sabato 11 giugno 2011

l’Unità 11.6.11
Arrivati al quartier generale del Pd sondaggi incoraggianti
D’Alema: «Berlusconi non va alle urne? Segnale d idebolezza»
Bersani: «Il quorum è a portata di mano. Tutti a votare»
I sondaggi fanno dire a Bersani che il quorum «è a portata di mano». Il leader del Pd tra la gente a piazza del Popolo. D’Alema: «Berlusconi non vota? Segnale di debolezza. Io sono d’accordo con Napolitano e con il Papa».
di Simone Collini


Gli ultimi sondaggi arrivati al quartier generale del Pd fanno dire a Pier Luigi Bersani che «il quorum è a portata di mano». Il leader dei Democratici arriva a Piazza del Popolo, dove si svolge la manifestazione di chiusura della campagna referendaria, e come promesso si ferma sotto il palco. «Noi dobbiamo avere un atteggiamento coerente con il movimen-
to, dobbiamo darci tutti la mano per uscire da questa lunga stagione buia, che ha indebolito la democrazia e la partecipazione». Ripete che domani andrà a votare presto, nella sua Piacenza, e invita chi gli si fa attorno a fare altrettanto, «per dare un segnale di incoraggiamento a chi magari ha qualche titubanza o pigrizia». Raggiungere il quorum «è come scalare una montagna, non a caso sono 16 anni che non si riesce a raggiungerlo dice ma questa volta sono convinto che basterà allungare la mano per afferrarlo». Bersani è d’accordo con Antonio Di Pietro, che incrocia e abbraccia sotto il palco, sul fatto che il voto di domani e dopodomani non vada politicizzato («dobbiamo aprire anche a destra se vogliamo ottenere il risultato») e ribadisce che lunedì non scatterà l’ora X, in cui il governo se ne dovrà andare. Ma il leader del Pd sa anche che questa campagna referendaria già ora ha logorato ancora di più una maggioranza e un esecutivo in grossa difficoltà. «Trovo che sia davvero disdicevole che un uomo che è al governo e che ha giurato sulla Costituzione non senta il dovere di dare un messaggio di civismo», dice a proposito dell’annunciata astensione del premier. «Ma non sono per nulla stupito. Berlusconi è Berlusconi. Del resto, se c'è la partecipazione non c'è lui, il “ghe pensi mi” non può sopravvivere di fronte ad un movimento di partecipazione unitaria e collettiva». Una partecipazione che dopo le amministrative può dare un ulteriore segnale di voglia di cambiamento, anche se formalmente non sarà sufficiente per far scattare il quorum, e accelerare una «svolta politica».
GOVERNO A CASA
Anche se il Pd si è schierato ventre a terra per la riuscita della consultazione, infatti, già a questo punto inizia a diffondersi tra i Democratici la convinzione che comunque vada, lunedì, l’opposizione sarà più forte e il governo avrà poco da cantare vittoria. Se saranno andati a votare 25 milioni 209 mila 345 elettori (è la cifra aggiornata fornita dal ministero dell’Interno poche ore prima della chiusura della campagna referendaria) sarà «un’altra botta per il governo», come dice Rosy Bindi. Ma se anche la fatidica soglia non dovesse venir raggiunta, è il ragionamento che si fa in queste ore ai vertici del Pd, la massa di votanti e l’alta percentuale di Sì espressi contro leggi ad personam e politiche energetiche e ambientali del governo saranno comunque un segnale difficilmente ignorabile, soprattutto da parte di uno schieramento che ha impostato l’intera sua campagna referendaria sull’astesionismo. Non a caso Massimo D’Alema dice che è «un segnale di debolezza» da parte di Silvio Berlusconi annunciare che non andrà a votare. Il presidente del Copasir dice che «se un capo di governo di un Paese democratico è contrario a un quesito referendario si batte per il no e non per stare a casa», e ha gioco facile nel dire che lui personalmente è d’accordo «con il Presidente della Repubblica e con il Papa» (il primo ha per tempo fatto sapere per tempo che «da elettore che fa sempre il proprio dovere» domani si recherà alle urne, mentre il secondo ha lanciato un appello a lavorare sulle energie «che salvaguardino il patrimonio del creato e non comportino pericolo per l`uomo»).
Rimarrebbe il problema, nel caso il quorum non venisse raggiunto, del permanere in vigore di leggi che consentono la costruzione di centrali nucleari, la privatizzazione dell’acqua e le norme ad personam. Per Bersani rimarrebbe una soluzione: «Gli italiani hanno capito che se vogliono liberarsene devono liberarsi di Berlusconi».

Corriere della Sera 11.6.11
Sfida finale per il quorum
Bersani: ci siamo quasi. Il Pdl: quesiti strumentali
In un foglietto i conti e i timori del Pdl: la reazione a Silvio porterà il 7% alle urne
L’opposizione spera nell’«effetto Berlusconi» per raggiungere il quorum
di Francesco Verderami


Gli uomini del Cavaliere temono che Berlusconi sia diventato il più temibile antiberlusconiano, il più feroce nemico di se stes so, e interpretano la sua esternazione sui referendum come l’ennesimo gesto di autolesionismo. È chiaro a tutti infatti — nonostante tutti lo smentiscano— che i referendum sono (anche) utilizzati dalle opposizioni come un’arma contro il premier. Perciò lo stato maggiore del Pdl aveva implorato Berlusconi di restare defilato, di mettersi al riparo per tenere al riparo il suo governo. Era stata messa a punto una linea di comunicazione per evitare le trappole mediatiche e il Cavaliere si era impegnato — in caso di domande della stampa — ad adottare la formula congegnata: «Deciderò all’ultimo momento se e come pronunciarmi sui quesiti» . Invece niente, ha voluto far di testa sua: «Non andrò a votare» , ha risposto d’istinto l’altro ieri, gettando nello sconforto i suoi uomini. Avesse potuto, Di Pietro gli avrebbe dato un bacio in fronte, «speriamo che Berlusconi infili una cazzata dietro l’altra» , confidava l’ex pm in questi giorni. Perché è sul Cavaliere che le opposizioni facevano e fanno affidamento per ottenere la spinta decisiva verso il quorum. — per una volta l’analisi è bipartisan, nel centrodestra hanno quantificato il danno con un sondaggio improvvisato: niente di scientifico, nessun calcolo ponderato, solo una previsione scritta come una schedina, nella speranza per una volta di non azzeccare il risultato. La traccia sta su un foglio rimasto per una settimana sulla scrivania di un dirigente del Pdl, che aveva preso a valutare la possibile percentuale dei votanti. — secondo il pronostico, il 35%degli elettori lo porteranno alle urne «il centrosinistra e il terzo polo» , il 5%andrà al seggio «dopo l’indicazione di Napolitano» , il 3%sarà spinto dal «discorso di Benedetto XVI sull’ecologia» , l’ 1%«lo farà per Celentano» . Sul biglietto c’è poi una nota a margine su Berlusconi, che indurrebbe al voto «per reazione» il 5%degli aventi diritto. Così, fino all’altro ieri, si arrivava al 49%. Ma dopo l’ennesima sortita del Cavaliere — che aveva già definito «inutili» i quesiti— al dato originario del 5%è stato aggiunto un 2%... Così si arriverebbe al 51%e se i referendum superassero la soglia della validità, l’idea del premier di «andare al mare» potrebbe poi far rima con «governo balneare» . Perché avrà pur ragione il sindaco democratico di Firenze, Renzi, «ai miei dico che si illudono se pensano di dare in questo modo la spallata a Berlusconi» . Ma è questa la speranza che alberga in Bersani, sebbene il leader del Pd tenti di smentirlo. Ancora ieri, infatti, prima ha negato («i referendum non sono l’ora x per il Cavaliere» ) poi non è riuscito a trattenersi: «Il meccanismo del "ghe pensi mi"non potrà sopravvivere a una riscossa di un movimento di partecipazione» . — al pari di Bersani anche Casini si è scoperto referendario, «la consultazione è una prova di democrazia » sottolinea il capo dei centristi. Così si produce un paradosso: finché — per merito soprattutto dei Radicali— i referendum sono stati usati come strumento di democrazia diretta, per dar voce ai cittadini su singoli provvedimenti, solo in poche occasioni hanno superato il quorum. Ora che vengono adottati (anche) per risolvere controversie politiche, si prevede una forte partecipazione, al limite del risultato. D’altronde è come se i quesiti si fossero fusi tutti in uno, con cui si chiede se mandare o meno a casa Berlusconi. Ecco spiegata l’ansia degli uomini del Cavaliere. E quel sondaggio artigianale dà voce a un moto dell’animo, serve a esorcizzare la paura dell’ «effetto domino» , che il voto delle urne possa cioè incidere sul voto di Palazzo, sulla verifica parlamentare che attende la maggioranza fra due settimane. Di qui ad allora — se i referendum centrassero l’obiettivo— nel centrodestra si avrebbe un’escalation di tensioni. A Pontida, dove si riunirà il «popolo padano» , Bossi non potrebbe non tenere conto del risultato e sommarlo alle «cose che non vanno» da addebitare a Berlusconi. Magari prenderebbe spunto dalle critiche che Tremonti ha rivolto al premier per la gestione del «dossier nucleare» , per quelle «leggi inutili e sbagliate» varate all’ultimo momento così da scongiurare il referendum e che invece non hanno evitato la consultazione, «mentre i costi dei progetti per il rilancio atomico — secondo il ministro dell’Economia— dovremo comunque metterli a bilancio» . E il titolare di via XX settembre sa come s’invirgola il Cavaliere ogni qualvolta si accenna agli accordi sottoscritti con la Francia sulle centrali, di cui aveva parlato con Sarkozy anche nell’ultimo bilaterale. — per una maggioranza alle corde e già colpita al mento dal voto delle Amministrative, sarebbe difficile evitare il conteggio nel caso i referendum avessero la meglio. Perché sul ring parlamentare si nota come la maggioranza abbia abbassato la difesa. Le tensioni e le defezioni tra i Responsabili, i mal di pancia nella Lega e nel Pdl: basterebbe un niente, l’assenza di un deputato, per costringere l’esecutivo a mettere il ginocchio sul tappeto. Può darsi che l’idea di «andare al mare» non porti a un «governo balneare» , che la vittoria dei referendum non produca effetti politici, che sia stata per tempo scongiurata la congiura immaginata e temuta dal premier: la crisi sulla manovra imposta da Tremonti e il cambio in corsa proprio con Tremonti e proprio in nome della manovra da varare per salvare il Paese dal dissesto finanziario. Però tra i quesiti al vaglio elettorale ce n’è uno che interessa da vicino Berlusconi. E non perché sul legittimo impedimento il premier faccia ancora affidamento, ma per gli effetti che un voto di abrogazione della legge si porterebbe appresso. L’impressione nel Pdl è che, in quel caso, sarebbe «un suicidio» poi tentare di approvare provvedimenti come il processo breve, ancora al vaglio del Parlamento e su cui Napolitano già in passato ha espresso più di un dubbio. Gli uomini del Cavaliere sono certi che se il referendum sul tema di giustizia passasse, il capo dello Stato non firmerebbe quella legge. Francesco Verderami

l’Unità 11.6.11
I numeri Per arrivare al fatidico «50%+1» previsto dalla legge sono necessari 25.209.345 voti
La «via crucis» del quorum: otto milioni di voti cercansi
Una «montagna da scalare», ecco cos’è il quorum. A maggior ragione pensando alle scorse amministrative, dove l’astensione è stata molto alta: in sostanza, non bastano gli elettori di Pisapia & co...
di Roberto Brunelli


È la via crucis del quorum. Una babele di numeri, «una montagna da scalare», una sfida tutt’altro che facile, figlia di una normativa, quella del «50% +1», che aveva un senso agli albori della storia repubblicana, quand’era scontato che l’affluenza alle urne toccasse il 90% degli elettori, o giù di lì. Gli italiani chiamati ad esprimersi domani sui quattro quesiti referendari sono esattamente 47.118.784, il che significa che il «numero magico del quorum» è esattamente di 25.209.345 elettori. Sono quelli che si devono recare alle urne affinché il referendum sia valido. Tanti, tantissimi. Un’immensità. Per fare un confronto, alle elezioni politiche del 2008 il centrosinistra raccolse complessivamente 13,6 milioni di voti. Anche sommando altri partiti d’opposizione, a malapena si arriva a 17 milioni. Questo vuol dire che nel migliore dei casi mancano all’appello circa 8 milioni elettori: da cercare evidentemente nell’area del centrodestra e del non voto.
Ci sono altre variabili da tenere in considerazione. Il primo sono i 3.299.905 italiani all’estero. Il fatto è che secondo gli analisti si tratta di persone in generale scarsamente invogliate al voto. Nondimeno, a causa del complicato meccanismo che regola il voto nelle circoscrizione estere, hanno già votato, peraltro su schede che riportavano il vecchio quesito sul nucleare, ed il Viminale ha affermato che non era possibile stampare per tempo le nuove schede, per cui il loro voto potrebbe essere considerato tecnicamente nullo. Secondo un calcolo dell’Idv, questi 3,2 milioni alzerebbero il quorum «reale» al 58%. Poi c’è la questione dell’affluenza. Prendete il dato delle scorse amministrative. Alle comunali è stato del 68,5%, alle provinciali ancora più basso, ossia del 61%. Questo vuol dire che chi spera che i referendum vadano a vuoto può semplicemente sommare il proprio «non voto» propugnato da gran parte del centrodestra alla percentuale di chi tende a non presentarsi alle urne: un fetta di italiani che supera ampiamente il 20%. È chiaro che i promotori della consultazione sperano in due o tre «effetti trascinamento»: in primis, la grande sensibilizzazione intorno alla questione nucleare dopo il devastante incidente di Fukushima, poi la forte mobilitazione intorno ad un tema sensibile come quello dell’acqua e la percezione, tutta politica, che una vittoria ai referendum possa rappresentare una spallata al governo Berlusconi e, soprattutto, la grande onda di passione civile che ha portato alle vittorie di Pisapia, De Magistris, Fassino & co. Stando ai dati, però, il problema è che la battaglia va ben oltre gli schieramenti per come si sono sono definiti alle amministrative. Vediamo, per esempio, Milano. Qui di fronte a 996 mila elettori, quelli che si sono effettivamente andare a votare sono stati 673 mila al primo turno e 671 mila al secondo, con un’affluenza rimasta di poco sopra il 67,3%. Il che vuol dire che il quorum teorico di Milano è di 492 mila elettori. Facciamo un po’ di conti: se consideriamo tutti i voti di chi al secondo turno ha portato Giuliano Pisapia alla sua straordinaria affermazione, imprevedibile in questi termini fino a poche settimane fa, siamo complessivamente a 365 mila voti. Ne mancano 127 mila, che bisogna pescare tra i 297 mila che hanno segnato la propria crocetta sul nome di Letizia Moratti. Ancora più intricato il caso Napoli, dove bisogna fare i conti con un astensionismo molto alto. Al ballottaggio è andato a votare solo il 50,5%: 410 mila elettori. Di questi 264 mila hanno votato De Magistris: bisogna conquistarne altri 146 mila. E vanno trovati ovunque: tra gli elettori di Lettieri, e soprattutto nel popolo del non voto. Come avevamo detto? Una via crucis.

Repubblica 11.6.11
Le rilevazioni sull´affluenza di domani possono già far capire se il quorum sarà raggiunto. Ecco quattro precedenti
Occhio ai dati, la domenica è fondamentale


ROMA - Quorum sì, quorum no: in attesa di conoscere il dato definitivo dell´affluenza alle urne in Italia e all´estero che sancirà la validità o meno dei quattro referendum in programma domani e lunedì, già la rilevazioni dell´affluenza alle urne della mattina di domenica e poi quelle delle ore 19 e delle ore 22 saranno un indicatore significativo. Ma come leggerle? Come interpretarle? Per farsi un´idea su come trattare i dati che domani inizieranno a irrompere sui media ci si può rifare al passato, prendendo ad esempio tre casi in cui il quorum venne raggiunto, sfiorato o mancato clamorosamente. Il 12 maggio 1974 si votava sul divorzio, ovvero per l´abrogazione della legge Fortuna-Baslini. Vinse il no: la domenica le rivelazioni sull´affluenza furono tre, alle 11, alle 17 e alle 22: la prima segnava il 17,9%, la seconda il 46,5% e la terza il 73,8%. Alla fine votarono l´87,7% degli aventi diritto. Il secondo esempio utile per orientarsi arriva dal 3 giugno 1990, quando si votava sulla caccia e il quorum venne sfiorato: alle 11 di domenica l´affluenza era del 5,1%, alle 17 del 15,2% e alle 22 del 31,5%. A urne chiuse votarono il 43,4%. Il terzo e ultimo esempio è quello del 15 giugno 2003, quando si votava sul reintegro dei lavoratori illegittimamente licenziati ed il quorum venne vistosamente mancato, con appena il 25,7% dei voti. Allora le rilevazioni avvennero alle 12, alle 19 e alle 22 di domenica e comprendevano le schede degli italiani all´estero: ebbene, i parziali furono del 4,5%, 10,4% e 17,5%. Da notare che quella volta votarono, come domani e dopo, anche gli italiani all´estero e che il loro afflusso fu praticamente identico a quello nazionale. La stessa cosa accadde nel 2009.

il Fatto 11.6.11
Referendum, quorum in pericolo Corsa fino all’ultimo voto
Manifestazioni in tutta Italia, bandiere sui monumenti. Idv e Pd in piazza, Bersani: “Possiamo farcela”. In tv però continua il bavaglio
Al quorum, al quorum!
Mobilitazione in tutta Italia, Idv e Pd: Sì può fare Il Caimano ha paura: “E se la gente non va al mare?”
di Enrico Fierro


Andrea Rivera sale sul palco, si guarda attorno, vede che nel catino rovente di Piazza del Popolo a Roma non ci sono masse oceaniche e sfodera l’ironia. “A Emilio Fede, la piazza è vuota perché gli altri stanno a cercà di capì come cazzo si vota, di che colore so le schede, visto che la televisione non lo dice”. E vai con la musica per la lunga maratona che dalle due del pomeriggio anima la grande piazza romana. Ci sono attori, come Claudio Santamaria e Ulderico Pesce, scrittori, Moni Ovadia e Piergiorgio Odifreddi, cantanti come Baccini, Cristicchi, Teresa De Sio, Eugenio Finardi, Er Piotta, e tantissimi gruppi musicali. Ci sono i leader di partito. Ma c’è poca gente all’inizio di questo caldissimo pomeriggio referendario, un po’ di più col fresco della sera. Ma la piazza non è certo quella delle grandi mobilitazioni. Dal palco tutti invitano a votare, votare e votare sì. Pierluigi Bersani è “cautamente ottimista”. “Raggiungere il quorum è come scalare una montagna, ma il risultato è a portata di mano”. Antonio Di Pietro pensa agli imbrogli del governo e al voto degli italiani all'estero. “Questo è il vero grande problema. Noi vorremmo che il loro voto non venisse conteggiato ai fini del quorum”. Sotto il palco arrivano anche Susanna Camusso e Guglielmo Epifani. “Il voto è un diritto – dice la segretaria generale della Cgil – noi ci batteremo fino all'ultimo momento utile perché la gente vada a votare”. Moni Ovadia sale sul palco e parla del questito sul “legittimo impedimento”. “Un referendum che ha un valore simbolico e pratico preciso. Perché Berlusconi ha affermato come giusto il principio di disuguaglianza stabilendo quello della ingiudicabilità per i potenti”.
LA GENTE in piazza lo sommerge di applausi quando dice quasi urlando che “la democrazia dove non c'è uguaglianza è un guscio vuoto. Silvio Berlusconi è l'illegittimo impedimento che non ci permette di godere di una vera civiltà democratica”. Mentre la maratona continua a Piazza del Popolo, in mille altri punti di Roma, al centro e nei quartieri periferici, i movimenti organizzano altre manifestazioni. Nel pomeriggio militanti di Greenpeace appendono uno striscione antinucleare sul Colosseo.
Una mobilitazione generale confortata dal tam-tam sui sondaggi. Ne circolano tanti, quelli delle società demoscopiche più accreditate danno il quorum ad un filo di lana. Anche quelli consultati da Berlusconi che parlano di una forbice molto vicina al 50%. Il Cavaliere teme che domani, nonostante la calura, la gente deciderà di non andare al mare. Problemi non ce ne sarebbero nel Nord-Est e nell'Italia Centrale, ad un passo dall'obiettivo nel Nord-Ovest, problemi seri nel Sud. Ecco perché sono in tanti gli artisti che dal palco lanciano appelli al voto. “Siamo come quelli è l'immagine usata da Antonio Di Pietro che stanno per arrivare alla riva del risultato e quando qualcuno gli chiede se si sta per arrivare, io rispondo: ‘Nuota, fratello, nuota’”'. E ci sarà ancora da nuotare nelle ultime ore per convincere indecisi, distratti, scettici. Certo che le chiazze di vuoto che tratteggiano Piazza del Popolo non aiutano. Sindacalisti e politici non sono sul palco per evitare le polemiche sulla strumentalizzazione dei referendum che ci sono state negli ultimi giorni tra psartiti e comitati.
MARTEDÌ scorso si era raggiunta una sorta di intesa sulla presenza dei leader dei partiti alla manifestazione conclusiva, ma l'equilibrio si è rotto con la lettura dei giornali di mercoledì mattina e i titoli che annunciavano un accordo Pd-Idv per la piazza unitaria. Guglielmo Epifani fa un giro nel retro-palco, osserva i troppi vuoti, si stringe nelle spalle e si lascia andare ad una considerazione: “Se ci avessero chiesto un consiglio... ”. Gianfranco Mascia, attivista del Popolo Viola, minimizza. “Questa non è una manifestazione, ma una festa popolare per il voto. Movimenti e partiti non c’entrano, ad organizzare questa maratona sono stati i ragazzi di Etruria Festival. E poi guardiamo il web, face-book, le dirette streeming. C'è una piazza vera e una virtuale, in quest'ultima stiamo avendo centinaia di migliaia di contatti”. Battiquorum e velati ottimismi. Si continua a nuotare tutti fino alle 15 di lunedì con la speranza che si possa ribaltare l'antico motto “Piazze piene urne vuote”.

l’Unità 11.6.11
Sì, battiamo i privilegi
di Moni Ovadia


I l raggiungimento del quorum e la conseguente vittoria del fronte referendario assumerebbe un significato politico decisivo per il futuro del nostro paese e non solo del nostro paese. In particolare il quesito che riguarda l'acqua contiene in se un orizzonte ben più ampio del suo merito specifico. Una vittoria dei sì per affermare che l'acqua è bene comune, potrebbe inaugurare una rimessa in discussione dell'ideologia privatistica ed economicista del mondo che considera l'intero creato, essere umano incluso, costituito da una serie di commodities negoziabili sui cosiddetti mercati, ma soprattutto territorio violabile e violentabile con ogni forma di speculazione selvaggia.
Gli idolatri del mercato, da che il thatcherismo e le reganomics hanno fatto il loro impetuoso esordio sulla scena mondiale, hanno fatto gabellato per oro colato, l'idea che la privatizzazione di ogni attività economica sia la panacea di tutti i mali. È falso. L'ultima crisi economica mondiale ha smascherato questa ignobile menzogna dei signori del privilegio.
Per quanto attiene al bene acqua basta informarsi sulle ragioni della ripubblicizzazione dell'acqua a Parigi, dopo anni di fallimentare gestione privata. La lungimirante decisione ha portato solo vantaggi: alla qualità del servizio, alla qualità intrinseca del bene, alle tasche dei cittadini e da ultimo alle casse della municipalità, 35 milioni di Euro, permettendo all'amministrazione di investire nel welfare ancora a vantaggio dei cittadini. L'economia pubblica del bene comune è una scelta al servizio della società. Ed è la società civile che deve dettare questa priorità al ceto politico.

