venerdì 9 febbraio 2007

Repubblica 9.2.07
TUTTE LE MADRI DEL MEDITERRANEO
Una mostra sull'archeologia turca


Spicca una sculturina di diciannove centimetri, una divinità che ha molte gemelle nel mar Tirreno
Una "Camera delle Meraviglie" con pezzi molto antichi neolitici, assiri ed ittiti: sette millenni di storia
Pugliese Carratelli già trent´anni fa proponeva di cercare tracce "micenee" in Italia
Le teorie di Mommsen sull´incapacità degli Elleni antichi di navigare per mare
Tra i pezzi più interessanti c´è uno specchio usato da Solimano il Magnifico
La Chiesa di Roma ipotizzò che Maria sarebbe morta vicino alla città di Efeso

ROMA. «Una faccia, una razza!». Chissà se a dircelo per primi - a noi Italiani, almeno sei millenni fa - non sian stati proprio i Turchi? Certo a guardarsela per bene questa loro Dea Madre del IV millennio a. C. che apre la mostra "Turchia 7000 anni di civiltà", allestita da Louis Godart, al Quirinale, per festeggiare i 150 anni di relazioni diplomatiche tra Italia e Turchia, il sospetto viene: vien da pensare che a quel secolo e mezzo sancito dall´ufficialità, ne andrebbero aggiunti almeno altri 60 di secoli.
Seimila anni di preistoria e storie, un tempo comuni.
E una sculturina minima in calcare, questa Dea di Canhasan, 19 centimetri in tutto, e tutti inquartati nella posizione austera e accovacciata che i canoni di quell´epoca di fede le avevano affibbiato. Ha lasciato il suo Museo di Ankara per mostrare a noi e all´Europa di Bruxelles, quanto antiche siano la civiltà e la religiosità in Anatolia. E, ora, fa da pezzo forte a questa Wunderkammer tutta turca che chiuderà i battenti il 31 marzo prossimo dopo aver mostrato 46 reperti eccellenti, emblematici, scelti con cura, uno per uno da Godart, per rievocare le tappe fondamentali di quella civiltà (la mostra sarà poi allestita all´Archeologico di Napoli, ndr.).
Quindi: roba neolitica, e assira, e ittita; e sigilli (che fanno presupporre depositi e magazzini da tener sotto controllo); e scritture, appena nate; e i primissimi sistri di bronzo; e altri bronzi (che troveremo simili anche in Europa, ma molto dopo); e vasi lustrati ad arte, già nel III millennio a. C. Via via - accennando soltanto a Bisanzio - si arriva fino alle raffinatezze dell´Islam che lì affina l´arte nuova - ormai, senza più figure umane - fatta solo dei suoi caleidoscopici arabeschi simbolici. E gioielli, e boccali in cristalli di rocca, e Corani istoriati da non credere. C´è, in mostra, persino uno specchio - tutto giade, rubini, diamanti e turchesi - che era usato da Solimano, il Magnifico.
Lei, però, quella Dea Madre del IV millennio a. C., sembra saperla più lunga di tutti: viene da lontano, andrà lontano. Capelli raccolti dietro la nuca, occhi quasi a mandorla, faccia paffuta, un po´ tutta sovrappeso, come allora piaceva assai. Dimagrirà nel millennio successivo: si affilerà nel marmo bianco e nelle geometrie sacrali per unire - in un unico credo - il mare da Est a Ovest.
Del resto il suo compito era di tutto rispetto: opulenta prima, stilizzata poi, la Dea Madre in molte zone del Mediterraneo - in Turchia, nelle Cicladi, in Sardegna - doveva accompagnare nell´Aldilà il morto in modo che una volta arrivato laggiù, non si sentisse troppo solo e, soprattutto, non tornasse, per nostalgia, a disturbare i suoi cari.
Paciosa, morbida e tranquillizzante com´è, non si direbbe proprio che questa Nostra Signora dei Turchi sia arrivata qui da noi per seppellire definitivamente un dogma che - seppur datato alla metà dell´Ottocento - ha influenzato, ritardandoli, moltissimi ragionamenti archeologici del secolo appena finito.
Del resto a promulgarlo ex cathedra era stato nientemeno che Theodor Mommsen, e per di più l´aveva fatto nella sua Storia di Roma antica, dove - già nel II capitolo, come una premessa - sentenziò: «Indubbiamente le più antiche migrazioni di popoli avvennero tutte per via di terra, specialmente quelle verso l´Italia, le cui coste potevano essere raggiunte per mare solo da esperti naviganti ed erano quindi ancora al tempo di Omero perfettamente sconosciute agli Elleni».
Oggi si sa che non è così. Ma - con questa sua frase (che, però, sottende tutta l´opera del grande antichista tedesco) - il Mommsen riuscì a semplificarci il Passato Remoto: i riflettori e le attenzioni di molti antichisti, italici e ortodossi, puntarono tutto sulle Super Razze e si accoccolarono nello studio dell´autoctonia dei Popoli, mettendo al bando ogni comparativismo.
Nacquero persino le teorie del «hic et nunc», il «qui e ora» delle etnie: da studiarsi soltanto sul posto. Radici o migrazioni diventarono off limits per gli studiosi più seri. I racconti degli Antichi? Fiabe pazze da prender con le pinze.
Già il grande grecista Giovanni Pugliese Carratelli, aveva rischiato l´accusa di eresia quando, una trentina di anni fa, stimolò gli archeologhi affinché cercassero tracce «micenee» qui da noi, in Italia. Presto, però, la ricerca gli diede ragione: in Sicilia, a Ischia, in Sardegna, Puglia, persino in Veneto, saltarono fuori e riconosciuti reperti datati al XIII e XII secolo a. C. - proprio l´età raccontata da Omero - a legare strette strette le genti mediterranee e a fare assai più grande il mondo e il mare degli Antichi.
Eppure - e proprio grazie a quel dogma promulgato da Mommsen - in certi ambienti ci si continua ancor oggi a stupire se, di tanto in tanto, relitti di bastimenti del II millennio a. C. restituiscono merci dell´intero Mediterraneo.
Ora questa madonnina turca del IV millennio, quasi gemella alle sue coetanee neolitiche di Sardegna. A riguardarsela da vicino vicino - adesso che troneggia in vetrina, lì, al Quirinale - sembra materializzarci le antiche rotte di cui favoleggiarono i Sargon prima, gli Ittiti poi, con l´Anatolia a far da grande imbarcadero della civiltà: Terra Madre!
Solo che, ormai, nessuno se lo ricorda più: né al Museo di Ankara (dove normalmente questa statuina è esposta), né in quelli sardi, (dove sono in mostra le sue sorelle) e neppure all´Archeologico di Bruxelles (dov´è un´altra loro parente stretta, con la testa un po´ più sottile, trovata nelle Cicladi), vengono sottolineati questi loro gemellaggi transmarini.
Eppure l´ha sottolineato con scrupolo in catalogo, Godart: «Fin dal neolitico le scoperte e le conquiste culturali di cui le terre anatoliche sono state teatro hanno segnato profondamente la civiltà europea e, a sua volta, la civiltà occidentale ha plasmato in parte il volto della Turchia moderna». Figurarsi che, ormai, c´è chi - come Gray & Atkinson, su Nature del novembre 2003 - assicura che gli Indoeuropei proprio da lì siano partiti per regalarci lingue tutte apparentate, insieme ai semi giusti per l´agricoltura e ai cento segreti dell´allevamento.
Ed è una storia infinita quella nostra che s´intreccia con la loro.
A dare ai Greci quel che è dei Greci, ormai, ci siamo abituati. Spesso, poi, però, ci si dimentica di ricontrollare quanto la Grecia classica si sentisse debitrice con l´Anatolia, il paese dell´alba: l´altra metà del suo cielo. Omero? C´è chi ce lo giura mezzo turco. Esiodo, il teologo? Lo racconta lui stesso - proprio mentre sta costruendo un Pantheon agli Elleni - che suo padre era emigrato da Cuma eolica «non certo fuggendo gli agi, né la ricchezza e il benessere, ma la cattiva povertà che Zeus assegna ai mortali».
Per non parlare di Dioniso che - parola sua, ma grazie alla penna dell´Euripide di Baccanti - nel V secolo a C. si autocertifica così: «Mia patria è la Lidia». Tanto che Penteo, con cui il Dio della Vite sta dialogando, gli ribatte: «E com´è che vieni ora a portare questi riti nell´Ellade?». E son targati Turchia anche uomini che sembrano dèi - come Mida, e Creso - insieme a dèi che soffrono come uomini, come Prometeo. E Demetra/Madre Terra da dove ci arriva se non dalla Dea Madre di Ìatalh´y´k («Un pezzo che rimpiango: l´avrei voluto qui, in mostra» confessa Godart) che - datata VI millennio a. C., ritratta trionfante in trono mentre sta partorendo - si prende il primato delle divinità femminili mediterranee che via via si materializzeranno nell´elaboratissima Artemide di Efeso, pregata in mezzo mondo, fino su alla Marsiglia dei Focei, lupi di mare d´antan.
Roba vecchia? Cose turche? Solo turche?
Fino a un certo punto: dopo mille cautele la Chiesa di Roma, nel secolo scorso, decise che proprio in una casa a pochi chilometri dalla Efeso di Artemide, (ritrovata dagli archeologhi, grazie alle visioni di una mistica austriaca), sarebbe morta Maria, la madre di Gesù.
Nel 1967 Paolo VI si recò lì a pregare l´ultima nostra Dea Madre.

giovedì 8 febbraio 2007

Ansa.it 6.2.07
Editoria: Storia Anni 70 con Liberazione, non fu solo piombo

Una storia a fascicoli raccontata da chi l'ha vissuta per spiegare alle giovani generazioni che gli anni Settanta non furono solo ''anni di piombo'' ma anni di ''speranze e di allegria''. La raccontera' il quotidiano 'Liberazione' che a partire da giovedi' e per dodici settimane mandera' in edicola 12 fascicoli per raccontare il decennio che ha segnato una generazione intera. Un numero per ogni anno e due uscite sul '77, l'anno del Movimento e della 'fantasia al potere', ma anche quello in cui molti giovani fecero la scelta della lotta armata. L'iniziativa e' stata presentata oggi a Roma dal direttore del quotidiano Piero Sansonetti, da Ritanna Armeni, da Tano D'Amico, le cui foto illustrano il decennio, e da Oreste Scalzone, appena rientrato in Italia da uomo libero dopo che i reati per cui e' stato condannato a 16 anni di carcere sono caduti in prescrizione. L'obiettivo e' chiaro. ''Volevamo raccontare ai giovani di oggi - dice Sansonetti - che gli anni settanta non sono stati solo violenza. Raccontarli come anni di pura cupezza non solo e' sbagliato ma non ci serve a nulla''. ''Ci furono tante speranze, tanta allegria - aggiunge Tano D'Amico -lunghe storie d'amore e d'amicizia. E la cosa piu' triste e' che quei volti e quei sorrisi non esistono piu'''. Certo, aggiunge Sansonetti, ''c'era pure la violenza, ma era inserita in qualcosa di molto piu' grande. Siamo convinti che quel decennio e' stato ricchissimo di contenuti, anni in cui germogliarono idee ricchissime che hanno cambiato il nostro modo di vivere''. Negli anni Settanta, prosegue, ''nacquero infatti il femminismo, l'egualitarismo, l'ambientalismo. E siamo convinti che per affrontare le crisi politiche di oggi, italiane e occidentali, sia fondamentale correre a riprendere alcuni temi abbandonati proprio negli anni settanta''. (ANSA).

il Riformista 8.2.07
LETTERA. PRIMA LE IDEE, POI I PARTITI
Bene il dibattito, ma il punto è:
che cosa vuol dire socialismo oggi?
di Nerio Nesi

l’Unità 8.2.07
Mussi presenta la mozione «Perché dico no al Pd»
Il documento firmato anche da Salvi, Spini, Bandoli
e Nerozzi. Richiamo alla sinistra e al socialismo europeo
di Simone Collini


