sabato 13 gennaio 2018

La Stampa13.1.18
Nei giorni di Francesco i mapuche bruciano le chiese
“Simbolo di oppressione”
Alla vigilia della visita in Cile, occupata la nunziatura
di Andrea Freddi


Chiese bruciate e la nunziatura occupata. È un Cile irrequieto quello che aspetta il Papa. I mapuche riscoprono una lotta anti religiosa, mentre nella capitale, un gruppo di manifestanti ha occupato la sede apostolica per protestare contro la visita di Francesco che comincia lunedì per concludersi in Perù il 22 gennaio.
Il cuore del viaggio di Bergoglio sarà l’Araucania, una zona ad alto rischio per il secolare conflitto tra latifondisti e comunità mapuche. E a partire dal 2016 l’attivismo indigeno ha preso un’inedita sterzata anti-religiosa: periodicamente la popolazione araucana si sveglia con una chiesa in meno. I tg trasmettono le immagini dei luoghi di culto incendiati da una rabbia con origini antiche. È a Temuco, capoluogo dell’Araucania, che il Papa farà tappa nel suo viaggio in Cile. Qui si concentra il 35% della popolazione mapuche su un totale di 1,3 milioni di persone. Per la messa collettiva Francesco ha chiesto di dare spazio a una cerimonia mapuche e di pranzare con alcune autorità indigene. Ma cosa dirà nella terra delle chiese in fiamme?
«Ci si aspetta un messaggio a favore del riconoscimento dei mapuche - dice Enrique Antileo, 35 anni, antropologo di origine mapuche -. Nella popolazione esiste la coscienza di essere un popolo colonizzato. È il debito storico che lo Stato cileno ha nei nostri confronti». I mapuche sono l’unica popolazione americana che ha resistito alla conquista: dopo decenni di campagne militari la corona spagnola dovette riconoscerne l’indipendenza. Fu lo Stato cileno a sconfiggere militarmente i mapuche, alla fine del XIX secolo, con la Pacificazione dell’Araucania. Una campagna genocida che smembrò il Wallmapu, l’antica nazione mapuche, costringendo gli indigeni nelle riserve, mentre le terre più fertili erano date agli europei chiamati a «sbiancare la razza».
L’obiettivo primario dell’attivismo indigeno è recuperare le terre e ricostituire il Wallmapu. «L’elemento in comune è il riconoscimento dei mapuche come nazione» continua Antileo «le differenze sono nel quanto e nel come». Si passa dall’associazione di sindaci mapuche, che si muove all’interno delle istituzioni e chiede allo Stato una riforma federalista, alla Wam, l’organizzazione radicale che ha rivendicato i roghi delle chiese e altri atti violenti, con posizioni più indipendentiste. Fonti ufficiali parlano di oltre venti casi, tra chiese e cappelle cattoliche e templi evangelici, dal marzo 2016. Perché?
«La chiesa cattolica è vista come un dispositivo ideologico coloniale», spiega Manuela Royo, 34 anni, avvocato difensore dei mapuche contro l’applicazione della legge antiterrorismo, provvedimento attraverso cui la dittatura perseguiva la dissidenza politica. La sua applicazione contro gli imputati mapuche favorisce incarcerazioni preventive e sospensione dei diritti dell’accusato. Al centro delle accuse c’è il vescovo di Villarica, Stegmeier che ha tagliato i canali di dialogo tra Chiesa e comunità indigene. L’atto scatenante è stato lo sgombero violento di una comunità mapuche da un territorio ecclesiastico rivendicato dagli indigeni. «Anche la Chiesa ha usurpato terre ai mapuche», afferma Royo «e nell’ostruire un processo di restituzione, si è schierata dalla parte degli impresari».
Il vescovo di Villarica appartiene all’Opus Dei ed è discendente di coloni tedeschi che hanno finanziato Colonia Dignidad, enclave nazista in Araucania e luogo di tortura durante la dittatura di Pinochet. Rappresenta la parte più conservatrice della Chiesa cattolica, contrastata da numerosi parroci che convivono con le comunità indigene. Tra loro i gesuiti. Tenendo conto che Francesco è la principale carica della gerarchia ecclesiastica, ma è anche di formazione gesuita, la sua visita a Temuco suscita in Cile interesse e preoccupazione. E tanti interrogativi. Il più grande sul contenuto del suo discorso.

Repubblica 13.1.17
Il caso Orlandi
Emanuela e le verità negate “ Il Vaticano apra gli archivi”
La ragazza scomparsa nel 1983 oggi avrebbe 50 anni Lo Stato ha chiuso l’inchiesta ma la famiglia non si arrende
di Emiliano Fittipaldi


ROMA Emanuela Orlandi, fosse viva, domani festeggerebbe il suo compleanno.
Cinquant’anni tondi tondi. La ragazzina che amava Gino Paoli è nata mezzo secolo fa, all’inizio dell’anno delle rivolte studentesche. Trentaquattro anni e mezzo, invece, sono passati dall’ultima volta che Emanuela è stata vista uscire di casa, sorridente e con il flauto a tracolla, mentre cercava invano di scroccare un passaggio in moto dal fratello per andare alla scuola di musica.
Era un pomeriggio della caldissima estate del 1983. «È trascorso tanto tempo, ma sembra ieri», dice Pietro, che ha voluto realizzare, con Sky, un documentario sulla sparizione della sorella minore. «Ho deciso di farlo perché lei è diventata il simbolo delle persone scomparse.
E delle famiglie che vivono nel silenzio il loro dramma».
Il motivo per cui la storia della Orlandi è entrata nell’immaginario collettivo molto più di ogni altra vicenda analoga è noto: Emanuela era (è) una cittadina vaticana (il padre Ercole, deceduto, era impiegato alla prefettura della Casa pontificia) e la sparizione della piccola è stata collegata, fin da principio, a eventi oscuri, e presunti, della curia e della Santa Sede. Se i primi anonimi telefonisti chiesero, in cambio della ragazzina, la liberazione del turco Alì Agca (detenuto in Italia per il fallito attentato a Giovanni Paolo II del maggio del 1981), alcuni esponenti alla Banda della Magliana parlarono di un rapimento a scopo estorsivo, organizzato per ottenere la restituzione di denaro sporco investito in Vaticano dal mafioso Pippo Calò. Di presunte responsabilità ecclesiastiche si parlò anche nel 1997, quando fu scoperta l’incredibile sepoltura, autorizzata direttamente dal Vicariato di Roma del boss Enrico De Pedis, all’interno della basilica di Sant’Apollinare, mentre la pista sessuale, sempre smentita con vigore dai familiari, è stata ipotizzata recentemente da eccentrici monsignori ed esorcisti. Nonostante le infinite piste investigative seguite per trent’anni da due generazioni di magistrati, le decine inchieste giornalistiche e i colpi di scena (spesso organizzati da mitomani e depistatori), la strada verso la verità non si è fatta più agevole, ma al contrario si è via via trasformata in una matassa apparentemente inestricabile.
Eppure, la famiglia non si è ancora arresa. L’anno da poco terminato aveva portato nuove speranze, dopo che alcune fonti avevano confidato ai fratelli di Emanuela l’esistenza di un documento contabile inedito (un report apocrifo successivamente pubblicato da chi vi scrive e dal Corriere) su presunte spese effettuate dalle autorità della Santa Sede per pagare «l’allontanamento domiciliare» dell’adolescente.
Lo scorso giugno i nuovi avvocati degli Orlandi, Annamaria Bernardini de Pace e Laura Sgrò, hanno così presentato alla Segreteria di Stato istanza di accesso a tutti gli atti e i fascicoli esistenti su Emanuela, sperando di ottenere nuove tracce su cui ripartire. Finora nulla è stato consegnato. «Purtroppo non c’è niente da offrire di più di quello che è stato ripetutamente detto finora. Tutto quello che avevamo lo abbiamo condiviso con chi stava indagando» spiegò già lo scorso luglio Angelo Becciu, sostituto alla Segreteria e uomo forte di papa Francesco. «Magari avessimo una pista da indicare. Non avremmo esitato un attimo a suggerirla...
Sospettare il contrario significa contraddire la realtà dei fatti, che puntualmente sono stati illustrati ogni volta che se ne è offerta l’occasione».
La scomparsa della Orlandi è diventato uno dei misteri d’Italia più celebri ed enigmatici, però, anche a causa della scarsa trasparenza di esponenti di spicco della vecchia gerarchia ecclesiastica. La pista “interna” è stata seguita dagli investigatori senza risultati apprezzabili, ma le evidenze della cortina di silenzio eretta dal Vaticano sono molte: nel 1983 un rapporto segreto del Sisde ipotizzò come uno dei telefonisti, soprannominato dai media “l’Americano”, fosse verosimilmente «un profondo conoscitore della lingua latina, uno straniero, di cultura anglosassone, livello culturale elevatissimo, appartenente (o inserito) nel mondo ecclesiale», mentre dieci anni dopo monsignor Francesco Salerno, che lavorava alla Prefettura degli affari economici, disse ai magistrati italiani che la sparizione di Emanuela poteva a suo parere «costituire un elemento di pressione su ambienti strettamente legati al sommo pontefice», aggiungendo che era sua personale convinzione «come negli archivi della stessa segreteria fossero custoditi documenti inerenti al caso, e forse chiarificatori». Se il cardinale Silvio Oddi spiegò ai giudici istruttori di aver ascoltato due dipendenti vaticani che sostenevano di aver visto la Orlandi entrare e uscire da un’auto di lusso parcheggiata vicino da una delle entrate della città santa, il viceprefetto del Sisde Vincenzo Parisi parlando con il procuratore Giovanni Malerba disse a verbale, nel 1994, che «il costante riserbo della Santa Sede aveva di fatto precluso qualsiasi attività conoscitiva».
Anche le rogatorie internazionali non ebbero successo: i cardinali e i laici chiamati dalla procura non si fecero interrogare direttamente dai pm, ma risposero alle domande per iscritto. Tutti spiegarono di non sapere nulla.
Lo scorso novembre i legali della famiglia hanno fatto un’altra mossa, presentando una denuncia di sparizione direttamente dentro le mure leonine, così che il caso — archiviato definitivamente in Italia nel 2015 — possa essere riaperto dall’ufficio della Gendarmeria. «Da allora non abbiamo saputo più nulla», chiude la Sgrò. «So che è difficilissimo, ma non bisogna lasciare nulla d’intentato per risolvere il mistero. Per la famiglia Orlandi dimenticare Emanuela è impossibile. Nemmeno a 34 anni di distanza».

Repubblica 13.1.17
Intervista a Monsignor Becciu
“Basta illazioni la Santa Sede adesso è pronta a far consultare tutti i documenti”
Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO «Le nostre parole sono poche e povere. Certamente non si può rimanere indifferenti di fronte a un immane dolore come quello sofferto dalla famiglia Orlandi. La nostra solidarietà e la nostra preghiera va a loro, in particolar modo alla mamma di Emanuela, così duramente colpita negli affetti più cari e stremata con il terribile tormento di non conoscere quale sorte sia toccata all’amata figliola».
Così Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato vaticana, a poche ore dal giorno (domani) nel quale Emanuela Orlandi dovrebbe compiere 50 anni.
Monsignore, recentemente è uscita la notizia di una trattativa riservata tra il Vaticano e la magistratura italiana sul caso Orlandi, accennata anche nel film di Roberto Faenza “La verità sta in cielo”. Cosa dice in merito?
«Non conosco il film e tuttavia devo confermare, come è stato detto altre volte, che a noi non risulta che ci sia stata alcuna trattativa. Per che cosa poi? Negoziare cosa? La Segreteria di Stato non ha nulla da poter dare alla magistratura italiana perché già ha fornito, a tempo debito, tutte le notizie in suo possesso e, d’altro canto, niente ha da chiedere alla stessa magistratura. Non si capisce, pertanto, che tipo di trattativa ci sarebbe potuta essere. Purtroppo, come avvenuto in altre occasioni, vengono fatte delle illazioni o ipotesi fantasiose, ma mai vengono forniti dettagli certi o nomi che permettano di effettuare una puntuale verifica. Tutto è lasciato all’immaginazione di chi legge...».
Esistono degli archivi segreti sul caso custoditi in Vaticano?
«Mi creda, non esiste alcun archivio segreto. Il cosiddetto dossier, tante volte citato o invocato a sproposito, non è altro che una posizione che raccoglie le tante lettere e scritti, più o meno fantasiosi, giunti alla Santa Sede durante quel periodo.
Tutto è stato sempre trasmesso agli inquirenti italiani, che, per competenza, hanno seguito il caso nel corso degli anni. Non abbiamo alcunché da nascondere che eravamo pronti ad accogliere la richiesta della famiglia Orlandi di poter consultare la documentazione in nostro possesso. Ci siamo bloccati perché nel frattempo la famiglia Orlandi ha aderito e sostenuto l’iniziativa di qualche deputato italiano volta a chiedere la costituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sul fatto. A questo punto non ci resta che predisporci a collaborare con l’istituzione pubblica, atteso che ogni passo differente potrebbe essere visto come un intralcio al suo lavoro».
Nella scomparsa di Emanuela è direttamente implicato il Vaticano oppure no?
«Mi riesce davvero difficile pensare che uomini di Chiesa siano stati al corrente di elementi anche minimi riferentesi alla vicenda della povera Emanuela e non abbiano avuto lo scrupolo di riferirli agli inquirenti.
Davvero pensare che il Vaticano sia implicato nella scomparsa della ragazza è una teoria che si basa su sospetti privi di prove credibili».

La Stampa 13.1.18
Per Bergoglio è il viaggio più insidioso
di Andrea Tornielli


Doveva essere un tranquillo ritorno nella «sua» America Latina. Invece il viaggio in Cile e Perù che Francesco inizia lunedì rischia di essere tra i più insidiosi. L’occupazione della nunziatura è un pessimo segnale, dato che lì Bergoglio dovrà alloggiare a Santiago.
Alcuni gruppi della minoranza Mapuche, pur non essendo ostili verso la Chiesa che li ha spesso difesi, con le loro azioni violente vogliono cercano visibilità. Oltre alle polemiche per i costi della visita, ci sono motivi di risentimento verso i vescovi per la gestione dei casi di pedofilia. Irrisolta è situazione del vescovo di Osorno, Juan Barros, formatosi alla scuola del potente padre Fernando Karadima, riconosciuto colpevole di abusi su minori. Barros dice di non aver mai saputo cosa facesse il suo mentore ma la sua presenza in diocesi sta diventando insostenibile. La Chiesa cilena, che al tempo di Pinochet godeva di un grande prestigio per le sue coraggiose denunce, oggi ha perso molta credibilità nell’opinione pubblica. Per invertire la tendenza Francesco dovrà muoversi fuori dai protocolli.

il manifesto 13.1.18
Al voto con il dubbio incostituzionalità
Legge elettorale. I tribunali rallentano sui ricorsi contro il Rosatellum, la Corte costituzionale potrà a questo punto esprimersi solo dopo le elezioni del 4 marzo
di Andrea Fabozzi


Se la Corte costituzionale si occuperà del Rosatellum sarà solo dopo il 4 marzo. E dunque dopo che l’eventuale danno, nel caso anche questa legge elettorale dovesse essere ritenuta incostituzionale, sarà compiuto. Con la decisione mercoledì del tribunale di Messina di rinviare ancora un’udienza da tempo attesa (al 4 febbraio, avvocato Enzo Palumbo) e la fissazione di due ricorsi d’urgenza a Firenze (il 17 gennaio) e a L’Aquila (il 31 gennaio) – ce n’è un terzo a Roma ancora senza data perché era stato assegnato alla sezione sbagliata – è pressoché certo che anche nel caso in cui gli argomenti dei ricorrenti contro il Rosatellum dovessero essere accolti da un tribunale, non ci sarebbe il tempo perché la Corte costituzionale possa esprimersi prima delle prossime elezioni. Non è una buona notizia visto il precedente del Porcellum, giudicato incostituzionale una volta che il parlamento era già stato eletto: rischiamo un’altra legislatura condizionata dallo spettro della illegittimità.
I ricorsi urgenti firmati da deputati ex 5 Stelle e presentati dagli avvocati Solimeno e Pezone con la consulenza del costituzionalista Enzo Di Salvatore potrebbero essere decisi dal giudice anche a stretto giro, il giorno dopo l’udienza. In caso di rinvio alla Corte bisognerebbe attendere la pubblicazione dell’ordinanza sulla Gazzetta ufficiale, poi altri venti giorni per la fissazione dell’udienza. Solo nel caso in cui le parti, e dunque anche l’avvocatura dello stato che rappresenta il governo, dovessero rinunciare alla costituzione si potrebbe in teoria arrivare a un giudizio rapidissimo della Consulta entro il 4 marzo. Ma è un’ipotesi poco realistica, anche perché il presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi è al suo ultimo mese di mandato. Qualche settimana prima della scadenza formale, la fine di febbraio, il presidente della Repubblica come da prassi comunicherà la sua scelta del nuovo giudice costituzionale – il plenum resterà comunque incompleto perché il parlamento da oltre un anno non riesce a eleggere il suo giudice. È ulteriormente improbabile che Grossi, in uscita, possa fissare una camera di consiglio, con un argomento tanto delicato, che non potrebbe presiedere. Del Rosatellum dovrà occuparsi il nuovo presidente, che dovrebbe essere Giorgio Lattanzi.
La sorte della legge si deciderà dunque quando sarà già stata utilizzate per eleggere deputati e senatori. Un elemento di precarietà del prossimo parlamento che potrebbe condizionare l’avvicinamento al voto. «Basta un’ordinanza per fare della legge elettorale il primo tema della campagna elettorale», dice l’avvocato Felice Besostri che attende notizie di altri ricorsi ordinari dai tribunali di Venezia, Trento e Trieste. Contro il Porcellum e l’Italicum ha avuto ragione lui.

