sabato 3 gennaio 2009

Repubblica 3.1.09
A Gaza. È in gioco l’etica del genere umano
di Václav Havel, Hasan bin Talal, Hans Küng, Yohei Sasakawa, Desmand Tutu, Karel Schwarzenberg


Perdere tempo è sempre deplorevole. Ma il tempo perso in Medio Oriente è anche fonte di pericolo. È trascorso un altro anno senza alcun consistente progresso per superare le divisioni tra palestinesi e israeliani.
Le incursioni aeree in atto su Gaza, così come i continui lanci di razzi contro Askelon, Sderot e altre città del Sud di Israele stanno a dimostrare l´estrema gravità della situazione. L´impasse esistente tra Israele e la leadership palestinese di Gaza sulla questione della sicurezza ha condotto tra l´altro al blocco degli aiuti alimentari israeliani alla popolazione di Gaza, riducendo letteralmente alla fame un milione e mezzo di persone. Sembra che nelle sue trattative con i palestinesi di Gaza Israele sia tornato a impuntarsi sul primato della "hard security": un´impostazione che porta solo a precludere ogni altra opportunità di segno non violento, ogni soluzione creativa al contenzioso israelo-palestinese.
Con l´inasprimento della loro posizione i politici israeliani restano legati alla prospettiva di ulteriori insediamenti israeliani in Cisgiordania. E molti palestinesi, messi in questo modo con le spalle al muro, incominciano a non vedere altra scelta, per tradurre in realtà le loro aspirazioni nazionali, al di fuori delle tattiche più radicali. Da qui il rischio di sempre nuove violenze. È quindi fondamentale, per i partner regionali di Israele come per gli attori internazionali, comprendere che i palestinesi non potranno comunque essere distolti dall´obiettivo strategico della conquista di uno Stato indipendente. Il popolo palestinese non abbandonerà mai la sua lotta nazionale.
Ma israeliani e palestinesi devono rendersi conto che non conseguiranno mai i loro obiettivi a lungo termine con il solo uso della forza. È necessaria invece l´adozione di scelte accettabili per entrambe le parti in causa, volte ad evitare le esplosioni di violenza. E sebbene talora non si possa escludere l´uso della forza, solo la via del compromesso verso una soluzione integrata può produrre una pace stabile e duratura.
Perché un processo di risoluzione di un conflitto possa avere esito positivo, è necessario che le energie generate dallo scontro siano canalizzate verso alternative costruttive e non violente. Questo dirottamento delle energie conflittive è possibile in ogni fase del ciclo dell´escalation; ma quando non vi è stata, fin dai primi segnali di tensioni, un´azione preventiva per affrontare i problemi e costruire la pace, soprattutto allorquando il conflitto si intensifica e degenera nella violenza, è necessario ricorrere a un qualche tipo di intervento.
Solo allora diventa possibile instaurare un processo di mediazione e conciliazione, avviare il negoziato, l´arbitrato e la collaborazione in vista della soluzione dei problemi. In definitiva, la ricostruzione e la riconciliazione sono le sole vie percorribili per giungere a una stabilità che comunque non può essere imposta.
In tutto questo non c´è nulla di sorprendente. E tuttavia è il caso di chiedersi per quale motivo non vi sia stato un impegno più concertato e concentrato per trasformare la situazione a Gaza e in Palestina. Si è parlato di un protettorato internazionale, per proteggere i palestinesi sia dagli elementi più pericolosi al loro interno che dagli israeliani, e fors´anche gli israeliani da se stessi; ma questa proposta ha ricevuto scarsa considerazione.
Ciò che preoccupa in particolare chi si impegna nella risoluzione delle crisi internazionali è l´assenza di un tentativo coordinato di costruire un accordo tra israeliani e palestinesi, in vista di una struttura basata su un approccio inclusivo, interdisciplinare e sistemico, in grado di spostare le variabili e di condurre a una pace che entrambi i popoli possano considerare giusta ed equa.
Uno degli elementi chiave per una struttura di riconciliazione è la crescita economica. Come ha ripetutamente sottolineato la Banca Mondiale, esiste una stretta correlazione tra povertà e conflitti. Ecco perché una soluzione politica sostenibile tra palestinesi e israeliani non può prescindere dal superamento del deficit di dignità umana, del divario esistente tra una società prospera e una popolazione priva di tutto. Ma gli sforzi in questo senso sono stati finora frammentari, e quindi insufficienti a consentire la speranza reale di una vita migliore.
È necessario che tra israeliani e palestinesi si stabilisca un dialogo costruttivo, al di là dell´enorme divario sociale che li divide; e allo stesso modo è imprescindibile il dialogo tra le autorità e la gente comune, gli abitanti di queste zone che vivono nella confusione su quanto si sta facendo in loro nome. È necessario ricostruire la fiducia per consentire alle parti in causa di individuare le vie per il superamento delle ostilità del passato. Solo l´avvio di un nuovo clima di fiducia pubblica permetterà di procedere a una diagnosi corretta dei problemi, per poterli affrontare efficacemente.
Naturalmente, tutte le parti in causa devono comprendere l´esigenza di sicurezza degli israeliani; e allo stesso modo, le misure di costruzione della fiducia hanno bisogno del contributo di tutti. Ma più di ogni altra cosa c´è bisogno oggi di un chiaro messaggio ad indicare che non la violenza, ma il dialogo è la via maestra da seguire in questo periodo di grandi tensioni.
Quello che è in gioco a Gaza è l´etica fondamentale del genere umano. Le sofferenze, l´arbitrio con cui si distruggono vite umane, la disperazione, la privazione della dignità umana in questa regione durano ormai da troppo tempo. I palestinesi di Gaza, e tutti coloro che in questa regione vivono nel degrado e privi di ogni speranza non possono aspettare l´entrata in azione di nuove amministrazioni o istituzioni internazionali. Se vogliamo evitare che la Fertile Crescent, la "Mezzaluna fertile" del Mediterraneo del Sud divenga sterile, dobbiamo svegliarci e trovare il coraggio morale e la visione politica per un salto qualitativo in Palestina.

Václav Havel è stato presidente della Repubblica Ceca; Sua Altezza Reale Principe Hasan bin Talal è presidente del´Arab Thought Forum (Forum per il Pensiero Arabo) e presidente emerito della Conferenza mondiale delle Religioni per la pace; Hans Küng è Presidente della Stiftung Weltethos (Fondazione per un´etica globale) e Professore Emerito di Teologia Ecumenica all´università di Tübingen; Yohei Sasakawa è presidente della Sasakawa Peace Fandation; Desmand Tutu è stato insignito del Premio Nobel per la pace; Karel Schwarzenberg è ministro degli esteri della Repubblica Ceca.
Copyright: Project Syndicate, 2008
Traduzione di Elisabetta Horvat

Corriere della Sera 3.1.08
Strategie L'attacco contro Rayan autorizzato dalla procura
Bersagli e vittime civili Scontro in Israele sulle nuove regole
«Colpiremo chi nasconde armi in casa»
di Davide Frattini


Morti tre fratellini, tra gli otto e i dodici anni, nel campo profughi palestinese di Khan Yunis

GERUSALEMME — Quando l'esercito «bussa sul tetto », restano dieci minuti prima che i jet sgancino i missili. Una telefonata e un avvertimento: «Sgomberate, stiamo per bombardare». Li avrebbe ricevuti anche Nizar Rayan, il leader di Hamas ucciso con le quattro mogli e undici dei dodici figli, 20 morti in totale sotto le macerie. Era stato lui — raccontano a Gaza — a ideare la tattica di mandare i civili sul tetto, per fermare i raid all'ultimo momento. Era convinto che lo scudo umano della famiglia l'avrebbe protetto. «Una volta l'aviazione avrebbe aspettato di avere il bersaglio nel mirino, quando si trovava da solo — commenta Ben Caspit, prima firma del quotidiano Maariv —. La guerra in Libano ha cambiato le regole: chi nasconde armi in casa, deve aspettarsi un razzo dalla finestra». I portavoce delle forze armate hanno spiegato che il palazzo di Rayan era utilizzato come deposito e quartiere generale per le operazioni militari, hanno fatto notare che dopo l'attacco si sono sentite altre esplosioni.
Il bombardamento è stato autorizzato da Menachem Mazuz, il procuratore generale dello Stato, e dal consigliere legale dell'esercito. «Prima la procedura si concentrava su un militante — continua Caspit — adesso sono le case a essere incriminate». Nella Striscia, i raid hanno colpito per la prima volta anche le moschee. «I capi di Hamas erano convinti di poter accumulare munizioni nei luoghi sacri, sicuri che non sarebbero mai stati distrutti per paura della condanna internazionale — scrive Bradley Burston su Haaretz —. Rayan è stato ucciso con la famiglia, le moschee ridotte in polvere. Il mondo si è preoccupato di più dei botti di Capodanno. Qualcosa è cambiato nell'equazione mediorientale, perché questa è una guerra che riguarda il futuro dell'islam radicale».
In sette giorni di operazioni sono morti almeno 432 palestinesi, un quarto sarebbero civili, secondo l'agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite. Un gruppo locale per la difesa dei diritti umani parla del 40 per cento. Ieri un missile ha ammazzato tre fratellini, tra gli otto e i dodici anni, mentre giocavano in strada, nel campo rifugiati di Khan Yunis. Dall'inizio dell'operazione Piombo Fuso, i razzi lanciati dai miliziani contro le città israeliane hanno ucciso quattro persone.
L'esercito ha diffuso video per dimostrare che i raid colpiscono depositi di armi e basi di lancio per i Qassam. Il 29 dicembre, poco prima di mezzanotte, sul sito delle forze armate è stata pubblicata la notizia urgente «Camion pieno di armi distrutto vicino a Jabalya ». Il filmato, poco più di due minuti, mostra la situazione dal cielo, attraverso l'occhio elettronico del drone telecomandato. Quindici figure si muovono tra due veicoli, spostano dei lunghi oggetti neri, poi l'esplosione.
Le organizzazioni israeliane B'Tselem e Mezan hanno ricostruito una versione diversa. Il camion apparterrebbe ad Ahmed Samur e la carcassa bruciata è ancora lì, vicino alla sua officina. «Abbiamo portato via solo i morti— dice il palestinese ad Haaretz —. Nessuno osa avvicinarsi». Racconta di essere stato avvertito dalla figlia che un palazzo era stato bombardato ed era crollato sul suo deposito. Di essere andato a controllare i danni e a cercare di tirar fuori le apparecchiature da sotto le macerie. «Quello che stavamo spostando non erano razzi, ma bombole di ossigeno usate per la saldatura. Gli otto giovani uccisi non erano miliziani di Hamas, ma i nostri figli».
I portavoce militari hanno replicato che «il materiale caricato sul camion proveniva da un edificio usato come nascondiglio per le armi».

Repubblica 3.1.09
Il testamento biologico e l’ondata neoguelfa
di Miriam Mafai


Era il dicembre 1967 quando il chirurgo Christian Barnard si trovò di fronte una giovane donna vittima di un grave incidente, nel quale aveva riportato un grave trauma encefalico. Non era morta, ma Christian Barnard, decise di certificarne la «morte imminente». Solo così poté procedere all´espianto del cuore ancora battente per trapiantarlo in un paziente cardiopatico ricoverato nello stesso ospedale. Aveva inizio una nuova epoca per la medicina, l´epoca dei trapianti. Solo l´anno successivo, nell´agosto del 1968, un rapporto della Harvard Medical School definirà il coma irreversibile come nuovo criterio di certificazione della morte. È la definizione di morte ormai dovunque accettata.
Era il 1978 quando vide la luce, in Inghilterra, Louise Brown il primo essere umano concepito, anziché in utero, in provetta. Oggi ha più di trent´anni e un figlio, Cameron, di diciotto mesi. Non sappiamo quanti sono oggi nel mondo i "bambini della provetta", certamente molte decine e decine di migliaia. E, dopo i "bambini della provetta" sono stati messi a punto, con la fecondazione assistita, altri sistemi e metodi, fino allora inconcepibili, di gravidanza e maternità.
Fino al 1968 insomma si veniva dichiarati morti solo quando il cuore cessava di battere. Fino al 1978 i bambini venivano concepiti, nel matrimonio (o fuori del matrimonio) solo in virtù di un rapporto sessuale tra un uomo e una donna.
Sono passati, da allora solo quarant´anni, pochi nella vita di una persona, quasi nulla nella storia dell´umanità. Ma le due date possono essere ricordate come l´inizio di una storia nuova per l´umanità, una storia di cui ci è difficile immaginare oggi tutti i possibili sviluppi. La nascita e la morte, per dirla con un recente intervento di Aldo Schiavone, «stanno svanendo come eventi "naturali" e si stanno trasformando in eventi "artificiali", dominati dalla cultura e dalla tecnica». E, come tali, ci propongono nuovi problemi e interrogativi, scientifici e morali.
C´è chi saluta questo intervento della scienze e della tecnica come uno straordinario progresso, un annuncio di benessere e persino di felicità, c´è chi di fronte a questa pervasività della scienza e della tecnica si ritrae spaventato o inorridito. C´è chi ancora oggi è contrario alla pratica degli espianti, che infatti deve essere esplicitamente prevista dal paziente o autorizzata dai parenti. C´è la donna che, per avere un figlio è disposta a sottoporsi ad una serie di procedimenti e pratiche mediche spesso dolorose e sempre invasive, e quella che preferisce rinunciare ad una maternità biologica e scegliere, invece, la strada dell´adozione.
Di tutto questo, delle possibilità che ci vengono offerte dalla medicina e dalla ricerca scientifica ancora in corso, non solo si può, ma si deve poter discutere. E si discute infatti, in tutti i paesi prima di giungere a soluzioni legislativa. È bene discuterne anche nel nostro paese senza preconcetti e chiusure. Senza arroganze né faziosità. Ma, soprattutto, senza timidezze o subalternità nei confronti delle gerarchie, quasi si ritenesse la Chiesa Cattolica l´unica o la più autorevole depositaria di quei principi etici di cui tutti riconosciamo l´importanza e la necessità ma che non tutti decliniamo nello stesso modo.
Basti ricordare a questo proposito il caso di Eluana Englaro, che ci propone in maniera drammatica, un quesito, quello della disponibilità della vita, anche della propria, sul quale la Chiesa appare assolutamente intransigente, ma che è già stato risolto in modo diverso non solo nella coscienza del padre della fanciulla (e nella opinione della maggioranza degli italiani, stando ai più recenti sondaggi), ma anche da una serie di sentenze dei tribunali italiani. Com´è possibile che la esecuzione di queste sentenze venga impedita dalla opinione di un pur autorevole vescovo?
La questione della disponibilità della propria vita è delicata e controversa. La Chiesa cattolica vi si oppone fermamente. Ma il tema viene affrontato in modo diverso da autorevoli pensatori cattolici, come Vittorio Possenti, che recentemente sosteneva che «sul piano razionale il criterio di una indisponibilità della propria vita non è fondato». Ieri su queste pagine Luca e Francesco Cavalli Sforza hanno proposto di sottoporre a referendum popolare l´ipotesi del cosiddetto "testamento biologico", il diritto di ognuno di noi di decidere se e fino a quando essere tenuto in vita artificialmente.
Il caso di Eluana Englaro ha aperto drammaticamente il dibattito su questo tema: se ognuno di noi può decidere quali cure accettare e quali rifiutare. La questione in realtà dovrebbe considerarsi già risolta in virtù dell´art. 32 della nostra Costituzione che afferma che nessuno può essere obbligato a un qualsivoglia trattamento sanitario. La nostra vita ci appartiene, dunque, siamo noi che ne disponiamo. Il rifiuto delle cure, secondo la nostra Costituzione, è legittimo anche quando dovesse comportare la morte del soggetto. L´ultimo caso si è verificato, come tutti ricordiamo, solo qualche giorno fa, quando una paziente gravemente ustionata e ricoverata in ospedale ha rifiutato l´amputazione di una gamba, pur sapendo che questo rifiuto ne avrebbe provocato la morte. I medici, dopo averla interpellata e informata delle conseguenze della sua decisione, si sono limitati a rispettarne la volontà, liberamente e ripetutamente espressa.
Si tratta certamente di una materia delicata, che sarà presto presa in esame dal Senato, dove già sono state presentate in tema di testamento biologico o disposizioni di fine vita, numerose proposte di legge. A differenza di Schiavone però, io non ho percepito finora nessun vero, serio, segnale di disponibilità in questa materia da parte delle gerarchie. E mi chiedo anche perché nel nostro paese, e solo nel nostro paese, l´attività del legislatore debba essere condizionata in ultima istanza dal giudizio del Vaticano.
Si parla meno, ma anche questa materia andrebbe meglio approfondita, della zona grigia che attiene al diritto della donna al controllo della sessualità e della maternità. Anche qui c´è un costante, tenace intervento delle gerarchie. C´è stato nel corso del dibattito sulla legge 40 sulla fecondazione assistita. Ma molte norme di quella legge, in particolare quella che obbliga all´impianto in utero di tutti gli embrioni prodotti e quella che vieta l´esame preimpianto sono state giudicate illegittime da molti nostri Tribunali su ricorso di coppie affette da malattie trasmissibili. Queste sentenze tuttavia non sono state sufficienti per consigliare una revisione di quelle norme di legge. E che non poche coppie affette da gravi malattie trasmissibili, preferiscono "emigrare" in altri paesi europei e lì procedere alla fecondazione assistita. (Paradossi della nostra storia: una volta, prima del 1978 si emigrava per poter abortire, oggi si emigra per avere un figlio esente da gravi malattie?). E ancora: è di questi giorni la feroce opposizione del sottosegretario Eugenia Roccella alla introduzione in Italia della pillola RU486, che consente il cosiddetto "aborto farmacologico". Anche qui, in materia di aborto e maternità, la scienza propone e la Chiesa si oppone. Ed anche in questa materia non registro finora, a differenza di Aldo Schiavone, nessuna nuova disponibilità della Chiesa. Ma vedo invece avanzare, anche per le incertezze e le debolezze della cultura laica, una pericolosa "ondata neoguelfa".