NON SI VA «OLTRE» IL SOCIALISMO con il Partito democratico: si va «fuori e indietro» rispetto alla tradizione socialista. Fabio Mussi riprende un’immagine a cui è recentemente ricorso Massimo D’Alema per spiegare il suo no a quella che giudica una «pura fusione tra Ds e Margherita». Il leader della sinistra diessina ha depositato ieri la mozione con cui si candida alla segreteria del partito. E poi l’ha presentata ai giornalisti a Montecitorio insieme agli altri primi firmatari: Cesare Salvi, Fulvia Bandoli, Valdo Spini e il segretario confederale della Cgil Paolo Nerozzi. Un’occasione per ribadire che mozione e candidatura per il congresso di aprile non sono «un atto di testimonianza»: «Andiamo per vincerlo, cioè per avere il consenso sufficiente per fermare il treno del Partito democratico». Perché se va in porto l’operazione a cui lavora la maggioranza dei Ds, il primo, immediato risultato è che scompaiono due immagini e due parole. «Le due immagini: la Quercia e la Rosa; le due parole: sinistra e socialismo». Ma soprattutto resta tutto da sciogliere il nodo della collocazione internazionale. Da qui il no a un partito che «nasce homeless, senza casa». E da qui la decisione di presentare agli iscritti una posizione «alternativa», che punta all’«unità» della coalizione e all’«autonomia» del partito, che vuole lavorare «per un rinnovamento profondo dei Ds» e per «un nuovo socialismo». Il tutto, sintetizzato nel titolo della mozione: «A sinistra per il socialismo europeo».
Il documento si apre sottolineando che «questo è il congresso che decide l’avvenire della sinistra italiana» e con la contrarietà «alla scomparsa in Italia, unico Paese europeo, di un grande partito socialista e di sinistra». Si parla poi del «rischio di una catastrofe ambientale», della necessità di sostituire alla pratica dello scontro di civiltà «il primato del diritto internazionale, la riforma e il rilancio dell’Onu», dell’Africa («nella nostra mozione c’è, in quella firmata da Veltroni no», dice con un sorriso il coordinatore organizzativo della mozione Gianni Zagato), dell’uso della forza «legittimo» solo nel rispetto della Carta dell’Onu e dell’articolo 11 della Costituzione, dell’«insostenibilità dell’attuale organizzazione dell’economia globale». Nelle 19 pagine di testo si parla anche della necessità per la sinistra, se vuole rappresentare il mondo del lavoro, di non essere «equidistante tra la Confindustria e i sindacati» e di lavorare per una «occupazione stabile, perché la lotta alla precarietà non può limitarsi agli ammortizzatori sociali, ma richiede una nuova normativa che rovesci la logica della legge 30». Si dedica un capitolo alla laicità dello Stato, «una conquista della democrazia repubblicana», «un principio non negoziabile», e uno alla riforma della politica, nel quale si dice aperta «una nuova e inquietante questione morale». Non mancano riferimenti a vicende più o meno recenti: «La separazione tra finanza, economia e politica deve essere netta e chiara, come non è accaduto nel caso Unipol», si dice in questo stesso capitolo, mentre in quello dedicato a «un futuro di pace» si parla anche della base di Vicenza: «Riteniamo si debba ascoltare l’opinione contraria delle popolazioni locali».
A firmare la mozione sono stati anche 36 parlamentari, tra nazionali ed europei, oltre ai primi cinque firmatari. «Non è vero che diciamo solo dei no» sottolinea Salvi parlando della necessità di unire forze di sinistra e movimenti. «Oggi il lavoro e senza rappresentanza», dice Nerozzi, mentre Spini rivolge un appello al leader dello Sdi Boselli a lavorare per rafforzare il socialismo europeo in Italia. Fulvia Bandoli accusa: «Mettere insieme due partiti poco democratici e autoreferenziali non può dar vita a un partito nuovo».
Mussi, a chi gli domanda se in caso di sconfitta si staccheranno dal partito, risponde dicendo che «si cammina un passo alla volta, ora andiamo al congresso per vincere». Di più parole, invece, quando gli viene chiesto un commento su Sofri, che alla presentazione della mozione di Fassino aveva definito «grottesca l’idea che Mussi o Salvi lascino i Ds»: «Io ho rispetto per lui ma la sua storia politica non giustifica questa alterigia. È andato fuori dal seminato quando ha lanciato l’anatema contro le minoranze dei Ds. Lui può fare le scelte che vuole, passare da Lc al Pd ma mi lasci stare, anche la mia è una scelta politica che merita rispetto».

l'Unità 8.2.07
La parlamentare: «È stato condannato, invitarlo alla presentazione della mozione Fassino è un vulnus ai giudici»
Sofri, la polemica di Olga D’Antona


«Nella giornata di ieri, in occasione della presentazione della mozione di maggioranza dei Ds, tra gli interlocutori chiamati a discutere con Piero Fassino, Massimo D’Alema e Walter Veltroni, c’era anche Adriano Sofri». Parte dalla cronaca, Olga D’Antona, per lamentare il «vulnus» nei confronti della magistratura provocato dalla presenza l’altro ieri al Capranica dell’ex leader di Lotta continua. Dopo la presentazione dei fatti, la vedova del giuslavorista ucciso dalle Br nel ‘99 fa una premessa, e cioè che a volte ha apprezzato le cose che Sofri ha scritto e che «in considerazione del suo stato di salute» non ha mai manifestato contrarietà alla «concessione della grazia nei suoi confronti per motivi umanitari». E ci tiene anche a sottolineare, la deputata dell’Ulivo, che in passato non ha mostrato «particolare accanimento né spirito di vendetta verso chi, pur essendo stato autore di gravi atti di terrorismo, ha scontato la propria pena e ha mostrato segni di ravvedimento».
È a questo punto del testo, un’intera pagina scritta l’altra notte dopo aver avuto la conferma di quanto visto annunciato su giornali e manifesti, e cioè che effettivamente l’ex leader di Lotta continua era sul palco del Capranica con Fassino e gli altri, che l’esponente della sinistra Ds critica la scelta compiuta dai vertici del suo partito: «Non posso altresì fare a meno di rilevare che Adriano Sofri è stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per l’omicidio di un servitore dello Stato e che non ha finito di scontare la sua pena. A questo punto mi chiedo perché il gruppo dirigente del mio partito, che è partito di governo, lo sceglie come interlocutore privilegiato». La vedova di Massimo D’Antona si chiede quale sia il «messaggio simbolico» di questa scelta, ma soprattutto fa un ragionamento di cui chiede conto ai vertici del suo partito. Perché le ipotesi sono solo due. La prima: «Se si ritiene che Sofri sia vittima di un errore giudiziario, in base ad elementi concreti, perché non chiedere la revisione del processo per scagionarlo e cercare i veri colpevoli?». La seconda: «Ma se invece è colpevole, come la magistratura ha ritenuto, chiedo ai dirigenti del mio partito, che hanno ricoperto e ricoprono importanti incarichi di governo (presidente e vicepresidente del Consiglio, ministro della Giustizia, ministro degli Esteri) se, in un Paese democratico, questo non rappresenti un vulnus nei rapporti con una delle più importanti istituzioni dello Stato, cioè nei confronti della magistratura, che ha emesso una sentenza definitiva, infliggendo una pena non ancora completamente scontata».
Parole che non si aspettavano al Botteghino, anche perché neanche il centrodestra aveva commentato in modo così aspro la presenza al Capranica di Sofri, che a dicembre ha avuto dal tribunale di sorveglianza di Firenze un nuovo differimento della pena per condizioni di salute «assolutamente incompatibili» con il regime carcerario.
A volere l’ex leader di Lotta continua alla presentazione della mozione è stato lo stesso Fassino, che nei giorni scorsi lo ha contattato personalmente. E non a caso sono due membri della segreteria molto vicini al leader Ds a difendere l’iniziativa. «Adriano Sofri è una personalità della cultura italiana, espressione anche di una visione globale dei problemi del mondo e di una tensione innovativa della politica e della sinistra», dice il coordinatore della segreteria Ds Maurizio Migliavacca dicendosi fiducioso che «come altre personalità della cultura sarà interessato alla costruzione del Partito democratico». Il responsabile Sapere e innovazione dei Ds Andrea Ranieri insiste invece sul fatto che la «scommessa» del Pd si basa sulla capacità di cambiare se stessi e di «far fronte ai grandi cambiamenti del mondo e dell’Italia», e che essendo Sofri «una testimonianza di capacità di cambiamento», la sua presenza è stata una scelta opportuna.
s.c.

l'Unità 8.2.07
Bertinotti cerca un leader vero. Ma in Italia per ora non lo vede
Estasiato dal tour sudamericano, ieri l’incontro con Lula. «Si riescono a fare cose per i poveri a Bahia impossibili a Palermo»
di Natalia Lombardo


UN LEADER carismatico, con idee forti e uno stretto rapporto con il popolo, tale da fondare un partito di massa che non pensi solo alla governabilità: ecco, un leader così Fausto Bertinotti non sembra vederlo nell’orizzonte europeo, tanto meno in quello italiano. Potrebbe essercene uno “imprevisto in futuro”. Nelle vicinanze per ora vede solo chi l’ha ricevuto nel Palazzo presidenziale Plan Alto a Brasilia: Lula, il “presidente operaio” che è stato rieletto nel 2006 con 58 milioni di voti e temi essenziali come “il diritto a mangiare”. “Viva Lula, un protagonista della storia mondiale”, lo definisce Bertinotti dopo l’incontro, nel quale hanno parlato di cooperazione con l’Europa, dove Lula verrà presto, e dell’integrazione fra i paesi dell’America Latina.
Un incontro cordiale, forse più formale che in altre occasioni, per un rapporto nato dal passato di capi sindacali negli anni 70, dalla Flm a Torino alla Fiat di Bel Horizonte in Brasile, fino a quel dialogo a distanza quando, nel 2002, l’allora segretario di Rifondazione era al Social Forum di Porto Alegre e, collegato in video da Davos, Luiz Inacio da Silva sbattè sul tavolo Usa i diritti dei poveri in Brasile.
Molto colpito dal “rinascimento” dell’America Latina, nel suo viaggio istituzionale e nel sociale, l’ex leader di Rifondazione ha ritrovato il filo della partecipazione col quale “i soggetti politici precedono l’esperienza di governo”. Un filo spezzato in Italia, è un pensiero non detto del tutto dal presidente della Camera, a cui preme “ripensare la politica in termini sociali”. Ma non basta. Guarda altre esperienze: il colpo d’ala l’hanno dato leader carismatici come Lula, o il venezuelano Chavez (che dovrebbe incontrare in un secondo tour a primavera in Venezuela, Bolivia, Cuba), così come “il colpo di scena” di Mitterrand a Epinay, nel suo discorso sul Partito socialista francese.
Bertinotti così rivaluta la necessità di un leader che “in America Latina è diventato un fattore fondamentale”. Sorpassa la contraddizione con la sua storia con una punta di autoironia, citando Woody Allen: “A volte mi vengono pensieri che non condivido”. Della leadership in Italia “non parlo neppure sotto tortura”, si schermisce restando nei panni istituzionali. “Il leader non dev’essere necessariamente quello di ieri, ma può esserlo domani. Ci sono leader imprevisti, costruiti giorno per giorno. Non sono senza volto, potrebbero avere anche nomi antichi.”. Gli esempi ci sono: da “Lula tessitore” delle forze di sinistra nel Pt e poi del sindacato unitario del Cut ora mediatore coi paesi sudamericani considerati più radicali (distinzione che Bertinotti rifiuta), fino a Mitterrand, o al Frente Ampio uruguayano. Non entra nella trappola dello specifico italiano però non assegna a nessuno, neppure a Prodi, il ruolo di “leader maximo”. Veleggia nella “cultura politica” indicando un modello ampio, calzante sia per il suo partito che per la Sinistra europea o per l’Unione. Insomma, per ora un Lula italiano non c’è, potrebbe nascere “con un carisma relativo, da una congiuntura di necessità”. Nessun nome. Anzi, riviene a galla la collegialità della figura del sub comandante Marcos (al quale rese visita da segretario di Rifondazione, ovviamente più movimentista): “In teoria….siete tutti candidabili”, dice come battuta ai giornalisti nel patio della comunità Axe a Salvador de Bahia, altro esempio di partecipazione e solidarietà.
Solidarietà che in America Latina dà i suoi frutti, recupera i minori alla collettività creativa, emancipa chi vive nell’Alagados, le palafitte malsane di Bahia, ad una più dignitosa abitazione, lavoro della ciellina comunità Ribeira Azul, l’aiuto della Banca Mondiale e del governo locale. “Perché queste cose si possono fare in Sudamerica e non al quartiere Zen di Palermo?” si chiede Bertinotti. Qui “i soggetti politici precedono l’esperienza di governo”. Nella paludata e vecchia Europa, invece, “la politica negli ultimi venti anni è stata vissuta solo nella chiave della governabilità”, piegando a questa anche le riforme istituzionali.
Certo “governare non è un pranzo di gala” e chi è al potere perde (tranne Blair comunque in calo), la prova del fallimento è la bocciatura della Costituzione europea da parte della Francia. Il segno di un divario dei governi “che faticano a realizzare una politica col consenso di popolo”. Insomma, la sinistra in Europa esca dai Palazzi e torni nel sociale. “persino Sarkozy si è accorto che deve puntare sul lavoro”, e persino il populismo alla Chavez non è da gettare nel cestino.
Del “rinascimento” in Sudamerica, sarà difficile trovare germogli in Europa, Bertinotti immagina, o forse sogna, un partito di massa che raccolga varie esperienze “la semplificazione non è lo sterminio dei partiti, con un sistema elettorale alla tedesca. Insomma, in Italia non va bene niente, la sinistra si svegli. Il leader? Lui o un sub comandante Marcos?

