sabato 4 aprile 2009

l’Unità 4.4.09
La piazza d’Italia
In piazza perché la crisi non si paga con i diritti
di Felicia Masocco

La Cgil è in campo perché la sicurezza sul lavoro, lo sciopero, la contrattazione e le tutele per chi è in difficoltà sono diritti da non perdere o da conquistare. E perché la crisi non si risolve da sola: il governo cambi rotta.

Impegno e passione A Roma oggi sfila il Paese che non si arrende, che lotta per il lavoro, per un futuro migliore. Arrivano da tutt’Italia, con l’impegno di chi non vuole tornare indietro e la passione di chi vuol continuare sulla strada della democrazia e dei diritti con il sindacato

In tanti oggi con il sindacato di Corso d’Italia per chiedere al governo risposte «vere» alla crisi
È la reazione di chi non cede all’esasperazione ma non ripiega nella rassegnazione

C’è chi sequestra manager e dirigenti e chi si rassegna, la crisi rafforza gli eccessi. Manifestare può essere una terza via quando si chiede un cambiamento, e oggi la Cgil manifesta. È la risposta al governo che spinge all’arte dell’arrangiarsi, che dice ai giovani precari di trovarsi lavoretti, ai cassintegrati di darsi da fare, agli anziani di mettersi in fila per la social card. A un governo che ribatte alle previsioni preoccupanti sull’economia tacciando di allarmismo analisti e centri studi. La Cgil va in piazza perché pensa che contro la crisi si può e si deve fare di più, che i soldi per intervenire si trovano se si vuole. E perché è convinta che lasciando fare, il governo stia scaricando la crisi su «terzi» se è vero, com’è vero, che cessa la produzione nelle fabbriche, che chiudono i negozi, che si lasciano a casa i precari degli uffici pubblici, ci si rifugia nel lavoro nero e si fanno sacrifici.
STARE UNITI
Molti di loro oggi sono in piazza, «per stare uniti», dice Guglielmo Epifani, quando invece si vorrebbe attecchisse la solitudine e, appunto, quell’arte di arrangiarsi dopodiché i più forti galleggiano, i più deboli no «i più deboli hanno bisogno di stare uniti». Altrimenti la coesione sociale se ne va in fumo come ha ricordato, allarmata pure lei, l’Unione Europea solo pochi giorni fa.
Della manifestazione di oggi si parlò per la prima volta il 21 gennaio, alla vigilia di un vertice a Palazzo Chigi tra governo, sindacati e imprese per discutere come affrontare il difficile momento economico. Il sindacato di Corso d’Italia avrebbe presentato le sue proposte, su fisco, ammortizzatori sociali, investimenti, occupazione «senza risposte - disse - ci faremo sentire». In quel vertice non si parlò di crisi, ma a sorpresa venne firmato l’accordo sulla riforma del modello contrattuale. Nuove regole che, era noto, la Cgil non condivideva. Gettata la maschera, il governo aveva replicato lo schema del divide et impera già applicato con il Patto per l’Italia. Il fronte sindacale, che già aveva mostrato qualche crepa, ne uscì in frantumi che tuttora si fa fatica a ricomporre.
Alla piattaforma della manifestazione si sono così aggiunti nuovi argomenti, la difesa della contrattazione ad esempio, che quell’accordo riduce tanto al primo che al secondo livello, e il ruolo stesso del sindacato che ne esce snaturato dal combinato “meno contrattazione più enti bilaterali”. E poi la difesa dei diritti, quello allo sciopero, alla sicurezza sul lavoro, e dei valori, la difesa della Costituzione. Fino all’opposizione a norme odiose che impongono ai medici di denunciare i migranti. Per non parlare della scuola. «Se oggi si perdono diritti e valori - ripete il segretario della Cgil - sarà difficile riconquistarli passata la crisi».
CENTRODESTRA NO LABOUR
Oggi al Circo Massimo saranno in tanti, ma il confronto con la folla del 23 marzo del 2002 sarà inevitabile. Anche allora la Cgil manifestò da sola, ma in un contesto diverso. La «presa» dell’articolo 18 sull’opinione pubblica era forte, il governo allora aveva un altra strategia: ora è sempre no labour, ma agisce in modo più subdolo, smantella la stabilizzazione nei call center, riscrive il testo unico sulla sicurezza, cancella la tracciabilità dei pagamenti rendendo più ardua la lotta all’evasione fiscale. Ma si guarda bene dal toccare argomenti roventi, come i licenziamenti facili, appunto. In più oggi le fabbriche sono chiuse, il precariato individualizza, c’è paura e sfiducia.
In Francia, in Inghilterra i governi si danno più da fare eppure i sindacati sono scesi in piazza uniti per chiedere di più. In Italia lo fa la Cgil. L’alternativa è sequestrare i manager o rassegnarsi.

l’Unità 4.4.09
Da Barcellona a Varsavia sale l’onda della protesta
di Gianni Marsili

Nell’Europa della crisi il malessere sociale serpeggia ovunque, a volte esplode. Proteste individuali, di piccoli gruppi, o grandi mobilitazioni sindacali segnalano l’allarme per una situazione incadescente.

La “sindrome francese”, la xenofobia operaia scozzese, la cattiveria della crisi all’est, che da Varsavia a Sofia cavalcava felice la sua rivoluzione liberale. Sprazzi vividi di lotta di classe, sussulti di rivolte popolari, ovvero come l’Europa si ammala di recessione economica e sociale. Non dappertutto, non negli stessi modi. Ma il malessere serpeggia, a volte esplode. I sindacati non sempre controllano e dirigono, anzi. Gli episodi più spettacolari avvengono là dove il sindacato è più debole e poco rappresentativo. Come in Francia, dove da più di due secoli si occupa la piazza più facilmente che altrove. Oggi si occupano anche i tg, sequestrando manager, bersagliandoli di uova, facendo aleggiare sulle teste la minaccia di una giustizia sommaria.
COMPENSI D’ORO
Requisire un manager e tenerlo sotto chiave per una e anche più notti non è una novità: qua e là in Francia si è sempre fatto, e i prefetti hanno sempre vegliato a riportare le cose sui binari del negoziato. Ma oggi c’è la recessione ad esasperare gli animi, piovono i licenziamenti e capita che un direttore di produzione di provincia paghi per i cocci rotti a Parigi da qualche banchiere che la crisi arricchisce, anziché sanzionare. Gli operai s’incazzano, e i francesi sono con loro, mossi dall’indignazione che gronda ogni volta che si tradisce la divisa nazionale, liberté, egalité, fraternité.
I sindacati lo sanno, e praticano la manifestazione come “principio di precauzione sociale”. È accaduto il 29 gennaio, è accaduto il 19 marzo, milioni di persone nelle strade “per i salari e l’occupazione”. Cgt, Fo, Cfdt non hanno abbastanza tesserati da poter pesare senza forti mobilitazioni pubbliche: nel settore pubblico non arrivano al 10 per cento, nel privato neanche al 5. Vengono ricevuti all’Eliseo sull’onda di queste mobilitazioni, né prima né dopo. Le grandi “manif” devono appunto compensare questo deficit di militanza: a volte ci riescono, altre no. Stavolta, più di altre, manca il relais politico: Sarkozy è abile, il Ps inconsistente. Sarkozy invita all’unità contro i morsi della crisi, denuncia i padroni fedifraghi, fino a Londra al G20 davanti ad Obama e gli altri. E’ notoriamente l’amico dei grandi padroni del paese, appena arrivato all’Eliseo li ha premiati fissando un tetto al prelievo fiscale, ma nelle sedi internazionali appare come il difensore molto vociante dei piccoli risparmiatori e delle vittime della crisi. Difficile imputargli la spensieratezza e l’ottimismo di maniera di un Berlusconi.
Europa sociale
Quel che vale per la Francia non vale necessariamente altrove. L’Europa sociale, come quella politica, è tuttora figlia delle sue nazioni. La Spagna per esempio è tra le più martoriate dalla crisi: entro l’estate si potrebbero superare i quattro milioni di disoccupati, raddoppiati negli ultimi due anni. Eppure vige una sorta di tregua sindacale. Si’, il 14 marzo a Barcellona hanno sfilato circa 15mila persone, e in febbraio erano stati 35mila a Saragozza. Ma la mobilitazione non è diventata nazionale. La fiducia in Zapatero non è crollata. Ai sindacati, e alla gente, non serve dare una spallata ad un governo rieletto appena un anno fa.
Il 21 febbraio scorso erano invece scesi in piazza in 120mila a Dublino, soprattutto pubblici funzionari preoccupati per i tagli di bilancio. Da quel giorno la protesta sociale si è installata nel dibattito politico. La Tigre celtica, già così prospera, rischia una contrazione di attività, tra il 2008 e il 2010, pari al 10 per cento. Il tasso di disoccupazione, nel paese in cui fino a ieri si emigrava con la certezza di trovare un lavoro, galoppa verso l’11 per cento. Nelle ultime settimane sono giunte notizie di turbolenze dai paesi baltici: a Vilnius si è tentato l’assalto al Parlamento, a Riga è degenerata una manifestazione di agricoltori. A metà maggio la Confederazione sindacale europea ha previsto quattro manifestazioni, a Madrid, Bruxelles, Berlino, Praga. Che la piazza diventi europea, e peserà senz’altro di più.

l’Unità 4.4.09
In 109 pagine i pm Zucca e Cardona Albini smontano le motivazioni del tribunale
«Il Tribunale ha ignorato prove e testimonianze. Precedente giuridico gravissimo»
di Claudia Fusani

«Non è stata fatta giustizia». Non è una frase scritta sui muri o su un volantino ribelle. Sono le parole con cui i pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini chiudono il ricorso in Appello con cui chiedono di fare un nuovo processo ai 29 poliziotti che la sera del 21 luglio 2001 fecero irruzione nella scuola Diaz massacrando di botte 93 manifestanti sorpresi in pieno sonno. «Il sangue versato e la sospensione del diritto in quella notte richiedono più adeguata ricerca sugli autori e sulle cause» scrivono i magistrati. Su 29 imputati, sedici sono stati assolti a novembre scorso dopo tre anni di processo e otto di indagini. Erano all’epoca dei fatti, e sono tutt’oggi, i massimi vertici della polizia. Chiudere gli occhi, accettare quella sentenza, accusano i pm, «avrebbe conseguenze assolutamente nocive sul piano istituzionale». Quelle assoluzioni, in buona sostanza, creano un «precedente giuridico gravissimo»: quello per cui la polizia può sospendere il diritto, confondere le acque e far sparire le prove, fabbricarne addirittura di false, falsificare gli atti e farla franca. Un precedente che sarebbe grave si consolidasse proprio alla vigilia di un nuovo G8 italiano e mentre tornano le minacce e a Londra un manifestante del G20 muore in strada.
Zucca e Cardona Albini impiegano 109 pagine per smontare le motivazioni della sentenza pronunciata dal presidente del tribunale Gabrio Barone che invece ha spiegato l’assoluzione con l’assenza di prove («esistono solo indizi e non univoci»).
I pm accusano il tribunale di aver evitato «la responsabilità di motivare» l’assoluzione di 16 dei 29 imputati, un lavoro «solo compilativo» in cui «non ha valutato a dovere i mezzi istruttori» e «le dichiarazioni testimoniali». Per l’accusa la notte della Diaz non può essere solo colpa di qualcuno a cui è scappata la mano; quella notte, dopo la morte di Giuliani e due giorni di delirio, finito il vertice, fu deciso un cambio di strategia. Lo ha spiegato al processo il prefetto Ansoino Andreassi, fino alla mattina del 21 luglio 2001 responsabile della sicurezza del G8: «Ci fu una decisa virata nella politica della gestione dell’ordine pubblico proveniente dal vertice del Dipartimento della pubblica sicurezza mirante all’accentuazione dell’aspetto repressivo (...) tanto che nel pomeriggio del 21 viene inviato a Genova il prefetto La Barbera, capo dell’antiterrorismo». Una deposizione «decisiva - si legge - per la ricostruzione della catena di comando» e invece valutata «in modo asettico» dal tribunale. Tribunale che «scarta apoditticamente l’idea che l’agente Nucera abbia potuto togliersi il giubbotto per colpirlo col coltello». E’ una delle tante prove false fabbricate per motivare la reazione degli agenti. «Nucera - si legge nell’appello - (che in un primo tempo aveva detto di essere stato aggredito da un no global ndr) è più credibile quando aggiusta a posteriore la sua versione, dopo aver saputo che la consulenza del Ris lo sbugiarda». Durissimo il capitolo dedicato alle due bottiglie molotov, reperto chiave la cui presenza nella scuola Diaz aveva motivato l’irruzione e che poi invece risultano essere state portate a posteriori da Troiani e Burgio, tra i sedici condannati con gli uomini del Reparto mobile guidato da Canterini. Troiani e Burgio hanno agito da soli? Impossibile, dicono i pm, «ricostruendo la gestione del reperto si prova il pieno coinvolgimento e la consapevolezza di tutti gli imputati ciascuno con il proprio ruolo corrispondente alla gerarchia e funzione». Si tratta di Gratteri, attuale n°2 della polizia, Gianni Luperi, n°3 dell’Aisi, e poi Calderozzi, Ferri, Di Bernardini, Dominici e altri, assolti in I grado perchè il fatto non sussiste. Quelle molotov poi sono scomparse dall’ufficio reperti «per opera del personale Digos che si sarebbe portato via il corpo del reato». Una vicenda su cui il Tribunale non ha mai voluto scavare fino in fondo tanto che i pm contestano «l’omessa pronuncia».
«Questo drammatico panorama di violazioni diffuse - si legge nell’appello - si è riprodotto davanti a un Tribunale che non ha ritenuto di stigmatizzare questi comportamenti». Non solo, un Tribunale che «neppure è intervenuto sui numerosi testimomni reticenti e imprigionati da codici omertosi».
Anche la Procura generale, eccezzionalmente, ha presentato appello. C’è tempo fino al 2014 per arrivare ad una nuova sentenza.

Repubblica 4.4.09
Noi, pronti all’obiezione di coscienza
di Umberto Veronesi

«Io sottoscritto , nel pieno delle mie facoltà mentali e in totale libertà di scelta, dispongo quanto segue: in caso di malattia o di lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante, chiedo di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico o di sostegno (nutrizione e idratazione)». Ho scritto di mio pugno il mio Testamento Biologico un anno fa, e l´ho fatto non solo per me stesso, ma per i miei familiari e per i medici che si prenderanno cura di me. Perché, per un medico, sapere cosa vuole il malato è l´ancora di salvezza, quando le decisioni in scienza e coscienza diventano difficili, a volte impossibili da prendere. E si può scatenare un inferno che coinvolge intere famiglie, medici, infermieri, avvocati, giudici, giornali e televisioni e processioni di gente sconosciuta che plaude o accusa. Si sono appena spenti i riflettori sul caso Englaro, ma le ferite resteranno aperte, in chi l´ha vissuto in prima persona. Nessuno sarebbe stato accusato di assassinio e minacciato di gravissime sanzioni, se Eluana avesse espresso per iscritto le sue volontà. Per capire, bisogna aver provato cosa vuol dire discutere con altri medici su se, quando e perché un trattamento debba essere interrotto o se sia da considerarsi in eccesso o in difetto. La linea fra il troppo e il troppo poco, non è sempre così chiara. In alcuni casi, la decisione non può e non deve essere del medico, ma del paziente, di cui il medico dovrebbe, con un dialogo attento e amorevole capire la volontà. Il malato, anche il più grave, sa dire con le parole, così come con uno sguardo o un gesto della mano, fino a dove arriva il suo orizzonte. E se non si può esprimere? Se si giunge a quel punto estremo dell´invasione della medicina nel suo corpo, per cui lei, o lui, esistono come vegetali ma la loro coscienza e i loro sensi sono persi per sempre? In questi casi il medico non può più confrontarsi con il desiderio della persona, ed ecco che la presenza di un´espressione di volontà anticipata diventa un aiuto insostituibile dal punto di vista pratico e morale. Infatti in tutti i Paesi in cui il testamento biologico è legge, o è comunque previsto dall´ordinamento giuridico, i medici ne risultano, da tutti i sondaggi e le pubblicazioni scientifiche, i più soddisfatti. Storicamente la vecchia generazione legata alla medicina paternalistica ha fatto fatica ad accettare la nuova medicina del diritto, basata sulla centralità e l´autodeterminazione della persona malata. Ma con il tempo tutti hanno capito che il poter decidere tenendo conto della volontà del malato, solleva il medico da molte responsabilità e lo libera da dilemmi che il potere della medicina tecnologica rende sempre più frequenti. La medicina moderna fa del medico un custode non solo della salute, ma anche dei diritti del malato; un depositario, quindi, di alti doveri morali. I medici italiani hanno imparato a essere fedeli a questi doveri: non applicano una legge che li obbliga ad infrangere il segreto professionale, nel caso della denuncia dei pazienti clandestini, e non applicheranno una legge che li obbliga a tradire la volontà del paziente, come vuole il disegno di legge appena approvato in Senato. Il rispetto della volontà del malato è un problema morale e deontologico del medico, in cui la legge non può interferire. Se lo farà, i medici faranno obiezione di coscienza. Oppure saranno costretti ad infrangerla.

