sabato 20 febbraio 2016

Il Fatto 20.2.16
Dopo l’omicidio La Spinelli e 44 europarlamentari chiedono un’indagine indipendente “Caso Regeni, la Mogherini intervenga”
Barbara Spinelli, Marie-Christine Vergiat e altri 43 Parlamentari Europei


Il 2 febbraio 2016 il corpo di Giulio Regeni, il ricercatore italiano dell’Università di Cambridge scomparso al Cairoil 25 gennaio, è stato ritrovato in un fosso lungo una strada dei sobborghi del Cairo, con segni di orribili torture e di una morte violenta. Non è stato un semplice incidente, come affermato da un influente membro del Parlamento europeo nel corso di una visita ufficiale al Cairo. Regeni stava svolgendo una ricerca sullo sviluppo dei sindacati indipendenti nell’Egitto del dopo-Mubarak e del dopo-Morsi. Questo ci rammenta che il governo militare egiziano non sta contrastando solo la minaccia terrorista ma, in parallelo, una vasta opposizione sociale, largamente negletta dai media e dai governi europei.
Giulio Regeni non era un giornalista né un attivista. Era uno studioso entrato in contatto con persone e associazioni della società civile che erano oggetto della sua tesi di dottorato e della feroce repressione degli apparati di sicurezza nazionale. Dopo la sua morte, più di 4.600 accademici di tutto il mondo hanno firmato una lettera aperta chiedendo un’inchiesta sulla sua morte violenta e sul numero crescente di scomparse forzate in Egitto. Solo nel 2015, la Commissione Egiziana per i Diritti e la Libertà (ECRF) ha denunciato la scomparsa di 1.700 cittadini.
Il caso Regeni si aggiunge alla lista di sparizioni che si sono verificate in Egitto dopo l’elezione a Presidente di Abdel Fattah al-Sisi. Siamo consapevoli che l’inchiesta sulla morte di Regeni non è ancora conclusa, e che l’indipendenza delle indagini non è garantita, ma crediamo che quanto è accaduto a lui e a migliaia di vittime egiziane come lui non possa essere trattato alla stregua di un “incidente”. Deve condurre a un ripensamento dell’appoggio fornito dall’Unione Europea al governo egiziano, assicurando che la questione dei diritti umani sia affrontata nella maniera più esplicita e in considerazione della loro sempre più palese violazione nel Paese, certificata da numerose Ong, da Human Rights Watch e da Amnesty International.
Sottolineiamo la nostra preoccupazione per il ruolo che gli interessi economici e geostrategici degli Stati europei potrebbero assumere. Tale ruolo non deve portare a
un abbassamento della nostra vigilanza sui diritti umani, sul pluralismo democratico, sulla libertà di parola, sul sindacalismo indipendente. È l’opposto che deve accadere.
Chiediamo a Federica Mogherini, come Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri, di agire con forza per ottenere un’indagine indipendente sull’assassinio di Regeni. I responsabili del suo brutale omicidio devono rispondere della loro azione, e la richiesta di verità e giustizia deve essere soddisfatta.
Il Fatto 20.2.16
Oggi a Rignano Sull’Arno
Le vittime di Etruria protestano nel paese dei Renzi


TORNANO IN PIAZZA i risparmiatori “truffati” dal decreto salva-banche. La tappa di oggi è a Rignano sull’Arno, particolarmente sentita poiché si tratta della città di origine della famiglia Renzi, quindi anche di Tiziano (in foto), padre del premier. Quello che andrà in scena sarà un finto funerale. “Vogliamo celebrare le esequie del risparmio affermano gli organizzatori -
tradito sia dal governo che dagli stessi istituti di credito”. L’occasione è anche utile per ribadire per l’ennesima volta la contrarietà agli arbitrati che permetteranno di rimborsare solo una parte di quanto perso (il fondo previsto è da 100 milioni di euro) e saranno supervisionati dal capo dell’autorità anticorruzione Raffaele Cantone. “Non vogliamo elemosine aggiungono vogliamo il rimborso di tutto quello che abbiamo perso”. L’associazione Vittime del salva-banche è particolarmente concentrata in Toscana proprio perché molti tra i risparmiatori che si son visti azzerare le azioni e le obbligazioni erano clienti di Banca Etruria, istituto aretino in precedenza anche vicepresieduto dal padre della ministra per le Riforme costituzionali Maria Elena Boschi.
il manifesto 20.2.16
Piano Varoufakis, non buttare il bambino con l’acqua sporca
Ue. L'economista greco considera il parlamento europeo un orpello inutile nella sua forma attuale. Ma sbaglia. Perché l’apparente marginalità del Parlamento non è frutto di mancanza di potere, ma di volontà politica
di Monica Frassoni

Marco Bascetta e Sandro Mezzadra centrano bene a mio avviso forze e debolezze di Democracy in Europe Movement 2025, l’iniziativa lanciata da Yanis Varoufakis a Berlino il 9 febbraio (http://diem25.org); forze e debolezze che derivano (ahimè) anche dalle regole del sistema mediatico e comunicativo del quale tutti siamo un po’ vittime e un po’ responsabili, che richiedono la star e la location cool, il bagno di folla e il tocco glamour.
A parte questo, dell’iniziativa a me è piaciuta soprattutto l’ambizione di lanciare una mobilitazione trasnazionale per riprendersi l’Europa e la volontà di andare oltre le frontiere della sinistra e della politica, favorendo il mescolamento e non la perniciosa distinzione fra società civile (virtuosa) e politica (viziosa). Altra cosa che mi è piaciuta, è stata l’assenza dei rappresentanti della sinistra nazionalista anti-Euro, che qualche mese fa avevano firmato con lui il “PianoB” per l’Europa, Malenchon, LaFontaine e da noi Fassina.
Ciò detto, pur essendo stata gentilmente invitata e pur avendo proposto qualche modifica al testo (per fortuna non si parla più di abolire la Ue…), ho deciso di non andare a Berlino, anche se resto interessata al prosieguo della discussione che spero avrà una eco maggiore anche in Italia.
Non penso infatti che tutte le colpe dell’euro-crisi stiano nella «burocrazia senza faccia» di Bruxelles, che non è una zona «democracy free». Semplicemente, le maggioranze che hanno vinto le elezioni (alle quali tanta sinistra non partecipa), la loro ideologia tendenzialmente nazionalista e pro-rigore e un funzionamento istituzionale che si inceppa facilmente a causa dell’obbligo dell’unanimità, producono il blocco sistematico di qualsiasi politica positiva da anni. Insomma, modestia a parte, se ci fossimo noi, quelle stesse istituzioni farebbero tutt’altro.
Certo, questa spinta al cambiamento non può venire solo dalla politica, ancora per lo più legata a logiche nazionali. E’ indispensabile creare anche una spinta potente di “popolo”, europea e decentrata insieme, per relegare al passato al quale appartengono i nuovi nazionalismi, che oggi vincono pur senza le elezioni: dobbiamo andare a cercare chi costruisce l’Europa dai campi profughi o dalle nuove industrie verdi, più che chiuderci in stanze più o meno chiuse a elaborare proposte per un’Europa perfetta.
In secondo luogo, pur se DIEM25 ambisce a trovare una terza via tra ri-nazionalizzazione e conformismo europeista, non è chiaro chi decide nell’Europa di DIEM25. Esiste uno spazio per una democrazia sovranazionale autonoma? Varoufakis disprezza il Parlamento europeo e lo considera un orpello inutile nella sua forma attuale. Ma sbaglia. Perché l’apparente marginalità del Parlamento non è frutto di mancanza di potere, ma di mancanza di volontà politica. E fare finta che non esista, non nominarne neppure l’esistenza significa privarsi di uno strumento importante.
E’ importante superare questa ambiguità anche per dare gambe a due idee non nuove e ancora non molto precise nel Manifesto di DIEM25 che, se realizzate, potrebbero davvero cambiare le cose; l’Assemblea costituente e le liste trans-nazionali: a potere europeo, vere elezioni europee, con liste e candidati legati alle scelte politiche e non alla nazionalità, nella quale tutti si debba andare a cercare voti tenendo conto della cultura e dell’interesse dell’altro, senza poter imprecare contro i “tedeschi” o i “polacchi”, ma semmai contro le folli politiche dei loro governi. Insomma, davanti a noi abbiamo un sacco di lavoro, che potrà funzionare solo se ritroveremo voglia di organizzare la polifonia del fronte anti-austerità ma decisamente senza frontiere.
il manifesto 20.2.16
Nasce Commo, una piattaforma per innovare le forme della politica

