sabato 19 marzo 2011

l’Unità 19.3.11
Col cuore gonfio
di Concita De Gregorio


Da 66 anni a questa parte non siamo mai stati così vicini dall’essere l’Italia un paese in guerra. Manca un passo, per giunta non nostro. Dipenderà, nelle prossime ore, dalle decisioni dell’America, della Francia e dell’Inghilterra, soprattutto dipenderà dagli umori del colonnello Gheddafi ed è questa una certezza che non lascia spazio a molte speranze. Gheddafi è un folle, ha i missili e probabilmente le armi chimiche, sta sotto i nostri piedi, a cento chilometri dalle nostre coste, sull’altra sponda del nostro mare. “Ci aspettano decisioni difficili”, ha detto ieri il presidente Napolitano che sa bene di cosa parla, a differenza della stragrande maggioranza degli italiani di guerre il presidente ne ha già vissuta una. Tutti gli altri, tutti noi, tutti coloro che sono nati dopo gli anni ‘40 non hanno idea. Le guerre, le bombe, i missili, le nubi, i cadaveri ai lati delle strade li abbiamo visti in tv e al cinema in così grande quantità e frequenza, veri o fiction che fossero, da essere convinti di sapere cosa siano. Invece no, non abbiamo idea. Prepariamoci a decisioni difficili dunque, sì, e ad affrontare per quanto ne saremo capaci giorni all’altezza di quelle difficoltà.
Prepariamoci a discutere di nuovo di guerra giusta, speriamo prima di sentirne il sibilo. Non si possono lasciare soli gli eroi del “nuovo risorgimento del mondo arabo”, per usare le parole di Napolitano, certo che no. Non si possono celebrare i nostri ventenni di centocinquant’anni fa e ignorare i loro ventenni oggi.
Questi di cui ci raccontano Umberto de Giovannangeli e da Bengasi Gabriele Del Grande: “Ballano, corrono, cantano e sparano in aria. Sono i ragazzi della rivoluzione. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha appena approvato la risoluzione sulla no fly zone. In strada si sono riversate migliaia di automobili. I ragazzi cantano “Irfaa raskum anta libi”, alza la testa sei un libico. I miliziani di Gheddafi continuano indisturbati a colpire i civili. In piazza ci sono migliaia di persone pigiate una contro l'altra”.
Bisogna stare con loro quali che siano gli interessi economici, militari, strategici delle superpotenze, quali che siano i reali argomenti che muovono gli Usa e la Nato, e tutti sappiamo bene quanti e quali siano, questi argomenti. Quanto specifici possano essere riguardo alla Libia. Difendere la democrazia, ammesso che sia possibile, sta di solito in fondo alla lista. A parole in cima, nella sostanza in fondo. Le guerre, sempre, muovono l’economia di chi le fa. Però certo la lotta al dittatore, il sostegno ai risorgimentali arabi accendono gli animi e le passioni: la ragione, anche. Sono una causa nobile e giusta. Dunque l’Italia è pronta, metterà a disposizioni basi e forze armate. Ha votato, solo la Lega ha fatto ostruzionismo: la seconda occasione persa, in due giorni, di stare dalla parte del Paese.
Resta molto timore del prezzo che noi e solo noi italiani potremmo dover pagare per la rapidità con cui il nostro presidente del Consiglio ora detto “Betty” dalle sue amiche a pagamento sia passato dal baciamano all’elmetto. L’amico Gheddafi, solo oggi riscoperto nemico, potrebbe risentirsene in forma personale: la categoria del tradimento, ai suoi occhi, potrebbe comprendere l’Italia intera. Un motivo in più per andare a questa guerra col cuore gonfio, e per dolerci con noi stessi noi italiani per aver lasciato così a lungo e così disastrosamente le sorti del Paese nelle mani di un venditore di menzogne mascherato da statista.

il Fatto 19.3.11
Con la Libia contro la Libia
di Furio Colombo


Eccoli che arrivano dal Consiglio dei ministri straordinario, La Russa (Difesa) e Frattini (Esteri). Vengono per informare deputati e senatori (in un’aula di Palazzo Madama) sullo stato di guerra che si sta creando con la Libia. Avete letto bene, la Libia, il Paese a cui siamo legati da un trattato fraterno mai denunciato, mai cancellato. Tanto per ricordare che trattato è, all’art. 4, comma 2 recita: “L’Italia non userà né permetterà l’uso del proprio territorio in qualsiasi atto ostile contro la Libia”. Bene, ora La Russa, il ministro della Difesa, viene a dire a deputati e senatori di una parte e dell’altra che le basi italiane sono a disposizione della Nato. Che ne è stato del Trattato di smodata amicizia con la “Grande Jamahiria popolare e socialista” (così è intestato il trattato)? Non ci crederete, ma solo Emma Bonino, e chi scrive, hanno voluto saperlo. Per non sbagliare, il ministro degli Esteri Franco Frattini profitta della benevola mancanza di curiosità del resto dell’assemblea, senza distinzione di parte.
E salta la risposta. La Russa, bisogna ammetterlo, ha un altro temperamento. È stato colorito, efficace e insistente nel mentire. La domanda era: “Ma come può il governo respingere in mare una nave con 1800 passeggeri, tra cui molte donne e bambini senza alcuna verifica di condizioni e di diritti (per esempio il diritto d’asilo   ) proprio nelle ore in cui l’Onu dà il via libera a un intervento militare che coinvolgerà tutto il Mediterraneo?”. Il ministro La Russa non esita a dire che “dopo avere accertato che venivano dal Marocco, li abbiamo riforniti di carburante e aiutati a tornare in Marocco”. Dunque una gita, di notte, con il mare forza 6. Solo La Padania potrebbe smentirlo: “Roberto Maroni è riuscito a evitare che sbarcassero a   Lampedusa 1800 stranieri della nave marocchina proveniente dalla Libia” (17 marzo). Ecco dunque l’intervento umanitario secondo Maroni: la nave veniva dalla Libia, ed è stata rimandata in Libia dove, se necessario, si può anche bombardare, ma non accogliere esseri umani. Dunque siamo in guerra con la Libia e contro la Libia. Con l’Europa e contro l’Europa. Per salvare gli assediati e per respingerli in mare se riescono a fuggire. Tragici, pericolosi, ridicoli.

il Fatto 19.3.11
Pacifismo di principio, prendere o lasciare? Io lascio
di Paolo Flores d’Arcais


Alla notizia della risoluzione dell’Onu, Bengasi assediata e in preda all’angoscia è esplosa di gioia. Sarebbe davvero assurdo che l’opinione pubblica democratica condannasse ora gli interventi aerei che alla popolazione martoriata suonano come disperata speranza.
Il pacifismo “di principio” è tassativo: mai un aereo, mai una bomba, meno che mai l’invio di un soldato. Il pacifismo “di principio” ha una sua nobiltà, ma chi lo sostiene avrebbe condannato i volontari delle brigate internazionali accorsi in Spagna a difendere la Repubblica contro “los quatros generales”. Il pacifismo “di principio” non condanna semplicemente ogni progetto (quasi sempre insensato, e altrettanto spesso ipocrita e doppio) di “esportare la democrazia”, si priva anche della possibilità di appoggiare la democrazia già esistente dove è minacciata o di sostenere una rivolta che provi ad instaurarla. 
Il pacifismo “di principio” non si presta a discussioni, proprio per il suo carattere assoluto. Prendere o lasciare. Sono per il “lasciare”, perché non ho mai creduto e non credo che la pace possa essere il valore supremo, anche a costo della libertà. Non a caso il tacitiano “hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace” fu – prima del ‘68 - la bandiera di una grande manifestazione per la libertà del Vietnam organizzata in modo autonomo rispetto al Pci. Rivoluzionario o riformista che voglia essere, credo   perciò che un democratico debba prendere posizione rispetto ad ipotesi di interventi armati senza apriorismi universali, analizzando valori e interessi in gioco, ed assumendosi le relative responsabilità.
Perciò: in Libia abbiamo una dittatura di mostruosa ferocia, contro cui si è sollevata gran parte della popolazione, nel clima di rivolte che da un paio di mesi stanno aprendo a prospettive di democrazia inaspettate l’intera Africa del nord. Rivolte con una fortissima componente giovanile, colta, laica, non ancora egemone rispetto alle influenze religiose o al potere organizzato   dei militari, ma che per la prima volta consente di parlare di speranza democratica in senso proprio. L’esito dello scontro in Libia avrà una influenza potente su tutti questi. Nella rivolta libica il peso dei settori del regime che si sono staccati da Gheddafi solo ora è assai forte, ma il carattere popolare dell’insurrezione indubbio. Gheddafi lo ha schiacciato solo con la logica dell’eccidio, con cui sta riconquistando il paese. I governi occidentali hanno colpe tremende, per i decenni e decenni delle sanguinarie dittature che i popoli tunisino, egiziano, libico hanno dovuto subire, colpe che non dovranno essere dimenticate. Con quelle dittature hanno trafficato, ben al di là delle “ragion di Stato” e di approvvigionamento energetico, e pur di trafficare hanno ignobilmente   coperto e “santificato” la quotidianità di tortura e violenza con cui l’oppressione dittatoriale si esercitava. Mai nulla hanno fatto per difendere, e non sia mai sostenere e alimentare   , le forze di un’opposizione laica e riformatrice, insomma occidentale nel miglior senso del termine, che pure esistevano, non solo embrionalmente.
Da ultimo, in Libia sarebbe bastato riconoscere subito come governo legittimo la parte del coordinamento della rivolta di Bengasi più laica e non compro-messa col vecchio regime. Sarebbe bastato bombardare la base aerea da cui Gheddafi si garantiva il controllo del cielo, grazie al quale ha potuto scatenare la sua “revanche” di sangue. Insomma si sarebbe potuto cominciare ad aiutarle appena trovarono l’eroismo della rivolta, quelle forze democratiche abbandonate e neglette per decenni. Si è traccheggiato, perché i motivi del sì o del no occidentale sono di danaro e di potere, non di libertà e democrazia. 
Ora, comunque, sembra che aerei francesi e inglesi, bombardando le basi di Gheddafi (cosa aspettano ancora?), restituiranno alla Libia insorta la speranza della liberazione. Un “vade retro” delle forze democratiche sarebbe campana a morto (e non metaforica) per gli ammutinati contro il Rais. Piuttosto, si impegnino i democratici europei a stringere rapporti con le forze laiche e riformatrici dell’Africa mediterranea, ponendo fine ad un colpevole e spocchioso disinteresse, perché alla caduta dei Mubarak Ben Ali e Gheddafi non seguano altre dittature, a cui gli establishment d’Occidente non farebbero mancare i brindisi.

il
Fatto 19.3.11
Così la comunità internazionale crea Stati figli e figliastri
di Massimo Fini


L’Onu ha autorizzato i raid aerei sulla Libia. Francia e Gran Bretagna sono già pronte a far intervenire i loro caccia perché abbattano quelli di Gheddafi che bombardano i rivoltosi libici, e non è escluso che l'Italia metta a disposizione della Nato le sue basi aeree. Non è una dichiarazione di guerra alla Libia, non sia mai, oggi ci si vergogna di fare la guerra e si preferisce chiamarla "operazione di peace keeping" a difesa dei "diritti umani".
Salta definitivamente il principio internazionale di "non ingerenza militare negli affari interni di uno Stato sovrano" insieme al diritto di Autodeterminazione dei popoli sancito a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti i Paesi del mondo, compresi quelli che stanno per intervenire in Libia. Qui siamo in una situazione diversa dagli interventi in Iraq nel 1990 e nel 2003 e in Afghanistan nel 2001. Nel primo conflitto del Golfo, l'Iraq aveva aggredito il Kuwait, uno   Stato sovrano, sia pur fasullo creato nel 1960, esclusivamente per gli interessi petroliferi degli Stati Uniti. L'intervento quindi era legittimo, anche se il modo con cui fu condotta quella guerra fu bestiale perché gli americani, pur di non affrontare fin da subito, sul terreno, l'imbelle esercito iracheno (che era stato battuto perfino dai curdi, in quel caso Saddam fu salvato dalla Turchia il grande alleato Usa nella regione) e correre il rischio di perdere qualche soldato, bombardarono per tre mesi le principali città irachene facendo 160mila morti civili, fra cui 32.195 bambini (dati del Pentagono). Nel 2003 c'era il pretesto delle "armi di distruzione di massa". Si scoprì poi che queste armi, che Stati Uniti, Urss e Francia gli avevano fornito, Saddam non le aveva più, ma intanto gli americani hanno ridotto l'Iraq a un loro protettorato dove è in corso una feroce guerra civile fra sciiti e sunniti che provoca decine e a volte   centinaia di morti quasi ogni giorno tanto che in Occidente non se ne dà più notizia. In Afghanistan si voleva prendere Bin Laden, ma dopo dieci anni la Nato è ancora lì e occupa quel Paese, avendo provocato, direttamente o indirettamente, 60mila morti civili (e nessun Consiglio di sicurezza si è mai sognato di imporre una "no fly zone" ai caccia americani che, per battere gli insorti, bombardano a tappeto cittadine e villaggi facendo ogni volta decine di vittime civili, come sta facendo Gheddafi in Libia). La situazione è invece identica all'intervento Nato in Serbia dove, all'interno di uno Stato sovrano, c'era un conflitto fra Belgrado e gli indipendentisti albanesi, foraggiati dagli americani, del Kosovo che della Serbia faceva parte.   Noi, che non abbiamo baciato la mano a Gheddafi, che non abbiamo permesso ai suoi cavalli berberi di esibirsi alla caserma Salvo d'Acquisto e al dittatore di volteggiare liberamente per Roma avendo al seguito 500 troie, e che parteggiamo per i rivolto-si di Bengasi, siamo assolutamente contrari a qualsiasi intervento armato in Libia. Per ragioni di principio e perché questi interventi internazionali sono del tutto arbitrari. Dividono gli Stati in figli e figliastri. Nessuno ha mai proposto una "no fly zone" in Cecenia dove le armate russe di Eltsin e dell' "amico Putin" hanno consumato il più grande genocidio dell'era moderna: 250 mila morti su una popolazione di un milione. Nessuno si sogna di intervenire in Tibet (chi si metterebbe mai, oggi, contro la succulenta Cina?) o in Birmania a favore dei Karen. E così via. In ogni caso bisogna essere consapevoli delle conseguenze delle proprie azioni. Se l'Italia presterà le proprie basi   per l'intervento militare in Libia non potrà poi mettersi a "chiagne" se Gheddafi dovesse bombardare Brindisi, Bari, Sigonella, Aviano o una qualsiasi delle nostre città. Gli abbiamo, di fatto, dichiarato guerra, è legittimato a renderci la pariglia.

l’Unità 19.3.11
«Siamo i più esposti
Lo scudo Nato è una garanzia»
di U. D. G.