Repubblica 4.4.09
Fine-vita, la rabbia dei medici: "È una truffa"
Centinaia di lettere a Repubblica.it per dire no alle nuove norme. "L´ultima parola è del malato"
di Alessia Manfredi

«Non c´è legge che possa impedire di continuare ad agire in scienza e coscienza nel rispetto del benessere dei pazienti e delle loro volontà». E ancora: «Il volere di una persona è sacrosanto e va rispettato, non ci si può erigere a giudici, come non può farlo il governo o la Chiesa». È pressoché unanime il parere espresso dai medici che hanno risposto all´appello lanciato da Repubblica.it, - centinaia gli interventi arrivati - per dare la loro opinione sul testo di legge sul biotestamento votato al Senato, che lascia al medico la decisione se applicare o meno la dichiarazione anticipata di trattamento. Una legge che molti definiscono una «beffa», una «truffa», «barbara», «ipocrita», sicuramente una profonda delusione. Specializzazione o provenienza geografica non fanno alcuna differenza: è convinzione condivisa, da Aosta a Catanzaro, dal medico di base all´anestesista o al geriatria, che l´alleanza terapeutica - quel delicato percorso fatto di fiducia, ascolto, comprensione e dolore, che è alla base della medicina moderna - non si può tradire. E che prima di fare leggi che toccano da vicino qualcosa di così profondo, non sarebbe male passare qualche giorno in un reparto dove si curano i pazienti terminali: è questo l´invito che in moltissime lettere viene rivolto ai parlamentari.
Le testimonianze arrivate al sito di Repubblica raccontano di esperienze personali, accumulate in anni di lavoro. Casi difficili, ognuno con il proprio carico di sofferenza, di fronte ai quali il percorso da seguire si è sempre scelto insieme, medico ed assistito. E nessuno ha intenzione di cambiare, ora, per legge. «Mi comporterò come ho sempre fatto», si legge. «Continuerò a consigliare ciò che ritengo più giusto, ma non andrei contro le volontà di un paziente. Farei in modo di rispettarle in ogni modo». Fra gli specialisti che hanno mandato la propria opinione rispondendo all´appello, tanti lavorano in strutture pubbliche. Ci sono dirigenti che si firmano con nome e cognome, numero di tessera dell´Ordine dei medici. E all´Ordine chiedono di prendere posizione contro questo disegno di legge, considerato inutile e lesivo delle libertà individuali, al di là delle convinzioni religiose personali, visto che fra chi scrive ci sono anche diversi medici cattolici. Il testo approvato in Senato è un provvedimento che «scarica il barile della responsabilità» su di loro, investendoli di una discrezionalità non richiesta. Quello che il legislatore dovrebbe favorire, gridano questi appelli preoccupati, arrabbiati, amareggiati, è il rapporto fra «l´uomo medico» e «l´uomo paziente», mai ostacolarlo.

Repubblica 4.4.09
Il nuovo inizio della sinistra
di Alfredo Reichlin

Caro direttore, ciò che credo si possa dire senza alcuna enfasi è che è cominciata una riorganizzazione su scala mondiale di quella cosa (non economica soltanto, come ci ammoniva Marx) che si chiama capitalismo. Non è poco. I suoi esiti sono molto incerti, imprevedibili. Possono essere anche catastrofici. Se non ora, quando la sinistra italiana, se non vuole evaporare, capirà che deve affrontare "un nuovo inizio"? Il Partito democratico non decollerà mai se non sarà il risultato di una nuova sintesi storico-politica e culturale. E se non vogliamo ridurre tutto ai conflitti e alle rivalità personali bisogna riconoscere che è proprio sulla natura del cambiamento che in fondo non ci siamo mai intesi. Oggi nessuno può più negare che sta cambiando l´ordine mondiale, che è entrato in crisi questo processo di accumulamento e distribuzione della ricchezza, e che al tempo stesso è finita l´era della "Superpotenza assoluta", e sono venuti in discussione i nuovi assetti del potere e le relazioni tra gli Stati.
Ma perché in America ha vinto Obama mentre in Italia ha vinto l´amico e il sodale di Bush: Silvio Berlusconi. Come mai? È a questa domanda che si deve rispondere. E io potrei fermarmi qui facendo mia la risposta di Repubblica. Mi si consenta però di aggiungere una cosa. È giunto il momento che i cosiddetti quarantenni prendano finalmente la parola. Gli uomini anziani come me possono fare ancora una analisi. A loro spetta dirigere. Vogliono cominciare a comandare? Giusto. La condizione, però, è che essi siano almeno convinti della necessità di aprire una pagina nuova nella cultura e nella storia politica della sinistra. È di questo che non sono sicuro. Eppure le condizioni oggettive sono tali per cui la sinistra non può tornare sulla scena del mondo senza darsi una nuova classe dirigente. E questa non può affermarsi se non parte dal riconoscimento delle ragioni per cui siamo stati sconfitti così profondamente, anche idealmente, anche culturalmente.
Quello che è accaduto in questi anni è enorme e le nostre responsabilità sono grandi. Che cosa noi abbiamo opposto a una economia di rapina basata sul più grande passaggio di ricchezza dal lavoro (non solo operaio) alla rendita finanziaria? Con in più un tale saccheggio del risparmio da parte del sistema bancario per cui davvero l´economia di carta si è mangiata l´economia reale. Ci rendiamo conto che le fondamenta della democrazia sono effettivamente in pericolo? E non perché non si voti abbastanza ma esattamente per la ragione che indica Repubblica: perché i diritti di cittadinanza e i poteri reali della democrazia, cioè � aggiungo io � il protagonismo e l´autonomia dell´uomo che pensa e che lavora, sono stati sottomessi alle logiche senza regole dai mercati. Basta con gli equivoci. Nessuno nega la funzione essenziale dei mercati, perfino a salvaguardia della libertà delle persone. Ma che succede se si mercatizza l´universo sociale e tutti i bisogni, la creatività, le speranze che costituiscono la persona sono ridette alla capacità di consumo? Questo è il punto. Non è la necessità del socialismo, come si sarebbe detto un tempo. Altra è l´enorme novità che emerge da questa crisi del capitalismo. È il fatto che non si può più accettare che una ristretta oligarchia riduca il lavoro a merce da scarto e che neghi di fatto quel tempo dei diritti dell´uomo che fu aperto dalla rivoluzione francese. Il mercato è necessario ma non può essere il nuovo Sovrano. Il mondo è troppo grande.
È da questa straordinaria vicenda che la sinistra deve ripartire. Smettiamola quindi di stupirci del successo di Berlusconi anche tra i ceti più deboli. Il populismo vince perché il riformismo diceva e faceva tante belle cose ma era senza popolo. Punto. Il novismo non era sufficiente. L´esigenza di rinnovare i partiti non poteva oscurare la necessità nel mondo globale di contrapporre alla forza dei nuovi sovrani e al loro pensiero unico l´organizzazione di soggetti politici capaci di dare battaglia in rappresentanza degli interessi della collettività umana e con una idea autonoma dei suoi destini.
Lo scontro, al fondo è stato su questo, anche all´interno del centro-sinistra. Quale riformismo? La risposta mi sembra sempre più chiara. Ci rendiamo conto della violenze dello scontro che è in atto in America tra Wall Street e il potere politico? Può darsi che si giunga a un compromesso ma la cosa impressionante è la posta in gioco. Nella sostanza è la redistribuzione della ricchezza e del potere. È il tema della giustizia, parola che in Italia non viene usata molto. È certamente anche il tema del futuro dell´America di fronte a scelte drammatiche che evitino scontri di civiltà e che affrontino la sostenibilità dello sviluppo, cioè il modo di produrre e di consumare.
In Italia invece la grande novità che ci offre l´on. Berlusconi è l´arte antica di arrangiarsi in attesa che passi la crisi. Stringi, stringi di questo si tratta. Altri prezzi di questa fragile Penisola, un tempo bellissima consegnati alla speculazione edilizia, chiudere un occhio sull´evasione fiscale, tagliare le spese considerate superflue, cioè scuola, ricerca, cultura. Dimenticavo il "Dio, patria e famiglia" di Tremonti e il "neo-guelfismo" degli atei devoti che insieme a una allegra brigata di nani e ballerine si stanno ponendo sotto la tonaca protettiva del cardinal Bagnasco.

Repubblica 4.4.09
"Con un piede impigliato nella storia" di Anna Negri
Una figlia e le colpe dei padri
di Maurizio Bono

Di sicuro lei il talento di raccontare non lo ha preso da papà, famoso e famigerato, tra molto altro, per la prosa ostica, astratta, tutta chiasmi tipo «cercare lo scontro nella misura del consenso e il consenso nella misura dello scontro», che hanno dato filo da torcere e crucci ben più che semantici

Da una o due generazioni. Papà è Toni Negri, filosofo e capo di Potere Operaio, guru dell'Autonomia nel '77, imputato di lungo corso dal '79 all'83 nello scombinato processo "7 aprile" iniziato con 17 accuse di omicidio e finito con la sua condanna per insurrezione armata, l'elezione al Parlamento, la fuga. Lei è Anna Negri, la figlia oggi quarantaduenne, regista di cinema e tv e autrice di un libro che quegli anni foschi e complicati li racconta con lo sguardo della bambina, poi dell'adolescente che li ha attraversati trovandosi nel posto più scomodo. Perché, come scrive, «quando si tratta di figli non si tratta di vittime o carnefici, siamo stati tutti bambini traumatizzati da una Storia che non ci apparteneva e che non abbiamo scelto».
Con un piede impigliato nella storia è il titolo perfetto di 270 pagine che non svelano retroscena della rivoluzione immaginaria e del concreto disastro di quegli anni, ma narrano una piccola odissea privata di sopravvivenza iniziata quando molti equivoci dei Settanta finiscono, il 7 aprile: Toni Negri arrestato e la moglie Paola che non ha più tempo ed energie per altro.
«Cosi io e Checco (il fratello), a 14 e 11 anni, abbiamo cominciato a vivere da soli e avremmo continuato per i quattro anni successivi»: è il cuore del memoir , una situazione che con un po' più di mélo sarebbe da orfanelli dickensiani e al politycally correct di oggi suggerirebbe una telefonata urgente ai servizi sociali. Ma che nella parentesi dal buonsenso di quegli anni diventa invece un'autoeducazione selvaggia e rischiosa, che non finisce nello sfacelo totale solo perché le risorse segrete di certi ragazzini fanno miracoli: «Casa nostra nel Ticinese era sempre piena di amici che mangiavano e dormivano lì, in uno stato di allegra e disperata anarchia. Pippi Calzelunghe contro il carcere».
I rischi e i danni prevedibili Anna e Checco preadolescenti soli li affrontano tutti: droga, panico, depressione, disturbi alimentari quando non erano di moda, sensi di abbandono e di colpa, compensi affettivi rimediati con gratitudine, incontri pericolosi e penoso confronto ravvicinato con supercarceri e repressione. Ma ci sono anche amicizie, amori infelici e meno, le scoperte intellettuali e sentimentali dell'età, l'amore-salvezza di Anna per le immagini e il cinema.
Il resto è processo, campagna elettorale, rocambolesca fuga di Negri in Francia in barca a vela con l'ereditiera di un gruppo industriale che poi gli darà un'altra figlia, il passaggio dagli anni di piombo a quelli dell'eroina. Per chi non c'era, scorci di un passato rimosso. Per chi si é dato tanto daffare per rimuoverli, l'avvertimento: «Ho scoperto una cosa crudele: che i figli portano sulle spalle le colpe dei genitori, e prima o poi con queste colpe devono confrontarsi».

Repubblica 4.4.09
Uno psicanalista francese spiega come l´inadeguatezza perseguiti le madri Convinte che i problemi dei figli siano dovuti a loro. Ma il dibattito è aperto
Mamme, basta sensi di colpa la perfezione non esiste
di Maria Novella De Luca

Un sentimento che pervade la vita delle donne fin dai primi momenti della maternità
Ma Silvia Vegetti Finzi dice: "Un po´ di sano senso di colpa fa il bene dei bambini"

È una voce interiore, un´ansia nascosta, una seconda natura. Parla al cuore e alla testa delle madri, non le abbandona mai, dice che se qualcosa non va, se quei figli tenacemente voluti e amati, non sono perfettamente dotati, integrati, brillanti, bambini insomma con la B maiuscola, la colpa quasi sempre è dei genitori, anzi no, è delle madri. Un sentimento che pervade la vita delle donne fin dai primi momenti della maternità, e si fa più forte via via che i figli crescono: perché si torna in ufficio invece che restare a casa, perché in piscina ce li porta la baby sitter, se a scuola prendono un brutto voto, se fanno la pipì a letto, se hanno tanti amici, se ne hanno pochi, se mangiano troppe schifezze, se non mangiano affatto, se per una sera, una tantum, mamma e papà escono, magari a ritrovare se stessi... La lista potrebbe essere infinita avverte lo psicoanalista francese Stéphane Clerget, e il conflitto restare irrisolto, come sempre. Ma quest´ansia che amareggia la vita, spiega Clerget, le donne dovrebbero buttarla alle ortiche, respingerla, rifiutarla, perché come dice il titolo del suo ultimo libro, appena uscito in Italia per Mondadori, "La madre perfetta sei tu. Perché non è giusto sentirsi in colpa nei confronti dei propri figli".
Un libro alla rovescia, che passo dopo passo smonta montagne di luoghi comuni sulle «cattive madri», oggi al centro di un fuoco incrociato che le vuole far sentire inadeguate, a cominciare dagli insegnanti dei loro figli, passando per psicologi e «psicoanalisti dogmatici», per finire, dice Clerget, all´abilissima industria del consumo "che giocando sul senso di colpa dei genitori" li spinge ad acquistare quotidianamente giocattoli e oggetti per farsi perdonare le proprie assenze. Insomma una «naturale tendenza all´autoflagellazione», dovuta a quell´esempio di "madre ideale" che ogni donna porta dentro di sé, affannandosi nel cercare di raggiungerlo senza però mai riuscirci. In tempi di demografia ridotta al minimo, di eserciti di figli unici (in Italia 1,37 figli per donna, 1,41 se si sommano i bimbi delle famiglie immigrate) è chiaro che quel solo oggetto d´amore diventa oggetto anche di aspettative spesso smisurate. Stéphane Clerget, citando lo psicoanalista inglese Donald Winnicott, afferma che non esistono madri ideali, ma soltanto "madri sufficientemente buone" e invita le donne ad accettarsi così come sono, debolezze e incertezze comprese, e a liberarsi del senso di colpa di non essere perfette accettando le imperfezioni dei propri figli, i quali comunque sceglieranno e inventeranno "una parte della propria vita".
Un´assoluzione in piena regola che non convince del tutto Silvia Vegetti Finzi, già docente di Psicologia Dinamica all´università di Pavia, e autrice di alcuni fondamentali saggi sulla famiglia e sulla maternità. "È giusto - dice - che le mamme provino un po´ di sano senso di colpa e questo nell´interesse dei bambini, oggi troppo spesso abbandonati alle cure di persone estranee, di baby sitter che non parlano nemmeno la loro lingua, figli di genitori tanto impegnati da non riuscire a vedere la solitudine in cui i loro bambini crescono. È chiaro, le donne devono lavorare, soprattutto oggi, e sappiamo quanta fatica devono fare per conciliare tutto. Ma devono essere consapevoli del prezzo che i figli pagano per il tempo che viene loro negato. I bambini di oggi sono accuditi e tutelati fino all´eccesso, ma hanno poca comunicazione emotiva, anche poca allegria. Potrà sembrare un po´ duro nei confronti dei genitori, ma credo sinceramente che non serva discolparsi, ma piuttosto cercare di ascoltare i propri figli".
Una strategia che Clerget individua invece smontando proprio i luoghi comuni sulle "madri cattive", di cui nel libro fornisce un dettagliato elenco. Clerget spiega ad esempio perché non è possibile giudicare dall´esterno se una madre è troppo assente o troppo presente, essendo davvero il tempo una questione individuale, perché è legittimo essere "madri chiocce" almeno nella prima infanzia, quando il bambino ha assoluto bisogno di attaccamento ed esclusività, e Clerget dimostra che le teorie pro o contro l´allattamento al seno, pro o contro il biberon o il dormire nel lettone, cambiano a seconda delle decadi e delle mode. Non è vero poi, scrive l´autore, che una mamma single (magari con una vita sentimentale e affettiva movimentata) crescerà un figlio problematico, così come un ruolo armonioso nella vita di un bambino possono averlo anche una seconda moglie o compagna del padre all´interno delle famiglie allargate e ricomposte. Non sarà facile, ammette comunque Stéphane Clerget, "scardinare nel cuore delle madri il senso di colpa". Eppure basterebbe avere fiducia in se stesse e soprattutto nei propri figli.