Cos’è
“Commo” sarà un sito web aperto, uno spazio digitale libero, una piazza virtuale per proposte, idee e dibattito, una piattaforma digitale a disposizione di tutte e tutti per innovare le forme della politica.
Uno strumento a disposizione di attiviste ed attivisti, reti organizzate, esperienze civiche, movimenti sociali, persone, cittadini con l’obiettivo di mettere la rete al servizio di un progetto di cambiamento.
Un ambiente inclusivo e non proprietario, come la società che vorremmo.
Com’è
“Commo” è una piattaforma digitale open-source, user-generated, riproducibile.
Un social network nel vero senso della parola, uno spazio sociale nel quale fare rete: un social politico.
Un sito navigabile da chiunque, dove chiunque potrà aprire una pagina di post testuali e/o multimediali, commentabili da chiunque: e dove chiunque potrà lanciare eventi, campagne o sondaggi su proposte e scelte politiche locali e nazionali, con meccanismi certificati.
Che c’entra con te
“Commo” lancia una call a chi, da ambiti e percorsi diversi, voglia collaborare al suo sviluppo, pensarla e ripensarla insieme, raccontare pezzi di mondo che la riempiano.
“Commo” ha bisogno di sperimentatori per sviluppare insieme funzioni e strumenti.
“Commo” cerca i primi attivatori della sua versione beta tra tutte e tutti coloro che abbiano desiderio e curiosità di uno strumento per innovare la partecipazione politica.
Perciò “Commo” invita a partecipare, a testare insieme la piattaforma per capirne potenzialità o eventuali bug da correggere.
Un primo appuntamento di confronto per discutere del suo sviluppo e del suo lancio, si terrà a Roma, all’interno di “Cosmopolitica, si parte per cambiare l’Italia”, la mattina di sabato 20 febbraio, dalle ore 10 alle 13.
Stay tuned:
partecipa@commo.org
www.commo.org
E’ possibile seguire l’assemblea in streaming su www.cosmopolitica.org
il manifesto 20.2.16
Per ora è Sinistra italiana
Cosmopolitica. Davanti a duemila persone via al nuovo partito, il nome definitivo al congresso. Ci sarà un comitato promotore largo. «Ultima chiamata, riconquistiamo la fiducia dei nostri»
Daniela Preziosi

Grandi palloni rossi e sottili frecce gialle tipo patatine fritte, elementi stranianti nel razionalissimo Palazzo dei Congressi di Roma. Oltre 2mila presenze registrate, un palco che s’infila nella platea in un tentativo di accorciare le distanze fra chi parla e chi ascolta, come dire fra la sinistra e il suo popolo, perché l’obiettivo è «riconquistare la fiducia dei nostri», spiega Peppe De Cristofaro. È partita ieri pomeriggio la tre giorni di Cosmopolitica, ’cosmo’ anche perché è la ricerca di mettere ordine al ’caos’, spiega il professore Carlo Galli. È il primo giorno di «un’assemblea libera, che non può essere congressuale» (ancora De Cristofaro). Oggi si apriranno i 24 tavoli stile Leopolda e le quattro assemblee tematiche sulle quattro campagne del nuovo soggetto: democrazia, scuola, ambiente, lavoro e welfare. Poi un’intera sessione sulla democrazia digitale e su ’Commo’, la «casa online» di Si. Domenica sarà la giornata clou.
Ma il vero congresso invece arriverà a dicembre, così il vero simbolo, il vero nome, le vere regole. Fin lì è tutto provvisorio: il nome Sinistra italiana, che è quello del gruppo parlamentare nato alla camera dalla fusione fra Sel e cinque ex Pd. È noto il dissenso dei ragazzi del movimento Act sul nome, forse addirittura sulla parola «sinistra» per essere stata consumata da molti usurpatori, ma se ne riparlerà. Paolo Cento proporrà «Sinistra verde». Ma per ora giovani scapigliati e vecchie glorie sembrano d’accordo che bisogna tenere la creatura al riparo delle polemiche. Anche sulle perplessità sull’idea di «partito», altro termine su cui le anime più movimentiste sbuffano. Il risultato è la proposta di De Cristoaro: «Una formula ibrida, un partito oltre il classico partito», in grado — nelle intenzioni — di chiudere «il tempo degli accrocchi e di tutto quello che ha segnato la sconfitta della sinistra».
Ci sarà un comitato «ampio, imponente e aperto», e uno esecutivo più ristretto su cui si percepisce una certa effervescenza. Le questioni organizzative non scaldano i cuori (ma il confronto sì, mentre il manifesto va in stampa si svolge la prima delle due plenarie su questo delicato aspetto), ma sono importanti per capire se il nuovo soggetto avrà le gambe per affrontare la lunga traversata di una sinistra che diventa autonoma e indipendente.
La sfilata degli interventi, coordinati da Betta Piccolotti, affronta le battaglie qualificanti future. Immigrazione, democrazia, referendum sulle trivelle e quello sulla riforma costituzionale, la platea paziente ascolta. Si commuove per l’omaggio a Giulio Regeni, il ricercatore torturato e ucciso in Egitto, e Valeria Solesin, la ricercatrice morta al Bataclan di Parigi.
I temi sono tanti, si passano il testimone, a volte con qualche contraddizione. Voluta, non casuale: sono le contraddizioni della sinistra, intesa almeno fin qui nel suo significato più estensivo. Basta ascoltare Franco Martini, Cgil, l’autocritica di un sindacato che si è attestato «sulla difesa di quello che eravamo, di quello che ci stavano portando via», e subito dopo la ricercatrice Marta Fana che contesta alla Cgil proprio gli accordi per i quali i salari sono andati giù.
Il cimento del percorso costituente è rimettere insieme non tanto i pezzi della sinistra ma un suo punto di vista. C’era Sel, ma non è bastata, il fallimento della coalizione Italia Bene comune lo dimostra. C’erano i movimenti e adesso non ci sono più, o almeno ci sono poco. Il rischio di chiudersi in una ridotta: per alcuni è considerato un pretesto per la conservazione dell’esistente, per altri è forte. In un’intervista video Laura Boldrini lo dice: «Il cambiamento non si fa in un angolo, il cambiamento non si fa ballando da soli».
Lo sa bene Stefano Fassina, qui presente, che cerca di mettere insieme tutta la sinistra romana per le amministrative. Dal versante opposto del residuo centrosinistra, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia oggi ci sarà, ma non ha ancora deciso se parlare: a occhio questa la platea non voterebbe Sala, il candidato renziano che ha vinto le primarie. Sergio Cofferati lo dice: «Sala è la negazione della stagione dei sindaci arancioni». L’ex segretario Cgil però non vuole rubare la scena: «Oggi c’è la necessità e l’impegno a far emergere le forze dei giovani». Farà il padre nobile, magari un padre ancora molto attivo. Così anche Nichi Vendola, il cui intervento registrato è atteso per domenica.
Per dissenso invece non ci sono anche altri protagonisti: Civati, per esempio. Rifondazione e l’Altra Europa sono ospiti ma per ora stanno fuori da Si. «Spero che arrivino, nessuno è proprietario del processo costituente», dice l’ex dem Alfredo D’Attorre. Ma è il problema dei problemi. E non è questione (solo) di qualche parlamentare o qualche sigla, riguarda il popolo di una sinistra oggi senza popolo. «Il punto è che questo processo non ci chiuda in sé, che sappia dialogare con quello che c’è fuori. Che con i movimenti non costruisca un rapporto di cooptazione, che non abbia la pretesa di rappresentare tutto», è l’invito del professore Sandro Mezzadra.
il manifesto 20.2.16
Podemos tratta con il Psoe. Ma l’accordo si fa in quattro
Spagna. Al tavolo anche Izquierda unida e Compromís. Ultima settimana utile per prendere una decisione sul governo
di Luca Tancredi Barone

