenici del culto e della cultura, e aveva promosso una serie di provvedimenti giuridici avversi al paganesimo. Teofilo, vescovo della città dal 385 al 412, un uomo violento, aveva eseguito con sadica sollecitudine, e Cirillo ne fu il degno erede e prosecutore, fino alla morte (444). Quindi venne proclamato Santo e Padre della Chiesa. Costui detestava Ipazia che parlava nell’agorá, liberamente, culturalmente e politicamente. Il suo magistero rappresentava una resistenza alla volontà di cancellare il pensiero e l’arte dei Greci. Il vescovo non sopportava che Ipazia fosse la stella polare per tanti, a partire dal prefetto augustale Oreste, odiato anche lui dalla gerarchia ecclesiastica al punto che uno dei parabalani, Ammonio, lo ferì gravemente, colpendolo in testa con una pietra. Questo sicario venne processato secondo la legge e lasciato morire sotto tortura. Quindi Cirillo ne fece collocare il corpo in una chiesa, ne cambiò il nome in Thaumasios (ammirevole) e lo encomiò quale martire della religione cristiana. Sembra prefigurare il bandito della Magliana sepolto con i pii prelati. Nel 415 l’impero d’Oriente era retto da Pulcheria, figlia di Arcadio e nipote di Teodosio: ebbene costei era alleata di Cirillo. Ciò nondimeno “i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da Ipazia”, racconta Damascio. Cirillo bruciava di odio implacabile.
Vediamo la morte di Ipazia. Tornano in azione le squadracce che avevano tentato di uccidere Oreste. “Siccome ella si incontrava spesso con Oreste, l’invidia mise in giro la calunnia che fosse lei a non permettere che il prefetto si riconciliasse con il vescovo. Allora alcuni uomini infiammati si appostarono per sorprendere la donna mentre tornava a casa. Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa denominata Cesario.
Qui, strappatale la veste, la uccisero con dei cocci (ostrákois). Dopo che l’ebbero fatta a pezzi membro a membro, cancellarono ogni traccia di lei con il fuoco”. Fu attuata una forma inaudita, violentissima, di ostracismo. “Questo-conclude Socrate Scolasticoprocurò biasimo non piccolo a Cirillo e alla Chiesa di Alessandria ”. Un biasimo santo che si rinnova con il film Agorà. Con l’assassinio di Ipazia si chiuse un’epoca. Oramai i templi degli dèi e della cultura pagana, in primis il Serapeo con le sue biblioteche, erano stati distrutti, oppure snaturati come il Cesario trasformato in cattedrale cristiana, e Alessandria era stata svuotata della sua vita culturale, privata dei suoi studiosi, ammazzati o costretti alla fuga.
g.ghiselli@tin.it

l’Unità 22.4.10
«I rumeni? Tutti stupratori» Un libro ci aiuta a conoscerli e spezzare il pregiudizio
Li demonizziamo e perseguitiamo senza conoscerli. Per rompere il pregiudizio ci aiuta «Romeni», un libro di Alina Harja e Guido Melis che raccoglie le storie di alcuni dei tanti che vivono nel nostro paese.
di Flore Murard Yovanovitch