Corriere della Sera 4.4.09
E Dostoevskij pianse su Hegel
di Armando Torno

Hegel, sempre Hegel. Mentre le Edizioni di Storia & Letteratura ristampano in due volumi la Fenomenologia dello spirito (pp. 432, e 19; pp. 320, e 15) nella classica traduzione di Enrico De Negri, giacché — nota nel saggio introduttivo Giuseppe Cantillo— resta «un significativo documento della cultura filosofica italiana del Novecento», Laterza propone in linea con la più attenta ricerca hegeliana una nuova versione delle Lezioni sulla storia della filosofia, scegliendo il corso berlinese del 1825-26 (pp. 698, e 38).
Ma la vera curiosità sul filosofo tedesco è l’aureo libretto dell’ungherese László F. Földényi, Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere (Il Melangolo, pp. 64, e 8). In esso il sommo russo è soldato semplice a Semipalatinsk, dopo quattro anni di lavori forzati. Qui si accorse, studiando appunto Hegel, di non far parte del firmamento felice che popola l’Inno alla Gioia di Schiller. Cosa fece? Versò lacrime, pensò di ribellarsi. La dialettica spiegava tutto, ma i giorni passavano tra sofferenza e pianto; capiva il mondo e le anime, ma non trovava ragioni per sorridere.

il Riformista 4.4.09
Hegel che mise Fedor in esilio
Földényi. Siberia. Lo scrittore russo legge un libro del filosofo tedesco e si ritrova cacciato dalla Storia. Così Dostoevskij si ribella al razionalismo.
di Stefano Ciavatta

Un libro di poche pagine. Dentro c'è un mondo di uomini in esilio, 159 mila russi confinati nella sterminata Siberia. Più uno perchè il testo è anche un pamphlet, e quindi contiene ragioni e torti di un solo individuo, che si chiama Fedor Dostoevskij. Troppa responsabilità per sessanta pagine? Il titolo è fuorviante come quello di un romanzo di McSweeney's, Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere (Il Melangolo, pp. 59, € 8). Invece è tutto vero.
Metà dell'800, lo scrittore russo vive in una stanza misera, dentro una città circondata solo dalla sabbia del deserto. Reduce da 4 anni di lavori forzati, il suo esilio continua in qualità di soldato. Con sé le bozze delle Memorie della casa morta, a cui lavorerà per dieci anni. A fargli compagnia la benevolenza di un giovane procuratore dello stato, Aleksander Vrangel che gli fa arrivare dei libri sulla scrivania. Quali non si sa. Di sicuro uno porta la firma di Hegel. L'ipotesi di Lászlo F. Földényi è che siano le Lezioni sulla filosofia della storia. Qualsiasi libro per luogo comune dovrebbe portare conforto alla desolazione, e invece, a contatto con il filosofo tedesco, inizia un processo irreversibile. Forse Dostoevskij, dice Földényi, rimane folgorato da una frase: «Per prima cosa dobbiamo escludere il declivio settentrionale, la Siberia. Questo declivio non ci interessa in nessun modo, poiché la zona nordica giace fuori della storia». Ulteriore condanna, la sua sofferenza avviene così in un non luogo. Altro che orizzonte onnicomprensivo, la Storia forse era solo una costruzione razionale per consolarsi dalle paure con la speranza dell'evoluzione dell'umanità.
Un estraneo della Storia quindi, in Siberia come in Africa, perchè anche «l'infantile» continente nero «non è storico» (Picasso dunque un reazionario?). Se neanche l'inferno siberiano non aveva ragione di esistere per Hegel - scrive Földényi - Dostoevskij arrivò a pensare che «era infernale la rimozione della sacralità, della sofferenza, della morte e dell'attesa che la civiltà moderna si imponeva. La razionalità della Storia emergeva come la copia romana di una statua greca. Addomesticata e levigata fino a diventare candida». Quello dello scrittore deve essere stato un pianto irrazionale, ma sconfitto e battuto in esilio non perse la speranza e nel 1854 scrisse: «Sono contento della mia vita». Potenza della irriducibile profondità del mondo che sfuggiva alla perfezione scaramantica di Hegel.

Corriere della Sera 4.4.09
Il grande artista già prima di trionfare a Roma realizzò opere straordinarie che testimoniano la leggenda del suo talento
Raffaello. Gioventù baciata
di Francesca Montorfano

Il figlio prodigio di Urbino torna a Palazzo Ducale dove si nutrì di Rinascimento

Ci sono due nomi indissolu­bilmente legati nella sto­ria dell’arte e della cultura italiana, quelli di Raffaello e della sua città natale, Urbino. È in­fatti qui, in una delle più vivaci e raf­finate corti rinascimentali, quella dei duchi di Montefeltro, che il gio­vane trovò l’ambiente privilegiato per far risplendere il meraviglioso talento di cui la natura lo aveva do­tato e preparare la strada alle futu­re, grandiose imprese romane. Fan­ciullo prodigio fu sicuramente Raf­faello, ma anche figlio d’arte e, so­prattutto, figlio della sua città. A in­fluire per primo sulla sua formazio­ne fu il padre, Giovanni Santi, prota­gonista di rilievo della scena artisti­ca urbinate, pittore a capo di una fiorente bottega, autore di rappre­sentazioni teatrali per la corte e di una famosa Chronaca rimata in cui esprime giudizi ancora oggi validi su artisti a lui contemporanei, co­niando per Pietro Perugino l’appel­lativo di «divin pittore». Ma è tra quei palazzi di Urbino nati da una concezione nuova dell’architettura e della spazialità, in quella residen­za ducale progettata dal Laurana che Baldassar Castiglione definì «una città in forma di palazzo», do­ve avevano lasciato la loro impron­ta artisti come il Botticelli, il Pollaio­lo, Melozzo da Forlì, Giusto da Gand e Piero della Francesca, che il giovane Raffaello cresce e matura la sua arte. Ed è qui che rielaborerà in un suo personale, altissimo linguag­gio pervaso di lirismo e di classica armonia la lezione paterna e gli echi della grande arte quattrocente­sca, come farà in seguito con i nuo­vi, straordinari esiti raggiunti da Le­onardo e Michelangelo: «studiando le fatiche de’ maestri vecchi e quelle de’ moderni prese da tutti il me­glio », scrisse nelle sue Vite il Vasari. La grande rassegna che si apre in questi giorni a Palazzo Ducale si po­ne così l’obiettivo di ricostruire quell’ambito artistico e culturale che tanto peso ebbe per l’arte di Raf­faello, indagando per la prima volta compiutamente anche la figura di Giovanni Santi e degli altri pittori che con lui lavorarono, come Girola­mo Genga o Timoteo Viti. «Finora, nell’immaginario collettivo, Urbino è stato soltanto il luogo natale di Raffaello, che avrebbe in seguito im­parato i segreti della pittura alla scuola del Perugino. Recenti studi hanno invece rivelato come la sua formazione sia avvenuta proprio qui, a contatto di quei capolavori e di quella corte dove si è giocato il Rinascimento, rendendo pieno me­rito anche alla figura del padre, per­sonaggio di cultura straordinaria e raffinata tecnica, che seppe trasmet­tere al figlio — ha dichiarato Loren­za Mochi Onori, curatrice della mo­stra —. Sicuramente Raffaello non ha dovuto 'macinare i colori', non è stato un semplice garzone di bot­tega, ma un allievo in grado di colla­borare col padre fin da giovanissi­mo in imprese prestigiose. Quando Giovanni muore nel 1495, Raffaello ne eredita la bottega, arrivando a so­li diciassette anni, nel 1500, a fir­marsi come 'magister' nella Pala di San Nicola per Città di Castello, qui eccezionalmente ricomposta in al­cune sue parti». La mostra, allestita nel Salone del Trono e nelle sale del­l’Appartamento della Duchessa, pre­senta i capolavori giovanili di Raffa­ello, disegni e dipinti, in un illumi­nante gioco di rimandi con la pittu­ra del padre e di altri artisti a loro vicini. E proprio da Giovanni Santi inizia il percorso, con le Muse della Galleria Corsini recentemente re­staurate, con quella Pala Buffi e quella di Monte Fiorentino che ben documentano le delicate assonanze stilistiche tra padre e figlio. Emozio­nano, tra le opere di Raffaello, lo «Stendardo della Trinità» databile al 1499, la sua prima commissione ufficiale, e brani di straordinaria bel­lezza come «Il sogno del cavaliere» di Londra, il «San Sebastiano» di Bergamo, la «Sacra Famiglia» del Prado o la piccola «Madonna Cowper», con la Chiesa di San Ber­nardino, il mausoleo dei Montefel­tro, raffigurata sullo sfondo. Ritor­nano anche, proprio in quella Sala delle Veglie che li aveva visti prota­gonisti delle colte riunioni descritte nel «Cortegiano», Elisabetta Gonza­ga e Guidobaldo da Montefeltro, nei celebri ritratti di Raffaello oggi agli Uffizi. Ma un altro elemento an­cora sottolinea lo stretto legame tra padre e figlio: l’affresco della Cap­pella Tiranni a Cagli, capolavoro di Giovanni e completamento della mostra, con quell’angelo alla sini­stra dipinto con le sembianze di Raf­faello.

Corriere della Sera 4.4.09
Una corte raffinata dove avevano lasciato un’impronta Botticelli, Pollaiolo, Melozzo da Forlì e Piero della Francesca
Vasari racconta che morì per un eccesso sessuale
Bello, solare, donnaiolo Così il fattore erotico ha influenzato la sua arte
Voluttà e amor celeste, con lui la sintesi perfetta
di Francesca Bonazzoli

Gli unici che non lo sopportavano erano gli altri artisti rivali, in particolare l’invi­dioso Michelangelo. Arrivato a Roma a 25 anni e subito entrato nelle grazie del papa, Raffaello era troppo bello, troppo bravo, troppo subissato dalle richieste dei committenti più ricchi; ave­va un talento naturale, non pro­vava invidia per alcuno e diven­ne subito una star. Vasari dice che in lui risplendevano «tutte le più rare virtù dell’animo, ac­compagnate da tanta grazia, studio, bellezza, modestia e otti­mi costumi... laonde, si può di­re sicuramente che coloro che sono possessori di tante rare doti, quante si videro in Raffael­lo da Urbino, sian non uomini semplicemente, ma, se è lecito dire, dèi mortali».
Insomma era perfetto. Un conquistatore: possedeva un ca­rattere solare e amabile che dif­fondeva serenità e grazia e lo rendeva concupito da tutti. Non ultime le donne, che gioca­rono un ruolo fondamentale nella sua opera e persino nella sua morte.
Secondo Vasari, infatti, l’arti­sta morì perché, avendo «fuor di modo praticato i piaceri amo­rosi », «avvenne ch’una volta fra l’altre disordinò più del soli­to » e tornò a casa con una gran febbre da cui non si riprese più. Possiamo immaginare che Raf­faello sia rimasto troppo a lun­go nudo in una stanza riscalda­ta male in quel freddo inizio di aprile del 1520, esattamente il 6, lo stesso giorno in cui era na­to 37 anni prima, e l’influenza mal curata dal medico, che non trovò di meglio che praticargli un salasso, lo portò alla morte nel giorno di Venerdì santo. In una lettera alla duchessa di Mantova, Pandolfo Pico raccon­tò la coincidenza delle date e la caduta di pietre verificatasi alla sua morte nelle gallerie in co­struzione scrivendo: «Di questa morte li cieli hanno voluto mo­strare uno de li signi che mo­strarono sulla morte di Chri­sto».
E ancora pochi decenni do­po, il pittore e trattatista Gio­vanni Paolo Lomazzo scriveva: «Sì che non un semideo, ma un Dio dell’arte ai suoi tempi fu te­nuto, per la bellezza anco et no­biltà della sua faccia, la qual si rassomiglia a quella che tutti gli eccellenti pittori rappresen­tano nel nostro Signore».
Può sembrare dunque quan­tomeno strano che di un uomo deceduto per eccessi sessuali si facesse un paragone con Cristo; eppure, al contrario, proprio qui sta la chiave di comprensio­ne dell’enorme successo della sua arte. Come nessun altro, in­fatti, Raffaello seppe incarnare quel momento magico e irripe­tibile del Rinascimento italiano che, alla corte epicurea di Leo­ne X (figlio di Lorenzo de’ Medi­ci), assieme agli amici letterati Bembo e Baldassar Castiglione, portò fino alla sua ottava più al­ta la filosofia neoplatonica, ov­vero la conciliazione fra l’Amor coelestis e l’ Amor terrestris: tut­ti i suoi dipinti, dalle innumere­voli Madonne alla Santa Cecilia fino alle storie di Amore e Psi­che, sono stati informati dal­l’idea dell’Amor principium ar­tis condivisa da quel gruppo di intellettuali amici di Raffaello.
In un saggio illuminante, An­dré Chastel spiega come fu l’agiografia dei secoli successi­vi a mettere in ombra il lato ero­tico dell’Urbinate, mentre persi­no in occasione della veglia del­la salma in Santa Maria Roton­da, i suoi stessi allievi prepara­no la statua della Madonna co­me una Venere classica trasfor­mando l’altare cristiano in uno dedicato alla dea pagana.
«Si può dire insomma che tutto ciò che riguarda la perso­na del pittore, il principio della sua arte, la risonanza della sua opera, sia stato compreso dai suoi contemporanei nel cer­chio: Pulchritudo, Amor, Volup­tas », scrive Chastel. E infatti, da Giulio Romano a Marcantonio Raimondi al Parmigianino, i se­guaci di Raffaello si sono poi tutti distinti per l’erotismo del­la loro opera.
Non a caso, sempre il Lomaz­zo, nel suo trattato «Idea del tempio della pittura» del 1590, aveva designato Raffaello come uno dei sette «governatori» del­l’arte ponendolo sotto il segno di Venere. Dal canto suo il Vasa­ri non aveva risparmiato i detta­gli: «Fu Raffaello persona mol­to amorosa ed affezionata alle donne e di continuo presto ai servizi loro» da esserne così di­stratto che il ricco banchiere Agostino Chigi, a sua volta invi­schiato in una scandalosa sto­ria d’amore, pur di veder final­mente procedere i lavori della Villa Farnesina, fece in modo che la donna per la quale il pit­tore trascurava gli affreschi «venne a stare con esso in casa continuamente». Per questo, nella Galatea dipinta al piano terreno, alcuni hanno voluto ri­conoscere il ritratto dell’amata di Raffaello, la Fornarina. Che sia davvero lei o no, non c’è dubbio comunque che il fasci­noso urbinate dipinse l’intera umanità sub specie amoris e di questo ne ha lasciata scritta la prova in un sonetto: «Il mio cuor d’un amoroso velo / a rico­perto tutti i miei pensier».

venerdì 3 aprile 2009

l’Unità 3.4.09
Forum. Il turismo procreativoera prodotto dal limite di 3 embrioni e dal divieto di diagnosi preimpianto
Il ginecologo Guglielmino: «Ora rispolvereremo i laboratori per la diagnosi pre impianto»
«Ora finalmente si potranno congelare gli embrioni»
di Maria Zegarelli


Né le linee guida ministeriali, né il parlamento potranno prescindere da quanto stabilito dalla sentenza della Corte Costituzionale. Ecco cosa cambierà dal momento della pubblicazione in Gazzetta ufficiale.

Rossella Bartolucci, Presidente «Sos infertilità»
La nostra associazione in questi anni ha dato un supporto pratico ma anche psicologico a tanti uomini e tante donne che cercavano una riduzione del danno rispetto ad una legge che vivevano come una violenza privata

Gli avvocati: pensiamo al risarcimento dei danni
Il principio della legge 194, sull’interruzione volontaria di gravidanza, è stato ribadito anche nel caso della fecondazione assistita: la salute della donna deve avere sempre la priorità rispetto a qualunque altra valutazione medica

Antonino Guglielmino ginecologo: basta viaggi
La sentenza della Corte mette fine ai viaggi della speranza a cui sono state costrette migliaia di coppie in questi anni. Stiamo parlando di persone portatrici di gravi malattie genetiche che non volevano trasmettere ai loro figli la stessa condanna

Miriam e Giovanni Ruta, che hanno vinto il ricorso
Per noi il pronunciamento della Consulta vuol dire tornare a sperare di poter diventare genitori anche se non abbiamo i soli per volare in altri paesi. Soprattutto vuol dire non condannare nostro figlio ad un tumore alla retina

Marco Cappato, radicale: «E ora il governo si adegui»
«Ora al governo non resta che adeguarsi alla sentenza della Corte Costituzionale, modificando radicalmente le linee guida al fine di togliere ogni incertezza giuridica per le donne che scelgono di affrontare i trattamenti di fecondazione assistita».