Il Giornale 8.2.07
La psiche è donna parola di Sigmund
di Angelo Ascoli


C’è Anna, la figlia, e se è vero che la psicanalisi ha fatto esplodere la famiglia, smascherandone delitti e misteri, smontandone i meccanismi senza spesso più riuscire a rimontarli, è anche vero che non ci sarebbe stata la psicanalisi se la famiglia non fosse già saltata in aria a contatto con la modernità. Ed è logico che dalla famiglia Freud trasse i modelli delle sue intenzioni e nella famiglia trovò la linfa per il suo lavoro: «La sua stirpe proseguì attraverso la più giovane delle sue figlie, la vergine vestale Anna, che divenne la guardiana del tempio della psicoanalisi e della parola del padre. “Sant’Anna”. Anna, la santa pulzella che, in quella che definisce un’“altruistica resa”, rinuncia a se stessa per dedicarsi a Freud e alla sua eredità».
C’è Lou Andreas-Salomé, «donna straordinaria», di «pericolosa intelligenza»: quando arriva a Vienna, nel 1912, ha già 51 anni, non è più la meravigliosa, fresca forza della natura la cui vita, prima di incrociare quella di Freud, aveva attraversato i destini di Nietzsche e di Rilke, di Wedekind e di Schnitzler, ma è comunque una delle donne più affascinanti d’Europa, il prototipo del moderno femminino, e non è un caso che per i 25 anni successivi diventi discepola e musa, ispiratrice e seguace, figlia e madre della psicanalisi, dimostrando quelle origini femminili della rivoluzione freudiana che ne costituirono subito la vera forza dirompente.
C’è Marie Bonaparte, pronipote dell’unico Napoleone, moglie di Giorgio di Grecia, zia del Filippo di Edimburgo che tutt’oggi siede sul gradino più basso del trono d’Inghilterra: soprannominata «Freud a dit», fu il ministro degli Esteri della psicoanalisi in Francia e si autoproclamò depositaria del verbo al punto da scomunicare Jacques Lacan, e scusate se è poco; di fronte a lei, Freud si considerò sempre «un piccolo-borghese». Grafomane, eccessiva negli entusiasmi e negli amori sebbene fosse assillata da un’eterna frigidità, Marie, a 42 anni, lesse l’Introduzione alla psicoanalisi e scoprì in Freud un altro padre, forse l’unica figura che nella sua mente potesse competere con l’ingombrante fantasma del grande antenato e che desse un senso, una missione alla sua vita dispersa tra salotti e amanti.
Ci sono Anna, Lou, Marie e tante altre donne, e senza di loro probabilmente il destino di Freud non sarebbe stato lo stesso. Perché è nel rapporto tra il padre e le figlie, tra la gigantesca figura di Sigmund, nello stesso tempo Edipo che ha ucciso il padre e Cronos che divora i figli; è nel tormentato, a volte drammatico, sempre ricchissimo legame che Freud ebbe con le donne, con il femminino che, come prima nessun altro, aiutò a liberarsi da millenni di tabù e di menzogne, e da cui trasse la forza per liberare le sue intuizioni e le sue verità, che viene analizzato l’universo di Sigmund Freud e le sue donne (La Tartaruga, pagg. 524, euro 17,50) che Lisa Appignanesi e John Forrester riescono a dire qualcosa di più sulla grande rivoluzione dell’inizio del Novecento.
Anna, Lou, Marie, e poi Sabina Spielrein, la donna «per cui Jung nel 1906 decise di scrivere a Freud, inaugurando così un rapporto triangolare che sarebbe stato determinante per entrambi i colleghi nonché per la storia della psicoanalisi». E ancora Loe Kann, una delle tante pazienti donne di Sigmund, con in più il fatto che fosse la moglie di Ernest Jones, colui il quale per primo fece conoscere la nuova scienza in Inghilterra. E ancora, Helene Deutsch, una delle prime psicanaliste, icona del femminismo del Novecento, eppure anche lei figlia e discepola del gran misogino. E poi Alix Strachey e Joan Riviére, ambasciatrici di Freud in Inghilterra; Hilda Doolittle e Melanie Klein, donne famose e altre sconosciute, uno sterminato universo femminile che ruota intorno al sole di Sigmund, e ci sarà un motivo se «negli ultimi decenni di vita, Freud allacciò rapporti di amicizia soprattutto con le donne».
Forse perché erano loro le più pronte e le più bisognose di sposare una rivoluzione culturale che aprì la strada al terremoto sociale e mentale che ha spazzato via la famiglia tradizionale, lasciando solo macerie ogni giorno più fragili. O forse perché, ambasciatrice e portatrice di una modernità in cui l’occidente non riesce a fermare (o non vuole) la sua ineluttabile femminilizzazione, è nelle donne che la psicoanalisi e il suo padre trovarono la loro origine e il loro destino.

Liberazione 8.2.07
Washington (Rice) e Vaticano (Ruini) vogliono silurare il governo Prodi
di Rina Gagliardi


Offensiva convergente delle due ”Grandi Potenze”. Condoleeza non gradisce la politica estera dell’Italia e non si accontenta di Vicenza
L’ambasciatore Usa insolentisce D’Alema. Monsignor Ruini, con toni da Pio IX, pretende la testa dell’ex-amico Prodi che considera un traditore

Il disegno è chiaro e passa per un patto di ferro tra due grandi poteri: il Vaticano e il governo americano. Per capirci: Sua eminenza il cardinale Camillo Ruini e Condoleeza Rice faranno di tutto, da qui ai prossimi due mesi, per far cadere il governo Prodi. Al quale, ad ogni modo, hanno già palesemente “dichiarato guerra”. Questa “informazione” o, se preferite, questa tesi circola da vari giorni nei palazzi della politica - una sorta di allarmato tam tam, sostenuto da figure diverse e tutte credibili, cioè nient’affatto dedite alla fantapolitica e per nulla afflitte dalla sindrome del “Grande Complotto”. E dunque? Dunque, noi non possiamo garantirvi che si tratti di una notizia certa, o di una verità politica dimostrata. Non dubitiamo invece della sua credibilità. Proviamo perciò ad analizzarla attraverso le cronache di queste giornate, e qualche spunto di riflessione.

Politica estera. Che stia calando il grande freddo tra Italia e Stati Uniti d’America, e che nel mirino di Washington sia finito soprattutto il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, è ormai sotto gli occhi di tutti. I tempi del “bye bye Condy” sembrano appartenere ad un’atra stagione, quando il governo americano è sembrato incassare con relativo fair play il ritiro dall’Iraq e l’iniziativa sul Libano: due scelte che certo non sono mai particolarmente piaciute all’amministrazione di Washington, ma che forse, lì per lì, sono state considerate lo “scotto” necessario da pagare al nuovo governo appena insediato, e all’affermazione di una strategia almeno dotata dell’apparenza del multilateralismo. Via via, nel corso dei mesi, la politica estera italiana ha assunto agli occhi nordamericani un pericoloso e crescente livello di autonomia, sia per il suo marcato europeismo, sia per la sua porzione “filoaraba”, sia, anche, per quella che sin da luglio è stata percepita come una scelta di disimpegno (di disimpegno militare) dal fronte afghano. Non è certo un caso che Prodi non abbia a tutt’oggi messo in calendario, come è tradizione dei presidenti del Consiglio italiani, un viaggio nella capitale americana. Per quanto nessuno possa mettere in dubbio la sua collocazione, o i suoi sentimenti, occidentali, anzi occidentalissimi, per quanto egli abbia deciso di autorità il raddoppio della base Usa di Vicenza, Prodi resta per gli americani un politico di profilo europeo. Un leader poco affidabile. Un alleato che ha in testa più gli accordi con la Cina che non la realizzazione di un rapporto di fedele soggezione agli Stati Uniti. Non è da escludere che, avvertendo attorno a se questo clima di sfiducia, il nostro premier abbia deciso, sul Dal Molin, di compiere un vero e proprio “gesto di ubbidienza”, coartando una parte importante della sua coalizione proprio allo scopo di rassicurare il segretario di Stato e di guadagnarsi un gallone di affidabilità. Ma in tutta evidenza a Condoleeza Rice questo gesto non è bastato: pochi giorni dopo, la risposta è stata la lettera a “Repubblica”dei sei ambasciatori amici degli Usa, una interferenza sulla sovranità nazionale italiana così smaccata e pesante da non avere precedenti.

A sua volta, la replica del ministro degli Esteri non ha molti precedenti, per la sua secchezza e per il suo tono: D’Alema, forse, sa che si sono esauriti tutti i margini del bon ton. Gli Stati Uniti pretendono non il semplice rifinanziamento della missione italiana a Kabul, non una nuda e cruda conferma, ma il suo congruo rafforzamento, in vista della annunciata offensiva di primavera dei taliban e in vista di una guerra nella quale si giocano la loro residua credibilità. La partita, come si capisce, è tutta politica - ma anche molto simbolica. E quello che Washington pensa di D’Alema l’ha detto a chiare lettere, ieri sul “Corriere della Sera”, l’ex ambasciatore Secchia: ha detto che D’Alema è un uomo che «non capisce dove sono i suoi amici», che è segnato dalla sua storia nella sinistra radicale, che «se fosse per lui oggi ci sarebbe ancora l’Unione Sovietica». Quando mai un ex diplomatico, peraltro molto vicino al presidente Bush, ha parlato con tanta violenza di un membro eminente del governo di un paese amico?
“I Pacs”. Anche questo è un fronte più che pubblico. Le autorità vaticane hanno da settimane scatenato non una campagna, ma una crociata, contro la moderatissima proposta sulle unioni civili prospettata con una mozione alla Camera. Ci si sono messi tutti, dalle prediche domenicali di Ratzinger, ai cardinali con gli incubi di Satana. Fino al “non possumus” del giornale dei vescovi, che ha il sinistro sapore del sillabo di Pio IX e del peggior clericalismo neotemporalistico: come se avesse senso oggi dettare allo Stato italiano le leggi che può fare e quelle che non può fare. Dunque, i pacs, se così si può dire, sono anche un cavallo ruffiano, uno strumento, un pretesto: il cardinal Ruini, che gestisce in toto la politica della chiesa cattolica, mira in realtà a sgambettare il governo Prodi e l’Unione, ai suoi occhi così zeppi di laicisti e di comunisti. E’ noto che Sua eminenza, tanto legato a Prodi d’aver celebrato il suo matrimonio, considerò la sua discesa in campo, nel ’96, a capo di uno schieramento di centrosinistra, un vero e proprio tradimento. Che abbia deciso di fargliela pagare, anche sul piano personale? Mancano solo tre mesi al pensionamento del cardinale e alla nomina del nuovo presidente della Cei (si dice, speriamo sia vero, che sarà più pastore e meno intrigante). Il tempo stringe, perciò sale a mille la pressione sui politici e parlamentari cattolici, perciò i teodem alzano i toni, anzi strillano, come hanno fatto ieri, annunciando il loro “non possumus”, che va dai pacs alla messa in discussione del testamento biologico.
“Conclusione provvisoria”. La cronaca quotidiana forse non conferma il sospetto del Grande Complotto, ma di sicuro accredita l’inasprimento dell’offensiva vaticana e nordamericana contro il governo dell’Unione. Un’aggressività che si produce in contemporanea e che sfrutta tutte le contraddizioni che sono già presenti nella coalizione e concorre a produrne di nuove. Una coincidenza? Forse. Quel che è sicuro, è che sembra essere tornati ai tempi dell’ambasciatrice Luce e del pontificato di Pio XII e che, oltreoceano e oltretevere, si vorrebbe terremotare il quadro politico ben oltre le speranze e le volontà dello stesso Berlusconi (una crisi di governo in tempi rapidi, magari nuove elezioni, non convengono oggi al Cavaliere: metterebbero comunque in pole position il suo ex alleato Casini). Invece, logorare l’Unione, anzi frantumarla e seppellirla, cacciare Prodi e D’Alema, andare ad un anno e mezzo o due di governo neocentrista, riformare la legge elettorale nel senso indicato dai referendari, ovvero nel senso di recidere per la sinistra radicale e per Rifondazione comunista ogni vera possibilità di rappresentanza, inaugurare, insomma, la terza Repubblica: ecco il programma che, chissà, Camillo può avere spiegato a Condy, e che comunque va realizzato ora, non tra un anno. Non passerà, ne siamo sicuri. Ma, se il cardinale ce lo consente, è davvero diabolico.