«l’esperienza radicale è stata spesso la scuola contemporanea del trasformismo»
l’Unità 11.6.11
Un popolo di poeti, eroi e voltagabbana
Il noto comparatista parla di questa moda tutta italiana, quella di cambiare casacca, e spiega: «È un sintomo post-moderno negativo di una società liquida come la nostra. E Scilipoti ne è la caricatura all’ennesima potenza»
Le radici storiche sono nel trasformismo parlamentare dei primi anni d’Unità d’Italia
intervista di Roberto Carnero


BORDEAUX. Che ne è oggi dell’impegno degli intellettuali italiani? E, prima ancora, esistono ancora veri intellettuali in Italia? Se ne è discusso all’Università di Bordeaux. Il più noto comparatista italiano, Remo Ceserani, ha svolto una relazione sulla figura, tutta italica, del voltagabbana. Una tipologia di personaggio oggi molto presente nel nostro Paese, tra i politici, ma anche tra gli uomini di cultura. Tra gli esempi riportati da Ceserani, a un uditorio francese piuttosto sconcertato, il «responsabile» Domenico Scilipoti (passato dalla sera alla mattina da Antonio Di Pietro a Silvio Berlusconi), l’ex presidente del Senato e tutt’ora senatore Pdl Marcello Pera (da giovane simpatizzante radicale, oggi vicino alle posizioni del cattolicesimo più reazionario), i giornalisti Paolo Guzzanti (prima socialista, poi berlusconiano, poi antiberlusconiano fu lui a coniare il termine «mignottocrazia», che Ceserani ha faticato un po’ a tradurre in francese prima di tornare nuovanente a sostenere il Cavaliere) e Giampaolo Pansa (prima a sinistra, ora artefice, da destra, di un acceso revisionismo storiografico sulla Resistenza), i politici Claudio Velardi (prima consulente di Massimo D’Alema, poi di Renata Polverini) e Daniele Capezzone (prima radicale ora portavoce del Pdl). E, ancora, Giuliano Ferrara, Vittorio Sgarbi, Daniela Santanché, Tiziana Maiolo. Insomma, cambiare casacca per opportunismo e tornaconto personale, anche se ammantandosi di nobili motivazioni, sembra essere diventata una moda radicata e diffusa a tutti i livelli.
Professor Ceserani, come mai ha deciso di partire da Scilipoti per questa sua carrellata di voltagabbana? «Perché Scilipoti è la caricatura del voltagabba, è un voltagabbana all’ennesima potenza, quindi diventa quasi la parodia di una maschera della commedia dell’arte italiana. Il suo caso è talmente estremo da apparire quasi surreale. Ma sono ancora più paradossali i tentativi di giustificare i propri comportamenti che offre a chi gliene chieda spiegazione: un’autentica arrampicata sugli specchi, senza alcun vero argomento». Che cosa la colpisce maggiormente nella sua vicenda?
«L’assenza della benché minima motivazione ideologica o anche solo ideale. Scilipoti è passato dal populismo di sinistra (Di Pietro) al populismo di destra (Berlusconi) senza battere ciglio, anzi, senza forse neanche accorgersi del triplo salto carpiato che ha compiuto. Il voltagabbana classico dà una giustificazione al proprio mutamento di posizioni. Qui siamo nella commedia dell’assurdo. Scilipoti è un personaggio pirandelliano: uno, nessuno e centomila». Perché secondo lei il «voltagabbanismo» è un vizio tipicamente italiano? «La radice storica di questo malcostume sta nel trasformismo parlamentare che ha connotato, sin dall’inizio della vita unitaria della nazione, la prassi politica. Nei primi decenni della vita parlamentare tale pratica trovava giustificazione nell’assenza di differenze ideologiche sostanziali tra destra e sinistra. Poi questa tendenza si è protratta nel tempo fino ai nostri giorni, seppure in un contesto radicalmente mutato. Non a caso i voltagabbana sono frequenti oggi, quando sono venute meno le grandi ideologie del ’900. Si tratta, insomma, di un sintomo tutto postmoderno, tipico di una società liquida come la nostra. Ma, va ribadito, di un sintomo assolutamente negativo, del sintomo, cioè, di un’autentica patologia del tessuto civile prima ancora che di quello politico».
In diversi personaggi tra quelli che ha nominato (da Pera a Capezzone) c’è, all’inizio della loro carriera, una militanza o quanto meno una simpatia per il Partito radicale. Come spiega questa costante? «Perché Marco Pannella è stato davvero una nave scuola, ha insegnato a tutti loro tecniche di lotta politica alternative a quelle dei partiti tradizionali. Ad esempio Capezzone ha portato le proprie conoscenze nel campo della comunicazione al servizio di tutt’altra causa. Così l’esperienza radicale è stata spesso la scuola contemporanea del trasformismo». Ma non è lecito cambiare idea? «Certo, e nella storia della cultura occidentale le grandi conversioni hanno dato origine a grandi narrazioni: da San Paolo a Sant’Agostino fino ad Alessandro Manzoni, nella conversione classica c’è sempre qualcosa di nobile, di ideale. Ma qui non compare nulla di tutto questo. Non c’è la dimensione alta, tragica, ma solo quella bassa, farsesca».
I politici che mutano bandiera, però, rivendicano la legittimità del loro comportamento richiamando l’articolo 67 della Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»...
«Sì, ed è sacrosanto che i padri costituenti abbiano voluto questa frase. Ma va chiarita una cosa: quell’articolo della nostra Carta fondamentale è stato scritto per garantire la libertà di coscienza dei parlamentari di fronte alle grandi problematiche etiche. Le giustificazioni di chi cambia schieramento parlamentare snaturano il senso della legge». Ma prima ancora di Scilipoti, forse bisognerebbe parlare di Berlusconi... «Ma no, perché in questo Berlusconi è un modello inarrivabile, è un fuori classe, non sono possibili paragoni. Baciare la mano a Gheddafi e poi sganciargli le bombe sulla testa, essere un giorno per l’Unità d’Italia e il giorno dopo per un federalismo spinto, essere per il libero mercato e insieme favorire precisi gruppi di interesse economico, sostenere le posizioni morali della Chiesa cattolica e insieme diffondere tramite le tv commerciali di famiglia una visione assolutamente materialistica ed edonistica della vita, per non parlare dei modelli di comportamento offerti dalla sua vita privata... In Berlusconi c’è tutto e il contrario di tutto, da sempre. Per questo non può essere un volta gabbana. Perché non ha ideali, ma solo istinti: gli istinti più bassi del capitalismo».

Chi è
Studioso di letteratura all’Italia e all’estero

Remo Ceserani è uno dei più importanti studiosi di Letterature comparate a livello mondiale. Ha insegnato in varie università, italiane e straniere. È inoltre autore di numerosi volumi di storia e teoria letteraria e di critica tematica, «Raccontare il postmoderno» (Bollati Boringhieri) e, con Lidia De Federicis, «Il materiale e l’immaginario» (Loescher 1978), un’antologia in dieci volumi che ha avuto un grande successo nella scuola secondaria. R. CARN.

Repubblica 11.6.11
Il pianto di Grossman davanti al muro dei figli perduti
di Fabio Scuto


Gerusalemme. In sordina, quasi senza alcun annuncio, esce in Israele in occasione della Settimana del Libro Ebraico, l´ultima fatica di David Grossman. Difficile definire Fuori dal tempo ("Nofel Mihutz Lazman", pagg.187) un "semplice" romanzo e infatti lui stesso lo definisce nel sottotitolo un "racconto a più voci". È quasi una pièce teatrale dove i personaggi, "voci" senza un nome, recitano per lo più monologhi in versi liberi, da cui, poco alla volta, si evince la trama. Una sera, un Uomo, il cui figlio è morto cinque anni prima, decide di mettersi in cammino per andare ad incontrarlo "laggiù". La Moglie tenta di dissuaderlo, ma invano, lui non vuole sentire ragioni andrà "laggiù". Al cammino dell´Uomo, si uniscono via via altri personaggi: il Duca, la Levatrice con il Calzolaio suo marito, il Vecchio Maestro di Calcolo, la Rammendatrice delle Reti da Pesca, tutti accomunati dal dolore di aver perduto un figlio o una figlia e di non essere riusciti a "parlarne". La marcia dei derelitti – che avviene in cerchio, sulle colline che circondano una città fantastica – è documentata, per ordine del Duca, dallo Scriba delle Cronache Cittadine, che, come si rivelerà in seguito, ha anche lui perduto un figlio. Ma è seguita da lontano anche da "Centauro": uno scrittore che dopo la morte del figlio non è più riuscito ad alzarsi dalla scrivania, questa è diventata parte del suo corpo, ma lui non è più riuscito a scrivere una parola. Alla fine il gruppo giunge alla meta: su una muraglia compaiono, come su uno schermo plastico, bassorilievi a forma di volti e altre parti del corpo, nelle quali ai genitori sembra di riconoscere le sembianze dei propri ragazzi. Ma forse è solo una suggestione: la muraglia scompare rapidamente e con essa le figure. All´Uomo-che-cammina resta solo la consapevolezza dell´inevitabilità del distacco finale.
David Grossman continua a vivere nei personaggi dei suoi libri. Un filo diretto lega il bambino Momik di Vedi alla voce: Amore, il primo grande romanzo che gli diede notorietà internazionale, all´Uomo che cammina in Fuori dal tempo. Entrambi devono misurarsi con un "laggiù", misterioso e pericoloso, nel caso di Momik è il luogo dove viveva la "bestia nazista", posto da cui non si torna e se si torna si rimane menomati nel corpo e nella mente; nel caso dell´Uomo-che-cammina è il luogo dove si trovano i figli morti, separati per sempre da una muraglia invalicabile. Un´esperienza atroce che Grossman attraversa dal luglio 2006, quando nell´ultimo giorno di guerra suo figlio Uri morì lungo il fronte con Libano.
Fuori dal Tempo è un libro complesso, su più piani narrativi, su cui bisogna tornare più di una volta per coglierne il senso più profondo. È un libro sofisticato e contemporaneamente uno dei più umani che Grossman abbia mai scritto, supera la barriera dell´intelligenza analitica per colpire direttamente quella emotiva. È un viaggio nel profondo dell´animo umano che, se apparentemente si svolge in gruppo, in realtà è un processo solitario di elaborazione di un lutto senza fine. Solo l´accettazione della morte del figlio - "la sua morte non è morta" – riesce a ridare le parole a chi le aveva perdute.

Repubblica 11.6.11
Commosso dalla primavera araba
Lo scrittore premio Nobel Orhan Pamuk è tornato a Istanbul per seguire la campagna elettorale
"Il mio paese tra cultura e democrazia ecco perché l´Europa sbaglia a rifiutarci"
Assistere alla primavera araba e alla caduta dei dittatori dall´Egitto alla Tunisia mi ha commosso fino alle lacrime
intervista di Marco Ansaldo


Orhan Pamuk, la Turchia va al voto ma all´estero diventa un polo d´attrazione per le rivolte arabe. Lei come giudica questo momento politico così intenso?
«La Turchia è sempre più protagonista. Lo vediamo nella cultura, nelle arti, nei film. Ma lo constatiamo anche in politica. Ad esempio, per quanto riguarda gli avvenimenti più recenti attorno ai confini del mio Paese, assistere alla primavera araba e alla caduta dei dittatori mi ha commosso fino alle lacrime».
Il premio Nobel per la letteratura turco, gira il mondo per mestiere e per piacere, ma dopo qualche mese finisce sempre per tornare nella sua Istanbul. Chi lo conosce bene sostiene, anzi, che «Pamuk non può vivere lontano dalla sua città». Ed è vero. La scorsa settimana il grande scrittore di "Neve" e di "Altri colori" è stato in Italia. Poi è rientrato per assistere agli ultimi giorni di campagna elettorale.
La Turchia che non riesce a entrare in Europa guarda al Vecchio continente con occhi ormai pieni di disincanto?
«Nei miei libri, come l´ultimo da poco uscito in Italia ("Il signor Cedvet e i suoi figli", Einaudi), ci sono spesso personaggi ricchi della Turchia degli anni Trenta. Costoro coltivavano in maniera molto assidua il desiderio di occidentalizzazione. E l´Europa, in quegli anni, definiva davvero i colori del mondo. Era così nell´economia, nella cultura».
Ora il sogno europeo si è rotto?
«Adesso credo che il mondo non sia più così. E c´è una pletora di motivi a dimostrarlo. Ad esempio l´Europa si è arricchita molto. Poi però sono diventate più ricche anche una serie di nazioni, non occidentali, che hanno acquisito fiducia, e pure una certa rabbia nei confronti dell´Europa, del risentimento».
Come la Turchia che si sente rifiutata. Ma Occidente ed Europa rappresentano ancora il faro della cultura? Oppure le rivolte in Africa e in Medio Oriente ci mostrano che il vento è cambiato?
«E´ una domanda molto grande. Nelle democrazie ci sono tutta una serie di valori, per i diritti umani, le donne, la libera informazione, che non sono più esclusivo patrimonio dell´Europa. Ma sono diventati istanza dei Paesi che un tempo non li avevano».
Sono le richieste della cosiddetta primavera araba?
«Sì, il grido degli arabi, in Tunisia, in Egitto e negli altri Paesi musulmani, prova il desiderio per questi valori. Osservare questa cosa mi ha fatto quasi piangere».
Dalla commozione?
«Forse la reazione, di primo acchito, è stata di carattere sentimentale, per la caduta di questi tiranni. E poi anche per considerazioni culturali».
Quali?
«Quando vivevo in America, ad esempio, sono stato vittima di pregiudizi sull´Islam. Dicevano che era un sistema iperobbediente a un tiranno. Cosa che per molti Paesi non era così. Ecco, oggi plaudo al fatto che questo ragionamento sia stato scardinato dai fatti. Lo dicevano senza conoscere la Turchia». (m. ans.)

Corriere della Sera 11.6.11
Turchia, il ministro per l’Europa Egemen Bagis
«Siamo noi l’ispirazione della primavera araba»
«Il nostro obiettivo è Bruxelles perché vogliamo essere parte del più grande progetto di pace del mondo, la Ue»
di Monica Ricci Sargentini


ISTANBUL— L’autobus avanza lentamente per le strade di Maltepe, popoloso quartiere di Istanbul sul lato asiatico, la musica si alterna a una voce che ripete: «Egemen Bagis vi saluta, cittadini è il momento di diventare grandi, camminiamo insieme verso il futuro» . Lui, 41 anni, ministro per gli Affari dell’Unione Europea, uomo di punta dell’Akp, è in piedi da ore ma non si stanca di salutare gli elettori che domani dovranno votarlo nel primo distretto della città dove è in lista subito dopo il premier Erdogan. Tra una stretta di mano e l’altra si rivolge al Corriere: «Quando metteranno la scheda nell’urna— dice— queste persone guarderanno al loro stile di vita, a cosa abbiamo prodotto in questi anni: 13 mila chilometri di strade, una crescita economica dell’ 8,5%contro l’ 1,5%del resto d’Europa e un reddito pro capite passato dai 2.300 dollari l’anno a 11.000. Nessuno farà caso alla spazzatura pubblicata dalla stampa straniera prima del voto» . Il suo governo ha certo migliorato la vita della gente, ma spesso è accusato di non tollerare le critiche. L’Economist ha invitato i turchi a votare l’opposizione per il bene della democrazia. Lei cosa risponde? «Il Paese non è mai stato così trasparente. Ora le persone sono più libere. L’idea che in Turchia ci sia una deriva autoritaria è semplicemente assurda» . Ma la libertà di stampa non è a rischio? In prigione ci sono 57 giornalisti. «I procuratori hanno già chiarito che i reporter arrestati non sono imputati per le loro opinioni o quello che hanno scritto, ma perché hanno commesso dei crimini. E per quanto riguarda gli arresti di massa ricordatevi di Gladio e di Mani pulite» . La politica estera della Turchia è cambiata negli ultimi anni, il Paese è considerato un modello da gran parte del mondo arabo. Ankara ora guarda ad Est? «La Turchia non sta andando né a est né a ovest, la Turchia sta crescendo e sta diventando più sicura di sé. Lo stesso anno in cui abbiamo iniziato il percorso di ammissione all’Ue abbiamo anche assunto la segreteria generale dell’organizzazione della Conferenza islamica. Siamo diventati membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu dopo 47 anni. Stiamo negoziando per la pace tra Siria e Israele, Russia e Georgia, Afghanistan e Pakistan, Iraq e Siria. Siamo la parte più ad est dell’Occidente e la parte più ad occidente dell’Est. Ma il nostro obiettivo è Bruxelles perché vogliamo essere parte del più grande progetto di pace del mondo, l’Ue» . Due anni fa in un’intervista al Corriere Erdogan aveva chiesto all’Europa di dire una parola chiara sull’ammissione. A che punto siamo? «Solo l’ 8%dei turchi pensa che la Ue sia sincera con noi, per gli altri sta facendo il doppio gioco. Guardi la questione del visto: i brasiliani possono entrare nell’area Schengen senza problemi, per noi è una vera tortura. Su Cipro la parte turca ha approvato il piano dell’Onu, ma resta sotto embargo. E poi ci sono quei 20 capitoli sulla strada della Ue: 17 sono bloccati da singoli Stati per motivi di politica interna» . Quindi secondo lei l’obiettivo è lontano? «No. Io dico che l’Europa deve prendere la decisione giusta e deve farlo ora. Dobbiamo diventare membri al più presto. Quale garanzia migliore di una Turchia democratica, che l’entrata nell’Unione? L’Occidente dimostri di essere sincero con noi. Durante la guerra fredda abbiamo protetto i nostri alleati della Nato, ma ora vediamo gli ex Paesi sovietici entrare nel club, mentre noi restiamo fuori. Dovevamo forse diventare membri del Patto di Varsavia invece che della Nato?» Qual è la sua posizione verso la primavera dei Paesi arabi? In particolare cosa pensa della situazione in Siria? «Non è la prima volta che abbiamo rifugiati al confine e come nostra tradizione li accoglieremo e accudiremo. In questi Paesi c’è stato un grosso cambiamento: prima si scendeva in piazza solo contro Israele, ora le persone chiedono democrazia, lavoro, libertà. Vogliono essere come la Turchia. Noi siamo la loro fonte di ispirazione» .