Repubblica 3.1.09
Se anche il papa perde audience
di Giovanni Valentini


La Chiesa della "vecchia Europa" ha proprio bisogno di novità e anche di una ventata di aria fresca.
(da "Conversazioni notturne a Gerusalemme" di Carlo Maria Martini - Mondadori, 2008 - pag. 44)

Applicato a un Papa, al Santo Padre, al Sommo Pontefice, al capo della Chiesa cattolica, il termine audience può anche risultare improprio o addirittura blasfemo. Per i credenti, Sua Santità rappresenta Dio in terra e, quando esercita ex cathedra il magistero sulla fede, è coperto dal privilegio dell´infallibilità. Ma anche per i non credenti il "vicario di Cristo" è comunque la guida spirituale di una grande comunità umana, composta da oltre un miliardo di persone in tutto il mondo. E dunque, merita senz´altro il rispetto che si deve ? anche al di là dei motivi religiosi ? a un leader planetario, a una figura di riferimento, a un´autorità morale.
Ecco perché in questo caso il vocabolo audience, tratto dal linguaggio mediatico e in particolare televisivo, può essere o apparire inappropriato. Eppure, nella società della comunicazione, è il termine che viene più naturale per registrare ? come hanno fatto i giornali alla vigilia di Capodanno ? il calo delle presenze dei fedeli alle udienze e agli incontri di Benedetto XVI. Nel corso del 2008, secondo i dati ufficiali diffusi dal Palazzo apostolico, l´immensa platea a cui si rivolge il Santo Padre ha perso mezzo milione di partecipanti. Ma rispetto agli oltre quattro milioni di persone che erano venute a Roma ad ascoltare Ratzinger nei primi dodici mesi del suo pontificato, la caduta dell´audience arriva complessivamente a un milione e ottocentomila fedeli.
Sarà pure un calo per così dire fisiologico in seguito all´esaurimento dell´effetto novità. Ed è pur vero che il Papa non è una star televisiva né tantomeno, come ha detto lui stesso recentemente, una rockstar: per cui la sua influenza non può essere valutata con i criteri prosaici dell´Auditel. Sta di fatto, però, che tra le udienze in Vaticano e gli incontri a Castelgandolfo il trend è questo, sebbene i viaggi di Benedetto XVI all´estero, negli Stati Uniti, in Australia e in Francia, abbiano registrato invece un successo mediatico.
Per cercare di essere il più possibile rispettosi, diciamo allora che ? in confronto al fascino e alla popolarità del suo predecessore Karol Wojtyla ? Papa Ratzinger ha verosimilmente meno carisma, rivela una minore capacità comunicativa, esercita una minore attrazione. Non si fa peccato, e comunque non c´è nulla di male, a osservare che la sua stessa figura fisica, il suo modo di parlare e ? soprattutto per noi italiani ed europei ? la sua cadenza marcatamente tedesca, non giovano né all´immagine né all´ascendente del Pontefice. E tutto ciò, per un leader mediatico globale, ha comunque il suo peso.
Ma per non ridurre tutto a una "questione di feeling" bisogna riconoscere che il magistero di Ratzinger, nel suo rigore teologico e morale, non concede nulla allo spirito del tempo; cioè a quella tendenza verso la modernizzazione dei costumi o magari alla secolarizzazione che spesso degenera nel materialismo. La società si allontana così dalla Chiesa e la Chiesa dalla società, in un processo di divaricazione progressiva e reciproca. Per i laici o per gli atei, può essere anche un fenomeno storico; inarrestabile; in qualche misura benefico, se incrementa sul piano etico la coscienza individuale e la responsabilità collettiva. Per i credenti, invece, si pone una questione di testimonianza e di apostolato che evidentemente non può essere rimessa soltanto all´evangelizzazione del Terzo mondo.
Ora, contro gli spettri della crisi mondiale, giustamente il Papa invoca un nuovo modello di sviluppo economico, più equo e solidale. Ma molto spesso è la "doppia morale" della Chiesa a deludere e allontanare i fedeli: dall´impraticabilità della dottrina sessuale fino ai temi fondamentali della bioetica; dai rapporti prematrimoniali alla contraccezione e al controllo delle nascite; dalle cellule staminali al testamento biologico. Quella "doppia morale" per cui si perdonano i preti pedofili e si condannano gli omosessuali, in base alla semplicistica argomentazione che Dio ha creato l´uomo e la donna; si nega la comunione ai divorziati o ai risposati e si somministra invece all´esponente politico che si professa cattolico e magari ha già avuto un figlio fuori dal matrimonio, in attesa dell´annullamento della Sacra rota. Oppure, si rifiutano i funerali in chiesa al povero Welby che chiedeva l´eutanasia e si concedono al noto avvocato penalista che in un momento di disperazione s´è tolto la vita con un colpo di pistola; o ancora, si difende l´accanimento terapeutico su Eluana Englaro, da sedici anni in stato vegetativo irreversibile, mentre in tanti ospedali e in tante cliniche private ogni giorno si stacca pietosamente il tubo in silenzio ai pazienti in coma.
È proprio in un tale contesto che rischia di assumere il valore di una rottura diplomatica l´annuncio che il Vaticano non recepirà più automaticamente le leggi italiane, considerate troppe, mutevoli e spesso contraddittorie fra loro. A cominciare, naturalmente, da quelle che contrastano con la morale cristiana. Si tratta, come ha scritto lo stesso Osservatore romano, di «un evento importante per l´ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano». E sorprende che, a cavallo del Capodanno, dal fronte laico non siano arrivate finora reazioni adeguate.
Era dal 1929, dall´epoca dei Patti lateranensi attraverso cui lo Stato italiano e il Vaticano stabilirono il mutuo riconoscimento, che vigeva questo regime di recezione pressoché automatica. Ed è senz´altro legittimo che la Santa Sede, nella sua piena autonomia, decida oggi di modificare la procedura. Ma, a parte il paradosso che ciò avviene nel momento in cui l´Italia è retta da un governo di centrodestra fin troppo compiacente, è una scelta che ? com´è stato detto nei giorni scorsi ? minaccia di allargare ulteriormente le sponde del Tevere, cioè le distanze fra la Repubblica e la Chiesa. Ottant´anni dopo il Concordato, non se ne sentiva davvero la necessità.

Corriere della Sera 3.1.08
La protesta Il leader radicale: grave la decisione di non recepire le leggi italiane
Pannella: il Vaticano viola il Concordato
di R.P.


ROMA — Il leader radicale Marco Pannella attacca il Vaticano, dopo la decisione di darsi una nuova legge sulle fonti del diritto, quella che non prevede più una «recezione quasi automatica » delle leggi italiane. «Abbiamo letto tutti che uno dei principali soggetti dell'informazione dei Tg italiani, il Capo dello Stato del Vaticano, ha di fatto assunto una decisione gravissima, che nega alla radice la struttura concordataria, e semmai ancor di più quella sventurata siglata nei Patti di Villa Madama».
Secondo Pannella, «delle due, l'una: o il Vaticano ha doverosamente e riservatamente avvisato il nostro Presidente della Repubblica di questo fatto importantissimo, di incriminazione della legislazione delle istituzioni italiane; oppure non l'ha fatto». Conclusione: «Io devo pensare che il Presidente non ne fosse informato, perché altrimenti non si spiegherebbe il motivo per cui, come gli avrebbe imposto la Costituzione, non abbia risposto alla decisione dello Stato del Vaticano ».
La Santa Sede, per parte sua, aveva già sopito sul nascere le polemiche riprese da Pannella. Giuseppe Dalla Torre, presidente del Tribunale del Vaticano, ha spiegato l'altro giorno a Radio Vaticana che le nuove norme rappresentano «una semplificazione rispetto alla legge del 1929». La «novità di maggior rilievo» è che «fino ad ora, in Vaticano, abbiamo applicato le norme del Codice civile italiano del 1865 con crescente difficoltà in relazione al fatto che la società oggi presenta profili nuovi, aspetti nuovi ». Adesso viene richiamato «il Codice del 1942» che «ovviamente, pur essendo ormai anzianotto, è però più moderno».
Nessuno sconvolgimento, insomma: «Non è che cambi molto, perché in realtà il richiamo alla legislazione italiana è sempre stato in via suppletiva — ha aggiunto Della Torre — . L'ordinamento vaticano ha sue leggi, ha sue norme. Non solo il Diritto canonico, anche se il Diritto canonico è sempre stato la fonte principale: non è che venga introdotto oggi come fonte principale nell'ordinamento!», ha esclamato. Sull'Osservatore Romano si parlava di contrasto «con troppa frequenza evidente » tra le leggi italiane e i «principi non rinunziabili». Ma «il filtro alle leggi italiane c'è sempre stato», dice il presidente del Tribunale del Vaticano: «Anche nella precedente legge del 1929, il richiamo alle norme italiane era in via suppletiva e sempre con un filtro: il non contrasto con l'ordinamento interno dello Stato vaticano con i principi e le norme del Diritto canonico e con le disposizioni di diritto divino, naturale e positivo».
Nessun gesto di rottura, quindi: «Essendo la Città del Vaticano uno Stato indipendente e sovrano, può modificare tutte le sue leggi come vuole», ha concluso Della Torre. Del resto «anche l'ordinamento italiano, come quello di qualsiasi altro Stato, prevede dei filtri alla recezione di norme di ordinamenti stranieri, perché evidentemente ogni Stato vuole cautelare il proprio ordinamento giuridico dalla intromissione di valori che siano incompatibili con i principi dell'ordinamento giuridico stesso».

Repubblica 3.1.09
La politica e l’ebraismo
Divergenti interpretazioni dell'identità di un popolo
l confronto tra Scholem e Strauss
di Franco Volpi


L´uno, di genitori assimilati, è studioso della Kabbala e ispirato dal sionismo
L´altro, di famiglia ortodossa, è allarmato dal conflitto tra fede e ragione

Si formarono entrambi nella Germania che visse la brusca fine della Belle Époque, la catastrofe della Grande Guerra e l´estenuante crisi di Weimar, e che a rapidi passi si stava incamminando verso il totalitarismo nazionalsocialista. In quell´atmosfera turbolenta, Gershom Scholem e Leo Strauss condivisero il destino dell´intellighenzia ebraica di lingua tedesca, la cui travagliata identità è simboleggiata dai nomi di tre città: Berlino, Atene, Gerusalemme. Ovvero: germanità, filosofia, ebraismo.
Si conobbero frequentando la Scuola Ebraica di Francoforte e poi l´Accademia per la Scienza dell´ebraismo di Berlino. Pensatori originali ed eterodossi, imboccarono strade divergenti e svilupparono due diverse interpretazioni della loro identità. Il fitto scambio epistolare che intrattennero nel corso degli anni, curato da Carlo Altini con un illuminante studio introduttivo, ci cala in una vicenda, quella dell´ebraismo, che ha segnato in modo inconfondibile la storia del Novecento (Lettere dall´esilio. Carteggio 1933-1973, Giuntina, pp. 252, euro 14).
Scholem, che era di famiglia ebrea berlinese assimilata, aveva iniziato a studiare matematica e filosofia a Jena con Frege, per passare poi a Berna e a Monaco, dove si appassionò per le lingue orientali e per la tradizione della Kabbala, su cui scrisse la tesi di dottorato. Amico intimo di Walter Benjamin, di cui ammirava «l´ingegno metafisico», deluso dalle mancate promesse dell´assimilazione ebraica e convinto che essa fosse destinata al fallimento, già nel 1923 preferì tagliar corto con l´identità germanica ed emigrò in Palestina. Qui si distinse come storico delle religioni e studioso della mistica ebraica, ottenendo nel 1933 una cattedra per insegnarla all´università di Gerusalemme. Senza mai aderire all´ortodossia, si riconobbe a suo modo nella tradizione ebraica e nei suoi insegnamenti dottrinali, diventandone il massimo esperto.
Leo Stauss proveniva invece da una famiglia ebrea ordodossa, originaria dell´Assia rurale, e si era laureato con Cassirer ad Amburgo con una tesi sul problema della conoscenza Jacobi, vale a dire: sull´antinomia tra fede e ragione, tra filosofia e rivelazione. Un motivo, questo, che attraverserà tutta la sua opera. A inquietarlo erano l´ateismo e il nichilismo a cui era approdata la modernità, e l´incapacità della pur straordinaria cultura weimariana di reagire alla crisi con un contro-movimento. Con le sue descrizioni essa contribuiva invece a diffonderla e intensificarla. Era ancora possibile impegnare l´uomo e l´universo in un´avventura speculativa quando i nomi che risuonavano erano quelli di Weber, Spengler e Heidegger? La stessa identità ebraica, che a lungo si era illusa di fare tutt´uno con l´illuminismo liberale, non veniva trascinata nel vortice della stessa decadenza? Dallo studio della tradizione filosofica ebraica, accanendosi su Maimonide, su Spinoza, sulla critica della rivelazione in nome della ragione, Strauss ricavava più dubbi che certezze, più ateismo che convinzioni religiose. Conseguita una borsa di studio con l´aiuto niente meno che di Carl Schmitt, spostò allora il fulcro dei propri interessi sulla politica e sulle sue elaborazioni teoriche. La sua geniale intuizione fu di distinguere «scienza politica» e «filosofia politica». La scienza politica moderna, quella di Hobbes e dell´ancor più radicale Machiavelli, disseca neutralmente e positivisticamente il corpo sociale in modo analogo a come la fisica seziona i corpi fisici. La filosofica politica, invece, quella di Platone e Aristotele, si pone il problema di dare alla comunità politica una forma riuscita.
Che cosa potevano spartire due intelligenze votate a interessi così divergenti? A unire Scholem e Strauss fu la comune passione per la ricerca dell´identità ebraica, diventata difficile dopo la crisi dell´assimilazionismo e il suo sfaldarsi contro il crescente antisemitismo in Germania. Fu l´erranza ebraica che li spinse a condividere esperienze e inquietudini tipiche della loro condizione, senza ignorare però le rispettive differenze, prima fra tutte la diversa interpretazione che proponevano della loro tradizione. Entrambi convenivano nella diagnosi: il delicato equilibrio tra germanità, filosofia ed ebraismo, che ancora resisteva nell´opera di maestri della tradizione giudaico-tedesca come Hermann Cohen, Franz Rosenzweig e Martin Buber, era in procinto di spezzarsi. Entrambi erano troppo radicali per accontentarsi del programma moderato dell´Accademia ebraica berlinese, diretta allora da Julius Guttmann: la Filosofia dell´ebraismo di quest´ultimo fu letteralmente sviscerata e, nonostante gli innegabili meriti storiografici della sua ricostruzione della tradizione filosofica ebraica, fu criticata per il suo tentativo di conciliare, con sbiadite categorie dialettiche, ebraismo e ragione filosofica.
Scholem era convinto che l´anima ebraica stesse nella rivelazione, nella dimensione simbolica, nelle forze mistiche e messianiche che mantengono la storia in una tensione costante e impediscono di ridurla a un progetto secolare o politico, incluso lo stesso programma sionistico della fondazione dello Stato di Israele. È questo il punto di forza e al tempo stesso la debolezza dell´idea messianica: essa è consolazione e speranza, ma ogni tentativo di realizzarla, ogni sua concreta manifestazione storica sembra ridurla ad absurdum. Vivere nella speranza e nell´immaginazione ha qualcosa di grandioso, ma anche qualcosa di profondamente irreale, come Scholem scrive nei suoi fondamentali studi su L´idea messianica nell´ebraismo, ora tradotti in un´impeccabile edizione da Roberto Donatoni e Elisabetta Zevi (Adelphi, pagg. 388, euro 34).
Strauss valorizza invece l´elemento filosofico a rischio di disgregare quello religioso. Sostiene la ragione a scapito della fede, la vita contemplativa contro quella pratico-politica. L´alternativa tra Atene e Gerusalemme si profila per lui come un contrasto inconciliabile: quello tra una vita che trova il principio per determinarsi unicamente in se stessa, nella propria razionalità e nell´assoluta indipendenza da ogni autorità, e una vita sottomessa invece all´obbedienza, alla fede, ai dettami della rivelazione. Delle due l´una: o vale la legge rabbinica con la rigorosa osservanza che pretende dal credente, oppure la scepsi filosofica elevata a regola di vita. Ogni mediazione tra i due estremi non è sufficientemente radicale e, presto o tardi, la storia si incaricherà di spezzarla.
Ma per l´ultimo Strauss, ragionatore tagliente e disincantato che incalza su questo punto l´amico, c´è una tensione che precede quella tra filosofia e rivelazione: è il conflitto tra filosofia e politica, saggezza e tirannide. Egli ipotizza allora l´esistenza di una «seconda, più profonda caverna platonica», in cui l´uomo sarebbe prigioniero e da cui solo una élite filosofica potrebbe liberarlo. Una élite che, nei tempi bui della storia, non può fare altro che dissimulare i propri pensieri mediante una «scrittura della reticenza», bussando con la sua saggezza sempre alla stessa porta chiusa: quella degli arcana imperii. Invano essa ha cercato di scardinarli, come la storia dei totalitarismi del Novecento ha drammaticamente insegnato. E ogni soluzione che ha proposto, non è stata che la maschera sotto cui si è presentato un nuovo problema.