Il Fatto 13.1.18
Altri tempi, altra politica, altri partiti
di Gianfranco Pasquino


La Repubblica-Bologna ha letto alcune mie dichiarazioni sul Movimento 5 Stelle raccolte e pubblicate da Il Fatto Quotidiano e muore dalla voglia di fare un bel titolo Pasquino è diventato grillino. Programma una bella intervista che, però, non comincia benissimo poiché l’intervistatrice non sa nulla del mio passato bolognese (candidatura “civica” di sinistra a sindaco nel 2008) e pazienza, ma neppure della sfrenata campagna che i suoi predecessori al quotidiano condussero contro di me e a favore di un candidato che, diventato sindaco, fu costretto a dimettersi sette mesi dopo.
Credevo che le interviste dovessero essere preparate compulsando un po’ di materiale pertinente. Peccato. L’intervistatrice non sembra del tutto convinta che sia una buona cosa avere 15 mila candidati alle parlamentarie dei Cinque Stelle. Però, a suo onore, va detto che capisce subito che il metodo del Partito democratico (a Bologna c’è poco d’altro in città) non è particolarmente eccitante né democratico. Che al plurilegislatore torinese Fassino (cinque volte in Parlamento) possa essere chiesto, come si mormora, di accettare di essere contrapposto a Bersani non sembra sia stato deciso con una qualche procedura democratica. Forse, ma gli inglesi hanno una splendida espressione, I am afraid that neppure essere ricandidati, come Sandra Zampa “in quota Prodi”, sembra il modo più adatto per esaltare la democrazia interna ai partiti.
Quanto al democristiano, mai Popolare, mai neppure Margherita, Pier Ferdinando Casini, in Parlamento dal 1983 (sì), la cui candidatura al Senato per il Pd è data quasi certa (nonostante gli ovvi “malumori”, maldipancia della mitica “base”), non risulta che abbia vinto una qualche parlamentaria oppure superato un qualsiasi test fra gli iscritti del Pd.
Già, la democrazia interna, quella cosa che il Movimento 5 Stelle dice d’avere, ma è lecito avanzare molti dubbi, non sembra, quando si discute di candidature, abitare neppure nel Pd. Consiglio all’intervistatrice di andarsi a leggere un bel disegno di legge di attuazione dell’inciso “con metodo democratico” dell’art. 49 della Costituzione italiana relativo alla vita dei partiti scritto almeno vent’anni fa da Valdo Spini. Però, sostiene flebilmente l’intervistatrice, i Cinque Stelle quasi attentano alla democrazia e alla Costituzione imponendo una penale di 100 mila euro ai parlamentari che abbandonino il loro gruppo. Comunico che mi pare una cosa brutta anche se bruttissimo è certamente il trasformismo che, incidentalmente, è sgraditissimo agli elettori italiani.
Aggiungo che bisognerebbe affrontare l’argomento cercando di capire, con qualche parere di esperto, se si tratta di un contratto privato oppure che cosa. Quanto poi ai 300 euro al mese per pagare i costi della piattaforma Rousseau, dopo essermi esibito nella critica di qualsiasi democrazia del clic, ricordo all’intervistatrice che come senatore della Sinistra Indipendente e, in seguito, dei Progressisti versavo regolarmente ogni mese al Pci (e poi al Pds), che mi aveva candidato e i cui elettori mi avevano votato, tre volte più di 300 euro. Inoltre, contribuivo con i fondi a disposizione dei parlamentari a un certo numero di iniziative del partito sul territorio. Questo è quel che ho detto nell’intervista che, senza nessuna mia sorpresa, Repubblica-Bologna non ha pubblicato.
Qui aggiungo, a completamento del discorso sui costi della politica, che in tutte le mie campagne elettorali ritenni opportuno e doveroso coprire parte dei costi. Nelle mie tre legislature non cambiai gruppo parlamentare. Quanto all’espressione e all’accettazione del dissenso, nella Sinistra Indipendente non c’era nessuna disciplina di voto e spesso espressi un voto in dissenso dal mio gruppo (o il gruppo votò in dissenso da me!). Neppure quando votai in maniera differente dal gruppo del Pci sulla prima guerra del Golfo e, per esempio, D’Alema mi fece sapere che mi ero collocato alla destra del sen. democratico Sam Nunn, a qualcuno venne in mente che dovevo andarmene.
Concludo ricordando che, in materia di accettazione, persino valorizzazione del dissenso, dal segretario del Pci di allora Alessandro Natta ricevetti una comunicazione face-to-face su un argomento allora (sic) molto delicato: “non sono d’accordo a fuoriuscire dal proporzionale, ma tu vai avanti con le tue idee”.
Altri tempi, altri partiti, altra classe politica.

Corriere 13.1.18
Asse sul Lazio ma non in Lombardia La sinistra respinge gli appelli dem
Via alla trattativa Grasso-Zingaretti. A Milano Liberi e uguali punta su Rosati
di Monica Guerzoni


ROMA «L’assemblea di Milano ha detto no a Giorgio Gori, ma da qui al 28 gennaio tutto può ancora succedere...». La frase lasciata cadere dallo sherpa di Sinistra italiana Paolo Cento conferma che la porta delle Regionali, che divide il Pd dalla sinistra di Pietro Grasso in Lombardia, non si è ancora del tutto chiusa. «Spero che uno spiraglio di trattativa ancora ci sia, perché noi non nutriamo pregiudiziali e vogliamo che il no sia politicamente spiegato», è il messaggio di Miguel Gotor ai «compagni lombardi».
Per adesso è la linea del doppio binario a riportare la pace dentro Liberi e uguali, ma la politica si fa giorno dopo giorno, notte dopo notte e nulla, nemmeno un niet che sembra scolpito nel marmo, può dirsi scontato. «Sul nazionale non c’è accordo, credo che se in Lombardia e Lazio c’è l’accordo su Gori e Zingaretti sia un fatto positivo — spera ancora Matteo Renzi a Radio Anch’io —. Ma non sono in grado di influenzare un partito che notoriamente non mi ama».
In Lombardia la sinistra corre da sola e candida il consigliere regionale Onorio Rosati. Nel Lazio invece l’intesa è ormai blindata. Dopo tre ore di (sofferta) assemblea i Liberi e uguali della Regione governata da Zingaretti affidano a Grasso il mandato di incontrare il presidente uscente, per verificare le condizioni di un accordo. L’incontro, trapela dallo staff del presidente, «potrebbe avvenire anche oggi stesso».
La decisione di sostenere il candidato del Nazareno è presa da giorni, ma Grasso non vuole scavalcare i livelli locali e procede per gradi. «Fatemi entrare e vedrete — risponde ai giornalisti mezz’ora dopo le sei del pomeriggio, sull’uscio della sala di via Buonarroti —. Ascolterò e rispetterò quello che sarà detto in assemblea». Il primo atto è la proposta di portare «i punti programmatici a un confronto serrato», scandita tra gli applausi dal presidente dell’assemblea Piero Latino.
Segue dibattito difficile, con Stefano Fassina che avverte: «Se facciamo l’ammucchiata attorno al Pd senza una discontinuità non portiamo un voto». I più arrabbiati sono i delegati di Si, che invocano un «confronto duro» su sanità, piano rifiuti, cura del ferro, un’azione «più incisiva» sulle crisi aziendali e reddito minimo garantito per i lavoratori espulsi dal ciclo produttivo. Alle 21, dal palco, Grasso ufficializza il via libera: «Faccio mie le richieste dell’assemblea, andrò a parlare con Zingaretti per avere conferme su programma e profilo della coalizione».
A Cinisello Balsamo, dove si tiene l’assemblea lombarda, la tensione nei confronti dei democratici è tanta e quando prende la parola il capogruppo di Mdp alla Camera, Francesco Laforgia, parte la bordata verso i padri nobili del centrosinistra: «Il loro appello mi ha strappato un sorriso amaro, perché si fanno gli appelli ma non si muove mai una critica verso chi ha devastato quel campo». Applausi. E quando Laforgia lancia la candidatura di Onorio Rosati, scatta la standing ovation .
Per Giorgio Gori è una porta in faccia, che arriva dopo giorni di critiche pesanti da parte degli alleati mancati. Gli hanno dato del «Renzusconi», gli hanno rimproverato di avere scarsa etica pubblica per l’intenzione di lasciare lo scranno di sindaco di Bergamo, lo hanno bacchettato per lo slogan «Fare, meglio», in cui hanno visto una continuità con la giunta Maroni. Il candidato rivendica lo slogan della sua campagna elettorale: «A me sembra soltanto un pretesto». E poi, a conferma che la delusione è tanta: «Gli elettori di Liberi e uguali sono meglio dei loro dirigenti».

il manifesto 13.1.18
I pm: indagare ancora su Lotti e Tiziano Renzi
Inchiesta Consip. La procura di Roma chiede una proroga di sei mesi per 12 protagonisti del caso, compresi il generale Del Sette e Saltalamacchia
di Adriana Pollice


Il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo e il pm Mario Palazzi hanno chiesto al gip Gaspare Sturzo una proroga di sei mesi delle indagini che coinvolgono 12 protagonisti del caso Consip. L’atto è stato depositato il 19 dicembre ma la notizia è stata diffusa ieri. Ci sono 5 giorni dalla notifica per presentare una memoria difensiva. Se la domanda verrà accolta, ulteriori accertamenti verranno fatti su Luca Lotti: il renzianissimo ministro dello Sport, a cui il segretario dem ha affidato il compito di soprintendere alla compilazione delle liste per le politiche, è accusato di rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento. L’iscrizione nel registro degli indagati avvenne il 21 dicembre 2016 da parte dei pm di Napoli Henry John Woodcock e Carrano, subito dopo il fascicolo passò per competenza a Roma. A tirarlo in ballo fu l’ex ad di Consip, Luigi Marroni: disse ai pm di aver ordinato la bonifica del suo ufficio dalle cimici (messe dalla procura di Napoli) perché aveva appreso «in quattro differenti occasioni da Filippo Vannoni, dal generale Emanuele Saltalamacchia, dal presidente di Consip Luigi Ferrara e da Lotti di essere intercettato».
Gli inquirenti ascoltarono come testimone anche il presidente di Publiacqua Firenze, Vannoni, altro membro del Giglio magico, che ammise: «Fu Lotti a dirmi che c’era un’indagine su Consip. Il presidente Renzi mi diceva solo di ‘stare attento’ a Consip». La deposizione di Vannoni ha però messo nei guai Woodcock e Carrano: venerdì prossimo davanti al Csm dovranno difendersi dall’accusa di inescusabile negligenza, «una grave violazione dei diritti di difesa».
Ai due pm viene contestato di non aver iscritto subito nel registro degli indagati Filippo Vannoni, come accaduto per gli altri nomi elencati da Marroni. Così, in qualità di semplice testimone, si è presentato in procura senza avvocato. Approdata a Roma l’inchiesta, il manager toscano è stato effettivamente indagato per favoreggiamento ma nel suo interrogatorio alla procura capitolina ha attenuato le dichiarazioni su Lotti.
Proroga di sei mesi chiesta anche per il comandante generale dei carabinieri, Tullio Del Sette (avrebbe informato Ferrara), e il comandante della legione Toscana dell’Arma, Saltalamacchia, indagati come Lotti per la fuga di notizie: «Sono in corso le attività istruttorie volte a ricostruire la catena di comunicazione all’interno della struttura gerarchica». Saltalamacchia, in particolare, durante una cena da Tiziano Renzi, padre dell’ex premier, in cui era presente anche il sindaco di Rignano, avrebbe detto al padrone di casa: «Non parlare con Alfredo Romeo».
Stessa richiesta di proroga anche per Tiziano Renzi, l’amico Carlo Russo e Romeo: i primi due avrebbero fornito il loro appoggio al terzo per fargli vincere tre lotti dell’Fm4, l’appalto bandito da Consip. Supplemento di indagini anche per l’ex parlamentare del Pdl Italo Bocchino che era diventato consulente di Romeo. I pm romani spiegano: «Sono in corso riscontri sui tabulati telefonici e raccolta di informazioni da parte di persone informate sui fatti». Infine, nelle lista ci sono anche l’ad di Grandi Stazioni Silvio Gizzi, l’ex ad di Consip Domenico Casalino, l’ex presidente di Consip Ferrara, il dirigente Francesco Licci. Questo filone è una diramazione dell’inchiesta principale ed espande il raggio delle indagini a Grandi Stazioni: «Sulle ipotesi di turbativa delle gare indette da tali stazioni appaltanti, è in corso una complessa attività di analisi della documentazione acquisita e di raccolta informazioni».

Corriere 13.1.18
I 5 Stelle salgono, Pd in calo Forza Italia, Lega e FdI avanti ma «perdono» 12 deputati
Maggioranza distante 47 seggi. Elettori freddi sugli annunci
di Nando Pagnoncelli


La campagna elettorale sta rapidamente entrando nel vivo: si sono costituiti nuovi soggetti politici e altri potrebbero presentarsi, si stanno delineando le coalizioni, annunci e promesse proliferano, si fanno le prime ipotesi di candidature nei collegi, si pongono veti su possibili alleanze postelettorali.
Pur con la doverosa cautela dovuta alla presenza di molte, troppe incognite — dalla formalizzazione delle alleanze, a quella delle candidature nei collegi uninominali e della leadership del centrodestra e del centrosinistra — con il sondaggio odierno abbiamo voluto aggiornare gli orientamenti di voto degli italiani. Lo scenario che emerge continua a non sciogliere i dubbi sulla possibile maggioranza di governo e fa registrare piccoli scostamenti rispetto ad un mese fa.
In dettaglio: indecisi e astensionisti si attestano al 34%, con la nuova legge elettorale il centrodestra si conferma in testa con il 35,9% delle preferenze — sommando i consensi per Forza Italia (16,5%), Lega (13,8%), Fratelli d’Italia (4,7%) e le altre liste raggruppate nel simbolo Noi per l’Italia (0,9%) — seguito dal Movimento 5 Stelle, primo soggetto politico con il 28,7% (+ 0,5%), e dal centrosinistra che nell’insieme raggiunge il 27,5% con il Pd al 23,1% (-0,2%), Civica popolare all’1,8%, Insieme all’1,4% e, sempre ammesso che la lista di Emma Bonino entri in coalizione, +Europa all’1,2%. Gli alleati consentono al Pd di compensare il calo di consensi registrato: in base al meccanismo previsto dal Rosatellum, le forze coalizzate che superano l’1% ma non raggiungono il 3 conferiscono i loro voti al partito principale. Liberi e Uguali di Pietro Grasso è accreditata del 6,4%. Le altre liste (Rinascimento, CasaPound, ecc.) al momento raccolgono poco meno dell’1% dei voti validi.
Sulla base di questi risultati, che si sommano alle precedenti rilevazioni per un totale di 46.000 interviste opportunamente ponderate, il centrodestra risulterebbe complessivamente avere 269 seggi (-12 rispetto a dicembre), seguito dal Movimento 5 stelle, accreditato di 169 seggi (+11), dal centrosinistra con 152 (+1) e da Liberi e Uguali, stabile a quota 27. Pur non potendo escludere in prospettiva una maggioranza di centrodestra, in considerazione della cosiddetta «soglia implicita» (rappresentata del 40% dei voti validi e dall’affermazione in circa il 70% dei collegi uninominali), la coalizione in vantaggio è ancora distante (47 seggi) dalla maggioranza assoluta di 316 deputati.
Cosa potrebbe modificare gli orientamenti di voto degli italiani nelle prossime settimane? La questione è davvero complessa per almeno un paio di motivi. Innanzitutto la crescente distanza dei cittadini dalla politica dovuta non solo allo scetticismo e alla disillusone crescente ma anche alla progressiva minore importanza attribuita alla politica che, a differenza del passato, oggi rappresenta un frammento dell’identità delle persone, peraltro nemmeno il più importante. Ne consegue che molti cittadini ignorano o seguono distrattamente l’attuale campagna elettorale e, come abbiamo potuto riscontrare negli ultimi anni, si concentreranno sulle scelte di voto negli ultimi giorni. In questa fase, pertanto, nei sondaggi risultano penalizzati i nuovi soggetti politici che necessiterebbero di più tempo per affermare la loro proposta. E, sullo sfondo, aleggia come sempre lo spettro del «voto inutile» ossia il timore di molti elettori potenziali dei partiti minori di sprecare il proprio voto e la conseguente propensione a rinunciare a votare per un partito giudicato più vicino ma destinato a un risultato marginale a favore di un partito più competitivo anche se più distante.
Il secondo motivo riguarda i contenuti della campagna elettorale. Per quanto si è visto finora, si sono per lo più moltiplicate promesse di vario tipo, molte delle quali contestate soprattutto per la loro impraticabilità tenuto conto del possibile impatto negativo sulle finanze pubbliche. Molti degli annunci ascoltati in questi giorni sembrano estemporanei, avulsi da programmi o proposte organiche; sembrano battaglie di retroguardia, guidate dal cosiddetto «microtargeting»: si individua un segmento di elettorato, se ne studiano le aspettative, le paure, le idiosincrasie, i bisogni, e ad esso si indirizzano single promesse. Ma siamo sicuri che i cittadini ci credano e modifichino le proprie scelte? E siamo sicuri che gli elettori si aspettino solo «proposte concrete» e la risoluzione dei loro problemi, come se la politica fosse una sorta di amministrazione di un condominio? A giudicare dalla sostanziale stabilità degli orientamenti di voto sembrerebbe di no. Quello che sembra mancare è la visione del futuro, è un’idea di Paese. Forse i cittadini si meritano qualcosa di più che singoli annunci spesso accompagnati da toni sguaiati.