Corriere della Sera 11.6.11
Incontro con Nabil El Arabi
In bilico tra vecchi e nuovi amici Il grande gioco dell’Egitto di domani
I temi caldi: mediazione in Medio Oriente, asse con la Turchia, «Iran connection»
L’apertura del valico di Rafah è una libera scelta di cui un Paese sovrano non è tenuto a rendere conto
di Sergio Romano


Ogni ministero degli Esteri si considera il tempio dell’interesse nazionale, il luogo dove la continuità prevale sul colore dei governi e sugli indirizzi della politica interna. Quello della Repubblica egiziana non fa eccezione. Nel grande palazzo che ospita la sua diplomazia, due lunghi corridoi del piano nobile (quello in cui sono gli uffici del ministro e dei suoi principali collaboratori) sono dedicati agli «antenati» , vale a dire ai ritratti di coloro che hanno diretto la politica estera del Paese. I più vecchi portano il fez, un copricapo ottomano che fu di moda in Egitto sino all’abdicazione di re Farouk e al breve regno del figlio Fouad, ultimi sovrani della dinastia di Mohamed Ali Pascià. I più recenti sono ritratti a capo scoperto. La serie s’interrompe durante il protettorato britannico e ricomincia dopo il ritorno all’indipendenza. Amati o detestati dai loro contemporanei, tutti i ministri degli Esteri appartengono alla nazione e hanno diritto agli stessi onori. Fra qualche settimana, nella galleria dei ritratti vi sarà anche quello della persona con cui ho un appuntamento. La permanenza di Nabil El Arabi alla testa del ministero degli Esteri verrà ricordata come una delle più brevi nella storia del Paese: dal 6 marzo, quando venne chiamato dai militari a far parte del governo post-rivoluzionario di Essam Sharaf, al 15 giugno, quando si trasferirà nel palazzo della Lega Araba in piazza Tahrir per divenirne il segretario generale. Ma sarà ricordata come quella dell’uomo che ha fatto in poche settimane almeno tre cose: ha presieduto alla riconciliazione palestinese, ha aperto Rafah, il valico di frontiera che separa l’Egitto dalla Striscia di Gaza, ha avviato i contatti per la ripresa dei rapporti diplomatici con l’Iran. E sarà anche ricordato probabilmente come il primo ministro degli Esteri egiziano, da molti anni a questa parte, che ha meritato un giudizio sospettoso, diffidente, quasi ostile del Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. El Arabi ha avuto incarichi diplomatici, ma è principalmente un giurista. Ha partecipato come consulente legale agli accordi di Camp David fra l’Egitto e Israele nel 1978, è stato giudice alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja sino al 2006, ha fatto parte della commissione che ha espresso un parere sulla costruzione del muro israeliano e ha criticato il governo di Gerusalemme, nel corso di questi anni, con argomenti soprattutto giuridici. Mi accoglie in italiano (ha studiato a Roma quarant’anni fa), ma passiamo rapidamente all’inglese e parliamo anzitutto della mediazione egiziana per la conclusione dell’accordo fra i discendenti palestinesi di Yasser Arafat e i cugini separati di Hamas. Quando osservo che l’accordo è stato indirettamente facilitato dalla rivoluzione del 25 gennaio, El Arabi ricorda che la mediazione egiziana era cominciata da tempo e preferisce mettere l’accento sulla continuità della politica estera del suo Paese. L’intesa, secondo il ministro, sarebbe stata resa possibile dalla evoluzione della linea di Hamas dopo l’inizio della crisi siriana: gli islamici della Striscia temevano di perdere la protezione di Damasco e sono diventati più concilianti. È vero, ma soltanto in parte. Il mediatore, prima della rivoluzione, era il generale Omar Suleiman, capo dei servizi segreti e noto per essere il migliore amico di Israele nella regione. Oggi, grazie ai documenti caduti nelle mani del giornalista Robert Fisk e pubblicati dall’Independent del 7 giugno, sappiamo che una delegazione composta da palestinesi delle due parti, andò al Cairo il 10 aprile ed ebbe conversazioni con l’Intelligence egiziana, con Amr Moussa, segretario della Lega Araba, e con El Arabi, da poco installato al ministero degli Esteri. L’Intelligence promise che lo spirito della mediazione sarebbe cambiato. Moussa dette la benedizione della Lega. El Arabi volle riceverli e ascoltarli alla presenza del ministro degli Esteri turco, allora in visita al Cairo: il modo migliore per garantire ai palestinesi che da quel momento i mediatori egiziani avrebbero smesso di adottare la tattica dilatoria di Suleiman. Da quel momento i negoziati sono diventati pragmatici, concreti, animati dal desiderio di raggiungere un’intesa. Sull’apertura del valico di Rafah, invece, ho l’impressione che la svolta egiziana sia stata più formale che sostanziale. Il gesto non avrà per effetto il libero passaggio attraverso la frontiera e i controlli continueranno a essere piuttosto restrittivi. Ma El Arabi respinge le critiche israeliane. Il regime del valico non rientra negli accordi con Israele, che il nuovo Egitto intende rispettare. È una libera scelta di cui un Paese sovrano non è tenuto a rendere conto. Passiamo ai rapporti con l’Iran. Qualche giorno fa i servizi egiziani hanno arrestato un diplomatico iraniano, lo hanno accusato di spionaggio e lo hanno espulso. Ma sull’aereo che lo riportava a Teheran viaggiava anche una delegazione egiziana. Nelle scorse settimane ve ne sono state due: la prima limitata a tre intellettuali, fra cui uno studioso dell’università di Al Azhar, la seconda composta da cinquanta persone che rappresentano diverse opinioni, confessioni e attività professionali. El Arabi mi dice che i contatti per la piena ripresa dei rapporti diplomatici (oggi ciascuno dei due Paesi ha nell’altro soltanto un ufficio di rappresentanza) richiederanno un negoziato piuttosto lungo. Ma poi si chiede perché l’Egitto non dovrebbe avere rapporti diplomatici con un Paese importante della regione a cui appartiene. In una intervista, qualche settimana fa, ha detto che l’Iran ha il diritto di fare una politica corrispondente al suo ruolo e che non bisogna avere paure ingiustificate. Parliamo infine della Libia, con cui l’Egitto ha una lunga frontiera che gli abitanti della regione (spesso appartenenti alle stesse tribù e legati da vincoli familiari) attraversano liberamente senza visti e passaporti. La maggiore preoccupazione di El Arabi è la sorte della comunità egiziana. Dice che del milione e mezzo di connazionali che vivevano in Libia prima della guerra civile, 250 mila sono tornati in Egitto attraverso la sua frontiera occidentale, mentre 150 mila si sono rifugiati in Tunisia. Più di un milione, quindi, sono ancora in Libia, nel mezzo di un conflitto che ha paralizzato l’economia del Paese. Sono queste le ragioni per cui l’Egitto auspica una rapida cessazione delle ostilità. Ma non mi sembra che ponga come condizione l’estromissione di Gheddafi: una posizione alquanto diversa, quindi, da quella della Nato e delle maggiori potenze occidentali. Negli anni di Mubarak l’Egitto aveva una politica estera costante e prevedibile, fondata su tre rapporti di ferro: con gli Stati Uniti, con Israele e con l’Arabia Saudita. Erano rapporti che permettevano al regime di valorizzare la propria politica anti-jihadista mercanteggiandola contro i finanziamenti degli Stati Uniti alle Forze armate e il diritto di governare con metodi autoritari. Oggi, dopo la defenestrazione di Mubarak e il ruolo politico assunto dalla Fratellanza musulmana, questa politica estera, senza rinunciare alle relazioni con l’America e con l’Occidente, deve essere aggiustata e corretta. El Arabi ha cominciato a disegnare nuove tendenze e molto, in ultima analisi, dipenderà dalla fisionomia politica e sociale dell’Egitto alla fine della transizione di cui abbiamo parlato negli scorsi giorni. Ma qualcuno intravede già nei prossimi anni una Triplice composta da Paesi che hanno grosso modo la stessa dimensione, la stessa consistenza demografica, gli stessi interessi a non complicarsi la vita vicendevolmente e, sul piano economico, una certa complementarietà: Egitto, Iran, Turchia. (3-fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 6 e il 9 giugno

Corriere della Sera 11.6.11
Tutela dei beni culturali
Settis folgorato dallo Stato etico
di Marco Romano


Quasi tutti ricordano quel bambino che in una novella di Andersen, I vestiti nuovi dell'imperatore, vedendo passare il corteo reale, dice quanto tutti gli adulti non osano denunciare, che «il re è nudo» . Ecco, un ruolo analogo è oggi quello di un esile pamphlet di 26 pagine — Luca Nannipieri, Salvatore Settis, La bellezza ingabbiata dalla Stato, (Ets, e 8) — che sottolinea quanto molti sanno per esperienza diretta ma non dicono. È vero che paesaggi, città, borghi, abbazie, castelli sono un patrimonio fondamentale della nazione e noi siamo chiamati ad amarlo e a conservarlo. Ma non è vero che il senso condiviso di questo patrimonio debba essere affidato alla struttura impersonale delle norme, dei codici, delle procedure amministrative, del ministero, in sostanza soprattutto alla sfera istituzionale dello Stato: questo patrimonio ha senso soltanto quando le singole persone lo condividono. E in effetti la nostra Costituzione affida la tutela non allo Stato, ma alla Repubblica, e la Res publica è costituita sì dallo Stato, dalle Regioni, dai Comuni ma sopratutto da tutti i suoi singoli cittadini che al riconoscimento di questo patrimonio collettivo affidano la consapevolezza della propria identità. E questo volevano i Costituenti: la prima versione dell'art 9, che recitava appunto «Lo Stato protegge» , verrà infatti consapevolmente corretta nella versione attuale, «La Repubblica tutela» . Oggi a restaurare con cura un'antica chiesa, un castello, una casa sono persone, sono gruppi di persone, sono i Comuni che proteggono il loro centro storico, sono le Casse di risparmio che li finanziano, sono davvero quella Repubblica che Settis, quasi ossessionato dal principio gerarchico di uno Stato etico, semplicemente non vede. Lo Stato ha un suo ruolo ma solo di primus inter pares, di interprete di un punto di vista che riconosce e integra quelli di tutta l'articolazione della nazione fino al privilegio delle singole persone: a non volerlo riconoscere finirà che le Regioni, più vicine ai loro cittadini, chiederanno di assumersi i compiti che oggi il ministero pretende per sé. Marco Romano

Repubblica 11.6.11
Battiato: vi canto i grandi poeti arabi che hanno fatto l´Italia
In tour con "Diwan, l´essenza del reale"
Tutto ho fatto nella mia vita tranne che provocare. Ho sempre privilegiato gli incontri tra letteratura e musica
di Giacomo Pellicciotti


ROMA. Franco Battiato ha trovato un modo molto singolare di festeggiare i 150 anni dell´Unità d´Italia, riscoprendo quei misconosciuti poeti arabi che nella sua Sicilia, per quasi tre secoli a partire dall´anno Mille, lasciarono affascinanti tracce in versi destinati a influenzare la poesia italiana classica. S´intitola Diwan, l´essenza del reale l´insolito progetto poetico-musicale che l´artista catanese presenta oggi a Barletta, domani all´Auditorium di Roma e lunedì al Comunale di Bologna. Con Battiato sale sul palco un eterogeneo gruppo di musicisti con esperienze e lingue diverse ma comunicanti: Etta Scollo, Nabil Salameh dei Radio Dervish, la cantante araba Sakina Al Azami, H. E. R., il pianista Carlo Guaitoli, Gianluca Ruggeri del PMCE, Jamal Ouassini e le prime parti della Tangeri Café Orchestra.
La lingua italiana ha preso diverse parole dall´arabo, ma non tutti sanno o ricordano che i poeti fiorentini del Trecento sono stati influenzati dalla poesia della scuola siciliana dei mitici arabi. Primo fra tutti il sommo Ibn Hamdis, nato da una famiglia nobile più o meno nel 1056 tra Siracusa e Noto. Battiato gli dedica un´attenzione speciale, modulando con la sua voce da muezzin alcuni testi del poeta arabo-siciliano, il più grande interprete della poesia araba di Sicilia tra l´XI e il XII secolo. I versi scelti dal suo ricco diwan, il canzoniere di componimenti poetici, sono diventati il testo di una nuova canzone con musica di Battiato che viene presentata per la prima volta in concerto.
In un´Italia che si accapiglia per la costruzione di una moschea a Milano non somiglia a una provocazione festeggiare i 150 anni dell´Italia rievocando i poeti siciliani in lingua araba? Alla domanda il musicista di Jonia reagisce con stupore e un pizzico di risentimento: «Tutto ho fatto nella mia vita tranne che provocare. Ho accolto una proposta di Oscar Pizzo, musicista e amico. Non per niente ho studiato l´arabo per tre anni all´Ismeo di Milano, in passato con la mia casa editrice ho pubblicato libri di mistici sufi e ho sempre privilegiato gli incontri tra la letteratura e la musica. E allora perché non ricordare questi poeti che hanno contribuito alla fondazione della cultura del nostro paese? Faccio l´esempio di Ibn Hamdis. Fu costretto a scappare dalla Sicilia all´arrivo dei Normanni e riparò a Siviglia, accolto nella corte di un principe-mecenate. Viaggiò ancora, ma soffrì sempre la mancanza della terra siciliana. Mi vengono in mente versi come "Chi è assente conta i mesi dell´esilio, sulla mappa io ho contato le dune. Chi partendo ha lasciato il cuore in quella terra con il corpo desidera tornare"».
Dopo i poeti arabi da riscoprire, Franco Battiato cambia drasticamente sound, tuffandosi in un impegnativo rock tour di più di venti date che debutta a Roma il 15 luglio e termina a Torino il 15 settembre.

Repubblica 11.6.11
Se l’evoluzione si crea in laboratorio
Siamo umani o postumani? Le nuove sfide della bioetica
Costruire una specie perfetta ecco il nuovo dilemma dell´umanità
di Stefano Rodotà


Biologia, genetica, nanotecnologie: la scienza oggi è sempre più in grado di trasformare la nostra specie. Ma questo progresso apre grandi dilemmi etici: dobbiamo lasciar fare alla natura o è giusto governare i meccanismi dell´evoluzione? E ancora: visto che queste possibilità non sono alla portata di tutti, come possiamo garantire il diritto all´uguaglianza? Ecco perché la chance di diventare perfetti ci pone davanti a sfide inedite 

Affermando i diritti alla modificazione del corpo si pone la questione dell´eguaglianza Riconosciuta la legittimità di una costruzione artificiale tutti devono accedervi in condizioni di parità pena la nascita di una società castale

LA SPECIE umana, unica, si avvia a essere sostituita da una molteplicità di specie, con un passaggio dal singolare al plurale reso inevitabile da una tecnoscienza che ci avvicina sempre più al post-umano? Entrando in questo mondo nuovo, più che il riferimento abituale all´utopia negativa di Aldous Huxley, vale il ricordo di quel che scriveva Guenther Anders, chiedendosi già nel 1956 se l´uomo fosse antiquato: «Come un pioniere, l´uomo sposta i propri confini sempre più in là, si allontana sempre più da se stesso; si "trascende" sempre di più - e anche se non s´invola in una regione sovrannaturale, tuttavia, poiché varca i limiti congeniti della sua natura, passa in una sfera che non è più naturale, nel regno dell´ibrido e dell´artificiale».
Parole nelle quali si può cogliere l´eco delle Magnalia naturae, descritte nel 1627 da Francis Bacon in appendice alla Nuova Atlantide: «prolungare la vita; ritardare la vecchiaia; guarire le malattie considerate incurabili; lenire il dolore; trasformare il temperamento, la statura, le caratteristiche fisiche; rafforzare ed esaltare le capacità intellettuali; trasformare un corpo in un altro; fabbricare nuove specie; effettuare trapianti da una specie all´altra; creare nuovi alimenti ricorrendo a sostanze oggi non usate».
Lontane nel tempo, queste due posizioni riflettono modi assai diversi di guardare al "trascendersi" della persona, con un passaggio dallo sguardo ottimistico lanciato sul futuro da Bacon ad una riflessione sulla quale incombe la bomba atomica, che segna drammaticamente l´uscita dalla guerra, ma ipoteca in modo altrettanto drammatico il futuro. Oggi, realisticamente, il destino del genere umano appare affidato a scienza e tecnica, che lo immergono nella storia, lo liberano progressivamente da caso e necessità, fino a prendere congedo della natura.
Di fronte alla radicalità di questo passaggio, alla discontinuità che descrive, l´etica torna prepotentemente in campo, la politica si divide, il diritto si interroga sul proprio ruolo. Parole nuove ci accompagnano – biopolitica, bioetica, biodiritto. E, con esse, l´umanità sembra voler "uscire da se stessa", nel senso almeno che si svincola dalla pura logica darwiniana, affidandosi ad una evoluzione tutta legata ad una tecnica direttamente governata dalle persone. Intorno al corpo di ciascuno si addensano le possibilità incessantemente offerte da biologia e genetica, dall´innovazione informatica, dalle neuroscienze, dalle nanotecnologie. Il corpo sta per trasformarsi appunto in una "nano-bio-info-neuro machine", versione ultima di quell´ "homme machine" di cui nel Settecento parlavano La Mettrie e D´Holbach? Il corpo, dunque il luogo per definizione dell´umano, ci appare come l´oggetto dove si manifesta e si compie una transizione che, da un canto, sembra voler spossessare la persona del suo territorio, appunto la corporeità, facendolo "reclinare" nel virtuale ; e, dall´altro, ne modifica i caratteri in forme che non da oggi fanno parlare di post-umano e di trans-umano (termine, questo, la cui introduzione è attribuita ad uno scritto del 1927 di Julian Huxley).
Il corpo ci appare così come un planetario campo di battaglia, dove si affrontano bioconservatori e transumanisti. Tenacemente impegnati, i primi, a restaurare i diritti della natura. Custodi, gli altri, di una nuova libertà, quella appunto di usare senza limiti il nuovo potere di cui siamo investiti. Ma questa polarizzazione non dà nessuna vera indicazione sul modo di governare la fase interamente nuova nella quale l´umanità è già entrata. E´ illusorio pensare che il diritto, con le sue regole artificiali, possa ricostituire le situazioni naturali profondamente modificate dalla scienza. E l´illimitata apertura all´utilizzazione di ogni nuova opportunità sembra piuttosto confermare la tesi di chi vede nella tecnica l´unico potere del nostro tempo, al quale sarebbe vano cercar di porre argini.
Ma la realtà non può essere chiusa in contrapposizioni astratte, esige distinzioni per cogliere le vere domande. Nel 2008 Oscar Pistorius, un corridore sudafricano, privo della parte inferiore delle gambe, sostituita con impianti in fibra di carbonio, si è visto riconoscere il diritto di partecipare alle Olimpiadi. Così non cade soltanto la barriera tra "normodotati" e portatori di protesi. Si prospetta una nuova nozione di normalità, che non è più soltanto quella naturalmente determinata, ma pure quella artificialmente costruita. Prendendo spunto da questa vicenda, un´altra atleta paraolimpica, Aimée Mullins, ha affermato che «modificare il proprio corpo con la tecnologia non è un vantaggio, ma un diritto. Sia per chi fa sport a livello professionistico che per l´uomo comune».
Affermando, però, il diritto d´ogni persona alla modificazione tecnologica del corpo, si pone immediatamente la questione dell´eguaglianza. Poiché siamo in presenza di straordinarie possibilità di migliorare le prestazioni fisiche e intellettuali, una volta riconosciuta la legittimità di una specifica costruzione artificiale tutti devono potervi accedere in condizioni di parità, pena la nascita di una società castale, nella quale solo chi dispone di risorse adeguate può avvantaggiarsi della tecnologia. Ma dobbiamo spingerci oltre lo stesso ineludibile principio d´eguaglianza. Un differenziarsi della specie tra umani e post- o trans-umani fa immediatamente nascere il problema di due diverse legittimazioni, di un doppio standard, di due diverse qualità dell´umano. Qui il conflitto tra persone geneticamente programmate e persone con un patrimonio genetico naturale, di cui ci ha parlato il film Gattaca di Andrew Niccol, si trasformerebbe in una concreta e generalizzata "guerra tra umani e transumani". Mentre, infatti, le differenze tra le persone determinate dalla natura portavano ad una loro accettazione sociale, ed alla nascita di quella solidarietà tra avvantaggiati e svantaggiati di cui ci ha parlato Etienne de la Boetie nel suo Discours de la servitude volontarie, la diversificazione tecnologica si rovescia nella percezione individuale e sociale di una esclusione, dunque nella radice di un conflitto, che può essere evitato solo riconoscendo a tutti una pari dignità. La dignità del corpo e nel corpo è l´altro, grande e ineludibile tema, che ritroviamo nelle parole che aprono la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea: «La dignità umana è inviolabile». La persona, dunque, inseparabile dalla sua dignità.
Ma di quale persona, di quale corpo stiamo parlando? Quando si afferma che il diritto di ricorrere alle tecnologie riguarda le decisioni relative a sé e alla propria discendenza, si equiparano situazioni tra loro profondamente diverse. L´autodeterminazione, legata o no all´uso della tecnica, deve ricevere il massimo riconoscimento quando gli effetti delle decisioni della persona si producono nella sfera dell´interessato. Non è così, invece, quando si vogliono costruire corpo e vita dell´altro, violando la sua "libertà esistenziale", presidiata dal suo consenso, che dunque non può essere sostituito dalla volontà di altri, soggetti privati o poteri pubblici.
Le immagini del corpo si moltiplicano. Lo mostrano modificato tecnicamente per "ripararne" i difetti o "migliorarne" le prestazioni, lo descrivono attraverso le costruzioni dei rapporti tra cervello e computer. Le frontiere si spostano verso forme di integrazione tra persona e macchina e nascono, nuovi e più radicali interrogativi. Un sistema bionico ibrido è una persona che può essere considerata titolare di diritti e doveri? Le componenti umane di un sistema bionico ibrido sono la stessa persona prima e dopo essere divenute l´interfaccia di componenti artificiali? Domande nuove, ma che rimandano a temi antichi, alla nave di Teseo per la quale ci si chiedeva se persistesse la sua identità originaria anche dopo che, via via, tutti i suoi pezzi erano stati cambiati.