mercoledì 7 febbraio 2007

l’Unità 7.2.07
Quel giorno con Lama all’Università
di Piero Marietti


Era grigio, coperto e anche freddo quel 17 febbraio 1977, giovedì grasso. Non lo ricorda nessuno, ma non è da trascurare: era vacanza di Carnevale, niente lezioni, pochi studenti, pochi professori, poco di tutto. Poco anche di voglia di andarci, a sentire Lama che viene a parlare a quelli... che invece sono tanti. Da tempo tengono in scacco l’Ateneo, occupano di tutto, picchiano forte solo se passi vicino, ti sputano addosso, non ti lasciano nemmeno dire buongiorno. Li odi? No, ma di sicuro li temi. Noi sessantottini siamo stati sconfitti da piazza Fontana in poi e non siamo più allenati, né a menare le mani, né a scappare se carica la polizia.
Figurarsi se vogliamo essere picchiati «da sinistra».
Non li odi perché capisci che li spinge la disperazione, si sentono poveri quando avevano loro promesso un luccicante consumismo e se uno si sente povero e pieno di «desideri», sta male da fare schifo. Si ribella perché pensa di non avere vie d’uscita: metti un topo all’angolo e diventa un leone. L’austerità di Berlinguer e la svolta dell’Eur di Lama li vivono come una colica renale.
Sacrifici, sacrifici, he he he, Lama, Lama. Lo cantano come si fa allo stadio, per scherno.
È una turba che si autoconnota plebe, esprime una creatività abortita sullo scemo-scemo da stadio, gli indiani metropolitani hanno un nome spiritoso, sembrano i più simpatici ma purtroppo rimandano solo all’idea di riserva. Secondo loro, il Partito li vuole sfatti, i partiti manco a parlarne (con qualche ragione, lo ammetto), il sindacato è visto più o meno come la Confindustria, l’Università e la Scuola riproducono l’establishment e i suoi privilegi. Ascoltano sirene che poi andranno in Canada, a Parigi, anche in Parlamento, scriveranno saggi imperiali, pontificheranno da talk show e giornali, reciteranno punti politici per la Tv di Giuliano Ferrara, faranno gli assessori e i presidenti della Rai, mai un moto di ripensamento, non dico pentimento, mentre loro resteranno a campionario delle indagini sociologiche sui nuovi poveri.
Questo ci passa per la testa mentre andiamo a fare il nostro dovere di iscritti alla Cgil. Ci posizioniamo elevati in piedi sul muretto dello spiazzo di Chimica. Stiamo praticamente sulla linea di demarcazione tra il servizio d’ordine e loro, collettivamente detti Autonomi.
Il servizio d’ordine fa ridere: capitanati dal compagno Carlini (di lì a poco la sua vecchia Nsu sarà data alle fiamme), persona leggermente pingue, di modi gentili e di voce sempre tenuta bassa, una cinquantina di impiegati con la fascia al braccio. Dietro di loro, verso il palco, quelli che vogliono fare numero per Lama. La mattina c’è stato un tentativo della Camera del Lavoro di accordarsi con gli Autonomi secondo una linea di scontro morbida e solo verbale: insultateci pure, non esagerate, evitiamo lo scontro fisico, non ci facciamo male. Sembra funzionare.
Gli Autonomi si presentano con una scala da biblioteca che alla sommità porta un fantoccio (scritta: Lama) impiccato. Non poche aste di legno che sembra duro reggono improvvisate bandiere rosse, senza simboli. Possibile che per quanto loro siano brutti e cattivi, ci si picchierà tra compagni? Possibile che non porteranno rispetto a Lama? Possibile.
Appena Lama comincia a parlare, la scala con l’impiccato comincia a premere contro il servizio d’ordine delle pancette e delle incipienti calvizie, preme e la folla oscilla, uno sciagurato dei nostri sguaina un estintore e punta sugli autonomi il getto antincendio. Botte da orbi, spintoni e sputi.
Sotto di noi, appoggiato a uno dei lecci, un cumulo di detriti con una buona dose di rottami di vetro. Un ragazzo con la coda di cavallo e gli occhialetti tondi afferra un pezzo di lastra e fa per lanciarla a mo’ di disco verso la folla, chi cojo, cojo.
Scendo, lo abbraccio e gli strillo: «Mi devi ammazzare per farlo!» Lo capisce, chiede scusa e molla il vetro, «Hai ragione», mi dice e scompare nella baraonda. I compagni raccolgono gli altri vetri e li fanno sparire. Lama è già andato via, il servizio d’ordine attempato ha, bene o male, retto l’urto che non deve essere stato tanto deciso, nonostante i sassi e le sedie. Una voce dal microfono invita i compagni a raccogliersi sotto il palco. Mai invito/ordine è stato eseguito con più velocità e tecnica.
Gli Autonomi si trovano davanti una cinquantina di metri liberi, esitano un po’, andiamo via? La danno per vinta? Ma due o tre di loro non si contentano e scattano alla carica urlando come Mel Gibson quando fa Wallace, gli altri, esaltati, seguono. Fuggi fuggi grande, il palco rovesciato, partita stravinta.
Lama era venuto a parlare a quel grumo di disperazione, a dire loro che non era vero, che non erano stati mollati, che l’austerità e i sacrifici erano la loro salvezza (poi s’è visto con la Milano da bere), che li aspettavamo dalla parte nostra per provare a mettere su una società più giusta, mica perfetta, solo più giusta. Era un tentativo politicamente rischioso perché il confine fra scontro politico e provocazione era inesistente a quei tempi, ma era un tentativo generoso come generoso era l’uomo che lo faceva con la sua faccia chiedendo aiuto ai suoi iscritti, a noi, senza costruire un servizio d’ordine con le mani nodose e di poche cerimonie degli edili e dei meccanici.
Fu lasciato solo da tutti i maître à penser, à écrire che gli rimproverarono l’errore politico, una politica nella quale la generosità non trova posto, tutto occupato dal calcolo.
Furono lasciati soli, preda delle loro malinconie, quei ragazzi. Sappiamo come è finita.
*Prorettore dell’Università

l’Unità 7.2.07
Scalzone «Andrò a Vicenza, ma se qualcuno brucerà bandiere Usa io spegnerò quei fuochi»


ROMA «La sovversione non è sbagliata in sé. È sbagliata se mossa da risentimento». Oreste Scalzone è tornato e a 60 anni suonati - festeggiati pochi giorni fa a Ventimiglia - si dimostra perfettamente calato nelle vicende italiane: durante la conferenza stampa in cui è stata presentata l'iniziativa del quotidiano Liberazione, «70. Gli anni in cui il futuro incominciò», l'ex di Potere Operaio spazia dalla base di Vicenza ai fatti di Catania. «Io il 17 vado alla manifestazione di Vicenza - dichiara Scalzone - se va a finire a sassate, sono sincero, non mi dispiace, non mi sento in imbarazzo. Però se qualcuno si mette a bruciare una bandiera americana, solo perché americana, io sarò tra quelli che la andranno a spegnere così come contesterò cori idioti del tipo 10-100-1.000 Nassiriya. Sono cose che non hanno niente di rivoluzionario perché sono mosse da risentimento».

l’Unità 7.2.07
SINISTRA DS. Il leader della seconda mozione a testa bassa contro il Partito democratico
Mussi: «Un progetto lacerante»
«Per quello che mi offrono penso non valga la pena di continuare così».


Inizia fra gli applausi di una sala gremita dell'hotel Palatino a Roma l'intervento del ministro dell'Università, Fabio Mussi, che ieri ha presentato ai ds del Lazio la mozione del correntone in vista del prossimo congresso della Quercia. «Raramente- prosegue Mussi- sono stato convinto come ora del «No» al Partito democratico: davanti a questa scelta le uniche alternative sono lasciare o combattere, e io ho deciso di combattere, per proporre una prospettiva diversa da quella del partito democratico».
Una prospettiva «socialista ed europea, che riunifichi la sinistra italiana e la salvi dalla crisi, che è anche la crisi dell'Italia intera».
Le critiche più nette sono rivolte però al nascente Pd: «Si dice che servirà alla stabilizzazione del governo- continua Mussi- ma io dico che dovremo fare i salti mortali per evitare i danni provocati dall'instabilità di questo nuovo partito». Un partito debole, «che non sa dove stare al mondo»: secondo Mussi, infatti, «è evidente che un futuro partito democratico potrà costruirsi solo al di fuori del Pse, altrimenti non avrebbe questo nome». E, prosegue il ministro a mo’ di esempio, «non bisogna dimenticare che sulla questione delle cellule staminali fu la Margherita ad opporsi, così come oggi si oppone ai Pacs».
Di fronte a un progetto che «rischia di dividere ancora la sinistra», allora, secondo Mussi si può e ci si deve opporre per cambiare le cose: come successe nel caso del ritiro delle truppe dall'Iraq, quando «lottando riuscimmo a portare via i nostri soldati, evitando alla sinistra di essere sommersa dal fallimento della politica estera in Iraq».
Fabio Mussi, non risparmia i «compagni» Piero Fassino e Massimo D'Alema. La prima stoccata è per il segretario del suo partito e la mozione che presenterà al congresso: «Fassino- dice Mussi- ha firmato una mozione laica, pacifista, ambientalista, e mai come prima socialista: si tratta però di una truffa, dovuta al fatto che si deve fare il pd», accusa Mussi. E lo stesso Fassino «afferma che quello che ci sarà fra tre mesi sarà non l'ultimo, ma il penultimo congresso dei ds». Anche in questo caso, secondo Mussi, Fassino agisce «per illudere i contrari al pd, nel tentativo di far loro sperare che qualcosa possa ancora cambiare: ma così illude i contrari e delude coloro che al pd realmente credono- conclude Mussi.

l’Unità 7.2.07
SCIENZA Una ricerca dell’Università di Padova ha individuato forti somiglianze tra il patrimonio genetico dei toscani e quello delle popolazioni dell’Asia occidentale
Il Dna svela il mistero: gli Etruschi (e le mucche maremmane) vengono da Oriente
di Nicoletta Manuzzato


Erodoto aveva ragione: l’origine degli Etruschi e della loro raffinata cultura va rintracciata in Medio Oriente. A confermare le affermazioni dello storico greco non è la scoperta di nuovi reperti archeologici, ma uno studio genetico sui toscani moderni uscito su The American Journal of Human Genetics. Lo ha realizzato un’équipe internazionale guidata dal professor Antonio Torroni, dell’Università degli Studi di Pavia. I ricercatori pavesi hanno preso in esame 322 persone di tre diverse località che un tempo appartenevano all’antica Etruria: Murlo (provincia di Siena); Volterra (Pisa) e Valle del Casentino (Arezzo). Il loro Dna mitocondriale è stato posto a confronto con quello di altri 15.000 soggetti di 55 popolazioni europee e dell’Asia occidentale, tra cui sette italiane.
Il Dna mitocondriale costituisce un vero e proprio archivio molecolare. I 37 geni che lo compongono rappresentano solo una piccola frazione del genoma umano, ma hanno una particolarità: vengono trasmessi unicamente per via materna. Poiché sono caratterizzati da mutazioni fino a venti volte più frequenti rispetto ai geni del nucleo (che ereditiamo da entrambi i genitori) e poiché tali mutazioni hanno scandito la nostra colonizzazione del pianeta, i diversi rami dell’albero evolutivo mitocondriale tendono a essere circoscritti a determinate popolazioni e a determinate aree geografiche. Analizzando questa parte del nostro genoma possiamo perciò seguire come su una mappa le migrazioni delle nostre lontane antenate.
Nel caso degli Etruschi il responso è chiaro: «I dati che abbiamo ottenuto evidenziano l’esistenza di un legame genetico diretto e relativamente recente tra i toscani moderni e le popolazioni del Medio Oriente», spiega il professor Torroni. «Oltre il 5% dei toscani presenta sequenze di Dna mitocondriale assenti negli altri gruppi europei e italiani e presenti invece nell’area mediorientale».
«Al tempo di Atys, figlio del re Mane, ci fu in tutta la Lidia una tremenda carestia... Il re, divisi in due gruppi tutti gli abitanti, ne sorteggiò uno per rimanere, l’altro per emigrare dal paese... Quelli di loro che ebbero in sorte di partire scesero a Smirne, costruirono navi e, imbarcati tutti gli oggetti che erano loro utili, si misero in mare alla ricerca di mezzi di sostentamento e di terra finché, oltrepassati molti popoli, giunsero al paese degli Umbri, dove costruirono città e abitano tuttora». Così Erodoto, nel V secolo avanti Cristo, narra l’arrivo in Italia di queste genti provenienti dall’Asia Minore.
Tale ricostruzione venne messa in dubbio fin dall’antichità: nel primo secolo avanti Cristo, Dionigi di Alicarnasso propendeva per un’origine autoctona degli Etruschi. In seguito spuntò una terza ipotesi, che poneva la culla etrusca in Europa centrale. Ora la scienza non solo dà ragione ad Erodoto, ma avvalora anche i dettagli del suo racconto. La migrazione avvenne effettivamente via mare e, oltre a «tutti gli oggetti che erano loro utili», i nuovi venuti portarono con sé anche gli armenti. Lo stabilisce una ricerca sui bovini diretta dal gruppo del professor Paolo Ajmone-Marsan, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, e alla quale ha collaborato anche il gruppo pavese.
Che cosa ci dice il Dna mitocondriale dei bovini? Che le razze chianina e maremmana, tipiche dell’area toscana, sono geneticamente molto più vicine agli esemplari mediorientali che a quelli europei. Ma perché possiamo parlare con certezza di uno spostamento via mare? «La migrazione via terra che avviene con l’espandersi dell’agricoltura - spiega il professor Ajmone-Marsan - è molto lenta e graduale ed è accompagnata dalla perdita della variabilità genetica degli animali. Immaginiamo una cesta piena di palline colorate: se trasferiamo con successive manciate queste palline in altri cesti, ogni passaggio determina la diminuzione dei colori rappresentati. Invece in Toscana troviamo intatta la variabilità presente nell’area mediorientale». Da quelle navi provenienti da oriente sbarcarono dunque non solo gli avi degli odierni toscani, ma anche i capostipiti di quel Bos etruscus che lo scrittore latino Columella ci segnala nel suo trattato sull’agricoltura.