Corriere della Sera 3.1.08
Il 2009 apre una nuova era per biologia e neuroscienze: in sviluppo protesi per collegare cervello e computer
L'anno delle staminali su misura
Disponibili per la medicina cellule ottenute con la manipolazione genetica
di Edoardo Boncinelli


Tempo di consuntivi. E di progetti. Tempo di riflessioni e di tentativi di anticipazione. Anche nel campo delle scienze della vita. Se dovessi assegnare la palma ai progressi più rilevanti in questo ambito, la darei alla prospettiva recentemente emersa di farsi le cellule staminali direttamente «in casa», come del resto ha sentenziato la rivista Science. Sono anni che sostengo che le cellule staminali si possono trovare già pronte, nell'embrione o nell'adulto, ma si possono anche preparare a bella posta. Pare che ora ci siamo! Nel 2006 un primo gruppo di ricerca giapponese è riuscito a rendere «staminali» alcune cellule prese da un corpo adulto e geneticamente modificate. Queste cellule furono prudentemente chiamate cellule iPS, induced pluripotent stem cells, ma mostrarono subito di possedere tutte le caratteristiche tipiche delle staminali di qualità. Il «miracolo» fu compiuto introducendo nelle cellule adulte quattro geni «interruttori », di quelli cioè che sono capaci di accendere intere batterie di altri geni (e di spegnerne altre) in modo da cambiare in profondità la programmazione genetica delle cellule stesse. Combinando quattro di questi si è raggiunto l'eccezionale risultato al quale abbiamo accennato.
Preparazione ad hoc
La prospettiva è esaltante: c'è possibilità di «prepararsi» in laboratorio cellule staminali che non presentano alcun problema etico e che possono dare luogo a tessuti e organi che non verranno rigettati dal corpo del ricevente perché sono stati scelti in modo che il loro assetto genetico non sia in contrasto con quello di chi deve ricevere il trapianto. Tre anni fa era però legittimo esprimersi, come feci, con cautela per le possibili difficoltà tecniche e pratiche dell'esperimento. Oggi questo intervento è stato oramai ripetuto diverse volte da vari gruppi di ricerca, con qualche modifica, e possiamo probabilmente dire che sarà presto una realtà della medicina, per curare sia ma-lattie, congenite o acquisite, che le conseguenze di incidenti o del normale processo di invecchiamento. L'era delle cellule staminali potrebbe essere veramente alle porte.
Caccia ai geni tumorali
Altri nuovi e portentosi progressi sono stati compiuti anche nella caccia ai geni responsabili di questa o quella forma di tumore. Questo è avvenuto grazie a due avanzamenti conoscitivi di grande portata: la sempre migliore conoscenza delle sottigliezze dei vari genomi e la comprensione del meccanismo d'azione dei cosiddetti micro-RNA non codificanti. Qui si tratta di prospettive più che di consuntivi. Il confronto di genomi diversi — di specie diverse ma anche di individui diversi della stessa specie — ci sta illuminando sempre più su che cosa è essenziale e che cosa è «di contorno» nei diversi patrimoni genetici.
Ciò serve primariamente a segnalarci dove e come scavare nella gigantesca montagna di dati delle sequenze dei diversi genomi. In questo campo uno dei quesiti più interessanti è rappresentato dall'individuazione di niente di meno che le basi biologiche della differenza fra noi e i nostri cugini — scimpanzé, gorilla e bonobo. E' abbastanza chiaro che tutto si gioca al livello della regolazione dell'attività dei geni, e per questa funzione i candidati ideali sono proprio i micro- RNA, piccolissimi RNA che non codificano direttamente proteine ma ne regolano la produzione da parte dei geni codificanti convenzionali.
Interfacce artificiali
Esiste poi lo sconfinato campo delle neuroscienze, il più grande sforzo mai intrapreso per comprendere il nostro cervello, la nostra mente e la nostra psiche. Anche qua due serie di risultati e due prospettive esaltanti: lo sviluppo di interfacce artificiali tra cervello e computer e la comprensione dei meccanismi della valutazione e della decisione. Per quanto concerne il primo argomento, siamo ormai alla vigilia di protesi ibride che assistano chi, pur avendo un cervello perfettamente funzionante, ha problemi di movimento o di percezione sensoriale.
Con le onde cerebrali si può direttamente aprire una finestra, accendere un televisore e, entro certi limiti, anche scrivere — basta che queste onde siano amplificate e inviate a un congegno assistito da un computer — mentre il cervello può «vedere» e sentire ciò che lo circonda anche se i sensi del corpo che lo ospita non sono al meglio della forma — basta trasformare gli stimoli del mondo esterno nelle onde cerebrali più appropriate.
Il percorso delle decisioni
Conosciamo sempre meglio, infine, attraverso quali meccanismi valutiamo le situazioni che stiamo affrontando e prendiamo le nostre decisioni, dalle più insignificanti, come vestirsi o scegliere un vino, alle più impegnative, come accettare o non accettare un lavoro o se e quanto investire in una determinata impresa finanziaria. Anche se gli eventi degli ultimi mesi sembrano mettere seriamente in dubbio la nostra capacità di affrontare in maniera adeguata i problemi dell'economia e del mercato, enormi passi avanti si stanno compiendo nella comprensione dei meccanismi mentali e psicologici che stanno alla base delle nostre decisioni. E' forse proprio perché prima non ne avevamo la minima idea, o perché l'avevamo parecchio sbagliata, che è successo quello che è successo. In tutto il mondo. Il fatto è che noi adopriamo la razionalità, cioè la nostra corteccia cerebrale prefrontale, solo in un secondo momento e quando non ne possiamo proprio fare a meno. In prima battuta e nella maggior parte delle nostre decisioni quotidiane adopriamo tutti altre strutture cerebrali e obbediamo ad altri meccanismi psico- fisiologici che seguono altre logiche, più naturali ma meno accorte. I percorsi che portano dalle nostre ghiandole al cosiddetto sistema limbico e da questo alla corteccia cingolata anteriore e talvolta alla razionalità della corteccia prefrontale sono stati, e promettono di essere ancora per qualche tempo, i grandi protagonisti di questa esaltante avventura intellettuale. Altro che animali razionali! Siamo i Signori dell'irrazionale. Ma siamo anche gli unici che lo sanno.

Corriere della Sera 3.1.08
Fede e ragione Fra culto e superstizione, resti veri e falsi sono oggetto di devozione e polemiche
Le reliquie dei grandi, rito laico
Le ossa di Dante, il cuore di Voltaire e ora il cranio di Cartesio
di Armando Torno


Il culto delle reliquie non è prerogativa delle religioni, anche la ragione filosofica e le passioni letterarie hanno le loro. Se a Bijapur, nel Deccan, si venera un pelo della barba di Maometto, Gabriele d'Annunzio si inginocchiò dinanzi alla teca contenente i capelli di Lucrezia Borgia alla Biblioteca Ambrosiana di Milano (Lord Byron, invece, ne rubò uno). Se gli antichi Egizi avevano i quattordici brani del corpo di Osiride disseminati lungo le sponde del Nilo dall'uccisore Seth, la Chiesa Cattolica ha gestito magistralmente le reliquie diffondendo il culto dei santi e i santuari. Chi scrive deve a Josif Brodskij — Venezia, dicembre 1989 — un racconto sulla tomba di Kant. Confidò con un sorriso che una leggenda metropolitana parlava di una visita di Breznev a Kaliningrad (l'antica Königsberg), dove notò i resti della cattedrale. Il premier sovietico chiese perché si conservasse quel rudere. Gli risposero che custodiva, appunto, la tomba di Kant. E lui: «Chi era Kant?». L'accompagnatore fu svelto: «Un maestro di Marx». Subito il segretario del Pcus ordinò grandi restauri.
Per questo non ci meraviglia che la scuola militare Prytanée chieda adesso il cranio di Descartes (il nostro Cartesio), suo antico allievo, conservato al Museo dell'Uomo di Parigi tra un busto di cavernicolo e quello di un ex calciatore. Adrien Baillet nella sua Vita di Monsieur Descartes (tradotta da Adelphi) ricorda che era piccolo, pallido, perennemente afflitto da una tosse secca e che nelle ultime ore — si trovava a Stoccolma — ordinò al domestico Schluter «di andargli a preparare dei piccoli pani, convinto che li avrebbe mangiati di buon grado, nel timore che gli si restringessero le budella se avesse continuato a prendere solo brodi e non avesse fatto lavorare stomaco e visceri ». Fatica inutile, giacché nelle prime ore dell'11 febbraio 1650 «le orazioni non erano ancora ultimate che Descartes rese l'anima al suo Creatore». Gli svedesi, dopo le esequie, ne trafugarono la testa, che arriverà a Parigi soltanto nel 1882; il corpo, invece, la precederà di due secoli abbondanti: la salma mozzata giunge nel 1666 e posta nella chiesa di Sainte-Geneviève du Mont (sarà trasportata a Saint-Germain des Près il 26 febbraio 1819).
Ma Descartes è uno dei tanti. Il culto della reliquie della ragione colpisce anche il laicissimo Voltaire. Quando morì, il 30 maggio 1778, si trovava a Parigi, nella casa di rue de Beaume; l'autorità religiosa aveva fatto sapere da tempo di proibire la sua sepoltura in terra consacrata. La nipote, mademoiselle Denis, che aveva una tresca con un prelato, la notte del 31 maggio fece partire un tiro a sei con il cadavere dello zio vestito come se fosse vivo, con accanto un servitore. Mentre il corpo andava in cerca di una tomba, cuore e cervello restavano a Parigi: si conserveranno rispettivamente alla Biblioteca Nazionale di Francia e alla Comédie Française. Ci vorrà la rivoluzione per far tornare nella capitale la salma, tumulata al Panthéon il 12 luglio 1791.
Ma quel che più induce a riflettere è l'accanimento su certi resti considerati simbolo di genialità. Si desidera conoscere il Dna di Galileo; periodicamente si scopre il cranio di Mozart (fu sepolto in una fossa comune...) e siamo sommersi da deduzioni; ora si punta su quel che si presume di Leonardo, le cui ossa furono disperse al tempo della Rivoluzione Francese. Quando, dopo incredibili avventure, si traslò la salma di Ugo Foscolo dal cimitero di Chiswick alla chiesa di santa Croce di Firenze, si aprì la bara per scattare fotografie più che per verificare lo stato dei resti. D'altra parte — chi scrive deve il racconto a Riccardo Muti — allorché si posero le ossa di Dante in una nuova cassa, in pieno Novecento, l'incaricato del Comune di Ravenna chiamò i suoi figli e, dopo aver toccato le reliquie, frizionò loro la testa, sperando di «trasmettere qualcosa».
Il culto è stato anche istituzionalizzato. A Mosca, dopo la morte di Lenin, si fondò un vero e proprio centro per lo studio del cervello dei morti, l'Istituto Obuch. Dopo aver esaminato quello dello stesso Lenin, toccò allo scrittore comunista Henri Barbusse (si spense nella capitale sovietica nel 1935): si prelevò il cervello e il resto fu cremato e sepolto sotto le mura del Cremlino. L'onore raggiunse anche Maksim Gor'kij: nel 1936 gli tolsero la materia grigia, gliela affettarono in parti sottilissime e la esaminarono al microscopio. Come d'abitudine. Per questo non si può che condividere quanto si legge sulla tomba di William Shakespeare (chissà se essa conserva veramente i suoi resti...) nella chiesa di Stratford: «Buon amico/ per amor di Cristo/ non cavar fuori/ la polvere qui racchiusa!/ Benedetto chi rispetta queste pietre/ e maledetto chi rimuove le mie ossa».
Cartesio (1596-1650) Voltaire (1694-1778) Immanuel Kant (1724-1804) Leonardo da Vinci (1452-1519) Dante Alighieri (1265-1321) William Shakespeare (1564-1616)

il Riformista 3.1.08
Giorgio Ruffolo spiega perché Napolitano e Ratzinger dicono le stesse cose
Siamo al «neoliberismo con l'ambulanza». E il Pd sbaglia a tacere
PARADOSSI. «Dopo aver picconato lo Stato per anni, adesso lo invocano per salvarsi. Mentre un partito senza idee si fa scavalcare dal Papa».
di Tonia Mastrobuoni


«Noto con dispiacere che la sinistra italiana non riesce a dire ancora una parola critica sul modello neoliberista con l'ambulanza». Giorgio Ruffolo è un grande affabulatore, quando posa lo sguardo su un'epoca, che sia l'Età del ferro o il Rinascimento, ne fotografa l'anima. Anche in quest'intervista con il Riformista, all'indomani delle convergenze parallele nei discorsi di fine anno di Giorgio Napolitano e del Papa con i loro accenti critici sul modello di sviluppo attuale, l'economista sfodera la lucidità di sempre.
Padre nobile e poco ascoltato della sinistra italiana, Ruffolo è un narratore talmente abile che Luca Ronconi si innamorò due anni fa di un suo libro, Lo specchio del diavolo (Einaudi) e lo trasformò in uno spettacolo teatrale. Il fondatore del Cer ha condensato in quel libro qualche divertente considerazione, molto attuale. Almeno quanto il «neoliberismo con l'ambulanza». Il mercato, scrive, non è mai stato «la piazza d'armi delle geometriche manovre che la teoria dell'equilibrio economico ha rappresentato; ma fin dall'inizio, un campo di battaglie violento, talvolta truculente». Dunque, è «molto più simile a un romanzo d'avventura che a un modello matematico».
Oggi siamo al capitolo più movimentato di questo romanzo, nel bel mezzo della più grave crisi economica globale da un secolo a questa parte. Schiere di economisti si affannano a dimostrare che avevano previsto il disastro dei subprime oppure glissano imbarazzate. Ruffolo predica inascoltato da anni che il modello di sviluppo attuale è devastante, che la "teologia dei mercati" è pericolosa perché le sue divinità abitano un Olimpo «indecifrabile, capriccioso e inesorabile». Ma non ha la sindrome della Cassandra.
In Quando l'Italia era una superpotenza (Einaudi), notava, alla fine di viaggio attraverso oltre due millenni di storia, che «quello della finanza è l'autunno opulento di tutte le egemonie: italiana, olandese, britannica. Americana?». È evidente, per l'ex ministro dell'Ambiente, che nelle convergenze nei discorsi di fine anno di Benedetto XVI e del presidente della Repubblica c'è la consapevolezza di «un grande momento storico». Ma sugli esiti, sulla possibilità che sia l'epilogo del "turbocapitalismo", Ruffolo non è molto ottimista.
«Noto intanto che dopo aver predicato per anni che lo Stato non è la soluzione ma il problema, i paladini del libero mercato lo hanno invocato tutti a gran voce per rimediare ai disastri fatti», osserva. Ora è «piuttosto prevedibile» che «scapperanno con i soldi e che tenteranno di tornare il prima possibile ai loro vecchi affari, alle vecchie logiche». Ruffolo è convinto che «gli Stati sono attualmente chiamati a pagare il conto, ma questi ideologi del mercato non vedono l'ora di dimenticarsene, di tornare al lavoro per preparare la prossima catastrofe».
In Italia, l'ideologia neoliberista ha trovato nella sinistra una sponda un po' troppo ampia, osserva l'ex parlamentare. Anzi, è «davvero imbarazzante», secondo Ruffolo, che il primo a spendere una parola esplicita e netta di condanna contro il sistema imperante sia stato il Papa. «Diciamo che il pontefice non è esattamente un mio punto di riferimento, ma è evidente che così riempie un vuoto lasciato dalla sinistra». Ed è altrettanto imbarazzante che ancora nessuno, nel Pd, avanzi dubbi sulla validità "nel neoliberismo con l'ambulanza", che ha nutrito una violenta ideologia antistatale e ora ricorre ai soldi pubblici per risolvere catastrofi private.
All'ultima direzione nazionale del Pd, venti giorni fa, queste riflessioni erano state esplicitate da Ruffolo ancora più nettamente: «Non dovremmo abbandonare a Giulio Tremonti il compito di ragionare e arrischiare risposte alle paure e alle speranze di quel secolo». Sono problemi che riguardano le generazioni future, aveva aggiunto, chiosando che «non credo che dovremmo rispondere come Woody Allen: i posteri? Ma che hanno fatto per noi?»
Dunque, delle analisi del Papa e di Napolitano non va ascoltata solo la diagnosi su «una malattia organica e non un'influenza», ma va anche raccolta l'esortazione forte a cambiare. Per l'economista «è triste che serva un disastro di queste proporzioni per capire cose che erano sotto gli occhi di tutti. Ora bisogna riflettere su una prospettiva di sviluppo più equo ed equilibrato. Dobbiamo ascoltare Napolitano, che ci ha regalato un discorso asciutto e appassionato, dal tono grave ma senza drammatizzazioni inutili».
Ha ragione il presidente della Repubblica, sottolinea Ruffolo, soprattutto quando esorta il Paese a ritrovare un clima di unità e ad essere più solidale. «Il nodo del problema sta nell'attuale modello di sviluppo, basato sulla distruzione dell'ambiente e su enormi diseguaglianze sociali». Chiosa l'economista: «il modello di sviluppo attuale ha generato continue crisi e continuerà a farlo, se non interveniamo in profondità».