Tic-tac. Il tempo scorre, e rimane un’unica settimana utile per prendere una decisione sul futuro governo spagnolo. Il 3 marzo è convocata la sessione d’investitura del Congresso dei deputati in cui Pedro Sánchez dovrà iniziare a misurarsi con la dura realtà dei numeri parlamentari. Ma prima il partito socialista si è impegnato — così come Izquierda Unida — a consultare la base per far approvare il testo di un eventuale accordo che dovrebbe garantire l’avvio della nuova legislatura. Per cui, entro la metà della settimana prossima, bisognerà che i protagonisti della saga politica attuale lascino da parte le schermaglie e prendano definitivamente una posizione.
Giovedì sera il giochino politico dei socialisti e di Podemos è stato improvvisamente rotto da un’insperata iniziativa del leader di Izquierda Unida Alberto Garzón. Da una parte, il Psoe stava cercando accordi con la destra di Ciudadanos, e con la sinistra di Izquierda Unida e la costola valenziana alleata a Podemos, Compromís, per poter fare pressione su Podemos, a cui voleva rendere politicamente impossibile dire no a un governo sostenuto dai due partiti di sinistra. Dall’altra Podemos inscenava la richiesta di entrare in un governo di sinistra, pretendendo un incontro a tu per tu con Sánchez per discutere della proposta di 100 pagine che Pablo Iglesias aveva reso pubblica lunedì. Un incontro che il socialista subordinava alla presenza di tutta la squadra di negoziazione, mentre Podemos esigeva comunque l’esclusiva rispetto a Ciudadanos. Con il rischio concreto che Sánchez potesse finire fra le braccia dei popolari, a cui Ciudadanos voleva cercare di strappare un’astensione, guadagnandosi tra l’altro quella centralità politica come mediatore che il partito arancione cerca da sempre.
Ma la mossa di Alberto Garzón, che ha chiesto pubblicamente e con il suo usuale stile pacato, un vertice a quattro fra Psoe, Iu, Compromís e Podemos, ha fatto saltare i piani e le tattiche di rossi e viola. Podemos ha colto la palla al balzo, e ha lasciato a Sánchez il cerino acceso: i socialisti hanno impiegato un giorno per prendere la decisione di accettare l’incontro, che lascia da parte Ciudadanos e, per il momento, il rischio di una deriva a destra. Ma nella lettera di risposta a Garzón resa nota ieri pomeriggio, Sánchez ha chiarito di essere «pronto a negoziare un programma per l’investitura», non di governo. Una sfumatura che potrebbe mandare tutto all’aria, visto che Podemos ha sempre detto di non essere disposto a votare un governo del quale non faccia parte.
Ma almeno ora i quattro, abbandonato l’ingessato rituale degli incontri a due tenuto finora da Pedro Sánchez, sono costretti a parlarsi e nessuno di loro potrà esimersi dal mostrare di aver fatto ogni sforzo per arrivare a un accordo. Il problema però è che l’accordo, anche qualora ci fosse, e anche qualora i 12 catalani digerissero l’inevitabile cancellazione dal programma di governo del referendum di autodeterminazione tanto inviso ai socialisti, potrebbe contare al massimo su 161 voti. Se Ciudadanos e Pp votassero entrambi contro l’investitura socialista, ne avrebbero 163. Dei 26 voti restanti, almeno tre dovrebbero quindi votare a favore di Sánchez e tutti gli altri si dovrebbero astenere. Il che allo stato attuale è impossibile. Ma dipende tutto da quello che deciderà la riunione dell’esecutivo di Ciudadanos questo fine settimana. Con l’incontro a quattro salta la strategia arancione di accordo con i socialisti con il tentativo di convincere i popolari (Albert Rivera incontrerà Mariano Rajoy martedì) e a questo punto Ciudadanos potrebbe decidere di far astenere i suoi 40 deputati.
Rivera è abile, e sa che agli arancioni non convengono le urne né elettoralmente né tantomeno politicamente. Se il cerino per far esplodere la bomba delle elezioni rimane in mano a Ciudadanos, il rischio di essere percepiti dai loro elettori moderati come guastafeste è troppo elevato. D’altra parte, la situazione politica è ghiotta per chiedere ai socialisti qualsiasi cosa. Suo malgrado, Rivera sa che dai popolari per ora non arriverà nessun mossa, e per sopravvivere politicamente potrebbe essere costretto a un qualche tipo di accordo con Sánchez.
Tutto è ancora in forse, ma la nebbia comincia a diradarsi.
il manifesto 20.2.16
Chomsky: «La destra Usa un pericolo per la specie umana»
Intervista. Lo scrittore e filosofo statunitense su "global warming", guerre Nato e presidenziali. «Con le politiche dei Repubblicani il rischio di una guerra mondiale è molto serio»
intervista di Patricia Lombroso