Repubblica 11.6.11
Attenti, l'intelligenza artificiale diventerà come quella naturale
L´intelletto umano ha la forza dell´impellenza. È legato alla nostra mortalità Le macchine penseranno quando saranno consapevoli di avere un tempo determinato
di Adam Gopnik


Quando ero piccolo, al Franklin Institute di Filadelfia c´era una macchina che giocava a filetto e non perdeva mai. Indipendentemente da dove mettevi la tua X, il suo O era sempre quello giusto. Riusciva a vincere sempre o ti costringeva a un pareggio, anche se avevi il vantaggio di iniziare per primo e occupavi la casella centrale. Quella macchina appariva estremamente intelligente a un bimbetto di otto anni, ma mia madre – grande ragionatrice, linguista, esperta già allora del linguaggio di programmazione Fortran – in una delle nostre frequenti visite a quel museo mi spiegò che l´intelligenza era soltanto l´ultima delle qualità di quella macchina.
In sostanza, infatti, sapeva fare un´unica cosa: quel gioco fondamentalmente banale – e lo sapeva giocare bene soltanto perché era stata programmata per seguire un network automatizzato di interruttori on/off. Non pensava, quindi. Teneva soltanto traccia di quello che accadeva.
Le nuove macchine e i nuovi programmi sono davvero più intelligenti? Gli scettici fanno notare che ciò che essi sanno fare non è in verità ciò che noi definiamo "intelligente". Racchiudono un ampio assortimento di esempi, una grande casistica, ma la loro capacità logica non è granché diversa da quella della macchina che giocava a filetto nel museo di scienze. Hanno potenti memorie e una straordinaria capacità di analizzarla rapidamente per trovare ciò che serve in una data circostanza, ma tutto ciò non dimostra che sappiano pensare, programmare, trovare strategie, sorprendere o escogitare un piano così folle da funzionare alla perfezione. Anche se su piani diversi, in sostanza si limitano tuttora ad abbinare uno scenario familiare "A" a una soluzione predeterminata "A". Riconoscono una mossa o una situazione particolare sulla scacchiera e riescono a trovare nella loro memoria la mossa da compiere che il più delle volte porta alla vittoria quando giocano contro esseri umani, ma questa – brontolano gli scettici – è semplicemente idiozia ben indicizzata, non autentica intelligenza.
Ho sempre pensato che il test di Turing (quello che serve per misurare se una macchina è in grado di pensare, ndr) fosse una pura astrazione, un problema da filosofi, e invece ha portato alla nascita di veri e propri tornei – come se il paradosso di Zenone avesse portato ad autentiche corse tra tartarughe e guerrieri greci. I dettagli dei test di Turing e dei tornei sono l´argomento trattato dal meraviglioso libro di Brian Christian, poeta e appassionato di computer, che si intitola The Most Human Human (Doubleday, $ 27,95), uno dei rari eredi letterari di successo di Gödel, Escher, Bach, nel quale arte e scienza si ritrovano in una mente impegnata e il loro incontro produce vere scintille.
Christian avanza un´idea più sottile e poetica quando afferma che il linguaggio umano non è soltanto scambio di assiomi, o finanche di abbreviazioni codificate a livello emotivo, bensì un´attività effettuata al limite tra la "perdita di qualità" di una comunicazione compressa e la versatilità con la quale noi la comprimiamo; tra la nostra consapevolezza che da qualsiasi cosa diciamo dobbiamo necessariamente escludere moltissime informazioni per motivi di economia e la nostra capacità di rendere tale economia eloquente e informativa in ogni caso. Il linguaggio dei bimbi piccoli, per esempio, è un esempio perfetto di compressione ben bilanciata con la concisione. Ciò che all´estraneo suona limitato e ripetitivo, per l´ascoltatore informato è pieno di sfumature come Henry James.
E tuttavia l´intelligenza umana ha un altro punto a suo vantaggio: il senso di impellenza che conferisce all´intelligenza umana una sua forza tutta particolare. Forse la nostra intelligenza finisce soltanto con la nostra mortalità: in gran misura è la nostra mortalità. Immaginiamo per un momento di impartire a una serie di computer interconnessi e in grado di correggersi, programmati per raggiungere un obiettivo volutamente indeterminato e a lungo termine, la seguente disposizione: «Effettuate quanti più calcoli significativi riuscite, e cercate di farne più di qualsiasi altro computer del laboratorio», lasciando di proposito multivalente e vago il concetto di "significativi". Immaginiamo poi che ciascuno di questi computer abbia un candelotto di esplosivo collegato al suo microprocessore (Cpu, unità centrale di elaborazione), con un fusibile ad azione ritardata e un´instabilità da settantenne, e che ciascuno di essi lo sappia. Aggiungiamo che l´acido corrosivo che fa detonare il fusibile rallenta ogni singola funzione del computer, così che verosimilmente faccia calcoli più significativi interfacciandosi a un altro computer prima che le sue connessioni si usurino. I computer, pertanto, in qualsiasi momento dovrebbero prendere decisioni terribilmente difficili e valutare se valga la pena investire in un determinato calcolo, tenuto conto del più generico incarico a tempo limitato di effettuare calcoli veramente significativi. Essi pertanto dovrebbero, per esempio, valutare gli svantaggi e i vantaggi legati al fatto di scambiare informazioni subito a fronte della consapevolezza della loro distruzione incombente e delle esigenze di tutti gli altri incarichi che è necessario che svolgano. Alcuni si tirerebbero indietro e non farebbero altro che effettuare calcoli per conto proprio; alcuni allaccerebbero connessioni in modo frenetico; altri ancora si chiederebbero se sia valsa la pena cercare di vincere un programma televisivo a quiz giacché scopo principale era vincere la gara dei "calcoli più significativi". I computer effettuerebbero calcoli sul giusto rapporto tra il tempo necessario e il significato raggiunto e li distribuirebbero in tutto il network creato. Tenendo conto delle pressioni dovute ai limiti temporali, i calcoli probabilmente sarebbero brevi – diciamo di dieci o undici linee al massimo – e il più significativo con ogni probabilità sarebbe condiviso con tutte le altre macchine. (Potrebbero addirittura essere resi più facilmente memorabili grazie a ritmi e configurazioni melodiche). Alcune macchine indubbiamente inizierebbero a produrre sottoprogrammi che meditino più astrattamente sulle difficoltà di essere una macchina intelligente con un´imminente rischio di esplosione. («Alle mie spalle sento avvicinarsi sempre più un programma incombente», «Radunate tutte le vostre funzioni, finché potete!»). Nel giro di una generazione, ironia, poesia, ambiguità, estasi diverranno parti integranti della produzione e della percezione dei computer. Saranno intelligenti e ottusi, proprio come noi siamo intelligenti e ottusi.
© 2011, Adam Gopnik Traduzione di Anna Bissanti. L´autore ha pubblicato in Italia da Guanda Una casa a New York. A settembre Guanda pubblicherà Paris to the Moon

Repubblica 11.6.11
La storia di uno studioso che somiglia a Konrad Lorenz e l´esercizio dell´osservazione per capire i sentimenti
Ddr, scienza e animali ecco perché la verità ci fa sempre paura
a cura di Benedetta Marietti


Un titolo potente attira l´attenzione e può fare la fortuna di un libro, ma non è mai innocente. La sua forza, lo qualifica come una chiave di interpretazione, il prisma attraverso il quale leggiamo la storia. Forme originarie della paura il titolo scelto da Einaudi per l´edizione italiana del libro di Marcel Beyer (per sineddoche, essendo questo il titolo del saggio scritto dal protagonista del romanzo, nonchè perno della vicenda), è potentissimo. Molto più di quel Kaltenburg che l´autore aveva voluto, affidandosi al nome del protagonista. Madame Bovary contro La linea d´ombra. Ma il libro di Beyer è davvero un romanzo sulla paura, come suggerisce il titolo italiano, così come quello di Conrad lo era su quel confine dell´esistenza divenuto proverbiale?
Tedesco, poco più che quarantenne, poeta e narratore molto conosciuto anche nel mondo anglosassone, Marcel Beyer racconta la storia di uno zoologo ed etologo, Ludwig Kaltenburg appunto, il cui modello sembra essere il celebre Konrad Lorenz. Come lui, Kaltenburg è un uomo eccentrico e fascinoso, dalla lunga chioma bianca, austriaco, appassionato di motociclette. Nobel per la Medicina nel 1973, Lorenz è stato un teorico del comportamento animale ma soprattutto un formidabile divulgatore. Solo la teoria della relatività può competere in successo mondano con la storia delle oche e dell´imprinting proposta nel suo Io sono qui, tu dove sei?. Anche il saggio di Kaltenburg, Forme originarie della paura, ottiene un enorme successo di pubblico. Il suo autore diviene un personaggio conosciuto anche fuori dalla comunità scientifica, ma da questa aspramente criticato. Per aver osato sconfinare in un terreno meno tecnico, più psicologico, soprattutto nel capitolo dove affronta il rapporto tra uomo e animale in circostanze estreme.
Rarissime sono le opere letterarie che descrivono l´inferno dei bombardamenti anglo americani sulle città della Germania. La tesi di W. G. Sebald, esposta nel suo Storia naturale della distruzione, è che si tratti di un vero e proprio tabù. Non era sopportabile per i tedeschi l´idea che fossero proprio loro, «i quali si erano dati come obiettivo quello di ripulire e igienizzare al completo l´Europa», a trasformarsi in un popolo di ratti. Una fiumana di disperati che vagava tra le rovine scavando nello sfacelo.
Tra il 13 e il 15 febbraio 1945, racconta Kaltenburg, le forze aeree anglo-americane bombardarono Dresda. Ci furono decine di migliaia di morti, la città fu rasa al suolo e le esplosioni crearono una tempesta di fuoco, tenuta viva da una specie di tifone di aria calda, che bruciò per ore. Lo zoo, come tutto, non esisteva più e gli animali impazziti vagavano per la città. Un gruppo di scimpanzé si era fermato accanto ad alcune persone che, attonite, osservavano i cadaveri tutti intorno a loro. Sembrava, scrive Marcel Beyer, che gli scimpanzé guardassero «alternativamente negli occhi morti e i vivi cercando consiglio»: Così, quando qualcuno finalmente aveva iniziato a trascinare via i corpi per le braccia e le gambe, adagiandoli su una striscia di prato, le scimmie avevano fatto lo stesso.
La persona che descrive questa scena al professore, è il suo allievo Hermann Funk, allora ragazzino, che nel bombardamento perse entrambe i genitori. È lui, divenuto a sua volta ornitologo, la voce narrante del romanzo. Nato a Posen e poi trasferito per un breve e fatale periodo a Dresda, Funk non è un predestinato. La sua vocazione non si manifesta con precisione, malgrado il padre botanico lo incoraggi all´osservazione della natura e lo educhi al rispetto degli animali. Forse non sarebbe neanche diventato un ornitologo se Kaltenburg non lo avesse quasi obbligato a seguirlo, dopo averlo conosciuto bambino. Eppure, di quell´incontro avvenuto quando ancora Hermann abitava a Posen, Kaltenburg finge di non avere memoria, lo censura dalla sua biografia, come alcuni altri piccoli episodi.
Perchè? Di cosa parla, appunto, il romanzo di Beyer? Questo è l´incipit: «Fino alla sua morte, nel febbraio 1989, Ludwig Kaltenburg aspetta il ritorno delle taccole». Prosegue descrivendo le abitudini degli amati corvi, e delle innumerevoli specie di volatili che abitano nella casa insieme al professore. Studiati e coccolati, ospitati come fossero loro i padroni. Sono loro, gli uccelli, i protagonisti di questo superbo romanzo di Beyer. Sono le loro abitudini a dettare il ritmo, delle loro vite, e della loro morte improvvisa e misteriosa parla questo libro. Che è senza dubbio una riflessione sulla paura ma è anche, e soprattutto, un romanzo sulla verità.
Ho letto le prime dieci pagine di Forme originarie della paura almeno tre volte. Per quanto sono belle, ma anche perché, come tutto il resto del libro, sono ellittiche fino allo spaesamento. Non che non si dica, si dice tutto quello che è necessario come sanno fare i grandi scrittori, ma la vicenda sembra negata. Fino a diventare uno strano giallo, nel quale niente è quello che appare, e tutto si svela pagina dopo pagina, in un continuo ruminare del senso. Per farlo, per mettere in scena quel teatro della negazione che è stata la politica della Ddr, Marcel Beyer usa gli animali. Usa anche l´arte, Marcel Proust, l´amicizia, ma sono gli animali a rappresentare con precisione l´inermità di fronte alla catastrofe, e lo sconcerto che si prova quando alla semplicità monotona dell´accadere si sostituisce la progressione inarrestabile del male e la sua misteriosa e ostinata ottusità.

L’Osservatore Romano 11.6.11
L’adolescenza va protetta

Pubblichiamo in una nostra traduzione italiana l'intervento pronunciato il 6 giugno, a Ginevra, dall'arcivescovo Silvano M. Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l'Ufficio delle Nazioni Unite ed Istituzioni Specializzate a Ginevra, in occasione della XVII sessione ordinaria del Consiglio dei Diritti dell'Uomo sui diritti del fanciullo.

Presidente,
innanzitutto, la mia delegazione desidera congratularsi con tutti i partecipanti impegnati nella preparazione della Bozza del Protocollo Opzionale alla Convenzione sui Diritti del Fanciullo (Crc) per offrire una procedura di comunicazione (Opc), che diverrà uno strumento significativo del sistema dei diritti umani. Oltre l'aspetto legale, il Protocollo Opzionale per la Crc offre speranza e incoraggiamento a quei bambini e a quei giovani le cui innocenza e dignità umana sono state ferite dalla crudeltà che può essere presente nel mondo degli adulti. Se tutti gli Stati, gli organismi delle Nazioni Unite, la società civile e le istituzioni basate sulla fede coopereranno in maniera più efficace, riusciranno a garantire amore, cura e assistenza a quanti sono colpiti da violenza e abusi. Inoltre, promuoveranno un mondo in cui questi bambini potranno perseguire i loro sogni e le loro aspirazioni di un futuro libero dalla violenza.
"Il maggiore interesse del fanciullo sarà una considerazione primaria" (Cfr. Assemblea Generale, art. 3, allegato 1 della Convenzione sui Diritti del Fanciullo, 1989, p.1) e la precondizione per realizzare il futuro così auspicato. Infatti, noi siamo "convinti che la famiglia, unità fondamentale della società e ambiente naturale per la crescita e il benessere di tutti i suoi membri e in particolare dei fanciulli, deve ricevere la protezione e l'assistenza di cui necessita per poter svolgere integralmente il suo ruolo nella collettività" (Assemblea Generale, Preambolo della Convenzione sui Diritti del Fanciullo, 1989, p.1). In linea con la Crc, che riconosce la famiglia come essenziale, la Santa Sede ritiene che il maggior interesse del fanciullo sia soddisfatto in primo luogo nel contesto della famiglia tradizionale.
Presidente, più di cinquant'anni fa, nella Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, l'Assemblea Generale proclamò che "il fanciullo deve beneficiare di una speciale protezione e godere di possibilità e facilitazioni, in base alla legge e ad altri provvedimenti, in modo da essere in grado di crescere in modo sano e normale sul piano fisico, intellettuale, morale, spirituale e sociale in condizioni di libertà e di dignità". (Assemblea Generale, Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, 1959, p. 1). Questo continua a rivestire una grande importanza, ora come allora, ed evidenzia la responsabilità di tutta la comunità internazionale di realizzare la sua opera essenziale di promuovere la dignità e il benessere di tutti i fanciulli e gli adolescenti ovunque.
Nel 2009, Papa Benedetto XVI, lanciò un appello alla comunità internazionale affinché potenziasse i suoi sforzi per offrire una risposta adeguata ai problemi tragici vissuti da fin troppi bambini: "Che non manchi un impegno generoso da parte di ognuno cosicché si possa dare riconoscimento ai diritti dei fanciulli e sempre maggiore rispetto alla loro dignità".
Presidente, la Santa Sede considera questo nuovo Protocollo Opzionale per la Convenzione sui Diritti del Fanciullo per offrire una procedura di comunicazione come un contributo opportuno per rafforzare il sistema dei diritti umani. Che esso possa anche avvicinarci ancor di più al nostro obiettivo definitivo: la tutela e il rispetto incondizionati della dignità di ogni singola persona, donna o uomo, adulto o bambino.


Repubblica 11.6.11
"Dopo l´estate stabiliremo le regole, mi candido anch´io"
Primarie del centrosinistra Vendola annuncia: correrò


"La consultazione della base è un valore aggiunto. Lo penso io e lo pensa il Pd più di me"

ROMA - «Il leader della coalizione di centrosinistra lo stabilirà le primarie ed io mi candiderò. Penso che dopo l´estate saremo in grado di mettere in piedi le regole per farle». Nichi Vendola annuncia ad Otto e mezzo di Lilly Gruber la sua intenzione di correre per la leadership del centrosinistra e per la poltrona di Palazzo Chigi quando ci saranno le elezioni politiche.
Il governatore della Puglia è anche convinto che sull´utilizzo dello strumento primarie non ci siano problemi con i democratici. E lo dice chiaramente alla giornalista: «Il Pd e Bersani più di me pensano che le primarie abbiamo un valore aggiunto e non mi sembra ci sia ostruzionismo su questo punto, né da parte del centrosinistra né da parte del centrodestra».
Vendola nel corso della trasmissione parla anche del caso Battisti e della decisione brasiliana di non estradarlo in Italia. «Ho rispetto per un argomento che evoca ferite ancora aperte in Italia. C´è una questione di principio per cui chi ha commesso reati molto gravi e sfugge alla sanzione penali provoca scandalo nella coscienza civile», spiega il leader di Sinistra ecologia e libertà. Ma dice anche che «c´è anche un´altra considerazione da fare: quando il tempo che passa tra il momento in cui si è commesso un reato e la sanzione è di 25 anni, il rischio è che il sentimento della giustizia si dissoci dall´amministrazione della giustizia e che ci si trovi ad avere a che fare con due persone differenti».
Vendola dice di condividere quello che il governo sta facendo per far tornare Battisti in Italia per scontare la pena, spiega di «sentirsi rappresentato da ciò che sta facendo nel merito il presidente della Repubblica Napolitano». Ma insiste sul fattore tempo, sui tanti anni passati dai reati. «Noi dobbiamo consentire sempre che chi infranga le regole subisca la giusta pena, ma non so quanta giustizia ci sia quando intercorre un tempo così lungo», dice. E aggiunge: «Se la giustizia italiana viene poi rappresentata nel mondo con le parole del presidente del Consiglio dette al presidente Obama, forse questo fa sorgere qualche dubbio nella credibilità della nostra giustizia». Una frecciata a Berlusconi. Che fa il paio con la critica su come i giornali del centrodestra hanno raccontato ieri l´incidente in cui è morto un ragazzo milanese travolto dall´auto di quattro rom inseguiti dalla polizia.

venerdì 10 giugno 2011

l’Unità 10.5.11
Bersani: «Ai seggi ci andranno i cittadini. Possiamo fare il miracolo». E l’opposizione manifesta
Lui non vota, noi Sì: e oggi tutti in piazza del Popolo
Il leader del Pd fiducioso: «Il quorum a un passo, ma c’è uno sforzo da fare. Con il rush finale si può arrivare al miracolo». E ora via alla festa: 9 ore tra musica e personaggi dello spettacolo. Ma niente politici sul palco.
di Alessandra Rubenni


A quarantotto ore dal voto, piazza del Popolo è pronta per la grande, lunga festa di oggi. Una maratona trepidante condita da 9 ore di musica, attori e personaggi dello spettacolo su un palco giallo speranza, che magari porterà bene al quorum. Così si chiude a Roma, in contemporanea mille altre piazze nel resto d’Italia, la campagna pro-referendum, che ieri è stata «consacrata» pure dalle parole del Papa, suonate come uno spot anti-nucleare, per raccomandare agli Stati di scegliere «energie pulite», «senza pericoli per l’uomo». Una sorta di benedizione arrivata proprio mentre Silvio Berlusconi annunciava che lui no, non andrà a votare, e che «è un diritto dei cittadini non recarsi alle urne». Pierluigi Bersani, intanto, rilanciava l’appello che l’altro ieri aveva affidato a l’Unità, invitando ad andare in massa alle urne. Aveva annunciato di voler andare a votare alle 10 di mattina. «Anzi, se mi metto la sveglia, anche alle 9. Perché bisogna pure incoraggiare», dice il leader del Pd. Che non nasconde di essere stato indispettito dal suo idolo musicale, Vasco Rossi: «Sono rimasto molto sorpreso perché persino Vasco ha detto: tanto le centrali si fanno in Francia. Ma vedesse cosa è successo a Fukushima». Ma, soprattutto, sparge ottimismo. «Io sono fiducioso. La mia impressione dice Bersani è che noi siamo a un passo dal quorum, ma c'è uno sforzo da fare. Con il rush finale si può arrivare al miracolo». Perché, comunque, di questo si tratta. Di un traguardo che ha del miracoloso, tanto che «nei referendum, da 16 anni, il quorum non si raggiunge perché abbiamo una legge assurda, che propone uno sbarramento che non sarebbe neanche immaginabile per le politiche o le amministrative». Nel frattempo anche il Terzo polo ha sciolto le sue riserve. «Berlusconi non vota? Ce ne faremo una ragione... e forse è proprio il motivo per cui noi andiamo a votare», ha fatto sapere ieri pomeriggio Pier Ferdinando Casini, subito dopo il vertice con Francesco Rutelli e Gianfranco Fini, una volta concordata la linea.
Tutti i partiti che sostengono i «sì», però, oggi resteranno sotto al palco di piazza del Popolo, in mezzo alla gente. La giornata di «Io voto!», dalle 14 alle 23.30, annunciano gli organizzatori, dovrà essere una «grande festa di partecipazione, per richiamare l'attenzione di tutti i cittadini sul voto per i referendum su nucleare, acqua e legittimo impedimento, per centrare l’obiettivo del quorum». E tutto andrà in diretta su www.iovoto.net, www.webdv. it e www.youdem.tv, su decine di blog e siti di informazione, da Current Tv e dal satellite Sky. Cui si aggiungerà, per la prima volta, la diretta su facebook, sulle pagine «Io voto» e «Battiquorum». Fra gli ospiti, Cristicchi, Finardi, Claudio Santamaria, Frankie Hi Nrg, Area, Nada, Andrea Rivera, Tetes De Bois, Odifretti, Teresa De Sio.