Massimo D’Alema: la risoluzione Onu è un po’ tardiva ma ha un consenso largo ed esprime un dispositivo assai efficace Pierluigi Bersani: ora dimostriamo di essere un Paese serio

Uno scenario» come quello che apre la partecipazione dell'Italia all'intervento internazionale in Libia «comporta problemi per la sicurezza nazionale perché siamo una delle aree immediatamente esposte ad azioni ritorsive». Massimo D'Alema lo rimarca nel corso della riunione delle commissioni Esteri e Difesa al Senato. «Dobbiamo chiedere precisa l’ex titolare della Farnesina e attuale presidente del Copasir che si attivi un dispositivo di protezione della Nato, una rete di sicurezza indispensabile, perché va bene la coalizione dei “willings'”, ma la Nato è la Nato.
MOMENTO DRAMMATICO
L’aria che si respira a Palazzo Madama è quella di un momento drammatico, da condividere con un atteggiamento responsabile, bipartisan.
Senza protagonismi o fughe in avanti. «Condivido le preoccupazioni dell'onorevole D'Alema sull'attivazione della rete di protezione della Nato» nei confronti dell'Italia, afferma nella stessa riunione il ministro degli Esteri, Franco Frattini. «Esprimo il mio apprezzamento sulla risoluzione dell'Onu che interviene, anche se forse dopo un pò troppo tempo rispetto all'inizio delle ostilità, ma tuttavia con un consenso largo e significativo e con un dispositivo assai efficace e robusto», aveva rilevato nel suo intervento D’Alema, sottolineando che «è evidente che nessuna iniziativa di questo tipo si può svolgere senza il consenso dell'Italia, consenso che è necessario». «Anche per questo è molto importante dire subito sì, autorizzando il governo a prendere tutte le misure possibili» conclude l'ex ministro degli Esteri. Condivisione senza inutili «fughe in avanti». È un concetto rilanciato da Pierluigi Bersani. La questione della Libia è «una cosa seria» e non deve diventare un tema come quello «della Nazionale italiana di calcio, in cui ognuno fa lo stratega»: questo è l'invito che il segretario del Pd rivolge al Governo. «Lo dico in modo preventivo avendo già avuto qualche esperienza: non mettiamoci nelle condizioni avverte Bersani per cui si pensi di essere davanti ad un tema come la Nazionale di calcio, in cui ognuno fa lo stratega. Questa è una cosa seria, la conduciamo seriamente da Paese serio. Questo è l'invito che faccio al Governo». È nelle Commissioni parlamentari, nelle «sedi giuste» che si deve interpretare «la decisione del Consiglio di sicurezza dell' Onu conclude il leader del Pd per evitare che in quel Paese continuino le stragi dei civili e venga soffocato il movimento democratico». Un richiamo al senso di responsabilità che accompagna quanto annunciato in precedenza da Bersani: «Nei limiti della risoluzione dell'Onu siamo pronti a sostenere il ruolo attivo dell'Italia».

l’Unità 19.3.11
Il canto dei ragazzi a Bengasi in festa: alza la testa, sei un libico
La città spera e non dimentica. Appesi sotto al tribunale i ritratti dei martiri della rivoluzione del 17 febbraio: uccisi dal regime, sono i nuovi eroi
di Gabriele Del Grande


Ballano, corrono, cantano e sparano in aria. Sono i ragazzi della rivoluzione di Bengasi. Che questa volta festeggiano davvero. È da poco passata la mezzanotte del 17 marzo, e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha appena approvato la risoluzione sulla no fly zone. In strada si sono riversate migliaia di automobili. I clacson suonano all' impazzata, ma a malapena si sentono, coperti dalle continue raffiche di kalashnikov e dai botti dell' artiglieria.
Davanti al tribunale è una ressa. I ragazzi cantano “Irfaa raskum anta libi”, alza la testa sei un libico. La gioventù ha ritrovato l'orgoglio e ha scoperto con il sangue di essere una comunità, con i suoi sogni di libertà e con il suo gusto per la sfida. Anche estrema. Come quella lanciata a rischio della propria vita ai miliziani di Gheddafi, che continuano indisturbati a colpire i civili. In piazza ci sono migliaia di persone pigiate una contro l'altra.
La folla si apre soltanto per lasciare passare la sedia a rotelle di Ali. Ha il volto di un ragazzo adolescente, ma lo sguardo triste nonostante il clima di festa. Davanti a lui i ragazzi della piazza fanno la fila per baciarlo sulla fronte e stringergli la mano. “Coraggio!” gli dicono. Da quando la tv Al Arabiya ha diffuso la sua intervista, Ali è diventato il simbolo vivente delle vittime dell'oppressione di Gheddafi. In questi giorni gli ho chiesto tre volte di raccontarmi la sua storia. Ma ha sempre rifiutato. Dice che gli fa male parlarne, che è un incubo di cui non riesce a liberarsi. Si sveglia ogni mattina che gli manca l'aria, come in quella cella sotto i cadaveri sporchi di sangue. La sua storia corre sulla bocca di tutti. È l'unico superstite del massacro della caserma centrale di Bengasi. Venticinque ragazzi torturati a morte dalle milizie di Gheddafi, il 17 febbraio, dopo la manifestazione contro il regime. Alla fine del massacro, quella notte li scaricarono in mare lungo la costa, pensando che anche lui fosse morto come gli altri. Invece era vivo, è sopravvissuto e ha trovato il coraggio di raccontare. E di dire che quel giorno l'hanno picchiato, frustato e torturato, con continue scariche elettriche alla schiena e sui genitali, così – dicevano – non avrebbe messo al mondo altri bastardi. Scariche che l'hanno completamente paralizzato dalla schiena in giù.
La manifestazione va avanti fino all'alba sotto una leggera pioggia che sembra allentare le tensioni di questi ultimi giorni, con il fronte della guerra sempre più vicino alla città e con i due bombardamenti all' aeroporto. Il giorno dopo, delle sparatorie della notte non rimane traccia, salvo un po' di bossoli sparsi per terra. I volontari hanno ripulito la piazza, le macchine armate sono ferme all'esterno e migliaia di persone formano un quadrato disposte su file ordinate. Guardano la Mecca e alle spalle hanno il mare. È un rito antico quindici secoli. I tappetini a terra, i piedi scalzi e la fronte appoggiata a terra. Pregano dio in un silenzio che dà una carica mistica a quello che sta accadendo. In tutta la piazza non si vedono simboli di partiti o associazioni. Per il semplice fatto che in Libia da 42 anni partiti e associazioni sono vietati. Ci sono soltanto le vecchie bandiere tricolori dell'indipendenza. Sventolano in aria a centinaia, di tutte le dimensioni, cucite a mano nelle sartorie della città.
Posti come quello di Omar Bruim, un signore di 74 anni, di Misratah, che nelle ultime settimane ha fatto le ore piccole davanti alla vecchia e fedele macchina da cucire. Disegna a mano la mezza luna e la stella bianca, poi ritaglia la stoffa, la cuce e vende il tutto a cinque dinari nella sua bottega. A me però la bandiera la regala. Perché non lo fa per i soldi. Come buona parte dei libici, anche lui con Gheddafi ha qualche conto in sospeso. Nello specifico sono i dieci anni in cui non ha potuto vedere il figlio, fuggito in Svizzera nel 1998 per scampare al mandato d'arresto che aveva portato in carcere altri dodici studenti universitari accusati di terrorismo per aver messo in piedi una associazione di beneficenza. Il signor Omar di bandiere riesce a cucirne una ventina al giorno, poi ci sono giorni in cui ne vende di meno e altri in cui ne vende di più. Per esempio oggi che soltanto Hussein Madani ne ha comprate cinque.
Hussein ha 38 anni, la barba lunga e la battuta pronta. Lui in piazza c'è dal primo giorno delle proteste. Anzi c'è dagli anni Novanta. Da quel giugno del 1995 quando lo vennero a prendere a casa le forze di sicurezza di Gheddafi, insieme al fratello Hasan. Li portarono al carcere speciale di Abu Salim, a Tripoli. Una prigione di massima sicurezza, dedicata in quegli anni ai prigionieri accusati di terrorismo islamico. Anche se col senno di poi, è chiaro che i terroristi erano altrove. E indossavano la divisa. Husein quella notte era nella sezione a fianco e certe cose non le ha mai dimenticate. Le grida ad esempio. “Allahu akbar!” Dio è grande. Strillavano come dei pazzi quella notte. Suo fratello e gli altri. Mentre gli scaricavano addosso raffiche di mitra per sedare la rivolta. Le scariche andarono avanti per due ore. Ininterrottamente. Finché non si sentì più volare una mosca. Dicono che la mattina dopo uscirono dal carcere i camion frigorifero gocciolanti di sangue. Milleduecento morti, i cui corpi non sono mai stati ritrovati.
Molti erano di Bengasi. E oggi le loro foto sono appese sotto il tribunale della città insieme ai ritratti dei martiri della rivoluzione del 17 febbraio. Sui muri hanno scritto: “viva i martiri”. È la nuova iconografia della Libia che verrà. La Libia che ha distrutto le immagini del grande capo, e ha già iniziato a celebrare il mito popolare dei propri ragazzi morti per la libertà. Quanti siano nessuno lo sa. In tutto il paese potrebbero già essere un migliaio. Il resto dipende dagli scenari che verranno. Certo c'è la no fly zone e c'è l'annunciato coprifuoco del regime, ma dalle notizie che arrivano coi telefoni satellitari da Misurata e da Hjdabiya, sul fronte si continua a combattere.

l’Unità 19.3.11
Intervista a Hasni Abidi
«Gli insorti hanno già vinto. Il regime non ha futuro»
Secondo l’esperto la resistenza del raìs non sarà piegata facilmente ma il suo isolamento politico lo condanna al tramonto. «Con lui solo la sua tribù, i familiari e i reparti speciali»
di Anna Tito


Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha dato il via libera al blocco dello spazio aereo libico. «Peccato che sia arrivata troppo tardi, perché ormai il prezzo pagato in quantità di perdite umane è elevatissimo, e la ribellione appare decimata dice all’Unità lo specialista del mondo arabo Hasni Abidi-. Il fatto che il ministro degli esteri di Muammar Gheddafi abbia annunciato il cessate il fuoco mi appare nient’altro che una manovra, una tattica per guadagnare tempo».
Come interpreta, professore, la motivazione addotta dal ministro degli esteri Mousa Koussa, secondo il quale poiché il Paese fa parte dell’Onu "è obbligato ad accettare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza"? «Come una trappola: mira a dividere, o ad alimentare le divisioni, all’interno della Comunità internazionale, approfittando dell’astensione di Cina, Russia, Germania, Brasile e India. Il raìs aspira inoltre a creare tensioni e spaccature anche fra il popolo libico, facendo credere che vuole la pace, la conciliazione, che rispetta le risoluzioni, mentre gli avversari, quelli del Consiglio di transizione di Bengasi, sarebbero i guerrafondai. La situazione oggi mi appare alquanto incerta, molto delicata da gestire per la Comunità internazionale: la Francia ha proclamato di non riconoscere più Gheddafi come Presidente della Libia. Come si può, pertanto, dialogare con un individuo che non si riconosce più come Capo dello Stato?».
Lei aveva detto alcuni giorni fa che “gli insorti hanno vinto, almeno dal punto di vista politico”, anche se in quei giorni gli oppositori stavano soccombendo, costretti a cedere una dopo l’altra le città occupate. Cosa intendeva per vittoria politica? «Vorrei distinguere la questione militare da quella politica. Considerando la prima, Gheddafi ha un’ottima capacità di resistenza e dispone di una considerevole macchina da guerra, e sotto questo aspetto si trova indubbiamente favorito rispetto agli insorti, digiuni di qualsiasi esperienza di guerra. Sotto l’aspetto politico, ribadisco che a mio avviso gli insorti hanno avuto la meglio, in quanto interloquiscono ormai con più Paesi, hanno ancora una capitale provvisoria, Bengasi. Ma non vedremo presto la fine del regime libico, tanto più che ora Gheddafi, dovunque si rechi, stando così le cose, sarà giudicato e perseguito. Alimenta pertanto la politica della ‘terra bruciata’, e non ha mai negato che, in caso di sua caduta, non farà nulla per salvare il Paese».
Eppure un mese fa, quando iniziarono le proteste, si dava quasi per scontato che, dopo il successo delle rivolte in Tunisia e in Egitto, anche in Libia si sarebbe verificato un cambiamento di regime. Come mai questo finora non è avvenuto?
«In Libia non esistono né televisioni, né giornalisti indipendenti; il regime, insieme forse a quello nordcoreano, è l’unico Paese al mondo che non ha mai dovuto dar conto a nessuno, e ciò implica che la repressione può non avere limiti. Si è sparato sulla folla, lasciando la popolazione senza medicine né acqua, contrariamente a quanto era accaduto in Egitto e in Tunisia, dove i regimi si sentivano in dovere di curare almeno l’immagine, non fosse altro che per via dei turisti e degli investimenti; e l’esercito ha potuto dire al Presidente: “E’ finita. Se ne vada”. Ma tutto questo non esiste in Libia, dunque Gheddafi è stato finora onnipotente».
Ciò è dovuto anche agli ingenti mezzi finanziari di cui dispone nonché alla famiglia, che è ormai apertamente parte integrante del potere? «Pur immaginando lo scenario più catastrofico, ovvero che Gheddafi riesca a riconquistare Bengasi, niente sarà più come prima, sia nell’ipotesi che si ritiri, sia che vada avanti fino in fondo; la comunità internazionale non può fare marcia indietro, nessuno accoglierà il colonnello e la sua famiglia. Lui sopravviverà forse come il presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, non più riconosciuto, con un’infinità di sanzioni contro di lui, quindi condannato, il che però non implica la caduta. I familiari di Gheddafi, certo, svolgono un ruolo di rilievo nella sua salvaguardia e protezione, così come del regime libico, anche perché lui si fida solo delle milizie speciali, e non di tutto l’esercito. Cosa gli rimane? La famiglia e la tribù». Le tribù principali, Warfala e Zouwaya, si sono schierate contro Gheddafi, nonostante controllassero i proventi del petrolio insieme al Rais. Quale peso attribuisce all’iniziativa? «Ritengo importante il fatto che i capi tribù, che dal petrolio traggono non pochi benefici, abbiano fatto appello ai loro uomini per schierarsi con gli insorti. Ma non ha funzionato. Perché? Se la tribù Warfala conta più di un milione di membri, ciò non significa che tutti abbiano raggiunto l’opposizione. Un regime non cade per la posizione presa da un capo tribù, anche se i membri ascolteranno più il loro capo tribù che un militare. L’elemento tribale svolge certo un ruolo, ma non determinante».