Repubblica 7.2.07
POLEMICHE/ A PROPOSITO DI UN ARTICOLO DI VITTORIO MESSORI
IL VERO MASSACRO DEI CATARI
Assurde enormità su una setta antica
di FRANCESCO ZAMBON


Sul Corriere della Sera di mercoledì 31 gennaio, Vittorio Messori propone la costituzione di una "Lega anticalunnia" in difesa dei cattolici, allo scopo di rettificare - basandosi «sui dati esatti e sui documenti autentici» - alcune verità storiche che sarebbero deformate da "falsi miti". Il "falso mito" che Messori prende di mira nell´articolo è lo sterminio dei catari, con particolare riferimento a un episodio della Crociata scatenata da papa Innocenzo III per debellare l´eresia catara nel Mezzogiorno francese, la presa e il sacco di Béziers (1209). Ma altro che dati esatti e documenti autentici! Gran parte di quelle che ammannisce Messori sono delle vere enormità dal punto di vista storico. Sorvoliamo su pure invenzioni a scopo di calunnia (queste sì!), come il fatto che i catari sarebbero stati seguaci di una «cupa, feroce, sanguinaria setta di origine asiatica». È ben noto da innumerevoli fonti, per lo più cattoliche, che essi praticavano la forma più rigorosa di non violenza, astenendosi dall´uccisione sia degli uomini sia degli animali. Alcuni contadini impiccati a Goslar nel 1051, fra le prime vittime della repressione cattolica, furono accusati di eresia e condannati solo per aver rifiutato di un uccidere un pollo!
Ma veniamo alla strage perpetrata dai crociati a Béziers il 22 luglio 1209, all´inizio della Crociata albigese. Messori afferma che se eccidio ci fu, esso fu giustificato «dall´esasperazione provocata dalla crudeltà dei càtari, che non solo a Béziers da anni perseguitavano i cattolici». Ora, a parte il paradosso di presentare come persecutori coloro che furono perseguitati per oltre un secolo in tutta Europa, proprio il caso di Béziers mostra esattamente il contrario di quanto vorrebbe farci credere Messori: i cattolici erano così poco esasperati dai catari, che la ragione per cui la città fu attaccata e distrutta fu il rifiuto da parte dei suoi abitanti, fedeli alla propria autonomia municipale e ai propri princìpi di tolleranza, di consegnare ai crociati i circa duecento sospetti di eresia (tanti erano) di cui il vescovo Renaud de Montpeyroux aveva provveduto a stilare la lista.
Ma tutta la ricostruzione del sacco di Béziers proposta nell´articolo è pura deformazione storica, costellata di clamorosi errori e falsificazioni. In particolare per quanto riguarda la frase che avrebbe pronunciato il legato pontificio Arnaldo Amalrico, allora alla guida dei crociati, in risposta ai suoi uomini che gli chiedevano che cosa fare della popolazione, in maggioranza cattolica: «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi», avrebbe risposto. Messori nega l´autenticità di questa frase, che è riportata da un autore tedesco, il monaco cistercense Cesario di Heisterbach, nel suo Dialogus miraculorum. Per svalutarne l´attendibilità, egli afferma che l´opera di Cesario sarebbe stata scritta sessant´anni dopo i fatti. Peccato che a quest´epoca Cesario fosse già morto da quasi trent´anni. In realtà il Dialogus fu scritto fra il 1219 e il 1223, appena una decina d´anni dopo il sacco di Béziers.
Certo, l´autenticità della frase attribuita ad Arnaldo è stata molto discussa dagli storici; ma oggi si tende a ritenerla del tutto plausibile, essendo stata dimostrata la molteplicità e attendibilità delle fonti dirette di cui disponeva Cesario. Comunque, autentica o no, la frase (che in realtà suona così nel testo di Cesario: «Massacrateli tutti, perché il Signore conosce i suoi», con una riconoscibile citazione della Seconda lettera a Timoteo di san Paolo), corrisponde esattamente a ciò che avvenne e, contrariamente a quanto sostiene Messori, trova riscontro in numerose altre fonti contemporanee. La più sconvolgente è proprio la lettera ufficiale che Arnaldo in persona, insieme all´altro legato pontificio Milone, scrisse al papa per riferirgli l´accaduto e che si può leggere nel volume 216 della Patrologia latina: «La città di Béziers fu presa e, poiché i nostri non guardarono a dignità, né a sesso, né a età, quasi ventimila uomini morirono di spada. Fatta così una grandissima strage di uomini, la città fu saccheggiata e bruciata: in questo modo la colpì il mirabile castigo divino».
I nostri, dice Arnaldo: siano stati tutti gli assalitori a compiere la strage o solo i cosiddetti "ribaldi" (ossia i mercenari al seguito dell´esercito crociato), Arnaldo se ne assume pienamente e trionfalmente la responsabilità, parlando di "mirabile castigo divino". Il numero di morti di cui si vanta è sicuramente esagerato, come lo è quello fornito da altri testimoni e cronisti (qualcuno parlò addirittura di centomila): si voleva indicare solo una mattanza straordinaria, che restò a lungo nella memoria della gente. Ciò che avvenne fu proprio quel che lascia intendere la frase attribuita ad Arnaldo: fu compiuto uno sterminio indiscriminato degli abitanti di Béziers, cattolici ed eretici, uomini e donne, vecchi e bambini.
Se gli argomenti della "Lega anticalunnia" che Messori propone di costituire sono quelli addotti nel suo articolo, temo che per essa non si aprano grandi prospettive. E credo che la Chiesa non abbia davvero bisogno di questa nuova e goffa forma di "negazionismo" per difendere i propri valori e propri princìpi.

Repubblica 7.2.07
QUANDO LA PAROLA UCCIDE
Per una nuova traduzione di "Antigone"
di Massimo Cacciari


Il dramma di Sofocle va in scena domani sera a Torino: l´eroina e Creonte sono figure inseparabili e incarnano l´essenza del dialogo tragico che culmina in un conflitto incomponibile
Il terreno della sepoltura dei vinti è arrischiato quanto nessun altro

TORINO - Anticipiamo parte dell´introduzione di Massimo Cacciari all´Antigone di Sofocle, da lui curata e tradotta, in uscita domani nella Collezione di Teatro Einaudi (pagg. XIV+48, euro 8,50). Sempre domani, alle 20.45, al Teatro Astra di Torino andrà in scena lo spettacolo diretto da Walter Le Moli, che si basa appunto sulla nuova versione.
Altri spettacoli classici sono in programma, voluti dalla Fondazione del Teatro Stabile di Torino (in collaborazione con Teatro di Roma e Fondazione Teatro Due): da La folle giornata o il matrimonio di Figaro, di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, nella traduzione di Valerio Magrelli, a Dossier Ifigenia, da Euripide, in quella di Edoardo Sanguineti.

Il grido acuto di Antigone, «come di uccello angosciato alla vista del nido deserto», deve poter essere udito, ora lontano ora incombente, in ogni momento della tragedia. Esso riempie ogni sua pausa e ne determina il ritmo. La parola articolata non può liberarsene, ma lo porta in sé come sua propria, intima «dissonanza».
La parola assume questo timbro quando essa si fa effettualmente, corporalmente toedtendfactisches, quella parola capace di uccidere, di recare morte, di «divenire» mortale (più che toedlichfaktisches, meramente «assassina»), che è per Hölderlin «das griechischtragische Wort», la parola greco-tragica. Tale tremenda potenza della parola si manifesta nell´Antigone nella sua forma più pura, come archè della parola stessa. È la sua originaria energia che la produce e la muove, è essa che ne spiega l´inesausto agonismo, è per essa che le parole si affrontano nella più pericolosa delle gare, nel dialogo. E mai essa si rivela più potentemente che nella parola ispirata, "entusiasta": se infatti uccide la parola di Creonte, ancor più duramente colpisce quella di Tiresia, e proprio perché fino all´ultimo trattenuta essa si scatena alla fine quasi selvaggiamente. Mortale per Creonte la parola di Emone, il cui ultimo timbro sarà quello sputo, nel talamo-tomba di Antigone, tanto più feroce di ogni punta di spada. Da morte a morte conducono, infine, le parole di Antigone, tutte comprese nel destino comune della stirpe: inseparabili fino a darsi reciproca morte hanno "dialogato" i fratelli; e in diversa forma questo stesso polemos continua ora tra Antigone e Creonte. Poiché Logos è Polemos, e l´unità del divino non può darsi che nel contrapporsi delle parole, non si rivela ai mortali che nell´articolarsi-distinguersi delle sue dimensioni, dei suoi dominî, delle sue timai.
Questo è l´essenziale: comprendere l´inseparabilità dei Due, Antigone e Creonte. E dare alla voce di entrambi tutta la sua potenza "omicida". Assolutamente necessari l´uno all´altro, metafisicamente estranei a ogni odio personale, inarrestabili nel "rendersi morte", essi incarnano così l´essenza del dialogo tragico. Il dialogo è tragico quando le distinte dimensioni della Parola si incontrano e affrontano pervenendo ciascuna all´acme della propria chiarezza, della coscienza di sé, e proprio su questo limite manifestano l´impotenza a comprendersi e accogliersi. Quando due figure si affrontano con l´arma più tremenda, la parola, e scoprono reciprocamente di essere destinalmente impotenti all´ascolto, lì scoppia il conflitto incomponibile - che significa tuttavia, a un tempo, la necessità della loro relazione. Antigone non sarebbe senza Creonte, mentre del tutto contingente è il suo rapporto con Emone. E così per Creonte solo il rapporto con Antigone, l´antagonismo con la figlia di Edipo, lo caratterizza irreversibilmente. Le parole di Creonte ed Emone possono contraddirsi intrecciandosi - e la possibilità, per quanto estrema, del loro accordo è la speranza del Coro. Creonte si fra-intende con il Coro e con tutte le altre personae della tragedia, con Tiresia anzitutto. Soltanto con Antigone il dialogo diviene polemos purissimo, affrontamento di principî che si "conciliano" solo nel darsi reciproca morte.
Certo, l´assoluta "fedeltà" di entrambi al proprio dèmone non li esenta dal dubbio; nell´imminenza del supplizio Antigone si chiede se nella sofferenza non le verrà inflitto di scoprire un suo errore, e a Creonte la maledizione di Tiresia spalanca all´ultimo la vista di un abisso che fin dall´inizio traspariva dalla sua ostinazione. L´eroe tragico incarna il proprio destino e fa ciò che deve nel dubbio e nella interrogazione, mai passivamente. E tuttavia a entrambi non è dato che insistere nella propria parola, anche se essa condanna e si condanna alla morte. Simone Weil sembra accomunare per un momento il dubitare di Antigone (un cenno appena, ma il cui timbro è necessario far sempre udire) con quello di Arjuna nella Gita: è il dubitare che si risolve nell´agire, secondo il senso tragico del dran, spiegato da Snell, nell´agire in quanto decisione irrimediabile corrispondente all´essenza del protagonista. Ma l´eroe dell´epos indiano trova pace alla fine nell´agire secondo il suo dharma, mentre l´autonomia dell´eroe tragico si manifesta sempre nella contraddizione con l´altro da sé. La sua parola non dà morte che ricevendola; anzi, non vive in tutta la sua luce che per questa "dialettica".
E affinché proprio quest´ultima si manifesti nella forma più comprensibile, e possa perciò la partecipazione al dolore "convertirsi" in conoscenza, sarà necessario che le parole autonome dei protagonisti risuonino logicamente coerenti col principio che ne domina il carattere. Nulla in questo dramma costantemente intonato al threnos, al canto luttuoso, viene risparmiato dalla "cura" dell´indagine; nulla si dichiara con semplice im-mediatezza. Creonte esprime certo l´immanente pericolo dell´agire politico, della prassi, ma non è affatto tiranno secondo l´accezione usuale del termine. Creonte ha ben regnato, ha ben meritato per la polis, l´ha salvata dalla catastrofe contro prepotenti schiere nemiche. Lo riconosce il Coro, lo riconosce Tiresia.
Per tradizione, forse, per convenienza, certo senza intima convinzione, ha sempre rispettato anche le arti della divinazione e gli oracoli divini. Si badi, neppure il suo decreto che scatena la tragedia va preso come espressione di un impeto d´ira, di irragionevole, delirante volontà di vendetta. Certo, il terreno della sepoltura dei vinti è arrischiato quanto nessun altro per chi regna; qui davvero la dimensione del sacro si confonde nel modo più pericoloso con la decisione politica. Fino a che punto si può spingere la damnatio del nemico vinto e ucciso senza diventare offesa degli dèi di sotterra, empietà? Creonte non ignora affatto il problema, non si slancia affatto inconsapevole nell´abisso che il suo comando gli prepara; è evidente, invece, in tutto ciò che dice e che compie, il suo sforzo di trovare a quel problema convincente, responsabile, ragionevole risposta. La stessa pena che infligge ad Antigone viene da lui predisposta senza "sadismo" alcuno, ma proprio per evitare l´accusa di empietà. Anzitutto, appare a lui manifesta l´enormità della colpa di Polinice; non si tratta del semplice nemico, ma del fratello che vuole annichilire i fratelli, la terra che l´ha nutrito, gli dèi stessi che l´hanno protetto. Non dovrebbero proprio i custodi del sacro essere i suoi più convinti alleati nel decretare tale condanna? L´enormità della pena segue all´enormità del peccato, nient´affatto alla prepotenza di chi la commina. Inoltre, Creonte fa intendere bene che nella città altri, più o meno segretamente, parteggiavano per il vinto.
Poteva Polinice non trovare simpatie e sostegno all´interno della stessa Tebe? Colui che regna saldamente (e razionalmente!) sa di non potersi mai limitare al peana vittorioso, come quello che il Coro intona nel Parodo, ma di dover subito colpire «il seguito clandestino dei vinti» (K. Reinhardt). La pena inflitta al cadavere di Polinice deve suonare avvertimento tremendo, tanto più necessario, agli occhi di Creonte, quanto più lo stesso Coro degli anziani e più grandi di Tebe mostra esplicitamente riluttanza a condividere la decisione del sovrano. E che tale decisione non sia affatto espressione di ira violenta lo dimostra ancora, ad abundantiam, il trattamento riservato al servo che annuncia il "crimine" di Antigone, e, poi, la "assoluzione" di Ismene. Semmai è proprio, invece, il suo cedere alla fine un movimento immediato dell´animo, un incondizionato riflesso difronte alla maledizione di Tiresia. Più che una meditata "conversione", un ragionato "pentimento", esso somiglia a una manifestazione di irrefrenabile paura. Egli non "cede" alle parole di Tiresia, ma piuttosto precipita, compie la propria catastrofe.