«La specie umana è di fronte a una situazione che non ha precedenti nella storia dell’homo sapiens. Siamo al bivio di una situazione mai verificatasi prima: e molto presto dovremo decidere se vogliamo che la specie umana sopravviva in qualcosa che abbia le sembianze dell’esistenza che conosciamo, o se vogliamo creare una devastazione planetaria così estrema da non poter neppure immaginare cosa ne potrebbe emergere».
È con terrificante lucidità e pessimismo che un autore e filosofo del livello di Noam Chomsky testimonia, per la prima volta in tanti anni di interviste, il cinico imbarbarimento globale della vita umana nel caos di distruzione senza fine né alternative.
Qual è la sua opinione sulla decisione della Corte Suprema Usa, con l’ultimo imprimatur di Scalia, che con un voto di maggioranza ha bloccato ogni tentativo legislativo dell’amministrazione Obama di limitare le disastrose conseguenze del “global warming”?
La decisione è molto importante ed è gravissima. I cinque giudici della Corte Suprema conoscono bene il valore politico di quel voto. Di fatto, lo stesso comunicato stampa diffuso al termine della votazione sottolinea non a caso che «questa decisione non ha precedenti nella storia degli Usa».
Ritiene quindi che si sia trattato di una decisione politica, che esula dal ruolo giuridico del “balance of power” costituzionale?
Certamente. I cinque giudici repubblicani sono la Corte Suprema. E ora con la morte di Scalia nulla cambierà. Il voto di maggioranza repubblicano elimina ogni futuro passo giuridico per una corte di appello ed elimina tutti i giudizi dei tribunali che hanno preceduto questa decisione. Il loro messaggio ai partecipanti alla conferenza di Parigi è, in pratica, “andate a quel paese”. Non che la conferenza di Parigi avesse conseguito un granché nel limitare il global warming, ma va tenuto presente che il problema più spinoso e difficile era ottenere che gli accordi presi tra governi fossero vincolanti per un trattato internazionale. E la Francia ben sapeva che il Partito repubblicano non avrebbe mai ratificato in senato accordi vincolanti per il proprio governo. Per conseguenza i cinque giudici repubblicani che sono la Corte Suprema hanno praticamente espresso, con la loro decisione, quel che pensano della rapida corsa verso la distruzione del pianeta e della specie umana.
Possono ignorare (a loro discapito) le gravi ripercussioni economiche e sociali di questa scelta?
I leader repubblicani conoscono le conseguenze quotidiane delle epocali migrazioni di intere popolazioni da un emisfero all’altro, come non si è mai verificato nella storia. Sanno anche della distruzione di quella parte del mondo che conosciamo come civilizzato e dei rischi che questo comporta, ma ogni candidato in lizza per la corsa alla Casa Bianca nella campagna presidenziale odierna nega ogni evidenza degli effetti del global warming e non ha intenzione di far nulla. Il Partito repubblicano odierno, vorrei aggiungere, costituisce una delle organizzazioni più pericolose nella storia dell’umanità.
Perché questa mentalità di estrema destra repubblicana, oggi in America, la spaventa più della mentalità di estrema destra che percorre l’Europa?
L’estrema destra in Europa è sì tremenda, ma non tanto da sostenere la necessità di accelerare la distruzione della vita sul pianeta.
Il bilancio della Difesa Usa per il 2016–17, approvato la settimana scorsa senza alcun dibattito a livello congressuale, quadruplica la spesa per rafforzare gli arsenali Nato e tutelare la “sicurezza” degli alleati dell’Europa orientale, ai confini con la Russia. Qual è il messaggio?
Certamente esistono rischi di un aggravarsi di scontri e tensioni strategiche strumentali tra i paesi appartenenti alla sfera d’influenza russa e le zone di influenza americana. Ma gli Stati Uniti potrebbero mai accettare sui propri confini quanto sta avvenendo su quelli della Russia? Sarebbe pensabile un dispiegamento di missili Nato al confine con il Canada e il Messico? Verremmo tutti inceneriti. Questo ulteriore potenziamento della Nato ritengo che costituisca una strategia, una provocazione geopolitica molto pericolosa. Concordo in questo con quanto sosteneva durante la Guerra Fredda George Kennan, secondo il quale il «deterrente nucleare» avrebbe creato le basi di un confronto terminale per l’esistenza dell’intera umanità. Non è un’esagerazione, sono in corso forti tensioni ed esempi recenti, come l’abbattimento del jet russo da parte della Turchia, sono segnali che potrebbero esplodere in un confronto nucleare.
Vuol dire che guerre sempre più estese implicano il rischio di una Terza Guerra mondiale?
Non sarebbe la prima volta in cui siamo stati sull’orlo di un conflitto nucleare. Intendiamoci, qualsiasi sia la provenienza di un attacco nucleare significa la fine della specie umana. Uno scontro fra due superpotenze comporta quello che viene chiamato nuclear winter. Una tragedia di proporzioni catastrofiche. Questo oggi mi fa pensare a quanto disse Einstein quando gli venne chiesto quale arma sarebbe stata usata, nella prossima guerra, dopo il nucleare. Rispose che l’unica arma che sarebbe rimasta a disposizione dell’uomo era un ascia di pietra. Il rischio di una guerra mondiale è molto serio.
Ritiene che i leader della globalizzazione abbiano una strategia oppure il tentativo di generare una catastrofe “controllata” gli è sfuggito di mano?
Si dovrebbe vivere sotto una pietra per non rendersi conto dei danni provocati. L’industria “fossile” da decenni è consapevole delle conseguenze devastanti della politica industriale fondata sul petrolio. Gli executives della Exxon-Mobil non sono stupidi, bensì dediti a una specifica ideologia di massimalizzazione dei profitti e delle quotazioni azionarie. Tutto il resto ha un valore insignificante rispetto a questo. È come per i credenti nei vari fondamentalismi, siano essi evangelici cristiani o estremisti islamici. Sono come dogmi religiosi dinanzi ai quali non esiste né dubbio né argomentazione. Sappiamo tutti che è molto facile non dar credito a quanto ci conviene credere come verità, ma in questo caso il rifiuto di voler credere all’evidenza dei fatti storici comporta conseguenze letali.
In tale disastroso contesto, quali rischi corriamo nel 2016, anno di elezione del prossimo presidente degli Stati uniti?
I rischi sono serissimi. Se i commenti dei leader repubblicani in lizza per la presidenza corrispondono alla realtà che verrà dalla futura Casa Bianca, dobbiamo aspettarci un vero disastro e cioé: ignoriamo il global warming, stracciamo gli accordi sul nucleare raggiunti con l’Iran, aumentiamo la nostra Potenza militare, interveniamo con maggiore aggressività e determinazione nel resto del mondo malgrado i rischi di scatenare una guerra mondiale. Se un paese con il potere degli Stati Uniti avalla queste strategie politiche, le probabilità di sopravvivenza della specie umana sono ridotte al minimo.
il manifesto 20.2.16
Gb, Corbyn stronca la “Cameroneide” di Bruxelles
Brexit. Mentre i conservatori sono alla rersa dei conti, il leader del Labour conferma il suo appoggio formale alla permanenza del paese nel consesso europeo. Ma è un appoggio tiepido, quasi distratto
di Leonardo Clausi

Se Atene piange, Sparta non ride. Ed è lecito sospettare che, dopo la dimostrazione di spettacolare disunità offerta dal Labour sulla questione degli armamenti nucleari e dell’intervento militare in Siria, Jeremy Corbyn stia segretamente godendosi la resa dei conti da film splatter che la minacciata uscita della Gran Bretagna dalla Ue sta provocando tra le file dei conservatori. Il volto gonfio di stanchezza e le borse sotto gli occhi di un Cameron stravolto, riunito fino all’alba con le sue controparti europee in negoziati dove si frantumano capelli in quattro soprattutto per placare lo scontento interno al suo partito, proiettano all’esterno l’affettazione di uno stakanovismo sempre sul punto di trasformarsi in un involontario quanto beffardo boomerang.
Corbyn ha liquidato sdegnosamente la performance del primo ministro, definendola più o meno come avanspettacolo. Lo ha fatto in particolare attaccando la misura del tanto dibattuto “freno d’emergenza”, in funzione anti-immigrati da lui considerata pressoché inutile, come del resto tutta la missione di Cameron a Bruxelles, le febbrili colazioni di lavoro che diventano pranzi e poi cene, e il filodrammatico alternarsi di ottimismo e preoccupazione con cui i commentatori seguono gli eventi.
Il suo appoggio formale alla permanenza del paese nel consesso europeo è confermato. Ma è un appoggio tiepido, quasi distratto. Non solo la misura su cui insiste Cameron per escludere i lavoratori immigrati dal resto d’Europa dall’accesso ai sussidi fino al quarto anno di permanenza nel paese non servirà ad arginare il flusso d’ingressi: per Corbyn “Non metterà un centesimo nelle tasche dei lavoratori britannici, come non smetterà di minare i loro salari attraverso lo sfruttamento dei lavoratori migranti.” Si è poi detto contrario ad un altro dei quattro punti su cui Cameron insiste tanto, l’opposizione dura al trasferimento del controllo della City dalla banca d’Inghilterra a Bruxelles, nel nome di una presunta maggiore disciplina del mondo finanziario nella quale forse crede davvero.
In questo senso, pur partendo da assunti diametralmente opposti, le sue critiche non sono troppo dissimili da quelle rivolte al premier all’Ukip: la Cameroneide di Bruxelles è tutta una sciarada che in Gran Bretagna non cambierà minimamente l’equilibrio delle fazioni durante la campagna referendaria, che si pervenga o meno ad un accordo. Solo che per Farage e la destra Tory Cameron si è umiliato davanti ai “burocrati” di Bruxelles, sacrificando la gloriosa sovranità del regno, mentre Corbyn non condivide affatto la trasversalità dell’afflato liberista che accomuna il fronte per la permanenza nell’Ue (che poi è una delle ragioni per cui è stato eletto leader).
Questo perché Corbyn stesso non è mai stato filo-europeista, non ha mai sottoscritto cioè un progetto economicamente neoliberale venduto ai cittadini europei come luminoso e idealistico trascendimento di angusti confini cultural-identitari, nel cui solco il Labour ha iniziato la propria lunga marcia verso la totemica eleggibilità trasformandosi nel frattempo in New Labour.
Fu Neil Kinnock dagli anni Ottanta in poi a vincere il tradizionale insularismo in salsa socialista del partito, un traguardo subito tesaurizzato dall’agenda blairiana che aveva fruttato al New Labour il doppio primato di partito non gravato dai provincialismi tardoimperiali della destra euroscettica e allo stesso tempo aperto agli spiriti animali di un’Europa dinamica e moderna. Ideali che David Cameron, nel suo studio metodico e appassionato della biografia politica di Tony Blair, sta ora cacciando in gola al proprio partito.
Repubblica 20.2.16
Costruiamo un paese che attragga i cervelli
Se i nostri studiosi hanno successo nel mondo non sarà perché la nostra vituperata scuola è migliore di quel che amiamo credere?
di Salvatore Settis