Corriere della Sera 3.1.08
L'attrice lanciata nel 2004 dal regista di «Gomorra»
«Da Garrone a Bellocchio E divento donna Rachele»
Michela Cescon: la moglie di Mussolini, figura da capire
di Valerio Cappelli


«Il più bel complimento? Quando qualcuno mi dice che nei film non sono riconoscibile»
ROMA — Da Garrone a Bellocchio, il destino di Michela Cescon sembra quello di prestare voce e corpo ai registi visionari. La prima cosa che le chiese il primo è: quanto pesi? L'altro si offre con la sua dolce ambiguità e sul set le parla di colori. «Hanno una profonda onestà che vuol dire il desiderio di capire, lo sguardo vergine di fronte a un progetto».
Michela è donna Rachele in Vincere, il film in cui Marco Bellocchio racconta la tragica storia della donna ritenuta da molti (mancano documenti ufficiali) la prima moglie di Benito Mussolini (Filippo Timi): si chiama Ida Dalser e la parte l'ha avuta Giovanna Mezzogiorno. Michela fu nel 2004 fu l'anoressica in Primo amore di Matteo Garrone, «ogni immagine un quadro» nel delirio di una ragazza che accetta un gioco perverso abitando un altro corpo per amore: il talento di Matteo c'era, la fama (agguantata con Gomorra) ancora no. «Voleva raccontare un rapporto in cui non si è contenti di ciò che si ha».
Michela, due figlie piccole, trevigiana di 37 anni, volto intenso fuori dei canoni. «E devo fare un percorso anomalo, è eccitante, non hai modelli. Alla mia età la bonona è lì che conta i giorni, io mi sento giovanissima, diventa un mestiere a lunga gittata anche se da me non so se si accetterebbe un errore. Non devo sbagliare». Si rimette in pista dopo lo stop delle due gravidanze. C'è anche «Il compleanno » di Marco Filiberti con Alessandro Gassman, due coppie di amici insieme dopo anni, il tappo salta quando arriva il figlio bellissimo di Michela (che nella realtà è un modello brasiliano di Armani). È arrivata al cinema dopo aver macinato teatro, Ronconi il suo primo maestro. E ora sta provando con Silvio Orlando, Alessio Boni e Anna Bonaiuto «Il dio della carneficina» di Yasmine Reza.
Bellocchio la scelse che aveva «un pancione gigantesco, incinta, la mia partecipazione era impensabile. Mi chiese: com'è cominciata la tua vita artistica? Oggi dire attrice è quasi riduttivo, basta una fiction per diventarlo.
Ha molto rispetto, mi disse speriamo di rivederci. Non chiede somiglianza fisica. Sul set le indicazioni erano su luci e suoni, c'è buio, ora arriva il giallo. Se un'attrice è abituata ad avere appigli pratici può essere faticoso. L'incontro con l'«altra», Ida Dalser? «Litigavano, non so chi era più tosta. Ilda fu mandata in manicomio, il figlio (Benito come lui) fatto sparire, una storia durissima. Alla fine Rachele se l'è tenuta. Ha vinto lei. Ero un po' prevenuta, non conoscendola l'abbinavo a quello che ha fatto il Duce nel bene e nel male, la vedevo corresponsabile. Quando ci sono entrata dentro l'ho amata, l'ho capita. Io mi immedesimo molto, il complimento più bello è quando mi dicono: non t'avevo riconosciuto. Intanto lei è una contadina di umili origini, andò a servizio a casa Mussolini, all'inizio ne aveva paura. A Villa Torlonia faceva quasi tutto lei, prendeva i mezzi, in treno andava in terza classe per capire gli umori della gente, poi riferiva al marito: guarda che la realtà non è quella che ti dicono i funzionari».
Matteo Garrone non era ancora il regista di Gomorra. Michela lo conosceva, aveva visto i suoi esordi teatrali. «Mi telefona: quanto pesi? 60. Mi spiace, cercavo una persona magra». Dopo dieci giorni la richiama: sto pensando a una donna normale che poi dimagrisce. Ci stai? Ci sto. Ora chiunque si getterebbe dal treno per lavorare con lui. Sono dimagrita 15 chili in sei settimane, da 60 a 45. Un dietologo di Milano ha fatto un lavoro più psicologico che fisico. Alle 6.30 mangiavo pane, carne, uova, yogurt, centrifuga. Durante il giorno mangiavo in continuazione». Alla faccia della dieta: miracolo fu? «L'idea era di masticare sempre, giocando coi colori, fragole, ciliege, carote, finocchi. Dopo ho fatto fatica, il metabolismo s'era bloccato, non mi riconoscevo più, non so se lo rifarei».
Per spiegare come cominciò, usa un termine religioso: «Fu una vocazione. Un brutto incidente stradale, a 20 anni, uscivo dal cinema, un pirata della strada, ubriaco, mi prese in pieno. Ero in motorino. Femore spappolato, il resto del corpo illeso. Ne uscii con una voglia di liberarmi recitando. Fu una chiamata. Bussai alle scuole di teatro. Mi rispose Ronconi». Lui, Garrone...«maestri che ho abbandonato. Mi piace scardinare. Con Matteo la conoscenza reciproca è talmente alta che non abbiamo nemmeno voglia di vederci tanto».

venerdì 2 gennaio 2009

Repubblica 2.1.09
Le libertà dell’uomo
Il caso Englaro e la necessità di una legge sul testamento biologico
Referendum sul diritto di morire
di Luca e Francesco Cavalli Sforza


Un bilancio sul caso Eluana che ha segnato il confronto del 2008
Quando si nega il diritto di morire
Nessuno chiede la nostra opinione prima di metterci al mondo: perché non dovremmo essere liberi di andarcene? È necessario un referendum sul testamento biologico
Anche se si tratta di un giovane sano con quale autorità si può impedirgli di togliersi la vita?
La Chiesa è anche contro l'aborto terapeutico di un ovocita appena fecondato

Se uno di noi volesse negare a un altro il diritto di vivere (a una donna di partorire, per esempio, o a chiunque di esistere), tutti insorgeremmo, si spera, e cercheremmo, potendo, di impedirglielo. Tant´è vero che in Italia e in Europa non ammettiamo la pena di morte. Ma se qualcuno rivendica il diritto di morire, glielo si nega, anzi si va a qualunque estremo per rifiutarglielo. Il caso di Eluana Englaro ci getta in faccia con evidenza macroscopica, anzi spaventosa, questo dato di fatto. Perché una persona non dovrebbe avere il diritto di morire?
Che la persona sia vecchia e malata, tormentata da sofferenze insopportabili, o che sia giovane e sana, nel pieno delle sue forze: anche se avesse ogni ragione di vivere la vita, ma decidesse invece di togliersela, e qualunque fosse il motivo del suo gesto, che diritto avremmo di negarglielo? Privare se stessi della vita è una follia, d´accordissimo. Ci ripugnerà, non c´è dubbio. Sarà come minimo doveroso fare tutto il possibile per evitare che una persona commetta questa pazzia, darle un supporto che la possa aiutare a scoprire un senso nella vita. Ma se ha deciso di farla finita, con quale autorità glielo si può impedire?
In Italia, ci informa l´ISTAT, 2867 persone si sono uccise nel 2007: quasi 5 persone per ogni centomila abitanti. La vita è l´unico bene che abbiamo, la fonte di ogni altro bene: chi se la toglie lo fa di solito per disperazione o dolore o infelicità intollerabili, perché non sopporta più di vivere. Che sia la rovina economica a portare al suicidio, o il peso delle proprie azioni sbagliate, o un ricatto esterno, o la vergogna, o la semplice alienazione, perché con nulla e nessuno nella vita riusciamo a interagire, o qualunque altro sia il motivo, chi si suicida ha le sue ragioni per farlo, e ciascuna di queste è una sconfitta. In passato però, e per secoli, ci si è suicidati anche solo per onore (una tradizione che in Giappone è ancora viva). I suicidi imposti da tiranni, come quello di Seneca, non sono stati visti come sconfitte, ma come affermazioni di libertà interiore anche davanti alla morte. Libertà va cercando, ch´è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta, dice Virgilio presentando Dante.
Che il suicidio sia una cosa terribile è un´affermazione che ci trova tutti d´accordo: siano più o meno felici o infelici, circa 99.995 italiani su 100.000 non si privano del proprio bene fondamentale. Ma cosa ci dà il diritto di vietare ad un altro di togliersi la vita, al punto di considerare il suicidio un reato?
Se la persona in piena lucidità è determinata a porre termine ai suoi giorni, chi siamo noi per negarle la possibilità di farlo?
Cosa sappiamo della vita e della morte? Cosa ci autorizza a rifiutare il diritto di disporre della propria morte, mentre riconosciamo il diritto di indirizzare la propria vita? Chi è religioso invocherà la volontà di Dio, che avrebbe creato l´individuo, ma perché mai questa convinzione dovrebbe valere per chi non vede da nessuna parte la presenza di un Dio?
Che ogni individuo sia libero e responsabile delle proprie azioni: così vogliamo le nostre società. Se lo Stato o la Chiesa o la famiglia o chicchessia pensa di avere qualcosa da dare o da rivendicare, che lo faccia: parli con la persona, dia una mano se può. Ma se non può, o non ne è capace, o quanto fa non serve, che rispetti la scelta dell´aspirante suicida. Negare la libertà di morire è ridicolo per due ragioni: intanto perché chi vuole suicidarsi prima o poi ci riuscirà, se non è stretto in una camicia di forza o reso incosciente dai farmaci (e, beninteso, ci sono situazioni che lo esigono). Ma nessuno in definitiva può impedirgli di uccidersi, una volta tornato a casa. Seconda ragione: la nostra morte è certa, già che siamo vivi, anzi è forse l´unica certezza universalmente riconosciuta. Perché mai una persona nel pieno delle proprie facoltà mentali non dovrebbe essere libera di decidere il tempo e il modo della propria morte, anziché affidarli alla natura e al caso? Chi nasce è comunque destinato a morire.
Una società che voglia dirsi civile non può negare ai suoi membri il diritto di decidere della propria morte. Il testamento biologico, norma di elementare rispetto della libera volontà dell´individuo, è tabù da noi in sede legislativa. I tentativi di portarlo all´attenzione sono ricacciati come polvere sotto il tappeto. L´idea che una persona possa disporre le condizioni della propria morte, in determinate circostanze - per esempio, se si ritroverà in coma vegetativo permanente - è così controversa da terrorizzare i politici. Eppure, né i politici, né gli ecclesiastici, né i medici, né nessuno probabilmente, sa che cosa accade o non accade in quello spazio intermedio fra la vita e la morte che è il coma. Nessuno sa se rimanga qualcosa di ciò che consideriamo il nostro io o che chiamiamo "coscienza". Già che nessuno lo sa, perché la scelta non dovrebbe spettare al diretto interessato?
Nella vicenda di Eluana Englaro, in coma da quasi diciassette anni dopo averne vissuti ventidue, si è giunti allo scontro istituzionale, un po´ come se la magistratura ordinasse la scarcerazione di un detenuto ma il potere esecutivo lo ricacciasse in cella. Eppure la ragazza, sconvolta dall´analoga sorte di un amico, aveva espresso con forza e con chiarezza ai genitori la sua volontà di non essere intubata, se qualcosa del genere fosse accaduto a lei. In un Paese dove ogni giorno muoiono in media quattro lavoratori per incidenti sul lavoro, per lo più dovuti al mancato rispetto di norme di sicurezza che i governi non si preoccupano di fare osservare, quale sadismo senza nome può spingere il ministro a tenere in vita chi è prigioniero del proprio corpo e ha espresso, quando poteva, il desiderio di liberarsene? in nome di quale vita? certo non di quelle che si perdono ogni giorno nelle fabbriche e nei cantieri. Perché il ministro del Lavoro e della Salute non esercita là la sua solerzia?
Bisognerebbe chiedere ai cittadini se il testamento biologico è ammissibile. Può l´individuo decidere, in piena consapevolezza, quale deve essere la sua sorte se dovesse perdere coscienza per un tempo illimitato, o se non fosse più in grado di esprimere la propria volontà? Può lasciare scritto: «Staccate i tubi»; oppure: «Tenetemi in vita comunque, finché possibile»; o ancora, poniamo: «Tenetemi in vita per sei mesi, poi lasciatemi morire»? Non si può pretendere che i cittadini si esprimano per referendum su temi che richiedono competenze speciali, come l´ingegneria genetica o le strategie energetiche, ma a chi spetta, se non a loro, decidere se chi è nato è libero di scegliere la propria morte? E sperabile credere che vincerebbe il parere: «Io sono padrone della mia vita». Se la Chiesa davvero crede nella libertà dell´uomo, perché non lascia le persone libere di morire? Nessuno ha chiesto la nostra opinione, prima di metterci al mondo: perché non dovremmo essere liberi di andarcene? Cercare la morte non è nella natura dell´uomo, né di alcun essere vivente: ma quanti hanno cercato la morte nelle guerre, e peggio ancora l´hanno data, magari con la benedizione della stessa Chiesa? Se lo Stato invece ritiene che chi si uccide leda un diritto fondamentale e danneggi la comunità, privandola di se stesso, che si adoperi per creare le condizioni perché le persone non si gettino nella morte. Nessuno può credere che chi si suicida lo faccia volentieri.
Il discorso è lo stesso per un altro punto fermo della Chiesa Cattolica, il divieto di aborto profilattico. E questa una situazione molto più frequente dei coma e assai dolorosa per il malato che è costretto a nascere e per la sua famiglia. Qui non sappiamo certo che cosa pensi il soggetto in gestazione, al terzo mese di gravidanza. La Chiesa, comunque, estende il diritto alla vita alla cellula-ovo appena fecondata dallo spermatozoo, in cui subito verrebbe ad abitare un´anima. Il grande teologo San Tommaso d´Aquino non avrebbe avuto problemi con l´aborto profilattico, perché diceva che l´anima entra nel corpo solo quando il feto ha assunto forma pienamente umana. Nel caso di Eluana, come in quello di tutti i futuri malati di gravi malattie genetiche la cui nascita può venire oggi evitata, la sofferenza dei parenti e i costi alla società sono molto gravi, ma vengono ignorati. I genitori che fanno nascere coscientemente un bimbo gravemente e irrimediabilmente danneggiato si assumono doveri e pene tremende, e lo stesso ci sembra valere per i parenti di una persona in coma profondo, se, avendo tentato con ogni mezzo di riportarla in vita ed essendovi in qualche modo riusciti, se la ritrovassero con danni gravi e permanenti.
In un certo senso sorprende, questo attaccamento della Chiesa alla vita, anche quando non sia che un barlume cui solo le macchine impediscono di spegnersi, perché in fondo la Chiesa promette al fedele un futuro ben più luminoso di questa vita. Ma Chiesa o Stato che sia, chi può pronunciarsi o legiferare su ciò che non conosce? E chi fra i vivi può sindacare sulla morte?