Repubblica 7.2.07
Se il Dio di Ruini diventa di destra
di Ezio Mauro


C'È UNA domanda cruciale per la politica italiana che nessuno fa a voce alta, assordati come siamo in questo inizio di secolo dal suono delle campane dei vescovi. Eppure è una domanda che, a seconda delle risposte, può cambiare il paesaggio politico del nostro Paese e può ridefinire alleanze e schieramenti. La questione è molto semplice e si può sintetizzare così: è ancora consentito, nell'Italia del 2007, credere in Dio e votare a sinistra?

Nel silenzio della coscienza individuale è senz'altro possibile e anzi è comune, risponderebbero molti dei nostri lettori, che hanno in mano un giornale laico, sono in parte cattolici e votano abitualmente per lo schieramento di sinistra, magari talvolta turandosi il naso. E infatti, non è la libera testimonianza individuale che è in discussione: e ci mancherebbe. Ciò che invece mi sembra sotto attacco è l'organizzazione politica del pensiero cattolico di sinistra, la sua "forma" culturale, l'esperienza storica che ha avuto in questo Paese e infine e soprattutto la traduzione concreta di tutto ciò nella nostra vita di tutti i giorni e nel possibile futuro. Cioè l'alleanza tra i cattolici progressisti e gli ex comunisti che è al centro della storia dell'Ulivo, che oggi forma il baricentro riformista del governo Prodi e che domani dovrebbe essere la ragione sociale del nuovo partito democratico, risolvendo l'identità incerta della sinistra italiana.

Se non fosse così, non si capirebbe tutto ciò che si muove in queste ore sotto il mantello dei vescovi. È come se per la gerarchia fosse iniziata la terza fase, nei rapporti con la politica italiana. Prima, nel Paese "naturalmente cristiano", la Chiesa poteva presumere di essere il tutto, affidando ad un unico soggetto politico - la Democrazia Cristiana - la traduzione nel codice statuale dei suoi precetti e la tutela dei suoi timori, sempre nell'ombra dei corridoi vaticani, perché l'impronta del Papato oscurava comunque in una surroga di potenza l'identità culturale dell'episcopato nazionale.

Poi, a cavallo del giubileo e all'apogeo di un papato universale come quello di Wojtyla, ecco la coscienza per la Chiesa di essere finita in minoranza in un Paese cattolico per battesimo ma scristianizzato nei fatti, improvvisamente "terra di missione" per una riconquista che per compiersi ha bisogno di un disegno forte e autonomo dei vescovi, perché dopo secoli anche in Italia da "tutto" la Chiesa deve diventare "parte".

L'uomo che gestisce il passaggio in minoranza della Chiesa - la seconda fase - e capisce le potenzialità politiche di questa nuova condizione, è il cardinal Ruini, presidente della Cei.

Diventando parte, la Chiesa diventa reattiva, combattiva, entra in concorrenza con le altre grandi agenzie valoriali e le centrali culturali, si "lobbizza" agendo da gruppo di pressione sui centri di decisione della politica e soprattutto della legislazione. Ruini intuisce che la sfida della modernità, in questa fase, è soprattutto culturale, e capisce di trovarsi di fronte - dopo Tangentopoli e la caduta del Muro - partiti senza tradizione, senza bandiere, senza identità storica. Il pensiero debole della politica italiana può dunque essere attraversato facilmente dal pensiero forte del Papa guerriero, e nella breccia possono utilmente infilarsi i vescovi per una politica di scambio che abbia al centro i cinque temi della vita, della solidarietà, della gioventù e soprattutto della famiglia e della scuola.

La terza fase comincia quando Ruini avverte che alla Chiesa è consentito, nei fatti, ciò che nella Repubblica non è permesso alle altre "parti". Ogni componente della società, ogni identità culturale, nella sua autonomia e nella sua libertà deve riconoscere un insieme in cui le parti si ricompongono: lo Stato. Ma è come se la Chiesa, mentre ammette di essere diventata minoranza, non accettasse di vedere in minoranza i suoi valori, faticasse a stare dentro la regola democratica della maggioranza, dubitasse del principio per cui in democrazia le verità sono tutte parziali, perché lo Stato non contempla l'assoluto. La Chiesa oggi in Italia è più debole di ieri nei numeri? Non importa, perché i numeri non contano visto che per Ruini il cristianesimo è avvertito nel nostro Paese come "senso comune", una sorta di substrato antropologico, una specie di natura italiana: alla quale si può trasgredire solo con leggi che diventano automaticamente contro natura, dunque sono contestabili alla radice.

È un discorso che ha in sé l'obiettivo grandioso della terza e ultima fase del lungo regno ruiniano sull'episcopato italiano: la riconquista dell'egemonia, non più attraverso il partito dei cristiani ma direttamente da parte della Chiesa, che con la spada di questa egemonia rifonderà la politica, separando infine il grano dal loglio e costituendo un nuovo protettorato dei valori nell'esercizio di un potere non più temporale, ma culturale. Un progetto che può compiersi solo davanti ad un sistema politico gregario, senza autonomia, incapace di testimoniare un sentimento civile della Repubblica, svuotato di identità al punto da vedere nella Chiesa l'ultima agenzia di valori perenni e universali dopo la morte delle ideologie. Fonte ancora di mobilitazione, forse di legittimazione, almeno di benedizione, in un Paese in cui tutti i leader politici - o quasi - si sono convertiti se non altro mediaticamente, o comunque hanno dichiarato di essere pronti a farlo, e altrimenti sono in lista di attesa: o, come si dice, in ricerca.

Siamo davanti ad una sorta di neo-gentilonismo, con la religione che diventa materia di scambio, nella presunzione che sia vera la leggenda del voto cattolico di massa orientato dalla stanza del vescovo. Con l'intercapedine culturale dei partiti debole e fragile, la Chiesa scopre la tentazione di raggiungere direttamente il legislatore, si accorge che la precettistica può influenzare molto da vicino la legge, dimentica la distinzione suprema tra la legge del creatore e la legge delle creature. Se il disegno è egemonico, tutto è potenza. E se un testo legislativo diventa simbolico, qui si deve dare battaglia fino in fondo perché la bandiera trascende la norma e il valore ideologico supera il valore d'uso. Ecco la prima risposta alla domanda intelligente di Giuliano Ferrara ai vescovi: dove volete andare con questa battaglia intransigente, non più negoziale, sui Pacs, visto che si prepara "un risultato che collocherebbe l'Italia in un ambito di cautelosità e di disciplina morbida delle pretese nuove forme di famiglia"? Semplicemente, vogliono andare fino in fondo: non della battaglia sui Pacs, ma della battaglia per l'egemonia culturale, che è appena incominciata.

Come accade in ogni battaglia, anche in questo caso il cardinal Ruini lascerà tra poco in eredità al suo successore non solo le truppe, le mappe e le strategie, ma anche le alleanze. Che sono tutte a destra, perché qui si compie, oggi, la lunga cavalcata di quello "strano cristiano" che avevamo visto muoversi sulla scena italiana per la prima volta sei anni fa. Incapace da più di un decennio di far nascere un nuovo sistema culturale che dia un codice moderno ed europeo a moderati e conservatori, la destra si accontenta della prassi di potere e di consenso berlusconiana e prende a prestito le idee forti, che non ha, nel deposito di tradizione della Chiesa italiana. La destra cerca un pensiero, la Chiesa cerca la forza e nell'incontro inedito il verbo si fa carne: e poco importa che sia carne pagana, con la mistica idolatra del berlusconismo che ha introdotto una nuova religione in politica, rendendo Dio strumento dell'unzione perenne al demiurgo, mentre nasce un nuovo "cristianismo", con la fede svalutata in ideologia.

Se questo disegno si compie, la Chiesa corre il rischio mondano di diventare parte, se non addirittura un soggetto politico diretto, e si amputa a sinistra la cultura politica cattolica, per la prima volta nella storia della Repubblica. Escludendo quei cattolici democratici che hanno preso parte attiva alla nascita della costituzione e delle istituzioni repubblicane, e che soprattutto hanno saputo per decenni coniugare la fede con la laicità dello Stato. Forse per il cardinal vicario vale ancora la condanna di Augusto Del Noce contro i "progressisti cattolici": "Trasformano talmente il cristianesimo per non ledere l'avversario, che bisogna dubitare se effettivamente credano". Certo, per Sua Eminenza vale la profezia di Rocco Buttiglione: "Il cattolicesimo che si era lasciato ridurre nell'inglobante progressista oggi non ha più nulla da dire, torna attuale il pensiero cattolico che aveva rifiutato il progressismo".

La partita ruiniana sembra puntare proprio qui, a far saltare l'alleanza tra i cattolici democratici e la sinistra ex comunista, in un disegno riformista che può diventare un partito. Ecco perché ieri sui Pacs - dove i vescovi intervengono ormai sugli articoli di un disegno di legge, non sui valori - è riecheggiato addirittura il solenne "non possumus" di Pio IX, con un monito preciso contro la sinistra e in particolare contro i cattolici democratici: quanto sta accadendo, ha scritto infatti con chiarezza il giornale dei vescovi con un linguaggio mai usato nei giorni più neri della Repubblica, è "uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana".

Il dado, a questo punto, sembra tratto. È vero che la presenza cristiana nel Paese, come dice Pietro Scoppola, non è riducibile a questo schema di comodo. Ma la Chiesa, con lo spartiacque benedetto di Ruini rischia di aprire per la prima volta un fronte religioso nella battaglia politica italiana, qualcosa che non abbiamo ancora conosciuto, una faglia inedita. In un terreno fragilissimo, dove troppi politici sono pronti a cambiare opinione a ogni rintocco di campana, sensibili nei confronti dei vescovi molto più al comando che ai comandamenti. Ecco perché bisogna chiedersi se è ancora consentito credere in Dio e votare a sinistra.

Anche se bisognerebbe aggiungere un'ultima domanda: in quale Dio? Nella prima fase dell'era Ruini, era un Dio post-democristiano, comodo perché relativo, appagato dalla sua onnipotenza e affaticato dal suo declino. Nella seconda fase, quella della minoranza, è diventato un Dio italiano, in una sorta di via nazionale al cattolicesimo. Oggi, rischiano di farci incontrare un Dio di destra, e già solo dirlo sembra una bestemmia.

(7 febbraio 2007)

il Riformista 7.2.07
SETTANTASETTE 1. LA VIOLENZA ESTREMISTA
Non c’è dubbio, il Pci capì con ritardo. Eppure la linea della fermezza fu giusta
di Federico Fornaro