CERVELLI in fuga, rientri dei cervelli, successi dei ricercatori italiani all’estero. Su questo fronte si scontrano due opposte retoriche, le geremiadi sull’Italia matrigna che costringe all’emigrazione i migliori e l’esultanza sul talento italiano che trionfa nel mondo. C’è del vero in entrambe, ma una più quieta analisi rivela altri elementi. Il tasso di emigrazione (a prescindere dal grado di istruzione) è raddoppiato negli ultimi cinque anni, e intanto l’attrattività dell’Italia è drammaticamente calata. Nel 2014 il saldo migratorio con l’estero nell’età più produttiva registra una perdita di 45.000 residenti, dei quali 12.000 laureati, che hanno trovato impiego in Europa, ma anche in America e in Brasile. Dati preoccupanti, che accrescono l’età media di un Paese già tra i più vecchi del mondo (157,7 ultra-65 per 100 minori di 15 anni). Ma l’emigrazione di chi fa ricerca ha risvolti economici e produttivi, non solo demografici. Prima di tutto, perché dalla ricerca (anche da quella “pura”, le cui applicazioni vengono dopo anni) nasce l’innovazione, che a sua volta genera produttività e occupazione. E poi perché gli anni di formazione, dalle elementari ai dottorati, hanno per il Paese un costo pro capite altissimo, ed è dissennato e antieconomico “regalare” ad altri un ricercatore di prima qualità dopo averlo allevato a caro prezzo.
C’è qui un equivoco da dissipare: da sempre chi fa ricerca si muove da un Paese all’altro, anzi l’esistenza di clerici vagantes è un requisito della libertà intellettuale. Niente di male se un biologo o un archeologo italiano va a lavorare in Svizzera o in Canada. A meno che questo flusso non sia unidirezionale, cioè in netta perdita. È quel che accade in Italia, dove il saldo negativo è intorno a 10 a 1 (uno straniero che fa ricerca in Italia per ogni 10 italiani all’estero). Ma il trend comincia già negli anni universitari, dove l’Italia è sempre meno attrattiva per gli studenti di altri Paesi: nel 2014 quasi 50.000 italiani sono andati a studiare all’estero, solo 16.000 stranieri sono venuti in Italia (contro i 68.000 che sono andati in Germania o i 46.000 della Francia). Secondo l’Ocse, che ha diffuso questi dati, lo squilibrio è dovuto ai bassi salari e alla difficoltà di trovar lavoro in Italia, dove «nel 2014 solo il 65% dei laureati fra 25 e 34 anni hanno trovato impiego, ed è questo il livello più basso d’Europa (media 82 %)».
Un indice significativo è offerto dai finanziamenti Erc (European Research Council) per i giovani (entro 12 anni dal dottorato): fino a 2 milioni per ogni progetto, che il vincitore può spendere dove crede, scegliendo una host institution in uno dei Paesi Ue. Colpisce, guardando le statistiche 2015 (oltre un miliardo di euro di fondi distribuiti), il contrasto fra due dati: da un lato, l’Italia è al secondo posto dopo la Germania, con 61 progetti vincenti. Dall’altro lato, il numero degli italiani che portano in altro Paese la propria “dote” è il più alto d’Europa: 31 su 61, il 50%. Niente di male se un italiano preferisce un laboratorio inglese; ma nel Regno Unito, se i vincitori sono 54 (meno degli italiani), a scegliervi la host institution sono ben 115, con un saldo nettamente positivo (+ 61).
Lo stesso vale per Germania, Francia, Olanda, e così via: l’Italia è il fanalino di coda (è stata scelta da due soli stranieri, un portoghese e una romena), con forte saldo negativo (- 30). Perché? La verità è che ricercatori di alto livello e studenti alle prime armi tendono a diffidare dell’Italia per le stesse ragioni, carenza delle strutture e incertezza delle prospettive; per non dire degli stipendi universitari, congelati da anni e non competitivi.
Davanti a questi dati, chi vuole o l’insulto o l’applauso è in difficoltà. Bisogna esser contenti di quanto siamo bravi, o scontenti perché spendiamo la nostra intelligenza altrove? Ma la maggiore urgenza è fare un passo indietro, e domandarci: se i nostri studiosi hanno tanto successo nel mondo, non sarà prima di tutto perché la nostra vituperata scuola, a partire dal liceo classico di cui improvvisati censori reclamano la morte, è molto ma molto migliore di quel che amiamo credere, e abitua al pensiero creativo assai più di altri sistemi educativi? E perché allora sottometterla al ripetuto elettroshock di riforme ricche di codicilli ma prive di indirizzo culturale? Seconda domanda: i ricercatori italiani tanto ricercati a Harvard, a Berlino, a Oxford, a Parigi sono stati formati nelle università italiane, che da Tremonti in qua vengono considerate (e a volte sono) la sentina di ogni vizio. Ma non avranno anche qualche virtù, se producono fior di studiosi ricercati dappertutto?
La scuola, l’università, la ricerca sono prove di futuro. A giudicare dai risultati le nostre istituzioni, nonostante la disgregazione di questi anni, hanno sfornato ottimi studiosi. Sapranno farlo ancora dopo il dissanguamento di risorse umane e di finanziamenti? Come ha notato l’Ocse, «l’Italia spende nell’educazione terziaria lo 0,9% del Pil, al penultimo posto fra i Paesi Ocse, con un livello simile a Brasile e Indonesia, mentre Paesi come il Canada, il Cile, la Danimarca, la Corea, la Finlandia e gli Stati Uniti spendono nel settore oltre il 2% del Pil». Micidiali nubi si addensano sul futuro: i Prin (“progetti di ricerca di interesse nazionale”) sono stati finanziati nell’ultimo bando (dicembre 2015) con la ridicola cifra di 91 milioni per tutta Italia, per tutte le discipline (in Germania la sola Exzellenzinitiative comporta fondi di ricerca per tre miliardi in cinque anni).
Perdura il quasi-blocco delle assunzioni, che condanna a una perpetua anticamera migliaia di docenti abilitati a cattedre di prima e seconda fascia. La scuola pubblica viene definanziata in favore della scuola privata, e riforma dopo riforma perde la natura di teatro della conoscenza e della creatività e si fa addestramento a frammentarie “competenze” di obbedienti esecutori. Perciò a ogni affermazione di ricercatori italiani all’estero dovremmo pensare: oggi campiamo di rendita, consolandoci coi successi di chi è stato formato da una scuola e da un’università che, intanto, stiamo distruggendo. Ma domani? I giovani migliori (se abbienti) dovranno formarsi all’estero, perché la nostra scuola si immiserisce in microriforme senz’anima e le nostre università mancano di docenti, laboratori, biblioteche? Gli italiani che emigravano cent’anni fa erano padri, e mandavano le rimesse in patria per il futuro dei figli. I nuovi emigranti sono per lo più figli: quel che stiamo perdendo non sono solo le loro rimesse, ma la ricchezza che essi stessi rappresentano.
Corriere 20.2.16
A Las Vegas Jesus l’invisibile sceglie Bernie
Benvenuti a Las Vegas, Sin City ovvero città del peccato. Dove i destini dell’America — per una volta — sembrano decisi dagli invisibili. Al netto delle frasi fatte: oggi si voterà nei «caucus» democratici, Hillary Clinton e Bernie Sanders sono dati alla pari (ma vai a sapere, sono intricati; nel 2008 Clinton ebbe più voti, Barack Obama due delegati in più). Il Nevada, dove un elettore democratico su tre è ispanico, è un test decisivo. Una vittoria di Bernie dimostrerebbe come il senatore del Vermont sia in grado di conquistare le minoranze. Una sconfitta di Hillary sarebbe drammatica per la sua campagna. Di tutto questo, a Las Vegas, non c’è traccia. Lo si capisce dalle parole di Gesù. Ovvero di Jesus, messicano che fa il «busboy in un ristorante di un albergone-casino; i busboy, quasi tutti ispanici, sono quelli che sparecchiano a tavola, sono tra gli infiniti invisibili che mandano avanti Las Vegas, della cui esistenza nessuno prende atto, da sabato, per poco, chissà. Jesus è seduto a mangiare in un fast food che si chiama El Pollo Loco, il pollo matto, in un minimall fuori dal centro di Vegas. Jesus ha un adesivo di Bernie Sanders sul parafango. «I democratici non fanno propaganda tra gli anglos . Tu hai guardato i canali in inglese, vero? Lo credo che non c’è quasi niente. A Las Vegas è pieno di bianchi repubblicani. Stanno facendo campagna tra nosotros ». Ci sono i Bernie Boys aggressivi — accusati di infiltrarsi nei sindacati degli alberghieri — e ci sono i sindacalisti pro Hillary. Ci sono spot a raffica dei due candidati sulle reti tv in spagnolo (Sanders ha speso il doppio di Clinton in spot tv) parlano di immigrazione e cittadinanza, di lavoro, di Hillary che è da sempre amica degli ispanici, di Bernie che è combattivo. Jesus stavolta è con lui. «Nel 2008 ho votato Clinton», racconta. «Poi, Obama. Poi, non è cambiato niente, non faccio che lavorare e guadagnare poco. Io e mia moglie abbiamo due lavori, non vediamo mai i bambini, per fortuna abbiamo l’ abuela (la nonna, ndr ) che vive con noi. Lo so che Bernie non ce la farà, probabilmente. Ma sperare mi dà gioia, l’idea che possa vincere uno che combatte per noi mi darebbe gioia». A pochi isolati dal Pollo Loco iniziano i grandi casinò. Decine di migliaia di giocatori ignari sbevazzano, consumano snack, perdono soldi. Jesus porta via piatti e bicchieri, dopo molte ore torna a casa, negli estremi sobborghi, fiero del suo parafango, sperando nel risultato di sabato.
La Stampa 20.2.16
L’Europa non è mai stata così divisa
di Stefano Stefanini