Corriere della Sera 19.3.11
La Lega non vota e apre un caso Pd, Udc e Fli: non c’è maggioranza La Nota
Bossi: la pensiamo come la Germania. Bagnasco: l’aiuto sia prudente ma convinto
di  Paola Di Caro


ROMA— È immediato e senza condizioni il sì dell’opposizione (con l’eccezione dell’Idv, che sceglie l’astensione) alla risoluzione Onu sulla Libia che il governo sottopone al voto delle commissioni riunite Esteri e Difesa di Senato e Camera. Quello che fa discutere, e che porta Pd, Udc e Fli a puntare i dito contro una maggioranza «che non esiste più» in politica estera perché una sua componente «non si assume la responsabilità» di sostenere l’eventuale intervento armato contro Gheddafi, è invece l’atteggiamento della Lega. I leghisti hanno manifestato, come già avvenne sull’Afghanistan, tutto il loro scetticismo sull’opportunità di un intervento armato che — lo ha detto Roberto Calderoli in Consiglio dei ministri — espone l’Italia al rischio di «ritorsioni» che nemmeno l’ipotesi di uno scudo Nato — invocato da Massimo D’Alema e giudicato necessario dal ministro Franco Frattini — potrebbe impedire. «Serve un approfondimento in Parlamento, un dibattito nelle Camere» , ha insistito Calderoli, l’unico in Consiglio a rappresentare il suo partito e l’unico ad astenersi sulla risoluzione nello stesso momento in cui Umberto Bossi faceva diffondere una nota in cui sosteneva che «la Lega Nord si sente vicina alla posizione della Germania, per quanto riguarda il problema della Libia» . Ovvero, parole della Merkel, la scelta dell’intervento «non è stata ponderata al 100 per cento» . Conseguenza immediata di una presa di distanza netta, è stata la decisione dei leghisti di non partecipare al voto delle commissioni riunite di Camera e Senato, pur autorizzando lo svolgimento delle sedute. E se l’Idv si è astenuta considerando troppo timida la risoluzione, a Montecitorio si è segnalata anche l’assenza degli esponenti dei Responsabili, anche se il capogruppo Sardelli ha firmato la mozione di sostegno alla risoluzione. Senza l’apporto di Pd, Udc e Fli, insomma, la maggioranza non avrebbe avuto i voti sufficienti per approvare la risoluzione. Un fatto considerato grave dalle opposizioni, che non hanno avuto dubbi sul sì: «Siamo disponibili a sostenere un ruolo attivo dell’Italia nell’ambito della risoluzione Onu» , ha detto già nel primo pomeriggio Pier Luigi Bersani, e altrettanto hanno fatto Italo Bocchino per il Fli (che ha chiesto che l’Italia pretenda il comando delle operazioni) e Pier Ferdinando Casini per l’Udc: «Dobbiamo partecipare all’azione internazionale senza se e senza ma» . E tanto suonano convinti i sì dei leader dell’opposizione, quanto stride il silenzio scettico della Lega. Al quale però il ministro degli Esteri non vuole dare troppo peso: «Rispettiamo questa posizione, la comprendiamo, l’abbiamo vista sull’Afghanistan. La Lega alla fine mantiene una lealtà assoluta alle azioni del governo— assicura Frattini —. E poi, più ci impegniamo, più avremo forza per chiedere all’Europa condivisione nell’affrontare l’emergenza immigrati. Insomma, è una posizione politica che però non intacca la decisione che maggioranza di governo, minoranza parlamentare e governo hanno preso oggi» . Una decisione peraltro condivisa anche dal Vaticano, che — per bocca del presidente della Cei cardinal Angelo Bagnasco— chiede di «aiutare in modo prudente ma convinto» le popolazioni in Libia «che aspirano ai diritti fondamentali» .

l’Unità 19.3.11
Crisi politica
Ecco perché siamo caduti così in basso
di Vincenzo Visco


Perché ha vinto sempre il Cavaliere? È che con la crisi della prima Repubblica si è aggirato il tema vero: una ristrutturazione profonda del sistema di potere

Molti si chiedono in questi giorni come abbiamo fatto a cadere così in basso, come è possibile che accada ciò che accade. Si tratta di domande cui tutti dovremmo cercare di rispondere. A ben vedere uno degli aspetti singolari delle vicende attuali consiste nel fatto che i protagonisti di oggi sono in buona misura gli stessi che già operavano nei governi della «prima Repubblica» o loro collaboratori e sodali. Ciò è vero per il capo del Governo per alcuni ministri e persino per i faccendieri in attività, alcuni dei quali presenti non solo negli elenchi della P2, ma anche nelle cronache politicogiudiziarie del passato in quanto collegati alle vicende SindonaCalvi, o al riciclaggio di capitali, o alla mafia, alla camorra, alla banda della Magliana... In altre parole la seconda Repubblica appare come una prosecuzione distorta della prima; la vicenda di tangentopoli non è servita né a superare il malaffare di allora né tanto meno a creare una nuova classe dirigente come molti speravano potesse avvenire. La decadenza etica e politica che quella vicenda rendeva esplicita è continuata, anzi si è incrementata. Non vi sono anticorpi in azione né si vede capacità di riscossa, al contrario il Paese sembra avviato su un sentiero di decadenza economica e morale senza precedenti.
Ciò certifica evidenti fallimenti politici le cui origini vanno indagate e comprese. Molti sarebbero orientati a sottolineare che con le rivolte giustizialiste non si fanno riforme né si ricostruisce uno Stato e che anzi si creano le premesse per nuovi e più gravi disastri, ma si tratta di una spiegazione per così dire «tecnica» ( nel senso che normalmente ciò è quello che si verifica in questi casi) e parziale. Il fatto è che le forze che potevano in teoria opporsi ad una deriva degenerativa non sono state all’altezza del loro compito per insufficienze culturali e politiche, ma soprattutto perché non avevano la stessa interpretazione della vicenda italiana e del percorso di necessaria modernizzazione del Paese, e comunque non ne avevano una adeguata. Necessità già evidente negli anni ’70 (come bene aveva capito Moro) ma mai analizzata con consapevolezza e mai tematizzata esplicitamente, tanto che le pulsioni libertarie e progressiste (ancorché confuse) del ’68 furono lasciate degenerare prima nel massimalismo e nel terrorismo, e poi rifluire nell’individualismo rinunciatario del cosiddetto «edonismo reaganiano» di cui oggi viviamo la degenerazione finale , e nel corrompimento (ben più grave della corruzione stessa) delle classi dirigenti, oggi,addirittura imbarazzanti nella loro incompetenza e mediocrità.
All’origine di tutto ciò vi è probabilmente la situazione di democrazia bloccata in cui il Paese è vissuto per 50 anni e le divisioni radicali che essa provocò e che continuano ancora oggi ad essere riproposte, sia pure strumentalmente, creando diffidenza e condizionamenti. E a questo proposito grandi sono le responsabilità della sinistra (il Pci, ma non solo) per non essere stata in grado di affrontare per tempo in modo esplicito e trasparente i temi di una inevitabile evoluzione e cambiamento. Forse non era possibile, ma nei fatti i ritardi sono stati esiziali per il paese: l’assenza di alternativa ha creato un vuoto politico che ha facilitato la degenerazione della politica delle maggioranze di governo di allora sicure della propria forza e impunità. Successivamente, dopo il 1989, l’evoluzione vi è stata, in alcuni casi anche molto accelerata, ma essa non è mai stata tematizzata e quindi ha spesso creato confusione, oltre ad apparire sempre, e al tempo stesso, o insufficiente o eccessiva. Si sono così manifestate in modo chiaramente contraddittorio sia posizioni del tutto irragionevoli (soprattutto da parte sindacale) sia una acquiescenza acritica alle posizioni neoliberiste dominanti.
Al tempo stesso, dopo tangentopoli, la parte più consapevole del mondo cattolico ex Dc, pur condividendo la necessità di un nuovo equilibrio politico e di nuove alleanze, non si è posta il problema della necessità di compiere una analisi organica ed esplicita della degenerazione dei partiti di governo nella prima repubblica per trarne le necessarie conseguenze politiche; al contrario in non molti casi si è condivisa la tesi, se non del «complotto» dei giudici, di un loro eccessivo interventismo nel campo della politica. Né si volle approfondire il rapporto sempre più stretto tra crisi dei partiti, corruzione, abusi nell’economia pubblica, e lassismo tollerato in quella privata, che si traducevano nel clientelismo assistenziale, in rapporti ambigui con settori coinvolti nella illegalità, nella tolleranza dell’evasione fiscale, ecc. Le conseguenze sono state evidenti nella difficoltà di individuare una linea comune interamente condivisa all’interno del centrosinistra. In sostanza, dopo la crisi della prima Re-
pubblica sarebbe stato necessario affrontare il problema di una ristrutturazione consapevole del sistema di potere profondo che ancorché indebolito, rimaneva sempre lo stesso. Ciò non è avvenuto perché da un lato questa consapevolezza non vi è stata, o si è pensato di risolvere il problema con qualche privatizzazione o liberalizzazione, e dall’altro vi era chi riteneva che tutto sommato il sistema di potere andava bene così come era. In conseguenza il centrosinistra è andato al governo, ma non ha mai condiviso il potere, quello vero.
Tutto questo «non detto», non esplicitato, non «elaborato» ha contribuito inoltre a rendere conflittuali le coalizioni di governo e a complicare il lavoro di opposizione in un contesto di diffidenza reciproca che neanche la confluenza in un unico partito ha consentito (finora) di superare. L’esempio più evidente di questa situazione si può riscontrare nella contrapposizione artificiale tra tradizione social-democratica e liberal-democratica che viene spesso riproposta, come non fossero ambedue parte della tradizione della sinistra italiana.
Un ulteriore contributo è venuto da leggi elettorali che costringono a tenere insieme e a dare rappresentanza ad ogni spezzone di ceto politico che appaia capace di portare un contributo di voti contribuendo così alla delegittimazione della politica e al-
la confusione generale, e creando un’alternativa impossibile tra grandi ammucchiate velleitarie e improbabili aspirazioni egemoniche.
Né dalla cosiddetta società civile sempre evocata e da cui giustamente ci si aspettava una spinta al rinnovamento, è venuto un contributo utile: sempre ipercritica, polemica, insoddisfatta, pronta a rivendicare la sua presenza e il suo ruolo, ma ormai disposta a «sporcarsi le mani» nella politica di tutti i giorni, per quello che essa è. Dal canto loro i partiti non hanno mai considerato utile aprirsi veramente all’esterno, nonostante l’evidente discredito accumulato progressivamente. Sono così nati nuovi movimenti e partiti tutti intenti a fare il free-riding nella casa del vicino, piuttosto che a svolgere consapevolmente la loro funzione magari strumentalizzando lo strumento delle primarie. Le contrapposizioni personali hanno fatto il resto.
Stando così le cose non è sorprendente che Berlusconi possa aver vinto e governato per tanto tempo portando il Paese all’impantanamento attuale. È possibile superare questa situazione? Certamente ma non sarà compito né facile né di breve durata.

il Fatto 19.3.11
Dietrofront della Corte europea. Il crocifisso resta in classe
Annullata la sentenza del 2009, “è un simbolo passivo”
di Marco Politi


Il crocifisso resterà nelle classi italiane. La Grand Chambre (istanza d’appello) della Corte europea dei diritti dell’uomo decide di non decidere sul carattere impositivo dell’esposizione di un unico simbolo e annulla la decisione del 2009, che obbligava l’Italia a rimuovere il segno religioso dalle aule.
La cittadina finno-italiana Soile Lautsi perde la sua battaglia quasi decennale e l’Italia non conquista la facoltà di vivere come nella religiosissima America, dove fervente e multiforme è il sentimento religioso – spesso lodato da Benedetto XVI – ma le istituzioni pubbliche non sono contrassegnate da simboli religiosi nel rispetto della libertà di tutti e della distinzione tra Stato e Chiesa. 
Impazza il tripudio del centro-destra da Frattini alla Gel-mini, da Alemanno a Zaia, con un gran parlare di “vittoria del sentimento popolare… simbolo irrinunciabile… segno di identità e civiltà”. Per un giorno anche i leghisti adorano l’Europa. Ma egualmente in casa   Pd e Italia dei valori c’è chi come Chiti o Leoluca Orlando plaude alla “giusta sentenza”. Deluso il marito della Lautsi, Massimo Albertin, “perché la prima sentenza in questa vicenda era clamorosamente chiara”. Il giudice “anticrocifisso” Luigi Tosti, rimosso dalla magistratura, denuncia “pressioni fortissime” esercitate sulla Corte di Strasburgo. Asciutto il commento del’insegnante di Terni Franco Coppoli, allontanato nel 2009 e poi reintegrato per aver tolto il crocifisso dal’aula del suo istituto professionale: “Hanno vinto i poteri forti”. 
SOBRIA LA reazione delle autorità ecclesiastiche. Il presidente della Cei, cardinal Angelo Bagnasco, parla di “una sentenza importante, di grande buon senso”. In realtà, al di là dell’uso politico della sentenza, emerge un primo dato di fatto. Di fronte all’offensiva del governo italiano, appoggiato da dieci paesi del Consiglio d’Europa significativamente in prevalenza del’Europa orientale ex comunista, la Corte di Strasburgo si è trincerata dietro il principio di non ingerenza negli affari interni di uno stato membro, sostenendo che all’Italia andava lasciato un “margine di valutazione” autonomo nel regolare la questione.
Nessuna proclamazione, dunque, del diritto assoluto italiano a fare come sta facendo. 
Anzi nella sentenza di Strasburgo è scritto esplicitamente che “non spetta alla Corte pronunciarsi sulla compatibilità della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche con il principio di laicità come si trova consacrato nel diritto italiano”. Inoltre i giudici di Strasburgo hanno ritenuto di non ingerirsi, alla luce della divergenza registrata tra Cassazione e Consiglio di Stato sul significato stesso da attribuire al crocifisso.
LA MOTIVAZIONE, che ha salvato il governo italiano dalla condanna inflitta in prima istanza, risiede nel fatto che a parere della Corte non sono stati violati i protocolli 1 e 9 dell’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che si riferiscono alla libertà di educazione e alla libertà di pensiero, coscienza e religione. 
La spiegazione ha un sapore paradossale in presenza dall’atmosfera trionfalistica degli intransigenti cristianisti: perché – così suona il verdetto – l’esposizione del crocifisso è irrilevante, non esercita nessun influsso sugli studenti.
Detto in maniera giuridicamente più forbita, i giudici di Strasburgo sostengono che l’affissione del crocifisso non è accompagnata da indottrinamento confessionale né usata come strumento influire. Di più, rappresenta un “simbolo essenzialmente passivo” e non gli si può attribuire l’influenza di un discorso didattico o di una partecipazione ad attività religiose. Peraltro, aggiungono a Strasburgo, non è accompagnato dall’insegnamento obbligatorio della religione cattolica e non produce una concreta discriminazione nei confronti degli alunni diversamente credenti. Insomma è l’apoteosi della regola (certamente non rintracciabile nel Vangelo   ): “Tanto non da fastidio a nessuno”.
Da questa elencazione traspare l’atteggiamento ponziopilatesco della Grand Chambre. Perché come sancì a suo tempo la Corte costituzionale tedesca: nessuno può essere “obbligato” a studiare “sotto” il simbolo del crocifisso. Cioè l’esposizione stessa di un segno – che i giudici tedeschi giudicarono giustamente potente – stabilisce una superiore graduatoria di valore del credo di chi vi appartiene nei confronti del credo   religioso o filosofico degli “altri”. Perciò l’aula non connotata non è offesa per nessuna religione, ma rispetto per tutte le coscienze. Come negli Stati Uniti.
Nella sua ansia di rappresentare il crocifisso buonisticamente come innocuo retaggio tradizionale, aperto a tutti, il governo italiano si è spinto però su un terreno scivoloso. L’Italia, riporta la sentenza, ha affermato di permettere il velo islamico in classe – dichiarazione fatta forse a insaputa dei membri leghisti del governo – e ha ricordato che spesso si festeggia il Ramadan in aula e che l’insegnamento delle altre fedi “può essere organizzato negli istituti per tutte le confessioni religiose riconosciute”. 
È un boomerang per il governo Berlusconi-Bossi. Perché se continuerà a non riconoscere le comunità islamiche, ci saranno genitori che potranno adire la Corte di Strasburgo lamentando una discriminazione effettiva.