Repubblica 2.1.09
Morucci in cattedra, tensione alla Sapienza
L’ex Br invitato a Scienze umanistiche, critiche di docenti e studenti
L’ideatore dell'iniziativa: "Un poliziotto mi ha detto che può servire ai giovani"
di Carlo Picozza


ROMA - È polemica alla Sapienza sulla "lezione" dell´ex brigatista rosso Valerio Morucci. Tra dieci giorni nell´università storica di Roma l´ex terrorista, che fu nel gruppo di fuoco del sequestro di Aldo Moro, dovrebbe tenere una conferenza.
Via email, l´invito è arrivato a «docenti e studenti»: «Lunedì 12 gennaio dalle 18.30 alle 20.30, si terrà un incontro con Valerio Morucci su "Cultura, violenza, memoria"». In allegato, 13 pagine dell´ex brigatista con il racconto delle sue esperienze, dagli scontri di Valle Giulia all´incontro con Giangiacomo Feltrinelli (titolo: "Schegge di memoria"). A firmare la convocazione è la segretaria del dottorato di ricerca in Letterature di lingua inglese. È il 16 dicembre e subito si levano le critiche di docenti e studenti. Innescando divisioni tra i promotori che ritengono utile la testimonianza di Morucci per «scongiurare altri tragici errori» e quanti additano come «cattivo esempio la legittimazione accademica verso chi si è macchiato di sangue».
Ecco allora, sempre online, una «lettera di chiarimento sul caso Morucci». È il 28 dicembre e a scriverla è l´ideatore dell´iniziativa, Giorgio Mariani, ordinario di Letteratura angloamericana nella facoltà di Scienze umanistiche: «Mi scuso della leggerezza di aver chiesto alla nostra collaboratrice di spedire l´invito, senza spiegare la natura e il contesto dell´incontro con Morucci». Quindi, le precisazioni: «Si tratta di una iniziativa all´interno di una delle mie lezioni di Letteratura americana. L´ho promossa perché sollecitato da un ufficiale della polizia di Stato che segue il percorso post-carcerario di alcuni ex terroristi». Mariani argomenta: «Le autorità di polizia e di giustizia vedono con favore questi incontri che possono avere un contenuto educativo perché aiutano le nuove generazioni a scansare la tentazione di ripetere scelte sbagliate, in particolare in un momento in cui la protesta legittima di studenti e giovani si fa sentire nuovamente». «Ma così», ribatte Rosy Colombo, ordinario di Letteratura inglese, «si dà per scontato un rapporto diretto tra protesta studentesca e pratica terroristica». Ancora Mariani: «Vorremmo solo far spiegare a uno che ha commesso tragici errori, che la scorciatoia della violenza è sempre e comunque sbagliata». Mariani si dice convinto che «tra i compiti di noi educatori c´è quello di riflettere su aspetti della nostra storia che sarebbe sbagliato rimuovere come se mai fossero accaduti». E «il dialogo con i funzionari di polizia e con Morucci (che ha già partecipato a numerosi incontri del genere, compreso quello al liceo Giulio Cesare) mi ha convinto della bontà dell´iniziativa». «Come cittadino prima che come docente», replica Piero Marietti, ordinario di Ingegneria elettronica, «ritengo inopportuno far tenere lezione all´università a una persona con quel passato». E Mariani: «Rispetto l´opinione di chi mi dice che mai aderirebbe a tale iniziativa, neanche se la proponesse il ministro di Grazia e Giustizia. Io l´accetterei anche se al posto di un ex brigatista dissociato e che ha scontato la sua pena, ci fosse un ex terrorista nero in condizioni analoghe».
«L´università», sostiene invece Marietti, «darebbe un cattivo esempio legittimando chi, anche se dissociato, si è macchiato di sangue». «Quando ho letto la lettera», aggiunge Rosy Colombo, «sono trasecolata e con me, altri colleghi e molti studenti. Mi sarei aspettata però una reazione pubblica e più corale. Invece, le critiche sono rimaste tra le mura dell´ateneo, limitate al botta e risposta tra i singoli».

Repubblica 2.1.09
Quei "padri" che giurano sulla bibbia dei Massoni
Reagan giurò a meno 10 gradi, il diluvio accolse George W. Bush nel 2001
Washington la chiese al Gran Maestro della loggia numero 1 di New York
di Vittorio Zucconi


È un giorno di festa, è un giorno di presentimenti. Più che un´incoronazione, un battesimo, con la famiglia americana raccolta attorno al fonte civile, il Campidoglio, che osserva la nuova creatura chiedendosi che cosa diventerà da grande, nel tempo che la Costituzione, o il destino, gli concederà. Gli aruspici guardano il cielo e il termometro: se fa molto freddo in quel giorno di gennaio, saranno anni fausti. Se la temperatura sarà mite, il primo bambino d´America crescerà male. Superstizione, ma funziona. Presidente raffreddato, presidente fortunato.
Faceva ancora molto freddo, nel mese di aprile 1789 quando il primo figlio e insieme il padre della democrazia americana, George Washington intraprese il viaggio di 500 chilometri in carrozza dalla sua piantagione di Mount Vernon, in Virginia, verso New York, dove avrebbe prestato giuramento, non avendo ancora l´America una capitale.Ci arrivò esausto, costretto a fermarsi dozzine di volte nei paesi della costa, dove cittadinanze festose erigevano archi di rami e ghirlande e implacabili sindaci volevano pronunciare il proprio pistolotto retorico. Ma ci arrivò, portando in tasca una lettera del padre del federalismo, James Madison, che chiedeva scusa al governatore di New York per il ritardo del ragazzo, come la giustificazione di un genitore al preside. La formula che finalmente pronunciò: «Solennemente giuro di eseguire fedelmente l´incarico di Presidente degli Stati Uniti e di preservare, proteggere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti» sarebbe rimasta invariata per 219 anni e 43 presidenti, fino al 44esimo, Obama.
Ma non proprio. Da quella prima assunzione al tempio di George Washington, il filo di qualche mistero e di qualche controversia percorre la storia di questi battesimi o unzioni laici. George Washington volle una Bibbia, ma la sua Bibbia non fu fornita da un devoto pastore luterano, ma dalla loggia massonica numero 1 di New York, ennesima prova delle radici profondamente massoniche dei cosiddetti «padri fondatori» della democrazia americana. E se la storia edificante poi scritta per i fanciulli vuole che alla fine Washington abbia esclamato un´altra frase divenuta da allora quasi inevitabile, «and so help me God», e che Dio mi assista, nella puntigliosa cronaca della cerimonia inviata a Parigi dall´ambasciatore francese Monsieur de Moustier, quell´invocazione a Dio, curiosamente, manca.
Forse a questa assenza, o distrazione del diplomatico, si aggrappò Teddy Roosevelt, assumendo la presidenza sul cadavere ancora caldo dell´assassinato McKinley nel 1901, a Buffalo, respingendo - unico nella storia - la Bibbia ed evitando l´invocazione all´aiuto di Dio, dimostrandosi quel «maledetto, fottuto cowboy» che i repubblicani conservatori aborrivano. Ma la Bibbia dei Massoni utilizzata da Washington ebbe comunque notevole fortuna e sulle sue pagine aperte posarono la mano Harding, Eisenhower, Carter il pio e George il Vecchio. E dopo lo scatto laico del "colonnello" Roosevelt all´alba del XX secolo, nessuno dei suoi successori avrebbe più osato saltare la preghierina al Signore, sotto pena di apparire empio e negatore. Meno di tutti Barack Obama, che la destra più catarrosa accusò, in campagna elettorale, di essere un infedele islamico deciso a giurare sul Corano.
L´avrebbe voluta utilizzare anche Giorgino Bush, «W», nel 2001, ma l´acqua che scendeva a secchiate su Washington quel mattino sconsigliò l´uso di un tomo così antico e fragile. Ma almeno - brutto auspicio - non faceva molto freddo quando «W» giurò, certamente non come i meno dieci gradi centigradi che accolsero Ronald Reagan sul palco di legno eretto davanti al palazzo del Congresso, al Campidoglio, e che dissuasero il settuagenario presidente dalla passeggiata a piedi lungo la "via triumphalis", la Pennsylvania Avenue che unisce, per un chilometro e mezzo, il Parlamento, cioè il legislativo, dalla Casa Bianca, il potere esecutivo. Reagan saggiamente in soprabito e la sua Nancy si tennero i piedi al caldo con la stufetta elettrica nascosta dietro la balaustra del giuramento e restarono dentro la "Lincoln Continental" blindata del presidente. Quello che quattro anni prima Jimmy Carter, mano nella mano della sua amata parrucchiera per signora, Rosalynn Carter, non volle fare, percorrendo a piedi tutto il chilometro, approfittando di una inusuale mitezza del clima per gennaio. E infatti quattro anni dopo venne sonoramente trombato.
È soltanto dal 1937 con Roosevelt, Franklyn Delano, lontano cugino del «fottuto cowboy» Theodore, che un emendamento costituzionale fissa al 20 gennaio il giorno della "inauguration", lasciando invece alla scelta e alla semplice tradizione il luogo dove svolgere la cerimonia. Di fatto, tutti si sono dovuto rassegnare alla gradinata del Parlamento, in omaggio simbolico alla Costituzione che indica nelle Camere, e non nel governo, il fonte battesimale, non sempre limpidissimo, della legittimità democratica. La sola eccezione volontaria fu dello stesso FDR che alla sua quarta e ultima incoronazione nel 1945 dovette arrendersi alle gambe ormai incapaci di sorreggerlo e giurò dal proprio studio alla Casa Bianca. Almeno non fu costretto dalla crudeltà dell´ora, come Lyndon Johnson, nella sera del 22 novembre 1963, quando mormorò la sacra formula liturgica, con il braccio destro alzato ma un po´ rattrappito dallo shock, davanti alla bara di John F. Kennedy, accanto a una vedova con l´abito ancora intriso di sangue e di materia cerebrale, nella carlinga del Boeing 707 Air Force.
Eppure aveva fatto molto freddo anche la mattina del 20 gennaio 1961, quando l´uomo che sarebbe tornato a casa dentro una bara bianca aveva lanciato quelle parole ancora oggi magiche, «la torcia passa a una nuova generazione....» che sicuramente Barack Obama evocherà fra 18 giorni. Il vento, che su Washington soffia sempre da nord ovest, quindi gelido dal Canada e dai Grandi Laghi, gli muoveva il ciuffo, ma non indossava cappotto, perché la liturgia vagamente medievalista vuole che il «re santo» sfidi natura e intemperie e si presenti in giacchetta. Sicuramente, anche il giovane, robusto, muscoloso Obama cercherà di evitare cappottini e sciarpette, giurando sulla Bibbia di Lincon, non su quella della Grande Loggia di New York, confidando nella cabala del freddo che fece di Kennedy un grande rimpianto, in un storia umana troppo breve. «Sì, ma fra quattro anni, se fa ancora così freddo, il cappotto io me lo metto» batté i denti JFK con il fratello poche ore dopo alla Casa Bianca. Non sapremo mai se l´avrebbe fatto davvero.

Repubblica 2.1.09
Franz Kafka. Impiegato fannullone? No, modello
Genio e regolatezza. Una biografia ne documenta lo zelo in ufficio
di Siegmund Ginzberg


Kundera lo definì "il segretario dell´invisibile" per la sua capacità di andare in profondità
"Di tutti gli scrittori", notò Elias Canetti, "è il massimo esperto sul potere"
Gregor Samsa ha paura che i suoi superiori lo giudichino un assenteista
"Il Castello" è una grande allegoria della burocrazia che lo scrittore ben conosceva
Era lecito sospettare che il romanziere trascurasse il suo lavoro in un Istituto per le assicurazioni Invece un nuovo libro mostra la stretta relazione tra gli scritti impiegatizi e lo straordinario mondo kafkiano