Un respiro di sollievo per l’accordo su Brexit. Il 2016 dell’Europa resta in salita ma almeno i leader non si sono bloccati alla partenza. Non si sono intestarditi sulla lana caprina di consentire o no al Regno Unito di non essere vincolato alla clausola della «unione sempre più stretta» (ever closer union).
Un annoiato, e interessato, Alexis Tsipras aveva osservato che dovrebbe piuttosto pensare al rischio di disintegrazione sotto le spallate dei rifugiati.
L’Unione non è mai stata così divisa. Ieri si è parlato dell’accordo con la Gran Bretagna e d’immigrazione; ma nel retroscena ci sono anche le tensioni sulle banche, la Russia e il braccio di ferro sull’austerità.
L’Europa è abituata alle lunghe notti. È abituata alla limatura del consenso. L’accordo arriva tardi o all’alba, quando nei leader si prosciuga anche l’adrenalina. Se non c’è accordo, si rinvia al vertice successivo. Questo vertice non faceva eccezione ma qualcosa è diverso. I due nodi sul tavolo, uscita del Regno Unito e immigrazione, cambiano comunque profondamente l’Europa.
L’Europa del 31 dicembre 2016 sarà un’Europa diversa da quella del 1° gennaio. I leader possono pilotare il cambiamento; non possono né ignorarlo né rinviarlo al mittente. Alcuni (e Matteo Renzi è fra questi) lo capiscono; alcuni lo strumentalizzano; altri si rifugiano in fughe nel passato.
Se la Gran Bretagna rimarrà nell’Unione, sarà definitivamente un’Europa a due, o più, velocità. L’allentamento di alcuni vincoli sarà contagioso per molti anche se non nella forma «prendere o lasciare» che Londra è stata capace d’imporre. Un consistente gruppo di paesi, identificabili con l’eurozona, potrà spingersi sulla strada del «più Europa». È necessario per alcuni passi finora fatti a metà, come l’unione bancaria. Dovranno stare attenti a non forzare la mano a elettorati e opinioni pubbliche che non vogliono «troppa Europa». I britannici non sono soli nel dubitare dell’Ue.
Con Brexit avremmo un’altra Europa. Parliamoci chiaro. Senza l’Ue, il Regno Unito è un’isola nell’Atlantico. Senza Londra, l’Europa è una penisola euroasiatica fra Atlantico e Mediterraneo. La posta geopolitica è enorme. Ieri i leader europei, Cameron compreso, hanno fatto la loro parte. Adesso la parola passa ai cittadini col referendum. Aspettiamoci anche interventi dall’esterno di pezzi da novanta, come Obama che visiterà la Gran Bretagna in primavera. Quanto al mito di un’Ue più coesa dopo Brexit chiedere a Budapest o a Varsavia. A meno di procedere per eliminazione e scartare altri pezzi alla ricerca di un nocciolo duro.
Se Brexit rischia di staccare un pezzo d’Europa, l’immigrazione la sta dilaniando. Gli europei devono rassegnarsi a conviverci. Quand’anche il cessate il fuoco tenesse e il negoziato decollasse, la Siria continuerà a produrre rifugiati prima di rientri. Non c’è solo la Siria, ci sono Iraq, Afghanistan, Corno d’Africa, Libia spalancata sull’Africa subsahariana; c’è a Est un’Ucraina instabile che sta rischiando l’implosione politica. Migranti e rifugiati continueranno. Era troppo attendersi una soluzione dal vertice di ieri. Ma s’intuisce un senso di direzione.
All’Ue, non resta che la strada già percorsa da paesi che sono da sempre oggetto di pressione immigratoria, come gli Stati Uniti. Gli americani, lasciamo perdere Trump, sanno benissimo che non si può fermare né arginare; si può frenare e filtrare; si può gestire. A che altro servono i reticolati fra Texas e Messico? Gli illegali entrano lo stesso (i consolati messicani negli Usa li registrano col beneplacito americano – «almeno c’è una traccia»).
La parola d’ordine di questo Consiglio europeo è «non più entrate libere» (no waving through). L’Ue vuole «controllare le frontiere esterne per non risollevarle all’interno». Confusamente, con misure nazionali controverse e di dubbia legalità, come la soglia agli ingressi imposta dall’Austria, l’Europa pone barriere e filtri che trattengano la piena e rassicurino le opinioni pubbliche. Le difficoltà sono enormi e ben maggiori di quelle fronteggiate dagli Stati Uniti: una sterminata frontiera marittima, come l’Italia sa bene da anni, e una geografia complicata che minaccia di fare dei Balcani terra di stazionamento; la limitata capacità di assorbimento di un continente già saturo e con un mercato del lavoro asfittico; il gran numero di rifugiati politici cha ha diritto all’asilo; l’impossibilità di respingimenti di chi fugge da Stati falliti, dittature spietate, regimi barbari.
L’Europa non ha tuttavia altra scelta che arginare e canalizzare, filtrando gli ingressi e gestendo la pressione. A questo servono gli hot spots, l’operazione marittima Nato e a collaborazione con paesi terzi, come Turchia, Giordania, Libano e area balcanica. La solidarietà rimane; il diritto d’asilo pure. L’Ue procederà per approssimazioni successive, farà anche errori, ma il controllo esterno è l’unico modo per non tornare alle frontiere e agli egoismi nazionali.
La Stampa 20.2.16
100 mila italiani sono emigrati all’estero
Tutti I rischi della grande fuga
di Pietro Paganini