La Stampa 19.3.11
La condanna di Pannella: “Le icone di altri fedeli non si possono esporre”
«Si sono manifestati una sorta di feticismo e il ritorno del tradizionalismo»
di Gia. Gal.


I credenti non dovrebbero rallegrarsi per questa sentenza». Il crocifisso può restare appeso nelle aule delle scuole pubbliche italiane e il leader dei Radicali, Marco Pannella critica l’«impapocchiamento» di Strasburgo secondo cui la presenza in classe di questo simbolo non lede il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni e il diritto degli alunni alla libertà di pensiero, di coscienza o di religione.
Perché non condivide la sentenza?
«Mi sembra evidente che anche in questo campo siamo ormai passati da una patria europea alla vecchia Europa delle vecchie patrie tradizionali e tradizionaliste. Ciò detto, vorrei far notare che la corte di Strasburgo parte dall’affermazione che non sono provate l’importanza e la funzione dell’esposizione di un importante simbolo di una importante religione su adolescenti e giovani. Quindi credo che ci sia legittimamente da chiedersi perché mai una delle suddette patrie (per conto dell’ideale patria vaticana) abbia sollevato scandalo e rabbiosa opposizione alla precedente sentenza che nel 2009 disponeva la rimozione del crocifisso dalle aule. Mi chiedo sinceramente se un autentico credente cristiano possa essere davvero fiero o felice del fatto che si riconosce a Cesare la possibilità di imporre a tutti i suoi sudditi il massimo simbolo della propria fede con la motivazione che in realtà quel simbolo non comporta alcun effetto su una parte di coloro ai quali è rivolto».
Per il fronte pro-crocifisso è una vittoria a tutto campo?
«La Corte afferma di non aver trovato prove che la presenza di un simbolo religioso in una classe scolastica possa influenzare gli alunni. In sostanza quel che resta è una volta ancora il fatto che si riconosce a Cesare il diritto di imporre (o altrimenti vietare) il simbolo del mistero della fede. Non c’è di che rallegrarsi per i giovani che credono in Gesù Cristo. A patto che i credenti provino (sia pure non più in questa inappellabile sede) che in effetti “Cristo o suoi equivalenti simbolici o storici” debbano ancora manifestarsi nella storia umana poiché per la loro religione il preannunciato avvento sulla terra di Dio non si è ancora manifestato e preghino di conseguenza».
Il crocifisso, definito simbolo passivo, provoca indottrinamento oppure no?
«Si sostiene che la presenza del crocifisso pur conferendo alla religione maggioritaria una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico non sia sufficiente a indicare che sia in atto un processo di indottrinamento. E che nel curriculum didattico non esiste un corso obbligatorio di religione cristiana e che l’ambiente scolastico italiano è aperto ad altre religioni. Altri giudicheranno il valore dell’impapocchiamento che connota questo pronunciamento».
Cosa non la convince?
«La corte europea finge di ritenere che concretamente esista nella scuola pubblica italiana il diritto o la facoltà di esibire altri simboli religiosi, per esempio la “Menorah” ebraica. E ciò a prescindere dal fatto che per la stessa Onu vadano riconosciuti pari diritti a religiosità teiste o non teiste. D’altra parte mi si consenta con gravità una battuta: non è questa l’unica manifestazione di una sorte di grave feticismo che attualmente ha per oggetto embrioni o zigoti». [GIA. GAL.]

il Fatto 19.3.11
Lo dicevamo prima di Chernobyl
di Dario e Jacopo Fo


Dimmi quante vite umane sei disposto a rischiare e ti dirò chi sei. Da quando è stata costruita la prima centrale atomica nel mondo continuiamo a protestare spaventati dai rischi colossali che questa tecnologia comporta. Da decenni i sostenitori del nucleare continuano a ripeterci che siamo degli isterici, emotivi, ascientifici, retrogradi. Dicono che ci preoccupiamo per niente: “I nostri scienziati sono i migliori del mondo, abbiamo impiegato tutti i sistemi possibili per garantire l’assoluta sicurezza di questo impianto! Smettetela di fare i maniaci dell’ecologia estrema e ottusa. Guardate il labiale: non c’è nessun pericolo nucleare!!! Poi regolarmente la tecnologia perfetta si inceppa. In questi decenni ci sono stati più di 150 incidenti in centrali nucleari con emissione di radiazioni pericolose. In alcune aree limitrofe alle centrali   si sono registrati aumenti notevoli di tumori e malformazioni nei neonati.
POI C’È STATO lo spaventoso disastro di Chernobyl... I calcoli sulle morti causate da quella fuga radioattiva sono difficili e controversi... C’è chi parla di 200 mila deceduti e altri 200 mila a rischio. Dopo Chernobyl poi sono tornati a dirci di stare calmi: “Quella centrale è esplosa perché era di un tipo vecchio, tecnologia superata. Oggi i nostri reattori nucleari invece sono nuovi di zecca, supertecnologici, non c’è nessun pericolo!!! Smettete di agitarvi come indemoniati!” Ancora il giorno dopo il terremoto, sabato 12 marzo, appariva su Il Messaggero un titolo esemplare: “Nucleare sicuro, è la prova del 9!” a firma del povero Oscar Giannino: “Quando ancora eravamo alle prime notizie del tremendo sisma che si è abbattuto sulla costa nord-orientale del Giappone, ecco che i siti e le agenzie   italiane hanno iniziato a diffondere notizie sull’allarme nucleare, orbene, se allo stato degli atti una prima cosa si può dire, è che proprio la terribile intensità del fenomeno abbattutosi sul Giappone ci consegna una nuova conferma del fatto che in materia di sicurezza di impianti nucleari, i passi in avanti compiuti negli ultimi decenni sono stati notevolissimi, tali da reggere nella realtà dei fatti senza creare pericoli per ambienti e popolazioni, proprio l’impatto di eventi terribilmente fuori scala, quale quello verificatosi e come prescrivono le norme nel cui rispetto si costruiscono oggi centrali atomiche”. Quando si dice le ultime parole famose...   In queste ore stiamo vedendo come stavano realmente le cose, al di là delle reticenze del governo giapponese e di quelle ancor maggiori della ditta che gestisce gli impianti. Scopriamo che le informazioni diffuse negli scorsi giorni erano in gran parte false, scopriamo che ci sono state esplosioni, contaminazioni e che la situazione è estremamente grave tanto che una fascia di 20 chilometri è stata evacuata e a Tokyo si è diffuso il panico e   molti fuggono dalla città. Si tratta di una situazione spaventosa, agghiacciante per questo popolo, devastati dal maremoto, distrutti dal dolore per la morte dei loro cari, senza casa, al freddo, sotto la neve, con poco cibo e una nuvola di radiazioni che gli gira sulla testa, a pregare che almeno il vento sia clemente e si porti via la peste radioattiva. Una situazione di dolore inimmaginabile. 
CERTO CONTRO le follie della terra i giapponesi avevano fatto moltissimo, il terremoto di per sé ha provocato poche vittime pur essendo enormemente più forte di quello de L’Aquila. Ma lo tsunami non c’era modo di fermarlo... E ora la fusione delle barre radioattive rischia di provocare un’ecatombe ancor più gigantesca. Un orrore incommensurabile. Ma allora, se la natura può essere così imprevedibile e in modo tanto devastante, e travolgere un popolo che alla sicurezza ci tiene, non sarebbe il caso di non rischiare mai più di aggiungere un altro rischio a quelli che in nessun modo possiamo evitare? Già è duro accettare la nostra precarietà, accettare che ti può cadere un meteorite sulla testa e non c’è elmetto che tenga... Per non parlare   dei vulcani... Ma perché costruire nel mondo centinaia di cattedrali (nucleari o chimiche) sulle quali se casca un meteorite è la fine del mondo? Nel famoso film di Kurosawa Sogni una centrale nucleare esplode e riversa un gas radioattivo che genera istantanee mutazioni nei pochi sopravvissuti in un mondo incredibilmente al panorama del dopo tsunami. Un uomo grida contro un dirigente nucleare e lo accusa indicandogli la devastazione intorno a loro: “Non pensavate che avrebbe potuto succedere?”.
MA LORO NO . Non pensavano... Qualcuno, come la Prestigiacomo, povera infelice, continua ancora a ripetere che questo disastro non fermerà il nucleare in Italia... Dicono che quella centrale giapponese è esplosa perché era di   vecchia generazione, non come quelle ultramoderne francesi che staremmo comprando noi. Ancora con queste frasi? Un’altra volta? Ma non si ascoltano quando parlano? Incredibile. E accusano chi da sempre si batte per fermare questa follia nucleare di sciacallaggio: “Vergognatevi di approfittare del lutto giapponese per sostenere le vostre idee bislacche...”. Lo dicevamo prima di Chernobyl, lo dicevamo dopo Chernobyl e continueremo a dirlo fino a che anche l’ultima centrale nucleare verrà chiusa. Solo allora staremo zitti. E proprio di fronte a questo immane disastro atomico ci rendiamo conto che c’è grande differenza nel valore che si dà alla vita umana. A nostro avviso nessun rischio è accettabile. Per i nuclearisti esiste un livello di rischio accettabile.   Pensano sempre che riguardi solo gli altri.
P.S.: Nei giorni scorsi il governo ha cancellato tutti i finanziamenti alle fonti rinnovabili. Dicono che ne creeranno di nuovi ma drasticamente tagliati e limitati. Ci sembra veramente un grande momento per massacrare lo sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili in Italia.

Repubblica 19.3.11
Nucleare. Non cambio idea
di Umberto Veronesi


La politica per sua natura può avere ripensamenti, la scienza deve invece pensare più a fondo. Così ho molto apprezzato l´articolo di Francesco Merlo di ieri, perché mi invita a precisare la mia posizione sul nucleare.
Non mi occupo di sondaggi e di referendum ma devo rispettare la lezione che arriva dal Giappone.
E lo faccio pur rendendomi conto che il sovrapporsi delle dichiarazioni, l´inevitabile intreccio fra politica, cronaca e scienza di fronte a un disastro come quello giapponese, e lo sgomento generale che ci attanaglia, rendono molto difficile esprimere posizioni chiare. Il punto è molto semplice: io sono uno scienziato e il presidente dell´Agenzia per la sicurezza del nucleare. Non mi occupo di referendum, non leggo i sondaggi di nessun tipo e quindi neppure quelli che Merlo definisce "di cortile". Dunque ciò che appare come un ripensamento è invece l´esito di una riflessione. Studiando il più lucidamente possibile la dinamica di Fukushima ho pensato che ci troviamo di fronte al primo grave incidente di progettazione nucleare della storia, quindi di strategia. Gli altri due incidenti significativi, Chernobyl e Three Mile Island, sono stati infatti causati da un errore umano. Per Chernobyl più che di errore dovremmo parlare di follia. Ma anche negli Stati Uniti fu un errore dei tecnici a causare la fusione del nocciolo, che fortunatamente non causò nessuna vittima.
Va detto subito che sull´errore umano si può intervenire migliorando la preparazione, l´addestramento e le condizioni di lavoro. Un po´ come si fa con i piloti d´aereo. Invece a Fukushima non c´è stato nessun errore riconducibile al personale addetto, ma un errore di progettazione: le centrali non erano programmate per resistere a uno tsunami della portata di quello scatenatosi la scorsa settimana. Le fonti tecniche dicono che la progettazione teneva conto di tsunami di intensità minore. Ma questa è comunque una mancanza perché nel costruire una centrale nucleare sul Pacifico non si può non tenere conto della massima potenza delle forze del mare e della Terra. Non è una giustificazione il fatto che erano centrali attivate quarant´anni fa, e che erano quindi alla fine del loro ciclo vitale.
La lezione che credo dobbiamo trarre da Fukushima è che non possiamo non rivedere la strategia nella progettazione degli impianti nucleari. Il che non vuol dire ripensare o tornare sui propri passi, ma capire il problema alla radice, avere il coraggio di riconoscerlo e sforzarci di superarlo. Se è vero - ed è scientificamente vero- che senza l´energia nucleare il nostro pianeta, con tutti i suoi abitanti, non sopravviverà, non dobbiamo fare marcia indietro, ma andare avanti, ancora più in là, con la conoscenza e il pensiero scientifico. Dobbiamo pensare al futuro tenendo conto che petrolio, carbone e gas hanno i decenni contati e che sono nelle mani di pochissimi Paesi,che possono fare delle fonti di energia strumento di ricatto economico e politico; che stiamo avvicinandoci ai 7 miliardi di persone sulla Terra, con consumi sempre maggiori di energia; che le altre fonti di energia, le rinnovabili, hanno grandi potenzialità, ma per alcune non abbiamo le tecnologie che rendano accessibili i costi di trasformazione e globalmente non sono sfruttabili in modo tale da assicurare la copertura del fabbisogno. La scelta dell´energia nucleare è dunque inevitabile e il nostro compito è ora quello di garantirne al massimo la sicurezza per l´uomo e l´ambiente. Abbiamo per anni sostenuto che gli impianti di ultima generazione sono sicuri e con un rischio di incidente vicino allo zero. Oggi il Giappone ci impone di riconsiderare criticamente questa convinzione. Molti si domandano se il modello delle centrali nucleari di grossa taglia, come sono oggi tutte quelle del mondo, sia quello da continuare a realizzare; oppure se non è possibile ed opportuno considerare l´adozione di reattori più piccoli e modulari : una rete di minireattori. Alcuni di questi modelli progettuali sono già in produzione e dovremo studiarne a fondo le caratteristiche e la fattibilità.
La tragedia giapponese ci impone inoltre di pensare fuori dalle logiche nazionali. E´ evidente ora che i piani energetici devono essere discussi a livello internazionale. In Italia ci troviamo nella circostanza favorevole di partire da zero e quindi di poter scegliere, senza fretta, il modello strategico migliore.