il Fatto 10.6.11
Il quorum della democrazia
di Bruno Tinti


Lungo viaggio in macchina. Alla radio si susseguono trasmissioni sul referendum. Telefonate e sms di cittadini. Molti dicono che non andranno a votare, che non ci capiscono niente. Alcuni spiegano di voler impedire il raggiungimento del quorum e se la prendono con il presidente della Repubblica che non avrebbe dovuto, secondo loro, annunciare la sua intenzione di recarsi al seggio (“io sono un elettore che fa sempre il proprio dovere”): in questo modo influenza gli elettori, dicono con toni alterati, non è al di sopra delle parti, non è imparziale. Io penso tristemente all’infimo livello di cultura politica raggiunto dal nostro Paese; e mi chiedo se l’istituto del suffragio universale per caso non debba essere rivisto. Cominciamo dal “dovere” di votare. Ovviamente le elezioni non sono una competizione sportiva, non servono per far godere il tifoso della squadra vincitrice e deprimere quello della sconfitta. Le elezioni servono per stabilire quale deve essere il modello di gestione del Paese. Un cittadino che utilizza le risorse nazionali non può sottrarsi al dovere di concorrere a stabilire come dovranno essere predisposte. E nemmeno può dichiararsi estraneo al confronto tra sistemi politici: la responsabilità di garantire libertà, cultura, prosperità gli appartiene per il solo fatto di essere cittadino. Tutto questo è, se possibile, ancora più vero nel caso di referendum. Scelte come energia nucleare, acqua pubblica, immunità dei vertici della classe dirigente, contengono in sé le radici di cambiamenti profondi per la nazione. E tanto più la decisione su questi cambiamenti è diretta e non mediata attraverso la delega alla classe politica, tanto più la responsabilità a determinarli in un senso o nell’altro è irrinunciabile. Ma, dicono, far mancare il quorum è una modalità di partecipazione: non voglio che questa o quella legge sia abrogata; non sono sicuro di raggiungere la necessaria maggioranza; utilizzo quindi un modo diverso per far prevalere la mia volontà politica. Solo che questa non è democrazia, è trucco da baro, sabotaggio, spregiudicatezza civica. E c’è di più. Non è un caso che la classe politica veda i referendum come il fumo negli occhi: ne percepisce, giustamente, la carica di delegittimazione nei suoi confronti, il contenuto di controllo diretto della gestione pubblica, l’inequivoca bocciatura se l’abrogazione ha successo. Adoperarsi per far mancare il quorum significa, al di là della questione contingente, rinunciare al corretto rapporto governanti-governati; significa perdere l’occasione di ribadire che i governanti sono al servizio dei governati e non il contrario. Alla fine questa storia del quorum mi ha fatto capire che votare non significa andare al seggio e mettere una croce su un pezzo di carta. Votare significa scelta consapevole. Ed è qui, ho pensato, che mi piacerebbe una rivoluzione. Mi piacerebbe che la concreta possibilità dell’elettore di adottare scelte consapevoli venisse verificata. Cosa è la Costituzione? E la Corte costituzionale? Chi fa le leggi? Chi governa e come viene scelto? Quali sono i compiti del presidente della Repubblica? Educazione civica di base. Se non c’è, ha senso consentire a un cittadino indifferente, disinformato ed egoista, di partecipare alla vita politica di un paese di cui, sostanzialmente, non gli importa nulla?

Repubblica 10.6.11
Al voto, nonostante tutto
di Ilvo Diamanti


È dal 1995 che i referendum non raggiungono il quorum: fino ad allora votare era considerato un dovere, si trattasse di elezioni politiche, amministrative, europee. Oppure, appunto, di referendum. D´altronde, le organizzazioni hanno perduto capacità di mobilitare. Mentre il radicamento sociale dei partiti è debole. E il voto non è più un´obbligazione, per i cittadini. Nei referendum, oggi, il non-voto tattico si somma a quello per disinteresse. Eppure, nonostante tutto ciò, questa volta il quorum è possibile. Nonostante il silenzio dei media, l´impotenza (e la resistenza) delle grandi organizzazioni e dei partiti. Nonostante il non-voto dichiarato degli uomini di governo. Perché dietro a questi referendum c´è un movimento poco visibile, frammentato. Ma diffuso. La cui voce echeggia in mille piccole manifestazioni, nei mille piccoli luoghi di vita quotidiana. Attraverso la rete. Ha re-imposto parole in disuso, impopolari fino a ieri. Su tutte: il bene comune. Così tutti oggi sanno dei referendum. Anche se questo movimento molecolare sembra invisibile. Perché gli occhiali con cui guardiamo la società e la politica non riescono a vederlo.

The Economist 9.6.11
Silvio Berlusconi's record
The man who screwed an entire country
The Berlusconi era will haunt Italy for years to come

qui
http://www.economist.com/node/18805327

L’Economist
“L’UOMO CHE HA FOTTUTO UN INTERO PAESE”
   Impietoso ritratto della fine del regno berlusconiano nello speciale sull’Italia del settimanale britannico. Ma dopo di lui il paese non cambierà: le sue qualità permettono di galleggiare evitando rivoluzioni

il Fatto 10.6.11
Un Paese fottuto da un uomo solo
L’Economist e il tramonto di B.
di Caterina Soffici


Londra Ogni volta che gliela ricordano, l’ex direttore Bill Emmott ridacchia sotto il pizzetto: “Con quella copertina sono diventato famoso nel vostro paese. Il giorno che ho lasciato l’Economist ho ricevuto tre offerte di collaborazione: erano tutte da giornali italiani”. E infatti quella copertina è rimasta nella storia: Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy, “inadatto a governare l’Italia”. Era il 2001. Sono passati dieci anni e nel numero in edicola oggi il settimanale inglese ci va giù ancora più pesante: “L’uomo che ha fregato un intero paese”. Sempre lui. Sempre Silvio nostro, che se allora querelò, questa volta potrebbe direttamente chiedere l’arresto dei responsabili del giornale. La copertina, un Rapporto Speciale sull’Italia di 14 pagine in occasione dei 150 anni dell’unificazione (“Per un nuovo Risorgimento”) e un editoriale di fuoco che non lasciano dubbi interpretativi: “L’era Berlusconi graverà sull’Italia per anni a venire”.
UN’ANALISI impietosa e lucida, come si dice in questi casi, che noi purtroppo conosciamo bene, ma che letta con l’occhio di un anglosassone è abbastanza impressionante e fa concludere: “Non vediamo alcun motivo per cambiare il verdetto del 2001”. E infatti Berlusconi è stato così incapace di governare che mentre tutti gli altri paesi crescevano, l’Italia nell’ultimo decennio ha avuto una crescita bassissima: solo il Pil di Zimbabwe e Haiti dal 2001 è cresciuto meno di quello italiano.
L’Economist (del cui speciale, in edicola da oggi, riportiamo alcuni stralci in queste pagine) ricorda che B. è stato il più longevo presidente del Consiglio italiano dai tempi di Mussolini, ci descrive come un paese vecchio e corrotto, in mano alle corporazioni (ce n’è per avvocati, farmacisti, tassisti), dove un gruppo ristretto di forti privilegiati vive bene a scapito di molti senza tutele e disoccupati, dove una casta di politici e dirigenti tiene in mano le sorti di un paese (l’età media del primo ministro in Italia si aggira sui 62 anni, Berlusconi ne ha 74, Cesare Geronzi anche, Antoine Bernheim ha lasciato Generali a 85, e anche i boss mafiosi seguono l’andazzo: Bernardo Provenzano ne aveva 73 quando è stato arrestato), con un sistema bancario ingessato, un quarto dei giovani è disoccupato, con la percentuale di donne lavoratrici più bassa dei paesi occidentali, una università disastrata e in mano ai baroni, dove il familismo amorale è la regola, dove i giovani laureati scappano all’estero per sfuggire al sistema delle raccomandazioni e delle conoscenze.
QUANDO è andato al potere Berlusconi aveva promesso riforme liberali, ma fa notare l’Economist che le amministrazioni Pdl e Lega sono quelle che hanno meno liberalizzato i servizi. Malgrado tutti i suoi processi per corruzione e frode (senza contare la saga di Ruby e del Bunga Bunga), un terzo degli italiani continua a crederlo vittima dei giudici di sinistra e lui continua a spacciare la favola che non è mai stato condannato, anche se non è vero, perché molti processi si sono conclusi con condanne poi lasciate cadere per procedure barocche o andati in prescrizione, grazie a leggi che si è fatto su misura.
“Tra una battaglia giudiziaria e l’altra” scrive l’Economist, qualche riforma l’ha fatta, come la Biagi e quella dell’Università. Avrebbe potuto fare di più se avesse usato il suo potere e la sua popolarità per fare altro anziché difendere i suoi interessi personali” scrivono. Comunque, malgrado Berlusconi e tutti i danni che la sua politica ha causato, l’Italia si salva. “È un paese ricco, in pace e civilizzato che non sembra essere troppo in crisi” dice il report, ma non può più vivere di rendita. “Potrebbe andare avanti in questo modo, impolverandosi e invecchiando sempre più, ma restando a galla agevolmente”. E questa sembra la cosa più probabile. Ma il paese ha bisogno di un nuovo Risorgimento, come quello che portò all’unificazione 150 anni fa. Per recuperare il tempo perso ci vorranno anni di duri sacrifici. E, va da sé, un cambio di governo.

l’Unità 10.5.11
Riforma elettorale
Bersani compatta il Pd
«Maroni? Nessun asse»
Il segretario: non c’entra l’Ungheria o la Svezia, è una proposta italiana Doppio turno con correzione proporzionale, alt ai nuovi gruppi parlamentari Veltroni: così il bipolarismo è salvo. Di Pietro: giusto iniziare a parlarne
di Maria Zegarelli


Né ungherese, né turco, né svedese, «come è stato scritto in questi giorni», ma una soluzione squisitamente «italiana», la proposta di riforma della legge elettorale di cui ieri ha discusso il «caminetto» del Pd. Una proposta che ha trovato tutto il partito concorde, archiviando le divisioni tra proporzionalisti e fan del maggioritario, e che da questo momento in poi dovrebbe aprire il confronto con le altre opposizioni. Pier Luigi Bersani ci tiene a sottolineare che questa è la proposta italiana del Pd, una proposta «aperta» al dialogo con il resto della minoranza «perché quando si propone una legge elettorale si sa anche che non la si può votare da soli». Tanto made in Italy, il testo elaborato da Luciano Violante e Gianclaudio Bressa, da prevedere anche una sorta di norma «anti-Scilipoti» (ma anche antiFli, notano dal Pdl) ossia un divieto esplicito a creare nuovi gruppi parlamentari diversi da quelli che si sono presentati alle elezioni. Se un parlamentare cambia idea, libero di farlo, ma finisce nel gruppo misto. Ultimo sassolino dalla scarpa che il segretario Pd lascia scivolare via: «Lascio correre tutti i retroscena, ma c’è un limite alla decenza: sono tutti inventati i miei incontri con Maroni. Non l’ho mai visto, l’ho solo salutato alla Festa del 2 giugno». Insomma, «nessun aggancino con la Lega», perché «sarebbe curioso che diciamo che la legge attuale è una porcata e poi non presentiamo una proposta per cambiarla». Nessun patto con la Lega, ma è evidente che anche la legge elettorale può contribuire a spezzare l’asse tra il Cavaliere e il Senatur.
LA PROPOSTA
Si tratta di un sistema misto a doppio turno con correzione proporzionale, soglia di sbarramento, che mantiene l’assetto bipolare senza tagliare le gambe ai partitini che avrebbero comunque un diritto di tribuna (pari al 5%) attraverso una quota di compensazione da ridistribuire a livello nazionale con un calcolo sui resti del proporzionale. Per la Camera dei deputati l’assegnazione dei seggi avverrebbe attraverso i collegi uninominali (sistema maggioritario), una quota proporzionale (che dovrebbe essere del 35%) distribuita su base regionale e una quota nazionale di compensazione. Per il Senato, invece, si-
stema uninominale per l’elezione del maggior numero di senatori e lista regionale per il restante numero. Inoltre, nessuno dei due generi può essere rappresentato in lista in misura superiore al 60%. La riforma Pd prevede l’apparentamento al secondo turno: è in quel momento che i partiti decidono per quale candidato premier schierarsi, dopo l’assegnazione dei seggi in parlamento.
LE REAZIONI
«Assolutamente sì», commenta Walter Veltroni, subito il caminetto. È una proposta, spiega, «che salva il bipolarismo, cosa che mi stava più a cuore, e si apre la discussione alle altre forze politiche». Soddisfatto anche Ignazio Marino: «È condivisibile perché preserva il bipolarismo, entrato nel sentire comune del paese, e soprattutto perché restituisce la sovranità agli elettori, dando loro la possibilità di scegliere direttamente i propri rappresentanti». Critico Arturo Parisi: il gruppo dirigente Pd che si è ritrovato sulla linea «sotto la guida di Violante», rischia di rompere con gli elettori che invece con le amministrative e le primarie hanno chiesto «unità della coalizione e di partecipazione diretta alle scelte». Antonio Di Pietro, Idv, è cauto: «Non critico e non sposo a scatola chiusa». Ma condivide «la necessità che se ne cominci a parlare e vado al confronto con il Pd e le altre forze di opposizione senza preconcetti, per verificarne la portata e le conseguenze sul piano della rappresentanza» e apprezza la norma sulla parità di genere. «Assolutamente d’accordo» Domenico Scilipoti: non ci vede nulla di personale in quell’obbligo di restare fedeli al simbolo con cui ci si presenta alle elezioni. Anche Fli si è formato «dopo le elezioni».

l’Unità 10.5.11
Tragedia immigrati
Un governo che ignora le «morti nere» nel canale di Sicilia
di Nicola Tranfaglia


Accostarsi, con gli strumenti della statistica, al mondo degli immigranti, che siano profughi che lasciano il loro Paese in fiamme o lavoratori costretti ad abbandonare la patria per sbarcare il lunario, provoca più di una sorpresa nell’Italia ancora dominata dal berlusconismo al potere. Non disponiamo di statistiche delle organizzazioni pubbliche ufficiali, a cominciare dall’Istat che sono ferme agli anni scorsi. E anche le organizzazioni umanitarie, dai Medici senza Frontiere alla Caritas e alle altre organizzazioni cattoliche, non sono in grado di fornire dati che si avvicino alla situazione attuale. Né la cifra ufficiale di 1814 posti in quelle prigioni, spesso medioevali, che rispondono ai nomi di centri di accoglienza e che sono caratterizzati in gran parte dall’insufficienza delle strutture igieniche, dalla mancanza di regolamenti interni adeguati, dalle violazioni costanti al diritto di asilo contemplato dalle più recenti convenzioni internazionali è in grado di farci capire né le dimensioni del fenomeno migratorio né le caratteristiche della politica fatta dallo Stato italiano nei confronti di chi vuole arrivare in Italia.
Ci fanno semmai capire quel che fa oggi la classe dirigente italiana rispetto al fenomeno migratorio. La mancanza di statistiche aggiornate e di strutture che pongano al centro l’accoglienza, piuttosto che il respingimento di quelli che vogliono lavorare in Italia consente semmai di cogliere l’aspetto culturale dell’Italia dominata dal populismo. Perché promuovere statistiche aggiornate se l’obiettivo principale del governo non è quella di integrare chi non fa ancora parte del nostro Paese ma ha interesse a lavorare in Italia? Ma piuttosto quella di separare i profughi in cerca di asilo da quelli che vogliono diventare operai o impiegati in Italia e consentirgli di acquisire, sia pure con le procedure previste da leggi democratiche, i requisiti necessari per diventare a tutti gli effetti cittadini italiani?
Abbiamo parlato per anni, a proposito degli incidenti sul lavoro che nel nostro Paese, rischiano di crescere piuttosto che diminuire, di «morti bianche». E di queste vittime, che vedono scomparire vicino ai porti nostri e di altri Paesi vicini nel Mediterraneo, centinaia o meglio migliaia di morti, visto che la contabilità in materia è assai sommaria, dobbiamo dire che si tratta di «morti nere» visto che riguardano persone di cui nulla sappiamo e di cui abbiamo difficoltà a ricordare persino i nomi e la provenienza nazionale? È un interrogativo che il Capo dello Stato si è fatto ma al quale la maggioranza attuale non ha creduto neppure di rispondere nei giorni scorsi. È un segno terribile dell’abisso in cui è precipitata l’Italia ufficiale dei nostri giorni.

l’Unità 10.5.11
Da settembre grazie a Gelmini 35mila persone senza più lavoro Tagli, riduzioni e accorpamenti. Per i precari restano gli annunci
Finisce la scuola. E non riapre più per 20mila prof e 15mila Ata
Bilanci amari e drammatici alla vigilia della fine dell’anno scolastico per prof e bidelli. Trentacinquemila di loro nel prossimo autunno sanno già ora che non avranno più lavoro. E la politica resta indifferente.
di F. L.


ROMA. L’ultima tranche del triennio orribile voluto da Tremonti-Gelmini si sta consumando. Domani finisce la scuola, temporaneamente, per i ragazzi. Ma, al contrario, non ci sono auguri da fare e ferie da organizzare per 20mila insegnanti e circa 15mila addetti di segreteria o bidelli. La contrazione di classi programmata in modo micidiale dal governo e dalle sue riforme (le uniche realmente fatte, con l’accetta) non lascia scampo agli incaricati annuali. Così come inizierà da lunedì l’affannosa corsa dei perdenti posto o soprannumerari (professori di ruolo a cui sparisce la cattedra nel loro istituto e che spesso, a cinquant’anni, per poter lavorare completano l’orario su due o a volte tre scuole non sempre vicine tra loro). È un fenomeno sociale grave, che riguarda moltissime famiglie. Ma, stranamente, è silenziato dai media e vissuto con suprema indifferenza dalla classe politica, con rarissime eccezioni. Certo, gli insegnanti non scendono in piazza come gli operai, non fronteggiano la polizia. Sarà anche colpa loro quindi se i poeti della retorica di sinistra non si accorgono e, dunque, non si esercitano in filippiche accorate.
I numeri sono pesanti. Per l’anno scolastico 2011-12 il Governo ha deciso di tagliare 20mila posti per il corpo docente e 15mila per l’organico Ata (amministrativi, tecnici e ausiliari). La sforbiciata è prevista dal decreto 112 del 2008 convertito dalla legge 133/2008. Un «processo di razionalizzazione» del settore che in tre anni ha già interessato 130mila posti di lavoro.
Dall’anno scolastico 2008/09 gli insegnanti si sono visti tagliare 87.400 posti, pari all’11,9 per cento del totale. Una quota rilevante della riorganizzazione riguarda anche il personale Ata. Rispetto all’anno scolastico in corso, in questo caso, ci saranno 14.166 posti in meno. Circa 45mila in meno rispetto a tre anni fa. L’ultima riduzione degli organici «inciderà con tagli assolutamente insostenibili spiega la parlamentare del Pd Manuela Ghizzoni, firmataria di un’interrogazione in commissione Cultura alla Camera che danneggeranno fortemente la qualità della scuola». Da qui al prossimo autunno, solo nelle scuole elementari, ci saranno 9.200 cattedre in meno. La prima conseguenza? «Non sarà più possibile soddisfare le effettive richieste delle famiglie di tempo pieno e tempo lungo», spiega Ghizzoni. Lezioni più brevi e meno materie. Stando ai dati presentati dalla parlamentare, il piano del Governo sancirà la scomparsa dello «specialista per l’insegnamento della lingua», il maestro di inglese.
I docenti della scuola secondaria italiana avranno 1.300 posti in meno. Il taglio più significativo riguarda però le secondarie di secondo grado: dove mancheranno all’appello 9mila cattedre.
Il 5 maggio il Consiglio dei ministri ha approvato alcune norme contenute nel decreto Sviluppo tra cui un piano triennale di immissioni in ruolo. Numeri molto più bassi rispetto al fabbisogno. E non è affatto detto che Tremonti glielo faccia fare.

il Fatto 10.6.11
Malati di mente, uccisi dalla giustizia
In Senato il rapporto della Commissione sugli ospedali psichiatrici giudiziari
di Mario Reggio