il manifesto 13.1.18
L’estrema destra nel direttivo del memoriale dell’Olocausto
Germania. Lo statuto della Fondazione, redatto nel 2000, quando sembrava impensabile che neonazisti ed estremisti di destra potessero entrare nel parlamento nazionale, prevede infatti che ogni forza politica possa nominare un proprio rappresentante negli organi direttivi: opportunità di cui l’AfD ha già fatto sapere che intende avvalersi
di Guido Caldiron


È una delle prime conseguenze del risultato avuto dall’Alternative für Deutschland lo scorso settembre: quel 12,6%, pari ad oltre 6 milioni di voti, che ne ha fatto la terza forza politica del paese. Su quella base, gli eletti dell’estrema destra si stanno insediando in tutte quelle istituzioni pubbliche le cui nomine spettano al Bundestag. Come per la Fondazione che gestisce il Monumento alla memoria delle vittime dell’olocausto, e il relativo centro di informazione sotterraneo, inaugurati nel 2005 non lontano dalla Porta di Brandeburgo, nel cuore di Berlino.
Lo statuto della Fondazione, redatto nel 2000, quando sembrava impensabile che neonazisti ed estremisti di destra potessero entrare nel parlamento nazionale, prevede infatti che ogni forza politica possa nominare un proprio rappresentante negli organi direttivi: opportunità di cui l’AfD ha già fatto sapere che intende avvalersi.
Di fronte a questo rischio, tra i responsabili della Fondazione cresce l’allarme. La prima ad intervenire è stata la giornalista Lea Rosh, tra le figure pubbliche più attive nel sostegno al progetto di costruzione del Memoriale. «Il programma dell’AfD è talmente ostile alla democrazia che l’ingresso di questo partito nella Fondazione deve essere evitato a qualunque prezzo», ha dichiarato Rosh prima di rivolgersi all’ex ministro della Cdu, Wolfgang Schäuble, che in quanto presidente del Bundestag siede anche alla guida dell’organismo che gestisce il Memoriale, perché intervenga.
A suscitare ulteriore sconcerto c’è anche il fatto che proprio l’opera dedicata alla vittime della Shoah è già finita nel mirino della destra. Nel 2015, Björn Hocke, uomo forte dell’AfD in Turingia, aveva definito addirittura il Memoriale come «il monumento della vergogna». La leader del partito in quella fase, Frauke Petry, aveva chiesto, senza riuscirci, l’espulsione di Hocke, sostenuto invece dai nuovi vertici dell’AfD, in particolare da Alexander Gauland ed Alice Weidel. Proprio Gauland ha rincarato la dose durante la campagna per le politiche, sostenendo che dobbiamo «essere fieri dei risultati dei nostri soldati durante la Seconda guerra mondiale».
Del resto, le continue sortite in spregio ad ogni verità storica e dal tono ultranazionalista, oltre ai continui rimandi espliciti al razzismo, stanno accompagnando anche nelle ultime settimane le prese di posizione degli esponenti dell’AfD. Così, il deputato Jens Maier è entrato a far parte del consiglio dell’Alleanza per la democrazia e la tolleranza, organismo pubblico che riunisce associazioni e ong che operano per il dialogo inter-comunitario, malgrado avesse definito il figlio della leggenda del tennis Boris Becker come un «mezzo negro». Allo stesso modo, il candidato del partito al posto di vice-presidente della Camera, Albrecht Glaser, ha chiesto che i musulmani che vivono in Germania siano privati di ogni diritto religioso loro consentito dalla Costituzione. E a riprova che l’ingresso in parlamento ha tutt’altro che ridotto il potenziale offensivo e radicale del partito, come alcuni osservatori sembravano credere, solo pochi giorni fa una eletta berlinese, Franziska Lorenz-Hoffmann, ha diffuso via Facebook un manifesto di propaganda del III Reich, poi rimosso, che affermava, «donna tedesca, preserva la purezza del tuo sangue, gli stranieri non devono toccarti».
Per il politologo Anjo Funke dell’Università libera di Berlino, «non siamo in presenza di una deriva occasionale, ma di una vera e propria strategia di radicalizzazione che mira a integrare i neonazisti e i settori più estremi nell’AfD».

La Stampa 1.1.18
Messaggi sui social con gli studenti
gli insegnanti rischiano sanzioni
La norma prevista nel nuovo contratto. No dei sindacati: Fb e WhatsApp fanno parte della vita
di Flavia Amabile


Si parla anche dei social e del loro uso nel nuovo contratto degli insegnanti su cui stanno trattando da dieci giorni sindacati e Aran. L’ultimo incontro si è tenuto giovedì ed è finito ancora con un nulla di fatto. Per il momento la distanza tra le parti è tale da non aver trovato un accordo nemmeno sul metodo della trattativa. Non si è discusso delle misure che, però, sono comunque state in parte presentate e secondo i sindacati sono «irricevibili».
Impossibile immaginare di sanzionare le comunicazioni via Facebook o WhatsApp tra docenti e alunni che rappresentano uno strumento di vita quotidiana, sostengono i sindacati. Già oggi se si abusa di questi strumenti arrivano denunce e provvedimenti, prevederne altri per il solo contatto diventerebbe un vincolo che non terrebbe conto delle nuove esigenze del mondo della scuola.
Sul tavolo della trattativa, infatti, fra le altre misure è finita anche quella che prevede che i professori che conversano, scherzano o semplicemente comunicano su Facebook e Whatsapp con i loro alunni, al di là delle informazioni strettamente legate alla didattica, rischiano, in futuro, di essere sanzionati. Soltanto la Cisl usa toni concilianti. «Dare delle regole su questi temi è inevitabile ma tutto questo rientra nell’etica e nella professionalità della categoria, non mi scandalizza. Quello che mi preme è che però la discussione entri nel merito di tutto il resto della figura professionale dei docenti, dai nuovi profili alle prospettive di carriera per superare la situazione attuale che fa sì che i docenti italiani siano fra i meno pagati», commenta la segretaria generale della Cisl Scuola Maddalena Gissi. Oltretutto, aggiunge, questa richiesta fa parte del nuovo codice comportamentale per le pubbliche amministrazioni.
Francesco Sinopoli, segretario generale della Flc Cgil si limita a sottolineare che «il problema è l’atteggiamento dilatorio tenuto finora dall’Aran che impedisce alla trattativa di partire». Per Pino Turi, segretario generale della Uil Scuola «è impossibile pensare di partire in una trattativa con gli aspetti punitivi. Ed è impensabile porre delle rigidità, il mondo è totalmente cambiato dall’ultima volta che è stato firmato un contratto. I social sono parte della vita di tutti».
Molto critici Anief e Usb . Per l’Usbsi tratta di una misura «assurda» e «si comincia male: controllare, sorvegliare e punire». Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda-Insegnanti: «Una misura che sparirà di sicuro altrimenti non ci sarà speranza di firmare il contratto. Ma nella mia lunga esperienza di trattative so che durante i primi incontri spesso ci sono misure destinate solo a pesare come merce di scambio nel negoziato».
Le sanzioni sui rapporti social non sono le uniche. Come denuncia l'Anief «si vuole introdurre la possibilità di far assegnare, direttamente dal capo d’istituto, multe pari fino a 4 ore di lavoro e la sospensione dal servizio fino a 10 giorni lavorativi».

Corriere 13.1.18
Il compromesso storico del Duce
Malgrado la retorica il fascismo fu un regime «imperfetto» che tutelò le burocrazie preesistenti
di Sabino Cassese


Arturo Bocchini, il potente ed efficiente capo della polizia di Mussolini dal 1926 al 1940 (anno della sua morte), l’autore delle azioni repressive di massa che godeva della piena fiducia del Duce, aveva fatto una brillante carriera al servizio dei leader liberali, era un uomo d’ordine tra i migliori che avesse prodotto la tarda età giolittiana. Come lui, molti altri uomini, e moltissime istituzioni dello Stato liberale, continuarono nello Stato fascista. Ci si può, quindi, chiedere: è esistito un vero e proprio Stato fascista, oppure esso è la corruzione di quello liberale?
In realtà, lo Stato che chiamiamo fascista fu organismo fatto di molti materiali, più complesso del regime totalitario che la storiografia ha spesso rappresentato, più permeabile e più compromissorio. Non un regime monolitico, né totalizzante. Un sistema che cercò di imporsi alla società, ma che invece accettò molti compromessi con essa. Ne fecero parte governo personale di Mussolini, oligarchie, potentati locali, notabili e figli della trincea, classe dirigente liberale e fascisti, centralismo e ambiente locale. Fu una «macchina imperfetta», come lo definì un mese prima di morire, nel 1943, il giovanissimo Giaime Pintor.
Su questa realtà complessa ha ora scritto un libro magistrale lo storico Guido Melis ( La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista , il Mulino), un libro che si colloca a pieno titolo accanto all’altro grande studio sul fascismo, la biografia mussoliniana di Renzo De Felice. Quella di Melis è una indagine in profondità, sapientemente costruita, che scava nei meandri del fascismo e mette in luce quello che covava sotto la sua facciata fastosa, un esame puntuale dall’interno della macchina statale (le strutture, gli uomini, l’estrazione sociale, la formazione, le carriere, la cultura, le retribuzioni, lo stile di gestione). Accanto a questa, nel libro sono passate in rassegna le opere del regime, la letteratura che rifletteva l’epoca (Carlo Levi, Moravia, Brancati, Alvaro, Vittorini, Pavese, Gadda), i giuristi che accompagnarono o criticarono il regime (Orlando, Ranelletti, Cammeo, Santi Romano, Costamagna, Mortati, Giannini), l’oratoria e lo stile del fascismo, le regole del suo funzionamento, fino ad arrivare a dettagli significativi, quali le persone che Mussolini riceveva o i repentir del Duce.
Tutto questo è scritto da Melis con una tecnica che passa sempre dal quadro d’insieme ai primi piani, e con un occhio alla storiografia, per cui il lettore non è guidato soltanto alla comprensione dello Stato fascista, ma anche alla conoscenza della ormai vastissima letteratura sul fascismo.
Il libro è diviso in quattro parti, dedicate a governo e amministrazione, partito, leggi e istituzioni, economia pubblica. Nella prima Melis mette in luce la continuità degli uomini (salvo poste e ferrovie) con il regime precedente e la persistenza di prassi antiche (ad esempio, abuso della decretazione d’urgenza, precariato ministeriale, ruolo importante dei prefetti), sotto la guida di Mussolini, che svolse una incisiva attività direttiva, con ingerenza continua e minuta nell’amministrazione. Il fascismo governò con gli alti funzionari del periodo prefascista (in particolare, i tecnici dei settori demografico, statistico, delle opere pubbliche e di bonifica). Il programma del «burocrate in camicia nera» non fu concretamente realizzato, anche se il fascismo lasciò un’impronta sulla burocrazia, nel senso dell’accentramento e dello spirito compromissorio.
Il Partito fascista, rapidamente attratto nello Stato e costituzionalizzato, divenne una «macchina dell’inclusione», malato di gigantismo, centralistico e finanziato dallo Stato.
Una buona parte della legislazione si nutrì di idee estranee al fascismo. Il Parlamento venne spinto fuori scena e i rapporti con i grandi corpi furono all’insegna del compromesso. Il Consiglio di Stato fu sia garante della fedeltà dell’istituzione al fascismo, sia garante dell’autonomia del Consiglio di Stato dal fascismo. Lo stesso può dirsi del rapporto tra fascismo e forze armate: venne lasciata mano libera ai militari, a patto della loro fedeltà al regime.
Infine, nel periodo fascista vennero istituiti 300 enti pubblici in cui nuove burocrazie, burocrazia ministeriale e dirigenti di aziende private furono intrecciati; alla retorica rivoluzionaria del corporativismo corrispose la pratica compromissoria della sua esperienza storica, mentre lo Stato imprenditore, dove il fascismo contò poco, veniva edificato quasi in segreto.
Questa breve sintesi dà conto solo di alcuni temi di questa «storia totale» del fascismo, una «foto di gruppo» che abbraccia società e Stato e si colloca nel filone storiografico per il quale il fascismo è stato una degradazione dello Stato liberale-autoritario precedente.

Repubblica 12.1.18
Intervista a Cofferati
“Mi ricandido no alla solfa del voto utile i dem ormai sono di centro”
di Matteo Pucciarelli


GENOVA «Siamo alternativi al Pd, se facciamo l’accordo rischiamo di non apparire coerenti», dice Sergio Cofferati. L’ex segretario generale della Cgil, ora (probabile) candidato con Liberi e Uguali, boccia la possibile intesa con il Pd in Lombardia e Lazio.
Mai e poi mai?
«Con Zingaretti la sinistra governava già e quindi la situazione è più complessa e siamo alle prese con una contraddizione. Penso che un eventuale accordo dovrebbe avere delle valide ragioni programmatiche. Che però non mi pare di vedere neanche lì».
Renzi dice: votare Leu fa
Scendo in campo perché mi hanno chiesto di dare una mano Se sarò eletto alle politiche lascerò l’Europarlamento
vincere la Lega. Come risponde?
«Il Pd non è più un partito di sinistra, ma di centro. E il richiamo al voto utile è una solfa ripetitiva.
Comunque il favore alla Lega lo fa proprio il Pd quando dice che legge Fornero e Jobs act non sono riformabili».
Senta, ma come nasce la sua ricandidatura?
«I direttivi genovesi e liguri di Sinistra Italiana hanno chiesto la mia disponibilità e l’ho data».
Lei è parlamentare europeo.
«Sì, dovessi venire eletto mi dimetterei. Ma ripeto: sono a disposizione, non mi sono mai proposto da solo...».
Però a sinistra i giovani fanno fatica ad emergere, non crede?
«È vero e dipende anche dalle leggi elettorali. Nei collegi uninominali conta molto la propria storia e notorietà. L’ideale sarebbe un mix tra esperienza dei “grandi” ed energia delle nuove leve».
Ma non è che il giorno dopo il voto Leu si spaccherà? Già adesso sulle regionali le fibrillazioni sono molte.
«Penso che al nostro interno si senta il peso delle storie pregresse e questo crea dialettica e tensioni. Il giorno dopo le elezioni andrà fatto uno sforzo per far partire una storia nuova, mettendo da parte il vissuto precedente di tutti».
Pensare che adesso lei si ritrova in una lista insieme a D’Alema, suo “nemico” ai tempi dei Ds.
«Se è per questo mi ritrovo anche con qualche antagonista che mi contestava in piazza quando ero sindaco di Bologna».
E le fa effetto?
«No, lo trovo stimolante invece».
Si è mai pentito di non aver “conquistato” la sinistra dopo la grande manifestazione del Circo Massimo del 2002?
«Mah, vale ciò che dicevo prima, allora i dirigenti dei Ds mi chiesero di dare una mano a Bologna e mi misi a disposizione».
Però fu anche uno dei primi a lasciare il Pd, tre anni fa.
«Sì, perché mi accorsi della mutazione di un partito che aveva rapporti espliciti con la destra».

Corriere 12.1.18
La mossa di Ig Metall sull’orario: «Va ridotto a 28 ore la settimana»
Effetto Trump per Walmart: bonus da mille dollari e paga minima a 11 dollari
di Rita Querzé


«L’orario di lavoro è mio e lo gestisco io». Potrebbe essere questo il nuovo slogan dell’Ig Metall, primo sindacato tedesco con 2,3 milioni di iscritti su 3,9 milioni di lavoratori del macrosettore manifatturiero (metalmeccanici, ma anche tessili e addetti della plastica e del legno). Con il rinnovo del contratto, infatti, Ig metall chiede un aumento degli stipendi del 6% (a fronte del 2% offerto dalle imprese tedesche). Ma anche la possibilità di autoridursi l’orario da 35 a 28 ore la settimana senza via libera aziendali.
Nell’idea delle tute blu tedesche, la riduzione dovrebbe essere reversibile e durare al massimo due anni. L’obiettivo principale? Agevolare lavoratori e lavoratrici con compiti di cura. «L’attuale organizzazione del lavoro impedisce lo sviluppo professionale di molti dipendenti — argomenta Jörg Hofmann, alla guida della Ig Metall dal 2015 —. Il fatto che le donne siano ancora solo il 20% è anche il risultato di questo stato di cose». Il leader delle tute blu tedesche tiene anche a sottolineare che «la nostra proposta non deve avere come risultato il sovraccarico lavorativo dei colleghi ma la creazione di occupazione». Come dire: niente straordinari in più per chi resta a tempo pieno ma nuovi ingressi in azienda.
Con la proposta del taglio di orario il sindacato tedesco sembra già preventivamente attrezzarsi rispetto all’impatto della quarta rivoluzione industriale: le fabbriche 4.0 avranno bisogno di meno lavoratori, anche se più specializzati.
Nonostante il rito tedesco delle relazioni industriali basato sulla cogestione — Ig Metall accettò sacrifici in molte fabbriche al momento della crisi — la trattativa oggi si preannuncia complessa. Gli imprenditori non considerano l’orario di lavoro un elemento negoziabile. Il sindacato ha intensificato gli scioperi coinvolgendo circa 160 mila addetti in una serie di aziende come Siemens, Caterpillar, Daimler, Airbus, Mercedes e Miele. Ma si potrebbe arrivare allo sciopero nazionale. D’altra parte Ig Metall non è nuova a battaglie sull’orario: è stato il primo sindacato europeo a contrattare le 35 ore. Intanto negli Usa più che sull’orario si punta sullo stipendio. Walmart progetta di premiare i dipendenti con bonus da mille dollari e aumento del salario minimo a 11 dollari.