Repubblica 19.3.11
Metodo Bellocchio la fantasia trovata in famiglia
La realtà è fantasia
In "Sorelle Mai" la capacità del regista di usare il proprio mondo familiare per costruire cinema. Un´opera minore che porta l´impronta forte di un maestro
di Paolo D’Agostini


In attesa di tornare a mordere con un´altra delle sue imprese di stile che, senza essere mai interventi diretti sull´attualità, ci parlano di chi siamo noi oggi (ma ci sarà da aspettare a sentire il regista, il quale sta incontrando molti ostacoli a varare il nuovo progetto dal titolo eloquente, "Italia mia", che promette fastidi sulla rappresentazione del potere), Marco Bellocchio va nei cinema sotto il piccolo e combattivo marchio distributivo Teodora con Sorelle Mai. Un filmino quasi privato, un´operina difficile da definire. E una sfacciataggine che soltanto un conclamato maestro può permettersi: portare sugli schermi pubblici un taccuino di appunti personali e familiari. Dentro il quale però ribolle tutta la sua storia di mai addomesticato ribelle.
Serve qualche parola per spiegare l´operazione creativo-produttiva. Da tempo Bellocchio fa annualmente ritorno al suo paese di origine, Bobbio provincia di Piacenza, per sovrintendere a una manifestazione che vi si svolge ogni estate e per allestirvi dei corsi estivi di regia. Il Laboratorio Farecinema. Nel corso del tempo (dal ‘97) gli allievi hanno elaborato, con lui e sotto la sua guida, le loro esercitazioni. A location e set di queste esercitazioni sono stati eletti luoghi della vita e del passato biografico e artistico di Marco Bellocchio, a partire dalla casa di famiglia, che fu presente anche nel suo incendiario esordio I pugni in tasca. Il "cast" è in buona parte composto da amici, parenti, familiari di Marco: suo fratello Pier Giorgio, le sue sorelle Maria Luisa e Letizia, suo figlio Pier Giorgio, sua figlia Elena di vent´anni più piccola. Della quale queste riprese raccolte via via negli anni documentano la crescita.
Dietro alle ragioni tecniche dell´usare l´universo domestico per facilitare una dimensione maneggevole e non impegnativa, e anche dietro alla libertà che in questo spirito di leggerezza viene offerta ai suoi discepoli, c´è la personalità e l´impronta forte del maestro. Il suo bisogno di riferirsi al proprio mondo per poter trasmettere qualcosa di utile, la sua incapacità di insegnare nozioni asettiche e distanti dai riferimenti che conosce e gli stanno a cuore.
Dunque i sei episodietti che compongono questo stravagante film che è in realtà secondo una logica da work in progress l´aggiornamento di un precedente "Sorelle", il cui titolo dichiara un omaggio alle due anziane sorelle di Marco che a differenza di lui sono sempre rimaste a vivere in quei luoghi (le definisce "personaggi più pascoliani che cechoviani"), mescolano finzione e storia familiare, messa in scena e memoria autobiografica, oltre che attori-familiari e attori non familiari: Donatella Finocchiaro e Alba Rohrwacher. Seguendo un plot, una traccia, che trasferisce sui personaggi sensibilità e pulsioni appartenenti e appartenute a Marco Bellocchio. Soprattutto nel personaggio affidato a suo figlio Pier Giorgio, in costante bilico tra fughe e ritorni all´amato-odiato natìo borgo selvaggio. Va da sé che non vedrete un´opera maggiore, ma state certi di vedere comunque un Bellocchio doc.

Corriere della Sera 19.3.11
Lite (politica) sulle foto di Ambra
Il «Fatto»: rappresaglia perché anti-berlusconiana. «Libero»: paranoia
di Renato Franco


MILANO— «Quindici giorni di riposo e cure dal medico di Brescia» per un «delicato problema di salute» : Ambra Angiolini è costretta a interrompere temporaneamente la tournée dello spettacolo teatrale I pugni in tasca. Non si entra nel merito del «problema di salute» , ci mancherebbe, questione di privacy. Ma per capire quello che ci può essere dietro il malessere dell’attrice lanciata ere televisive fa da Non è la Rai bisogna fare un passo indietro. E andare alla copertina di Chi, il settimanale di gossip diretto dal troppo pettegolo Alfonso Signorini. Che in copertina pubblica le foto di Ambra in atteggiamenti se non complici almeno equivoci non con il suo compagno— il cantante Francesco Renga, hanno due figli— ma con Pier Giorgio Bellocchio — attore nonché figlio del regista Marco. Ambra e Pier Giorgio sono fianco a fianco nella pièce I pugni in tasca e, stando alle foto pubblicate da Chi, tra di loro ci sarebbe qualcosa di più di un rapporto professionale. Immagini «scattate a più riprese a Roma, a Napoli, a Lamezia Terme e a Crotone, nel corso di un mese e dieci giorni circa» mostrano i due molto vicini, un bacio che potrebbe essere sulla guancia o forse no, atteggiamenti d’intesa. Chi non si limita a raccontare quello che dicono le foto, ma racconta anche i retroscena. Perché Ambra sarebbe venuta a sapere delle foto prima della loro pubblicazione e sarebbe «letteralmente disperata» . E fa quello che farebbe chiunque: chiama Signorini e cerca di convincerlo. Scrive il settimanale: «Nel corso della conversazione con Signorini, Ambra si dice "disposta a fare qualsiasi cosa", pur di tutelare i suoi familiari dalla vista di quelle immagini. "Ho fatto una cazzata. Aiutami!", supplica l’attrice» . Seguiranno altri contatti, altre telefonate, ma alla fine vale quello che il direttore ha detto subito ad Ambra: «Un servizio acquistato è un servizio pubblicato» , cioè che pubblicherà in ogni caso le foto. E così è. La questione però da umana si fa politica perché al Fatto Quotidiano non è piaciuta per niente la vicenda. Il quotidiano diretto da Antonio Padellaro (il vicedirettore è Marco Travaglio) parla di «rappresaglia» . Ambra pagherebbe per aver fatto «un percorso distante dal pensiero dominante berlusconiano» , per essersi «esposta ad Annozero contro il carrierismo a colpi di prostituzione» . E si torna alla frase «un servizio acquistato è un servizio pubblicato» : «Il discorso è ineccepibile— scrive Il Fatto —. Ma c’è un particolare: la regola vale per Ambra e non per altri. È noto, infatti, che il direttore, delle foto o dei video che gli passano fra le mani fa un uso strategico. Pubblica, acquista e non pubblica, avverte dell’esistenza delle immagini. Dipende dal soggetto. Per esempio, informa Marina Berlusconi di un video imbarazzante, realizzato con un cellulare, che riguarda Silvia Toffanin, compagna di Pier Silvio Berlusconi. Il filmato viene acquistato dalla famiglia e fatto sparire» . E ancora: «Ed è sempre Signorini che pubblica solo le immagini più "innocue"di Barbara Berlusconi» . Fino a concludere: «Una notizia si pubblica. Sì, ma sempre, non a convenienza» . Da sinistra si torna a destra, perché è Libero a rispondere al Fatto. Il quotidiano del tandem Feltri-Belpietro bolla tutto come un’ossessione: «Secondo Il Fatto, la ragazza sarebbe stata colpita dalla rivista vicina al Cav perché ha preso le distanze dal premier, scendendo in piazza e addirittura partecipando ad Annozero. Quando si dice la paranoia» . Rinviato lo spettacolo, rinviato pure il matrimonio con Renga come l’attrice aveva rivelato una decina di giorni fa. Se sia un caso o no, sono affari loro. Mercoledì Renga ha aperto il suo tour da Brescia dedicando una canzone proprio ad Ambra: «Stasera non è qui perché non sta bene. Qualche sciacallo ha cercato di rovesciare della spazzatura sulla nostra felicità e sulla nostra storia d’amore. Dedico la canzone idealmente a lei» .

La Stampa 19.3.11
“Non ho mai trovato sexy una ragazza magra”
Franca Sozzani lancia una campagna online contro l’anoressia
di Egle Santolini

«Gli stilisti non c’entrano La malattia ha molte cause: anche i siti Internet»

Se io sono mai stata a dieta? Se ho digiunato? Casomai il contrario. Mangio male, questo sì, ho il colesterolo alto. Pane, formaggi, dolci. Soprattutto dolci. Vogliamo parlare del cioccolato? Dieci, anche 12 ciocorì al giorno dalle macchinette della Condé Nast. Ecco, forse non avrei dovuto dirlo».
Franca Sozzani, direttore di Vogue Italia , lancia una campagna dal suo blog contro i siti che promuovono l’anoressia. Non sarà gentile, ma la prima cosa che devi chiederle è quanti sacrifici le costi conservare quella silhouette. Perché se sei il responsabile di uno dei giornali che determinano i canoni estetici contemporanei, e se per di più in quei canoni rientri alla perfezione, va a finire che ti carichi di una grande responsabilità. Quante ragazzine rinunciano ai loro, di ciocorì, per due fianchi un po’ più stretti? Sozzani non ha mai creduto che l’aumento dei casi di anoressia sia da imputare alla moda: il fenomeno le pare un po’ più complesso. Ma ha scoperto che c’è un nemico molto insidioso da battere.
Direttore, che cosa si propone con questa campagna?
«Una raccolta di firme per la chiusura dei siti italiani pro anoressia e per l’oscuramento di quelli stranieri. So che può sembrare poco ortodosso e perfino censorio, ma occorre un po’ di coraggio: sono migliaia e invitano le ragazze e i ragazzi a farsi del male. Io ci sono capitata dopo aver letto una recente ricerca svolta ad Haifa, secondo la quale la responsabilità principale dei disordini alimentari per i soggetti tra gli 11 e i 19 anni sarebbe di Facebook. Questa spiegazione non mi convinceva: come, prima si è data la colpa ai genitori, poi alla moda, adesso ai social network? Però sono andata a informarmi e ho trovato queste liste orribili, questi comandamenti. E il primo è: credo nella bilancia, perché quello che dice è la cosa più importante; perdere peso è bene, guadagnare peso è male». Sembrano i principi di una setta. Il culto di Ana.
«Sì, Ana è l’amica immaginaria, l’incarnazione della malattia. I più giovani vanno difesi da questi pazzi. E poi le follie sul controllo: secondo questi decaloghi demenziali, meno pesi e più potere e successo avrai. Ma dico, e allora Hillary Clinton?».
Lei sostiene che l’anoressia ha molte cause.
«C’è sempre stata, fin dai tempi delle sante digiunatrici, di Elisabetta d’Austria. Che cosa c’entrava la moda? »
Ma riconoscerà che i vestiti che pubblica su Vogue cadono meglio su un corpo magro che su un corpo grasso.
«Attenzione perché qui, è proprio il caso di dirlo, le parole hanno un peso. I vestiti stanno bene su un corpo snello, non su un corpo magro. Le curve, le morbidezze, li riempiono meglio. Non ho mai trovato sexy la magrezza. Pensi alla meravigliosa Liya Kebede: è snella ma non magra, è una donna normale, ha due figli».
Ne avrà viste, sulle passerelle, di ragazze ammalate.
«Ricordo Kim, un’americana che avrà avuto 16 anni. Si copriva con i maglioni per non mostrare le ossa sporgenti. Fece una o due sfilate, poi svenne. Arrivarono i genitori a portarla via. Parlo di una dozzina di anni fa. Adesso il periodo delle waif, dove le ragazze dovevano somigliare a degli elfi disincarnati, è finito, per fortuna».
C’è stato, di recente, il caso di Isabelle Caro.
«Che modella non fu mai, ma che voleva diventarlo. Ho letto il suo libro: non incolpa la moda, parla soprattutto dei suoi rapporti complicati con i genitori. Un caso tristissimo, che Oliviero Toscani ha utilizzato molto bene per denunciare il problema. Ma, vede, davano dell’anoressica anche a Kate Moss, e adesso dicono che ha la cellulite»
E come se lo spiega?
«Kate è sempre stata uguale. Solo che allora aveva 14 anni e adesso ne ha 37. Idem per Caroline Murphy, per Amber Valletta: il corpo si modifica, ma può restare armonico».
Da un pulpito come il suo lei che cosa fa?
«Ricordo che l’allora ministro Giovanna Melandri, qualche anno fa, per denunciare le troppo magre in passerella si rivolse direttamente ad Anna Wintour (il direttore di Vogue America, ndr). E lei le rispose: ma il problema sono le troppo grasse… È vero, in America la piaga è l’obesità. Un’intera sezione del sito di Vogue si chiama curvy, ed è dedicato a chi è orgoglioso del proprio corpo morbido. Le modelle morbide sono apprezzate e lavorano molto».
Quanto al suo, di corpo
«Mai fatto niente. Né sport né ginnastica. Questione di geni e di metabolismo».