Era lecito sospettare che l´impiegato Franz Kafka fosse un burocrate fannullone. Dove mai poteva trovare il tempo di immaginare tutto quello che ha immaginato, scrivere tutti quei racconti, tutti quei romanzi, tutti gli abbozzi e i rifacimenti, le cose che pubblicò, i manoscritti che affidò all´amico Max Brod chiedendogli di bruciarli, e le carte che stracciò lui stesso, e i diari, e le lettere alle fidanzate, se non nell´orario di ufficio? Se non imboscandosi dietro la scrivania, facendo finta di lavorare mentre pensava ad altro, la testa tra le nuvole? E invece no. Viene fuori che al contrario si portava l´ufficio in casa, travasava nei romanzi e nel resto il suo lavoro da impiegato, che faceva praticamente gli straordinari anche nel tempo libero. È la sorprendente scoperta di un libro fresco di stampa, Kafka: The office Writings (Princeton University Press, copyright 2009). I cui curatori, Stanley Corngold, Jack Greenberg e Benno Wagner, non si limitano a tradurre per la prima volta in inglese quello che Kafka scriveva in ufficio (le relazioni e la corrispondenza da impiegato dell´Istituto per le assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro di Praga, i pareri legali, l´attività da speech writer per il suo capufficio), ma lo collegano direttamente, in modo meticoloso, perfino un po´ pedante, ai suoi scritti letterari.
Nato nel 1883, laureatosi in legge all´Università tedesca di Praga, Kafka aveva brevemente lavorato per la triestina Assicurazioni Generali, prima di essere assunto dall´Istituto alle cui dipendenze rimase ininterrottamente dal 1908 al 1922 (non fece la Grande Guerra perché nel 1915 era stato esonerato dal servizio militare in quanto impegnato in attività di "interesse pubblico"), finché non lasciò l´incarico "per motivi di salute" (la tubercolosi che l´avrebbe ucciso un paio di anni dopo, nel 1924). L´Istituto, che aveva in organico circa duecento tra avvocati, matematici, ingegneri, medici, impiegati, dattilografi e personale di supporto si occupava di tutti gli aspetti dell´anti-infortunistica. Aveva iniziato come esperto nella minuziosa classificazione delle industrie e dei rischi connessi, e dei contributi dovuti dai datori di lavoro, era passato a dirigere la commissione di revisione dei ricorsi e si era affermato come alter ego dei massimi dirigenti, scrivendone le relazioni. Gran parte di questi "scritti d´ufficio" sono dedicati a respingere le istanze di datori di lavoro che chiedono di essere esentati dalle loro responsabilità o riduzioni dei contributi a loro carico. Ad esempio ha a che fare col ricorso di un proprietario di alberghi che rifiuta di pagare le quota di assicurazione per l´ascensore con l´argomento che il motore è all´esterno, quello di un proprietario di cave che vorrebbe assicurare i suoi operai come braccianti agricoli e quello dei fabbricanti di giocattoli che si lamentano degli oneri che rischiano di mettere la loro produzione "fuori mercato" rispetto alla concorrenza internazionale.
Negli articoli destinati alla stampa, scritti su ordine e con la forma dei superiori che gli avevano commissionato una difesa delle assicurazioni in crisi, Kafka riesce a destreggiarsi tra le critiche provenienti da tutte le parti, tra le pressioni dei datori di lavoro che tirano solo a risparmiare e quelle dei sindacati ai quali ricorda che distribuire piccoli risarcimenti e pensioni di invalidità a pioggia finisce per sottrarre risorse al risarcimento degli incidenti più gravi. È in questo campo che si forma come maestro dell´ambiguità, del dire e non dire. «Scritto un articolo sofistico? a favore e contro l´Istituto», la confessione di suo pugno in una delle lettere a Felice. A un certo punto si trova ad affrontare, in una nota al Ministero dell´Interno, il problema degli ispettori che danno quasi sempre ragione ai datori di lavoro, mentre il loro compito dovrebbe limitarsi all´analisi dei fatti. Lamenta che «dopo 25 anni di esistenza delle assicurazioni contro gli infortuni le agenzie non hanno il diritto di ispezionare i luoghi di lavoro che assicurano», e che le informazioni fornite dalle imprese «sono così difettose e inadeguate che non rappresentano affatto la realtà attuale e finiscono col determinare una distribuzione totalmente ingiustificata degli oneri». La conclusione, molto "kafkiana", è che non c´è rimedio, perché ogni volta che l´Istituto fa obiezioni, gli viene risposto che si tratta di "un caso eccezionale", quindi si ottiene "piena soluzione in principio", ma completamente "futile" in pratica, perché "tutti si dimenticano della normativa nel momento stesso in cui viene emanata". Si occupa anche di psichiatria quando gli viene dato l´incarico di istituire un ospedale per la riabilitazione dei soldati affetti da "shock da esplosioni". "Patriottismo" non è sacrificarsi per lo Stato, è occuparsi degli individui, la sua argomentazione. C´è anche un documento del 1909 in cui propone di estendere l´assicurazione obbligatoria alle automobili, definendo l´automobile privata come "impresa" e il guidatore come "proprietario". L´argomento, osservano i curatori nel commento, sarebbe sfociato nella pagina del romanzo Amerika dove le automobili diventano quasi persone ansiose di "raggiungere il più velocemente possibile i loro proprietari".
Una corposa sezione contiene le lettere che Kafka indirizzava ai suoi datori di lavoro. Tutte quelle dal 1910 al 1917 sono richieste di aumento dello stipendio: non generiche ma veri e propri saggi, dense fitte di statistiche sul diminuito potere d´acquisto e quelle che riteneva sperequazioni rispetto agli stipendi in altre branche della pubblica amministrazione. In particolare, nota la "palese disparità di trattamento" tra le sue competenze e quella di altri impiegati con meno esperienza, non giustificata "né dall´anzianità né dalle mansioni svolte". Anche in questo siamo tutti un po´ Kafka. Ma lui era anche ebreo, e già il fatto di essere stato assunto in un ruolo di dirigente nel pubblico impiego era all´epoca un´eccezione, se non un privilegio. Anche mio nonno Siegmund era avvocato, ma per esercitare aveva dovuto emigrare dalla Romania a Costantinopoli.
Il lavoro d´ufficio al Kafka scrittore andava evidentemente stretto. Ma al tempo stesso non ne avrebbe potuto fare a meno. Non passava giorno senza che avesse da scrivere qualcosa per l´ufficio. Ma al tempo stesso non c´è suo scritto in cui non ricompaiano, trasformati, gli stessi temi. Una simbiosi, si potrebbe dire. Nel 1913 scrive alla fidanzata Felice Bauer lamentandosi che «la scrittura e l´ufficio non si possono conciliare, dal momento che la scrittura ha il suo centro di gravità nella profondità, mentre l´ufficio si colloca nella superficie della vita. Così va su e giù e uno finisce con l´essere dilaniato nel processo». «L´inferno vero è qui in ufficio, nient´altro può crearmi terrore», aveva calcato. All´altra fidanzata, Milena, aveva descritto il suo ufficio come «non stupido, ma fantastico (phantastisch, che evoca insieme spettrale e fantastico)».
Il Castello, il suo romanzo incompiuto, è stato da alcuni interpretato come allegoria religiosa. Ma altri vi hanno visto un´allegoria della burocrazia. Parla di un aspirante impiegato, l´agrimensore K. che non sa bene se è stato davvero assunto, ed è incerto su quali mansioni debba effettivamente svolgere. Gli vengono affiancati due "assistenti" di cui non vengono mai spiegate le funzioni. Mentre cerca continuamente chiarimenti da un management completamente al di fuori della sua portata, gli viene assegnato un supervisore inaccessibile quanto il castello in cui è asserragliato. Nella Colonia penale è il burocrate capo a finire spellato vivo, nella soddisfazione generale, dalla sua macchina.
L´ufficio è ben presente anche nel più noto dei racconti di Kafka, uno dei pochi da lui pubblicato, la Metamorfosi. Gregor Samsa è un impiegato, ossessionato dal non essere giudicato dai suoi superiori alla stregua di fannullone, assenteista, quanto dalla sua improvvisa trasformazione in insetto. «Suonarono alla porta di casa. "È qualcuno dell´ufficio" si disse Gregor, e si sentì quasi agghiacciare mentre le sue zampine ballavano ancora più velocemente. A Gregor bastò intendere la prima parola di saluto del visitatore per capire subito chi fosse? Perché mai Gregor era condannato a lavorare in una ditta presso la quale la più piccola trascuratezza provocava il maggiore sospetto? Gli impiegati erano dunque tutti quanti dei mascalzoni? Non esisteva dunque tra di loro un uomo affezionato e fidato che, quando non aveva utilizzato un paio d´ore del mattino per il lavoro, diventava come pazzo dal rimorso e non era quindi in condizione di lasciare il letto?... "Non si sente bene", diceva la mamma, "non si sente bene, mi creda"? "Signor Samsa, che succede dunque? Lei si barrica nella sua stanza, risponde soltanto con sì e no, procura ai suoi genitori dei gravi e inutili pensieri e trascura - questo sia accennato soltanto di passaggio - i suoi doveri d´impiegato in maniera veramente inaudita?"».
«Ora - disse Gregor, ed era sicuro di essere l´unico che avesse mantenuto la calma - mi vestirò subito? lei vede bene che non sono testardo e fannullone? può capitare di essere temporaneamente incapaci di lavorare, ma proprio allora è il momento di ricordarsi del lavoro compiuto prima e di pensare che più tardi, superato l´ostacolo, certamente si lavorerà con maggiore entusiasmo e raccoglimento. Io sono già molto obbligato al principale, questo lei lo vede benissimo. D´altra parte ho da pensare ai miei genitori e a mia sorella?». La visita fiscale si è già conclusa, quello ha preso la fuga. Ma c´è tra i commentatori anche chi si è esercitato a scrivere la domanda con cui Gregor Samsa avrebbe anche potuto chiedere l´invalidità per infortunio professionale, anche se non sul lavoro.
Avrebbero magari avuto argomenti per negare la richiesta, come avviene in uno dei frammenti del racconto incompiuto raccolti da Max Brod sotto il titolo Durante la costruzione della muraglia cinese, quello intitolato La supplica respinta: tutti sanno che verrà respinta, perché questo è il compito istituzionale del funzionario che «quando gli arriva dinanzi una delegazione con qualche richiesta, egli si presenta come il muro del mondo». Ma per nulla al mondo rinuncerebbero al rito. C´è chi ha osservato che in quei tempi parlare della Grande muraglia era un modo diffuso per parlare della burocrazia asburgica. Io mi sono fatto l´idea che era un modo per parlare del mondo. Anche se fatto di frammenti scomposti è una miniera inesauribile. C´è persino la leggenda dell´imperatore che, in punto di morte, decide di rivolgersi al cittadino comune, «proprio a te, individuo, a te, misero suddito, ombra minuscola, rifugiatasi dal sole imperiale nella più remota lontananza», e manda un messaggero, "uomo robusto e instancabile", che ce la mette tutta ma "si affanna per nulla": «ancora si sforza di attraversare le stanze più interne del palazzo; non le potrà superare mai; e se vi riuscisse non sarebbe niente di guadagnato; dovrebbe lavorare di gomiti per scendere le scale; e se anche potesse farlo non ne avrebbe vantaggio; dovrebbe attraversare i cortili; e dopo i cortili il secondo palazzo che li contiene; e ancora scale e ancora cortili; e un altro palazzo; e così via nei millenni; e se infine uscisse di corsa dal portone estremo - ma non potrà avvenire mai, mai - si troverebbe dinanzi la città imperiale, l´ombelico del mondo, piena colma della sua feccia. Qui nessuno può passare? Tu invece, seduto davanti alla finestra, te lo sogni quando scende la sera». Ma come aveva fatto, Kafka, ad anticipare persino la televisione? O la concorrenza sleale, l´aleatorietà delle "decisioni d´affari" e le intercettazioni telefoniche (frammento intitolato Il vicino)?
«Di tutti gli scrittori, Kafka è il massimo esperto sul potere», notò Elias Canetti. "Segretario dell´invisibile", lo definì Milan Kundera. Dalla scrivania del suo ufficio riusciva a tirare fuori materiale sufficiente per parlare di tutto il mondo, di quello che è fuori e anche di quello, ancora più vasto e minaccioso che è nascosto in profondità dentro ognuno di noi. Rileggendolo con un occhio rivolto ai suoi scritti d´ufficio questi mondi si moltiplicano ulteriormente, si scoprono ancora altre galassie. Provare per crederci.

Repubblica 2.1.09
Il nuovo saggio di Enrico Bellone: da Aristotele ai quanti
Il mondo esterno che la scienza ama
di Franco Prattico


Perché differentemente dal pensiero religioso, il pensiero scientifico continua a subire evoluzioni, considerando illusoria ogni verità definitiva

Un cittadino ateniese del quarto secolo A. C. in una limpida sera d´estate siede fuori dalla sua casa per prendere il fresco e contemplare il cielo stellato e il lento movimento degli astri, e cerca di applicare a ciò che vede le nozioni testè apprese al Liceo, alla scuola di Aristotele, e che sono il prodotto di millenni di osservazioni (principalmente per ciò che concerne il cielo) e approssimative misure compiute dalla nostra specie. Parte da questa scenetta il nuovo lavoro dello storico della scienza Enrico Bellone (Molte nature - Saggio sull´evoluzione culturale - Cortina editore, pagg.172, euro18) per proporre una serie di acute riflessioni (non prive di risvolti poetici) sui saperi consolidati e sul metodo scientifico su cui si fondano.
Ma qual è il punto di vista "aristotelico" di quel remoto nostro antenato ateniese e in qual misura si differenzia dal nostro modo "ingenuo" di guardare il mondo attorno a noi? Il criterio più elementare, che è poi lo stesso ancora adesso per ognuno di noi, è che "c´è qualcosa lì fuori", ossia che esiste un mondo esterno i cui segnali, captati dai sensi e registrati dai nostri neuroni e dall´intricata rete delle connessioni sinaptiche, si traducono nelle sensazioni che percepiamo e ci consentono di interpretare ciò che ci circonda: suoni, oggetti visibili, odori, etc. In altre parole, il nostro modo di percepire ciò che è lì fuori (oggi enormemente esteso e raffinato da strumenti d´indagine impensabili ai tempi di Aristotele), ossia natura, ciò che giace e opera lì fuori e agisce su di noi. Ma non "la" Natura, un "reale" valido erga omnes, un sigillo di verità definitiva sulle nostre ricostruzioni. L´interpretazione delle informazioni che ci giungono dal mondo esterno è il prodotto delle operazioni che i sistemi sensoriali di ogni specie vivente compiono in risposta agli stimoli esterni, e per le regole che ogni organismo applica in risposta a quegli stimoli. E perciò ognuno "ricostruisce" la Natura lì fuori (e se stesso) sulla base dei codici incorporati: quindi esiste una molteplicità di Nature, quante sono le specie viventi e i relativi ambienti, e quindi di ricostruzioni del mondo ovviamente funzionali alla sopravvivenza e alla riproduzione di ogni singola specie. Ma ciò, ammonisce Bellone, significa che è illusoria ogni pretesa di verità definitiva, valida per tutto il mondo vivente, di obiettività assoluta, anche se senza dubbio la nostra specie, è favorita dal possesso del linguaggio, che consente una trasmissione dei dati della natura non solo orizzontalmente, ma anche verticalmente tra le generazioni. E ciò ha consentito la nascita e il poderoso sviluppo di saperi sul mondo esterno (corroborati dalle esperienze e verifiche), in altre parole ciò che chiamiamo scienza, e all´interno di questo corpo di saperi lo sviluppo di teorie e modelli che tendono a consentire la nascita di previsioni su terreni non ancora esplorati fisicamente. Ma ogni teoria, finchè non è corroborata da massicci dati sperimentali, è un percorso creativo nel corso del quale il ricercatore può imbattersi in incontri inaspettati, in qualcosa di nuovo che ribalta le assunzioni di partenza (e qui Bellone cita significativamente Galilei, al quale ha dedicato altre sue opere) e quindi può dar luogo a una nuova visione del mondo "lì fuori". Tutti i viventi, quindi, dispongono di un corredo di regole innate e di organizzazione di sensori, grazie ai quali leggono, interpretano e usano il mondo esterno: quindi tante nature quanti sistemi sensoriali, con la differenza che la plasticità del corredo cerebrale della nostra specie ci consente - almeno a livello scientifico - una rapida modifica delle risposte agli input sensoriali. Il che (ammonisce Bellone e anche Giorello nella introduzione a quest´opera) non significa certo che costruiamo nella nostra mente il mondo esterno, una Natura, ma solo che ciò consente una maggiore efficacia nel nostro rapporto con il reale.
Non quindi verità ultime e definitive, ma una incessante opera di decifrazione che - da Aristotele alla meccanica quantistica - ci aiuta ad operare con sempre maggiore efficacia. Nulla insomma di definitivo o magico, che ci apra una volta per tutte le porte del reale, liberandoci dalla prigionia di sistemi di credenze ereditate che ottundono la capacità di decifrare i segnali che il mondo ("la Natura") ci trasmette.

Corriere della Sera 2.1.09
Nel bicentenario della nascita del grande naturalista tre studiosi individuano le ragioni per cui le sue teorie sono tanto contestate
Così Darwin spiega Dio
di Edoardo Boncinelli


Una spinta evolutiva ci fa ritenere che tutto abbia uno scopo: perciò tendiamo a credere nell'esistenza di un essere superiore

Tutto deve avere per noi una spiegazione. Ogni spiegazione che ci danno o che ci diamo, la accogliamo con una grande soddisfazione e un vero sollievo psicologico. Perché ne abbiamo bisogno. Non possiamo vivere senza spiegazioni. Che sono poi di due grandi tipi: che cosa ha causato o causerà un dato evento e con quale scopo ciò è accaduto o accadrà. L'esistenza di una causa, ma soprattutto di un fine, presuppone quindi quasi sempre per noi l'intervento di un agente animato, anche per spiegare l'origine del mondo e le vicende del processo evolutivo. È per noi uomini quasi una necessità fisica. Questa, stretta stretta, potrebbe essere la sintesi del bel libro Nati per credere di Vittorio Girotto, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara recentemente uscito da Codice Edizioni (pp. 203, e 19). A tutto questo andrebbe in verità aggiunto il fatto che noi viviamo come «cuccioli » o giovani adulti per tanto tempo e ci aspettiamo sempre, più o meno inconsapevolmente, che qualcuno ci accudisca, o almeno pensi a noi e non ci ignori.
Queste considerazioni chiariscono la nostra naturale inclinazione a credere all'esistenza di esseri e agenti sovrannaturali o preternaturali, e potrebbero rappresentare un potente antidoto alle tonnellate di sciocchezze, più o meno intellettualmente raffinate e finemente argomentate, che ci toccherà di ascoltare in questo 2009, anno darwiniano per eccellenza, contro Darwin e le affermazioni del darwinismo nel suo complesso. Perché siate sicuri che qualcosa del genere accadrà; troppa è la nostra naturale diffidenza, se non avversione, nei riguardi delle semplici e lineari formulazioni del darwinismo e del neodarwinismo.
Possiamo comprendere perché le cose stiano in questi termini? Tale è appunto la domanda che i nostri autori si pongono e alla quale cercano di rispondere nel quadro delle loro competenze individuali — rispettivamente la psicologia cognitiva del pensiero e del ragionamento (Girotto), la dottrina evoluzionistica (Pievani) e l'etologia (Vallortigara). Tutti e tre concordano comunque sul fatto che la spiegazione possa e debba essere cercata nelle pieghe dello stesso processo evolutivo che ha forgiato il nostro corpo e la nostra mente.
Per poter controllare il proprio comportamento e renderlo adeguato alle mutevoli circostanze della vita, molti animali e certamente gli esseri umani hanno bisogno di rendersi conto di cosa produce cosa e di che cosa si deve fare per ottenere un certo risultato. È parte integrante della loro percezione del mondo e della pianificazione del loro agire. Poiché noi siamo particolarmente bravi in questo e abbiamo dimostrato di riuscire a cogliere le minime sfumature dei rapporti causali e della finalizzazione delle azioni, è naturale pensare che tutto questo ci sia particolarmente presente, fin dalla nascita. Gli esperimenti lo dimostrano e mostrano come queste nostre convinzioni largamente innate vengano progressivamente alla ribalta negli anni della nostra infanzia e possano però anche essere «educate» e modificate sulla base delle esperienze di vita cui ciascuno di noi va incontro. Il libro di cui stiamo parlando è particolarmente ricco di osservazioni e di resoconti di esperimenti del genere. Direi che quasi niente è stato trascurato e il libro si dipana magistralmente tra argomentazioni, controargomentazioni, riflessioni e risultanze sperimentali. Apprendiamo quindi, tra le altre cose, che il bambino possiede già a pochi mesi di vita una sua idea della causalità e della necessità di un agente causale per generare un movimento, mentre occorre aspettare tre-quattro anni perché concepisca l'idea di finalità e la attribuisca ad un agente dotato di mente e di possibilità di progettare (e di simulare). Ciò fa parte, a quanto pare, dell'ordine naturale delle cose. È interessante notare altresì che alcuni ammalati di Alzheimer perdono la nozione di causalità senza perdere quella di finalità.
Tanto si può dire per la nostra avversione ad ammettere l'esistenza di meccanismi semplici e chiari, ma ciechi e senza scopo, alla base del processo che ha portato a tutte le attuali forme di vita a partire da un primitivo gruppo di organismi ancestrali vissuti sulla terra quasi quattro miliardi di anni fa. Il passaggio da questo atteggiamento alla fede vera e propria in uno o più esseri superiori è assai breve. Basta assumere, come fanno i nostri autori, che in noi operino un paio di effetti collaterali della spinta evolutiva che ci porta a credere che tutto abbia una causa e uno scopo.
Uno di questi potrebbe essere che la fede in un essere superiore che ci segue dall'alto e può giudicarci favorisca il comportamento altruistico, o almeno non troppo egoistico, necessario per lo sviluppo di una vita sociale, della quale noi abbiamo particolarmente bisogno. Il secondo punto potrebbe essere che la fede in una qualche forma di sopravvivenza, del corpo o di una parte di esso, aiuti a superare il terrore della fine, fondamentale per noi che siamo gli unici animali a sapere che moriremo. Ciascuna di queste due convinzioni, se ben radicata, costituisce un fattore che favorisce la sopravvivenza, nostra e dei nostri antenati. Personalmente non sono sicuro che questi siano effetti collaterali di una sola spinta evolutiva primaria o piuttosto non costituiscano essi stessi potenti spinte evolutive indipendenti e concorrenti, portanti ciascuna un suo vantaggio. A tutto questo aggiungerei, come ho già detto sopra, la nostra inclinazione a volerci sentire «pensati» da qualcuno, qualcuno che sia vivo, sollecito e dotato di progettualità. Tutto questo e molto di più si può trovare nel bel libro Nati per credere. Ed è anche inutile aggiungere che tutto quello che abbiamo detto non si applica soltanto alla spiegazione della nascita di una religiosità naturale, ma può riguardare anche lo sviluppo delle religioni rivelate. Anche in questo caso infatti occorre spiegare perché a tali rivelazioni abbiamo creduto, in massa e con entusiasmo, perché ne abbiamo accolto il Verbo e lo abbiamo fatto nostro.