Il Fatto 12.1.18
Céline può attendere: gli scritti antisemiti restano nel cassetto
Francia - Gallimard voleva pubblicare in unico volume le opere razziste Dopo l’allarme della comunità ebraica il governo consiglia prudenza
Céline può attendere: gli scritti antisemiti restano nel cassetto
di Luana De Micco


Anche se è passato più di mezzo secolo dalla sua morte, Louis-Ferdinand Céline, geniale scrittore del Viaggio al termine della notte da un lato, virulento antisemita dall’altro, continua a mettere a disagio la Francia. Il suo nome è spesso fonte di nuovi scandali. Questa volta la polemica ha riguardato la decisione dell’editore Gallimard di pubblicare in un unico volume, dal titolo Écrits polémiques, i tre pamphlet antisemiti di Céline: Bagattelle per un massacro (del 1938), La scuola dei cadaveri (1939) e La bella rogna (1941). I testi più raccapriccianti in cui lo scrittore ha sputato tutto il suo odio per gli ebrei.
Lui stesso, dopo la guerra, ne aveva vietato la ristampa. Questa volta però la vedova, Lucette Destouches, 105 anni, che continua a vivere nella casa di Meudon, aveva dato il suo assenso al progetto di Gallimard. Pare per ragioni economiche poiché, stando al suo avvocato, deve affrontare importanti spese mediche. In ogni caso non si trattava di dare i testi nudi e crudi nel loro orrore ai lettori. L’editore, che ha detto di ispirarsi a un’edizione critica canadese del 2012, avrebbe affidato l’introduzione allo scrittore Pierre Assouline e le note a Régis Tettamanzi, specialista riconosciuto dell’opera di Céline. Un po’ come è stato fatto in Germania per il Mein Kampf, ripubblicato nel 2016 in una nuova edizione commentata (una versione francese del manifesto nazista di Hitler è invece in stand by dall’editore Fayard). Ma di fronte all’accesa polemica scoppiata in Francia, la prestigiosa casa editrice ha deciso di fare marcia indietro e ieri ha annunciato la “sospensione” del progetto.
Bisogna dire che la questione era persino finita sul tavolo del governo. Il primo ministro Edouard Philippe non si era detto contrario all’idea, a condizione che il lavoro venisse fatto con coscienza: “Ci sono buone ragione per detestare l’uomo, ma non si può ignorare lo scrittore”. Ma prima di Natale Antoine Gallimard era stato convocato al governo. Frédéric Potier, delegato interministeriale per la lotta contro i razzismi, voleva assicurarsi che il futuro volume offrisse “le garanzie necessarie per chiarificare il contesto ideologico” in cui i testi erano stati scritti.
In una lettera all’editore, Potier si preoccupava per “i rigurgiti antisemiti” che crescono in Francia. Alcuni storici hanno ricordato che gli odiosi libelli erano stati il “vademecum degli antisemiti”. Per altri rappresentavano un “regalo” all’estrema destra.
C’è stato poi il grido della comunità ebraica di Francia. Il noto avvocato Serge Klarsfeld, figlio di deportati, detto il “cacciatore di nazisti”, ha minacciato l’editore di portarlo in tribunale: “Questo progetto è un aggressione agli ebrei di Francia”, ha detto. Era stato proprio l’intervento di Klarsfeld, nel 2011, a convincere l’ex ministro della Cultura, Frédéric Mitterrand, a rinunciare alle celebrazioni ufficiali per i 50 anni dalla morte di Céline. In un primo tempo Gallimard aveva denunciato “un processo alle intenzioni”. Il volume era solo allo stadio di progetto e nessuna data di pubblicazione era stata avanzata.
Gallimard ha cominciato a pubblicare Céline nella sua prestigiosa collana Pléiade, contribuendo così a rilanciarne l’opera, sin dal 1961, anno della morte dello scrittore, condannato all’indegnità nazionale dopo la guerra e rientrato in Francia, strappando un’amnistia, nel 51, a fare il “medico dei poveri”. Ieri l’editore ha gettato la spugna: “In nome della mia libertà di editore e della mia sensibilità – ha scritto Antoine Gallimard in una nota – sospendo il progetto, perché ritengo che manchino le condizioni metodologiche e memoriali per svilupparlo serenamente”.

Repubblica 12.1.18
Francia
Céline, Gallimard ci ripensa bloccati i testi antisemiti
di Anais Ginori


PARIGI
Alla fine non saranno pubblicati i pamphlet antisemiti di Louis-Ferdinand Céline.
Gallimard ha rinunciato ieri al progetto editoriale annunciato nei mesi scorsi. La casa editrice voleva riprendere l’edizione canadese con le note critiche curate dal professore Régis Tettamanzi nel 2012, aggiungendo una prefazione dello scrittore Pierre Assouline.
La notizia della riedizione in un unico volume dal titolo Écrits polemiques (Scritti polemici), di Bagatelle per un massacro (1937), La scuola dei cadaveri (1938), La bella rogna (1941), mai ripubblicati dopo la fine della Seconda guerra mondiale, era stata accolta dalle reazioni allarmate del Crif, il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche, della Lega internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo (Licra), dello storico Serge Klarsfeld, preoccupati per gli elementi di «incitamento all’odio» contenuto nei testi.
Con un gesto inedito, il prefetto delegato alla lotta contro il razzismo e l’antisemitismo, Frédéric Potier, aveva mandato una lettera e incontrato Antoine Gallimard il 19 dicembre. «In un contesto in cui il flagello antisemita va combattuto con forza, le modalità di presentazione al grande pubblico di questi scritti vanno pensate attentamente» aveva detto Potier, che ora nega qualsiasi tentativo di censura. «Ho semplicemente voluto ricordare all’editore la sua responsabilità». La casa editrice ha tentato per qualche settimana di resistere alla pressioni, promettendo un imponente apparato critico e sottolineando la necessità di pubblicare i testi prima che diventino di dominio pubblico tra due anni. Ma ieri la maison ha preso atto che non è possibile avanzare “serenamente” nel progetto. «In nome della mia libertà di editore e della sensibilità che ho maturato in quest’epoca - afferma Gallimard - sospendo questo progetto, considerando che non ci sono le condizioni metodologiche e memoriali per svilupparlo».
Quando è cominciata la polemica, Gallimard aveva fatto l’esempio di Mein Kampf che sarà pubblicato a marzo da un altro prestigioso editore francese, Fayard, dopo una lunga consultazione con un gruppo di storici e la garanzia di un apparato critico, com’è già accaduto in Germania. « Mein Kampf è un documento che può servire a capire alcuni movimenti storici» dice Potier a Repubblica.
«Nel caso di Céline – continua – sono testi letterari, un vero e proprio delirio, un fiume di insulti verso gli ebrei». Il prefetto si limita adesso a “prendere atto” della rinuncia di Gallimard che ha fatto capire quanto sia sofferta la sua decisione. «I pamphlet di Céline appartengono alla storia dell’antisemitismo francese più infame» ha detto l’editore.
«Condannarli alla censura ostacola la ricerca delle loro radici e dell’ideologia di cui si nutrono, creando una curiosità malsana, mentre dovremmo poter esercitare la nostra capacità di giudizio». Chi difende la pubblicazione dei pamphlet ricorda che in ogni caso i testi circolano già ampiamente su Internet, per giunta senza analisi critica. E l’edizione canadese è facilmente acquistabile su Amazon. «Sono i limiti della nostra giurisprudenza in materia di circolazione delle opere a livello globale» ammette Potier che però vanta il lavoro del suo ufficio nella lotta all’antisemitismo online, con la richiesta di cancellare solo nell’ultimo anno un centinaio di tweet, decine di pagine Facebook e un canale YouTube dedicato al negazionismo. Gli spettacoli antisemiti del comico Dieudonné, banditi nel 2015, sono ricominciati da tempo. «Le battute sono state epurate, e noi continuiamo a vigilare», dice Potier. Secondo il ministero dell’Interno, nel 2017 gli attacchi antisemiti sono diminuiti del 20 per cento ma ci sono stati casi terribili nella comunità ebraica, come l’omicidio di una parigina, Sarah Halimi, nell’aprile scorso.
L’ufficio di Potier, il Dilcrah, esiste dal 2012 e dispone di 3 milioni di euro per finanziare diverse azioni di sensibilizzazione. «Purtroppo sappiamo che l’antisemitismo non è una parentesi che si è chiusa con la fine della guerra» conclude Potier.

La Stampa 12.1.18
Un’intervista del 1923
“Signor Hitler, mi può spiegare il programma del suo partito?”
Il Führer: “Purezza della razza, abolizione del regime democratico, distruzione dei socialisti e degli ebrei”
di Giulio De Benedetti


Si dice che intervistare il «fascista» Adolfo Hitler non sia cosa facile. Così almeno mi hanno informato a Monaco alcuni colleghi tedeschi. Non certo perché egli sia per temperamento un taciturno, ma perché i suoi compagni di fede non desiderano troppo che i giornalisti lo avvicinino.
Ma ieri il caso mi ha aiutato. Mentre stavo discutendo nella redazione del Volkische Beobachter con una banda di esaltati (facce di nevropatici e di cocainomani che mi ricordavano un po’ i cechisti di Mosca) sulla necessità o meno, e della forma più opportuna di ammazzare tutti gli ebrei e tutti i socialisti, ecco comparire Adolfo Hitler.
Presentazione rapida: una stretta di mano così energica da indolenzire le dita (anche questo è un segno di forza) ed incomincia l’intervista.
Hitler è un uomo che può parlare anche tre o quattro ore di seguito senza stancarsi con una voce che pare una mitragliatrice in funzione. Le cose che enuncia possono - dette ad un pubblico di fanatici nelle grandi birrerie di Monaco - fare un certo effetto; ma ascoltate freddamente, a tu per tu e alla luce del giorno, l’impressione è un po’ minore.
Guardo la sua faccia comune e senza interesse, la sua figura tozza che una pretesa eleganza non riesce ad affinare e, mentre ascolto, non so vincere un senso di delusione che la conoscenza del piccolo dittatore mi procura. Quando parla - e io continuo a guardarlo con una certa delusa curiosità - gli tremano leggermente gli angoli delle labbra. Non mi pare un dittatore troppo pericoloso.
Incomincia egli coll’espormi il programma del suo partito, che identifica in gran parte con quello del fascismo italiano. Ma lamenta che Mussolini non abbia intuito quanto lui ha capito subito, che bisogna liberarsi innanzi tutto del pericolo semita, che ha carattere internazionale. Per Hitler sono poche le personalità che non abbiano nelle vene un po’ di sangue giudeo: Edoardo VII, figlio degli amori adulteri della regina Vittoria col suo medico personale, Guglielmo II e lo stesso Pontefice non ne sono immuni. Bisogna purificare la razza umana da questo terribile veleno…
Cerco di portare il «leader» del così detto movimento fascista su terreno più prossimo:
Mi potrebbe spiegare con chiarezza quale sia il programma immediato del suo partito?
«Lotta senza quartiere ai socialisti e agli ebrei. Distruzione di ogni idea internazionale. Attirare nel nostro movimento le masse operaie. Il concetto monarchia e repubblica ci è indifferente, come non siamo legati ad alcuna confessione religiosa. Vogliamo che il potere dello Stato sia affidato ad una minoranza onesta e capace. Si immagina lei» [si alza in piedi e si pone una mano sul petto] «che io, dittatore, mi lascerò, quando avrò la direzione dello Stato, comandare dal Parlamento e dai così detti rappresentanti del popolo? Io governerò», continua il veggente, «secondo l’ispirazione che mi verrà dall’intimo della mia coscienza…».
Non crede che in un momento così grave per i destini del germanesimo, mentre si è riusciti a stento a formare un blocco nazionale contro la Francia, non sia tale azione pericolosa e non possa provocare la guerra civile?
«Noi andiamo diritti per la nostra strada. Siamo convinti che non si giungerà alla liberazione del popolo tedesco se prima non si distrugge il socialismo e l’idea semita. Come si fa a costruire un edificio se non si pongono prima le basi? Ora le basi della nostra liberazione sono la compattezza nazionale, la purezza della razza, l’abolizione del regime democratico… Del resto la lotta contro la Francia è condotta in una forma vergognosamente fiacca…».
Signor Hitler, lei ha paragonato il movimento social-nazionalista con quello fascista italiano. La situazione politica dei due Paesi, come risultato della guerra è diversa. Ma lei immagina che se gli austriaci, per ipotesi, vittoriosi, fossero ancora avanzati, dopo firmata una pace, nel territorio nazionale, i fascisti italiani si sarebbero limitati a urlare a Roma, a Milano, od a Napoli contro il «nemico interno»? Non crede lei che centinaia e migliaia di uomini sarebbero corsi a uccidere ed a farsi uccidere con gesto di disperata follia, pur sapendo di morire invano, ma certi ugualmente di dare il proprio sangue per la «liberazione» più lontana?
«Le mie forze armate non dispongono che di limitati mezzi militari. Se andassimo a batterci contro la Francia, saremmo schiacciati in poche ore».
Per ragioni di umanità è bene che sia così. Non intendevo dire che lei, signor Hitler, dichiari la guerra al Governo di Parigi, ma mi pare compito troppo facile per un partito nazionalista armato limitarsi a inscenare parate per le vie di Monaco, reclamando guerra senza mercé alla Francia, ma accontentandosi di bastonare, con la protezione della polizia, qualche socialista e qualche ebreo…
Hitler replica:
«La lotta armata contro la Francia non è compito nostro».
Ed allora, se a Berlino si formasse un qualsiasi Governo, probabilmente di Sinistra, che per lavare il paese da una minacciata catastrofe, concludesse un qualsiasi accordo coi francesi…?
Il «veggente» scatta in piedi e passeggia concitato per la piccola sala redazionale gridando: «Kampf
Kampf! (Battaglia! Battaglia!)». Non so se contro i francesi, o contro gli ebrei…
***
Adolfo Hitler mi aveva dato un secondo appuntamento alla Corneliusstrasse, nella centrale della sua organizzazione armata, ma non mi fu più possibile avvicinarlo.
Nella sede centrale della sua organizzazione alcune signorine preparavano le «fiches» che suddividono gli iscritti in «truppe di assalto», «propagandisti» ecc. Lessi tra gli iscritti i nomi di note famiglie aristocratiche e di militari. Nella strada incontrai alcuni gruppi delle forze armate. Mi avvicinai per interrogare. Quando seppero che ero italiano, qualcuno richiese il ritratto dell’on. Mussolini, qualche altro si accontentò di sigarette, parecchi mi confessarono di essere disoccupati in cerca di un impiego qualsiasi.
Chi ha voluto e saputo organizzare questo partito e queste forze rimanendo dietro le spalle di Adolfo Hitler?
Qualcuno fa il nome di Lüdendorf. Con certezza si sa soltanto che il suo attendente fa parte delle cosiddette «truppe d’assalto».

Corriere 12.1.17
Gli Egizi pesavano le anime. E dialogavano con gli dèi
di Antonio Carioti


Le società antiche erano impregnate di senso del sacro. I loro riti quotidiani si configuravano come «il segno di riconoscimento del divino», erano il richiamo costante a una dimensione che accompagnava le popolazioni in tutte le fasi più importanti dell’esistenza. Inoltre i loro governanti si ponevano spesso come mediatori tra il mondo degli dèi e quello degli uomini. E questo è vero in particolare per la civiltà fiorita sulle rive del Nilo a partire dal terzo millennio prima della nascita di Cristo.
Tale fenomeno è infatti al centro del libro degli studiosi francesi Dimitri Meeks e Christine Favard-Meeks La vita quotidiana degli Egizi e dei loro dèi , disponibile attualmente in edicola con il «Corriere della Sera» al prezzo di e 8,90 più il costo del quotidiano. Si tratta della terza uscita della collana Biblioteca della storia. Vite quotidiane , edita in collaborazione con la Bur, che offre ai lettori opere incentrate sui costumi, le abitudini, i rapporti tra i sessi, l’immaginario collettivo, le attività produttive e ricreative in diverse fasi dell’avventura umana.
Il saggio di Meeks e Favard-Meeks si distingue proprio per il nesso strettissimo che mette in luce tra il popolo egizio e le sue divinità, un legame cementato da un’ampia letteratura. I racconti mitologici e le fiabe, osservano i due studiosi, «si prestavano a essere diffusi anche fuori dai circoli ristretti dei sacerdoti, fra le classi colte ma anche, in forma orale, negli strati popolari. Attraverso il racconto mitologico o lo scritto di carattere magico i miti si liberano della loro aura per assumere l’aspetto della banalità quotidiana. Lo stesso statuto della scrittura permetteva la trasposizione del sacro nel profano in un processo che poteva anche spingersi fino al gioco intellettuale».
Interessante a questo proposito l’esempio portato da Meeks e Favard-Meeks, quello di uno scriba che si divertì «a descrivere la scena della pesatura dell’anima di un morto». Episodio davvero emblematico di una civiltà nella quale la cultura materiale e la religiosità s’intersecavano di continuo, tant’è vero che alle divinità stesse veniva attribuito un corpo fisico, che poteva «essere mutilato e sanguinare», anche se dotato della «capacità di superare le più gravi lesioni». Del resto «bere e mangiare costituiva una delle attività favorite degli dèi» perlomeno «quando si trovavano in situazioni più tranquille».
Lo stesso intreccio tra realtà e leggenda, tra sacro e profano, sia pure in un’epoca di gran lunga posteriore, si riscontra nella prossima uscita della serie: La vita quotidiana ai tempi dei cavalieri della Tavola rotonda di Michel Pastoureau, che sarà in edicola da giovedì 18 gennaio. Dopo Iside e Osiride, toccherà a re Artù, alla sua consorte Ginevra e al prode Lancillotto.