Siamo pronti, non appena la sentenza della Consulta, verrà pubblicata sulla Gazzetta ufficiale, fra qualche settimana, a rispolverare i nostri laboratori per la diagnosi pre impianto», annuncia Antonino Guglielmino, ginecologo. L’avvocato Sebastiano Papandrea: «Stiamo valutando anche la possibilità di ricorrere in tribunale per il riconoscimento del danno esistenziale relativo al non rispetto di diritti inviolabili subìto dalle coppie costrette ad andare all’estero o a rinunciare alla possibilità di avere un figlio». Due ore di intenso dibattito ieri a «l’Unità» con gli avvocati del collegio nazionale che ha difeso le coppie che hanno presentato ricorso contro la legge 40, alcuni dei pazienti del centro Hera Onlus di Catania, che hanno dovuto affrontare i «viaggi della speranza» all’estero, il presidente dell’associazione «Sos infertilità» e il medico che ha assistito le coppie con problemi genetici.
Il pronunciamento della Corte Costituzionale mette in discussione l’impianto della legge 40?
Avvocato Maria Paola Costantini:
«È vero che alcune norme rimangono, come l’articolo 1 dove si tutelano tutte le parti coinvolte, la donna e l’embrione. Ma la sentenza è chiara nel momento in cui i giudici scrivono: «Non ci sia pregiudizio della salute della donna». Questo vuol dire che si è operato quel bilanciamento che noi chiedevamo tra la salute della persona in vita, ora portato in primo piano, e la tutela di una potenziale vita. La Corte riafferma anche quel principio contenuto nella legge 194 secondo il quale non si può mai prescindere dalla tutela della salute della donna: è già questo un cambiamento enorme. Indietro non si potrà più tornare, come invece qualcuno sperava».
Avvocato Sebastiano Papandrea:
«L’articolo 1 della legge 40 trova un limite in quanto stabilito dalla Corte: si può procedere alla crioconservazione degli embrioni se questo vuol dire tutelare la paziente. La Consulta sembra aver accolto le soluzioni indicate dal giudice di Firenze, il dottor Delle Vergini, che nel suo ricorso ha prospettato l’eccezione alla regola. Questo sarà il faro che dovrà guidare i centri medici e le linee guida ministeriali che non potranno prescindere dal dispositivo della Corte».
Come cambia il rapporto medico-pazienti?
Antonino Guglielmino: «Si ristabilisce un principio fondamentale: il medico deve valutare la miglior cura per ogni paziente e non applicare lo stesso trattamento a chiunque si rivolge ai centri di Pam. Il legislatore quando ha scritto la legge 40 ha steso un manifesto ideologico perché non ha mai tentato di regolamentare la fecondazione assistita in Italia: non ci sono standard fissati per i centri di riproduzione; è stata equiparata la donna all’embrione e da qui, a cascata, sono derivate le altre norme, dal divieto di diagnosi pre-impianto al limite all’uso di tecniche tradizionali praticate nel resto del mondo».
Si ristabilisce l’alleanza terapeutica medico-paziente?
Guglielmino: «Da oggi, finalmente, si potrà valutare caso per caso, in base all’età della donna e alla sua condizione clinica, quanti ovociti produrre, fecondare e quanti impiantarne. I motivi che hanno spinto oltre 10mila coppie ad andare all’estero sono legati a questo aspetto: evitare di sottoporsi a ripetuti trattamenti medici e avere maggiori possibilità di successo nell’impianto embrionale, potendo fare una diagnosi preimpianto per evitare che nascano bambini con gravi malattie genetiche».
Quali sono state le conseguenze dei limiti imposti dalla legge 40?
Guglielmino: «Ne racconto una: una coppia siciliana ha avuto una bambina malata di talassemia perché dopo una fecondazione assistita senza diagnosi pre-impianto non se l’è sentita di fare un aborto terapeutico. La bambina sta molto male, la coppia ha presentato un ricorso nella speranza di una modifica della legge per poter accedere ad una seconda fecondazione, con diagnosi, nella speranza di avere un figlio sano e, attraverso un trapianto di midollo, far guarire la figlia maggiore». Inoltre con i progressi scientifici di questi ultimi anni oggi siamo in grado di garantire dei sistemi di congelamento delle cellule di altissimo livello che hanno alzato la percentuale di successo delle Pam».

l’Unità 3.4.09
Una legge che ha lasciato macerie alle sue spalle. Penalizzando esistenze, umiliando dignità. Ecco le storie di chi ha pagato sulla propria pelle il desiderio di avere un figlio non condannato in partenza. Gli avvocati: il danno c’è.
«Viaggi della speranza la fatica, il dolore
E oggi non siamo più quelli di prima»
di Toni Jop


E adesso che la Corte Costituzionale ha fatto la barba e i capelli alla legge più teocratica della terra, che accadrà? Cosa succederà soprattutto nelle coscienze di quelle migliaia di esseri umani che hanno vissuto sulla propria pelle l’illegittimità transitoria e fasulla della loro condizione, del loro umanissimo desiderio di avere dei figli? L’allargamento del diritto, una sua rivisitazione più equilibrata scopre intanto una falla mostruosa nel territorio della giustizia: il senso di colpa non doveva esserci perché il crimine era individuato in buona misura da una distonia della giustizia. «Tornano alla mente - ricordano le coppie attorno al tavolo dell’Unità - la fatica, il dolore, il senso di esclusione, la fuga all’estero, la solitudine, l’abbandono, le vite cambiate, perché non siamo più quelli di prima». Ecco: non si sentono più quelli di prima, le vittime della legge sbagliata. Da qui, l’ipotesi, alla quale si sta lavorando, della valutazione di un danno illegittimamente inferto a quelle vittime, un danno non solo economico. Ascoltate questa storia. Inizia quando due coniugi comprendono: il figlio che desiderano ha cinquanta probabilità su cento di nascere affetto da anemia mediterranea, malattia grave. Davide Sgroi fatica a parlare. «La legge mi ha cambiato, credetemi, prima non ero così. Abbiamo avuto fiducia nel referendum poi andato a vuoto, ma non ci siamo arresi. Così, siamo andati una prima volta in Turchia, a Istanbul. Ci accompagnavano alcuni giornalisti, non ci garbava essere così esposti ma eravamo in terra lontana e non sapevamo comunicare, ci aiutarono, furono utili, almeno per i primi giorni. Perché non bisogna pensare che tutto si risolve in un batter d’occhio. Queste cose durano dodici, quindici giorni, in un luogo scelto perché costava meno che altrove. Una clinica privata, comunque molti soldi e una tensione spasmodica mentre ti senti fuori dal mondo, un escluso. Tre embrioni, il tempo passa, si sta male, i giornalisti se ne vanno, capisci ancora di più cosa sia l’isolamento e poi stai ad aspettare. Credete, non è uno scherzo vedere il medico, un estraneo, che ti viene davanti e, dopo dodici giorni, ti dice che purtroppo è andata male. Andò male, quella prima volta, ci vuole coraggio a non mollare. Ci tornammo, ancora spendendo molti soldi e solo perché volevamo un figlio non condannato a soffrire in modo atroce. Ricevute? poco e niente, ma abbiamo speso circa 20mila euro, e questo è niente rispetto al male subito». Davide è cristiano, sua moglie è cattolica credente. Complimenti alla legge talebana che riesce a massacrare tutto ciò che le sta attorno e non fa distinzioni di fede. Ma era illegittima, no? E chi ripaga Miriam e Giovanni Ruta? Loro, che pure hanno vinto il ricorso, hanno una storia leggermente diversa: dopo un primo tentativo a Istanbul hanno mollato la presa. Perché? Non avevano risorse a sufficienza, soldi insomma. «Avevamo tanto amore per un figlio che alla fine avevamo deciso di rischiare la roulette russa: tutto bene o un aborto terapeutico che noi non avremmo mai accettato - racconta Miriam -, ma non è andata in porto. Qualcuno ha idea di cosa voglia dire vivere in queste condizioni, accettare questi rischi, essere circondati dai giudizi morali della gente che non capisce? Si cambia, la legge, questa legge ora per fortuna resa meno accuminata, ti cambia dentro e fuori». C’è un danno oppure no? Maria Paola Costantini, avvocato, non ha dubbi: «Questa legge - spiega - ha attaccato e intaccato alcuni diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione, il danno sta in questa violazione che lede alcuni beni costituzionalmente garantiti, beni immateriali ma sensibili come il diritto all’informazione, all’uguaglianza. Dobbiamo valutare con precisione».

l’Unità 3.4.09
Il presidente della Camera plaude alla Consulta: «Quando una legge si basa su dogmi, è sempre suscettibile di censure di costituzionalità». Miete consensi (e dissensi) trasversali e aggrega l’area laica del Pdl.
Fini femminista: la Consulta rende giustizia alle donne
di Susanna Turco


Il paradosso dei fini vuole che proprio mentre le agenzie diffondono il suo plauso alla sentenza della Consulta che dichiara illegittime alcune norme della legge 40, nel cortile di Montecitorio il presidente della Camera si intrattenga a chiacchierare, lupus in fabula, proprio con il vicedirettore dell’Osservatore Romano Carlo Di Cicco. Un incontro del tutto casuale, che però non viene disturbato da quelle parole. Sul tema, del resto, Gianfranco Fini ha espresso chiaramente i suoi dissensi sin dai tempi del referendum del 2005. E allora, a Cesare ciò che è di Cesare eccetera. Quelle stesse parole fanno invece imbizzarrire mezzo Parlamento. Mietono consensi, ma anche dissensi, trasversali. E mostrano, sul fronte del Pdl, quanto la linea assunta dall’ex leader di An sia in grado di aggregare un’area laica finora assai meno visibile.
giustizia alle donne
Sono le quattro del pomeriggio quando la terza carica dello Stato, fino a quel momento defilata, decide di rendere pubblica la sua posizione. Lo fa senza mezzi termini: «La sentenza della Consulta rende giustizia alle donne italiane», dice Fini. E, in attesa di conoscere le motivazioni della Corte, aggiunge: «Mi sembra fin d’ora evidente che quando una legge si basa su dogmi di tipo etico-religioso, è sempre suscettibile di censure di costituzionalità, in ragione della laicità delle nostre istituzioni».
Fini di ieri, Fini di oggi
Così, in un colpo solo, il Gianfranco di oggi stringe la mano a quello di ieri: e insieme, dando un ulteriore spallata agli ex colonnelli di An, guardano al domani. Già, perché è chiaro che l’orizzonte sul quale si misura il giudizio sulla Consulta non è soltanto quello della fecondazione assistita, che i più nella maggioranza dichiarano di non voler cambiare, ma anche quello del biotestamento, in procinto di iniziare il suo percorso a Montecitorio. Solo qualche giorno fa, al congresso del Pdl, il leader del Pdl aveva criticato proprio il pdl Calabrò , definendolo «da Stato etico». Un posizionamento destinato a incrociarsi politicamente con quanti nel Pdl non vedono di buon occhio il monolite uscito Palazzo Madama. E non sono pochi, a partire da Benedetto Della Vedova e Peppino Calderisi fino a Fiamma Nirenstein e Beatrice Lorenzin, passando per socialisti come Chiara Moroni, ex aennini come Raisi e Urso.
plausi e dissensi
In ogni caso, Fini si tira addosso plausi e dissensi vigorosi e spesso sorprendenti. «Condivide assolutamente» le sue parole Anna Finocchiaro, augurandosi «un po’ di buon senso sul biotestamento». La Mussolini corre a baciarselo. Volontè lo accusa di «cercare visibilità nel ruolo di ventriloquo dei radicali». La Roccella ritiene che sia «vittima di una campagna di disinformazione» e intanto assicura che lavorerà sulle linee guida. Paola Binetti spera «che il biotestamento non ne risulti rallentato» e trova sacrosanto quel che vuol fare la Roccella. La Turco si augura una «riapertura del dibattito». Rotondi parla di divisione tra « i clericali e i cattolici democratici, che stanno con Fini». Notevole l’atteggiamento di Pier Ferdinando Casini. Richiesto di un commento a caldo, il leader Udc dice di non sapere cosa abbia dichiarato Fini ma di essere «d’accordo a prescindere». «Non ti conviene», lo avverte l’altro. E in effetti, poco dopo, proprio Casini si intesta una delle risposte più dure all’ex alleato di un tempo: «La laicità non si difende con slogan contro lo Stato etico, che in Italia ha avuto la sua unica applicazione durante il fascismo».

Repubblica 3.4.09
Rocco Buttiglione, presidente Udc: è compito delle Camere interpretare i mutamenti sociali, non dell’Alta Corte
"Costituzione tradita, basta fughe in avanti o neanche i cattolici la difenderanno più"
di Marco Politi


Spostando in avanti l´equilibrio dei valori della Carta, certi libertari radicali aiutano chi la vuole picconare
Non credo che Bobbio approverebbe certe interpretazioni. E Fini dovrebbe difendere di più il Parlamento

ROMA - Se la Costituzione viene «sequestrata da un gruppo ideologizzato», perderà l´appoggio dei cattolici italiani. Il presidente dell´Udc Rocco Buttiglione lo ribadisce all´indomani della sentenza che modifica la legge 40, spiegando che «salta il patto costituzionale», se si pretende di cambiare la carta fondamentale attraverso interpretazioni evolutive.
Presidente Buttiglione, perché parla di sequestro della Costituzione?
«Si è imposta un´interpretazione sociologistica della Costituzione. I giudici non tengono in conto la lettera della Carta, ma vogliono spostare in avanti l´equilibrio dei valori costituzionali credendo di seguire una presunta direzione di marcia della storia».
Non ha fiducia nei giudici della Consulta?
«Rimango ai fatti. Si sta dando una lettura evolutiva della Costituzione. Invece tocca al Parlamento interpretare i mutamenti sociali e la Corte deve intervenire soltanto in presenza di grossolane violazioni dei principi costituzionali».
Finora attaccare la Corte ero lo sport di esponenti di Forza Italia o della Lega, fa impressione sentire un esponente della cultura politica cattolica polemizzare violentemente con la più alta istituzione di garanzia.
«È vero, non è nella tradizione dei cattolici criticare la Corte costituzionale, ma se oggi avviene è indice di una insoddisfazione profonda. Ed è bene che emerga, altrimenti si corre il pericolo che i cattolici con il cuore si stacchino dalla Costituzione».
I cattolici allontanarsi dalla Carta che loro stessi hanno scritto?
«Non sarebbe più la "loro" Costituzione, se interpretata così da giurisperiti libertari radicali. Io dico: attenzione! Così si aiuta chi vuole picconare la Carta fondamentale. L´adesione entusiasta e incrollabile dei cattolici è sempre stata un baluardo a difesa di "questa" Costituzione. Ma se si cambia la Carta, se viene meno il suo senso basato sull´equilibrio tra la tradizione liberale, la tradizione del movimento socialista e del movimento cattolico, allora rischia di venire meno il patto sottostante».
Onorevole, il cattolicesimo non è monolitico.
«Figuriamoci, la Chiesa è un´anarchia organizzata».
Appunto, è cattolico lei ed è cattolico Ignazio Marino. Entrambi eletti dal popolo: non è che c´è un cattolico più doc.
«C´è una linea di fondo del popolo cristiano, che io credo di interpretare. Ed è una linea non solo del popolo cristiano, ma anche di quei laici che hanno fatto la Costituzione ed erano ispirati da una cultura del bilanciamento tra diritti e doveri, di cui sono rappresentanti Bobbio, Croce, Mazzini. Chi ha scritto la Carta sono convinto non sarebbe d´accordo con certe interpretazioni di oggi».
Secondo lei quando la Consulta valuta la salute della donna o la sanità dell´embrione, è in mano a libertari radicali?
«Non dico questo. Sostengo che è sbagliato che lo faccia la Corte. Tocca alla politica stabilire l´equilibrio dei valori. Io potrei dire che l´aborto è anticostituzionale, ma non lo faccio. Perché la politica ha definito un equilibrio: non lo condivido, ma è quello. Se qui ognuno dichiara anticostituzionale ciò che non gli piace, allora bisogna tornare a mettere ai voti la Costituzione».
Il presidente Fini non la pensa così.
«Dal presidente della Camera mi sarei aspettato una difesa delle prerogative del Parlamento e della legge che ha approvato. Ma poi, che significa censurare l´elemento etico-religioso? Una legge priva di una base etica o religiosa finisce per essere solo una norma ispirata al pragmatismo o all´affarismo».