Ripercorrere nel libro di Lucia Annunziata 1977. L’ultima foto di famiglia (Einaudi), quell’anno così dominato dall’odio e dalla violenza provoca l’effetto di un pugno diretto nello stomaco. Di quelli che fanno male. Sono passati trent’anni e a differenza del ’68, il ricordo di quel movimento non provoca alcun fremito e neppure rimpianti. Eppure hanno ragione sia Paolo Franchi sia la Annunziata a invitare a ragionare, a guardare dentro quei cortei, quelle vetrine spaccate, quelle P38 (prima disegnate simbolicamente nell’aria con tre dita della mano e poi divenute drammaticamente vere). Riflettere su quella stagione, infatti, è certamente utile per comprendere sia i limiti della strategia del compromesso storico, con la progressiva dilapidazione da parte del Pci dello straordinario patrimonio elettorale conquistato nelle elezioni amministrative del 1975 e in quelle politiche del 1976 sia le radici profonde del fenomeno terroristico del nostro Paese. Se la cifra del movimento di protesta del ’68 era stata la fantasia contrapposta al grigiore burocratico della società dell’epoca, quella del ’77 sarebbe diventata rapidamente quella della violenza contro lo Stato nelle sue molteplici articolazioni, partiti compresi. Il Pci e la stessa Fgci del “questurino” Massimo D’Alema - così era stato ribattezzato dai dirigenti del movimento il segretario dei giovani comunisti - non ebbero dubbi sulla scelta da compiere e si schierarono senza esitazioni dalla parte delle istituzioni. La Annunziata, all’epoca giovane dirigente del Manifesto-Pdup, in tutto il suo racconto cerca di mettere in luce i ritardi nella comprensione delle ragioni del nascente movimento, facendo trasparire a più riprese l’idea che un diverso atteggiamento del più grande partito della sinistra - e del loro alleato Francesco Cossiga, ministro democristiano dell’Interno - avrebbe potuto limitare, se non addirittura evitare la deriva violenta impressa, dopo gli scontri del 12 marzo 1977, dai gruppi dell’Autonomia. Non c’è ovviamente la controprova e rimanendo sullo stesso piano ipotetico, viene naturale domandarsi quali sarebbero state le conseguenze per la democrazia italiana se il Pci e il sindacato non avessero deliberatamente costruito una vera e propria diga contro l’ estremismo e la violenza di piazza. Se è vero che l’assenza di uno sbocco politico all’azione del movimento finì per favorire le tesi di chi vedeva nella lotta armata clandestina l’unica possibilità per cambiare le cose, è altrettanto incontestabile che l’ammiccamento del Pci verso la violenza avrebbe prodotto conseguenze inimmaginabili e soprattutto la lotta al terrorismo sarebbe stata molto più difficile e la vittoria dello Stato contro i brigatisti certamente più lontana. D’altronde - come sintetizza efficacemente Lucia Annunziata - «nel 1977 la famiglia della sinistra uccise suo padre, il Partito comunista italiano. Un delitto a lungo cercato». Un rapporto di odio misto a rispetto - «il suo pessimismo doloroso contro il nostro grintoso ottimismo» scrive l’ex presidente della Rai riferendosi al Pci - che viene da lontano, dal 1968, dalle lotte sociali e per l’allargamento dell’area dei diritti dei primi anni Settanta e affonda le radici in un ribellismo antisistema, assai diffuso tra i militanti della sinistra italiana in tutto il Novecento. Non a caso Enrico Berlinguer, di fronte alle prime avvisaglie della violenza estremistica, rispolvera l’immagine del «diciannovismo». E a guardar bene, pur nella profonda differenza dei contesti storici, qualche analogia con quel periodo della storia italiana c’era davvero: l’occupazione dell’università invece delle fabbriche come luogo simbolo della rivoluzione e gli studenti al posto della classe operaia, come avanguardia della lotta contro l’oppressione dello Stato. In fondo il rivoluzionarismo verbale delle assemblee e delle prime contestazioni assomigliava tristemente al massimalismo parolaio degli anni Venti, quello che annunciava la rivoluzione senza essere in grado di organizzarla: in entrambe le occasioni il drammatico errore di pensare di trovarsi nel pieno della crisi del sistema capitalistico e quindi in una situazione prerivoluzionaria. Invece, nel ’77 all’organizzazione militare ci pensarono le Brigate Rosse. Fu l’escalation delle azioni armate delle cellule clandestine di quegli anni, più delle occupazioni e i cortei del movimento, a cambiare nel profondo la società e la politica italiana. Indubbiamente le ragioni di insofferenza libertaria verso l’ «ortodossia comunista» erano più che giustificate, così come era fondata la denuncia del ritardo del Pci nell’interpretare la domanda di modernizzazione, sintetizzata nella ritrosia dei vertici di Botteghe Oscure a partecipare alla lotta referendaria a difesa della legge sul divorzio nel 1974. Certamente l’ala creativa del movimento, gli indiani metropolitani, riuscì nell’intento di dissacrare molti dei riti delle istituzioni e dei partiti, ma ben presto gli slogan intelligentemente spiritosi del «Lama non l’ama nessuno» lasciarono il posto alle spranghe e alle P38 dell’ala dura dell’Autonomia Operaia, rapidamente impadronitasi della guida delle contestazioni dopo aver relegato in un angolo sia Lotta continua sia gli altri movimenti della sinistra extra- parlamentare. In definitiva il problema non è quello di domandarsi quale sia l’ eredità del ’77. Può essere, invece, più utile interrogarsi quanto gli attuali partiti della sinistra siano disponibili ad ascoltare il disagio giovanile e sociale - che si presenta in forme e con problematiche diverse da quelle del passato - per evitare di ricreare quel fossato di incomunicabilità al fondo del quale c’è nel migliore dei casi l’antipolitica o la fuga dalla realtà per mezzo della droga e dietro cui, come dimostra il 1977, può nascondersi il demone del terrorismo.

il Riformista 7.2.07
SETTANTASETTE 2. LE DIVERSITÀ DAL SESSANTOTTO
Sarà paradossale, ma il rifiuto del lavoro anticipò il popolo delle partite Iva
di Massimo Bordin


Agli anniversari non si sfugge, tanto meno ai trentennali. Dunque il «movimento del ’77» viene riportato alla luce. Il tempo trascorso e la distanza impongono però occhiali adatti, altrimenti si rischia di andare a memoria e di restare prigionieri di quello che si vide con gli occhi di allora. In fondo fu tutto molto rapido. Dall’occupazione dell’ università di Roma alla mattina del giovedì grasso in cui Lama e la Cgil ne furono cacciati, passarono solo due settimane, come ha notato Lucia Annunziata. Tanto poco ci mise il movimento a bruciare i ponti con l’ufficialità della rappresentanza sociale. Non fu così nove anni prima. Il primo maggio del ’68 il movimento studentesco parlò dal palco della triplice a piazza san Giovanni inaugurando un rapporto di conflitto coi vertici sindacali per conquistarne la base e a essa si rivolse il rappresentante degli studenti, mi pare fosse Piperno: «Voi ci avete insegnato la lotta, da voi abbiamo imparato l’uso della violenza». E i vostri capi oggi vi stanno tradendo, era il nemmeno troppo sottinteso. Iniziava una storia che finì la mattina del comizio di Lama all’ università, quando le bandiere del sindacato e del partito non furono strappate per sostituirle con altre più rosse; furono strappate e basta. Qui, e non nell’eccesso di violenza, sta la differenza con quello che era successo nove anni prima. Il ’68, almeno quello europeo, andò a piazzarsi dentro la tradizione del movimento operaio e comunista. Per estremizzarla, a ovest, per democratizzarla, a est. Rimase comunque in quell’alveo, con l’ingenua velleità di acquisire la leadership e in prospettiva il potere. Nel ’77 non andò così ma non è detto che l’immagine del parricidio spieghi tutto. Intanto perché chi aveva vent’anni nel ’77 nove anni prima giocava con le figurine e non con i movimenti di massa. E poi perché la “nuova sinistra” aveva già riposto ogni velleità e si interrogava fra integrazione e scioglimento dopo il deludente voto del ’76, su cui molto aveva puntato. Indimenticabile il manifesto elettorale del Pdup: «Prenderemo solo il 3 per cento, ma sarà decisivo per il 51 che porterà al governo delle sinistre». Presero l’1,5 e le sinistre, rimaste ben sotto il 50, sostennero con l’astensione un governo Andreotti. Inevitabile il disimpegno. O l’integrazione, anche perché ben diversa era la situazione del Pci. Mancato il sorpasso, era comunque arrivato ai suoi massimi storici tornando dopo trent’anni nell’area di governo, e con Pietro Ingrao presidente della Camera. Nell’estate del 1976, col «governo delle astensioni», il «monopartitismo imperfetto» si fa Stato; restano fuori solo Almirante (che sarà abbandonato da un cospicuo pezzo di Msi), i liberali e i nuovi giunti radicali insieme all’estrema sinistra. Ma soprattutto restano tagliati fuori i luoghi e i soggetti del conflitto sociale, che per la prima volta si trovano privi di una sponda istituzionale e di un sostegno nella società che, bene o male, il Pci non aveva mai fatto mancare. Il gramsciano «moderno Principe» si fa esigente e spietato. Il conflitto va sacrificato al modello berlingueriano dell’austerità. Asor Rosa è il più lucido: il partito deve farsi Stato, sia pure nella inedita forma consociativa. A questo obiettivo tutto va sottomesso e peggio per chi è fuori. Naturalmente, nota Asor, c’è un prezzo: le forme tradizionali del conflitto sociale mutano, non si scontrano più lavoro e capitale ma garantiti e non garantiti. Dal conflitto generatore di sviluppo si rischia di passare a un modello conflittuale quasi pre-capitalistico. Due società separate, l’una che racchiude i garantiti dal nuovo patto social-corporativo che tenta di perfezionarsi nella sfera istituzionale, l’altra composta da tutti quelli che si trovano fuori dal recinto, quasi nuovi paria. Infatti la manifestazione che il 12 marzo sfila per Roma con abbondante uso di armi da fuoco corte e lunghe è politicamente più simile al tumulto dei Ciompi che alla moderna lotta di classe. Nemmeno i brigatisti si fanno incantare dalle pallottole che fischiano, e restano diffidenti, saldi nei loro pur avvizziti schemini cominternisti. Nessuno dei manifestanti pensa però di sparare al padre- partito: i più giovani perché non lo ritengono nemmeno parente, gli over 25 perché, chi prima chi dopo, l’hanno già sepolto. Se c’è qualche eccezione è una di quelle cose che capitano quando c’è tanta gente. Ma il ’77 non vive solo di armi e indiani metropolitani. Il movimento ribelle all’emarginazione non disdegna la marginalità. Paradossalmente la richiesta di reddito viene sganciata da quella del “posto” non solo perché comunque negato ma anche perché, al fondo delle cose, poco appetito. Lavori di nicchia, con molto tempo libero, senza rinunciare a una vita di relazioni ricca. Il morettiano «Vedo gente, faccio cose» anticipa caricaturalmente i “Mc jobs”; se si deve lavorare sotto padrone meglio starci il meno possibile. Meglio ancora riuscire a lavorare in proprio, magari facendo piccole cose. È il paradosso più significativo di quel movimento. Il «rifiuto del lavoro» è, anche, la premonizione del fenomeno delle partite Iva. Percorso bizzarro che ancora lascia molto da descrivere.

martedì 6 febbraio 2007

"IL GIORNO" 24 maggio 1964
L'autogoverno li strappa alla fossa dei serpenti






Una clinica psichiatrica senza celle, senza camicie di forza, senza infermieri, dove i malati vivono in libertà, discutono con i sanitari i loro problemi: ecco quanto si è realizzato nella "comunità" di Roma, una iniziativa per certi aspetti unica e che comunque sta tentando una strada nuova in questo campo delicatissimo.

di STELIO MARTINI

«I malati psichiatrici possono governarsi da soli? Sono capaci di vivere in una ordinata comunità, di assolvere a certi compiti sociali, di prendere delle "sagge" decisioni?»

Mi sembravano ipotesi assurde, e non senza scetticismo suonai alla porta della Comunità. Il cancello si aprì quasi subito e, mentre attraversavo il breve giardino che divide la villa dalla strada, mi investì il suono di un disco di Celentano.

Le note rimbalzavano anacronisticamente sulla facciata 1930, anacronisticamente per lo stile, ma ancora di più per il suo contenuto. In fin dei conti non si trattava di una clinica per malati psichiatrici? Nessuno mi venne incontro, e perciò entrai direttamente nella stanza a pianterreno, che era piena di gente. C'erano uomini e donne: chi leggeva chi ascoltava la musica chi chiacchierava, e alcuni risposero al mio saluto. La loro disinvoltura favorì la mia.

Ma mi sentivo ugualmente a disagio. Di fronte ad un malato, anche la disinvoltura è una forma di ipocrisia, e io temevo che incontrando qualcuno di «loro» il mio comportamento avrebbe tradito il mio stato d'animo, di timore e istintiva pietà. Ma si trattava di una preoccupazione ormai inutile. Quasi tutte le persone che avevo incontrato fino a quel momento erano membri della Comunità, cioè malati. Me lo rivelò il dottor Fagioli, Il giovane direttore, ricevendomi nel suo ufficio.

Da tre anni egli abita, mangia, dorme e lavora, insieme alla moglie che sta per avere un figlio e «senza nessuna precauzione psichiatrica » (un eufemismo per dire: senza celle infermieri, camicie di forza), in mezzo ai pazienti, e queste cose non gli fanno più effetto. Si, era un malato quel tale che usciva mentre io entravo . E anche quello che mi aveva accompagnato in ascensore. E anche quello, aggiunse, che all'ora di pranzo ritira le medicine in infermeria e le distribuisce si suoi compagni, osservando la nota consegnatagli dal medico. « Certo…» sorrise lo psichiatra all'espressione della mia incredulità. Del resto, se mi fossi trattenuto avrei potuto constatarlo di persona. «E le dirò, in tre anni non è mai successo che un paziente incaricato di questo compito sbagliasse una dose. Come un infermiere, anzi meglio di un infermiere…»

Giovane ed entusiasta del metodo di cura applicato e perfezionato dal dottor Fabrizio Napolitani, Massimo Fagioli era assistente presso l'ospedale psichiatrico di Padova quando seppe dell'esperimento che il suo collega stava conducendo in Svizzera, in un padiglione a sé del sanatorio di Kreuzlingen. Immediatamente abbandonò il posto e lo raggiunse. I suoi colleghi dissero che era matto; oggi egli può vantarsi di aver partecipato ad un'iniziativa per certi lati unica, e che comunque tenta una strada nuova in un campo molto difficile.

Alla parola «malato di mente» la gente reagisce ancora con la paura. Senza far distinzioni, questo tipo di malato è considerato un'irresponsabile per eccellenza , dal quale bisogna difendersi. La legge riflette ed esaspera questa concezione, demandando il ricovero dei malati all'autorità giudiziaria. In tal modo ci si cautela contro le possibili conseguenze, ma si sottrae alla medicina la possibilità di vagliare, distinguere ed intervenire in condizioni ideali. E se è vero che in alcuni ospedali psichiatrici si sono fatti dei passi avanti, la codificata diffidenza contro la malattia è ancora molto grande. Uno dei pregi dell'esperimento tentato con la Comunità è quello di opporsi a questa diffidenza. E proprio certe parole che sembrano le più assurde sono, almeno per il profano, le più stimolanti. Autogoverno dei malati psichiatrici. Consiglio normativo della Comunità formato da medici e pazienti. Comitato di infermi e assistenti sociali. E così via.