Repubblica 12.1.18
Perché oggi viviamo tutti nel regno del dio Pan
d Maurizio Bettini


Il diverso come minaccia, il furore religioso, l’accecamento della ragione: la nostra era sembra dominata dalla figura mitologica che evoca il terrore
Spiaggia di Sisco, Corsica, 13 Agosto 2016. La presenza di bagnanti musulmane che indossano il burkini provoca la reazione di alcuni corsi («siamo a casa nostra!») con relativa controreazione di alcuni nordafricani: auto incendiate, feriti, paura in spiaggia. I media danno ampio risalto all’evento, i politici di destra ne approfittano per denunciare l’invasione islamica, il sindaco di Sisco emana un’ordinanza che vieta l’uso del burkini in quanto viola il principio di laicità. Passa qualche giorno ed emerge però che il burkini non c’entrava nulla: si è trattato di un banale scontro fra bande rivali per il controllo della spiaggia. Il Consiglio di Stato sospende l’ordinanza anti-burkini, la faccenda scompare dai media.
Ecco un perfetto esempio di “panico identitario”: ossia lo spargersi di un’agitazione immotivata — o comunque sproporzionata — di fronte a un certo evento, solo perché si ritiene che in esso sia coinvolto un gruppo sentito come culturalmente minaccioso. In questo caso i musulmani, i cui “costumi” (la parola può essere intesa nei due sensi) metterebbero in pericolo la “identità culturale” di un intero paese.
Sarebbe ingenuo però ritenere che il panico identitario si sparga da solo. Come in questo caso, a gestirlo ci sono sempre dei veri e propri “imprenditori dell’identità”, personaggi politici, o mediatici, pronti ad arrogarsi il ruolo di detentori dell’identità culturale minacciata da profughi e immigrati. Già, ma cosa sarebbe mai questa “identità culturale” che si vuole difendere?
Difficilmente coloro che se ne fanno araldi ne definiscono le caratteristiche. Al massimo invocano vagamente i “valori” del cristianesimo, dell’Europa o dell’Occidente... Del resto si sa che dire in che cosa consiste l’identità di una persona o di un gruppo costituisce un’impresa che ha scoraggiato fior di filosofi — figuriamoci se potrebbe cavarsela l’imprenditore identitario di turno. Ed ecco un’altra domanda interessante: come e quando nasce questa idea della “crisi di identità”? Lo spiega Régis Meyran, in uno dei saggi raccolti nel libro Paniques identitaires, edito da lui e da Laurence de Cock. Di “crisi di identità” comincia a parlare, negli anni Sessanta del Novecento, uno psicoanalista americano, Erik Erikson. La sua attenzione si concentra su individui appartenenti a minoranze che, come tali, sono preda di una perpetua tensione fra la cultura dominante che li ospita e la subcultura da cui provengono.
Erikson si rivolge soprattutto a neri, nativi americani, donne, ma l’elenco si potrebbe ampliare.
L’identità di questi gruppi è minacciata in quanto viene loro imposta una “identità negativa” da parte della maggioranza che li circonda: tipo il “negro” stupido o criminale, e così via. Di conseguenza nei decenni successivi l’impegno di molti gruppi consisterà, come sappiamo, nel rivendicare il diritto a manifestare una propria identità culturale. Processo lungo e spesso doloroso, specie negli Stati Uniti.
Torniamo però a ciò che accade oggi in Europa. Il fatto sconcertante è che stiamo assistendo a una vera e propria parodia delle originarie “crisi di identità”. Adesso infatti a sentirsi minacciate sono paradossalmente le maggioranze, che temono una “crisi” della propria identità culturale (maggioritaria) a motivo della presenza di minoranze culturali. Il panico identitario dilaga. L’Ungheria ha un 2% di immigrati, ma gli ungheresi credono che essi ammontino al 16% della popolazione. Se la Polonia fa anche peggio, neppure il nostro paese si distingue. Gli immigrati costituiscono circa il 9% della popolazione, con un 2% di musulmani: ma gli italiani credono che la percentuale sia del 30% e che i musulmani ne formino il 20%. «Questo paese è già islamizzato!» mi urlava nelle orecchie un tassista romano, anche lui vittima del panico identitario. O meglio, come preferirei dire, vittima del dio Pan.
Non so infatti se, parlando di “panico”, de Cock e Meyran avessero in mente il dio greco da cui questa sindrome prende nome. Probabilmente no, eppure tutto invita a credere che Pan c’entri eccome. La nostra società sembra realmente caduta in preda ai deliri di cui Pan era ritenuto il potente signore. A lui i Greci attribuivano non solo la capacità di scatenare un terrore tanto infondato quanto irrefrenabile, tale da sconvolgere un intero esercito, ma soprattutto il potere di accecare le persone, impedendo loro di riconoscere chi sta loro d’intorno: trasformando gli amici, i compagni della sera prima, in pericolosi nemici. Il fatto è che Pan toglie il discernimento.
Quando dunque della donna che fa la spesa, come noi, nel supermercato, riusciamo solo a notare che indossa il velo, e non che compra gli stessi biscotti che compriamo noi o che non indossa le stesse scarpe e lo stesso piumino che indossano le nostre amiche — ecco, siamo caduti in balia di Pan. E quando ritiriamo i nostri figli da scuola per il terrore che siano contaminati dalla teoria del “gender” — da cui la nostra “identità culturale” sarebbe minacciata — è ancora Pan che popola di fantasmi la nostra mente. A questa divinità i greci attribuivano perfino l’insorgere di una sindrome tragicamente attuale: la mania religiosa, quella che conduce al fanatismo e all’ossessione per il divino. Difficile perciò non ritenere che siano preda dei deliri di Pan quei gruppi islamici fondamentalisti che uccidono in nome del loro Dio; e in generale tutti coloro che considerano la religione non un costrutto culturale, come tale degno di reciproco rispetto, ma un assoluto, rispetto al quale non si ammettono alternative. Racconta Plutarco che, al tempo di Tiberio imperatore, nell’isola di Paxos risuonò una voce misteriosa e potente, che annunziava al mondo la morte del dio Pan. Non era vero.

giovedì 11 gennaio 2018

La Stampa 11.1.18
Da Algeri a Teheran la lotta per il pane che fa tremare i regimi
I sussidi hanno tenuto per anni i costi bassi Da Sadat a Bashir: chi tocca il prezzo rischia
di Giordano Stabile


Il pane è vita, tanto che in Egitto, nell’arabo colloquiale locale, la stessa parola, aish, indica sia il pane che la vita. Nessun raiss ha mai aumentato il prezzo del pane di sua volontà ma da 40 anni, a cicli regolari, i governi dell’Egitto e dei Paesi vicini sono costretti a farlo e scoppiano rivolte. I sussidi tengono basso il costo, i consumi superano la produzione, bisogna importare la farina e i conti pubblici non reggono più.
Il primo a provarci è stato Sadat, nel 1977, e «l’Intifada del pane», 500 morti, lo costrinse a fare marcia indietro. La misura di aggiustamento era stata suggerita dal Fondo Monetario, come oggi in Tunisia e in Sudan. La rabbia popolare arriva in un momento critico. Il Sudan, da quasi trent’anni sotto Omar al-Bashir, si è riguadagnato rispettabilità internazionale per la sua lotta ai gruppi jihadisti, una svolta a 180 gradi che ha convinto gli Usa a togliere le sanzioni.
Ma il ritorno nei circuiti dell’economia «normale» è stato traumatico. La manovra dell’Fmi ha significato la fine dei sussidi ai beni alimentari e del cambio fisso con il dollaro. Il risultato è stato un’inflazione al 25% e il raddoppio del prezzo della pagnotta che da mezza lira sudanese è passata ad una lira, meno di mezzo dollaro al chilo, troppo per la povera gente. Nelle campagne e nelle periferie di Khartoum la maggior parte delle famiglie sopravvive con 6-700 lire al mese, che prima valevano 100 dollari e ora meno di 40.
Alle sorti del Sudan guarda con occhi attenti l’Egitto. Il Cairo ha una «politica del pane» capillare. Ventimila fornai sovvenzionati forniscono a milioni di persone «l’aish baladi», o «pane locale», dischi dorati dal profumo inconfondibile. Ogni fornaio distribuiva in media 2 mila pagnotte al giorno al prezzo di 5 piastre, neanche un centesimo di dollaro, ma l’anno scorso il governo le ha tagliate a 500. I salari medi sono attorno alle 1000 lire egiziane, circa 60 dollari al cambio attuale. Con le elezioni previste per il 26 marzo prossimo, quest’anno il presidente Abdel Fatah al-Sisi ha bloccato tutte le manovre di questo tipo. L’inflazione nel 2017 è schizzata oltre il 30%, una mazzata per quel 42% delle famiglie che vive con meno di 2,5 dollari al giorno: il prezzo del pane «di mercato», un dollaro al chilo, è insostenibile.
Ma anche Paesi ricchi sentono gli effetti degli «aggiustamenti». L’Algeria ha proibito l’importazione di telefonini, mobili, verdura fresca, in una lista ridicolizzata dagli oppositori per le sue bizzarrie. In Iran, la manovra del governo di Hassan Rohani in Iran ha innescato le proteste più violente dal 2009. Anche qui la fine dei sussidi ha fatto raddoppiare i prezzi. A fronte di un costo della farina pari a circa 30 centesimi di dollari al chilo, il pane «sussidiato» costava in media 20 centesimi, con la riforma arriverà a 40 centesimi.
Il Pil pro capite dell’Iran è di circa 5000 dollari all’anno ma ci sono grandi differenze sociali. Secondo uno studio dell’Fmi del 2010, una famiglia media riceveva 3600 dollari in sussidi all’anno, indispensabili per vivere. Sull’altra sponda del Golfo Persico, in Arabia Saudita, l’austerity ha significato soprattutto la fine della benzina quasi gratis. A gennaio il prezzo al litro è passato da 24 cents di dollaro a 44, mentre nel 2015 era ancora attorno ai 15 centesimi. Il reddito dei sauditi è il quadruplo di quello iraniano, ma con un deficit al 16% è tempo di qualche sacrificio.

La Stampa 11.1.18
Nella Tunisia delle rivolte “Stavolta non ci fermeremo”
Il governo reagisce dopo gli scontri nei cortei: 237 arresti Sassaiole nelle città. A Djerba molotov contro la Sinagoga
di Francesca Paci


Molte ore dopo l’assalto al Carrefour di Ben Arous, periferia Sud di Tunisi, l’odore dei lacrimogeni aleggia ancora sul viale buio davanti alle saracinesche bruciate. Le proteste contro il carovita che da tre giorni tengono in scacco il Paese e hanno prodotto 237 arresti, decine di feriti tra cui 49 poliziotti, 45 mezzi della sicurezza danneggiati, si accendono di slogan diurni nel cuore borghese della capitale e di sassaiole notturne qui, banlieue miserabile, dove piccoli gruppi di giovani con il cappuccio della felpa sulla testa parlottano sbirciando i blindati appostati all’incrocio.
«Anche se non è la rivoluzione del 2011 non si fermerà, ci ripetono che diversamente da Internet e schede telefoniche il pane e l’olio non sono aumentati, ma i bisogni della gente non sono più quelli di mezzo secolo fa» ragiona il tassista Samir in sosta alla boulangerie La Reine, un isolato più avanti, in direzione di quell’autostrada per Tunisi dove le pietre lungo il guardrail raccontano gli scontri durissimi all’altezza delle case popolari di El Kabaria.
A sette anni dalla cacciata di Ben Ali, l’unica sopravvissuta delle primavere arabe, ma anche quella che ha fornito il maggior numero di volontari allo Stato islamico, combatte con i suoi fantasmi. La settimana scorsa l’annuncio della legge di bilancio accompagnata dall’aumento dei prezzi della benzina, del gas, dei servizi, ha scatenato le piazze di una decina di città, da Kasserine a Djerba, dove pare sia stata attaccata la sinagoga: i moti più duri da quando nel 2016 il governo ha promesso al Fondo monetario internazionale un drastico taglio della spesa in cambio del prestito quadriennale da 2,9 miliardi di dollari. La popolazione, gravata da un tasso di disoccupazione giovanile del 25% e l’inflazione al 6,4% (contro il 4,2% del 2016), è esplosa.
«È allarmante perché non c’e alcuna leadership, ma si tratta di manifestazioni di poche decine di persone che pur mettendo alla prova il governo non terremoteranno il Paese» nota Hamza Meddab, studioso di periferie tunisine e analista dell’European Council on Foreign Relations. L’Ugtt, il sindacato dei sindacati, chiede al’aumento del salario minimo, oggi al di sotto dei 400 dinari (134 euro), ma resta a fianco del governo. In strada ci sono i disoccupati e gli agit-prop del Fronte Popolare, la sinistra radicale, i cui slogan - Manich Msamah (non perdoneremo) e #Fech_Nestanew (cosa stiamo aspettando?) - risuonano in avenue Bourghiba tra cordoni di agenti più numerosi dei manifestanti.
«Da giorni si respirano lacrimogeni e rabbia, chi protesta tira avanti da troppo tempo con 500 dinari al mese e la pazienza è finita» ci dice il giovane dottor Said al telefono da Tebourba, dove nelle ultime ore centinaia di persone sono scese in piazza per i funerali del manifestante ucciso durante gli scontri. Due mesi fa nella città settentrionale di Sejnane una madre di 5 figli si era data fuoco evocando il gesto di Mohammed Bouazizi, il fruttivendolo di Sidi Bouzid diventato il simbolo della rivoluzione del 2011.
«Il 2018 sarà l’ultimo anno di stenti per i tunisini» ripete il premier Chahed nel discorso di Capodanno rimandato dalla tv in un caffè solo maschile di Citè el Tadhamoun, altra periferia Sud di Tunisi, due centri commerciali bruciati. «Promesse, promesse, dal 2011 abbiamo ottenuto solo la libertà, e non ci manteniamo la famiglia» sentenzia il proprietario asciugando bicchierini di tè.
Periferia e centro, provincia e città, borghesia e proletariato vero: le ataviche contraddizioni tunisine tornano, convitato di pietra nella transizione dal passato che non passa. A pochi isolati dal Parlamento, il deputato di Ennahda Osama al-Saghir ricorda le cifre dell’Iva, passata dal 6 al 7% per i prodotti necessari e dal 12 al 13% o dal 18 al 19% per gli altri. Poca roba, dice, rispetto ai singoli commercianti «che se ne sono approfittati aumentando i prezzi del 15, 20%». Difende il governo insomma, ma anche il diritto di critica, un privilegio della democrazia: «In realtà è iniziata la campagna elettorale per il voto amministrativo del 6 maggio che vedrà in campo migliaia di città, 8 milioni di elettori e oltre 7200 candidati. L’opposizione capitanata dal Fronte Popolare, che in Parlamento ha appena una trentina di seggi, cavalca il malcontento contro la maggioranza». Ennahda, storica forza popolare oggi in coalizione con Nidaa Tounes nel governo di unità nazionale, tende da sempre l’orecchio alla pancia del Paese ma in queste ore ne minimizza la forza d’urto sottolineando che, al netto dei problemi, il Paese cresce del 2,2%, la disoccupazione è scesa dal 18% al 15,3% e con 7 milioni di visitatori nel 2017 il turismo respira.
L’umore è cupo. Le camionette dell’esercito davanti ai caffè a ridosso della casbah ricordano lo Stato d’emergenza, in realtà in vigore dal 2015. C’è ancora qualche giorno prima del 14 gennaio, anniversario della rivoluzione, nel bene e nel male.

Corriere 11.1.18
Dall’Iran alla Libia
Europa ambigua sui diritti umani
di Franco Venturini