La Stampa TuttoLibri 19.3.11
Spartaco non era certo un Garibaldi del proletariato
di Silvia Ronchey


In una lettera da Manchester del 27 febbraio 1861 Karl Marx scrisse al suo amico Engels: «Per distendermi ho letto le Guerre civili romane di Appiano. Ne emerge che Spartaco è l’uomo più folgorante della storia antica. Un grande generale (non come Garibaldi), un personaggio nobile, veramente rappresentativo del proletariato dell’antichità».
Schiavo, anche se secondo Mommsen di origini regali, ex ausiliario dell’esercito romano, ex gladiatore, Spartaco divenne il più temibile nemico di Roma capitanando un esercito di «masnadieri» e dando vita alla cosiddetta terza guerra servile, forse un atto postumo della guerra sociale, forse «un’altra guerra italica». Le sue tattiche di guerriglia furono così notevoli da rimanere nei manuali bellici e da valergli, oltre venti secoli dopo, il culto di Che Guevara. Ma fu la sua capacità di emulare l’organizzazione dell’esercito romano, che conosceva dall’interno, a fargli tenere sotto scacco, fra il 73 e il 71 a. C., l’ «impero schiavista».
La passione di Marx per Spartaco avrebbe proiettato la sua ombra statuaria sull’ideologia e sulla lotta politica del ‘900. Nel Secolo Breve sarebbe diventato l’unico vero eroe del mondo antico. Al suo nome si ispireranno lo Spartakusbund di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, e la rivolta spartachista del ’19 sarà soffocata nel sangue dai Corpi Franchi di Berlino quasi come quella del 71 a. C. dalle legioni di Crasso.
A parte l’attualità del riferimento a Garibaldi, sembra però che oggi le parole inviate a Engels abbiano definitivamente perso autorità. Per Aldo Schiavone la vicenda di quello che per il marxismo novecentesco fu l’eroe fondatore della lotta di classe è antiepica, se pur implicitamente, fin nel sottotitolo: Le armi e l’uomo . «Arma virumque cano», «Canto le armi e l’uomo», è l’incipit dell’ Eneide , in cui Virgilio celebrò l’eroismo «d’ordine» del fondatore dell'impero di Roma. Schiavone, storico eminente del mondo antico, ex direttore dell’Istituto Gramsci, propone nel suo Spartaco la prima esplicita rottura della storiografia di impostazione marxista rispetto ai paradigmi di Marx. Demitizzando la vicenda di Spartaco, negando la sua qualità di eroe di classe, revocando alla sua impresa il carattere di «rivoluzione destinata a rovesciare le basi schiavistiche della società imperiale», sottolineandone invece il carattere di avventura personale che trova significato «solo all’interno dell’orizzonte della schiavitù romana, un limite da non oltrepassare», Schiavone perviene a una dichiarazione che ha la forma di un credo e la forza di un anatema: «Credo che la dilatazione arbitraria del paradigma delle classi e delle loro eventuali forme di coscienza, fino a farne una specie di chiave universale dell’interpretazione storica, è stata una delle forme peggiori di inquinamento della conoscenza del passato mai prodotte dalla cultura europea fra XIX e XX secolo».
Si sarebbe tentati di definire il suo saggio revisionista. Ma non lo è. In primo luogo perché la lettura dei processi economici e sociali della società industriale e dei suoi sistemi produttivi, contrapposti a quelli antichi, e dunque di quel «fatto grandioso e generativo della modernità stessa dell’Occidente» che è per Schiavone la lotta di classe, derivante dalla libera condizione operaia contrapposta a quella servile dello schiavo il cui valore-lavoro non è considerato tale nel ciclo economico, resta marxiana. E in secondo luogo perché ogni revisionismo è funzionale alla riproposizione di un assunto, reazionario o meno che sia. Mentre la ricerca di Schiavone su Spartaco è libera da appartenenze e la sua visione, o revisione, della vicenda cardine della lettura ideologica marxista dell’antichità ha una sola funzione: il ripristino della libertà di interpretazione; la riabilitazione del dubbio.
«Augustin Thierry aveva chiamato la storia narrazione; Guizot, analisi; io la chiamoresurrezione», scriveva Jean Michelet. Non è solo la storia antica, ma la storiografia sull’antichitàa risorgere dalle catene dell’ideologia, in questo libro dallo stile piano, depurato dalle gergalità della saggistica engagée , ma non per questo meno tenacemente avvinto al nocciolo duro dei suoi temi di interesse.
Cercando di eludere il magnetico ipnotismo dello sguardo del vincitore (che sempre scrive la storia, e tanto più quella di Spartaco, elaborata negli anni fra Cicerone e Augusto «in ambienti contigui ai gruppi dirigenti del vertice del potere»), Schiavone riapre con rigore istruttorio il frastagliato dossier delle fonti, attento a ogni minima smagliatura nella loro trama e alle tracce che può nascondere. Ne ricava un parallelo, se non un transfert, fra Spartaco e Annibale. E coglie il momento di trasformazione della ribellione servile in un grande progetto politico di sconfitta dei «padroni del mondo».
Se è vero che l’attualizzazione di Spartaco nel marxismo novecentesco aveva più di una forzatura, se è rischioso tracciare paralleli fra la contemporeaneità e un’antichità inesorabilmente aliena dalle nostre categorie sociali, economiche, antropologiche, se la psicologia di Spartaco e il suo «paesaggio interiore» di cavaliere trace dalle oscure risorse sciamaniche e dalle certe emotività dionisiache ci sono «completamente interdetti», è altrettanto vero che in filigrana, nella «mitizzazione epica» del personaggio-simbolo della lettura marxista dell’antichità, si legge un sincero, attuale disincanto, che fa del suo libro anche un manuale di sopravvivenza politica al presente.
Perché, di tutti gli esegeti del caso Spartaco, Schiavone è oggi probabilmente più vicino al più pessimista e più lucido, il «democratico» Sallustio. Che non a caso, nel commentare quella «rivoluzione», scrive: «Solo pochi vogliono la libertà, la maggior parte vuole padroni giusti».

l’Unità 19.3.11
I volti perfetti di Lotto
Preferiva i colori freddi, ma nei ritratti era un maestro insuperabile: una mostra a Roma
di Renato Barilli


Le romane Scuderie del Quirinale ci hanno abitutato a mostre perfette dedicate ai nostri maestri del passato, così è stato per Antonello da Messina e Giovanni Bellini, ora è la volta di Lorenzo Lotto (1480?-1556), con un passaggio di mano nella curatela da Mauro Lucco a Giovanni Villa, ma con la stessa capacità di far giungere tutto il trasportabile dei relativi artisti.
Per affrontare questo grande veneziano che si innesta sul tronco già stabilito dal Bellini, non conviene però insistere oltre misura su certe sue peculiarità caratteriali, che pure esistevano per sua stessa ammissione, come sempre è meglio rifarsi a un quadro stilistico, che nei primi decenni del Cinquecento vide un aspro scontro tra due concezioni di maniera moderna. L’una proveniva da Leonardo, con epicentro nella nozione di sfumato, ovvero nella scoperta che siamo immersi nell’atmosfera, pronta a corrodere i contorni, e proprio a Venezia questa linea trionfò lungo l’asse Giorgione-Tiziano. Ma c’era negli stessi anni una diversa concezione del moderno, sostenuta dal tedesco Albrecht Dürer, artista duro di nome e di fatto in quanto eslcudeva del tutto l’atmosfera dai suoi dipinti, e dunque i contorni lineari resistevano, incisivi, martellanti. Ebbene, il Lotto aderì a questa linea, e dunque il tonalismo di Tiziano, ovvero la mistura tra i colori naturali delle cose e l’effetto esercitato su di loro dall’atmosfera, non faceva per lui.
MADONNE, BAMBINI E SANTI
A questa carenza egli rimediava conferendo un sovrappiù di energia alle Madonne e Bambino e Santi, capaci di guizzi, di impennate, ma subito bloccati da una colorazione fredda, cristallina, proprio perché non intaccata dall’aria. Dominano quindi nelle sue pale le tinte che fanno pensare a quanto si ottiene oggi verniciando alla fiamma le carrozzerie, certi verdi smeraldo o rosa ciclamino, la gamma dell’artificio, una strada su cui il Lotto si trascina dietro i bresciani e bergamaschi sul tipo del Savoldo e del Moretto, anche perché respinto da Venezia, in cui Tiziano la fa da padrone, è costretto a farsi il nido in periferia. E proprio Bergamo gli fu propizia, negli anni venti, prima di andare a isolarsi nelle Marche e a morire a Loreto. Dovunque la maniera moderna nella versione leonardesca vincesse, la Roma di Giulio II, e beninteso la Serenissima, questo artista fermo nel coltivare un rito tedesco veniva respinto, emarginato, e non possiamo dare torto ai gusti del tempo, il progresso, allora stava proprio dall’altra parte. Ma questa stessa fedeltà ad Alberto Duro gli permise di ereditarne l’estrema perizia nei ritratti, in cui lo scontroso maestro veneziano fu maestro assoluto, fino a battere il rivale Tiziano. In mostra, si affermano implacabili i volti, i mezzi busti delle persone che ebbero la fortuna di posare per lui, venendo fissati con tratto implacabile, con piena aderenza ai tratti fisionomici, con una lucida ricognizione capace di estendersi anche agli oggetti che ciascuno di loro brandisce fieramente, a indicare la professione esercitata.

Corriere della era 19.3.11
Silvia Montefoschi, la psicanalista che seguì Fellini e la Ginzburg
di Marco Garzonio


È morta Silvia Montefoschi, la psicanalista che, in una cultura psicologica al maschile, s’è distinta come una delle voci più autorevoli, coraggiose e originali nell’elaborazione di modelli teorici, nella pratica terapeutica, nella formazione di professionisti. Era nata a Roma nel 1926 e lì si formò alla scuola di Ernest Bernhard, il medico che introdusse Jung in Italia, ebbe per pazienti Federico Fellini e Natalia Ginzburg e tenne rapporti con Bobi Bazlen, trai fondatori di Adelphi, grazie a cui si diffuse un sapere psicologico attento a miti, irrazionale, sapienza orientale, religiosità e autonomo verso il freudismo allora dominante. Trasferitasi a Milano, la Montefoschi rappresentò un punto di riferimento importante negli anni 70 e 80. I suoi libri, pubblicati da Feltrinelli nell’autorevole collana di Psichiatria e di psicologia clinica diretta da Gaetano Benedetti e Pier Francesco Galli, divennero un richiamo per una generazione di studiosi e di persone alla ricerca di sé e di un senso da dare alla vita nelle tensioni anche drammatiche d’un passaggio che fu epocale. Erano gli anni frutto del ’ 68, del femminismo, dei movimenti di liberazione a livello internazionale, di un marxismo che intercettava ancora le esigenze di cambiamento ma non riusciva a uscire da schematismi ideologici, di un post concilio che accendeva le speranze dei cristiani. Silvia Montefoschi seppe interpretare il momento storico con scelte di vita rigorose. Lasciò il rifugio delle istituzioni analitiche per essere più libera nell’elaborazione del suo pensiero. Tese gli sforzi a ridare funzione «sociale» alla psicanalisi riportandola al suo compito essenziale: consapevolezza e trasformazione interiore; la convinzione era che solo dai cambiamenti interiori si può immaginare che fiorisca una nuova pratica umanistica e sociale. Meta della Montefoschi fu operare perché l’uomo e la donna lavorassero a una continua presa di coscienza della realtà e dei condizionamenti, non solo per risolvere i propri problemi personali, ma per diventare individui responsabili, che, insieme ad altri, pongono mano al cambiamento delle relazioni intersoggettive, del collettivo, delle culture di riferimento. Di lei resta di grande attualità una incondizionata fiducia nella dialettica dei saperi, nel dialogo tra le persone, nella vita interiore arricchita dal lavoro con l’inconscio e i sogni, nell’autorealizzazione di se stessi come destino che accomuna uomini, generazioni, epoche.

Corriere della Sera 19.3.11
Il sabato della luna piena gigante


Dita incrociate perché stasera il cielo sia libero dalle nuvole: si prepara uno spettacolo da non perdere, con una Luna piena gigante. È un fenomeno molto diverso dalla «superluna» degli astrologi, portatrice di sventure e catastrofi, ma un evento astronomico nel quale ogni 19 anni la Luna raggiunge la distanza minima dalla Terra. Quest’anno a renderlo interessante è il fatto che la Luna, così vicina, sarà piena e raggiungerà il culmine a mezzanotte. «La Luna raggiungerà la stessa distanza minima dalla Terra che aveva raggiunto 19 anni fa» , spiega l’astronomo Luca Nobili, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf). Questo non significa che in 19 anni la Luna non si sia avvicinata alla Terra. «La Luna si è trovata ad una distanza ancora più piccola dalla Terra nel 2008, nel 2005 e nel 1993», rileva Gianluca Masi del Planetario di Roma.

venerdì 18 marzo 2011

Agi 18.3.11
Alla Fiera di Lipsia Istinto di morte e conoscenza in tedesco


(AGI) - Roma, 18 mar. - Domani sara' presentato alla Fiera del Libro di Lipsia e il giorno seguente sara' in libreria 'Todestrieb und Erkenntnis', la versione tedesca di 'Istinto di Morte e Conoscenza', il libro della 'teoria della nascita' scritto dallo psichiatra Massimo Fagioli quarant'anni fa, nel 1970. Lo si legge in una nota della casa editrice 'L'Asino d'oro' che di 'Istinto di Morte e Conoscenza' ha pubblicato nel 2010 una nuova edizione. 'Todestrieb und Erkennis', edito dallo storico marchio tedesco 'Stroemfeld Verlarg', e' stato curato da Anna Homberg, Cecilia Iannaco e Antonio Marinelli che domani, alla Fiera del Libro di Lipsia (17-20 marzo), la citta' che ha dato i natali a Nietzsche, Wagner, Bach e Leibniz, lo presenteranno insieme all'autore, lo psichiatra dell'Analisi Collettiva. Secondo uno dei traduttori, la psichiatra tedesca Homberg, il testo tedesco offrira' risposte ai tanti che in Germania fanno ancora i conti con l'orrendo fenomeno del nazismo: "le radici pulsionali dell'anaffettivita' scoperte da Fagioli potrebbero dare una risposta estremamente importante e innovativa alla loro domanda "come e' potuto accadere", evitando pero' ogni pessimismo su una natura umana sempre pensata come necessariamente malvagia ed aggressiva". E aggiunge, "in questi tempi in cui all'estero gli eventi italiani spesso suscitano stupore e ilarita', mi pare particolarmente indicato ricordare ai lettori della mia patria che in Italia si fanno anche ricerche scientifiche importantissime di cui questo libro coraggioso e' espressione fondamentale". (AGI) Red/Pat


l’Unità 18.3.11
«Resisteremo al raìs nemico della sua gente»
Parla un membro del Consiglio di transizione che riunisce le opposizioni: al mondo chiediamo solo di togliere al Colonnello la supremazia aerea
di U. D. G.