Corriere della Sera 2.1.09
1809-1859. Doppio anniversario di celebrazioni (e di polemiche)
di Antonio Carioti


Dal 2003 anche in Italia si festeggia il Darwin Day ogni 12 febbraio, data di nascita del grande naturalista: una ricorrenza creata da tempo nel mondo anglosassone per celebrare la scienza e il libero pensiero. Ma il 2009 è un vero e proprio anno darwiniano, perché ricorrono insieme il bicentenario della nascita dello scienziato (1809) e il centocinquantesimo del suo testo più noto, L'origine delle specie (1859). Molte le iniziative in programma (il calendario completo sul sito www.pikaia.eu), tra cui una mostra multimediale che sarà a Roma (Palazzo delle Esposizioni) dal 12 febbraio al 3 maggio e a Milano (Rotonda della Besana) dal 6 giugno al 24 novembre.
Tutto ciò riproporrà di certo le polemiche sull'evoluzione, molto vivaci negli Stati Uniti e ormai approdate anche in Italia, specie da parte degli ambienti, perlopiù di matrice religiosa, che in alternativa al darwinismo propongono l'idea che la natura si sviluppi sulla base di un progetto trascendente ( Intelligent Design).
Tra i sostenitori più convinti di Darwin ci sono i biologi evoluzionisti, che terranno il loro congresso europeo a Torino dal 24 al 29 agosto (vedi www.sibe-iseb.it), ma la disputa ha anche un aspetto filosofico.
È stata infatti l'Unione degli atei (www.uaar.it) che ha importato il Darwin Day in Italia, mentre la Chiesa cattolica si appresta a dire la sua in un convegno promosso a Roma (3-7 marzo) dal Pontificio Consiglio della Cultura guidato da Gianfranco Ravasi. Un altro contributo verrà dal saggio L'anima e Darwin (in uscita da Donzelli), nel quale Orlando Franceschelli respinge le tesi di chi individua nell'evoluzionismo le radici dell'eugenetica hitleriana.

Corriere della Sera 2.1.09
Liti. La scuola dove studiò vuole strapparlo a un museo di Parigi
Cartesio, l'ultima disputa è sul suo cranio


Non c'è pace per le spoglie di Cartesio: a più di 350 anni dalla morte del filosofo francese è scoppiata una disputa per il possesso del suo teschio. Nel senso che la scuola militare Prytanée, vicino alla città di La Flèche, nel nord-ovest della Francia, reclama il cranio del suo allievo più prestigioso che si trova oggi al Museo dell'Uomo, a Parigi. Perché toglierlo da là, a parte le comprensibili ambizioni dell'istituto frequentato da Cartesio quando era adolescente? Il fatto è — secondo i proponenti — che la collocazione attuale è troppo «modesta»: nel museo oggi il teschio è collocato fra il busto di un uomo preistorico e quello che rappresenta l'ex calciatore Lilian Thuram. D'altra parte, sostengono i contrari, prima di prendere decisioni bisognerebbe controllare meglio: non è affatto certo che il cranio sia autentico. E ci sarebbe un'altra soluzione, avanzata da altri studiosi: riunirlo al resto del corpo, ospitato dal 1819 nella chiesa parigina di Saint-Germain-des-Prés.

Repubblica 31.12.08
I cavalieri le armi e gli orrori
Una ricerca fra storia e leggenda
di Stefano Malatesta


Un saggio racconta l´epopea cavalleresca nel Medioevo. Guerriglie, brigantaggio, tradimenti e anche "operazioni speciali"
Un filone di studi iniziato dallo storico olandese Johan Huizinga
Si racconta di uomini che strisciano a terra e tagliano gole
Le cronache arabe li descrivono temerari e irriducibili
I francesi erano considerati i migliori d´Europa

Nei romanzi cavallereschi i nobili cavalieri medievali, catafratti e impiumati, si battono sempre splendidamente nei tornei, ammirati dalle dame di cui portano i colori con nastri particolari legati al braccio. E dopo aver smontato da cavallo, a corte, dimostreranno cortesia, gentilezza e una vena delicata e poetica di galanteria, copiata dai testi dei troubadores, stanziali in ogni casa principesca che finanziava i tornei.
Ma nelle battaglie reali, su un autentico terreno di scontro, la cavalleria francese, considerata la migliore d´Europa, durante tutto il Medioevo riuscì a collezionare una serie impressionante di sconfitte, da Crecy, a Poitiers, a Agincourt. Questa tendenza manifesta, in qualche modo simile a quella dei soldati tedeschi moderni, sempre accreditati come i primi della classe, che in questo secolo hanno regolarmente perso le guerre che credevano di vincere con i blitz krieg, non era dovuta a mancanza di coraggio. La loro audacia era sempre spinta all´estremo e se mai poteva suscitare perplessità quella furia improvvisa che li scuoteva, facendo vibrare le armature.
Le cronache arabe del tempo dei crociati hanno descritto i Franchi come guerrieri temerari e irriducibili, adoperando espressioni molto lusinghiere. E il grande curdo Salah ad-Din (il Saladino) una volta chiese ad un suo prigioniero, Ugo conte di Tiberiade, famoso tra i mussulmani per la sua combattività, quale fosse il rituale attraverso il quale si diventava cavalieri cristiani: secondo lui il cavaliere doveva avere qualcosa di magico perché infondeva un entusiasmo portato a un tale grado che a volte sembrava pazzia.
La cavalleria aveva subito incredibili debacles quando ci si aspettava una sua folgorante vittoria, perché la forza e il coraggio dei singoli non si sommavano, come avveniva nelle imbattibili armate mongole. I cavalieri europei avevano una tale tendenza allo scontro individuale, a singolar tenzone, appreso nei tornei, che non si preoccupavano minimamente di far riferimento ad un piano tattico comune. Una debolezza aggravata dalla supponenza e dall´alterigia assai poco cristiane, che facevano di loro dei militari riottosi a cooperare in uno scontro manovrato. E quando questo avveniva, era sempre tra una indescrivibile confusione, una cronica non collaborazione e una diffusa noncuranza per gli ordini ricevuti.
Il caso limite arrivò ad Agincourt nel 1422 quando i francesi, dopo aver tagliato la strada agli inglesi in fuga verso Calais, avevano mandato in avanti una prima linea tutta parata e che faceva caracollare i cavalli senza rispettare nessun ordine, altisonante di titoli e di celebrità guerresche. Ma il luogo dello scontro era stato scelto malissimo, i cavalli affondarono subito nel fango e quando arrivarono di rincalzo la seconda e la terza linea, gli elegantissimi squadroni, finiti gli uni su gli altri, si erano trasformati in un immane groviglio da cui era impossibile districarsi. Intanto la prima linea inglese costituita da cavalieri, dopo aver sostenuto un primo urto, si era fatta indietro lasciando avanzare gli arcieri di sua maestà, che diedero mano, con la precisione che li distingueva, ai loro lunghi archi di legno.
Non fu una battaglia, fu un´esecuzione. Quelli tra i francesi che morirono sotto le frecce furono i più fortunati, perché i superstiti, bloccati nella prigione delle loro armature, vennero raggiunti dai fanti arrivati strisciando sul fango e che dopo aver alzato la gorgiera, gli tagliarono la gola.
Con tutti i suoi difetti, la cavalleria continuerà ad essere la forza dominante almeno fino all´arrivo dei lanzichenecchi o dei tercios spagnoli. Ma le battaglie campali combattute con la lancia in resta non erano mai decisive e rappresentavano solo una parte delle guerre endemiche e senza fine del Medio Evo, costituite da guerriglia, brigantaggio, devastazioni di campagne, spedizioni punitive, saccheggi e quelle che sono state poi chiamate "operazioni speciali", una pezza a colori per nascondere assassini, rapimenti e tradimenti. La perfidia implicita in queste operazioni speciali faceva dei paesi asiatici il loro regno abituale (secondo una storiografia malevola che risale ai greci antichi e di cui non ci siamo mai liberati). Anche i mongoli avevano contribuito più di ogni altra forza armata a trasformare la guerra in una serie di trappole, comunicanti tra loro, dove in fon do, ad attendere il nemico, c´era solo la camera della morte, come per la pesca del tonno.
Le cronache della lotta politica in Europa, terra dei cavalieri "sans tache ni reproche", sono sinistramente allietate da ammazzamenti e efferatezze da competere con quelli dei paesi orientali. Con gli ebrei, i mussulmani e gli eretici o supposti tali, i paesi cosiddetti cristiani sono stati di una spietatezza che non ha mai trovato riscontro altrove. Basta ricordare due nomi, la notte di San Bartolomeo e il massacro degli ugonotti e l´infame crociata contro gli albigesi. Eppure in un libro uscito di recente: Operazioni speciali al tempo della cavalleria (Libreria editrice goriziana, pagg. 284, euro 24) si sostiene la tesi che i codici della cavalleria e il fair play insito nel comportamento cavalleresco avrebbero impedito che gli assassini arrivassero ai vertici supremi degli Stati, salvando principi e monarchi, protetti da una sorta di tabù. La relativa stabilità della politica feudale in paesi come la Francia deriverebbe da questa riserva a non andare troppo in alto con le infamie. E dall´assenza di sette clandestine, non si capisce ancora bene se eversive o semplicemente diaboliche come quelle celebri degli Assassini, mandati dal grande vecchio della montagna, Hassan i?Sabath dalla fortezza di Alamut, nella Persia settentrionale, ad uccidere califfi, governatori e gran visir, spargendo il terrore in tutto il Medio Oriente. Mentre l´Italia, paese meno legato all´etica e alla mistica della cavalleria e fin dall´inizio proiettata, con i suoi comuni, alla formazione di una classe mercantile, interessata più a inventare la cambiale che a partecipare ai tornei, con corti estetizzanti e signori protettori degli artisti, che abitavano meravigliosi palazzi dove il veleno era un metodo assai diffuso di soluzione dei problemi e dove ti attendeva un sicario dietro ogni colonna, avrebbe pagato cara, con una turbolenza endemica la sua propensione ad ammirare i Borgia.
Operazioni Speciali è stato scritto da un giovane studioso israeliano, Yuval Noah Harari, che sembra seguire uno dei due filoni in cui si è divisa la storiografia sulla Cavalleria fin dai tempi dell´uscita del famoso e bellissimo Autunno del Medio Evo, di Johan Huizinga. Il grande storico olandese aveva visto nell´eccesso di apparato, verbale e scenografico, delle corti medievali, una grandiosa e alla fine ripetitiva messa in scena teatrale per nascondere una realtà in cui quei paladini infiocchettati e complimentosi con le dame, erano gli stessi che taglieggiavano e stupravano durante le loro feroci campagne. La posizione di Huizinga, accettata dalla maggioranza degli storici, è stata messa in dubbio di recente da uno dei più noti e dei più brillanti studiosi inglesi del medioevo, Maurice Keen. Senza negare l´importanza della letteratura nelle creazione del mito della cavalleria, Keen ha cercato di portare le prove che quella società raccontata dai romanzi, che sosteneva i valori di cortesia, di gentilezza, molto consapevole dei valori che rappresentava - non era poi così lontana dalla realtà storica.
Harari sembrerebbe pendere più da questa parte. Dico sembrerebbe perché molti degli episodi riportati nel libro, immagino per illustrare meglio la sua posizione, una serie straordinaria di vere avventure sceneggiate con abilità, danno l´impressione, alla fine, di convalidare la tesi contraria. Il più significativo ha avuto come protagonista Goffredo de Charny, il prototipo dei cavalieri francesi e autore di un famoso codice della cavalleria. Rendendosi conto di non avere truppe regolari sufficienti per dar l´assalto a Calais, conquistata dagli inglesi qualche anno prima, per restituirla al suo signore, il re di Francia, de Charny individua il punto debole del nemico nell´avidità di uno dei più importanti comandanti di Calais, responsabile della torre che dava sul porto: un italiano naturalmente, il lombardo Aimerico e gli fa offrire ventimila scudi per aprire le grate ad un gruppo scelto di francesi, che avrebbero fatto irruzione, impadronendosi della fortezza e poi della città. L´accordo viene concluso, ma le trame di Aimerico sono subito scoperte e sarebbe messo a morte se non accettasse di fare il doppio gioco, fingendo di essere ancora dalla parte dei francesi. Quando il gruppo scelto, entrato nella torre, tenta di passare per le stanze del corpo di guardia, viene circondato dagli armigeri inglesi e lo stesso de Charny rimane ferito.
Qualche anno più tardi, liberato e tornato in Francia, de Charny viene a sapere che Aimerico è diventato governatore di una cittadina non lontana da dove in quel momento si trovava. Immediatamente organizza una spedizione per catturarlo e Aimerico, un mese dopo, sarà portato in una piazza di un paese francese, torturato e giustiziato davanti a tutta la popolazione, con una procedura così crudele, che solo i turchi avranno la sinistra fantasia di superarla in patimenti. Una vicenda esemplare di una società che sarà stata anche cristiana di nome, ma che raramente conosceva il perdono.

Corriere della Sera 31.2.08
L'Osservatore: troppe e a volte contrarie ai nostri principi
Leggi italiane ed etica. Le condizioni del Vaticano
Da domani non saranno più recepite automaticamente
di Bruno Bartoloni


L'annuncio di José Maria Serrano Ruiz, presidente della Corte d'appello dello Stato della Città del Vaticano

CITTA' DEL VATICANO — Da domani sarà il diritto canonico a ispirare la legislazione civile e penale del Vaticano che si sgancia dal sistema giudiziario italiano, il cui numero di norme è divenuto «esorbitante », con una legislazione civile troppo «instabile» e con leggi sempre più «in contrasto» con i principi irrinunciabili da parte della Chiesa. Lo annuncia sull'Osservatore Romano il presidente della Corte d'appello dello Stato della Città del Vaticano, José Maria Serrano Ruiz, commentando l'entrata in vigore di una legge sulle fonti del diritto, approvata da Benedetto XVI lo scorso 1˚ ottobre e che sostituisce la legge del 7 giugno 1929, promulgata a seguito degli accordi del Laterano dell'11 febbraio dello stesso anno. Con il 2009 le leggi italiane non verranno più recepite automaticamente, salvo gli eccezionali rifiuti motivati da «radicale incompatibilità», come avveniva nel passato.
Le ragioni di una recezione della legislazione italiana soltanto «come fonte suppletiva» sono varie e si traducono in una robusta tirata d'orecchie al nostro Paese. Spiega José Maria Serrano Ruiz, che è anche il presidente della Commissione per la revisione della Legge sulle fonti del diritto Vaticano: «Più di un motivo sembra giustificare la cautela nella recezione della legislazione italiana, ma ne indichiamo solo tre. In primo luogo il numero davvero esorbitante di norme nell'ordinamento italiano, non tutte certamente da applicare in ambito vaticano; anche l'instabilità della legislazione civile per lo più molto mutevole. E infine un contrasto, con troppa frequenza evidente, di tali leggi con principi non rinunciabili da parte della Chiesa».
Una notazione che suona come un j'accuse all'Italia per norme esistenti, da poco approvate o allo studio, su vita e bioetica. Le ultime polemiche sulla morte assistita, sulle pillole considerate abortive, sugli embrioni, sulle unioni omosessuali e così via sono presenti fra le righe del commento. E anche se in Vaticano di scuole non ce ne sono, è emersa pure la polemica sulla scuola confessionale e sugli aiuti dello Stato. La norma approvata, per ora inapplicabile in assenza di un sistema scolastico, assume un ulteriore significato polemico nei confronti dell'Italia e non solo. «Il testo — afferma il professor Serrano Ruiz — non esclude la possibilità che la Chiesa possa intervenire ulteriormente disciplinando la materia nello Stato Vaticano. Il valore testimoniale della norma va al di là della sua immediata messa in pratica».
Insomma, in avvenire i rapporti fra i due enti sovrani, l'Italia ed il Vaticano, «dovranno essere regolati da disposizioni chiare e che riconoscano nello stesso tempo la completa autonomia e la necessaria collaborazione di entrambi», sembra ammonire il magistrato. Quanto all'ordinamento canonico, diviene «la prima fonte normativa » e «primo criterio di riferimento interpretativo», mentre prima aveva solo un «posto di privilegio».