L’Ue ha scoperto di saper dire «no» alla Casa Bianca. Ma difendere i propri interessi significa saper rifiutare i compromessi al ribasso.
N on è vero che in I ran sia tornata la piena normalità, come assicurano i capi dei Pasdaran. Le organizzazioni umanitarie segnalano centinaia di arresti ba sati su sospetti e delazioni, qualche coraggioso scende ancora in piazza, e i conservatori, superato il timore di andarci di mezzo, sono ripartiti all’assalto del governo riformatore di Hassan Rouhani.
Fuori dai confini della Repubblica islamica, poi, la questione iraniana è al centro dell’attenzione in Europa come a Washington. La Ue è sul banco degli imputati come troppo spesso le accade, perché ha reagito tardi e con misura alla repressione poliziesca che ha schiacciato le proteste facendo almeno 23 morti. Sarebbe andata molto peggio, risponde Bruxelles, se nelle ore più gravi l’Europa non avesse discretamente raccomandato moderazione alle autorità di Teheran. Può darsi, ma la tesi difensiva non coglie il punto centrale dell’accusa. L’Europa è lenta quando serve essere tempestivi, vuole avere il consenso di ventotto diverse capitali prima di esprimersi, e i governi nazionali restano spesso alla finestra in attesa che Bruxelles dica la sua. L’intreccio tra burocrazia ed eccessiva prudenza finisce così per diffondere sulla scena internazionale un messaggio di indecisione, di debolezza, persino di pavidità.
Errore grave, che nel caso della repressione iraniana è diventato strategico. Perché se vuole essere credibile e rispettata nella sua politica di forte sostegno all’accordo nucleare con Teheran (che Trump vuole invece affondare), l’Europa deve dimostrare che altrettanta energia viene dedicata alla difesa dei propri valori. A ciò serviva l’immediata, pubblica e dura scomunica dell’uso della forza contro i dimostranti. Il troppo silenzio (anche da parte dei singoli governi europei) ha invece offerto il fianco alle critiche di Washington, e questo proprio nel momento in cui Donald Trump deve decidere nei prossimi giorni se reintrodurre o meno le sanzioni petrolifere contro Teheran. L’Europa distratta rischia di essersi sparata sui piedi, dopo aver lungamente tentato di convincere Trump a non decretare nuove misure punitive che di fatto silurerebbero l’accordo nucleare e potrebbero spingere l’Iran a riprendere i suoi programmi atomici. Questa volta di nascosto da tutti.
Il cortocircuito tra politica e diritti umani non è peraltro una novità, per l’Europa e per l’intero Occidente. Si pensi ai rapporti con la Cina, preziosi per tutti, addirittura necessari per la crescita globale, ma oscurati da ben note violazioni dei diritti civili da parte delle autorità di Pechino. Quando la posta è troppo alta il pragmatismo politico impone il silenzio, o almeno una impenetrabile discrezione, e così le polemiche con Xi Jinping, semmai, riguardano i commerci, la gestione monetaria o la Corea del Nord. La denuncia non è obbligatoria, e si può anche sceglierla seguendo le proprie convenienze: il Trump che si è indignato per gli iraniani repressi e uccisi ha forse detto una sola parola contro le stragi di civili compiute dai suoi clienti sauditi nello Yemen (senza dimenticare che le bombe, secondo il New York Times , venivano anche dalla Sardegna) ?
Sul fronte europeo si è visto un lungo tira e molla con la Turchia, Paese alleato nel quale si viene facilmente arrestati per le proprie opinioni. La verità la conosciamo tutti: la prudenza è necessaria perché la Turchia, in cambio di molti soldi, fa da argine ai migranti siriani che vorrebbero andare in Germania. E ben venga la franchezza di Emmanuel Macron, che ricevendo Erdogan a Parigi nei giorni scorsi ha finalmente rifiutato l’ipocrisia regnante comunicando all’uomo forte di Ankara che non esistono le condizioni per un ingresso turco nella Ue.
In Libia, invece, non si è anc ora parlato chiaro. Lo scandaloso contrabbando umano che quando va bene scarica moltitudini di diseredati sulle coste italiane è diminuito di un terzo nel 2017, un dato positivo soprattutto in tempi di campagna elettorale. Ed è anche vero che il clamore sollevato dalla Cnn con un servizio sull’atroce trattamento inflitto ai migranti dalle milizie libiche (quelle presunte amiche, in Tripolitania) si riferiva in realtà a circostanze da tempo note, anche all’Onu. Ma questo non assolve l’Italia, l’Europa, l’intera comunità internazionale. Mentre fatica a prend ere forma una diversa politica europea sui rifugiati e si predispongono investimenti in Africa che richiederanno molto tempo per funzionare, resta inevasa la necessità di riportare la Libia e i suoi molteplici centri di potere tra i Paesi civili che non riducono gli uomini in schiavitù e non ne fanno commercio. Ora le Ong italiane potranno ispezionare i centri di detenzione «ufficiali» , ma non è lì che vengono commessi autentici crimini contro l’umanità. Il passo più costruttivo, in attesa di vedere se nel 2018 si potrà votare e con quali risultati, è stato compiuto dal governo Gentiloni quando ha deciso di trasferire cinquecento militari dall’Iraq al Niger. Per dissuadere i migranti dall’attraversare il Sahel e dall’entrare in Libia rincorrendo il miraggio Italia, e per diminuire la pressione nel tuttora minaccioso «serbatoio umano» che ci guarda e ci desidera dall’altra parte del Mediterraneo. Eppure una buona fetta della politica italiana, nella foga preelettorale, non ha capito che andare in Niger era un cruciale interesse nazionale dell’Italia.
La politica estera europea, come abbiamo già rilevato su queste colonne, sta crescendo anche grazie alla Brexit e a Trump. Ora si può costruire la difesa comune. E la Ue, o gran parte di essa, ha scoperto di saper dire «no» alla Casa Bianca su molte cose, dall’ambiente a Gerusalemme, passando appunto per l’Iran. Ma difendere i propri interessi significa saper affrontare le situazioni più spinose, Libia in testa. E significa rifiutare i compromessi al ribasso nella difesa dei diritti civili. Altrimenti una stagione internazionale difficile ma piena di occasioni passerà senza lasciare traccia.

il manifesto 11.1.18
Israele, una democrazia davvero unica in Medio Oriente
di Zvi Schuldiner


Il comitato centrale del Likud – il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu – ha votato per acclamazione a favore dell’annessione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania.
Il procuratore generale di Israele ha dato istruzioni ai suoi uffici: occorre determinare in che modo i disegni di legge dei vari ministeri dovranno essere applicati ai 400mila coloni degli insediamenti nei territori occupati.
La legislazione israeliana non vigeva nei territori occupati: per il diritto internazionale, la potenza occupante non deve introdurre cambiamenti nelle aree soggette a occupazione, salvo in casi speciali motivati da ragioni di sicurezza o legati al benessere delle popolazioni interessate.
Il Parlamento israeliano ha approvato in prima lettura – saranno necessarie altre fasi – la legge che consentirà di introdurre la pena di morte per i terroristi che abbiano ucciso israeliani. L’esercito e varie agenzie di intelligence si sono opposti, ma hanno avuto la meglio le esigenze populiste di Netanyahu e del ministro della difesa Lieberman.
La riconciliazione palestinese – fragile e relativa – ha portato concessioni e accordi fra l’Autorità palestinese e Israele; così gli abitanti della Striscia di Gaza godranno di otto ore giornaliere di elettricità al posto delle quattro precedenti. Un bel cambiamento!
È stata prorogata di otto mesi la detenzione amministrativa di Halda Jerrar, una parlamentare palestinese che avrebbe dovuto essere liberata in questi giorni, dopo sei mesi dietro le sbarre. In famiglia la aspettavano, ma fonti della «sicurezza» hanno segnalato che si tratta di una persona pericolosa che fa parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. In casi come questo, le prove non sono pubblicate per ragioni di sicurezza.
Ahed Tamimi, la «pericolosissima» palestinese di 16 anni che ha schiaffeggiato un ufficiale dell’esercito israeliano, continua a rimanere in carcere e sarà presto accusata di diversi crimini.
Gli ebrei che tendono a farsi del male rivangando stupidi ricordi, in questi giorni si sono ricordati di quella Alcobi, un’ebrea di Hebron diventata molto famosa per gli insulti e le pietre lanciate contro alcuni palestinesi. Nel 2010 prese a sassate un soldato israeliano che aveva cercato di trattenerla; fu arrestata ma «fortunatamente» rilasciata dopo poche ore, senza che fosse avviato alcun processo.
Anche un giovane colono ebreo che aveva accoltellato il rabbino Asherman, dell’organizzazione Rabbini per i diritti umani, era stato liberato con la condizionale, essendosi dichiarato pentito.
Il giudice della Corte suprema Noam Solberg – che vive in un insediamento nei territori occupati – rispetto a una denuncia presentata per la sua partecipazione a un evento politico di celebrazione del 50esimo anniversario dell’occupazione dei territori ha spiegato di aver assistito con la famiglia a una celebrazione con canti e altro, senza carattere politico.
Il primo ministro Netanyahu continua a far di tutto per cercare di introdurre qualunque norma e provvedimento in grado di far dimenticare i casi problematici di corruzione nei quali sembra coinvolto. Un noto deputato del Likud e altri politici legati al premier sono accusati di corruzione.
Se l’escalation nel Sud continua, una miniguerra diventa probabile; e occuperà le menti più della corruzione.
La legge sulla nazionalità sarà discussa nelle prossime settimane e permetterà di accentuare il carattere di apartheid, come dicono le malelingue, del paese.
Non tutto è discriminazione nei confronti dei palestinesi.
In omaggio a un po’ di eguaglianza, anche diversi ebrei e organizzazioni come Jewish for Peace presto non potranno recarsi nel paese anche se là hanno familiari – come è il caso della direttrice del gruppo.
In questa breve rassegna degli ultimi sforzi per consolidare l’unica, davvero unicissima democrazia nel Medioriente, non sono inclusi l’esercizio quotidiano dell’oppressione militare e poliziesca, i morti e feriti, le forme reiterate di rapina delle terre in un regime di colonizzazione.
Ci siamo limitati a riferire di alcuni aspetti della legislazione recente nell’unica democrazia del Medioriente.
Sei milioni di ebrei con pieni diritti formali, due milioni di palestinesi che godono di diritti ma sono discriminati, e infine quattro milioni di palestinesi sotto occupazione militare, senza alcun diritto politico o nazionale.

La Stampa 11.1.18
Pechino fa rotta su Duisburg per conquistare l’Occidente
Ogni settimana 25 treni approdano nel cuore della Ruhr dall’Estremo Oriente L’ex città delle acciaierie è il cuore strategico dei commerci sulla Via della Seta
di Walter Rauhe


Il centro di Duisburg è dominato da uno scenario di desolazione e degrado. Le rovine degli ex colossi siderurgici, delle acciaierie e delle fabbriche per la lavorazione del carbone sono ricoperte da sterpaglie e da recinti metallici logorati dalle intemperie e dal vandalismo.
Nelle sporadiche e fatiscenti locande gestite prevalentemente da immigrati turchi siedono solo pochi avventori e le serrande di molti negozi vicini sono abbassate ormai da anni in attesa di improbabili nuovi inquilini.
Negli ultimi 30 anni la città ha perso 160 mila abitanti e qualcosa come 65 mila posti di lavoro a causa della crisi nel settore siderurgico e del processo di deindustrializzazione che ha colpito l’intero bacino della Ruhr. Ma la città renana ha due volti. Accanto a quello grigio, triste e rassegnato del centro, sorto all’ombra delle colossali acciaierie e degli alti forni oggi in disuso, negli ultimi decenni ne è sorto un altro. Si chiama Duisport ed è l’enorme porto commerciale sorto alla confluenza tra i fiumi Reno e Ruhr alla periferia settentrionale della città. Col suo terminal per container ed oltre 2,1 milioni di metri quadrati di depositi, il porto di Duisburg si è trasformato in poco tempo nel più grande ed efficiente centro logistico per il trasporto e smistamento merci nave-treno d’Europa che dà lavoro oggi a 50mila persone. Un miracolo ed esempio riuscito di riconversione industriale senza eguali nell’ex culla industriale e mineraria della Germania occidentale e il cui successo dipenderà in futuro sempre di più da un fattore: la Cina.
Il porto fluviale col suo terminal ferroviario per container è infatti il punto di arrivo e di partenza dei nuovi treni merci con i quali il governo di Pechino tenta da alcuni anni di creare un’alternativa via terra per il trasporto dei prodotti d’esportazione e d’importazione dall’Europa avvenuto finora prevalentemente via mare. Solo lo scorso anno nel terminal di Duisburg sono stati così smistati qualcosa come 50mila container. Ogni settimana a Duisport arrivano in media 25 treni merci dalla Cina. Entro il 2020 - questo l’ambizioso piano del regime cinese - saranno oltre 50.
La nuova via ferroviaria che congiunge i grandi centri industriali della Cina col cuore manifatturiero dell’Europa, è una linea che all’apparenza ci riporta ai viaggi avventurosi di epoche ormai remote e date già per estinte.
Sono dodicimila i chilometri di rotaie, due i continenti da attraversare, sette i confini nazionali da superare, un numero svariato di sistemi di voltaggio e di segnaletiche differenti e anche tratti non elettrificati da percorrere con l’ausilio di puzzolenti locomotive a gasolio. Il tempo di percorrenza dei lunghissimi treni merci carichi di container varia - salvo imprevisti - dagli 11 ai 12 giorni.
Quella che potrebbe apparire come una romantica riscoperta della lentezza, rappresenta in realtà una velocità supersonica se paragonata a quella delle grandi navi container che per la stessa distanza necessitano più del doppio del tempo. «Il trasporto via terra – spiega l’amministratore delegato di Duisport, Erich Staake – si adatta in modo particolare per merci pregiate o delicate e per prodotti di consumo di piccole dimensioni come giocattoli, decorazioni e la componentistica elettronica». Nel viaggio di ritorno i treni merci caricano poi prodotti europei, dagli alimentari ai prodotti tessili, dalla moda all’arredamento e al design.
Da quando nel 2014 il presidente cinese Xi Jinping ha visitato il terminal, il numero delle imprese logistiche cinesi che hanno aperto una propria rappresentanza nella città renana è aumentato di un terzo e Duisport si è trasformato nel principale snodo merci di prodotti provenienti dalla Cina su rotaia. Duisburg è così diventata una sorta di cordone ombelicale tra le economie del vecchio continente e i nuovi mercati dell’Asia.
Nel terminal cittadino i container vengono trasferiti dai treni merci alle navi fluviali o ai camion e poi smistati verso tutte le altre destinazioni dell’Europa centro-settentrionale. Le merci destinate all’Europa meridionale e ai Paesi del bacino mediterraneo vengono smistate principalmente dal terminal container nel porto del Pireo controllato dalla multinazionale logistica cinese Cosco. Ma i piani di Pechino per lo sviluppo di una rete ferroviaria merci più veloce e capillare sono ambiziosi. Con la realizzazione di un nuovo collegamento fra Budapest e Belgrado il trasferimento delle merci dalle navi container ai treni e viceversa sarà più rapido ed efficiente e Duisburg resterà comunque il cuore di questa nuova via della seta su rotaia.

il manifesto 11.1.18
Sui voti nel registro elettronico
I bambini ci parlano. La rubrica settimanale a cura di Giuseppe Caliceti
di Giuseppe Caliceti


Da quale giorno, per la prima volta da quando venite a scuola qui alla scuola primaria, i vostri genitori possono vedere da casa, sul tablet, il computer o il telefonino, i voti che avete preso a scuola. Si dice che hanno accesso a parte del registro elettronico di noi insegnanti. I vostri genitori vanno a vedere i voti? I vostri genitori vi dicono qualcosa? A loro piace questa cosa qui?
«A mia madre e mio padre la cosa dei voti del registro elettronico piace molto, infatti vanno sempre a vedere i voti». «Mio papà non ci va mai». «Neanche mia mamma e mio papà ci vanno a vedere». «Mia madre sì. Tutti i giorni. Uffa!». «Anche i miei genitori ci vanno. Sanno sempre tutti i voti che ho preso prima che glielo dico io. Prima ancora di vedere il mio diario». «A mia mamma piace molto vedere i voti miei sul registro elettronico». «Anche i miei genitori ci vanno tutti i giorni e poi mi chiedono come è andata a scuola ma tanto… Tanto io lo so che loro dopo vanno a controllare il registro elettronico per vedere i voti. Per me i voti, se ci sono già sul registro elettronico, potrebbero anche non essere scritta sul diario». «Mio papà guarda tutte le mie materie». «Anche mia mamma. Anche io. Li guardiamo insieme. Poi facciamo dei confronti con degli altri voti di miei amici e mie amiche. Sul computer non si possono vedere. Ma poi c’è anche il gruppo di what’s app della classe dove le mamme si parlano e si dicono tutto e insomma…».
Ma a voi piace questa cosa del registro elettronico? O no?
«A me sì perché è molto tecnologica e poi a me piace andare con mia mamma a vedere i voti sul tablet perché poi prendo sempre dei voti abbastanza belli». «Per me dipende se prendi dei voti belli o no». «A me non piace perché con il registro elettronico io non posso dire niente a mia mamma e a mio papà perché gli dice sempre tutto il maestro o la maestra con il computer». «È vero. Perché sanno già i voti». «Ma poi a scuola non si fanno mica solo i voti, eh? Si giuoca, si fanno delle cose… Invece dopo, col registro elettronico, mio padre sembra che a scuola io ci vado solo per prendere dei bei voti e invece… Cioè, io vado per prendere dei bei voti, non dei voti brutti, è naturale… Ma io ci vado soprattutto per incontrare i miei amici e le mie amiche. Perché senza i miei amici la scuola sarebbe più brutta. E queste cose non ci sono scritte sul computer elettronico e sul registro elettronico e insomma, a me il registro elettronico non piace». «A me non piace che i miei genitori sanno sempre tutto quello che facciamo a scuola prima ancora che io arrivo a casa e glielo dico. Sanno già se ho preso un bel voto o un brutto voto e insomma, non sono neppure tornato da scuola e entrato in casa e loro sanno già tutto e questo non è giusto. Non c’è più gusto a dire che ho preso un bel voto. Non puoi fare scherzi. Non puoi avere dei segreti. È sempre tutto vero e anche noioso». «Per me è la stessa cosa perché tanto i miei genitori non guardano mai i miei voti sul computer». «Mia mamma ha detto che adesso che c’è il registro elettronico lei, forse, vorrebbe non venire più a parlare con i maestri e le maestre perché guarda già i voti miei sul computer. Ha detto che se i voti sono belli, non viene più a parlare a scuola con i maestri. Se invece i miei voti sono brutti, dopo viene». «Io adesso che c’è il registro sul computer, che i miei fratelli e sorelle e genitori lo vedono sempre o quasi sempre, devo cercare di studiare di più per prendere dei voti migliori perché altrimenti, poi, mi prendono anche in giro, se prendo dei voti bassi». «A me la scuola piace, ma i voti non mi piacciono. Non mi sono mai piaciuti. Perciò non mi piace neanche il registro elettronico perché lì dentro ci sono scritti tutti i voti».