Ospedali psichiatrici Giudiziari. Sei in Italia. In base al Codice Rocco dipendono dal ministero di Grazia e Giustizia. 1.400 uomini e cento donne. Un disastro. La parola d'ordine è “fine pena mai”. Un tempo si chiamavano maniconi criminali, ma per chi ha la disgrazia di varcare la soglia degli Opg tornare alla vita normale è un percorso ad ostacoli. Un esempio. Ieri la commissione d'inchiesta del Senato sul Sistema sanitario nazione, presieduta dal senatore Ignazio Marino, ha chiamato a raccolta i dirigenti dei 6 Opg, tre direttori dei Dipartimenti di Igiene Mentale, i magistrati che decidono la pericolosità sociale dei detenuti, le associazioni dei ricoverati. In apertura il filmato shock, trenta minuti agghiaccianti sulle condizioni in cui vivono i malati senza speranza. Letti di contenzione, celle degne di paesi di Paesi lontani, malati che hanno perso la voglia di vivere. Emblematico l'intervento di Nunziante Rosania, direttrice dell'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. “Sono anni che denunciamo le condizioni disastrose in cui lavoriamo. Nel giro di tre anni siamo passati da 160 ricoverati a 382, mentre si è ridotto il personale con 62 persone in meno tra medici e guardie carcerarie. I sei psichiatri esterni, in base al contratto di lavoro che prevede 40 ore a settimana, possono dedicare 10 minuti in sette giorni ad ogni pazienti. Gran parte dei pazienti arrivano da noi – conclude – come veri e propri relitti umani. Di-metterli è altrettanto difficile perchè le famiglie e le strutture sul territorio non sono in grado di gestire i pazienti”.
Cosa fare allora? Giuseppe Dell'Acqua, allievo di Franco Basaglia, direttore del dipartimento di Igiene Mentale di Trieste non ha dubbi: “Vanno chiusi. Sono anacronistici. Sono 1.500 persone, se ogni Regione li prendesse in carico sarebbero 70 a testa. La pericolosità sociale è tutta da verificare. Se vengono abbandonati negli Opg non hanno speranze. Bastano due esempi. Un giovane ruba una bicicletta – racconta – viene arrestato, reagisce ai carabinieri. Il magistrato di sorveglianza lo spedisce nell'Opg perchè socialmente pericoloso. Dopo un mese si suicida. Il secondo. Un trentenne ricoverato in una struttura di recupero psichiatrico dà fuoco ai mobili della sua stanza. Stessa sorte. È socialmente pericoloso. Va in un Opg. La fine è la stessa. Nessuno si è preoccupato di capire e di prevenire. Così non si va da nessuna parte”.
La commissione ha presentato i risultati della situazione degli Opg, raccontando per la prima volta cosa è successo a 389 pazienti “dimissibili” tra il 1 marzo e il 31 maggio. In totale, 200 i pazienti prorogati: 85 per mancata presa in carico da parte dell'Asl, 20 per il rifiuto di lasciare la struttura e 52 trasferiti ad altri Opg. Sette i deceduti. Nel periodo di riferimento, quindi, sono stati dimessi soltanto 130 pazienti. “Ci proponiamo due obiettivi – ha dichiarato Ignazio Marino, presidente della Commissione – individuare un percorso condiviso con tutti gli operatori che porti alla chiusura di questi inferni dimenticati. Secondo, presentare il lavoro della commissione, che si articola su due punti: aver individuato tutti i pazienti non pericolosi e aver presentato la percentuale di quanti non sono stati accolti sul territorio, atto grave da parte delle Asl”.

il Fatto 10.6.11
Il Duce: vade retro Freud
di Nicola Tranfaglia


Un paese dominato da una dittatura ignorante, che fuori d’Italia non conosce neppure Freud, che diffida e respinge la nuova scienza psicanalitica che sta per conquistare gli Stati Uniti, che discrimina gli ebrei e chi sta a sinistra, che, insomma, è fuori del mondo civile occidentale. Questo emerge dai documenti degli anni Trenta che emergono dai nostri archivi se li si legge con attenzione.
È DI PARTICOLARE interesse in questa Italia, che sembra finalmente aver cominciato a svegliarsi (dopo diciassette anni di populismo autoritario) leggere un rapporto riservato che il ministero degli Esteri, guidato da Mussolini, invia al Questore di Roma e alla Direzione Generale di Polizia il 26 aprile 1935, a proposito dell’autorizzazione, richiesta dallo psicologo italiano Emilio Servadio, di aderire alla Società Psicoanalitica di Vienna e alla Società Psicoanalitica Internazionale. Il Rapporto – ora custodito nell’Archivio centrale dello Stato – mette in luce con chiarezza due problemi presenti in quel momento. Primo: l’avversione pregiudiziale dell’Italia fascista verso quello che viene chiamato, con termini italiani, il dottor Sigismondo Freud, per ragioni razziali, ma anche per le sue opinioni politiche vicine alla sinistra, i socialdemocratici e i comunisti. (Il documento accenna anche a un’amicizia di Freud per l’anarchico antifascista italiano Camillo Berneri, che sarà ucciso in Spagna dai comunisti nel 1937). Il secondo problema è la diffidenza della dittatura, ma anche della cultura ufficiale italiana (basta leggere La psicanalisi nella cultura italiana di Michel David da Bollati Boringhieri nel 1966 per rendersene conto), nei confronti della psicologia e della psicanalisi di cui, nel rapporto del ministero, emerge un accenno eloquente quando si dice all’inizio: “Mi risulta che si tratta di una scienza, seriamente combattuta da luminari nel campo delle malattie nervose, con a capo quella celebrità che risponde al nome del professore Werner Jauregg”.
E si aggiunge che “effettivamente la psicanalisi non ha messo finora piede nel sacrario dell’Università di Vienna. La psicoanalisi, come predicata dal suo creatore, dottor Sigismondo Freud, è considerata qui più sotto l’aspetto reclamistico e affaristico. Il Freud gode fama di buon medico e di non cattivo psichiatra, ma non anche di una celebrità”. Ma quali sono le ragioni che avanza il rapporto diplomatico per negare, come dirà nelle ultime righe, l’autorizzazione richiesta dal dottor Servadio di aderire alle due associazioni psicoanalitiche?
La prima ragione è indiretta, ma importante per i funzionari fascisti. Il rapporto ricorda che l’8 agosto 1930 la direzione della “Goethe Preiss-Stiftung” di Francoforte aveva assegnato al dott. Freud il premio di 10.000 marchi per i suoi meriti nel campo psicoanalitico. E riporta il fatto, politicamente significativo, che “il giornale di sinistra viennese Tag, nel suo numero del 9 agosto 1930, comunicava, con evidente compiacimento, che questa premiazione serviva a comprovare come il Freud godesse all’estero di un prestigio, che in patria gli veniva negato”. E si aggiunge ancora per chi non lo avesse capito “che la direzione di Francoforte de la “Goethe” era allora in mano di ebrei e di orientati a sinistra.”
Insomma, il documento mette insieme la connotazione “razziale”, presente nell’Italia fascista, molto prima delle leggi razziali del 1938, come cercavano invano di negare i maggiori esponenti del revisionismo storico in Italia fino agli ultimi anni, e quell’orientamento a sinistra che si attribuisce a Freud e altri medici che fanno parte della direzione della sua associazione psicoanalitica, a cominciare da sua figlia Anna Freud e dal dottor Paolo Feder come dal dottor Ervino Subak e dal figlio di Feder, Ernesto, tutti indiziati, secondo i funzionari, di rapporti stretti con il partito socialdemocratico austriaco e con le riviste che a quel partito facevano riferimento.
È QUESTA LA RAGIONE di fondo per negare l’autorizzazione al dottor Servadio di aderire a quelle associazioni e di condannare, per così dire, l’attività di Freud e dei suoi amici. Il ministero degli Esteri, come la direzione della polizia, nulla dicono sulle dispute scientifiche né sul valore della psicanalisi, ma gli orientamenti politici e razziali dei medici vicini a Freud sono sufficienti per vietare al medico italiano, per giunta di origine ebraica (si ricorda che “la madre del dr Servadio, senza voler con ciò toccare la sua onorabilità, sembra essere israelita”) di aderire alla scienza creata da Freud. In sintesi un documento esemplare del fascismo al potere nel quale l’accusa a Freud è di essere ebreo e di sinistra e perciò sgradito e inaccettabile per il fascismo e il dottor Servadio lo diventerebbe qualora aderisse alla Società psicanalitica viennese.

Repubblica 10.6.11
Schnitzler
Da Freud a Kubrick il fascino lungo un secolo di "Doppio sogno"
di Franco Marcoaldi


Domani con "Repubblica" la terza uscita della collana di classici indispensabili: l´autore austriaco è introdotto da Antonio Tabucchi
È la storia intima dell´uomo del ´900, la sua profonda solitudine e la scissione interiore

Da Sigmund Freud a Stanley Kubrick: non so quanti altri autori, oltre lo Schnitzler del racconto Doppio sogno, possono vantare influenze così vaste, a tali livelli di eccellenza. E poco importa se Freud, in precedenza così prodigo di elogi per la perspicacia psichica dello scrittore, tanto da farne la sua conturbante ombra letteraria, al momento della pubblicazione saluti l´evento limitandosi a un lapidario: «Ho riflettuto alquanto sul suo racconto». Quasi non volesse compromettersi di fronte a un testo che, più di ogni altro, incrocia le sue ricerche sul mondo onirico.
Quanto a Stanley Kubrick, nel suo Eyes Wide Shut, canto del cigno di una irripetibile carriera, il regista statunitense smonterà e rimonterà la novella, a ulteriore dimostrazione di come essa sia passibile di infinite metamorfosi, riuscendo a suscitare nel lettore odierno la stessa passione e lo stesso coinvolgimento di chi la lesse quando uscì.
Se questo accade è perché Schnitzler, con musicale geometria, ci conduce per mano nei gorghi più misteriosi della psiche umana.
E lo fa raccontandoci la storia intima dell´uomo novecentesco: la sua profonda solitudine, la scissione interiore tra i doveri familiari e il pericoloso abbandono al mondo dei sensi, il lento declino delle vecchie convenzioni, lo sgretolamento di una identità monolitica, ridotta ormai, secondo l´immagine di Robert Musil, a «delirio dei molti».
Figlio di un medico e medico a sua volta, Schnitzler, una volta intrapresa a tempo pieno l´attività letteraria, utilizzerà con estremo profitto le sue competenze cliniche. Sposandole a una diagnosi, tanto lieve quanto impietosa, del mondo asburgico che sta franando davanti ai suoi occhi.
L´amore per il teatro, in cui eccelle, nasce anche da questo: dalla consapevolezza che nel momento in cui la coscienza borghese si va dissolvendo nella corrente tumultuosa della modernità, solo il ricorso alla maschera – centrale anche in Doppio sogno – consente alla nuova precarietà, individuale e sociale, di sostenersi in qualche modo.
La prospettiva che offre Schnitzler, però, non è mai pacificata: il girotondo erotico lascia sempre dietro di sé un senso di inane assurdità, di sottile angoscia. A maggior ragione nel caso di Fridolin, il protagonista maschile di questo racconto, che cerca disperatamente di consumare la sua vendetta nei confronti della moglie e di sue certe, lontane fantasie adulterine. Senza riuscirci. Quell´impotenza maschile risulterà tanto più penosa, visto che la moglie, nel frattempo, ha liberato le più torbide immaginazioni – sessuali e non – standosene quietamente addormentata nel talamo nuziale.
Il rovesciamento dei ruoli (maschio-femmina) e dei piani (realtà-irrealtà) che Schnitzler ci propone, assume le sembianze di un doppio salto mortale. E il lettore si inoltra avidamente nella lettura, inquieto e affascinato, ben sapendo che quella storia prodigiosa altro non è che la sua.

Repubblica 10.6.11
Prendetela con filosofia
Se Montaigne diventa un maestro zen
di Antonio Gnoli


La biografia del grande pensatore francese scritta da Sarah Bakewell legge i suoi "Saggi" come un manuale per vivere meglio. E ha conquistato Inghilterra e Usa
Nietzsche ne apprezzò lo stile. Il Novecento ha visto in lui l´interprete più radicale della modernità
Raccontava la propria esperienza senza mettersi troppo al di sopra né al di sotto del lettore

Può apparire singolare che, proprio all´alba della modernità, la filosofia si presenti come una sorta di manuale di istruzioni per gente comune. Quel counseling filosofico – ovvero come si leniscono le pene dell´anima – oggi così diffuso tra i pensatori alla De Botton e negli aforismi di Osho, ha all´origine un responsabile di tutto rispetto: Michel de Montaigne. Mentre si annuncia per Bompiani una nuova edizione, curata da Fausta Garavini, dei suoi Saggi, esce una biografia piuttosto esaustiva, e iperpremiata, grazie alla quale il più disincantato filosofo cinquecentesco torna a far parlare di sé e a insegnarci "come vivere".
Già, perché è questo il suggerimento che si cela nella lettura che dei Saggi ci fornisce Sarah Bakewell. L´autrice inglese nel suo libro Montaigne, l´arte di vivere (in uscita per Fazi dopo essere stata un successo in Inghilterra e Stati Uniti) si interroga sui molteplici modi con cui Montaigne consiglia e istruisce il lettore. Si tratta spesso di regole conviviali, di avvertimenti, di vere e proprie attenzioni per l´altro e di cura del sé. Così almeno cominciarono a leggerlo i suoi contemporanei: come un "breviario" sulla felicità possibile. Quando i Saggi furono pubblicati, nel 1580, Montaigne aveva 47 anni. Le pagine del suo lavoro sembravano scaturire da un ininterrotto flusso di coscienza: tutto quello che attraversava la testa del filosofo divenne oggetto di narrazione. Ma, al tempo stesso, l´attrazione che egli provava per il mondo lo spinse a prestare attenzione alle cose. Con la stessa intensità si muoveva fra introspezione e realtà esterna. Niente ai suoi occhi era definitivo, stabile, inappellabile. Una prosa liquida e sfuggente avvolgeva i suoi racconti quotidiani. Nessun privilegio accordava allo sguardo dell´osservatore. Che poteva essere impreciso e altrettanto mutevole: «Non descrivo l´essere», annotò. «Descrivo il passaggio: non un passaggio da un´età a un´altra, ma di giorno in giorno, di minuto in minuto». Non era questa la vita nella sua sfuggente esistenza? E come porvi rimedio, come migliorarne il carattere, come consolarla?
Montaigne, da buon scettico, non credeva, fino in fondo, alle virtù della parola, ma al tempo stesso intravide nella scrittura una possibile via di salvezza per l´uomo: un apprendistato che nasceva dall´essere testimoni di qualcosa che accade, che ci colpisce e ci turba. Il successo immediato dei Saggi fu dovuto in larga parte al tono basso e colloquiale con cui il filosofo parlava di sé. Raccontava la propria esperienza senza mettersi troppo al di sopra né al di sotto del lettore. Quel suo Diario, apparentemente caotico, senza un vero inizio né una conclusione, riportava le sensazioni più recondite, le emozioni più vive, le notazioni più strane. Ma tutto veniva calato in un´etica soffice e leggera. Priva di quel fanatismo di cui le virtù a volte amano servirsi.
Montaigne aveva letto i classici antichi, si era forgiato sul pensiero stoico e su quello scettico. Fece propria la massima di Epitteto: «Non devi cercare che gli avvenimenti vadano come vuoi, ma volere gli avvenimenti come avvengono: e vivrai sereno». Aveva compulsato Plutarco e, in particolare, le Vite parallele. Ne aveva ripercorso i pensieri, imitato lo stile, copiato intere frasi, quando il plagio non era un reato, ma un riconoscimento verso la tradizione e il passato. La sua Biblioteca, nel castello di famiglia, era il luogo dove più volentieri amava passare il proprio tempo. Attraverso il resoconto di alcuni viaggiatori scoprì il Nuovo Mondo. Fu attratto dalle ricostruzioni che delle Indie fornirono Francisco López de Gómara e Bartolomé de Las Casas. Si appassionò ai racconti sul Brasile di Jean de Léry. Fu grazie a questi autori che cominciò ad avvertire il fastidio per la pretesa superiorità degli europei: relativizzò il mondo in un mondo che cercava gli assoluti.
Il periodo in cui Montaigne visse fu attraversato dagli orrori delle guerre di religione. Segnato dagli scontri tra protestanti e cattolici. Erano anni di intrighi, di vendette di sangue, di rivolte e di repressioni. Per il mite e disincantato pensatore lo scenario si presentava tra i più cupi. Se poi al fanatismo si aggiungono le carestie e la peste, si ha la quasi certezza che qualcosa di apocalittico si era abbattuto su quelle terre. Eppure, il lettore dei Saggi avvertirà solo un´eco lontana di quegli atroci avvenimenti. Su tutto si impone la difesa e l´elogio della vita comune. Come se egli preferisca piegarsi e schivare quel vento impetuoso di tragedie che tirava sulla Francia del Cinquecento.
Montaigne era un uomo nobile e ricco. Intraprese e portò a compimento studi di Legge, fu Magistrato e poi sindaco di Bordeaux. La città che gli aveva dato i natali. Ma non amava gli incarichi, ancorché prestigiosi. La sola cosa che lo interessava davvero era raccontare se stesso. Quello che vide fu l´imperfezione umana, le vanità, il ridicolo di cui spesso l´uomo si ricopriva. E da scettico ne accettò le conseguenze. Si capisce, allora, perché dopo il successo iniziale Montaigne fu criticato, maledetto, osteggiato. Cartesio e Pascal furono ossessionati dai veleni del suo scetticismo. Port Royal spinse la Chiesa a mettere i Saggi all´Indice dei libri proibiti. E lì restarono per quasi due secoli. Diderot e Rousseau provarono a farne nuovamente un maestro. I romantici si lasciarono sedurre dall´amicizia che egli testimoniò per La Boétie. Nietzsche ne apprezzò lo stile. Il Novecento ha visto in lui l´interprete più radicale della modernità. Ma alla fine l´antieroe per eccellenza ci appare come il più strenuo difensore della vita normale. Dei suoi paradossi. E banalità. Sarah Bakewell fa di Montaigne una specie di maestro Zen, il cui insegnamento è tutto nel non insegnare.
Che risieda qui il successo che il libro della Bakewell ha incontrato in America? La profondità di Montaigne sarebbe dunque tutta alla superficie. Certo, ridotto in pillole di saggezza il grande scettico può apparire a noi europei meno glorioso di come ce lo eravamo immaginato. Ma dopotutto, Montaigne pret à porter della filosofia non esclude l´altro: quello che sotto la bonomia del pensiero nasconde la tragicità del vivere. E non è un caso che alcune pagine del suo capolavoro sono state dedicate al tema del morire e al bisogno di familiarizzarsi con la morte. Negli ultimi anni della sua vita fu spesso vittima di coliche renali. Una particolarmente violenta provocò un´infezione dalla quale non si riprese. Montaigne morì all´età di 59 anni il 13 settembre del 1592. Un secolo prima era stata scoperta l´America e oggi l´America scopre in lui la seducente arte della consolazione.