Repubblica 3.4.09
Facciamo tutti come suggerisce Veronesi
risponde Corrado Augias


Caro Augias, sono un cardiologo e presiedo la commissione di bioetica della Regione Toscana. Ho letto la lettera di Piero Bartolozzi (del 30 marzo: "Ho fatto testamento come suggerisce Veronesi" ) e Le scrivo per comunicare che, come privato cittadino, dopo la proposta di legge Calabrò che ritengo inutile e lesiva della libertà delle persone, ho fondato a Firenze, un'associazione che si chiama "Liberi di decidere" (www.liberididecidere.it) con la quale anche noi abbiamo messo a punto assieme a legali, notai e medici, due tipi di testamento biologico. Uno denominato «fai da te», per avere valore legale, deve essere compilato in ogni sua parte, affrancato, e timbrato in un ufficio postale. Il secondo deve essere sottoscritto di fronte ad un notaio che accerta l'identità del sottoscrittore, ne conserva l'originale e ne consegna una copia al sottoscrittore. In tutti e due i casi le spese sono minime, e in particolare i notai chiedono «simbolicamente» un euro. La prossima sottoscrizione di tali documenti sarà possibile in Piazza dei Ciompi a Firenze sabato 4 aprile, alla presenza del notaio Luigi Aricò.
Alfredo Zuppiroli alfredo.zuppiroli@asf.toscana.it

N ella lettera del signor Bartolozzi si citava il prof Veronesi che, intervistato, concludeva così: «Fate il vostro testamento biologico, all'occorrenza un buon magistrato potrà farlo valere. E i medici, com'è loro dovere deontologico, potrebbero decidere di dar seguito alla volontà del paziente. Io l'ho fatto. Avrà un senso se lo faremo in tanti». Del prof Veronesi mi fido molto di più di quelli che hanno votato a occhi chiusi una legge barbarica. Lo farò anch'io nei prossimi giorni. Per chi volesse ulteriori dettagli sul sito 'Fondazioneveronesi. it' è disponibile un modello di testamento (o se si preferisce di Dichiarazione anticipata di trattamento) molto semplice: riporta i dati dell'interessato e gli estremi di un suo documento d'identità. Contiene poi la formula: «Nel pieno delle mie facoltà mentali e in totale libertà di scelta dispongo quanto segue: In caso di malattia o lesione traumatica cerebrale invalidante e irreversibile, chiedo di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico di sostegno (alimentazione e idratazione forzata)». Seguono altre poche disposizioni particolari, la nomina di un rappresentante fiduciario nonché la formula: «Le presenti volontà potranno essere da me revocate o modificate in ogni momento con successiva dichiarazione». Data, firma. C'è da pagare qualcosa ma a questo siamo costretti per far valere la nostra volontà che altrove nel mondo è molto più facile esprimere. Sappiamo chi ringraziare.

Repubblica 3.4.09
Veronesi: "Noi medici siamo come gli atleti"
di Silvia Fumarola


Il simbolo della lotta ai tumori si racconta su Sky

La malattia funziona sempre da stimolo verso futuri traguardi scientifici. Ho sempre cercato di far diventare il dolore uno stimolo in più per capirne e eliminarne le cause

ROMA. Dopo l´orrore della guerra aveva deciso di fare lo psicologo, da 50 anni è il simbolo della lotta ai tumori. Il professor Umberto Veronesi, 83 anni, si racconta nel programma in dodici puntate di Alessandro Cecchi Paone Una vita per la scienza in onda il venerdì alle 19 e alle 24 su Class CNBC (canale 505 di Sky) e in replica il sabato (alle 12 e alle 22) e la domenica (alle 15 e alle 23).
Se non avesse fatto il medico, cosa le sarebbe piaciuto fare?
«Lo psicologo. A 18 anni finii in guerra e fu lì che maturai l´idea di approfondire la conoscenza della nostra psiche per capire le origini delle crudeltà che avevo sperimentato».
Ha una famiglia numerosa, che tipo di padre è stato?
«Spero di essere stato un buon padre, anche se fisicamente poco presente in casa. Non ho mai creduto nel modello autoritario. Ho tentato di trasmettere ai miei figli i valori in cui credo: libertà, tolleranza, solidarietà».
In famiglia si riesce a trasmettere la passione ai figli? C´è chi ha seguito la sua strada, ma altri hanno fatto scelte artistiche. C´è un rapporto, secondo lei, tra creatività e scienza?
«Sì, la passione si trasmette. Ciò che credo di avere trasmesso ai miei figli è proprio la passione per ogni forma di espressione del libero pensare, scientifico, artistico, creativo. Ognuno dei miei figli ha seguito una di queste passioni. La creatività, così come la scienza, presuppone l´esercizio di molte abilità cognitive-intellettuali, come la capacità di concentrazione e la velocità di elaborazione».
Come fa a essere così sereno?
«Più che sereno sono fiducioso. Ciò che mi ha impedito di scoraggiarmi è stata la fiducia nella forza della razionalità che si esprime nella ricerca. La malattia è sempre uno stimolo verso futuri traguardi scientifici e noi medici siamo come atleti impegnati nel tentativo di superare un primato. Ho sempre cercato di far diventare il dolore uno stimolo in più per capirne e eliminarne le cause».
Cosa impara dai pazienti?
«Ho imparato e imparo molto. Prima di tutto che la malattia va curata anche nella mente, e non solo nel corpo. Soprattutto dai miei pazienti ho ricevuto molto: molto amore, molta fiducia, molta empatia».
Quale giudica la più grande sconfitta?
«Sicuramente è quella di non aver definitivamente debellato il cancro, anche se ci stiamo avvicinando a questo traguardo».

l’Unità 3.4.09
Al Circo Massimo con la Cgil domani ci sarà anche il Pd
di Bruno Miserendino


Il Pd sosterrà la manifestazione della Cgil. Non ci saranno «delegazioni ufficiali», ma i democratici, dice Franceschini, sono al fianco dei lavoratori. Giornata difficile nel Pd, con qualche equivoco, chiarito, con Bersani.

Dalle Fs ottanta treni. È caccia all’ultimo pullman
Mezzi di trasporto tutti esauriti. Le Fs non possono andare oltre gli 80 treni già messi a disposizione. Per i pullman quota 4.800 verrà abbattuta soltanto trovando nuovi mezzi in province e regioni limitrofe a quelle di partenza.

Previsti cinque cortei. La partenza alle ore 9
Cinque i cortei previsti che si muoveranno alle 9. Il primo dalla Stazione Termini, il secondo dalla Stazione Tuscolana, il terzo da Piazzale dei partigiani, il quarto da Piazzale dei navigatori e il quinto dalla Stazione Tiburtina.

Ventidue megaschermi. per seguire i discorsi
Imponente la struttura predisposta al Circo Massimo. Il palco della manifestazione è profondo 12 metri, alto 18 metri e largo 34 metri. L’acustica sarà garantita da 22 torri mentre le immagini degli oratori saranno trasmesse da 12 megaschermi.

Sei lavoratori simbolo. sul palco insieme a Epifani
Il discorso di Epifani inizierà alle 12.30 e sarà preceduto da sei interventi: un operaio di Pomigliano, una pensionata di Roma, una giovane docente precaria della Lombardia, un immigrato ghanese residente in Emilia e un medico che opera in Sicilia.

Il Pd ci sarà. Quella dei democratici alla manifestazione della Cgil non è proprio un’adesione formale e ufficiale, considerata inopportuna, viste le divisioni dei sindacati, però il sostegno c’è ed è convinto. Da Bruxelles, a fine giornata, Dario Franceschini tenta la quadra di una scelta sofferta in casa Pd: «Non c’è bisogno di una delegazione ufficiale perchè sabato ci saranno molti parlamentari e personalità del partito come sono stati e saranno alle manifestazioni di Cisl e Uil. Ci saremo - aggiunge - come in tutte le manifestazioni che chiedono un impegno a sostegno del lavoro, contro la disoccupazione e le scelte sbagliate del governo».
Equivoci
La dichiarazione arriva al termine di una giornata costellata anche da qualche equivoco. Anzi, questa dell’equivoco è la versione che si accredita al vertice del Pd, qualcuno è più malizioso e ci intravede il segnale di future divisioni con Bersani. In effetti a metà pomeriggio l’ex ministro dell’Industria era sembrato rompere gli indugi: «La manifestazione della Cgil? Il Pd ci sarà, un grande partito deve esserci là dove si mobilitano i lavoratori, stiamo definendo la delegazione...» Sembrava una sorta di annuncio ufficiale, e anche una novità, rispetto al recente passato, quando i democratici evitarono adesioni formali allo sciopero generale della Cgil pur condividendone in pieno le motivazioni, ma lo stesso Bersani frena subito dopo, sapendo di toccare un tasto foriero di polemiche: «Il Pd - aggiunge - ci sarà nelle forme in cui è giusto che ci sia un grande partito popolare che ha una sua piattaforma e sue posizioni». Insomma un’adesione alla mobilitazione, alla protesta dei lavoratori sulla crisi, non un parteggiare per la Cgil «contro» Cisl e Uil. Sta di fatto che è partito un giro di telefonate con Bruxelles per chiarire l’equivoco della «delegazione ufficiale». Bersani precisa: «Non c’è un’adesione ufficiale nel senso formale del termine, ma sarà il segno di una presenza concreta per dire che dove ci sono i lavoratori, noi ci siamo, e come sempre ci auguriamo che in una situazione così drammatica il mondo del lavoro riesca finalmente a parlare con una sola voce». Lui, Bersani, in piazza ci sarà. E ci saranno oltre cento parlamentari del Pd, e diversi big (Fassino, D’Alema, Rosy Bindi, che aderisce anche se fisicamente sarà per comizi), e aderiscono decine di amministratori di regioni, comuni e provincie, anche provenienti da Margherita e popolari, non solo ex diessini.
E Franceschini? Lui ieri per tutto il giorno ha detto, anche ai suoi collaboratori, che aveva deciso se andare o no alla manifestazione, ma che non l’avrebbe detto a nessuno. Per il solito motivo: «Altrimenti tutti parlano delle divisioni nel Pd, e non delle ragioni della protesta». Ragioni che per Francschini sono validissime. La realtà è che il segretario del Pd vorrebbe andare. Vuole recuperare consensi a sinistra, e rinsaldare il rapporto col mondo del lavoro, della scuola, della produzione. La sintonia con la Cgil, nella valutazione della crisi, e sull’insufficienza dell’azione di governo c’è, e non da ieri.
La presenza
Ma è chiaro anche che la sua presenza in piazza a fianco di Epifani sarebbe presa molto male da Bonanni e Angeletti. Infatti Cisl e Uil sono sul piede di guerra, e una parte del Pd, sia pure con motivazioni unitarie, considera sbagliata l’adesione ufficiale alla manifestazione di un solo sindacato. È il caso del veltroniano Giorgio Tonini, che non sarà alla manifestazione pur esprimendo solidarietà con i lavoratori: «Il Pd deve lavorare per l’unità sindacale, sarebbe sbagliato se dessimo l’impressione di legarci a una parte».
Veltroni probabilmente non andrà, mentre un altro deputato, braccio destro dell’ex segretario, come Walter Verini, andrà. Ma quel che conta non è la lista di chi va e chi no. Che ci siano idee diverse, non è una novità, l’obiettivo di Franceschini è evitare che le differenze generino mostri.

l’Unità 3.4.09
Conversando con Giorgio Bocca
«Conformisti e giganti. i giornali si salvano solo con un’informazione etica»
intervista di Rinaldo Gianola


Troppe pagine e poche scelte, l’abbondanza non significa fare del buon giornalismo

Storici quotidiani americani chiudono o bloccano le edizioni cartacee a favore di Internet. In tutto il mondo giornalisti e tecnici perdono il posto. La crisi investe anche l’editoria italiana. Ma non è solo una questione economica. La vera domanda è quale ruolo possono avere ancora il giornalismo e l’informazione. Lo abbiamo chiesto a Giorgio Bocca, protagonista del giornalismo italiano.
Bocca, nel tuo ultimo libro “È la stampa, bellezza!” alla fine scrivi che ci sarà sempre bisogno di un giornalismo etico e di informazione. Sei sicuro?
«La mia è una speranza, non è una certezza. Viviamo oggi un momento difficile. La crisi dell’editoria è come quella dell’auto: abbiamo fatto prodotti troppo grandi e troppo cari, la strada del gigantismo la paghiamo ora. Siamo vittime e protagonisti di scelte sbagliate, di un’economia incontrollabile e irrazionale che ti spinge a comprare la casa anche se non hai soldi, siamo dentro un capitalismo finanziario disastroso che pensa di risolvere i problemi della gente vendendo truffe e illusioni».
E i giornali?
«Sono parte del gioco. Abbiamo fatto a gara a chi diventava più grande. Repubblica, il Corriere della Sera e altri giornali hanno moltiplicato le pagine in modo spropositato, con inserti e supplementi che nessuno legge. Tutto per la pubblicità, abbiamo asservito i giornali alla pubblicità e ora che è in crisi non sappiamo più cosa fare. Il nostro modello sta crollando».
Ma il modello per anni ha funzionato: più pubblicità, tante copie, soldi per tutti, per le imprese e anche per i giornalisti.
«Non mi è mai piaciuto. Questa crisi è frutto di quella euforia, è avvenuto tutto in modo così disordinato e caotico che anche i bravi manager non hanno capito per tempo che la stagione dell’opulenza sarebbe finita. Ci sono giornali importanti, con grandi azionisti, che si trovano in difficoltà perché la pubblicità non tiene più il passo del loro gigantismo. Il Corriere e Repubblica sono oggi penalizzati dalle spese assurde realizzate negli anni passati, da un modo sbagliato di fare i giornali».
Un esempio.
«Troppe pagine e poche scelte. L’altro ieri il mio giornale mi ha chiesto un articolo sull’arresto di Mario Chiesa. Il giorno dopo c’erano cinque articoli su questo argomento. Non ha senso. C’è sempre la paura di non esser abbastanza abbondanti, pensando che l’abbondanza di articoli rappresenti la completezza dell’informazione. È un errore».
In questa crisi, però, non si può dare solo la colpa alle imprese, agli editori. I giornalisti si sono crogiolati in un comodo conformismo, magari ben retribuito proprio grazie a questo gigantismo delle imprese editoriali.
«È vero. Ugo Stille mi raccontava un po’ sorpreso come erano felici i redattori del Corriere quando c’erano i giochini, le promozioni, i gadget che portavano miliardi di pubblicità e migliaia di copie. Ma non ho ancora capito che legame esiste tra questa corsa a diventare grandi e un giornalismo etico, d’informazione».
È molto più comodo scrivere una “marchetta” per lo stilista o il politico brillante, piuttosto che andare in giro a fare inchieste, a cercare notizie, a studiare, non ti pare?
«Nei giornali la corruzione dell’etica c’è sempre stata. Una volta era determinata dall’egemonia politica, ci poteva essere dipendenza dai partiti. Oggi, invece, c’è la corruzione del denaro e della pubblicità, è una malattia più grave e non si sa come guarirla. I giornalisti hanno seguito l’onda dei loro editori: meglio vivere di rendita, difendere le posizioni, guai alla concorrenza. I giornali non competono più. Quando lavoravo alla Gazzetta del Popolo aspettavamo la prima edizione della Stampa per vedere i “buchi” (le notizie esclusive ndr) che avevamo dato e preso. C’era una concorrenza vivissima. Adesso non succede più. Oggi si fa la gara solo sulla scemenza».
Forse un cambiamento potrebbe arrivare dai direttori, se gli editori ne trovassero qualcuno di nuovo.
«La staffetta al Corriere tra due direttori identici, che hanno già occupato quel posto, conferma che gli editori vogliono che tutto resti così com’è, non vogliono fastidi. I padroni hanno semplicemente riaffermato il loro potere proprietario: spostiamo i direttori e non cambiamo nulla».
È sempre stato così o una volta era diverso. I grandi industriali sapevano fare gli editori?
«Chi possiede i giornali in Italia lo fa per esercitare il potere, c’è poco da farsi illusioni. Gianni Agnelli si divertiva con i suoi giornali, sceglieva anche direttori in gamba come Gaetano Scardocchia, ma poi finiva con quello che adesso fa il cinema.... come si chiama? Ecco: Carlo Rossella».
Il padrone peggiore?
«Berlusconi. Lui ha sempre dato il peggio. Si serve dei giornalisti affinché gli diano lustro, usa i suoi giornali per intimidire gli avversari. La libera informazione non gli interessa, lo spaventa».
C’è una cura per salvare i giornali e il giornalismo?
«Le medicine che vedo mi sembrano sballate. C’è chi dice che il futuro è Internet oppure la free press. Non mi convincono le nuove tecnologie. Il mio collaboratore che mi aiuta nel lavoro mi porta notizie scaricate da Internet che arrivano da chissà dove, di cui non si conosce la fonte, difficilmente verificabili. Ma che giornalismo è questo».
E allora, siamo morti?
«L’unica soluzione che vedo è questa: tornare ai giornali di opinione di mezzo secolo fa, con 50 redattori invece di 400, tagliare i costi. Tornare a un giornalismo serio, di vera informazione. Oggi i giornali sono ricchi di pagine, ma spesso non si trovano le informazioni, i contenuti bisogna cercarli affannosamente».
C’è un modello che ti piace?
«Ci prova Giuliano Ferrara, che naturalmente non mi piace per nulla. Non condivido le sue scelte, fa il teocon con delle posizioni inaccettabili per uno con la mia storia. Però il Foglio tenta di fare un’informazione colta, un giornalismo di qualità».
Consiglieresti a un giovane di fare il giornalista?
«Per me il giornalismo è stata una missione, il lavoro gratificante di una vita e mi sembrava, dopo la grande stagione della lotta partigiana, di rendermi utile al Paese. Adesso non so davvero cosa consigliare. Il giornalismo, forse, offre ancora un certo status, magari viaggi e un buono stipendio. Vedo che molti sognano di fare l’anchorman in tv. La mia preghiera è che ci sia ancora bisogno di un’informazione etica».

l’Unità 3.4.09
Sondaggio su Facebook del settimanale cattolico Famiglia Cristiana
«Vota il personaggio più simpatico del Vangelo». E a sorpresa va in testa l’Iscariota
Giuda vince la sfida nella chiesa dei famosi
di Cesare Buquicchio