La Stampa 11.1.18
Da Gladio alle Br
Mastelloni indaga nei misteri d’Italia
di Francesco Grignetti


Per comprendere, bisogna conoscere. Una regola che vale in generale, ma ancor di più per questioni apparentemente inestricabili quali i misteri d’Italia. Prendiamo ad esempio il terrorismo brigatista: fiumi di inchiostro si sono sprecati per dimostrare che Mario Moretti, il capo delle Brigate rosse che interrogò Aldo Moro, era un agente al soldo di chissà quale servizio segreto. Alla base di tanta dietrologia ci sono le illazioni di Alberto Franceschini, suo predecessore alla guida delle Br. Chi mai sapeva, però, che la rottura tra i due scattò per una questione di cuore? Ce lo racconta ora il giudice Carlo Mastelloni, una lunghissima carriera a indagare sui misteri d’Italia, nel suo nuovo libro Cuore di Stato. Storie inedite delle Br, i servizi di sicurezza, i protocolli internazionali (Mondadori, pp. 281, € 20).
A dividere i due terroristi non fu la politica, ma il fascino di Mara Cagol. Donna eccezionale per capacità organizzative e militari, figura carismatica, vera fondatrice delle Brigate rosse, era la compagna di vita e di avventure di Renato Curcio. Fu quasi fatale che Alberto Franceschini se ne innamorasse. Ma il suo restò un amore inespresso. «Vittima della sua rigida impostazione ideologica», scrive Mastelloni, «che gli impedì di insidiare la moglie del suo più stretto compagno».
Moretti invece non aveva gli stessi scrupoli e intrecciò un flirt con Mara. Di qui l’odio. E poi, a seguire, la rottura con i capi storici, convintisi che Moretti nel 1974 li avesse traditi e abbandonati al loro destino. Sospettarono che ci fosse il suo zampino anche nell’arresto di Giorgio Semeria, nel 1976, quand’era in procinto di diventare il nuovo capo delle Br. La rottura, insomma, ci fu. Ma era innanzitutto umana.
Parla di mille cose, il libro di Mastelloni. E per forza. Si tratta del magistrato che più di tutti ha indagato sui rapporti degli italiani con Israele e con l’Olp, incappando nel famoso Lodo Moro. Lui ha intuito l’esistenza di Gladio, scandagliato le trame del Superclan a Parigi, scoperto i traffici di armi tra Brigate rosse e palestinesi. Mastelloni s’è visto scippare tante inchieste con l’apposizione del segreto di Stato. Ben al di là degli atti giudiziari, però, il suo libro è una preziosa miniera di dettagli, rivelazioni, dialoghi, incontri, chiacchiere fuori verbale, che ci restituiscono carne e sangue, passioni e anche miserie dei protagonisti di quelle torbide vicende.

il manifesto 11.1.18
Amore a prima vista
di Sarantis Thanopulos


Secondo una ricerca del dipartimento di Psicologia dell’Università di Groningen in Olanda, l’amore «a prima vista» è un’illusione, una confabulazione. A essere più precisi: una proiezione di sentimenti correnti nel passato.
Il campo dell’illusione è minato per chi avanza nel campo dei sentimenti come un elefante in una cristalleria. Spesso è terreno di conquista di predatori falsari, pronti a costruire qualsiasi cosa che possa dare l’illusione del vero o, più efficacemente, di sostituirlo, togliendo di mezzo le complicazioni e le contraddizioni di cui la verità è foriera.
L’inganno ha il suo punto di forza “commerciale” nella domanda di autoinganno, che, tuttavia esiste indipendentemente dalla contraffazione ed è, nella sua essenza, richiesta di consolazione. Non esiste forma di illusione che non contenga una componente consolatoria: che una cosa bella si mantenga tale contro il tempo e le forze avverse, che una cosa brutta resti lontana anche se è incombente, che ciò che si anela fortemente oggi possa essere disponibile, chissà per quale magia, domani.
Le istanze consolatorie non sono necessariamente nemiche del lutto, della fondamentale esperienza di mancanza che ci dischiude alla vita e ai suoi imprevisti, guidandoci con l’intimo presentimento di un incontro rinnovato con l’oggetto di desiderio di cui solo essa è capace. Un investimento consolatorio dell’oggetto perduto, l’illusione di trattenerlo in qualche modo presente nella nostra vita nonostante tutto o, nella direzione opposta, di rivederlo apparire in forma nuova prima che questo sia veramente possibile, rende il dolore della mancanza più sopportabile e elaborabile nella direzione di un ritrovamento reale.
Quando la consolazione non diventa anestesia psichica, che dilaziona all’infinito l’incontro con ciò che si desidera, sostituendosi al lutto, piuttosto che supportarlo, lo spazio dell’illusione si amplifica, diventa il luogo in cui il vero può essere vissuto. Non nelle forme concrete, inconfutabili, in cui siamo soliti cercarlo (e le quali puntualmente lo tradiscono) ma nelle modalità che gli sono proprie: l’intuizione, la sorpresa, la meraviglia, il gusto della vita, il «non so che» di un sapere che è esperienza.
Questo sapere ci interroga, non è interrogato, ci rivela a noi stessi e agli altri, non è rivelato. Non disdegna la conoscenza logica con cui intrattiene un rapporto di tensione reciprocamente necessaria, ma ne decostruisce la vocazione colonizzante, che può diventare autoritaria, e le conferisce sfumature e profondità che da sola non potrebbe mai ottenere. Dal canto suo usufruisce della logica, che rende chiare le contraddizioni sulle quali non vuole sbattere, ma non cerca di risolverle in un modo o un altro. Ne sfrutta le potenzialità per ampliare il proprio spazio e affinare la propria sensibilità di modo che nel suo definirsi non si chiuda mai in sé, ma si ridefinisca sempre.
L’amore «a prima vista», fa parte del «non so che», dell’illusione che, sospendendo l’accadere delle cose, è afferrata dalla loro verità, ostile al già chiuso e al concreto, e, al tempo stesso, l’afferra. Non è della materia dell’inganno né della consolazione e neppure una proiezione di sentimenti correnti nel passato. È una rielaborazione onirica dell’esperienza che recupera ciò che del passato resta aperto al futuro, una potenzialità ancora in divenire, l’esposizione amorosa come sarebbe potuta o potrà ancora accadere, pure se è già accaduta e perfino se mai lo è stata concretamente. Non è amore per questa o quest’altra cosa o persona, mette insieme oggetti di diverse prospettive, grazie anche al privilegio che assegna a uno di loro. Mantiene vivo lo sguardo dell’amore, non lo giustifica né lo spiega storicamente.

Il Fatto 11.1.18
Alternanza scuola lavoro, è richiesta la “bella presenza”
Il portale - Almeno quattro gli annunci sul sito ufficiale: cercansi studenti di aspetto piacevole. Vietati piercing e tatuaggi

di Lorenzo Giarelli 

Vuoi lavorare in pasticceria? Va bene, ma solo se hai una “bella presenza”. Ti piacerebbe un posto alla reception di qualche albergo? Serve un buon inglese, certo, ma anche qui non si scappa: “Richiesta bella presenza”. Sempre più commercianti impongono queste clausole nei loro annunci, ma alcune di queste offerte di lavoro compaiono anche sul portale online dedicato all’alternanza scuola-lavoro, il programma inserito nella riforma della Buona Scuola renziana che rende obbligatorio per gli studenti un periodo di apprendistato in aziende o associazioni negli ultimi tre anni di superiori.
Sul sito dedicato all’alternanza – che ha i loghi di ministero dell’Istruzione, del Lavoro e di quello per lo Sviluppo economico e i simboli delle Camere di Commercio, UnionCamere e InfoCamere – ogni studente può scoprire quali imprese mettono a disposizione posti sul territorio, consultando nel dettaglio le offerte. Tra queste, una storica pasticceria di Gorle, a due passi da Bergamo, mette a disposizione due posti per l’alternanza, ma chiarisce, in maiuscolo: “Richiesta bella presenza, serietà, impegno”. Annuncio che, protesta il proprietario, non rispecchia la filosofia del locale e sarebbe frutto di un malinteso con il ministero, ma che resta lì da mesi senza che nessuno intervenga. Un albergo a Terranuova Bracciolini, in provincia di Arezzo, offre ai ragazzi due posti per 90 giorni come receptionist, purché il candidato dimostri “propensione all’accoglienza, pulizia, bella presenza”, qualità che nell’annuncio vengono richieste ancor prima della “comprensione della lingue inglese”. L’hotel di Terranuova è in buona compagnia: altre attività di alloggio interpretano allo stesso modo l’alternanza. Un albergo a 4 stelle di Gais, ottanta chilometri sopra Bolzano, aveva pubblicato un annuncio per trovare un addetto alla reception per i mesi estivi dell’anno scorso. Oltre alla “buona conoscenza linguistica” di tedesco e italiano, neanche a dirlo, nell’annuncio, ancora disponibile sul portale, spicca l’aggiunta: “Richiesta bella presenza”. Criteri simili a quelli richiesti da una struttura di Rignano sull’Arno (Firenze), che affitta camere sia in modalità alberghiera sia per feste ed eventi privati. Fino allo scorso ottobre per gli studenti erano ben dieci le posizioni aperte nell’accoglienza del cliente, alle solite condizioni: “Maschio, femmina, bella presenza, pulizia e igiene personale”. Requisito primario, messo in chiaro prima delle lingue e del dress code, e prima anche di curiose limitazioni a “piercing e tatuaggi”. D’altra parte, come specifica lo stesso annuncio, “dal comportamento di questa figura professionale derivano le recensioni positive o negative che il turista lascerà sui portali”. Niente sgarri, quindi, soprattutto sull’aspetto fisico.
Meno di un mese fa il ministero del Lavoro si era dovuto scusare per un caso simile e aveva dovuto rimuovere un annuncio dal portale di Garanzia Giovani perché un’azienda specificava di essere alla ricerca di “un’impiegata di bella presenza”. La polemica scaturita sui social, all’epoca, sembrava aver messo in guardia il governo rispetto alle offerte pubblicate dalle aziende sui propri portali, ma evidentemente gli staff dei ministeri continuano a non vigilare abbastanza.

Il Fatto 11.1.18
“Il fascismo è eterno: ecco come lo si può riconoscere”
Non pensiero ma azione
Esce oggi per La Nave di Teseo “Il fascismo eterno”, la lectio inedita pronunciata da Umberto Eco alla Columbia University il 25 aprile 1995. Ne pubblichiamo uno stralcio.
di Umberto Eco


Il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. […] Ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’“Ur-Fascismo”, o il “fascismo eterno”. che non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.
1. […] Il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. […] tollerare le contraddizioni. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volte per tutte […] È sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatore tradizionalisti. […]
2. Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. […] Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue” e la “terra” (Blut und Boden). […] L’illuminismo, l’età della ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo può venire definito come “irrazionalismo”.
3. L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell’azione per l’azione. […] Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. […]
4. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento.
5. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. […] è dunque razzista per definizione.
6. L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni.
7. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’origine del “nazionalismo”. Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. […]
8. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. […]
9. Per l’Ur-Fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto “vita per la lotta”. Il pacifismo è allora collusione col nemico[…].
10. L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un “elitismo popolare”. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”. […]
L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo.

Il Fatto 11.1.18
“Catherine sbaglia, è il ricatto che deve esser denunciato”
di Camilla Tagliabue


Catherine Deneuve unisce le sponde dell’Atlantico (e un bel pezzo d’Europa) dopo le sue parole su “lasciamo agli uomini la libertà di importunarci, fondamentale per la libertà sessuale” e i distinguo sulle reazioni allo scandalo Weinstein. Così, mentre il fondatore della Miramax prima venerato dalle donne del mondo dello spettacolo continua ad esser additato a mostro (vedi lo speech di Oprah Winfrey ai Golden Globe) tanto da esser malmenato nel ristornate nel quale stava cenando insieme al coach che lo segue nel percorso di disintossicazione dall’ossessione sessuale, l’attrice italiana Asia Argento che è assurta a paladina delle molestate dopo le accuse contro il tentacolare produttore newyorchese ha risposto all’attrice francese sostenendo che “la Deneuve e le altre donne francesi dicono al mondo come la loro misoginia interiorizzata le abbia lobotomizzate sino al punto di non ritorno”. Anche la sottosegretaria all’Egalité entre les femmes et les hommes  (ovvero alle pari opportunità) Marlène Schiappa ha definito scioccante il testo firmato dalla Deneuve e da altre signore degli spettacoli e della cultura francese. E la presidente della Camera Boldrini si è addirittura detta “esterrefatta”.
Dacia Maraini ha da poco festeggiato il traguardo del milione di copie vendute de La lunga vita di Marianna Ucrìa (Rizzoli), la cui giovane protagonista “reagisce alla violenza (maschile) col mutismo”. Tutto il contrario, insomma, del chiacchieratissimo scandalo sessuale a Hollywood e dintorni, con coro di donne indignate, e vestite a lutto contro abusi e molestie.
Per lei c’è una vera contrapposizione tra il movimento #MeToo e la contro-lettera di Catherine Deneuve (e altre)? Se sì, da che parte sta?
Credo ci sia un equivoco (nella lettera, ndr) perché una cosa è il corteggiamento, un’altra il ricatto. Se non si distingue è un problema serio: nessuno è contro il corteggiamento. Giustamente, siccome lei (la Deneuve, ndr) ha parlato di “mano sul ginocchio”, qualcuno le ha fatto notare che nessuno è mai stato accusato per aver messo una mano sul ginocchio di una donna. Non è questo il punto; la molestia scatta quando si dice: “Tu avrai questa parte o farai questo film se vieni a letto con me”. Questo non c’entra niente col corteggiamento. Che corteggiamento è? Questo è ricatto.
Quindi #MeToo denuncia solo i ricatti…
Sì, tutto quel movimento di Hollywood è nato per questo, perché nel mondo dello spettacolo – e non solo – è venuta a galla una prassi consolidata: molti uomini approfittavano del proprio potere per avere scambi sessuali con donne. Tutto lì: quello che è stato denunciato è il ricatto. Nessuno ha mai detto che il corteggiamento non si debba fare: non è questa la questione, altrimenti si fa di tutta l’erba un fascio. Bisogna distinguere e chiarire.
Non crede però che la protesta, più che legittima, stia degenerando in una generica caccia alle streghe?
È normale: in tutte le proteste c’è qualcuno che approfitta della situazione, si fa gli affari propri e lancia accuse ingiustamente. Succede sempre, ma non è una buona ragione per non protestare. Esisterà sempre qualcuno che ne approfitta, ma non vuol dire nulla. Bisogna invece aver fiducia in quelle giovani artiste, registe, attrici che hanno denunciato questa prassi comune delle molestie. Io credo a loro, non credo che sia un problema della mano sul ginocchio o di una pacca sul sedere. Il ricatto è una cosa molto più grave, e riguarda chi ha il potere di decidere del futuro e della carriera di una donna e ne approfitta per ricevere favori sessuali.
Quindi, ben venga il cancan mediatico…
Certo, così gli uomini staranno più attenti. È necessario che lo siano. Poi, certamente, ci sarà sempre qualche donna che ne approfitta: le donne non sono tutte angeli. Però, ripeto, questa non è una buona ragione per negare una realtà vergognosa.

La Stampa 11.1.18
Ha ragione la Deneuve lasciamoci corteggiare
Meno male che finalmente qualcuna l’ha detto. Se poi a dirlo è l’intramontabile (anzi no: tramontiamo tutte, in un modo o nell’altro) Catherine Deneuve con il suo fascino parigino, tanto meglio.
«Difendiamo la libertà di importunare» è il titolo della lettera aperta firmata da lei e da altre cinque donne, pubblicata su «Le Monde». Libertà di importunare ed essere importunate.
di Elena Loewenthal


Meno male che finalmente qualcuna di noi alza la voce e dice le cose come stanno per milioni di donne. Perché, detto fra noi, si era tutte un po’ stufe di queste storie di molestie, soprusi, assalti, tentativi più o meno riusciti di abbattere le difese di quella tenace e (quasi) inviolabile rocca che è il corpo femminile. Si era tutte un po’ perplesse dall’esposizione collettiva di «è capitato pure a me e lo sputo fuori». Senza, beninteso, nulla togliere a chi la violenza sessuale l’ha subita sul serio e merita rispetto ma prima ancora sentimenti caldi e delicati.
Ma, diciamocelo francamente, fra il provarci (anche con modi non propriamente da casa reale) e il molestare lo sappiamo tutte che corre una bella distanza, anche se il confine fra le due cose è assai sottile e per distinguerlo non di rado ci vogliono un pizzico di intuito (ma gender o non gender, il sesso debole ne ha a sufficienza) e una dose più o meno analoga di sana malizia.
Perché noi donne normali (per intenderci, diverse da Catherine Deneuve) e soprattutto noi donne normali sopra una certa età, che a tirare le somme fra una categoria e l’altra siamo la schiacciante maggioranza, eravamo stufe e pure stizzite, per non dire persino un poco invidiose, al sentire queste confessioni. Perché noi donne normali e sopra una certa soglia comunque piuttosto bassa di età non è che ci assaltano sessualmente tutti i momenti, non è che siamo assediate dalla libidine maschile.
Del resto, anche se non veniamo (più) sessualmente molestate ad ogni piè sospinto (benché di solito sia di mani che si tratta), ancora sappiamo e/o ci ricordiamo che il gioco fra uomo e donna è fatto sostanzialmente di questo, di dinamica fra domanda (ci stai?) e offerta (sì/no/forse/dopo). E che in questa dinamica si attesta una gamma quasi infinita e certamente inesauribile di sfumature che spaziano dal mazzo di rose alla palpata dritta alle parti intime. Senza esclusione di colpi perché da che mondo è mondo l’unica regola in vigore dovrebbe essere la fantasia anche se non di rado lui pecca di pigrizia e si adagia sui soliti, vecchi rituali, magari un poco sbrigativi. Perché per l’appunto, da che mondo è mondo le donne sono più creative mentre l’uomo bada, per l’appunto, al sodo.
Ma tutto questo, nella gran maggioranza dei casi e delle occasioni, non è violenza. Come dice quella che ormai è diventata l’icona di noi donne normali e/o sopra una certa età: «Lo stupro è un crimine, ma il corteggiamento insistente o maldestro non è un delitto, né la galanteria un’aggressione maschilista». Per di più, questa epidemia di denunce mediatiche che la nostra icona non esita a definire «puritanesimo» riporta le donne al vetusto status di eterne vittime. Quando anche nei casi più «delicati» basterebbe non di rado una ginocchiata ben assestata nei punti più «delicati», per risolvere la faccenda.
Ma tutto è bene quel che finisce bene, e da oggi noi donne normali e/o sopra una certa età possiamo dire a gran voce: «Je suis Catherine Deneuve».