Una casa come le altre
Esponente della moderna psichiatria, che sta abbandonando i tradizionali sistemi per le nuove tecniche psicoterapiche ispirate alla psicoanalisi, Fabrizio Napolitani ha creato in sostanza una specie di famiglia, dove malati e medici collaborano alla cura, si fa vita di gruppo e dove tutti (salvo il veto dei medici) accettano le decisioni della maggioranza. Egli ha lavorato diversi anni a questa iniziativa. Per la prima volta ne parlò al Congresso internazionale di Montreal nel '61; ora, dopo tre anni di rodaggio in Svizzera, ha trasferito a Roma la sua «democratica» Comunità, suscitando molto interesse negli ambienti medici.
Di fuori la clinica (situata in una via quasi centrale), è una casa come le altre, in mezzo alle altre. Far sì che il malato non si senta isolato, messo al bando dalla società, è infatti uno degli scopi di questo metodo che si propone prima di tutto di socializzare il paziente. « Socializzare e motivare…», precisò il dottor Napolitani, «sono gli scopi pregiudiziali della cura...».. Bruno tarchiato, le sopracciglia folte, quasi unite, il «padre» (anche in senso affettivo) della comunità ha lo sguardo di chi è abituato a scrutare le sofferenze dell'animo umano; ma spira dalla sua persona anche la rassicurante fiducia della persona che crede nelle inesauribili risorse dell'uomo.

Il punto di partenza delle nuove tecniche cui si è ispirato è infatti quello di considerare il malato non oggetto ma soggetto di cura. Cioè capace di collaborare alla sua guarigione. Tutto sta che esista in lui una parte sana, un nucleo anche piccolo, sulla quale far leva. «Se esiste è possibile spezzare il muro dietro il quale, per paura dell'ambiente, si è chiuso, fargli riprovare il piacere di comunicare e quindi far sorgere in lui il desiderio di guarire. Se si riesce a tanto, il più è fatto. Da quel momento infatti si può iniziare con il malato, divenuto consapevole della sua malattia, un colloquio che un po' alla volta lo riporta verso la normalità…» Questo colloquio non si svolge soltanto tra il medico e paziente, ma anche tra malato e malato. Come intuì John Maxwell, i malati di mente hanno un effetto terapeutico gli uni sugli altri, e su questo principio sono basate le cosiddette «psicoterapie di gruppo», nelle quali si inquadra anche la Comunità fondata dal dottor. Napolitani.

Ma insieme al dottor. Fagioli egli ha fatto un passo di più, organizzando qualcosa che fa venire in mente la «Città dei Ragazzi». Il caso del paziente che sostituisce l'infermiere, non è un'eccezione. Qui dentro ognuno è incaricato di una certa funzione, e fa parte quindi di un certo comitato. I comitati sono quattro: di Assistenza Vitto e Alloggio, Sociale, Culturale. E se dietro questi nomi importanti (un po' i « ministeri» della comunità) si nascondono solo compiti di carattere pratico, « è sorprendente che un maniaco depressivo si occupi di tenere la corrispondenza con i pazienti dimesso, o un malato bilaureato, sia pure in via di guarigione, di stabilire le coppie di cucina, o di servire il pranzo in tavola, o la mattina di mettere fuori della porta il secchio dell'immondizia »

Sempre vicino ai suoi malati
Oltre ai comitati vi sono 3 consigli, che corrispondono idealmente ai 3 poteri dello stato democratico. Legislativo, d'azione e di riabilitazione. Ciò significa che i malati, eletti ogni 2 mesi, sono investiti anche del potere di fare e disfare le leggi della comunità? E' proprio così, anche se ai medici spetta l'ultima parola. Ma il parere dei pazienti è sempre sollecitato e ogni argomento affrontato con loro. Nelle bisettimanali riunioni di gruppo, si discute di tutto. Dei problemi comuni e di quelli individuali, in una sorta di confessione collettiva nella quale ciascuno porta i suoi casi di fronte al gruppo, racconta tutto di sé, e ci fu uno che una volta raccontò persino che si era innamorato di una paziente, e lei lo seppe solo in questa occasione.

«Con i malati», disse il dottor. Fagioli, «si discute perfino se accettare o dimettere un paziente, anche se la decisione finale è riservata a noi. La cosa importante però è abituarli a discutere, farli sentire partecipi di una comune famiglia». Di questa famiglia, mentre il dottor Napolitani che l'ha fondata è il «padre ideale», Il dottor Fagioli, accondiscendente benevolo, sempre vicino ai malati e disposto ad ascoltarli, impersona un po' la figura «materna». Dal punto di vista scientifico si potranno muovere obiezioni all'esperimento della comunità ma questo medico che vive sempre in mezzo ai malati è una prova a favore del metodo e un indubbio esempio d'abnegazione. E siccome si era fatta l'ora di pranzo, e il dottor Fagioli doveva mettersi a tavola con i suoi « pensionanti» lasciammo l'ufficio ed entrammo nella Comunità.

Nell'interno questa assomiglia ad una comune pensione, con le camere a due o tre letti, la sala da pranzo con il tavolo comune, fatto a elle, il soggiorno con la TV, le riviste, il giradischi. Le camere erano tutte aperte. In una c'era una piccola libreria, tra i cui volumi c'era anche un libro di Freud. In un'altra una ragazza si stava ravviando i capelli davanti allo specchio. In cucina mi presentarono, col suo nome e cognome, una signora che stava preparando i piatti. Alcuni pazienti erano già a tavola. C'era, malgrado tutto un'aria di famiglia. E infatti la funzione essenziale della Comunità è proprio di costituire per ciascun paziente una famiglia ideale, in sostituzione della loro che spesso è stata la causa prima della malattia.

Ogni anno il professore ritorna
Così si spiega come alcuni riescano a svolgere durante il giorno una normale attività e rientrino «a casa» la sera. E perché quelli che lasciano restino sempre legati ai loro «fratelli» da vincoli affettivi. «C'è un professore di università» diceva il dottor Fagioli « che ritorna a trovarci ogni anno», ma già sfrecciava verso i suoi pazienti e collaboratori, quasi assurdo nella sua dedizione e nella sua fiducia nelle loro risorse. Ma un po' di fiducia è necessaria; altrimenti si resta sempre fermi alle celle, agli infermieri, e alle camicie di forza.

il Riformista 6.2.07
Oh, ma che soddisfazione stare «nell’ambito»
di Emanuele Macaluso


Ho letto il documento congressuale presentato dal segretario Ds e quel che mi colpisce è la separazione totale tra gli obiettivi che con il cosiddetto Partito democratico si vogliono perseguire e la realtà che stanno vivendo il Paese e il suo partito.
Scrive Fassino: «Ci sono momenti nella vita delle nazioni in cui un Paese è chiamato a interrogarsi sul suo destino e a ridefinire la propria identità. È accaduto agli Stati Uniti dopo la depressione del ’29; è accaduto alla Germania dopo la tragedia del nazismo, dell’Olocausto e della seconda guerra mondiale; è accaduto alla Francia nella crisi della quarta Repubblica e nella perdita, con la decolonizzazione, del suo carattere imperiale; è accaduto alla Spagna nel passaggio dal franchismo alla democrazia. Accadde con la costruzione dell’Italia repubblicana dopo il crollo del fascismo». Mi chiedo: oggi il nostro Paese è a un passaggio che possa richiamare quegli eventi? E il gruppo dirigente del Partito democratico è paragonabile a quello che espresse l’Italia nel ’45? Non scherziamo. E tra l’altro nel documento non c’è un minimo di analisi per dimostrarlo. C’è solo l’affermazione apodittica che il Partito democratico serve a dare all’Italia una «nuova stagione della democrazia... e un riformismo alto e nuovo».
Nelle 33 pagine del documento si spiega cosa occorrerebbe per sviluppare la democrazia, l’economia e la società, ma non c’è una sola parola su cosa sono oggi Ds e Margherita, e da quali analisi si deduce che i loro dirigenti siano in grado di scalare l’Everest, rinnovando la politica italiana e la società. Insomma Fassino mi sembra l’allenatore di una squadra che parte per le Olimpiadi e dichiara che le vincerà mentre i suoi giocatori sono seduti in comode poltrone, grassi e senza fiato. Scrive Fassino: «È anzitutto attraverso l’azione di governo che dobbiamo mettere alla prova la nostra funzione di classe dirigente nazionale, la nostra capacità di restituire alla politica l’intelligenza e l’autorevolezza necessaria per capire il Paese e sostenerlo nel cambiamento. E si è cominciato a farlo». Veramente? E chissà per quale ministero la gente (si vedano i sondaggi fatti da società amiche e non da Berlusconi) non capisce. Chissà perché Ds e Margherita al governo sono in concorrenza o in contraddizione praticamente su tutto.
Caro Fassino, la gente vede, legge e pensa; non tutti applaudono acriticamente come nelle assemblee dei segretari di sezione. Infine, scrivere che la «questione socialista» troverà soluzione nel Partito democratico, nel momento in cui i Ds si uniscono alla Margherita di Rutelli è una provocazione. Anche perché nelle stesse pagine con un giro di parole penose si scrive che il Partito democratico dovrà operare «nell’ambito del Pse» e quindi non esserne parte. Insomma i socialisti (anche i Ds che del Pse sono cofondatori) che sono già nel Pse si aggireranno nell’«ambito». Ma veramente pensate che problemi così rilevanti possano essere aggirati con qualche parolina?
Faccio queste osservazioni non perché mi illuda che i Ds possano ripensare a quel che chiamano il «percorso» ma perché la discussione, il confronto, i consensi e i dissensi possano misurarsi su testi che dicono pane al pane e vino al vino. Non dovrebbe essere questa la prima regola di chi, nientemeno, vuole «iniziare una nuova storia e una nuova stagione della democrazia»?

Il Riformista 6.2.07
EUTANASIA 2. DELICATA E CONTROVERSA SENTENZA DEI GIUDICI
Suicidio assistito anche per i malati mentali
Un tribunale svizzero: ai medici la decisione


Nella Svizzera dove tutto è possibile, anche il diritto a suicidarsi, una sentenza del tribunale federale (la massima autorità giudiziaria elvetica) apre una porta finora mai aperta nel dibattito sull’ eutanasia: quella della malattia mentale. Il tribunale ha infatti ammesso, in linea di principio, che «le persone sofferenti di problemi psichici o psichiatrici possono ugualmente beneficiare dell’assistenza medica al suicidio». Una sentenza, su una materia delicatissima, che rischia di confondere non poco le acque di una materia che, in terra elvetica, è sì parzialmente liberalizzata, ma la cui normativa affonda le fondamenta in un principio basilare: la manifestazione della volontà (e la relativa capacità d’intendere e dunque volere) del paziente. Chiara, dunque, la contraddizione che viene a crearsi tra il diritto del malato psichico o psichiatrico a non essere discriminato e la sua incapacità che lo esclude a priori da un percorso basato proprio sulla capacità dell’individuo di esprimere la propria volontà di morire. Non a caso, nella stessa sentenza, il tribunale federale svizzero ha adottato un’ altra misura che «rifiuta in maniera categorica» la possibilità che pazienti individuali o le organizzazioni Exit e Dignitas (composte da volontari che praticano il suicidio assistito) possano ottenere senza ricetta medica il pentobarbital di sodio, la sostanza maggiormente utilizzata nelle procedure di assistenza al suicidio. La pronuncia del tribunale federale segue un’intricata vicenda che ha per protagonista un malato con manie depressive che, dopo due tentativi di suicidio falliti, aveva chiesto all’associazione Dignitas di essere aiutato a morire. In quel caso, però, nessun medico interpellato accordò la ricetta per acquistare il veleno, tanto che il maniacodepressivo, per suicidarsi, adì le vie legali. Prima si rivolse alle autorità del Canton Zurigo, chiedendo che l’ associazione potesse ottenere la sostanza letale senza ricetta medica. Di fronte alla prima risposta negativa, l’uomo ha presentato un regolare ricorso al tribunale federale che, pur respingendo fondamentalmente la sua richiesta, si è ritrovato a riconoscere un diritto più generale: riferendosi alla convenzione europea per i diritti umani, i giudici federali hanno sentenziato che il diritto a darsi la morte debba essere garantito a qualsiasi cittadino. Malati psichici o psichiatrici compresi. E che a decidere, alla fin fine, debbano essere i medici che rilasciano la ricetta per il veleno. Ma come stabilire la reale volontà di un paziente che, in molti casi, è afflitto da una patologia che attiene proprio al suo raziocinio? Nella pratica, dunque, la patata bollente passa ai sanitari. E i giudici elvetici hanno sottolineato l’importanza dell’autonomia nell’ espressione della volontà di morire del paziente. Che per essere certa, in caso di malato di mente, dovrà essere quantomeno avallata da una perizia psichiatrica. Perché da un recente studio, citato proprio dalla corte federale, finora nel suicidio assistito i fattori sociali o psichiatrici sarebbero stati sottovalutati.
(s. o.)