È un problema che 100 mila italiani siano emigrati all’estero? No. Il mondo ci offre grandi occasioni ed è giusto che noi e i nostri figli le sfruttiamo. Che vadano quindi all’estero a cercare fortuna, a creare, produrre e innovare. E’ la natura umana: esplorare ed essere curiosi. Tra l’altro, i 100 mila li abbiamo sostituiti con 245 mila stranieri, a cui aggiungere 28 mila italiani rientrati. Il saldo è positivo.
Eppure il dato fornito dall’Istat sta suscitando grande clamore e avrà giorni di strascichi politici che, come al solito in questi casi, si risolveranno in nessuna reazione concreta. Perché dovremmo preoccuparci? Ci sono due ragioni. La prima è che il numero di chi esce si è alzato mentre il numero di chi entra è andato progressivamente riducendosi. Il Paese è meno attrattivo. Così come non arrivano gli investitori, arrivano meno lavoratori stranieri. La seconda ragione dovrebbe preoccuparci seriamente, ed è strettamente connessa alla prima. Perché quelli che se ne vanno sembrano essere i cosiddetti Cervelli in Fuga, giovani molto qualificati che in Italia non vogliono più stare perché frustrati da un sistema che premia le relazioni familiari, parrocchiali e corporative, invece di esaltare la competitività e l’intraprendenza, cioè il merito. Le istituzioni, così come molte università e imprese del settore privato, non riconoscono le competenze dei nostri giovani, favorendo la mediocrità. E così scappano dalla burocrazia e da quella cultura genuflessa sul passato che ha rinnegato qualsiasi visione sul futuro. E’ un atteggiamento che purtroppo sta attecchendo in molte parti d’Europa, spingendo italiani ed europei verso gli Usa e sempre più progressivamente verso l’Asia, dove, invece, si costruisce il domani. Ne consegue, e questo è il terzo problema, che quelli che corrono da noi, eccezioni a parte, sono individui poco qualificati che trovano nel nostro Paese una speranza, ma non un’opportunità. Il saldo quantitativo di questo processo migratorio è positivo, ma quello qualitativo è purtroppo desolatamente negativo. Perdiamo valore, perdiamo energia, perdiamo il futuro. In una visione aperta del mondo, i flussi migratori di persone qualificate (i talenti) sono una risorsa, soprattutto nel contesto socio economico attuale dove la competitività si guadagna con le conoscenze e la capacità di fare innovazione.
Essi ci donano la diversità e la capacità di osservare il mondo da prospettive diverse, di individuare problemi e soluzioni sempre originali. Sono il motore del cambiamento. Alcuni Paesi lo hanno capito, si veda il dibattito negli Usa sugli immigrati nelle High Tech Company così come nei Paesi scandinavi e in molte regioni dell’Asia, Cina in testa, dove esistono programmi per attrarre cittadini del mondo con grandi qualifiche. Non solo vogliono attrarre, ma vogliono anche seminare, spedendo i loro figli intorno al globo a contribuire e imparare. La diretta conseguenza di questo saldo negativo non solo è evidente, ma ci deve preoccupare molto. Ci ripetiamo che per vincere la sfida della competitività globale e dell’evoluzione tecnologica dobbiamo puntare sulle competenze. Eppure, al di là dei proclami, degli zero virgola, stiamo alimentando un ecosistema involuto nella direzione opposta. Servono le riforme, certo, ma serve soprattutto una visione, l’idea di futuro che da troppo tempo ci manca.
La Stampa 20.2.16
Alla ricerca della Sinistra aspettando mezzo Pd
Sulle ceneri di Sel nasce il nuovo partito. Bersani e Cuperlo in stand by
di Riccardo Barenghi

Alla ricerca della sinistra perduta, si potrebbe dire con tante scuse a Marcel Proust per l’impropria parafrasi. Oppure della sinistra che non c’è, o magari che c’è ma non si vede. Comunque sia, questa è la scommessa che ha lanciato Sinistra italiana ieri pomeriggio dal Palazzo dei congressi di Roma. L’obiettivo è un nuovo partito, ovviamente di sinistra, che segni la fine di Sel sperando e lavorando affinché tanti italiani in cerca di una casa politica diversa, e per molti aspetti antagonista a quella di Renzi, la trovino accogliente.
Erano più di mille in platea, molti volti della sinistra storica ma anche nuove facce. Comunque tanti. Alfredo D’Attore, uno dei transfughi dal Pd, non si aspettava tanta partecipazione, infatti aveva scommesso che sarebbero stati meno con Nicola Fratoianni: «Purtroppo, anzi per fortuna, ho perso». Il vincitore, che poi è l’attuale coordinatore di Sel, amico e compagno di viaggio da una vita di Nichi Vendola, non nasconde la sua soddisfazione: «Qui sta nascendo qualcosa di nuovo, un progetto politico alternativo al renzismo. Vogliamo conquistare tanti cittadini, tanti elettori che oggi sono delusi o incazzati con l’attuale quadro politico, il sistema economico, la finanza che cancella diritti e futuro. Lo spazio c’è, eccome. Proviamo a occuparlo».
Ma il vero creatore di tutto questo è proprio Vendola, che però non c’è né verrà. Domenica parlerà attraverso un video di nove minuti: «Ho detto a Nichi che ha fatto un record, non aveva mai parlato così poco in vita sua», gioca Fratoianni. E’ in Canada, il presidente di Sel, con il suo compagno Ed. I pettegoli dicono, e qualche giornale l’ha anche scritto, che starebbe lì in attesa di un figlio fatto con la maternità surrogata. Diciamo solo che sono fatti suoi.
Nel frattempo il suo progetto va avanti e mette insieme persone che fino all’altro ieri stavano in altri posti, Per esempio Sergio Cofferati, che è uno dei promotori dell’iniziativa: «Oggi c’è uno spazio enorme perché il Pd non è più di sinistra. Uno spazio che non deve essere assolutamente lasciato vuoto. Altrimenti tanta gente si rifugerà nell’antipolitica o nella rinuncia a partecipare, a votare. Entrambe derive negative e anche pericolose». Ma lei, Cofferati, pensa che qualcuno dei suoi ex compagni della sinistra dem vi seguirà, lascerà la casa madre per unirsi a voi? «Vedo con tristezza l’eclissi della sinistra del Pd, che non riesce a trovare un ruolo e neanche a diventare un polo dialettico. Comunque decideranno loro cosa fare».
E allora sentiamo loro, in particolare Gianni Cuperlo e Pier Luigi Bersani. Il primo non nega affatto la sua sofferenza a stare nel partito dove sta, tuttavia ancora non ha deciso se restare o uscire: «Se però l’alleanza con gli Alfano, i Verdini, addirittura i Cuffaro diventasse organica, se cioè questi personaggi entrassero nella galassia del Pd, allora penso che non mi sarebbe più possibile restare lì dentro. Perché verrebbe meno la nostra storia». L’ex leader dei democratici è meno netto di Cuperlo, spera ancora che nel Pd ci siano le forze e le idee per ribaltare una linea politica (e magari la stessa leadership) che non gli piace, pensa che se non si ricomincia dal centrosinistra, insomma dall’idea nata con l’Ulivo, la sinistra non va da nessuna parte: «Ma se mi ritrovo in casa mia gli ex berlusconiani, allora toccherà prendere una decisione radicale perché il mio Pd cambierebbe natura».
Si avvicinano le elezioni amministrative, in molte città i candidati di Sel correranno per conto loro, senza accordi con quelli del Pd. Giorgio Airaudo, per esempio, sta facendo la sua campagna elettorale a Torino, e gli ultimi sondaggi lo accreditano dell’11 per cento: «Il nostro obiettivo è unire tutto ciò che sta a sinistra del Pd, nella società e nella politica». A Roma Stefano Fassina è in corsa da tempo mentre a Milano non c’è ancora un candidato della Sinistra, potrebbe essere Pippo Civati ma ancora non si sa. «In ogni caso - spiega Cofferati - noi non possiamo sostenere Giuseppe Sala, che è totalmente alternativo alla buona esperienza di Giuliano Pisapia». Passa Luca Casarini, anche lui impegnatissimo nella costruzione di questo nuovo partito. «Ma chi l’avrebbe mai detto - scherza l’ex leader della Cgil - che io e Casarini ci saremmo ritrovati insieme...». Miracolo di Renzi.
Che potrebbe farne un altro, con il referendum sulla riforma costituzionale. «Quello - dice D’Attorre - sarà il vero spartiacque: da una parte Renzi, Verdini e, Alfano, dall’altra noi e la Sinistra. Voglio vedere cosa faranno i miei ex compagni del Pd».
Il nuovo Partito dovrebbe nascere a dicembre. Per ora un leader non c’è. E non c’è neanche il nome: Sorpresa di Fratoianni: «Potrebbe pure non esserci la parola sinistra, tanto lo sanno tutti che siamo la sinistra».
La Stampa 20.2.16
Speranza accusa: su altre leggi
Renzi mise tutto il suo peso su questa è molto prudente
“Faccia una battaglia, come sul Jobs Act”
di Francesca Schianchi