Fu il perdono la chiave di tutto. Il vero passo avanti compiuto dalla dottrina cristiana rispetto all'ebraismo. Il tassello che spinse i fedeli di Gesù a diventare, col tempo, la religione più diffusa del mondo. E, a distanza di oltre 2000 anni da quella svolta, fa piacere constatare che i cristiani non abbandonano la scelta del perdono nemmeno in questi tempi di ideali incerti. Certo, molte cose sono cambiate nel frattempo, e l'ortodossia cristiana ha dovuto fare i conti (a volte malvolentieri) con l'evoluzione del pensiero dell'uomo.
Una novità che la Chiesa sembra aver sposato con entusiasmo è quella del marketing. E così, sul settimanale cattolico Famiglia Cristiana è apparsa una iniziativa che punta a rivitalizzare l'interesse dei lettori cattolici per i vangeli. Eccola qui, come appare testualmente sulla pubblicazione e sul sito internet: «“Scegli il personaggio del vangelo che ti piace di più” e raccontaci perché lo preferisci (Gesù e Maria esclusi). Ti abbiamo preparato un elenco dei più importanti sul sito www.famigliacristiana.it, ma scegli liberamente. Puoi votare anche via mail a simpatico@famigliacristiana.it, o al numero di fax 02/48072778, o per posta. Oppure cercaci su facebook (http://www.facebook.com/pages/Famiglia-Cristiana/71682892936) e vota on-line. Ogni settimana pubblicheremo la classifica aggiornata».
Internet dunque, addirittura Facebook, valgon bene una messa se c'è da attualizzare il vangelo tra i più giovani a rischio agnosticismo, devono aver pensato nella redazione di don Antonio Sciortino. Ed ecco così il «televoto da casa» per il personaggio più “simpatico” delle sacre scritture. Con una tendenza da reality che va forse anche al di la delle intenzioni di Famiglia Cristiana e scatena, sul sito internet, le polemiche («così si svende il valore dei vangeli») tra i lettori.
Ma la vera sorpresa è la classifica che appare sul più popolare dei social network. Primo e, finora, senza rivali, tra i personaggi più amati c'è lui: Giuda. Sì proprio l'Iscariota che vendette Gesù per trenta denari condannandolo alla croce. Una provocazione? Proprio di quei dissacranti adolescenti che bazzicano la Rete? Oppure il grande e profondo sentimento del perdono che ritorna a pervadere il popolo cattolico a pochi giorni dalla santa Pasqua?
Starà a Famiglia Cristiana interpretare e decodificare il voto. E spiegarci come e perché Giuda primeggia e Maria Maddalena si piazza terza dietro all'Arcangelo Gabriele. Perché il Buon Ladrone si piazza sesto, scavalcando anche San Giuseppe, mentre i Re Magi, usciti dai nostri presepi, scivolano subito al 16° posto.
Ma la vera domanda che aleggia nel cielo è (senza voler essere blasfemi): se questo sondaggio si concluderà con la vittoria di Giuda, non vorranno poi i lettori affrontare la sfida della simpatia tra l'Iscariota e Gesù (per ora prudentemente escluso insieme a Maria dalla competizione)? Insomma, sarà Facebook ad ospitare la “rivincita”?

Repubblica 3.4.09
La rivolta dei nuovi esclusi
di Ezio Mauro


Come una legge meccanica, prima o poi la crisi economica che stiamo vivendo doveva produrre effetti culturali, politici e sociali: ci siamo. I nodi che vengono al pettine, l´altro ieri a Londra per strada, con la morte di un uomo, l´altro giorno in Francia, domani in Italia o dovunque nelle capitali del Primo Mondo � tutte uguali e indifferenti come paesaggio della crisi � sono l´inizio del secondo atto di questa rivoluzione in corso nella vita dell´uomo occidentale. Proviamo a misurarne cause, ragioni ed effetti liberandoci subito dal ricatto che ogni volta pesa sulla discussione pubblica, dicendo per oggi e per domani che gli atti violenti sono sempre inaccettabili, da qualunque motivazione siano sorretti.
Ma subito dopo domandiamoci: quanta violenza c´è in questa crisi che brucia lavoro, valore, progetti di vita incompiuti, destini? La politica, la cultura, qualcuno di noi si è preoccupato di misurarla, di darle un peso e quindi un nome e un significato di cui tenere conto?
E´ difficile negare l´impressione che i grandi della terra riuniti a Buckingham Palace davanti alla Regina e poi a cena a Downing Street fossero ieri leader senza rappresentanza. Da qualche parte � da qualunque parte nei nostri Paesi � ormai si muove una massa sommersa di persone che fanno separatamente i conti individuali con la crisi, non solo e non tanto in termini di perdita di valore, ma in termini di vita, di sussistenza, di identità e di ruolo sociale. Per loro è tornata centrale, nella nebbia globale della crisi, nello stordimento della finanza, la grande questione novecentesca del lavoro: lo hanno perso, lo stanno perdendo, o non riescono nemmeno a trovarlo una prima volta. E scoprono che senza lavoro, perdono d´importanza i diritti post-materialistici, come li chiamano i sociologi, quelli dell´ultima modernità, che vengono dopo la piena soddisfazione dei bisogni primari.
Anzi, senza lavoro, con ciò che ne consegue, viene meno un interesse per ogni discorso pubblico, per il paese, per la vicenda collettiva. Senza il lavoro, ecco oggi il punto, queste persone si sentono ex cittadini. E quei ragazzi per strada, a Londra svolgevano paradossalmente l´unica rappresentanza oggi visibile di quel mondo che non sa a chi rivolgersi per farsi sentire.
La politica è in difficoltà perché aveva superato la questione del lavoro come se fosse antica. La cultura l´aveva resa impronunciabile, eufemizzandola con parole che non vogliono dire niente, "saperi", "competenze", "professionalità". Il capitalismo aveva addirittura creduto di poter rompere il nesso che per tutto il secolo scorso lo aveva legato al lavoro, liberandosene per proseguire da solo.
Il capitale senza il lavoro è così diventato uno dei motori di questa crisi, perché ha ridotto la complessità della globalizzazione ad una sola dimensione, quella economica, ha sostituito l´autonomia della finanza all´autonomia della politica, resa marginale o servente fino a consumare il nesso che nelle democrazie ha sempre legato i ricchi e i poveri.
Col risultato di far saltare il tavolo della responsabilità democratica che in Occidente teneva insieme i vincenti e i perdenti della globalizzazione e che nello Stato-nazione era anche il tavolo di compensazione dei conflitti, il nucleo stesso del progetto occidentale di modernità, con l´incontro regolato e consapevole tra il capitalismo, il lavoro, lo stato sociale e la democrazia.
è quell´alleanza che oggi è andata in crisi, con devastazioni prima culturali e politiche, poi per forza di cose sociali. Qui è cresciuta la nuovissima separatezza delle élite, che le rinchiude in una legittima aristocrazia dei talenti, incapace però di riconoscere obblighi generali, doveri pubblici, di produrre un dibattito che parli all´insieme del paese e distribuisca valori collettivi.
Attraverso questo meccanismo l´élite si trasforma in classe separata invece di diventare establishment, cioè gruppo dirigente testimone di regole che valgono per tutti e dunque parlano a tutti, esercitando pubblicamente il privilegio di avere responsabilità.
Da qui nasce la frattura sociale che abbiamo davanti e che la crisi porta per strada. Senza questa alleanza occidentale tra capitale e lavoro, tra responsabilità e democrazia può succedere che l´orgia speculativa non solo distorca il mercato finanziario, ma acquisti come già prima del disastro del ´29 � lo notava Galbraith � una stupefacente centralità culturale nel nostro tempo, dunque una legittimazione collettiva. Col risultato denunciato da Michael Walzer quando «il denaro oltrepassa i confini» e senza più alcuna barriera culturale prova ad acquisire beni sociali come fossero merce, privilegi, favori, esenzioni, ruoli, incarichi, corrompendo. Ecco perché la crisi economica rischia di diventare crisi di legittimità, deficit di uguaglianza, problema di democrazia. Mai il sentimento di esclusione degli sconfitti è stato così forte. Mai l´impotenza della governance mondiale è stata così evidente, aggravata dalla crescita dei bisogni reali, che con i ritmi della disoccupazione sta diventando emergenza. Va in crisi il principio stesso di cittadinanza, il rapporto con lo Stato, la relazione tra libertà e potere, mentre i nuovi perdenti della globalizzazione non hanno più nemmeno un sovrano certo e un territorio definito per muovere la loro protesta.
Dopo aver vinto la sfida del Novecento l´Occidente rischia di perdere qui, di fronte all´unica domanda che conta per gli esclusi: qual è infine l´efficacia della democrazia, la sua capacità di risposta, la sua soglia di sensibilità e di attenzione? Quanta nuova povertà può sopportare in casa sua, dopo aver guardato alla televisione per decenni la povertà atavica degli altri? Quale politica sa produrre? E capace di condivisione, la democrazia, o solo di compassione, cioè di qualcosa che ha valore morale ma certo non politico?
Di fronte a questo malessere democratico che stiamo vivendo nulla è fuori corso come il pensiero di una "rivoluzione conservatrice", centrata su soggetti forti e sull´assenza dello Stato e delle sue regole. Bisognerebbe che la sinistra lo capisse, si ricordasse dei suoi obblighi verso l´uguaglianza, del lungo cammino per l´inclusione, per i diritti, per coniugare le libertà politiche con la sicurezza materiale. Il secolo scorso è stato, alla resa dei conti, lunghissimo, se il progetto della modernità democratica occidentale è durato fino ad oggi, vivo. Gli strumenti della sinistra sono i più adatti a conservarlo, modificandolo sotto la spinta della crisi, ma salvandolo. Basta saperlo. Anche perché se quel progetto salta, non ci sarà più sinistra, nella post-democrazia in cui rischiamo di vivere.

Repubblica 3.4.09
Il segretario di Rifondazione unico leader italiano in piazza
Ferrero sfila con i no-global "La rivolta arriverà in Italia"
di r.ma.


ROMA - «Ho manifestato a Londra perché il movimento no-global aveva e ha ragione nel denunciare le magagne della ricetta liberista. Ed è incredibile che gli stessi Paesi che hanno prodotto il disastro economico e finanziario si candidino ora a gestire la crisi». Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, è stato l´unico leader politico italiano a manifestare contro il G20 per le strade londinesi. Da lì dice che «l´ondata di ribellismo arriverà anche l´Italia».
Eppure a Londra sono state prese misure senza precedenti: una montagna di risorse e le prime nuove regole per la finanza mondiale. Le sembra poco?
«Non è un problema di quantità, bensì di qualità degli interventi. Io dico che finché saranno i Paesi più ricchi a decidere del mondo, dalla crisi non se ne uscirà. Non nego, tuttavia, che ci siano elementi positivi, per esempio la parte relativa ai paradisi fiscali. Ma insisto: non è identico se con quei miliardi si incentivi, per esempio, la ricerca sul fronte delle energie rinnovabili oppure l´energia nucleare. Non dimentichiamoci che il Fondo monetario internazionale è lo stesso che, insistendo sui processi di privatizzazione, ha distrutto le economie locali. Sicuramente nelle decisioni del G20 manca un qualsiasi accenno alla distribuzione della ricchezza. È invece una delle cause della crisi sta proprio nella polarizzazione estrema della ricchezza».
Ma lei crede che il G20 dovesse occuparsi di una diversa distribuzione del reddito? In ogni caso i manager non riceveranno più i bonus in caso di fallimento.
«Esattamente come nel passato i Grandi hanno insistito nel proporre la riduzione delle tasse, ora avrebbero dovuto indicare la strada di un inasprimento della tassazione delle rendite, dei patrimoni, dei redditi più alti. Io temo che quei mille miliardi che gestirà l´Fmi alla fine li pagheranno i lavoratori».
Arriverà anche in Italia l´onda della ribellione contro i manager?
«Se non si daranno risposte ai problemi concreti, penso proprio di sì».

Repubblica 3.4.09
Sesso. Perché va insegnato insieme alle tabelline
di Anais Ginori


Dopo il caso della maestra sospesa per una lezione "hard", si discute su quando sia bene iniziare a essere espliciti La psicologa americana Sharon Maxwell, in un libro, avverte: "Meglio essere i primi ad affrontare questi temi"

"I ragazzini sono già bersagliati di informazioni sull´argomento. Ci pensano amici e tv"
L´esperienza italiana dell´Aied: un tempo teneva corsi nei licei, oggi va nelle elementari

«Mamma, tu lo sai che cos´è una spogliarellista? E una prostituta?». Ben Maxwell aveva appena 7 anni. Quando fece quella domanda, era imbrigliato dalla cintura di sicurezza sul sedile posteriore della macchina, di ritorno da scuola. «Faticai a tenere saldo il volante - ricorda la madre Sharon - . Dove diavolo aveva sentito parlare di spogliarelliste e prostitute?». A Novara una maestra è appena stata ammonita dal preside perché durante la lezione di scienze ha risposto in modo esplicito a quesiti che assomigliavano molto a quelli del piccolo Ben. I genitori della scuola elementare non hanno gradito e la maestra è stata temporaneamente sospesa.
Negli Usa, invece, Sharon Maxwell è ormai diventata una star, specializzata in lezioni di sesso per bambini. Dopo aver tentato di rispondere alle domande piccanti del figlio, questa psicologa americana ha infatti deciso di trasformare l´istintivo imbarazzo in una sfida professionale. Dieci anni fa ha iniziato organizzando centinaia di corsi e incontri di educazione sessuale nelle scuole. Il successo è stato tale che ha pubblicato un manuale diventato bestseller, "The Talk", in cui invita i genitori ad affrontare il tema del sesso già alle elementari e spiega come superare il disagio. Nostro, non loro. «Dobbiamo essere i primi a farlo» ammonisce la psicologa nel suo libro, "È ora di parlarne", in uscita per Feltrinelli. «Oppure - avverte - lo farà qualcun altro al posto nostro».
L´invito della psicologa americana nasce da una semplice constatazione. «Bisogna aprire gli occhi sul fatto che il mondo intero parla di sesso ai nostri figli». Suo figlio Ben aveva scoperto la parola "prostituta", ma l´originale era ancora più triviale, imparata passando il pomeriggio a casa di un amico a divertirsi con un videogioco. Nel libro, Maxwell nota come - a dispetto della liberazione dei costumi - discutere di sesso in famiglia è ancora assai complicato.
«Prima se ne parla, meglio è». Anna Sampaolo, coordinatrice dei corsi dell´Aied (associazione per l´educazione demografica), condivide la tesi della Maxwell. L´episodio di Novara non deve quindi stupire. «Dalla mia esperienza - racconta Sampaolo - posso dire che le domande dei bambini di quinta elementare sono precise. Vogliono sapere cos´è un omosessuale, cos´è una prostituta. Utilizzano spesso un linguaggio molto crudo». L´Aied è stata costretta a cominciare sempre più presto le sue lezioni. «Trent´anni fa ci occupavamo solo dei licei - ricorda la psicologa - . Poi siamo passati alle medie, e oggi andiamo anche nelle quinte elementari». Tutto su base volontaria, visto che l´educazione sessuale non è prevista da nessuna legge. «Ci affidiamo a quei pochi illuminati dirigenti scolastici che ci chiamano».
La difficoltà ad affrontare il sesso in famiglia non è prettamente italiana. Secondo un sondaggio europeo, la principale fonte di informazione sessuale per i ragazzi sono i media (stampa, tv e Internet) e gli amici. «I bambini ne parlano tra di loro in un modo differente. La parola dell´adulto è dunque fondamentale». I corsi dell´Aied sono di «affetto e sesso», cercano di estendere il discorso a emozioni e sentimenti. Per chi se la sente, consiglia l´Aied, è giusto intavolare un discorso su come nascono i bambini, o almeno provarci. «Se c´è vergogna da parte dei genitori, meglio esplicitarla piuttosto che mantenere un non-detto». E comunque, rispondere sempre. «Per non perdere un´occasione di integrare e correggere l´educazione sessuale che i bambini si fanno altrove». È quel che ha potuto verificare Sharon Maxwell. «Ben, so cosa sono una spogliarellista e una prostituta. E tu lo sai?». «Sì. La spogliarellista è una che si sfila il reggiseno, la prostituta è una che si toglie tutto».