Messaggio da Bengasi assediata: «Li stiamo aspettando e non molliamo, stiamo cercando con tutti i mezzi a nostra disposizione di impedire il sorvolo basso dei bombardieri...Siamo già riusciti ad abbattere due aerei di Gheddafi...». A parlare è Ibrahim Al Agha, membro del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), l'organismo che riunisce tutte le forze libiche anti-Gheddafi. Riusciamo a entrare in contatto telefonico con Al Agha dopo che la tv di Stato libica aveva annunciato la conquista di Misurata da parte delle forze lealiste. Al Agha invita a diffidare dei proclami della propaganda del regime: «Non vi meravigliate di sentire fra poco che le truppe del Colonnello hanno occupato Parigi e Londra, questi sono professionisti della menzogna». «Cos'altro aspetta la Comunità internazionale, gli Stati Uniti, l'Europa per impedire che gli aerei di Gheddafi continuino a bombardare e a spostare nel Paese armi e mercenari? dice a l'Unità Al Agha -. Noi resisteremo fino all'ultimo uomo, non ci arrenderemo mai al criminale che ha dichiarato guerra al popolo. Ma Gheddafi ha ordinato ai suoi miliziani di eliminare tutti quelli che ritengono essere “complici” degli insorti, anche se i “complici” sono donne e bambini... Al mondo ripetiamo: non saranno le parole a fermare un criminale di guerra di nome Muammar Gheddafi».
La tv di Stato ha appena annunciato la conquista di Misurata e l'attacco finale a Bengasi: in 48 ore tutto sarà finito, ha proclamato il figlio di Gheddafi, Saif al Islam...
«Non date retta ai professionisti della menzogna...A Misurata si continua a combattere mentre qui a Bengasi il morale è alto...Li stiamo aspettando e non molliamo. Non è vero che le truppe governative sono alle porte di Bengasi. Si trovano ancora nei pressi di Ajdabiya, a 200 chilometri da qui. E ad Ajdabiya la resistenza è accanita».
Sempre la tv di Stato ha annunciato bombardamenti aerei sull'aeroporto di Bengasi. Può confermarlo? «Ci sono stati alcuni raid a cui abbiamo risposto con la contraerea...Siamo riusciti ad abbattere due aerei di Gheddafi. Al figlio del tiranno dico: vieni a prenderci se ne hai il coraggio...».
Mentre parliamo, il Consiglio di Sicurezza deve ancora decidere sulla «no fly zone». Cè ottimismo sul via libera...
«Da giorni chiediamo un'azione internazionale che indebolisca la forza militare, soprattutto aerea, di Gheddafi. La gente che si è ribellata al regime si sente abbandonata, tradita...Soprattutto da chi ha la forza per agire e sin qui non lo ha fatto...». A chi si riferisce in particolare?
«Al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Lui ha giustamente esaltato le masse che in Tunisia ed Egitto si sono rivoltate contro regimi dispotici e corrotti, rivendicando libertà e diritti. Ed è quello che chiediamo anche noi: libertà e diritti; è per realizzarli che stiamo combattendo. Obama ha usato parole durissime contro Gheddafi. Ma non saranno le parole a fermare i bombardamenti, a impedire altri massacri. Noi non vogliamo soldati stranieri in Libia. Saranno i libici a sconfiggere il dittatore. Chiediamo che gli sia impedito di avere la supremazia aerea. A Obama, come ai leader europei, al mondo libero chiediamo di essere coerenti con quanto affermato. Non c'è altro tempo da perdere. Se vince Gheddafi non solo saranno cancellate nel sangue le speranze di fare della Libia un Paese libero, democratico, pluralista, ma ad essere rafforzati saranno tutti quei dittatori che nel mondo, non solo in quello arabo, si sentiranno incoraggiati a seguire la strada di Gheddafi nel reprimere nel sangue ogni rivolta. Questa è la posta in gioco. Libertà o dittatura. Noi abbiamo scelto. Non lasciateci soli. Gheddafi è una minaccia per tutti. Anche per l’Italia».

l’Unità 18.3.11
Sorelle Mai
Verità e finzione di famiglia
di Alberto Crespi


Può non apparire evidente, guardando i film, ma è dai tempi dei Pugni in tasca il suo clamoroso esordio, nel 1965 che Marco Bellocchio usa il cinema per raccontarci in filigrana la propria vita. Non si tratta di un’autobiografia diretta: è troppo esperto di psicologia, Bellocchio, per non sapere che la verità si nasconde sempre dietro molteplici filtri. Per altro il tempo ha fatto bene a questo artista, che da diversi anni attraversa una fase creativa particolarmente felice: pensate a L’ora di religione, a Buongiorno notte, a quel capolavoro indiscusso che è Vincere. Quindi anche l’autobiografia, per quanto indiretta, ha raggiunto toni sereni e ironici che ai tempi dei Pugni in tasca sarebbero stati impensabili. Sorelle Mai ne è la prova.
Il «Mai» scritto con la maiuscola non è un refuso. Nel film Mai è il cognome della famiglia che vive, fra alti e bassi economici e psicologici, nel vecchio palazzo dove già Bellocchio girò I pugni in tasca (che giustamente viene, a un certo punto, evocato). Ma le due sorelle Mai, anziane zie della protagonista Sara, hanno il volto e la voce di Letizia e Maria Luisa Bellocchio, autentiche sorelle dell’autore che da anni compaiono con piccoli ruoli nei suoi film. Crediamo che su di loro nessuno potrebbe parlare meglio, e con maggior cognizione, dello stesso Bellocchio: «Nella mia storia giovanile c’è stata la ribellione e il coraggio del distacco, che non ha lasciato in me rimpianti o sensi di colpa, se non l’inevitabile confronto tra il mio destino e quelle delle mie sorelle che sono rimaste in paese. Senza aver avuto la possibilità di una vita autonoma (nel senso che sono sempre state scoraggiate ad averla), sono rimaste sempre in casa come certe signorine dell’Ottocento, in un mondo gozzaniano o pascoliano, o cechoviano». Trasformarle, nel film, da sorelle Bellocchio in sorelle Mai è anche un sottile gioco di parole che sembra confermare in modo «soft», a distanza di 45 anni, il rifiuto radicale della famiglia borghese sul quale era costruito I pugni in tasca. Ma c’è anche tanto affetto.
Fosse solo un ritratto di famiglia, Sorelle Mai sarebbe una cosa a metà fra un home-movie e un documentario. Ma la memoria personale si incrocia, nel film, con un’attività pubblica. Da anni Bellocchio dirige a Bobbio, il suo paese natale in provincia di Piacenza, il laboratorio di regia Fare Cinema. Nell’arco di una decina d’anni, con attori amici e complici, Bellocchio ha svolto un lavoro di sperimentazione drammaturgia che ha fatto felicemente confluire nel film. Ecco dunque che le «vere» sorelle interagiscono con personaggi di finzione: Sara, loro nipote (Donatella Finocchiaro), è un’aspirante attrice trasferitasi a Milano; sua figlia Elena, che nel film cresce da 4 a 14 anni, vive al paesello con le zie (è Elena Bellocchio, vera figlia di Marco); il fratello di Sara, Giorgio, va e viene, sempre incerto sul futuro proprio e della nipote (e qui l’attore è Pier Giorgio Bellocchio, il figlio più grande di Marco, figura ricorrente del suo cinema). Ospite nella casa avita c’è anche una giovane professoressa di liceo interpretata da Alba Rohrwacher. Il suo pezzo viene dai laboratori di Fare Cinema ed è come un piccolo film nel film, che sposta momentaneamente l’attenzione e lascia la voglia di saperne di più: come se Marco dovesse prima o poi farlo, un film sul mondo della scuola...
Forse vi siete persi, in questo labirinto di «vero o falso» nel quale Sorelle Mai trascina lo spettatore. Ma sappiate che al cinema non vi perderete. Ha del miracoloso il modo in cui Bellocchio mescola realtà e finzione, vita vissuta e vita ricostruita, scardinando definitivamente l’artificiale distinzione fra documentario e film narrativo. Lo aveva già fatto in Vincere, dove i filmati di repertorio diventavano il vero e proprio inconscio di Mussolini e degli altri personaggi. Qui si ripete in modo più discreto, meno «urlato», forse addirittura più affascinante. E altrettanto geniale.

Repubblica Bologna 18.3.11
"Racconto la prigionia delle mie Sorelle Mai"
Il regista questa sera al Rialto presenta il suo ultimo film con episodi molto autobiografici
di Emanuela Giampaoli


«Ho accettato l´idea di tenere il laboratorio di regia Fare Cinema, a Bobbio, nel piacentino, mettendo dentro all´esperienza qualcosa di personale che mi consentisse un atteggiamento non teorico ma di partecipazione e personale divertimento. Si vede infatti nel film una bambina, mia figlia, crescere dai quattro ai quattordici anni».
Così il regista Marco Bellocchio che, questa sera alle 22.30 sarà al Rialto (alle 20 sarà invece al cinema D´Azeglio di Parma) per presentare «Sorelle Mai», da oggi nelle sale, spiega la genesi della sua ultima opera proiettata fuori concorso al Festival di Venezia 2010.
Una pellicola che, a metà strada tra finzione e documentario, tra saggio scolastico e sperimentazione, tra verità e messa in scena, nasce dai seminari che il regista di «Vincere» e de «I pugni in tasca» tiene tutte le estati da dieci anni ma poi diventa quasi un filmino familiare, anche se molto sui generis.
Sei gli episodi, fortemente autobiografici, girati tra il `99 e il 2008 intorno alla dimora dei Bellocchio nella campagna piacentina e alle due sorelle di Marco, Letizia e Marisa, che lì abitano da sempre.
«Mai è un cognome di fantasia - svela il regista - ma allude anche a quella trappola che per le due sorelle è stata la famiglia. Senza aver avuto la possibilità di una vita autonoma, sono rimaste sempre in casa come certe signorine dell´Ottocento, in un mondo gozzaniano o pascoliano, o cecoviano. Io che sono più giovane non ho responsabilità oggettive di questa loro "prigionia", ma sento ugualmente una certa tristezza per la loro vita di confortevoli rinunce».
Intorno a loro ci sono il nipote Giorgio (Pier Giorgio Bellocchio) che inquieto viene e va, la piccola Elena che cresce (Elena Bellocchio) e Sara, sorella di Giorgio (Donatella Finocchiaro), che fa l´attrice a Milano. Tutto in quello stesso luogo dove 45 anni fa si era svolto il dramma de «I pugni in tasca», diventato il manifesto della ribellione contro l´istituto familiare.
Ma Bellocchio avverte: «Ho inserito dei piccoli frammenti de «I pugni in tasca» non per una citazione intellettualistica, ma perché essendo gli stessi luoghi, gli stessi ambienti, mi piaceva inabissare improvvisamente e rapidamente la storia di «Sorelle Mai» in un´altra lontanissima nel tempo. Vissuta e rappresentata cinquant´anni prima. La casa del mio primo film da allora non è molto cambiata. Ma, almeno per me, non è più popolata di fantasmi». Altri interpreti di "Sorelle Mai" Donatella Finocchiaro, Alba Rohrwacher, Gianni Schicchi, Silvia Ferretti. 

Repubblica 18.3.11
Chi ha paura della Filosofia?
Così l´Ungheria criminalizza gli intellettuali
di Ágnes Heller


L´obiettivo è quello dell´intimidazione: farti tacere educatamente se non vuoi essere denunciato
Sono stata tacciata di essere una pensatrice "liberale" che nel loro lessico è sinonimo di "antipatriottico"
La Heller, celebre studiosa, racconta la campagna di diffamazione che il governo di Budapest ha organizzato contro di lei e altri suoi colleghi