Repubblica 10.6.11
Alla sinistra del padre
I consigli dei cinquanta saggi diventano un bestseller
di Raffaele Simone


I contributi sono carichi di una spinta propulsiva che in Italia ignoriamo
Viene criticata la "democrazia immediata" che affronta i temi non vedendo il futuro

Malgrado qualche successo in elezioni locali anche di rilievo, la sinistra pare in serio affanno in tutt´Europa. Quanto al modo di reagire si registrano però differenze importanti tra un paese e l´altro. Da noi, ad esempio, malgrado l´incoraggiante effervescenza di movimenti di varia natura (viola, arancione, ecologisti e altri), la sinistra "istituzionale" sembra aver perduto da un pezzo, insieme a una buona parte dell´elettorato, anche la capacità di generare idee strategiche serie e nuove; altrove invece si sforza di elaborare progetti per uscire dal pantano. La Francia è tra i paesi in cui quest´impegno è più forte: Indignez-vous, il modesto ma vibrante libretto di Stéphane Hessel, è stato per mesi in cima alle classifiche, segno eloquente di una diffusa preoccupazione per il futuro (della sinistra e del pianeta); e da qualche settimana è un bestseller anche il volumone Pour changer de civilisation (Odile Jacob, pagg. 439, euro 16,50), i cui autori sono "50 ricercatori e cittadini". Il forte senso dell´ego che è tipico della tradizione francese spiega il titolo un po´ madornale e il modo di indicare gli autori (che da noi sarebbe impraticabile). Ma sta di fatto che tra quei cinquanta "ricercatori e cittadini", a cui Martine Aubry mette come cappello un suo discorso-comizio piuttosto vago, stanno alcuni dei migliori cervelli francesi (e alcuni stranieri, come Ulrich Beck e Saskia Sassen) in molti campi. Su richiesta del "Laboratoire des idées" (altro nome sonante) del Partito Socialista, questi hanno indicato nodi irrisolti e prodotto proposte per restituire alla sinistra l´energia di governo che ha perduto; e questo volume è l´imponente sintesi di questo lavoro.
I temi sono organizzati a cerchi concentrici: da un gruppo di interventi sul "disordine del mondo" (le conseguenze politiche, economiche, culturali della globalizzazione, come la crisi del lavoro e l´immigrazione) si plana su una sezione sull´"uguaglianza reale", poi si discute della "società creativa" (istruzione, ricerca, arte) e infine sui meccanismi della democrazia (lavoro, rappresentanza, partecipazione, sicurezza, ecc.). Per il lettore italiano la lettura del volume è parecchio mortificante, perché dà la percezione del crepaccio che c´è tra loro e noi: solo a considerare i titoli delle sezioni ci si chiede come mai in Francia si abbia il coraggio di affrontare temi come "il disordine del mondo", mentre da noi la sinistra si chiede tutt´al più cosa fare con Di Pietro e con Casini. L´afflizione aumenta se si guarda ai singoli contributi, quasi tutti disegnati sullo sfondo dell´inquietudine per il capitalismo globale (che da noi non turba nessuno, ma che in questo volume è il vero protagonista) e carichi di una spinta propulsiva ignota alla depressiva sinistra del nostro depresso paese.
Cito qualche esempio che più colpisce, anche per dare un´idea dello spirito ardimentoso che soffia nel libro. Jean-Michel Severino addita il fenomeno tutto moderno dell´"inversione delle penurie": dopo aver concepito per secoli la natura come abbondante e gli uomini come scarsi, ora la presenza umana s´accresce mentre la natura comincia a scarseggiare. Ciò impone un´autorità planetaria per le regolazioni. L´idea di regolazione e di governance è del resto uno dei temi ricorrenti del volume, dove appare come mezzo per contrastare un sistema in cui (parole di Marcel Gauchet, uno dei teorici più acuti di Francia) "i mezzi poveri pagano per i poveri totali". Thomas Piketty, che tocca senza timore l´enorme questione di "domare il capitalismo del XXI secolo", suggerisce una "rivoluzione fiscale": instaurare un potere pubblico europeo capace di applicare tassi realmente progressivi, che operino come dissuasione rispetto ai redditi superiori al livello massimo politicamente e eticamente accettabile. Nella stessa vena Guillaume Duval pone un problema che la nostra sinistra non ha mai percepito: come fissare, oltre che un salario minimo, anche un "salario massimo"? Se "il cuore del progetto della sinistra" (dice Ernst Hillebrand) è lo stato sociale redistributivo, il fenomeno recente delle retribuzioni senza limite (i capi possono guadagnare oggi 400 o 500 volte più del loro dipendente meno pagato) è uno scandalo intollerabile a cui va posto riparo.
Chi è nauseato dalla "corta veduta" della politica italiana respira un´altra aria quando nel volume trova richiamata la necessità di immaginare nuove scale per i problemi, più ampi orizzonti per le decisioni. Per Jacques Lévy è urgente includere la "dimensione Mondo" tra le scale pertinenti per l´analisi e la decisione politica, e il governo dei beni naturali non va lasciato alla cooperazione o alla rivalità tra stati ma trattato come una questione di scala mondiale. Pierre Rosanvallon segnala le trappole della "miopia democratica" (quella che Condorcet chiamava "la democrazia immediata"), che affronta i temi del momento senza preveder nulla del futuro né domandarsi quali effetti avranno le decisioni di oggi. Questa miopia andrebbe contrastata con la "preoccupazione del lungo termine". Per Rosanvallon le due prospettive possono essere integrate mediante una "dualità rappresentativa": al parlamento (che gestisce il breve termine) andrebbe affiancata un´"accademia del futuro", col compito di lanciare dei "forum dell´avvenire", in cui i cittadini offrano idee, suggerimenti e proposte. Ciò può costituire anche una nuova istanza di partecipazione, essenziale per cittadini che si sono stancati della "democrazia a bassa intensità" dei tempi moderni, dove la classe politica è sempre più distante dal livello di terra.
Nouvelle cuisine applicata alla politica? Può anche essere: ma preferiamo il pensiero tiepido all´italiana? Sogni e esagerazioni? Paul Valéry diceva che "il modo migliore per realizzare un sogno è svegliarsi". Ma prim´ancora bisogna averlo sognato.

il Fatto Saturno 10.6.11
Patrimonio Sos
«Anche Michelangelo finanzia lo Stato»
Nei suoi scritti militanti, pubblicati postumi, Carlo Ludovico Ragghianti si rivela, suo malgrado, precursore del “capolavorismo”. Ma l’arte non è un “pozzo petrolifero”
di Tomaso Montanari


LA CANONIZZAZIONE dei papi recenti, si sa, giova soprattutto alle gerarchie ecclesiastiche: una regola a cui non sfuggono i “papi” della storia dell’arte italiana. Datano a questi ultimi anni la santificazione di pontefici come Cesare Brandi (1906-1988) e Giulio Carlo Argan (1909-1992), oggetti di un culto decisamente sproporzionato rispetto alla reale importanza della loro produzione scientifica e intellettuale: che avrebbe semmai bisogno di letture critiche ridimensionanti.
Non va in questa direzione la pubblicazione degli scritti militanti di Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987), patriarca della chiesa storico-artistica pisana. La prefazione di Donata Levi e i saggi dei curatori Emanuele Pellegrini e Monica Naldi non tratteggiano, infatti, una sacra icona, ma storicizzano e problematizzano il pensiero di Ragghianti senza nasconderne i punti deboli, e anzi discutendoli con competenza.
Le idee meno entusiasmanti riguardano il «valore del patrimonio culturale», che Ragghianti, pur vicino a Croce, cerca di definire fin dal primissimo dopoguerra in termini non puramente idealistici. Con il pragmatismo che condivideva con gli altri fondatori del Partito d’Azione , egli insiste per decenni sulle «arti problema economico», sul «bilancio delle arti», su «arte e denaro» (sono alcuni dei titoli dei suoi articoli). L’ingenuo obiettivo era convincere la classe politica a tutelare il patrimonio non per il valore morale riconosciuto dalla Costituzione, ma perché «anche Michelangelo finanzia lo Stato», e per non mandare in malora un’«enorme ricchezza». Già negli anni Sessanta questa posizione attirò il giustificatissimo sarcasmo del tanto più lucido Roberto Longhi (il quale parlò del «listino degli Uffizi»), ma oggi essa sembra pericolosamente convergente con la sciaguratissima dottrina dell’arte «petrolio d’Italia», nata in ambito craxiano alla metà degli anni Ottanta. La politica culturale dei governi, di ogni colore, che si sono susseguiti da allora è stata più o meno strettamente ispirata a quella teoria: da settore in cui investire denaro per ricavare memoria e identità, i “beni culturali” sono diventati una sorta di gigantesca riserva petrolifera da trivellare incessantemente in cerca di profitto. Gli effetti più estremi di questa involuzione sono quelli che compromettono la stessa sopravvivenza del “bene”: l’alienazione, la ristrutturazione selvaggia, gli iper-restauri distruttivi. Ma ve ne sono altri, non meno drammatici, che sono connessi al “marketing” indispensabile alla redditività del bene, e che ne distorcono profondamente l’identità e il senso, e dunque ne minano alle fondamenta il valore educativo e culturale: la strumentalizzazione politica o ideologica, la forzatura in “eventi” di nessun valore culturale, il “capolavorismo” feticista, la banalizzazione mediatica e turistica, una divulgazione di cassetta.
Anche da questo punto di vista Ragghianti sembra precorrere negativamente i tempi, teorizzando (a più riprese) la necessità di organizzare all’estero mostre dell’arte italiana concepite come pura propaganda culturale nazionalista: senza alcun nesso con la ricerca scientifica, e con una certa noncuranza verso l’incolumità fisica e il retto uso intellettuale delle opere stesse.
Naturalmente sono moltissime le prese di posizione di Ragghianti che appaiono, invece, ancora oggi importanti e pienamente condivisibili: dalla continua e penetrante attenzione ai problemi urbanistici (che oggi gli storici dell’arte non sentono neanche più parte della loro disciplina), all’impegno per singoli interventi (per esempio in favore di Firenze colpita dall’alluvione del 1966), alla (inascoltata) perorazione per l’introduzione di agevolazioni fiscali capaci di far decollare anche in Italia un vero mecenatismo privato verso il patrimonio pubblico.
Ma il merito più importante di questo libro è ricordare che «l’impegno diretto per l’amministrazione del patrimonio culturale è un dovere degli intellettuali» (Pellegrini). Un dovere avvertito da pochissimi: e da quasi nessuno degli storici dell’arte, i più disimpegnati tra gli intellettuali.
Carlo Ludovico Ragghianti, Il valore del patrimonio culturale. Scritti dal 1935 al 1987, Felici, pagg. 344, • 22,00.

il Fatto Saturno 10.6.11
Cento milioni di donne mai nate
Il libro di Xue Xinran “Le figlie perdute della Cina”: una testimone racconta lo “sterminio di genere” nelle campagne che continua nel silenzio del regime
di Cecilia Attanasio Ghezzi


ABBANDONATE, annegate, rifiutate, strozzate nel proprio cordone ombelicale. Avvolte in scialli di broccato o nascoste ai bordi della strada con un sassolino, una foglia, un nome nella mano. Cresciute in orfanotrofi o in famiglie che nulla sanno della loro origine. Sono queste Le figlie perdute della Cina che ci racconta Xue Xinran. Fanno parte di quei cento milioni di bambine scomparse di cui chiedeva conto l’Economist con una copertina che gridava il nome dello scandalo: gendercide, sterminio di genere. Due minuscole scarpette rosa su un gigantesco sfondo nero.
Una consuetudine rurale che fatica a scomparire, anche nella moderna e positivista Cina. Il figlio maschio sarà un aiuto nei campi, permetterà di portare avanti il nome e la ricchezza del clan, accudirà i genitori quando invecchieranno. Sarà garanzia per il futuro e consolazione per gli antenati. E, visto che per legge è concesso un solo tentativo, la nascita di una bambina è temuta come una sciagura che si abbatterà sulla famiglia, una vergogna che ne infanga l’onore e che risale l’albero genealogico fino a sporcare il ricordo degli avi.
È indescrivibile il dolore che ogni madre deve affrontare per essersi sentita costretta a rinunciare a una figlia. Ed è un dolore taciuto, nascosto, represso. Bisogna continuare a vivere per provare a dare alla luce un maschio, e bisogna continuare a mentire perché si è disobbedito al Governo. La stessa legge sulla pianificazione familiare proibisce l’allontanamento delle donne che partoriscono figli di sesso femminile e afferma che è illegale abbandonare le neonate. Ma la realtà è sempre più complicata e la brava sposa di campagna sa che deve generare un maschio. È convinta che ogni donna che partorisce una bambina ha un’unica strada da percorrere: «sistemarla», ovvero sbarazzarsene.
Xue Xinran riesce a far parlare queste donne perché cerca disperatamente una giustificazione all’amore che sua madre gli ha negato durante l’infanzia. È cresciuta negli anni Sessanta, affrontando da sola la tremenda carestia che seguì il Grande balzo in avanti, la Rivoluzione culturale e i campi di rieducazione. Erano tempi difficili, quelli: preoccuparsi della propria famiglia “era un comportamento capitalista e come tale poteva essere punito” .
La piccola Xinran si è sentita abbandonata e oggi crede che ogni madre abbia il dovere di spiegare alla propria figlia i motivi del suo gesto, di convincerla dell’inevitabilità del suo amore. Anche se non la rivedrà mai più. Così, quando alla fine degli anni Ottanta la Cina intraprese la strada delle riforme, Xinran cominciò a lavorare in una radio di Nanjing. Dal 1989 al 1997 fu conduttrice di uno dei più ascoltati programmi radiofonici locali. Si chiamava Parole nel vento della sera ed era rivolto alle donne. Girò la Cina in lungo e in largo per scoprire e raccontare il loro dolore silenzioso e capì che quelle storie che pensava appartenessero solo alla Cina rurale, abitavano anche le moderne metropoli. Vide la lavapiatti del ristorantino dove pranzava ogni giorno tentare il suicidio dopo aver assistito al compleanno di una bambina di città. Non sapeva che una bambina potesse essere felice. Vide coppie che si allontanavano dal proprio luogo ufficiale di residenza e che si muovevano da una città all’altra per sfuggire i controlli abbastanza a lungo da partorire un maschio. Li chiamano “i guerriglieri delle nascite clandestine” e il loro percorso è disseminato di bambine abbandonate.
Convinse una vecchia signora che riparava biciclette a raccontarle il suo precedente lavoro da levatrice. Un compenso normale per la nascita di una femmina, da tre a sei volte tanto per la nascita di un maschio, una cifra molto più elevata se doveva «sistemare» la bambina. A volte poteva solo farla sparire: venderla a una donna che non poteva avere figli propri, o abbandonarla. Non vide mai più quella signora, non poteva sopportare il peso dei ricordi.
Nel 1997 Xinran si trasferì a Londra, dove tutt’ora vive e lavora. Continua il suo lavoro di giornalista e cerca di colmare il vuoto lasciato dalle madri naturali negli orfani cinesi adottati all’estero. Sono oltre centoventimila, e sono quasi esclusivamente bambine. Il suo libro è dedicato a tutte loro.

Durante il Festival di Massenzio, in corso a Roma, Xue Xinran incontrerà il pubblico martedì 14 giugno, alle 21, insieme a Michela Murgia e Clara Sanchez.

Repubblica 10.6.11
Figli lasciati in ospedale crescono le madri segrete
di Maria Novella De Luca


Si chiamano "madri segrete". Arrivano dalle pieghe di un´Italia profonda, emarginata, sommersa, dove vecchie e nuove povertà si fondono. Sono clandestine, immigrate, senza patria, ma anche italiane, giovanissime, a volte poco più che bambine. Donne, ragazze, adolescenti cresciute in fretta, sole, spaventate, violate.
Ogni anno di più: partoriscono ma poi il loro bambino non lo riconoscono e lo lasciano in ospedale, affidato alle mani sicure di medici e infermiere. Sono la spia di un´emergenza infanzia nascosta e drammatica: sono infatti oltre 400 l´anno i piccoli che non vengono riconosciuti alla nascita, un tempo si chiamavano "nati indesiderati", ma il loro numero cresce, nel 2010 soltanto a Roma i casi sono stati 60, il 20% in più dell´anno prima, bambini destinati a veloci adozioni nazionali, soprattutto però se sani e senza difetti, altrimenti la strada si fa più difficile, per i minori con handicap spesso l´unico futuro è l´istituto. Le mamme hanno 3 mesi di tempo per ripensarci, poi basta, per loro quel figlio sarà missing, scomparso, accolto ormai dentro le vite degli altri. Nessuno può né deve chiedere loro nulla, la legge è chiara, sono "parti anonimi", il bambino resta, la madre biologica scompare.
Firmano e se ne vanno le madri segrete, ombre nei reparti di maternità, dove tutto il resto è invece attesa, gioia. Se ne vanno, curve su se stesse, sole come sono arrivate, con il corpo ancora sconvolto da quella nascita e da quella perdita. Mascia, Alina, Alice, Heiriti, Caterina, Magdalena, Ylenia, Deborah, Sabrina: alcune chiedono di vedere il bambino, altre no, è troppo dura, se lo tieni in braccio poi forse non ti staccherai più... Dietro quella decisione estrema ci sono uomini violenti, religioni intolleranti, famiglie che si vergognano di figlie incinte per sbaglio, prostituzione, clandestinità, la paura di essere espulse, violenze sessuali, non avere né terra né patria e nessuna informazione sull´aborto legale. «Un mese fa ho ricevuto una lettera in una busta chiusa. Era indirizzata ad un neonato ancora senza nome e senza identità. L´aveva lasciata sua madre quella busta, dopo averlo partorito e affidato all´ospedale. Adesso la busta la custodiremo noi, sigillata nel fascicolo di quel bambino che presto sarà dato in adozione... «. Racconta così Melita Cavallo, presidente del Tribunale per i minori di Roma, un recentissimo caso di parto anonimo, e le sue parole evocano un´Italia arcaica e disperata, un mondo che si pensava scomparso di figli abbandonati, di maternità non volute, di bambine-ragazze sconvolte da gravidanze premature, e di neonati "ignoti" consegnati allo Stato come un tempo venivano affidati alle ruote degli esposti.
Ma come è possibile che nell´Italia dei bambini amati e voluti, delle dramma delle culle vuote, del boom delle adozioni internazionali ci siano ancora sacche di povertà così assolute? E perché queste donne non vengono aiutate prima? La verità è che in Italia c´è una emergenza infanzia sommersa e taciuta. Non solo minori abbandonati, ma anche malnutriti, senza vestiti, senza latte, senza pannolini, senza medicine, come denunciano ormai da anni le associazioni di aiuto per le neo-mamme come «Salvabebè», la Caritas, i Movimenti per la Vita, la Comunità di Sant´Egidio, tra i pochi ad occuparsi della sopravvivenza delle donne in gravidanza, e poi dei primi mesi di vita dei loro neonati. Sono due milioni i bambini poveri nel nostro paese, dice l´Istat, a rischio di fame e malattie, e di questi 700mila hanno tra 0 e 3 anni. Un´emergenza tale che nel giro 15 anni le antiche ruote degli esposti, "rinate" a metà degli anni Novanta sotto forma di modernissime culle termiche collegate ai sensori dei Pronto Soccorso, sono triplicate accanto ai grandi poli ospedalieri e ai centri maternità.
IL DIRITTO ALL´ANONIMATO
Da secoli è possibile per le donne partorire e mantenere nascosta la propria identità. Erano 40mila ogni anno i neonati che nell´Italia di fine Ottocento venivano fatti scivolare nella notte dentro la ruota degli esposti da madri povere e disgraziate, ma anche da donne ricche rimaste incinte fuori dal matrimonio. Migliaia e migliaia di senza famiglia affollavano l´Annunziata di Napoli, l´Istituto degli Innocenti di Firenze, il Santo Spirito di Roma. Oggi sono poche centinaia. Ma il diritto all´anonimato, ribadito nel 1975 proprio con la riforma del diritto di famiglia, è stato rafforzato ancora dal Dpr 396 del 2000, che protegge "l´eventuale volontà della madre di non essere nominata" e sancisce il divieto di fare ricerche sulla paternità.
Il 70% delle madri segrete è composta da donne immigrate («quante badanti messe incinte dai datori di lavoro e poi cacciate», racconta Grazia Passeri, presidente di Salvabebè), il 30% da ragazze italiane, giovanissime, spesso cresciute in aree degradate, marginali, dove una gravidanza precoce (e senza marito) è tutt´oggi una ferita all´onore del clan. Molte, l´82%, restano incinte per la prima volta, al Nord come al Sud, ma la maggioranza di parti anonimi (48,7%) avviene nel Centro Nord, laddove gli ospedali sono grandi, la legge è un po´ più conosciuta, ed è più facile nascondersi tra la folla. «Avere una stima ufficiale dei parti segreti non è facile proprio per la tutela dell´anonimato. L´unica traccia sono le schede di dimissione ospedaliera - spiega Enrico Moretti, dell´Istituto degli Innocenti di Firenze - dove si registra che in quel giorno e a quell´ora c´è stato un parto e che la madre non ha riconosciuto il figlio. Ma non sempre le regioni comunicano i dati, non esiste un´anagrafe degli abbandoni, possiamo dire però con approssimazione che i casi sono circa 350/400 l´anno, in gran parte figli di donne straniere. Questi bambini entrano a far parte delle liste dell´adozione nazionale e in pochi mesi trovano una nuova famiglia: sono infatti 1200 ogni anno i minori dichiarati in stato di abbandono, ma le coppie in attesa sono oltre 7000..."
I MEDICI RACCONTANO
E la conferma di un fenomeno in crescita arriva proprio dai medici. Il Policlinico Casilino è una grande area ospedaliera che si affaccia verso le nuove aree satellite della città, tra la periferia inurbata e quella più estrema. Proprio qui, al Policlinico Casilino, nel 2006 fu installata una delle "culle protette" contro l´abbandono e l´infanticidio dei neonati. «I casi di figli non riconosciuti aumentano di anno in anno - conferma Piermichele Paolillo, direttore del reparto di Neonatologia - e il record è proprio nella nostra struttura, 60 bambini "ignoti" nel 2010 contro i 40-45 degli anni passati. Sono soprattutto figli di immigrate, in questo momento abbiamo due gemelline, nate premature ma in buona salute. Purtroppo i piccoli lasciati in ospedale, e quindi al sicuro, sono soltanto la punta dell´iceberg di una tragedia più vasta: sono decine i bambini partoriti in segreto e abbandonati chissà dove, di cui non sapremo mai nulla... «. «A Napoli in questo momento abbiamo due bambini, uno è sano, l´altro ha dei problemi - aggiunge Roberto Paludetto, primario del reparto di Neonatologia al Policlinico Federico II - ma i numeri sono in rialzo. E nei nostri ospedali le mamme anonime non sono immigrate ma italiane e giovanissime». Appunto. Chi sono, dove vivono queste donne così disperate da abbandonare il loro bambino in ospedale quando va bene, in un cassonetto o tra i canneti di un fiume quando va male? Non hanno famiglia, amici, compagni?
STORIE DI MAMME SEGRETE
Marina Secchi fa l´assistente sociale tra i centri di volontariato che raccolgono il bacino depresso delle aree romane di Tor Bella Monaca, Torre Angela, Lunghezza. Zone ad alto tasso di dispersione scolastica, delinquenza giovanile, campi nomadi, slum metropolitani, e sempre di più gravidanze adolescenziali. Ha i capelli bianchi e lo sguardo sereno: ascoltarla è come affacciarsi su un mondo di vite a perdere, tra le ultime delle ultime. « Ricordo Magdalena, moldava: il figlio della sua badante l´aveva messa incinta e poi abbandonata. Lei aveva un marito e altri figli a Chisinau, non sapeva che fare… Ricordo Mina, aveva 16 anni, tossicodipendente e ammalata di Aids: la sua bambina è nata in crisi di astinenza e sieropositiva, ma in pochi mesi si è negativizzata ed è stata subito adottata. Credo purtroppo - dice Marina Secchi - che Mina sia morta. Ricordo Alice, 17 anni, abitava a Tor Bella Monaca, noi dei servizi la conoscevamo bene: aveva superato i termini per l´aborto, ma forse con quel figlio avrebbe trovato radici... E poi Zaira, colf egiziana: non so come avesse fatto a nascondere la gravidanza ai suoi datori di lavoro, che forse l´avrebbero anche aiutata: ha avuto un bambino prematuro e cerebroleso. Non ha voluto vederlo…Ma Davide, così l´avevamo chiamato noi, è stato miracolosamente adottato, dopo essere rimasto per otto mesi in ospedale. In più di vent´anni di lavoro ho incontrato almeno una ventina di donne che hanno fatto questa scelta e la metà erano minorenni. La legge è chiara: bisogna rispettare la decisione, ma anche far sapere loro che potrebbero andare in casa famiglia, e che soprattutto possono ripensarci...».
Però ci vuole delicatezza, e non sempre avviene, spiega ancora Marina Secchi. «Ho visto donne trattate male dalle infermiere, dalle altre gestanti, ma soprattutto lasciate nella stessa stanza con le partorienti "normali". Pensate che crudeltà far entrare in contatto madri con destini così diversi». Storie attuali eppure drammaticamente arcaiche. Come quella di I. che forse si chiama Irina, messa incinta dal suo protettore. «Aveva promesso di sposarmi, per questo non ho abortito e ho lasciato che la gravidanza avanzasse. Quando ormai era troppo tardi - Irina parla con il viso schermato in un filmato raccolto dall´assistente sociale - ho capito che voleva solo il bambino, per farne qualcosa di brutto…Un´amica mi ha aiutata a scappare, sono stata in una casa del Comune fino al parto. Ma la bambina l´ho lasciata lì, in ospedale. So soltanto che era bionda e con gli occhi blu. Ma tutti i neonati hanno gli occhi blu, vero?».
«In realtà - spiega la ginecologa Alessandra Kustermann, primario alla clinica Mangiagalli di Milano - non è facile entrare in contatto con le donne che fanno questa scelta: spesso arrivano tardi rispetto ai tempi dell´aborto, o durante i mesi della gestazione si accorgono di non potercela fare. Oppure, ed è frequente, i piccoli hanno malformazioni gravi, danni cerebrali. Ho però conosciuto una ragazza rimasta incinta dopo una violenza sessuale - racconta Alessandra Kustermann - molto cattolica e lucida che decise consapevolmente di far nascere e poi dare in adozione suo figlio, pur potendolo mantenere. Era una ragazza forte ed equilibrata, ma ricordo il suo dolore. L´abbandono è sempre vissuto come una violenza, come un´ingiustizia, credo che molte portino dentro di sé per tutta la vita il fantasma di quel figlio». «Conosco la disperazione di queste donne e ne ho viste alcune tornare indietro a cercare il figlio che avevano lasciato - aggiunge Melita Cavallo - ma quasi sempre sono ripensamenti tardivi. C´è stato un caso però in cui di fronte all´autentico dolore di una madre, abbiamo mutato un´adozione legittimante in un´adozione speciale, in modo che pur saltuariamente quella donna potesse ogni tanto rivedere il suo bambino».
Una legge imperfetta
Maria Grazia Passeri nel 1992 ha fondato l´associazione "Salvabebè, salvamamme", organizzazione di puro volontariato che sostiene le donne durante la gravidanza e nei primi anni di vita del bambino. Latte, pannolini, vestiti, assistenza medica, legale, psicologica. «Oggi nei nostri centri forniamo corredi e aiuti alimentari per cinquemila mamme e ottomila neonati, il 20% sono italiani, ma l´emergenza cresce e i fondi sono sempre più scarsi. La legge sul parto anonimo è una buona legge ma non basta. Perché permette di partorire in ospedale e di non riconoscere il figlio, ma in realtà non tutela davvero l´anonimato». Proprio a cominciare dall´ospedale, dove la segretezza, dice la presidente di "Salvamamme", non è affatto garantita. «Queste donne sono perseguitate, in fuga. Chi le nasconde? Chi le aiuta quando il momento di partorire si avvicina e l´unica soluzione a cui pensano è quella di abbandonare il neonato in un cassonetto? La risposta è semplice. Bisogna tappezzare proprio i cassonetti di tutta Italia con le istruzioni sul parto anonimo, con gli indirizzi delle "ruote" e con quelli dei consultori. Sono donne povere, straniere, colf, badanti: sono isolate, senza informazioni. Però almeno una volta al giorno questo è certo - conclude Maria Grazia Passeri - andranno a buttare la spazzatura, e vedranno quel volantino in più lingue, scoprendo così di avere ancora una via d´uscita: tenere con sé il bambino, farlo adottare da altri, chiedere aiuto. In ogni caso scelte di vita».