Repubblica 3.4.09
Guerra tra editori. Calasso fa bloccare un volume della Bollati: il curatore sono io
Il libro "Scomparso" di Fachinelli
di Simonetta Fiori


Ma la figlia ci ripensa. Così resta congelata anche "un´inedita autobiografia"
Nel ventennale della morte, doveva uscire in libreria l´opera omnia dello psicoanalista
Cataluccio: "Adelphi s´è ricordata dello studioso quando ha saputo di noi"
Calasso: "Teniamo molto alle sue opere, anche agli scritti sparsi"

Era stato presentato come un avvenimento culturale, la raccolta completa delle opere di Elvio Fachinelli in due volumi. Non solo i suoi libri conosciuti, ma anche un volume di settecento pagine radicalmente nuovo, con scritti sparsi dello psicoanalista, comparsi su giornali e riviste nell´arco di un trentennio. Era pronta la copertina, già decisa la collana "Nuova Cultura". Un titolo secco, Opere, la cura affidata a Lea Melandri, compagna di militanza ai tempi della rivista L´erba voglio. Pronto anche "lo strillo" per i librai, ben calibrato il risvolto, che ripercorre l´inquieta biografia del "rinnovatore libertario" scomparso vent´anni fa. La redazione di Bollati Boringhieri era attrezzata per l´uscita, ma il lavoro annunciato per lo scorso autunno non è mai arrivato in libreria.
Poco prima di andare in stampa, l´opera è stata bloccata da una lettera. Scritta dal "curatore" scelto da Fachinelli nel suo testamento. Un amico carissimo, un editore importante, l´editore di tre dei suoi libri più significativi. La missiva è indirizzata a Giuditta, figlia ventiseienne dello psicoanalista. L´intonazione usata da Roberto Calasso appare poco conciliante. Fachinelli racchiuso in un´opera omnia? Inconcepibile. Un tradimento, in sostanza, questo progetto editoriale. Una pietra tombale. Un torto all´originalità di un pensatore curioso e disorganico. Giuditta si lascia convincere e rinuncia alla pubblicazione, a cui pure aveva partecipato. L´opera di Bollati Boringhieri viene fermata. Con essa la preziosa raccolta di pagine poco conosciute, "un´inedita autobiografia".
L´idea di mettere insieme libri e scritti sparsi di Fachinelli risale al decennale della morte. «Allora», racconta Melandri, «ebbi modo di constatare che, dei suoi cinque libri, alcuni erano di difficile reperibilità, altri decisamente esauriti. Con insistenza riuscii a far ristampare dall´editore Feltrinelli Il bambino dalle uova d´oro e dall´Adelphi La freccia ferma. Però continuava a mancare un´opera completa che restituisse la complessità di un pensatore originale, oggi totalmente dimenticato». Nessun problema di copyright con l´Adelphi, già editrice di La freccia ferma, Craustrofilia e La mente estatica? «No, sul piano dei diritti non c´era incompatibilità», spiega Cataluccio. «Noi ci siamo valsi del diritto di "opera in raccolta". Le obiezioni mosse da Calasso infatti non riguardano il copyright, ma l´opportunità di stampare l´opera omnia. Mi chiedo però come mai l´editore-curatore-erede intellettuale di Fachinelli si sia ricordato del grande psicoanalista solo quando ha saputo del nostro progetto editoriale. Non a caso la figlia Giuditta si è rivolta a me, non a Calasso, lamentando il disinteresse di Adelphi per i titoli di suo padre. Libri che circolavano poco, uno addirittura esaurito».
La Bollati Boringhieri che "sveglia" l´Adelphi? Calasso sbuffa: «Ovviamente teniamo molto alle opere di Fachinelli e non abbiamo bisogno che alcuno ce le ricordi. Nel gennaio di quest´anno abbiamo acquistato i diritti del Bambino dalle uova d´oro, appena abbiamo saputo che il titolo era tornato libero, e a settembre sarà in libreria la nuova edizione, in veste diversa dalla prima, della Mente estatica». Ma fu proprio Giuditta a lamentare con Cataluccio la scarsa visibilità dei libri paterni. «La freccia ferma e Claustrofilia sono disponibili nella Piccola Biblioteca, collana che si trova ovunque. Sarebbe stato tutto più semplice, in ogni modo, se la figlia di Fachinelli si fosse rivolta subito a me, a cui suo padre ha affidato la "cura editoriale" della sua opera».
Perché non coinvolgere fin dal principio Adelphi? Lo chiediamo a Lea Melandri, artefice del nuovo progetto su Fachinelli. «Ma non mi sembrava che ci fosse per Elvio tutta questa attenzione. È anche per spirito polemico nei confronti di Calasso che mi sono rivolta altrove. Le date mi sembrano significative: noi ci siamo mossi in anticipo sul ventennale, Calasso ha cominciato a darsi da fare solo dopo aver saputo del nostro lavoro. Attualmente La mente estatica appare ancora esaurito. Come "curatore" designato, non mi sembra granché».
Giuditta è una ventenne, quando è morto il padre aveva solo sei anni. Al telefono appare spaventata, anche inesperta. «Pensavo che sui diritti si accordassero le due case editrici», si difende. «Ora Adelphi s´è impegnata a ristampare in una nuova collana tutti i libri di mio padre». E il volume delle sue pagine sparse: non c´è il rischio di perderlo? Calasso dà per sottinteso l´interesse dell´Adelphi. «Aspetto molto questi scritti, che solo in parte conosco. Giuditta dovrebbe consegnarceli al più presto». Già, i materiali: ma in che forma? «Non intendo certo dare a Calasso le bozze del volume di Bollati Boringhieri», precisa Giuditta. «Sarebbe inopportuno». Forse anche un torto per chi vi ha lavorato per oltre un anno. Un pasticcio. Fachinelli l´antiautoritario non lo meritava.

Repubblica 3.4.09
Esce in Francia la prima traduzione integrale di un suo libro "scandalo"
Quando Cioran si infatuò del nazismo
di Fabio Gambaro


Non c’è uomo politico al mondo d’oggi che mi ispiri più simpatia e ammirazione di Hitler
L’ebreo non è un nostro simile... Un abisso ci separa che lo si voglia o no... Se fossi un ebreo mi suiciderei subito

PARIGI. Era il suo libro maledetto. Quello che aveva cercato di nascondere. Un violento pamphlet dove, accanto alla dichiarata infatuazione per il fascismo, non mancano pagine impregnate di xenofobia e antisemitismo. Schimbarea la fata a Romaniei (Trasfigurazione della Romania) è questo il titolo dell´opera che Emile Cioran scrisse e pubblicò a Bucarest nel 1936. Un libro percorso da un cieco fanatismo di cui in seguito si pentì. Ancora molti anni dopo, nel 1973, in una lettera al fratello non si capacitava di quell´errore giovanile: «L´epoca in cui ho scritto Trasfigurazione della Romania è per me incredibilmente lontana. A volte mi domando se sia stato proprio io a scriverlo. In ogni caso, avrei fatto meglio ad andare a spasso nel parco di Sibiu... L´entusiasmo è una forma di delirio.»
Di quel libro impresentabile, lo scrittore, che all´inizio degli anni Quaranta si era trasferito definitivamente in Francia, continuò a vergognarsi, tanto è vero che molti anni dopo, quando decise di ripubblicarlo a Bucarest, eliminò le parti più compromettenti. «Ho pensato che fosse mio dovere sopprimere certe pagine pretenziose e stupide», scrisse nella prefazione, rimuovendo così quel passato ingombrante e scandaloso. Agli specialisti quelle pagine erano note da tempo, ma ben pochi avevano potuto leggerle, anche se qualche anno fa Patrice Bollon ne aveva utilizzato alcuni passi nella sua biografia Cioran l´héretique. Oggi però è finalmente possibile consultare l´opera nella sua totalità, dato che ne è appena arrivata nelle librerie francesi la prima traduzione integrale: Transfiguration de la Romanie (L´Herne, pagg.344), che per il Figaro è un «documento storico e letterario importantissimo», da leggere come «la confessione di un giovane disperato, segnato dalla lettura del Declino dell´Occidente di Oswald Spengler, esasperato per essere nato in un paese senza storia, accecato dal miraggio totalitario e contaminato dalle teorie antisemite».
Nel 1936, Cioran ha venticinque anni. Negli anni precedenti, è stato in Germania, dove è rimasto affascinato dall´ascesa del nazismo. Tornato in patria, nel clima di totale sfiducia nei confronti del parlamentarismo, il giovane scrittore si avvicina alle posizioni della Guardia di ferro, alternando sentimenti antidemocratici, mistica del sacrifico e nazionalismo sfrenato. E´ in questo ambito che nasce Tarsfigurazione della Romania, in cui l´autore invoca «un´esaltazione confinante al fanatismo», che sola potrà sottrarre il suo paese al torpore e alla confusione, forgiando per esso un destino eroico. In questa prospettiva, il culto della forza e la volontà di potenza lo spingono ad ammirare nel fascismo italiano «un movimento che permette alla nazione di rialzarsi». «Il fascismo ha fatto per l´Italia molto di più che decenni o addirittura secoli d´evoluzione politica», scrive Cioran, che aggiunge: «Né il fascismo né l´hitlerismo hanno modificato le strutture sociali. Hanno però dato ciascuno alle rispettive nazione un dinamismo che è come un palliativo alle lacune delle loro visioni sociali».
Tutto un capitolo del libro è dedicato al nazionalismo e al disprezzo per gli stranieri, che per lo scrittore sono un tratto della cultura nazionale. Da qui il suo antisemitismo senza limiti: «L´invasione giudaica, negli ultimi decenni del divenire rumeno, ha fatto dell´antisemitismo il tratto essenziale del nostro nazionalismo». Il futuro autore del Sommario di decomposizione negli ebrei vede solo «vampirismo», «aggressività», «cinismo» e «volontà di accaparramento». Per lui, «l´ebreo non è un nostro simile, un nostro prossimo», [...] un abisso ci separa, che lo si voglia o no». Disprezzo che conduce a una conclusione lapidaria: «Se fossi un ebreo, mi suiciderei subito».
Per Laurence Tacou, che insieme alla Trasfigurazione della Romania pubblica anche un altro inedito, De la France (L´Herne, pagg. 94), non si tratta di «riabilitare» Cioran, ma neppure di «denigrarlo». Per la direttrice delle edizioni de L´Herne, occorre porre «la questione controversa del suo impegno politico alla fine degli anni Trenta». A questo scopo, un ricchissimo e appassionante Cahier Cioran (L´Herne, pagg.542), accanto a numerosi documenti e altri testi inediti, propone una scelta degli articoli che Cioran scrisse in quegli anni per il quindicinale di estrema destra Vremea, dove ci s´imbatte in frasi di questo tipo: «Non c´è uomo politico al mondo d´oggi che mi ispiri più simpatia e ammirazione di Hitler.» E anche se in seguito lo scrittore li rinnegò apertamente, questi scritti hanno continuato a gettare un´ombra retrospettiva su tutta la sua opera. Tuttavia, secondo Bollon, senza quel passato oscuro e scandaloso, senza quei terribili errori giovanili, Cioran non sarebbe mai diventato il maestro del pessimismo e del rifiuto di tutto le utopie che oggi tutti celebrano e ammirano.

Corriere della Sera 3.4.09
L’omaggio del narratore olandese all’autore di «Satura» contenuto nel nuovo libro: una «Spoon River» dei grandi scrittori
«No, caro Montale non brucerò i tuoi libri L’emozione continua»
I versi più discussi del poeta
di Cees Nooteboom


Quand’è cominciato? Avevo assistito spesso all’inizio del lungo, incerto e ultimo viaggio nelle antologie e nei manuali di colleghi più vecchi o più giovani del mio Paese, strane fe­ste al contrario nella cappella di un cimitero dove tutti si rivedevano. Lì si sospendevano per un istante le ostilità letterarie, si facevano le con­doglianze a improbabili parenti — gli scrittori non hanno famiglia — e si speculava in silenzio su quanto a lungo l’opera del defunto avrebbe re­sistito all’inconcepibile eternità.
Ma andare ai funerali non è la stessa cosa che visitare tombe. Per dirla in parole povere: una tomba de­v’essere chiusa, meglio se da un cer­to tempo. Lo sguardo nella voragine di terra con vista sulla bara ha anco­ra troppo a che fare con la vita. Visi­tare la tomba di un poeta è come fa­re un pellegrinaggio all’opera om­nia.
E questo è un altro paradosso, perché per l’opera non è necessario visitare una tomba. Se è bella è già nella tua libreria e basta tirarla fuori. I poeti non sono nelle loro case de­serte con la pipa morta, gli occhiali spessi e i manoscritti ingialliti trop­po in fretta, non sono neanche nelle loro statue e nelle loro tombe, ma so­lo nei loro libri.
Perché allora è lo stesso commo­vente — non trovo una parola mi­gliore — trovarsi improvvisamente, in una calda domenica pomeriggio dopo ore di ricerca in un piccolo ci­mitero isolato, davanti alla parete dietro o nella quale Eugenio Monta­le è tumulato insieme a centinaia di altri? Quasi avesse voluto avvolgersi nell’anonimato della massa come in un mantello protettivo, persone co­muni i cui nomi non avrebbero ri­chiamato alla mente alcun ricordo se non nei loro familiari, finché era­no vivi. In alto a sinistra, riposa Um­berto Manetti, in alto a destra, la ve­dova Olivia Pighetti, alla sua destra, Teresa Fontana, dall’altro lato, Emi­lio Cammili. Forse hanno letto le sue poesie, forse erano amanti del­l’opera e leggevano le sue critiche sul Corriere della Sera. O forse an­che no, si capisce. Si può dire di co­noscere qualcuno? Ma se non lo co­nosco, com’è che sento la sua voce? «Piove / sulla tua tomba / a San Felice / a Ema / e la terra non trema / perché non c’è terremoto / né guerra / (...). Piove ma dove appari / non è acqua né atmosfera, / piove perché se non sei / è solo la mancan­za / e può affogare».
Lo dice alla donna che giace so­pra di lui, ma non c’è alcun sopra o sotto, è solo il nome che sta sopra il suo, perché lei era lì da prima. Era morta il 20 ottobre 1963 e io cono­sco anche lei. Drusilla, la Mosca. La chiamavano così per via delle spesse lenti degli occhiali. Lo so perché l’ha raccontato lui. Ha avuto abbastanza tempo per scrivere di lei, le era so­pravvissuto diciotto anni. Dove sono ora, un tempo stava lui, sapeva di che cosa parlava. Scrivere è rimanda­re la morte, sapeva anche questo. La loro tomba è la numero 110. Ci sono solo dei fiori secchi e un lumino ros­so a forma di fiamma, acceso. Colli­ne in lontananza, silenzio, un cam­panile, pioppi, pini, cipressi, il bru­sio dell’autostrada. Nella poesia Per finire lascia un cinico testamento, nel quale ha più volte torto: «Racco­mando ai miei posteri / (se ne saran­no) in sede letteraria, / il che resta improbabile, di fare / un bel falò di tutto che riguardi / la mia vita, i miei fatti, i miei nonfatti. / Non so­no un Leopardi, lascio poco da arde­re / ed è già troppo vivere in percen­tuale. / Vissi al cinque per cento, non aumentate / la dose. Troppo spesso invece piove / sul bagnato».
Che ha torto risulta evidente nel­l’ampio apparato critico che il suo traduttore americano, Jonathan Ga­lassi, ha affiancato alla raccolta di poesie degli anni tra il 1920 e il 1954. Le chiavi segrete, da lui stesso par­zialmente svelate in lettere agli ami­ci, la mitologia personale, le figure femminili, le profonde radici nella poesia italiana del passato — Dante, Foscolo, Cavalcanti — no, i discen­denti letterari che invece avrebbe avuto non avevano intenzione di da­re tutto questo alle fiamme, il mise­ro cinque per cento che si era attri­buito li terrà impegnati ancora per secoli. Vivono con le sue parole, i suoi momenti, si avvolgono nei suoi paesaggi liguri, la sua chiaroveggen­za politica nell’epoca del fascismo, le sue ossessioni, le invenzioni delle sue Clizia e Volpe, tutto ciò aleggia ancora invisibile attorno a questa tomba, e forse lo si percepisce di più con lui che con molti altri poiché in gran parte della sua tarda poesia ave­va cercato di allontanarsi da se stes­so, come se avesse voluto avere un assaggio del grande addio distan­ziandosi, con versi brevi e aspri che sembravano quasi di un altro poeta, dall’elevatezza dei suoi primi anni.
(Traduzione dal nederlandese di Valentina Freschi, per gentile concessione di Cees Nooteboom e Iperborea)

Corriere della Sera 3.4.09
L’appuntamento. Ottanta opere dal Museo Nazionale di San Pietroburgo
I colori dell’ utopia
«Supremazia del nuovo» Così l’avanguardia russa voleva cambiare il mondo
di Rossella Burattino


La rivelazione Tra i maestri, da scoprire l’analitico Pavel Filonov

«Noi siamo la suprema­zia del nuovo. Noi fac­ciamo le arti rivoluzionarie del cubismo, del futurismo e del suprematismo». Così, Ka­zimir Malevich, scriveva nel 1920 per il volantino dell’Uno­vis, un gruppo di sostenitori dell’arte nuova di Vitebsk.
La stagione delle Avanguar­die storiche in Russia, però, era già iniziata nei primi anni del Novecento. Tra i protago­nisti, i pittori Vassily Kandin­skij, Marc Chagall, Pavel Filo­nov e, appunto, Malevich, ar­tisti con visioni e caratteristi­che differenti che si sono al­lontanati dal linguaggio del­­l’arte della logica, della tradi­zione e della borghesia con di­verse sensibilità. Il fil rouge che li unisce? La voglia di ri­voluzione e, poi, l’amarezza della disillusione dovuta alla crisi, ai crolli e alle radicali trasformazioni dell’inizio del XX secolo in Europa e nella contigua Russia. Cambiamen­ti storici e culturali raccontati nella mostra «Chagall, Kan­dinskij e Malevich. Maestri dell’Avanguardia russa», da oggi fino al 26 luglio a Como nella settecentesca Villa Ol­mo. «Proprio nel centenario del futurismo — spiega Ser­gio Gatti, assessore comuna­le alla Cultura e curatore del­l’esposizione assieme a Evge­nia Petrova — è interessante focalizzare l’interesse del pub­blico sulla complessità dei cambiamenti sociali, cultura­li e artistici russi, fino alla svolta realista imposta da Sta­lin nel 1934». Ottanta opere, tra oli, tempere e disegni pro­venienti dai più grandi musei della Russia, come il Naziona­le di San Pietroburgo.
Il percorso in mostra è ac­compagnato da frasi che esprimono il pensiero degli artisti. Si inizia con Chagall: «Il più figurativo e il meno in­cline all’appartenenza struttu­rata ad un gruppo», racconta Gatti. Tra i suoi capolavori esposti «L’ebreo rosso», «Lo Specchio» e «Gli amanti in blu». Oltre ai suoi dipinti astratti, ha un fascino fiabe­sco il trittico di Kandinskij re­alizzato con oli su vetro e de­dicato alle amazzoni: «Per lui rappresentare con le forme del passato era un’operazione morta». Con Malevich si giun­ge al cuore dell’esposizione: «Venti opere che ripercorro­no l’intera Avanguardia — continua il curatore — . 'Il ri­poso', pre-impressionista, è un Malevich che non ti aspet­ti ». Si conclude con una scom­messa: «Filonov, poco noto al pubblico italiano. Di gran­de potenza espressiva e mae­stro dell’arte analitica per la ricchezza del colore e dei par­ticolari minuziosi, da ammira­re ad esempio in 'Cosmo'».