ROMA. «Romeni delinquenti». Mai stereotipo colpì più violentemente un’intera comunità. Fuori dalla cronaca nera, cosa si sa dei rumeni, del loro Paese d’origine, della loro cultura, di come e dove vivono e di quale lavoro fanno in Italia? Pressoché niente, prima del documentato libro di Alina Harja e Guido Melis Romeni, la minoranza decisiva per l’Italia di domani (Rubettino Editore) che restituisce loro un volto umano e una voce, attraverso una serie di interviste a imprenditori, badanti, giovani e musicisti.
In meno di vent’anni, sono diventati la comunità straniera più numerosa d’Italia: sono 780mila i residenti attuali (erano solo 8000 nel 1990). E, con l’entrata della Romania nell’Ue il 1 ̊ gennaio 2007, cittadini comunitari a tutti gli effetti (una realtà spesso negata). Ma chi sa che detengono il primato delle assunzioni nel lavoro (il 22% di tutti i lavoratori stranieri occupati) e che nella penisola operano ben 20mila imprese romene? Fanno, cioè, vivere interi settori chiave della nostra economia, dall’edilizia all’agricoltura, con un primato nell’assistenza agli anziani; dove non mancano storie di sfruttamento e ricatti dei datori di lavoro, come testimoniato in questo libro. Tanto che dopo il «pacchetto-sicurezza» del 2009, il Governo è stato costretto a inventarsi la sbrigativa regolarizzazione di colf e badanti per prevenire l’emoraggia che un’espulsione di massa sarebbe costata. In un Paese in pieno declino demografico, questi flussi sono inoltre una vera iniezione di giovinezza: per attitudine allo studio e vicinanza della lingua, saranno tra i più integrati dei «nuovi italiani» di domani.
Eppure un muro di ostilità li circonda e l’etichetta romeni=criminali abita le menti (insieme alla diffusa confusione tra romeni e rom). Dall’omicidio di Giovanna Reggiani nel 2007 e il via a un martellamento mediatico, si passa dall’intolleranza alla criminalizzazione: i romeni sono tutti «potenziali stupratori». La rassegna stampa del periodo (uno dei capitoli più interessanti del volume) fa rabbrividire, tanto ha infranto ogni «codice deontologico» giornalistico. Prime pagine accreditano la «propensione a delinquere» che discenderebbe da una «matrice etnico-nazionale»... I connotati negativi diventano dichiaramente razzisti. Come ricorda Luigi Manconi nella sua acuta prefazione, il meccanismo è ampiamente paragonabile alla precedente stigmatizzazione nei confronti di un «soggetto altro e ostile, quello albanese, nel corso di tutti gli anni ’90». L’«ostilità è variabile», ma intanto il «danno d’immagine» inferto è profondo e difficilmente sarà risanabile in una comunità distante dalla politica, frammentata, senza vera rappresentanza (neanche un consigliere comunale a Roma) e tendente a una consolatrice chiusura identitaria.
Dal 2007-2008 quella «psicosi collettiva» ha dettato l’agenda politica, nonché la deriva del nostro ordinamento verso un «diritto d’eccezione». È stata la destra in primis ad aver alimentato a dismisura una campagna di odio, non esitando a cavalcare una presunta «questione romena», ma anche la sinistra ad avere catastroficamente «subito il terreno proposto dalla destra». Basti ricordare che, da sindaco di Roma, Walter Veltroni fu il primo a firmare un decreto volto all’espulsione dei romeni (bypassando pure il diritto di libera circolazione nei territori degli Stati membri)...
Ci vorrà tanto lavoro per risanare questa pericolosa stigmatizzazione di un intero popolo e per costruire una nuova cittadinanza romena. Leggere questo incisivo saggio è un primo passo per conoscere la comunità romena per quello che è.❖

l’Unità 22.4.10
Contro la storia
Graduatorie regionali per i prof, demagogia codarda
di Fabio Luppino

Sostenere oggi le graduatorie regionali per i docenti della scuola è solo demagogia gratuita e anche un po’ codarda. L’idea leghista ha un retroterra razzista. Ma, guarda un po’, se ne parla con convinzione solo ora. Serve a tenere alto il fuoco della pura Padania contro tutti, ma senza fondamento. Grave è l’apertura del ministro ad una soluzione che cozza contro una recente sentenza del Consiglio di Stato, la Costituzione italiana ed europea e qualche mezza dozzina di trattati internazionali.
Con i colpi di accetta inferti dal governo all’occupazione nella scuola le graduatorie regionali sono un’altra inutile provocazione. Dal prossimo anno gli elenchi degli aventi diritto ad incarico saranno quasi inservibili. Proporli su base locale significa semplicemente fare la fotografia dell’esistente. Non si muoverà più nessuno perché non ci sono più posti (a meno che non si voglia cacciare chi già c’è, ma non è residente al Nord). La presunta aspirazione di docenti del Sud a spostarsi a Nord non ha più ragione di essere. Il panorama dell’anno scolastico 2010-2011 è semplice: 25.600 professori senza lavoro e migliaia di perdenti posto (coloro che rimarranno titolari di cattedra ma che non avranno più le 18 ore nella stessa scuola e che progressivamente potrebbero diventare soprannumerari e successivamente titolari senza orario, dopo due anni anche loro licenziabili). L’esito finale dei tagli sull’orario nelle superiori, per tutte e cinque le classi a regime nel 2011-2012.
L’aspetto avvilente della proposta leghista a cui fa sponda il ministro sta nel sovvertimento storico che essa sottende. Lo spostamento dei docenti da Sud a Nord è sempre stata una necessità del Nord. I laureati e abilitati per decine di anni sopra Bologna sono sempre stati in numero insufficiente a coprire il fabbisogno della scuola. È strano come ad autorevoli commentatori, anche di estrazione meridionale, ieri questo particolare sia sfuggito. La Lega si è ben guardata quindici anni fa dal fare una proposta del genere. Non era praticabile. È vero anche che questo spiega quale sia il retroterra socio culturale leghista: una percentuale più bassa di cittadini istruiti. La demagogia attecchisce qui, così come i richiami a martello sulla sicurezza, l’aggressione dell’immigrazione (anche qui con un rovesciamento dell’ordine dei fattori: senza manodopera immigrata il favoloso boom del nordest non ci sarebbe mai stato). Con un’architrave politico culturale che è la difesa del dio denaro a tutti i costi e del proprio giardino adeguatamente staccionato: andate a Ponte di Legno e toccherete con mano la materializzazione dell’ideologia leghista.
Quindi, le graduatorie su base regionale sono fuoco demagogico che si somma ad altrettanto sconsiderato fuoco. Quel populismo che lacera il tessuto civile.❖