Repubblica 10-6-11
"Le straniere ignorano che l’aborto è legale così la nascita non voluta è l’unica alternativa"


Chi aiuta queste mamme negate prima e dopo il parto? E chi le informa delle possibilità alternative al cassonetto?
Come è possibile che nell´Italia delle culle vuote e dei bambini cercati a tutti i costi si consumino ancora tali drammi?

Il 70% dei parti anonimi in ospedale è effettuato da donne immigrate. Clandestine, senza reti, e terrorizzate dall´essere espulse. Perché se è vero che una immigrata irregolare al terzo mese di gravidanza può andare in questura e richiedere un permesso di soggiorno temporaneo, che le garantirà un anno al sicuro in Italia. È anche vero però che questo vuol dire rendersi visibili, uscire dall´ombra. «Le donne clandestine hanno paura - spiega Pilar Saradia, responsabile immigrazione della Uil del Lazio - nonostante il permesso di soggiorno copra i sei prima e i sei mesi dopo il parto. Ciò che temono è l´essere espulse dall´Italia allo scadere di questo breve periodo, e con un bambino in braccio. Così accade che le più sole, quelle fuori dalle reti di comunità, si ritrovino a dover gestire una gravidanza senza poter chiedere aiuto, e pur disperate abbandonano quel figlio che non saprebbero come gestire».
Dietro queste centinaia di parti anonimi, che riguardano appunto nel 70% dei casi donne immigrate, e nel 30% giovani ragazze italiane, ci sono alcune emergenze ben precise. «C´è un´area legata alla prostituzione - racconta Pilar Saradia - ci sono le vittime delle violenze sessuali, e anche tra le immigrate non poche minorenni. E poi c´è la mancanza di informazione. Molte straniere arrivano da paesi dove l´aborto è fuorilegge, il Perù ad esempio, e non sanno che qui invece è legale, ed è possibile interrompere una gravidanza in ospedale, anche se si è clandestine. Ma l´informazione non c´è, non passa, mentre invece passano i mesi. Così accade che per alcune non resta che l´abbandono del figlio. Sul fronte opposto - aggiunge ancora Pilar Saradia - sta emergendo un fenomeno altrettanto doloroso e segnalato proprio dai reparti di Ivg: molte donne immigrate, probabilmente assunte in nero, abortiscono per non perdere il posto di lavoro. Sanno bene che all´annuncio di una gravidanza si ritroverebbero per strada... ».
(m.n.d.l)

La Stampa 10.6.11
“La democrazia conquisterà anche la Cina”
Il padre della dissidenza Wei Jingsheng “Le primavere arabe? Troppo lontane”
Intervista di Marzia De Giuli

qui
http://www.scribd.com/doc/57499931

il Fatto Saturno 10.6.11
Internet
La Cina è vicina: Anche in Europa bavaglio alla rete?
di Laura Margottini


L’HANNO paragonato al Great Firewall, il sistema di censura che la Cina utilizza per controllare internet e vietare l’accesso a blog, social network e siti d’informazione scomodi al regime. Ora, il modello di censura cinese potrebbe diventare una realtà anche in Europa. Almeno così in una proposta avanzata da un gruppo di lavoro del Consiglio dell’Unione Europea denominato LEWP. Gruppo che si occupa dei crimini legati al terrorismo e alle frodi di varia origine. Nel corso di una riunione avvenuta lo scorso febbraio, i cui contenuti sono stati resi noti solo recentemente, si è discussa la possibilità di creare una dogana virtuale per la rete europea chiamata Virtual Schengen Border.
Riguarda la creazione di un unico e super sicuro cyberspazio europeo. Il riferimento al trattato di Schengen non è casuale. L’idea sarebbe quella di far circolare liberamente i contenuti del web all’interno dei confini europei solo dopo che siano stati filtrati in punti di accesso virtuali ai confini del continente. Qui gli Internet Service Providers bloccherebbero i contenuti illeciti sulla base di una “lista nera” di siti pericolosi o che ospitano materiale illegale. La presentazione del progetto è stata fatta da un esperto il cui nome non è stato rivelato. L’organizzazione per la libertà di informazione Articolo 19 è riuscita a ottenere e pubblicare il documento che illustrava la proposta. Nel documento si legge: «Questo è solo il primo passo per bloccare i contenuti destinati ai pedofili all’interno dei confini europei. […] In futuro sarà possibile allargare la cooperazione per bloccare altri tipi di crimini». Quali siano questi crimini e quali i siti da inserire nella lista nera non è però specificato. Cosa che ha fatto drizzare le orecchie alle associazioni in difesa della libertà d’informazione e ai provider di broadband. Utilizzare il pretesto di bloccare materiale pedo-pornografico per poi censurare la rete non è una novità. È lo stesso metodo che molte dittature utilizzano per bloccare anche quei siti che nulla hanno a che fare con la pedofilia. Spesso infatti si tratta di blog di dissidenti. Nel documento che illustra il Virtual Schengen Border c’è anche un altro punto interessante, rilevato da EDRI – uno dei più importanti movimenti europei a favore dei diritti digitali, che si è schierato duramente contro la proposta del LEWP. Riguarda il fatto che nella bozza del progetto non c’è mai un riferimento alla possibilità di perseguire per legge i criminali: «La domanda che ci poniamo è – si legge sul sito dell’EDRI – da quando la priorità della legge è diventata quella di sopprimere le prove di un crimine, piuttosto che punire i criminali e salvare le vittime?». La preoccupazione di EDRI e di altre organizzazioni è legata al fatto che una sorveglianza di internet autorizzata in Europa fornirebbe un’ottima giustificazione per censurare ulteriormente la rete in altri posti del mondo dove vige una dittatura.
Anche le aziende provider di broadband sono preoccupate, sostenendo che i contenuti illeciti dovrebbero essere rimossi grazie a una cooperazione tra la polizia e le aziende di web hosting. Bloccare parte della rete, secondo loro, non è una soluzione, perché è una misura antidemocratica, antieconomica e anche molto semplice da eludere. Per non parlare dei costi: Ian Brown, ricercatore dell’Oxford Internet Institute in Gran Bretagna, tra i maggiori esperti mondiali di diritti digitali e censura di internet, ha dichiarato a Saturno: «Il progetto è pericoloso, ma è ancora in fase embrionale, non essendo stato discusso dalla comunità europea. Ma è proprio in questa fase che deve esser bloccato, perché se la proposta dovesse andare avanti sarebbe poi molto difficile impedirne la realizzazione».

il Fatto Saturno 10.6.11
Astrofisica
Siamo tutti figli dell’antimateria
L’esperimentoAMS scandaglieràil cosmoperchiarire ilmisterocheci permettediesistere
di Amedeo Balbi


SECONDO ARISTOTELE, una delle caratteristiche della bellezza è la perfetta simmetria. È una fortuna che questo ideale estetico non si sia realizzato nell’universo in cui viviamo, visto che è stata proprio la presenza di lievi imperfezioni a rendere possibile la nostra stessa esistenza. Una delle asimmetrie più bizzarre che si manifesta nel cosmo è quella tra la materia che dà forma a tutto ciò di cui abbiamo esperienza diretta, e la sua controparte speculare: l’antimateria.
Prendete una particella elementare – per esempio un protone o un elettrone, i costituenti di base degli atomi – lasciate in-variata la sua massa e cambiate segno alla sua carica elettrica: avrete un’antiparticella. Con gli antiprotoni e gli antielettroni potreste poi costruire antiatomi, con gli antiatomi potreste mettere insieme antielementi e antimolecole, secondo le regole di una chimica perfettamente identica a quella che conosciamo. Procedendo di questo passo potreste costruire un intero mondo fatto di antimateria. Ma allora, perché il nostro mondo sembra fatto esclusivamente di materia?
Che le antiparticelle esistano è provato sperimentalmente. Ma sono mosche bianche. Per trovarle, bisogna andare a cercarle con il lanternino: per esempio tra le miriadi di particelle prodotte quando i raggi cosmici (particelle cariche veloci provenienti dallo spazio esterno) entrano nella nostra atmosfera. Oppure negli acceleratori di particelle, dove i fisici sono persino riusciti, superando grandi difficoltà tecniche, a produrre per brevi attimi antiatomi di idrogeno e di elio. Questa predominanza della materia rispetto all’antimateria risulta molto strana, dal momento che la simmetria tra particelle e antiparticelle sembrerebbe praticamente perfetta da ogni punto di vista. Un fisico che osservasse a distanza un oggetto fatto di antimateria non noterebbe differenze rispetto a una sua copia identica fatta di materia. E se un astronomo osservasse una galassia di antimateria avrebbe serie difficoltà a distinguerla da una fatta di materia.
L’unico effetto eclatante della coesistenza di materia e antimateria si ha quando esse vengono a contatto diretto. Se una particella incontra la propria antiparticella, le due si elidono a vicenda, rilasciando un’energia corrispondente alla somma delle proprie masse. Ma questo pone un problema. Se all’origine dell’universo la simmetria tra materia e antimateria fosse stata perfetta, tutto si sarebbe risolto in una generale annichilazione tra particelle e antiparticelle, che avrebbe lasciato dietro di sé solo energia, e nemmeno un mattone per costruire il mondo. Non ci sarebbero atomi, né tantomeno galassie, stelle, pianeti e persone. L’universo è quello che è in virtù di una inspiegabile (almeno per il momento) asimmetria, che ha portato a preferire la materia all’antimateria. Siamo figli di una piccola imperfezione. Di questa imperfezione, i fisici non conoscono ancora la causa. Esistono diversi tentativi teorici di interpretare il fenomeno, ma nessuna ipotesi ha ancora avuto una prova sperimentale certa. Lo scorso 16 maggio, uno dei tentativi di soluzione ha affrontato un viaggio complicato, chiuso nella stiva dello Shuttle Endeavour (per inciso, l’ultimo viaggio di quella navetta spaziale), che lo ha portato con successo a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Si tratta dell’esperimento AMS (Alpha Magnetic Spectrometer), un costoso apparato voluto dal premio Nobel Samuel Ting e portato avanti da una vasta collaborazione internazionale – di cui è parte importante anche il nostro paese – che scruterà il cosmo per cercare, tra le altre cose, anche tracce della presenza di antimateria.
Basterebbe trovare anche solo un antiatomo di elio per avere un forte indizio della presenza di grandi quantità di antimateria – magari intere galassie – in regioni distanti del nostro universo. Per “costruire” un atomo di elio, infatti, c’è bisogno di condizioni particolari che, per quanto ne sappiamo, si verificano in natura solo nelle condizioni di estrema densità e energia presenti negli attimi successivi al big bang, oppure nel nucleo delle stelle. Per fare un antiatomo di elio, quindi, ci vorrebbe quantomeno un’antistella, da qualche parte.
Se così fosse, l’antimateria potrebbe non essere sparita completamente, ma l’universo potrebbe essere fatto a “chiazze”, diviso in regioni di materia e antimateria separate fra loro. Sarebbe una conclusione notevole e per certi versi sconcertante; dopo di che bisognerebbe però trovare un meccanismo fisico plausibile in grado di giustificare la presenza di vaste regioni del cosmo dominate dalla materia intervallate a un numero equivalente di regioni cadute in mano all’antimateria.
Ma AMS potrebbe invece mettere limiti ancora più stringenti alla presenza di antimateria nel cosmo, portando a concludere (ed è questo l’esito più probabile secondo molti fisici) che tutto l’universo osservabile sia fatto esclusivamente di materia. A quel punto, la questione sarebbe chiusa dal punto di vista sperimentale: ma la necessità di spiegare la strana asimmetria che ha reso possibile l’esistenza dell’universo diventerebbe ancora più urgente.

Corrado Guzzanti questa sera su SkyUno (canale 109)
“Sono sceso sulla terra per combattere paura  viltà e bugiardìa”

l’Unità 10.5.11
E Guzzanti finisce a Sky «In Rai vige il terrore...»
Dopo 9 anni di assenza dalla tv, il comico di «Avanzi» porta al canale di Murdoch uno special: c’è «il massone», un vecchio Licio Gelli, le Olgettine vestite da odalische...
di Roberto Brunelli


Ci sono le «orfane dell’Olgettina», vestite da danzatrici del ventre. C’è «il massone», ovviamente incappucciato, che si deve preoccupare di trovare una ragazza per Scilipoti. C’è un vecchio Licio Gelli, che curiosamente parla napoletano e rivendica con nostalgia di «quando era il burattinaio d’Italia». C’è Aniene, che è una via di mezzo tra un supereroe e «una divinità di serie C», mandata dall’Altissimo per aiutare l’umanità dolente («papà, che devo fa’ de questi terrestri, dove regna la bugiardia e so’ tutti come bambini?»). C’è uno spot per sordomuti sui quattro referendum, nel quale la conduttrice fa di tutto pur di depistare gli elettori: «Potete votare anche il 14 dice, con il linguaggio dei segni almeno troverete meno gente. Della scheda potete fare anche un aeroplanino, sicuramente sarà conteggiata lo stesso». Ebbene sì, Corrado Guzzanti torna finalmente in tv (a parte la visita a Vieniviaconme). Ma «non è la Rai», si potrebbe dire parafrasando un famigerato programma del passato: è Sky ad ospitare, l’ex Rokko Smitherson di Avanzi, transfuga della tv da ben nove anni. È non è un caso. L’appuntamento è per stasera, su SkyUno in prima serata, con altri cinque passaggi a seguire. Il titolo è, appunto, Aniene: un po’ perché uno dei pezzi forti dello speciale è l’imitazione di Venditti che canta L’esondazione dell’Aniene, il cui video in rete ha già fatto il botto, un po’ perché «l’Aniene è un fiume piccolo, come siamo noi, ma che se piove troppo è capace di arrabbiarsi davvero ed esondare». Il punto cruciale per Corrado è la libertà d’azione e di scrittura. «Non hanno nemmeno voluto vedere i testi», assicura. Andrea Scrosati, capo della programmazione del canale di Murdoch, dice che fino a ieri mattina non aveva visto nemmeno mezzo minuto di girato. Non come capita di questi tempi alla tv di Stato. Racconta Guzzanti: «L’ultima volta che sono stato in Rai c’era un clima di terrore, con persone che si sentivano detestate dal proprio editore, che dovevano combattere una guerra amministrativa e burocratica quotidiana. Molto stressante...». Gli domandano se ritiene che qualcuno voglia dissolvere Rai3. «A Viale Mazzini mi stanno superando in quanta a satira: pare che vogliano mandare Fazio a condurre il programma dei pacchi su Rai1... E Santoro? Ha fatto benissimo ad andarsene».
È curioso vedere come le vicende Rai rimbalzino qui a casa Sky. La questione degli eventuali (o probabili) fuorisciti da Rai3 interessa non poco anche Scrosati, che ripete che «le eccellenze» che dovessero rimanere senza casa potrebbero anch finire alla rete di Murdoch. Qui è in ballo quello che in altri paesi è l’elementare concetto di concorrenza. E da questo punto di vista le teste d’uovo di Viale Mazzini rischiano di lasciare un immenso campo aperto: in effetti, a vedere gli spezzoni di Aniene viene piuttosto difficile immaginarseli sulla Rai. Non solo: come conferma anche Scrosati, è ampiamente probabile che non rimanga un esperimento «one shot». Si parla apertamente della possibilità di una serie da realizzare a partire da settembre. Un progetto ambizioso. Dice Guzzanti che «Aniene è una struttura fatta di tanti sketch cuciti insieme, senza studio, senza conduttore, senza pubblico. Per il futuro, vorrei fare qualcosa che è a metà strada tra satira e fiction. Non voglio il solito show del sabato sera, ma qualcosa di più anarchico...». Intanto ci accontentiamo delle Olgettine mascherate a rallegrare «il massone che gestisce i poteri occulti del paese». No, non è la Rai, e probabilmente mai lo sarà.

Repubblica 10.6.11
Bellocchio farà un film tratto dal libro della veladiano


ROMA - Marco Bellocchio ha acquistato i diritti cinematografici del romanzo di Mariapia Veladiano, La vita accanto, pubblicato da Einaudi Stile libero. Il libro di esordio della teologa cinquantenne, che ha già vinto il Premio Calvino, è ora in corsa per lo Strega: si saprà mercoledì prossimo se entrerà nella cinquina dei finalisti. La storia della ragazzina brutta, abituata a «esistere sempre in punta di piedi, sul ciglio estremo del mondo», ha colpito il regista per la sua tematica originale che lo avrebbe toccato nel profondo. Il romanzo della Veladiano è soprattutto una sfida per il cineasta: la trasposizione in immagini si annuncia complessa e sarà interessante vedere come Bellocchio trasformerà la materia letteraria in un film.