Repubblica 11.1.18
Divise sulle molestie
Il duello delle donne francesi
di Anais Ginori


Il femminismo delle borghesi, scriveva già Simone de Beauvoir, non può essere quello delle operaie.
La battaglia per la «libertà di importunare le donne», lanciata da Catherine Deneuve e altre intellettuali che hanno firmato l’appello su Le Monde, appartiene a una ristretta cerchia sociale. L’attrice non è nuova alle lotte femministe, ha sottoscritto con coraggio Le Manifeste des 343 Salopes nel quale una serie di donne famose confessavano di aver abortito, quattro anni prima che l’interruzione di gravidanza venisse legalizzata.
E ora si unisce al coro che vede nello scandalo Weinstein il rischio di trasformare gli uomini in «porci» da svergognare, di incatenare le donne «all’eterna categoria delle vittime», e di diminuire, anziché rafforzare, l’emancipazione.
Un contro-appello circola da ieri online, lanciato dalla femminista Caroline De Haas, con la promessa di andare avanti nella battaglia contro molestie e abusi di potere, titolo: “I porci e le loro alleate fanno bene a preoccuparsi”. Le divergenze tra femministe, minime quando si parla di disparità economiche e professionali, diventano enormi sulle libertà individuali, l’autodeterminazione.
Come in altre occasioni, lo scandalo Weinstein ha provocato opposti schieramenti. Già nel 1992, la filosofa Elisabeth Badinter pubblicava un pamphlet, “La strada degli errori”, contro il femminismo «vittimista» importato dagli Stati Uniti. All’epoca il dibattito era provocato dalla prima legge per punire le molestie sui posti di lavoro. La contrapposizione si è riproposta diverse volte, l’ultima due anni fa, quando il governo socialista ha fatto approvare la legge per punire i clienti delle prostitute. Badinter, insieme a Deneuve e altre intellettuali, difendevano la libertà di disporre del proprio corpo. Altre femministe si opponevano a ogni forma di sottomissione, anche volontaria.
Ogni rivoluzione ha i suoi eccessi, ed è doveroso vigilare, allertare su possibili derive. Eppure i timori espressi da Deneuve e dalle altre esponenti dell’élite parigina appaiono un lusso un po’ snob per chi è stata abituata a subire battute, aggressioni, discriminazioni e nelle ultime settimane ha finalmente visto rompersi il muro dell’indifferenza. Una giovane studentessa che viaggia nella calca della metropolitana non vorrà derubricare una pacca sul sedere a «espressione della miseria sessuale» o «non evento», come dicono frettolosamente le promotrici dell’appello, con il rischio invece di colpevolizzare chi denuncia le molestie. E dove finisce la «libertà di importunare», di cui parlano le firmatarie? Dire che la manager di successo può giocare nella sua camera da letto a fare la «schiava sessuale», altro esempio del testo sottoscritto da Deneuve, non significa eludere un dibattito sui modelli femminili tramandati da decenni, che possono condizionare nell’intimità e impedire ancora oggi di indagare ed esprimere i propri desideri. Una cassiera di supermercato non sarà forse mai così serena come la scrittrice libertina Catherine Millet, altra firmataria dell’appello, davanti alle drague maladroite, il corteggiamento maldestro del suo capo reparto.
Ma il disgusto e la reazione contro la licenza di importunare per fortuna sembrano non conoscere più le antiche distinzioni di classe sociale. Come dimostrano il caso Weinstein e le denunce delle attrici americane, che certo non sono delle proletarie.

Corriere 11.1.18
Noi e le donne
I no che i maschi dovrebbero iniziare a dirsi
di Pierluigi Battista


Ma allora, a chi dobbiamo dar retta, noi esseri umani di genere maschile, insomma maschi? Stare dalla parte delle star che hanno sfilato in nero sul red carpet della gloria al Golden Globe 2018 oppure con le tre Catherine — Deneuve, Millet, Robbe-Grillet — che invece denunciano il clima da caccia alle streghe, il nuovo puritanesimo, l’attacco alla libertà sessuale che si celerebbe dietro la campagna del #MeToo ?
C o sa fare, come comportarsi, fin dove è lecito spingersi? Adeguarsi, sì va bene. Ma se stessimo esagerando, dicono tanti di noi? E se si salda pericolosamente in un’unica catena la predazione ricattatoria di Weinstein, e poi la molestia, e poi il tentativo di un bacio e di un abbraccio spinto, e poi l’insistenza nel corteggiamento, e poi la seduzione audace e poi il corteggiamento stesso, e poi la timida avance, insomma il «provarci» che è l’antefatto stesso di una relazione? E poi, «provarci», esattamente cosa significa, qual è il limite? E poi, dobbiamo rassegnarci davvero a una infinita, straziante, snervante guerra tra i sessi?
Da qualche mese a questa parte i maschi sono frastornati. Lo sono sempre, ma da qualche mese più del solito. Si sentono sotto attacco, addirittura. Più semplicemente, non sanno più bene, o fingono di non saperlo, qual è il confine, il limite, la soglia da non oltrepassare in una vita che mica è ingabbiata in uno schema lineare e asettico, è complicata, torbida, confusa, fangosa talvolta. Edoardo Albinati ha scritto che essere maschi «è una malattia incurabile». Ma almeno possiamo consolarci con qualche cura palliativa. Proviamo a soffocare il primitivo che è in noi, civilizziamoci. E soprattutto, proponiamo di delimitare il campo della discussione, di mettere un po’ di ordine, si circoscrivere il discorso. Articolandolo in tre capitoli.
La violenza sessuale
Primo capitolo, quello più tremendo: la violenza sessuale, lo stupro. Non facciamola troppo complessa: è, inequivocabilmente, stupro la costrizione a un rapporto sessuale che non potrebbe aver luogo se si rispettasse la volontà della donna che lo subisce. Possiamo renderla più mossa e articolata, ma la violenza sessuale è riconoscibile, netta, chiara. Noi maschi dovremmo tracciare una linea di demarcazione invalicabile con chi commette uno stupro, allontanare i giustificazionisti dall’area della rispettabilità: non sono eccentrici politicamente scorretti, sono dei cialtroni. Chi dice o pensa «se l’è cercata» incarna lo stereotipo dell’imbecille, dice una cosa falsa. Recentemente qualcuno ha avuto l’ottima idea di mettere in mostra i vestiti indossati dalle donne al momento della violenza sessuale: la stragrande maggioranza erano vestiti normalissimi, dimostrando ancora una volta l’assoluta inconsistenza dello pseudo-argomento «se la sono cercata». E se anche fosse, anche chi se ne va vestita in modo cosiddetto «provocante» cerca di apparire bella, desiderabile, seducente, attraente, esercita semplicemente un diritto inalienabile nelle società moderne. Chi sostiene il contrario e nega questo diritto è un imbecille. È troppo dirlo? No, se l’è cercata.
La zona grigia
Secondo capitolo, quello più scivoloso: la zona grigia, che poi è quella che attira il maggior numero di maschi, e che non sono nemmeno potenti produttori di Hollywood. Qui i confini, esclusa la violenza come da capitolo uno, sono davvero poco chiari. O forse no: diciamocelo noi maschi, ce la cantiamo, perché lo sappiamo benissimo, lo sappiamo per intuito, sensazione, esperienza, dove sta il confine. E il confine è il consenso. Tutto è più difficile nelle relazioni dove non entra lo squilibrio gerarchico, il rapporto di potere crudo e brutale, nei piccoli uffici, nei negozi, nelle cliniche, negli studi professionali, in tutto il mondo che non ha i riflettori addosso. Tutto diventa più macchiato e sconnesso, c’entrano passioni, ambivalenze, attrazioni, il fascino, la trasgressione, il desiderio senza nome, persino la sfera del dominio e della sottomissione. E qui si capisce l’appello delle tre Catherine: non riduciamo la vita a un freddo decalogo, questo sì, questo no, questo si dice, questo non si dice. Ma si capisce anche che noi maschi facciamo finta di non capire quando il no è no. E se insistiamo, non è perché siamo presi da impulsi sessuali veementi e incontrollabili, ma semplicemente perché mal sopportiamo l’umiliazione del rifiuto. «Ma come, osa resistere al mio fascino?», «Dice no ma in realtà è un sì» e via consolandoci con questa rappresentazione grottesca e auto-millantatrice, se così si può dire, di noi stessi. Questo capitolo si può tenere fuori dalla discussione? La zona grigia può restare grigia, ma il punto del consenso è quello fondamentale. Spingersi oltre, forzando la resistenza altrui, non è un eccitante gioco di ruolo, è una carognata. Tanto lo sappiamo dove si situa quell’«oltre».
L’abuso di potere
Terzo capitolo, il vero punto dolente, quello che è e deve restare il vero oggetto della disputa: l’abuso di potere. Il ricatto per cui o ti adegui alle mie condizioni oppure perdi il lavoro è una roba che noi maschi dovremmo considerare con aperta ripugnanza. Si è sempre fatto? Basta, non si fa più. Il produttore o il regista che scarta la giovane attrice perché non ha ceduto fa schifo, punto. O il luminare medico che fa cacciare la giovane infermiera precaria. O il super capoufficio che estorce un disgustato sì alla sua segretaria. O il direttore di un supermercato con la cassiera con contratto a tempo determinato. Ci sono momenti della storia in cui quello che appariva normale un minuto prima, un minuto dopo appare come una porcheria. Il momento attuale è uno di questi e non credo che ne venga messa a rischio la nostra virilità o la libertà sessuale di tutte e di tutti. Fare i minimizzatori su questo punto è sbagliato. Poi, certo, c’è anche, in qualche caso, il fascino del potere. Poi ci sono quelle che si sono adeguate. Ma tra i diritti fondamentali c’è anche quello di non essere eroiche, di temere le conseguenze, di non saper o di non voler prendere a ceffoni il predatore. Questo diritto è incoercibile. E capirlo è indispensabile, meglio tardi che mai.

Il Fatto 11.1.18
“Solo la letteratura tiene viva la memoria della Shoah”
Lia Levi. Esce oggi “Questa sera è già domani”
“La politica italiana ha sempre minimizzato le leggi razziali”
di Silvia D’Onghia


La politica fatta di slogan, di frasi fatte, non porta da nessuna parte. Per coltivare la memoria, ci rimane soltanto la letteratura”. Lia Levi sa bene che i pericoli delle nuove destre sono in agguato e conosce altrettanto bene l’importanza di continuare a raccontare l’orrore che le leggi razziali e la Shoah hanno rappresentato. Esce oggi per e/o il suo nuovo romanzo, Questa sera è già domani, la storia di un ragazzo (genietto a scuola) e dell’eterno dilemma tra restare e nascondersi o scappare per mettersi al sicuro.
Signora Levi, è un romanzo ispirato alla storia di suo marito, Luciano Tas. Un omaggio o un racconto che serve da esempio?
Nessuno dei due: i libri nascono dentro, senza un intento preciso. Il fattore ponte viene dopo, a volte l’autore non lo sa neanche. Mio marito raccontava la sua storia in casa, a episodi, oppure la scriveva su un libretto di appunti, ma dal punto di vista di un saggista, con piglio ironico e divulgativo. Gli episodi che narrava mi hanno sempre stimolato. Una volta gli ho chiesto: ‘Perché non la scrivi?’. Lui non era un romanziere, così quando gli ho proposto di farlo io, lui ha risposto: ‘Magari!’. Ho la coscienza di non aver rubato nulla.
Esiste invece una risposta al dilemma che, ancora una volta, trapela dai suoi libri?
Le cito Shakespeare: ‘La paura cieca guidata dalla ragione chiaroveggente muove passi più sicuri della ragione cieca che inciampa senza la paura’. Non esiste né politica né etica, esiste il sentire i tempi, senza cullarsi nell’ottimismo.
I fascisti stanno tornando?
Bisogna distinguere. I gruppi violenti e malavitosi, quelli che aggrediscono gli stranieri o i barboni, sono la rappresentazione di strati sociali fuori da qualsiasi tipo di cultura e di civiltà. Recentemente ho riletto il Manifesto degli scienziati razzisti, che elogiavano la parola ‘razza’. Oggi invece, anche tra questi nuovi governi di destra, nessuno dice di essere razzista.
Forse perché sarebbe politicamente scorretto?
Quando sei uno Stato in cui ha vinto la destra estrema non te ne importa nulla, anzi.
Lei va spesso nelle scuole a parlare con i ragazzi. Come reagiscono di fronte al racconto del nazifascismo?
Vengo chiamata da professori che sono sensibili al problema. I miei incontri sono positivi, perché c’è stata una preparazione. Alle superiori spesso usano la tecnologia per realizzare nuovi materiali su quel periodo.
A proposito di nuove tecnologie, lei è sui social?
Facebook mi fa orrore, è tutto finto: ti chiedo l’amicizia, ma quella non è amicizia. C’è una dilatazione dell’ego che si estende in larghezza e non in profondità.
Qual è – se c’è ancora – il ruolo della cultura nel raccontare la Shoah?
C’è rimasta solo la cultura. Con la scomparsa degli ultimi testimoni, è l’elaborazione creativa a restare viva. Una cosa è il ricordo, un’altra è la memoria, che è elaborazione del ricordo. I fatti hanno bisogno di essere metabolizzati ed è lunga, ci si perde in vari strati. La coscienza è stratificazione. In più la realtà per manifestarsi ha bisogno dell’immaginazione, altrimenti rimane un fatto raccontato. La letteratura universalizza questi fatti.
E la politica?
L’Italia non ha mai preso davvero coscienza delle leggi razziali. Alcuni articoli erano più duri di quelli del nazismo, per esempio quelli sulla scuola. Nelle città piccole, dove non c’erano le scuole ebraiche, è stato perso il diritto allo studio. La proibizione del lavoro ha contribuito allo sterminio, perché si moriva di fame. Le leggi razziali hanno contribuito allo sterminio. Ma tutto questo è stato annullato dalla nostra memoria. Forse oggi, a 80 anni dalla loro promulgazione, è giunto il tempo per una riflessione più ampia.
Quali sono, nel 2018, i nuovi scampati?
Le popolazioni in fuga da cose terribili, con destini di accoglienza diversi. L’Italia sul piano del salvataggio è unica. E anche su quello dell’accoglienza, le nostre condizioni saranno sempre meno terribili della Libia. Però dico una cosa: Roma antica prendeva tutti, ma tutti si dovevano identificare con i valori romani. Se noi pensiamo che per accogliere qualcuno dobbiamo fare tappetino dei nostri valori, allora no.

Repubblica 11.1.18
Elogio della follia l’esperienza che ci porta a contatto con il sacro
di Moreno Montanari


Vera e propria critica della ragion burocratica, Cronache dal fondale, scritto dallo psichiatra di formazione junghiana Mario Ferruccio Franco (Moretti &Vitali, pagg. 146, euro 14) testimonia, con forza e grazia davvero rare, la possibilità di continuare “a fare anima” in strutture psichiatriche pubbliche, nelle quali l’attenzione a protocolli procedurali rischia di prendere il sopravvento sulla visione d’insieme e di far dimenticare la vera ragione per la quale ci si trova lì. Sedotti dalla presunzione di poter catalogare ogni forma di disagio psichico riconducendola a impersonali formule generali, scrive l’autore, «abbiamo imparato a dare moltissime risposte, ma ci siamo dimenticati delle domande».
Cronache dal fondale nasce dal convincimento che andare a fondo in queste domande sia l’unico modo per non affondare.
Per farlo occorre però rimettere al centro la relazione e fare dell’incontro un’esperienza emotivamente significativa, caratterizzata da un dialogo in cui «non c’è una verità concreta da appurare», ma un’intuizione improvvisa che collega mente e cuore e pone le cose sotto una nuova luce.
Non sempre l’operazione riesce; a volte il dolore e il caos che abitano l’Altro sono, come gli dice un paziente, «grandi come l’impossibile». In questi casi il rischio è farsi sommergere da tanto dolore e colludere con la rassegnazione del paziente; ma chi ha scelto di vivere questa professione, pur accettando di condividere l’ombra, sceglie di stare dalla parte della luce, di cercare l’alba dentro l’imbrunire, per imparare, col tempo, ad apprendere, riconoscere ed apprezzare anche gli spostamenti millimetrici, senza voler forzare le cose a tutti i costi, accettando i propri limiti e rispettando i tempi e i modi dell’interlocutore e della sua malattia. Tutte capacità che, secondo Franco, difettano alla nostra società, paragonabile alla figura clinica del borderline, intollerante nei confronti di ogni minima frustrazione e dilatazione del godimento, perché teme il vuoto più di ogni altra cosa e cerca di riempirlo compulsivamente con tutto l’effimero consumistico e tecnologico. «La follia, il nostro vecchio oggetto di lavoro», commenta amaro, «non è diminuita, né tanto meno scomparsa, si è semplicemente istituzionalizzata. Si è ben annidata nelle pieghe più nascoste della nostra vita quotidiana, si è saldamente ancorata alla vita politica, dove da tempo si è ormai persa ogni nozione di verità, logica e misura». Allora la malattia può fare da medicina; all’autore, la sclerosi multipla che lo ha colpito alcuni anni fa ha insegnato a tenere concretamente conto della sua fragilità, avvicinandolo alle persone che si siedono davanti a lui tutti i giorni. È forse anche grazie alla malattia che nel libro si respira un’aria di vero. Un’aria che attraversa tutto il libro, insieme alla «passione, non solo per il lavoro ma per la vita comunque sia».
Un sentimento che emerge in tutta la sua forza sia dalle narrazione degli incontri con i pazienti, talvolta pieni di immagini poetiche, che dal ricordo dello scontro generazionale con il padre quando l’autore aveva l’età che ha oggi sua figlia. E ancora dalla sorpresa per attimi di «calma senza aggettivi», dal piacere solitario delle passeggiate attorno al Monastero di Camaldoli o dalla meraviglia di sentirsi «vivi insieme». Tutte esperienze animate da una ricerca, forse laica, di quel divino che abita la follia e che l’autore riesce a scorgere e a comunicare.