Corriere della Sera 3.4.09
L’impegno dell’intellighenzia per dare al Paese una politica culturale. Che poi Stalin represse brutalmente
L’idillio con la Rivoluzione, un tragico equivoco
Da Chagall a Majakovskij, gli artisti annientati dal regime che avevano esaltato
di Sergio Romano


Nella tragedia del popolo rus­so, come Orlando Figes ha intitolato il suo grande libro sulla rivoluzione fra il 1891 e il 1924, esiste un capitolo al tempo stesso tragico e paradossale. È quello sugli straordinari movimenti di avan­guardia che fiorirono in Russia nei pri­mi decenni del Novecento e fecero di quel Paese una ribollente fucina di in­novazioni e sperimentazioni in tutte le arti, dalla letteratura alla poesia, dalla pittura alla scultura, dal teatro al cine­ma, dall’architettura alla musica.

Nello Stato dell’autocrazia, dei po­grom, della grande proprietà agraria, dell’analfabetismo diffuso e della indis­solubile unione fra potere politico e po­tere religioso, gli scrittori e gli artisti godevano di una invidiabile libertà cre­ativa e possedevano una sfrenata im­maginazione. Erano rivoluzionari, na­turalmente.
Ritenevano di essere le pat­tuglie avanzate di una grande trasfor­mazione politica e accolsero l’Ottobre rosso con grande entusiasmo divenen­do immediatamente, ciascuno nel pro­prio campo, i corifei del potere bolsce­vico. Da Andrej Belyi a Vladimir Majakovskij, da Nikolaj Gumilëv, mari­to di Anna Achmatova, a Maksim Gorkij, tutti gli scrittori dell’età d’ar­gento, come fu definita la stagione let­teraria russa agli inizi del Novecento, si misero al lavoro per dare al regime una politica culturale. I grandi registi teatra­li e cinematografici, da Konstantin Sta­nislavskij a Vsevolod Mejerchol'd, da Sergej Ejzenštejn a Vsevolod Pudovkin crearono spettacoli rivoluzionari. I pit­tori, i fotografi, gli architetti costruttivi­sti — Kazimir Malevic, Aleksandr Ro­dcenko, Vladimir Tatlin — disegnaro­no alcuni fra i più originali manifesti di propaganda dell’epoca e si dedicarono alle arti applicate per reinventare, con stile e significati rivoluzionari, tutti gli oggetti della vita quotidiana. Marc Cha­gall divenne commissario per le Arti a Vitebsk. Vasilij Kandinskij collaborò con il governo per la riforma dell’inse­gnamento artistico nelle scuole del nuovo regime.
Questo grande sciame di api rivolu­zionarie aveva due grandi protettori: Anatoliij Lunacharskij e Maksim Gorkij. Il primo, commissionario per l’Educazione, era un menscevico, quin­di intellettualmente estraneo ai furori ideologici della componente bolscevi­ca del partito. Il secondo, Maksim Gorkij , si compiaceva di esercitare sul­la intelligencija russa una funzione pontificale. Insieme e con l’aiuto di Bo­gdanov, i consoli dell’arte sovietica vi­gilarono affinché gli intellettuali e gli artisti potessero esprimere liberamen­te il loro talento.
Questo innaturale idillio tra le avan­guardie russe e il regime sovietico du­rò fino alla seconda metà degli anni Venti, quando la cappa del realismo so­vietico e i detestabili gusti estetici di Stalin chiusero, una dopo l’altra, le fine­stre che le grandi avanguardie russe avevano aperto nella cultura del loro Paese. Quasi tutti i protagonisti della grande rivoluzione artistica del ventennio precedente uscirono di scena, alcu­ni tragicamente.
Chagall, Kandinskij e Natalia Gon­charova scelsero la strada dell’emigra­zione. Sergej Esenin e Majakovskij si suicidarono, il primo nel 1925, il secon­do nel 1930. Malevic fu arrestato nel 1930 e morì nel 1935.
Izaak Babel sopravvisse penosamen­te fino al 1940. Mejerchol'd fu tortura­to, processato e ucciso nello stesso an­no. Quelli che sfuggirono alla morte do­vettero adattare il loro stile ai canoni imposti dal regime. I vecchi esponenti dell’arte anti-borghese divennero così cortigiani della nuova borghesia sovie­tica.
All’origine della loro sorte vi era un tragico errore. Nel 1917, quando i bol­scevichi presero il potere, gli intellet­tuali e gli artisti delle avanguardie era­no convinti di essere rivoluzionari. Era­no invece il raffinato prodotto del gran­de sviluppo economico della Russia dalla fine dell’Ottocento all’inizio del Novecento e della nuova borghesia che ne era protagonista. Odiavano i borghe­si che avevano comprato le loro opere e incoraggiato le loro energie creative. Amavano la rivoluzione che li avrebbe uccisi, cacciati dal loro Paese o, nella migliore delle ipotesi, zittiti.

Corriere della Sera 3.4.09
L’intervista. La pronipote Iwona traccia il ritratto del pittore: «Voleva applicare il Suprematismo alla vita quotidiana»
«Malevich? Viveva di arte assoluta»
intervista di Ksenia Tsareva


«Fece credere alla moglie di avere l’epatite per evitare qualsiasi lavoro fisico»

Misteriosa, la biografia di Malevich lo è stata a lungo anche per i fami­liari più stretti. Lo rac­conta la pronipote del grande pitto­re, che è anche presidente della omo­nima Fondazione, Iwo­na Malevich.

Per tanto tempo non si sapeva precisa­mente neppure la sua data di nascita...

«È vero. Prima si pensava che fosse na­to nel 1878, e in tutti i cataloghi delle mostre (anche di quella recen­te del 2005 a Roma) si indicava quell’anno co­me la sua data di nasci­ta. Perché così ritene­va lui stesso. Però, po­co tempo fa, nell’archi­vio della Chiesa San­t’Alessandro a Kiev, so­no stati ritrovati i dati reali che indi­cano il 1879 come la data di nascita; nemmeno noi sappiamo per quale motivo lui cercasse di nascondere i dati reali».
Qualche mistero c’era anche su­gli anni della sua formazione...
«Non si sapeva precisamente se avesse davvero eseguito studi all’Ac­cademia di Belle Arti di Mosca, come diceva, oppure se fosse autodidatta. Invece ha davvero portato a termine i suoi studi in accademia, ma è an­che vero che è stato autodidatta, per­ché lavorava come pittore già pri­ma. Aveva provato ad entrare all’Ac­cademia per tanti anni senza riuscir­ci. Anche perché suo padre, un nobi­le polacco che possedeva una fabbri­ca per la raffinazione dello zucchero dove Kazimir lavorava come geome­tra, cercava di impedire che il figlio riuscisse ad entrare e ad occuparsi di pittura. E così Malevich mandava delle lettere in accademia, senza mai ricevere le risposte. Si seppe poi che era suo padre a strapparle! Lui consi­derava suo figlio un disperato, una pecora nera. Un vero e proprio dram­ma familiare».
Che cosa le ricordava suo padre del celebre zio?
«Mio nonno era il fratello di Kazi­mir e abitava a Varsavia. Nel 1926 Malevich era stato allontanato dal­l’insegnamento all’Accademia di Bel­le Arti ed era fuggito dalla Russia in Polonia. Ma non avendo i documen­ti, non poteva muoversi tranquilla­mente. Neanche mio nonno aveva la cittadinanza polacca, e così per loro e per la famiglia era quasi impossibi­le vedersi. Furono anni molto diffici­li ».
Poi...
«Nel ’27 è riuscito ad organizzare una mostra a Varsavia. E finalmente Kazimir e mio nonno si sono incon­trati dopo l’inaugurazione: ma si so­no potuti vedere solo di sfuggita, al­la stazione dei treni».
Qual era la personalità di Malevi­ch?
«Ha teorizzato il Suprematismo, e voleva applicarlo anche alla sua vita quotidiana. Per lui era imperativo esprimere il meglio di sé, il 'supre­mo'. Voleva dedicarsi solo all’arte, evitando tutte le cose della vita quo­tidiana. Per quello fuggiva da ogni ti­po di lavoro fisico. Fece credere a sua moglie di avere l’epatite e di non poter sollevare pesi. Quando andava­no a fare la spesa, lei portava i sacchi pesanti e lui camminava con il basto­ne in mano. Ed è venuto fuori che fingeva, perché a suo cognato, che si lamentava della vita dura, Kazimir aveva detto una volta: 'Fai come me. Così avrai tempo di dedicarti alle co­se importanti, raggiungere il meglio di te ed essere libero'. L’obbiettivo artistico di Malevich veniva prima di tutto».
Cosa pensa della mostra in Villa Olmo a Como, dedicata all’avan­guardia russa?
«Sono entusiasta per l’interesse del pubblico italiano per l’arte russa. E mi fa piacere che fra i capolavori provenienti dalla Russia, un quarto delle opere siano di Malevich. Anche perché, rispetto ad altri pittori come Vasilij Kandinskij e Marc Chagall, l’opera di Malevich è meno nota sia in Russia che in Europa».
Perché?
«Intanto la sua vicenda artistica è molto particolare: ha coniugato il Fu­turismo italiano e il Cubismo, crean­do la corrente artistica russa del Cu­bofuturismo, che poi si è sviluppata in Suprematismo. Proprio perché ha come obiettivo il supremo e la volon­tà di superarsi, Malevich è comples­so, cerca di esprimersi in arti diver­se: pittura, design, scultura, sceno­grafia teatrale».
Come presidente dell’Associazio­ne dedicata all’opera di Kazimir Malevich che progetti ha in mente per fare conoscere meglio al pub­blico la figura del prozio?
«Mi piacerebbe presentare anche le sue opere teatrali e le sue sceno­grafie. A novembre di quest’anno, al Bauhaus di Dessau va mettiamo in scena lo spettacolo teatrale 'Supre­Malevich, il fluido degli insediamen­ti interplanetari'. È interessante dal punto di vista della sua filosofia di vita, perché credeva nelle entità in­telligenti su altri pianeti e voleva al­lontanarsi dall’idea della nostra uni­cità nell’universo. È un’opera lirica futuristica, creata dal poeta Alexey Krucionih e dal compositore Michail Matushin. Invece le scenografie e i costumi per questo spettacolo sono proprio di Malevich, che aveva an­che recitato come attore in due parti alla prima».

Corriere della Sera 3.4.09
Il film-culto Dai corpi agli oggetti, dalle linee alle luci, l’opera di Ejzenštein celebra le emozioni
La «Corazzata», tutto pur di fuggire dalla realtà
di Paolo Mereghetti


A Fantozzi spiacendo, anche La corazzata Potëmkin è un capolavoro assoluto, forse il film più famoso di tutta la storia del cinema. Certo, come tutti i capo­lavori, a cominciare dalla Giocon­da di Leonardo, il rischio della so­vraesposizione è lì in agguato e in decenni passati sembrava che, almeno in Italia, il destino politi­co della sinistra potesse dipende­re da quante volte si riusciva a in­serire il film di Ejzenštein nel pro­gramma di un cineforum. Da cui l’inevitabile gag fantozziana.
Eppure anche in una mostra di quadri, il film farebbe la sua bel­la figura, perché guardandolo nel­le sue componenti formali e non solo nei suoi valori narrativi e propagandistici (come si sa il film fu commissionato per onora­re il ventennale della rivolta — fallita — del 1905) il film dimo­stra la grandissima maestria del regista nell’organizzare i vari ma­teriali visivi. E l’adesione convin­ta di Ejzenštein alle teoria del co­struttivismo e più in generale al­la scuola formalista. I corpi, gli oggetti, le ombre, le linee, le luci, tutto contribuisce a costruire un’immagine capace di conqui­stare l’attenzione dello spettato­re non con la sua rispondenza al­la realtà, ma con la forza evocati­va delle emozioni, che poi il mon­taggio si incaricherà di sottoline­are e ingigantire.
Certo, il maestro Satta Flores in C’eravamo tanto amati si agita come un matto per mimare la sce­na della scalinata di Odessa con i cosacchi che sparano sulla folla inerme (la stessa che il povero Fantozzi sarà costretto a rifare con i suoi colleghi dal vendicativo capufficio) e chi lo guarda rischia di considerarlo un matto invasa­to, ma sullo schermo quella se­quenza mette davvero i brividi. Ottant’anni fa come adesso.

Agi e Repubblica.it 3.4.09
Biotestamento: Fagioli mi oppongo a vita umana solo vegetativa

(AGI) - Roma, 3 apr. - Mi oppongo assolutamente alla vita umana sia solo vita vegetativa: ciò fa parte di una imposizione, che riguarda anche la legge sulla fecondazione assistita ed il testamento biologico, per cui la realtà umana sarebbe soltanto biologica come quella degli animali: basta che funzioni il cuore e sarebbe vita umana, non è vero niente. Lo ha detto, nel corso di SkyTg24, lo psichiatra Massimo Fagioli rivendicando in questo modo il suo pensiero laico. "La vita umana finisce - ha chiarito lo psichiatra - quando non funziona più il cervello". Quando, cioé, "non c'è più il pensiero, le emozioni, l'umano, la caratteristica specifica umana", ha concluso Fagioli, che stasera presenta il suo ottavo volume 'Fantasia di sparizione', edito dalla
nuova casa editrice 'L'Asino d'oro', alla libreria Feltrinelli di Galleria Colonna a Roma, sviluppo della 'teoria della nascita' esposta fin dal 1971 su 'Istinto di Morte e Conoscenza' ed asse portante dal 1975 dei seminari di Analisi Collettiva.

Agi 3.4.09
LIBRI: IN 500 A PRESENTAZIONE FANTASIA SPARIZIONE DI FAGIOLI
(AGI) - Roma, 3 apr. - 'Prima romana' con almeno 500 persone per la presentazione dell'ottavo volume 'Fantasia di sparizione' di Massimo Fagioli, in una delle librerie storiche e più note di Roma, la Feltrinelli di Galleria Colonna, di fronte a Palazzo Chigi. Tante le persone che non sono potute accedere alle due sale interne stracolme dove, con l'autore, c'erano tra gli altri a presentare - dopo la 'prima' del 21 marzo, all'Università di Chieti - 'Fantasia di sparizione', pubblicato dalla nuova casa editrice 'L'Asino d'oro', Marco Pettini fisico teorico e docente dell'Università Aix Marseille II e lo storico del Cnr, David Armando. "La fantasia di sparizione è una scoperta scientifica e non un'opinione: cosi i concetti fondamentali della teoria di Fagioli sono falsificabili, ovverosia si possono fare sperimenti per stabilire la loro verità o infondatezza", ha sostenuto il fisico teorico chiarendo che "esistono scoperte fatte di recente in letteratura neurofisiologica che permettono di confermare la validità e la fondatezza dei concetti fondamentali". Dunque, si puo' dire che, "il nucleo centrale della teoria della nascita di Fagioli sembra ragionevolmente confermato - ha continuato il fisico - dalle recenti acquisizioni in campo neurofisiologico". E il nuovo volume che raccoglie le lezioni tenute da Fagioli nel 2007 all'Universita' di Chieti dove, tra l'altro, domani terrà la sua seconda lezione del 2009, "è un libro ad alta densitaà di pensiero", ha concluso Pettini sottolineando che "il metodo deduttivo è assolutamente centrale nella scienza moderna, in particolare nella fisica teorica". (AGI) Pat