Corriere della Sera 31.2.08
La Santa Sede e il significato di un avvertimento
di Massimo Franco


Tensione L'iniziativa del giornale vaticano sottolinea una tensione fra Chiesa e Stato italiano
Il «fondo di solidarietà» di Tettamanzi è percepito da parte del Pdl come iniziativa antigoverno

L' idillio fra Silvio Berlusconi e il Vaticano è sempre stato dato per scontato ed a prova di polemiche. Ma un articolo dell'Osservatore Romano adesso illumina i rapporti Italia-Santa Sede con una luce fredda. L'annuncio che le leggi della Repubblica non verranno più accettate automaticamente oltre Tevere è superfluo, e insieme significativo.
Superfluo perché un automatismo assoluto non c'è mai stato; significativo perché suona, di fatto, come un larvato avvertimento.
Nella conferenza stampa di fine anno, il premier aveva dichiarato che «i rapporti tra Santa Sede e governo sono i migliori da sempre». E nessuno ne aveva dubitato, nonostante gli attacchi recenti del presidente della Camera, Gianfranco Fini, al ruolo dei pontefici negli anni del fascismo: attacchi commentati dai vertici vaticani con una durezza inusuale, e schivati da Berlusconi. Ma l'articolo di ieri dell'Osservatore sulla «nuova legge sulle fonti del diritto», pianta paletti ingombranti. Il quotidiano fa sapere che le norme promulgate da Benedetto XVI ad ottobre ed in vigore dal 1˚ gennaio 2009, prevedono «un'ulteriore cautela nella recezione della legislazione italiana».
Traduzione: le leggi non saranno accolte in modo automatico. La motivazione è che sarebbero in numero «esorbitante»; cambierebbero in continuazione; ma soprattutto mostrerebbero «un contrasto, con troppa frequenza evidente, con principi non rinunciabili da parte della Chiesa». Rimane da capire se sia una dichiarazione di sfiducia verso lo Stato italiano; oppure solo una sottolineatura puntigliosa e preventiva, mentre il Parlamento sta per discutere temi di frontiera fra la vita e la morte.
L'articolo compare nelle pagine interne dell'Osservatore.
E l'autore, lo spagnolo Josè Maria Serrano Ruiz, è presidente della Corte d'appello della Santa Sede.
Ma la sua prosa sembra destinata ad avere comunque un impatto. Lascia intuire insieme una punta di delusione e di diffidenza. Finisce per alimentare in modo inaspettato le tensioni affiorate nei giorni scorsi fra l'episcopato italiano ed esponenti di primo piano del centrodestra. E tende ad incrinare l'immagine di sintonìa tra maggioranza berlusconiana e Vaticano. È la coincidenza con lo scambio di accuse fra alcuni settori del Pdl e le gerarchie cattoliche, in particolare, a sollevare qualche interrogativo.
Il «fondo di solidarietà» per i poveri istituito dall'arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, viene percepito da parte del centrodestra come «un'iniziativa antigovernativa ». Non solo. Fra Lega ed episcopato serpeggia una diffidenza cronica per l'approccio agli antipodi sull'immigrazione islamica. E l'Udc soffia sul fuoco, accusando il Pdl di aver fatto prevalere «l'anima laicista e statalista »: una frecciata al ministro Renato Brunetta, che aveva criticato una Chiesa a suo avviso incline ad iniziative «di immagine». Su questo sfondo, l'articolo dell'Osservatore sul contrasto fra leggi italiane e vaticane ingigantisce la questione: forse al di là delle intenzioni di tutti.
Prefigurare una sorta di «vaglio morale» sulle norme dello Stato repubblicano come una novità, introduce un elemento di frizione. Dà l'impressione che sia in atto una deriva mirante a negare i «principi non negoziabili» cari alla Santa Sede, assecondata se non promossa dal centrodestra. E lascia capire che se il Parlamento approverà leggi considerate ostili alla morale cattolica, oltre a criticarle il Vaticano le respingerà. Forse si tratta di una precisazione inutile, perché un automatismo assoluto non esiste: basta pensare ad aborto e divorzio. Ma allora, rivendicare con certi toni il diritto di accettare o rifiutare una norma significa mandare un avvertimento all'Italia; e non dare per acquisiti i buoni rapporti con un governo o una maggioranza.

Corriere della Sera 31.2.08
Le reazioni. Baldassarre: una cautela legittima. Pasquino: no, ingerenza intollerabile


ROMA — Su una delle motivazioni sono d'accordo tutti: in Italia ci sono troppe leggi. Sul resto ci si divide. La decisione del Vaticano di non recepire più automaticamente, o quasi, le norme italiane, trova sostanzialmente concorde un costituzionalista come Antonio Baldassarre, già presidente della Corte costituzionale, nonché docente alla Pontificia Università Lateranense: «Mi pare una decisione legittima. Il Vaticano è uno Stato sovrano». Che sia avvenuto un cambio di passo è indubitabile: «Evidentemente — spiega Baldassarre — si è trattato di una cautela di fronte all'arrivo di tempi giudicati tempestosi.
Temono il varo di leggi non corrispondenti ai loro principi, come quella sull'eutanasia».
Nessuna pressione indebita, spiega: «È un provvedimento che ha effetti su un ordinamento straniero».
Parere opposto per il politologo Gianfranco Pasquino, già senatore della sinistra: «Mi sembrano preoccupazioni infondate: le leggi italiane le fa il Vaticano, no?».
Uscendo dal paradosso, Pasquino spiega: «Questo provvedimento arriva durante il pontificato di uno dei papi più reazionari degli ultimi 50 anni. Trovo che si tratti di una pressione ostile e di un'ingerenza intollerabile per lo Stato italiano».

Repubblica 31.12.08
Un´inchiesta nel Triveneto sui giovani e la religione
Quando dio è in minoranza
di Marco Politi


A Trieste Venezia e Pordenone la maggioranza dichiara di credere, ma appena si domanda "a cosa" le risposte sono piuttosto sorprendenti

Svanisce tra i giovani l´immagine del Dio cristiano, vacilla il dogma che Cristo sia figlio di Dio, aumenta la distanza dalla Chiesa istituzione. È il risultato di una limpida inchiesta sul mondo giovanile, condotta da Alessandro Castegnaro presidente dell´Osservatorio socio-religioso Triveneto e benedetta dal vescovo di Trieste mons. Eugenio Ravignani. Il quale ammette che i risultati possono avere «sconcertato chi si attendeva risposte più confortanti», scoprendo quanto la religione venga considerata poco importante nella vita delle persone intervistate.
L´inchiesta (A.Castegnaro, Religione in standby, Marcianum Press, pagg. 296, euro 29) è partita da un´analisi della situazione di Trieste, ma poi si è allargata ad una comparazione con la situazione di Venezia e Pordenone. Trieste, notoriamente, è una città particolare in cui forte è l´impronta austro-ungarica, di tradizione cosmopolita, laica, secolarizzata, che la apparenta ai costumi e agli stili di pensiero del Nordeuropa. Ma l´incrocio dei dati con una realtà culturalmente metropolitana come Venezia e invece provinciale - da classico Veneto bianco - di Pordenone offre uno specchio interessante delle giovani generazioni, che può valere almeno per l´Italia centro-settentrionale.
Le sorprese sono tante. Quanto conta la religione per i giovani triestini? Poco per il 45 per cento, niente per il 10, moltissimo solo per un 15 per cento. Interrogati se credono, a Trieste rispondono sì il 77 per cento, a Venezia l´86, a Pordenone l´89.
Ma appena si domanda a cosa, le risposte sono per un paese ufficialmente cattolico sconcertanti. Al «Dio cristiano» credono a Trieste soltanto il 38 per cento dei giovani, a Venezia il 43, a Pordenone il 46. L´altra metà, più o meno, preferisce credere in una «Realtà superiore» non meglio definita. Fortemente incrinata è la convinzione che Gesù Cristo sia figlio di Dio. Ci credono poco o per nulla il 41 per cento a Trieste, il 33 a Venezia, il 24 a Pordenone. Gli incerti, nel medesimo ordine, sono al 26 per cento, al 34, al 29. I molto convinti sono un terzo a Trieste e Venezia e il 46 per cento a Pordenone.
L´inchiesta, svolta tra i giovani tra i diciotto e i ventinove anni, non è avvenuta per via telefonica (che rischia di provocare reazioni troppo estemporanee) né di persona attraverso un intervistatore: sistema che rischia di suscitare risposte troppo compiacenti, in cui l´intervistato tende a reagire secondo moduli più conformisti oppure, spiega Castegnaro, si astiene da opinioni che avrebbe il «timore di formulare». Si è lasciato alle persone scelte un pacchetto di domande perché rispondessero in solitudine e concentrazione.
Emerge in prima battuta una differenza tra religione e religiosità, che spiega benissimo perché il «revival religioso» in corso da anni e mediaticamente esaltato non corrisponda ad un aumento reale della pratica religiosa nell´ambito della Chiesa. Perché la religione è un sistema istituzionalizzato di credenze, pratiche, riti e tradizioni e i giovani tendono a rifuggire da tutto ciò che appare come «istituzione» o disciplina. Mentre la religiosità è un dimensione più flessibile di simboli, che danno senso alla vita e attivano energie spirituali, morali e sociali.
È questa l´opzione che fanno le nuove generazioni. Non a caso la domanda «Credi a un Dio personale?», fondamentale per la tradizione giudaica e cristiana in cui Dio interviene personalmente nella storia - dalla Creazione fino all´Apocalisse - rimbalza sui giovani. Solo un terzo circa risponde di sì a Trieste e Venezia, e non più del 46 per cento a Pordenone.
Dio, dunque, è in minoranza. Il Dio delle cosiddette «radici cristiane». Il Dio annunciato ogni domenica a messa, proclamato a battesimi, comunioni, nozze e funerali, insegnato per tredici anni nell´ora di religione. Emerge anche la differenza tra aree di cultura urbana avanzata e aperta a influenze internazionali, come Trieste e Venezia, e aree più chiuse come Pordenone, in cui la secolarizzazione avanza meno velocemente.
Negli intervistati colpisce la distanza dalla Chiesa-istituzione. Alla richiesta di esprimere una valutazione sulla Chiesa cattolica, Castegnaro riporta che il «saldo tra giudizi complessivamente negativi e positivi» è il seguente: - 31 nella diocesi di Trieste, - 30 nel patriarcato di Venezia, appena + 2 nella diocesi di Pordenone. In questo contesto appare lontanissima dalla realtà la pretesa della gerarchia ecclesiastica di rappresentare politicamente i cittadini «cattolici», quando si tratta di legiferare su temi come il testamento biologico o le famiglie di fatto.
Ma anche all´interno della Chiesa i vescovi devono porsi molti interrogativi. A Venezia, ad esempio, è patriarca una delle personalità intellettualmente più brillanti della Chiesa italiana, eppure il messaggio ecclesiale non sembra riuscire a penetrare in profondità nel mondo giovanile. Evidentemente i giovani rappresentano davvero un mondo sé. Chiusi in un circuito proprio. In stand by.

Corriere della Sera 31.2.08
Il Pontefice In due anni un milione di fedeli in meno
Calo dell'audience, cattolici divisi


La piazza più importante del Cattolicesimo ha perso un milione di fedeli. Tanti sono cattolici calati alle udienze e agli incontri pubblici di Benedetto XVI in Vaticano e a Castelgandolfo nel corso degli ultimi due anni.
Le cifre arrivano direttamente dal Palazzo apostolico. E testimoniano di un'emorragia che continua per il secondo anno consecutivo: nel 2006 a seguire Papa Ratzinger furono in 3 milioni e duecento mila, nel 2007 furono 2 milioni e 830 mila, mentre nel 2008 le presenze di fronte al Pontefice sono state 2 milioni e 215 mila persone.
Dati che fanno ancora più impressione se confrontati con il «pienone» registrato da Benedetto XVI nel corso dei primi dodici mesi del suo pontificato (è salito al soglio pontificio il 19 aprile 2005): oltre 4 milioni di presenze, un'affluenza persino più nutrita da quella totalizzata tra piazza San Pietro e l'aula Nervi da Giovanni Paolo II nel suo ultimo periodo.
Va comunque ricordato che lo stesso Benedetto XVI non pare dare molta importanza a considerazioni legati all'«audience», e recentemente ha ribadito che il Pontefice non deve essere trattato come una star e gli incontri con il vicario di Cristo trasformati in una sorta di concerto rock. Inoltre, non bisogna dimenticare i successi del pellegrinaggio negli Stati Uniti, la Giornata Mondiale della Gioventù a Sidney e le folle che hanno acclamato Papa Ratzinger in Francia.

Corriere della Sera 31.2.08
Il nuovo Pascal curato da Carlo Carena
Un provinciale contro i gesuiti
di Armando Torno


Il no alle scappatoie morali per fanciulle bancarottieri e ladri

Nel 1641, quando esce postumo l'Augustinus di Cornelio Giansenio, vescovo di Ypres, il mondo cristiano è percorso da numerosi dibattiti teologici. I discepoli di Melantone, morto nel 1560, entrano in conflitto con l'ortodossia luterana; il calvinismo nei Paesi Bassi si trova contaminato dalla dissidenza di Giacomo Arminio (1560-1609) sulla predestinazione condizionata, nella quale affiorano le idee di Erasmo sulla salvezza. Il mondo cattolico, invece, schiera in prima linea i gesuiti della Seconda Scolastica, mentre l'alta teologia subisce il fascino di un altro membro della Compagnia di Gesù, Luis de Molina. Morto nel 1600, credeva nel ruolo fondamentale della libertà (sfera soprannaturale inclusa) perché non
tutto dipende esclusivamente da Dio. Per taluni aspetti recuperava le idee di Pelagio, inviso ad Agostino, presente a Roma intorno al 400, «eretico» che negava il peccato originale. Anche il mondo laico non perde l'appuntamento: nel 1652 appare a Parigi il Socrate chrestien di Jean-Louis Guez de Balzac (è ora uscita l'edizione critica, curata da Jean Jehasse, da Honoré Champion). In questo scritto discontinuo, vergato con toni e stili diversissimi, si cerca la mediazione morale del filosofo greco per ricostruire « une Vérité chrétienne à mieux vivre».
L'Augustinus, che anela ai valori cristiani originari, diventa in breve tempo un baluardo antigesuitico. Roma condanna nel 1653 cinque proposizioni considerate il nucleo del giansenismo, ma il cenacolo di intellettuali e religiosi sorto intorno all'abbazia di Port-Royal alza la voce. Pierre Nicole, Antoine Arnauld (in contatto con Leibniz) e Blaise Pascal scendono in campo. Ed è proprio quest'ultimo a scrivere l'apologia più fascinosa del movimento e l'attacco più diretto alla Compagnia: Le provinciali. Opera non facile, anche se piacevole per la verve polemica, tratta questioni che appartengono a una teologia perduta. Leggerla, però, è un dovere. L'occasione la offre la nuova edizione a cura di Carlo Carena (con prefazione di Salvatore S. Nigro) uscita nella «Biblioteca della Pléiade» di Einaudi ( Le provinciali, testo francese a fronte, pp. 814, e 100). Ha un ricco apparato di note con informazioni preziose per orientarsi tra i casuisti, una Storia del testo indispensabile per comprendere la natura dell'opera.
Basta soffermarsi su qualche argomento trattato in queste diciotto epistole per smarrirsi, per capire quanto siamo disarmati dinanzi a tale cultura. Che ne sappiamo oggi del gesuita Etienne Bauny, ritenuto da Pascal ingegnoso e sottile (VI lettera), che aveva utilizzato Aristotele per definire le azioni volontarie dalle quali dipendono le colpe, che ammetteva la celebrazione della messa anche in stato di peccato mortale, che si era intrufolato nella toilette delle donne consentendo alle giovani la possibilità di disporre della propria verginità? Pascal rintuzza l'esecrabile liberalità nella IX lettera, ma nella medesima deve attaccare padre Antonio Escobar de Mendoza, gesuita autore di una Teologia morale in sei volumi, che riteneva lecito mangiare e bere senza misura per il solo piacere. Del resto, è ancora l'acuto religioso che trova scappatoie morali — attualissime! — per i bancarottieri e i ladri, nonché per taluni omicidi.
Se i gesuiti combattuti nelle Provinciali — ci limitiamo a un misero cenno — rappresentano l'abbraccio tra la dottrina cristiana e lo spirito dei tempi, che cosa resta di Pascal e di tutto il suo rigore? Un cristianesimo puro, rinnovato? Un'utopia? O più semplicemente, come notò Racine, una commedia? È innegabile che nell'opera si respira lo scherzo di Luciano, la sottile ironia di Platone, la veemenza di Cicerone, la moralità di Seneca, ma anche — notava Voltaire — il sale di Molière. Ogni pagina è barocca e antibarocca. L'autore, suggerisce con garbo Carena, sceglie i suoi personaggi nei conventi e alla Sorbona, mettendo in scena gesuiti e ridicolo.
Pascal farà la sua genuflessione culturale alla Compagnia in tempi e opere diverse, a cominciare dal celebre pari, la «scommessa» dei Pensieri, che nasce quasi sicuramente dopo la lettura del saggio del gesuita Antoine Sirmond Dimostrazione dell'immortalità dell'anima del 1635 (la storia è ricostruita da Per Lønning in Cet effrayant pari, Vrin 1980). Ma è vicenda complessa. Già Pierre Bayle nel suo Dictionnaire aveva segnalato che la fonte della «scommessa» è nell'Adversus nationes di Arnobio, opera scritta tra il III e il IV secolo. I gesuiti, però, l'avevano rimessa a nuovo e fatta circolare.