Dall´Illuminismo in poi, scrittori, teatranti, musicisti e redattori e cronisti dei giornali di qualità si sono fatti carico delle responsabilità che derivano dalla libertà di opinione. In altre parole, i loro pensieri e le loro convinzioni hanno cominciato a essere dettati dalla propria coscienza e dalla propria ragione, e non più dai loro signori e maestri. Nel campo della filosofia, invece, la riflessione indipendente è da sempre una delle "malattie professionali" del filosofo, ma l´Illuminismo ha esteso questo morbo a tutti coloro che successivamente sono stati designati con il termine di "intellettuali".
Gli intellettuali critici ebbero il loro momento di gloria sotto le dittature. Furono loro a incarnare l´idra a sette teste in rivolta contro la tirannia. E se una delle teste cadeva, per corruzione, assassinio, invio in campi di internamento o di sterminio, o ancora per esilio forzato o incarcerazione, altre spuntavano a prendere il loro posto. Un drago che si è dimostrato invincibile.
Con l´arrivo della democrazia, finisce l´eroismo! Ma il coraggio civico resta sempre di attualità. È questione di investire tempo ed energia, di rifiutare le promozioni facili per mantenere desto lo spirito critico. È la tensione che scaturisce dal dibattito, lo scambio incessante di argomentazioni e controargomentazioni che alimentano la dinamica della società moderna
Per anni ho creduto che la filosofia fosse diventata una disciplina universitaria come le altre, una professione che si occupava del proprio passato e dalla museificazione della sua storia, che interessava soltanto i suoi rappresentanti. La funzione critica che tradizionalmente svolgeva ormai veniva assolta dai vari media.
E poi, la sorpresa. Il nuovo Governo ungherese, appena entrato in carica, ha lanciato una campagna di diffamazione contro i filosofi ungheresi, e attraverso di loro contro tutta la filosofa critica, sottoposta ad attacchi in serie lanciati simultaneamente da tre quotidiani e tre reti televisive. La campagna è durata quasi due mesi, insistendo sempre sulle stesse accuse, asserzioni stucchevoli e reiterate da tempo smentite. L´accusa, ripetuta fino alla nausea, era che «la banda Heller», con mezzi sospetti e con il pretesto di lavori di ricerca, aveva rubato, sottratto mezzo miliardo di fiorini (quasi 2 milioni di euro).
Di che si trattava? Su un centinaio di progetti sono sei quelli sotto accusa. Le cifre destinate ai vari lavori in questione (ricerca, traduzione, curatela di opere…) sono state sommate, e una persona è stata additata come capro espiatorio. Perché proprio io, che su sei direttori di progetto non ho mai percepito un centesimo? Gli accusatori non hanno fatto mistero delle loro ragioni. Sono stata tacciata di «filosofa liberale», e «liberale», nel lessico del Governo attuale, è sinonimo di «opposizione», «diabolico», «antipatriottico». Questi sei bersagli selezionati sono stati scelti perché rappresentano il gruppo ideale per criminalizzare tutti coloro che mettono in discussione la politica del Governo ungherese, in particolare la recentissima legge sui mezzi di informazione.
Quali sono gli obbiettivi politici di questa criminalizzazione? Tanto per cominciare l´intimidazione degli intellettuali critici, in particolare dei filosofi. Costringerli a stare sul chi vive, indurli a tacere educatamente se non vogliono essere denunciati e trattati come vengono trattati i criminali comuni.
Inoltre, questa campagna consente di criminalizzare anche numerosi esponenti del Governo precedente e l´ex primo ministro social-liberale. In generale sulla base del pretesto che in questi ultimi dieci anni l´indebitamento dell´Ungheria ha raggiunto un livello preoccupante. Questo fatto, che è una questione di politica economica, ora viene presentato come un atto criminale, come se la precedente dirigenza si fosse intascata milioni di euro.
Assistiamo a un Kulturkampf, a un´offensiva del potere contro gli intellettuali. La maggior parte delle personalità di rilievo dell´élite culturale è stata «eliminata». È il caso, ad esempio, del direttore artistico e direttore d´orchestra dell´Opera di Budapest Adam Fischer, famoso a livello mondiale, o ancora del direttore del Balletto e di un gran numero di direttori di teatro, di redattori televisivi, di presentatori, di opinionisti, di giornalisti. Ed è in questo contesto che si inserisce l´attacco contro i filosofi.
Abusando della sua maggioranza parlamentare di due terzi, questo Governo di destra che si proclama «rivoluzionario» ha fatto approvare una legge sui mezzi di informazione gravemente in contraddizione con lo spirito democratico europeo. È stata creata una commissione ad hoc, composta unicamente da esponenti del partito di maggioranza, con la missione di controllare e definire sanzioni nei confronti dei media, inclusa la carta stampata (fino ad ora, la competenza per giudicare un reato mediatico – che si trattasse di diffamazione o di altro – spettava a un tribunale indipendente).
Quando molti deputati europei sono insorti contro questa grave violazione della libertà di stampa, il capo del Governo, Viktor Orbán, se l´è presa con gli intellettuali critici (i famosi «liberali»), accusati di aver pugnalato alla schiena il Governo legittimo del loro Paese, di essere dei nemici della patria, attribuendo a loro la responsabilità del fatto che l´Unione Europea non abbia apprezzato a dovere la particolarità di questo hungaricum, come chiamiamo noi le specialità magiare. Questo non lo nego, e mi dichiaro colpevole, come tantissimi altri colleghi. Ma la stampa europea non ha avuto bisogno di noi per lanciare l´allarme, perché la limitazione della libertà di stampa si può propagare come una malattia contagiosa, e bisogna fermarla fin dal manifestarsi dei primi sintomi.
Tuttavia, il Governo è ricorso a ogni genere di riforme per mettere alla prova i nervi degli intellettuali, sensibili al rispetto dei diritti. Ad esempio, eliminando metodicamente i contrappesi istituzionali, concentrando i poteri, nazionalizzando i contributi versati alle casse pensionistiche private, limitando l´indipendenza della Banca centrale, introducendo e applicando leggi a effetto retroattivo e altre misure ancora. Gli economisti e i politologi «liberali» si ritrovano in questo caso alleati dei filosofi.
Un motivo di soddisfazione però c´è, in tutta questa triste faccenda. La solidarietà che ci è stata manifestata dai filosofi del mondo intero, e dagli intellettuali e dai liberi pensatori in genere, ci riconforta. L´eco è stato più ampio di quello che ci si sarebbe potuti immaginare. Petizioni e lettere di protesta sono affluite dai quattro angoli del pianeta, da tutti i Paesi d´Europa. Ovunque, la stampa si è mobilitata.
Sembra finalmente che la libertà di espressione, la libertà di opinione, la libertà di pensiero siano concetti che non conoscono confini. E che anche la filosofia, alla fine, non sia diventata un vecchio leone sdentato.
(Traduzione di Fabio Galimberti) Le Monde 14 mars 2011

il Fatto 18.3.11
Beltrandi, se c’è lui Berlusconi sta tranquillo
di Paola Zanca


La sua ossessione, da buon radicale, si chiama par condicio. E per difenderla è riuscito perfino a cadere nel trappolone che portò alla sospensione dei talk show prima delle regionali del 2010. A un anno di distanza, Marco Beltrandi, 42 anni da Bologna, è tornato a far parlare di sé. Mercoledì, a Montecitorio ha votato contro la mozione Franceschini che chiedeva l’accorpamento delle amministrative con i referendum su acqua, nucleare e legittimo impedimento. Un voto pesante, che, insieme alle assenze tra le fila dell’opposizione, ha fatto perdere la possibilità di mandare sotto il governo su una questione così importante. Una scheggia impazzita , che nessuno, nemmeno i suoi compagni di squadra sono riusciti a fermare. Lunedì, raccontano, ha annunciato il suo voto contrario in una riunione-fiume nella sede di via di Torre Argentina. Ancora ieri ribadiva la sua coerenza: “I miei compagni radicali lo sanno: io sono ferocemente contrario all’abbinamento amministrative e referendum. Lo ritengo un escamotage per raggiungere il quorum”. Non sia mai. Hanno riprovato a convincerlo due giorni dopo, durante il voto. Quando sul pannello delle votazioni elettroniche si è accesa la lucina rossa in alto a sinistra dell’emiciclo, i compagni di banco hanno urlato: “Cambia, cambia!”. Avrebbe fatto in tempo, la votazione è rimasta aperta a lungo. Invece no, ha preferito restare sulla sua posizione e farsi processare da tutto il Pd in Transatlantico.
D’ALTRONDE, controcorrente Beltrandi lo è. Sono passati i tempi, era l’ultima legislatura Prodi, lo ricordano disciplinato vicepresidente in commissione Trasporti. Da quando è finito nella Vigilanza Rai si è fatto riconoscere eccome.
È il marzo di quattro anni fa quando vota insieme a Storace una risoluzione contro Lucia Annunziata, colpevole di non invitare ospiti di centro-destra a In mezz'ora. La stagione della Annunziata è ancora a metà, in studio da lei c’è già stato Fini, c’è stato Tremonti. Per questo il capogruppo dell’Ulivo Fabrizio Morri bollò come “grave” il comportamento di Beltrandi, lui fece spallucce: “Grave – disse – è che il centrosinistra non rispetti i principi stabiliti dalla legge di pluralismo”. Un anno dopo è la volta dell’elezione del presidente della commissione di Vigilanza. Al termine di una querelle durata sei mesi , il Pd Riccardo Villari viene eletto con i voti del centrodestra. I democratici lo cacciano dal partito, i commissari, pur di mandarlo via, si dimettono in massa. Beltrandi e il collega Mpa Luciano Sardelli sono gli unici due a rimanere al loro posto e a invitare Villari a non andarsene. Servirà l’intervento dei presidenti delle Camere Fini e Schifani per sbloccare la situazione: revoca degli incarichi a tutti, si riparte da zero.
ORA A CAPO della Vigilanza Rai c’è Sergio Zavoli, e Beltrandi è rimasto il battitore libero di un tempo. È suo – siamo a febbraio del 2010 – il testo del regolamento per la campagna elettorale che prevede nell’ultimo mese solo tribune elettorali. Lo votarono Pdl, Lega e Udc. Il dirigente radicale era convinto di ottenere spazio sulla tv pubblica anche per il suo partito (“Avremo per la prima volta negli spazi più ambìti del palinsesto Rai una vera par condicio”), finì con un colossale bavaglio: la sospensione di tutti i programmi di approfondimento per quattro settimane.
Ora il referendum. Pur di evitare “gli escamotage per raggiungere il quorum” Beltrandi ha deciso che i cittadini italiani dovranno tornare due volte alle urne, a fine maggio e il 12 giugno. Lui insiste: “Il mio dissenso è politico, figuriamoci se intendo passare in maggioranza”. Ma c’è chi maliziosamente ricorda i numerosi incontri del leader Marco Pannella con Silvio Berlusconi, alla vigilia della riforma “epocale” della Giustizia, tema assai caro ai Radicali stessi. In verità, lo stesso Pannella ha definito il voto di Beltrandi “politicamente errato”. Altri maligni erano già andati oltre: “Beltrandi? Non è così intelligente da aver votato contro per fare un favore a Berlusconi”.

Corriere della Sera 18.3.11
La casa popolare della Polverini «A 130 euro al mese»
Sull’Aventino per 15 anni per 5 stanze
di Paolo Foschi


ROMA— Anche Renata Polverini finisce al centro di «affittopoli» . La governatrice del Lazio proprio l’altro ieri aveva istituito una «commissione ispettiva» sull’Ater (l’azienda dell’edilizia popolare) di Roma. Obiettivo: fare luce su eventuali abusi e favoritismi nei contratti di affitto e di vendita delle case pubbliche. Da settimane il centrodestra accusa la vecchia giunta Veltroni di aver svenduto case ad amici e amici di amici. Ma ieri, appena 24 ore dopo l’annuncio della linea dura, Renata Polverini si è ritrovata a sua volta sotto accusa. Tirata in ballo da un’inchiesta pubblicata sul sito Internet de l’Espresso. Secondo la ricostruzione del settimanale (suffragata da certificati anagrafici), l’ex sindacalista per 15 anni, fino al 2004, ha avuto la propria residenza insieme al marito Massimo Cavicchioli in una casa dell’Ater in via Bramante, all’Aventino, quartiere extra lusso, usufruendo di un canone ultra-popolare: circa 130 euro al mese per 4 vani più bagno e cucina. E ancora oggi, sostiene il giornale, Cavicchioli risulta residente nell’appartamento. Renata Polverini, cercata tramite la propria portavoce, ha preferito non commentare: «Domani (oggi per chi legge, ndr) forse parlerà di questa storia» . La governatrice -secondo la ricostruzione de l’Espresso -dal settembre del 2004 abita e ha la propria residenza in un elegante appartamento a San Saba, altra zona extra lusso in pieno centro della Capitale. Si tratta di una casa acquistata nel 2002 dallo Ior: nove stanze, due box e tre balconi, pagata appena 272 mila euro (somma con la quale all’epoca a Roma si acquistavano sul mercato al massimo 70-75 metri fuori dal centro). E sempre nello stesso stabile aveva poi comprato nel 2004, quando ancora era residente nella casa Ater, un altro appartamento gemello, stavolta a 666 mila euro (valore sempre di molto inferiore rispetto ai prezzi di mercato), di proprietà di una società in affari con la Santa sede. Non solo. Da inquilina delle case popolari, ricostruisce il settimanale, Renata Polverini, mentre stava scalando i vertici del sindacato Ugl fino a diventarne leader, dal 2001 era stata protagonista di una girandola di compravendite immobiliari (compreso un appartamento al Torrino ex Inpdap acquistato alle condizioni riservate agli inquilini, anche se lei non lo era), cessioni e donazioni con un vorticoso giro di centinaia di migliaia di euro. Insomma un tenore di vita ben diverso da quello che si richiede come requisito per usufruire dei canoni agevolati delle abitazioni popolari riservate a persone con redditi bassi e senza casa. Ancora oggi sul citofono della casa di via Bramante si leggono tre cognomi: Polverini R.-Cavicchioli M. -Berardi (è la famiglia della suocera defunta della governatrice). «Non abitano più qui da tempo» , dicono però gli altri inquilini. L’appartamento, a quanto pare, è vuoto. «Se le notizie riportate dall’Espresso fossero confermate, sarebbero molto gravi. Ci auguriamo che Renata Polverini faccia chiarezza al più presto» , è il commento di Vincenzo Maruccio, dell’Italia dei Valori.

Repubblica 18.3.11
Il segretario della Cgil: redistribuzione senza gravare sui Bot
Camusso: "Aiuti fiscali ai redditi bassi e tasse sui patrimoni oltre 800mila euro"


ROMA Di crisi, ripresa e lavoro non se ne parla quasi più, ma il 2011 rischia di essere un anno in cui le condizioni del paese possono peggiorare ulteriormente. Per questo serve un governo responsabile, che intervenga anche partendo dalle tasse. Susanna Camusso, leader della Cgil, ha in proposito un´idea precisa, raccontata ieri a RepubblicaTv intervistata dal vicedirettore di Repubblica Massimo Giannini.
Berlusconi sta cercando di convincere Tremonti ad avviare una riforma fiscale, lei è d´accordo?
«Da tempo diciamo che è necessaria, ovviamente bisogna vedere di che riforma si tratta».
Il premier dice che la sinistra vuole la patrimoniale, è così?
«Non mi risulta che sia così. Per quanto riguarda la Cgil sicuramente sì: siamo convinti che vada introdotta una patrimoniale sopra gli 800 mila euro».
Tassando i Bot?
«No, non bisogna pensare ai bassi redditi o a chi si è comprato casa con venti anni di mutuo. Bisogna invece pensare a chi ha tante ville e grandi patrimoni, all´aumento della tassazione sulle rendite finanziare, al fatto che le stock option devono essere trattate come il reddito da lavoro. Serve una riforma fiscale che ridistribuisca risorse verso il basso, ai dipendenti, pensionati e redditi bassi. E che le tolga alla rendita per darle alla produzione delle imprese».
Del federalismo fiscale cosa ne pensa?
«Che così com´è contiene in sé due ingiustizie: affida più competenze a comuni e regioni, ma sottrae loro risorse mettendo in difficoltà le amministrazioni. In più l´aumento delle addizionali e l´aumento del costo dei servizi colpiranno ancora una volta lavoratori dipendenti e pensionati. Chi dichiara tutto il reddito e non evade».
Da parte del sindacato la risposta a tutto questo può continuare ad essere lo sciopero generale? Cgil ne ha in programma uno il 6 maggio.
«Lo sciopero non basta, ma va fatto. Di fronte alla situazione attuale ci sono troppi silenzi e poche assunzioni di responsabilità. Se le cose non vanno bene bisogna dirlo, lo sciopero è lo strumento che ha il sindacato per farlo. Il tema di questa manifestazione sarà proprio la mancanza di responsabilità della classe dirigente: se si cominciasse a discutere pubblicamente su cosa fare, come intervenire, noi non saremmo costretti a scioperare».
Qual è lo stato dell´arte dei rapporti fra Cgil, Cisl e Uil?
«Sappiamo che i lavoratori hanno bisogno di unità e abbiamo fatto una proposta: ridiamoci delle regole e coinvolgiamo i lavoratori quando siamo in dissenso. Ma forse a qualche sindacato pare più utile ottenere il riconoscimento del governo che provare a determinare un cambiamento».