L’importante è non fare passi indietro». Quando, dopo l’ennesima giornata di trattative e conteggi sulle unioni civili, la serata si chiude con la consapevolezza di un Pd «non autosufficiente» nei numeri, nemmeno con l’aiuto di Sel, come ammette la ministra Boschi esercitando «un sano esercizio di realismo» (copyright del senatore democratico Federico Fornaro) e l’alta probabilità che il presidente del Senato Grasso elimini dal tavolo «canguri e cangurini», dalla minoranza di sinistra del Pd che tanto crede in questa legge – e in alcuni casi l’avrebbe spinta pure più in là, fino al matrimonio egualitario – il commento diffuso si declina più o meno così: si voti, sperando che la stepchild adoption passi. Ma se non passerà, deve essere l’Aula a deciderlo, non deve essere il Pd a rinunciarci in partenza.
E’ quello che ripete Roberto Speranza, tra i giovani capofila della corrente di sinistra, quando dice che «noi dobbiamo difendere le nostre idee: e sia nel 2012 che nel 2013 la linea del partito era sì alle unioni civili e sì alla stepchild adoption», cioè l’adozione del figlio del partner. Quindi, no a stralci della stepchild «a prescindere»: sarà l’Aula a pronunciarsi, «e comunque se il M5S ci sta, ce la facciamo a farla passare». Quello che manca, però, è la «determinazione» del premier-segretario: «Ricordo in passato di aver visto riunioni in cui Renzi ci ha messo tutto il suo peso, sulla riforma costituzionale come sul Jobs act e l’Italicum: ecco, su questa legge mi sembra abbia un atteggiamento molto più prudente. Faccia una battaglia», lo invita.
Alla fin fine, eliminare tutti gli emendamenti premissivi, appunto i cosiddetti canguri (quello firmato Marcucci, che blinderebbe il testo, ma anche quelli della Lega, che invece potrebbero affossarla) appare come l’unica soluzione che possa rasserenare il clima e permettere di votare. Chi ha parlato ieri con la relatrice della legge, Monica Cirinnà, ha trovato che anche lei guardasse con favore a questa eventualità. «Per provare a uscire dalla palude in cui ci troviamo – valuta il senatore bersaniano Miguel Gotor – l’ipotesi di giudicare inammissibili tutti i premissivi mi sembra percorribile». Anche perché, ragiona Fornaro, della minoranza Pd, «a quel punto anche gli emendamenti potrebbero scendere a un numero fisiologico, si potrebbero discutere, e se ne avvantaggerebbe l’Aula e anche l’opinione pubblica».
Certo, il rischio è che la stepchild a voto probabilmente segreto venga impallinata. Ma se il no arriverà dalla maggioranza dell’Aula, quella - ammette anche chi crede nel testo dalla prima all’ultima riga - si chiama democrazia: «E’ arrivato il momento in cui ognuno si assuma le proprie responsabilità», giudica Fornaro. I numeri, lo ha dichiarato la Boschi, il Pd da solo non li ha, «e questo è da sempre stato il problema dei diritti civili - ricorda Gotor -. Non solo oggi: fosse stato per le maggioranze di governo, in passato non sarebbero passati l’aborto o il divorzio». Fosse per quella maggioranza, stavolta non passerebbe la stepchild adoption.

venerdì 19 febbraio 2016

Repubblica 19.2.16
Fo, splendido novantenne “Per fortuna sogno Franca”
Il 24 marzo il compleanno del premio Nobel: “Continuo a lavorare, ma sono stanco”

“Benigni mi ha deluso Mi pare si sia disciplinato e non va bene per un bravo comico”
L’incontro nello studio di Milano tra carte, dipinti e un via vai allegramente caotico
“Dopo lo stupro lei reagì come un gigante Quando hai una donna così, voli”
intervista di Anna Bandettini

MILANO GLI è presa come una frenesia, una impazienza di fare, lavorare, dipingere, dire... Tre libri in pochi mesi, altri in arrivo. E poi le conferenze spettacolo, 40 “finti Chagall” dipinti per la mostra di Brescia, le interviste, gli articoli... «Mi sento come una di quelle betoneghe, come si dice a Milano, quelle comari petulanti che hanno sempre da dire su tutto », se la ride Dario Fo seduto al lungo tavolo da lavoro nello studio di casa, le mani sporche di tempera gialla, una pila di fogli su cui traccia schizzi e figure, davanti a una intera parete di disegni del volto di Franca Rame e intorno un via vai allegramente caotico.
Il prossimo 24 marzo Fo compirà 90 anni lavorando, come uno che ha ancora voglia di aggredire la vita nonostante l’età e la memoria che ogni tanto va. Di aggredirla come quando quel giugno del 1950, aspirante pittore, si presentò da Franco Parenti con una satira su Caino e Abele, il Poer nano, che dette l’avvio a una stupefacente avventura di teatro, politica, amore, vita, dalla fascinazione per i fabulatori lombardi a quella più discussa per i 5stelle, dall’invenzione di una lingua teatrale destinata a segnare la storia culturale alla militanza politica, dall’essere censurato al Nobel.
Che altro ha da fare?
«Finché ho idee non posso fare a meno di lavorare. Sono pieno di appunti, progetti... Ma mi stanco presto. Per questo compleanno ho detto: fate vobis. Decidete e poi mi portate come un pacco. Ma rischio di arrivarci bollito se non mi riposo. La notte non dormo, sono agitato. Per fortuna i sogni mi calmano un po’».
I sogni?
«Sogno quasi sempre Franca, giovane con i capelli biondi e leggeri. Una volta l’ho sognata che era diventata un robot, e allora ci ho scritto un racconto surreale, Il sogno, lei-robot che si candida a sindaco di Milano. Una cosa comica ».
Parliamo di comici: è vero che Benigni non le piace più, come ha detto in tv a Andrea Scanzi nel suo “Reputescion”?
«Mi ha deluso. Benigni era spietato e quella era la sua forza comica. Adesso mi pare sia diventato... opportunista, ecco la parola. Ha fatto i Dieci Comandamenti, raccontava di Mosè che fa ammazzare donne e bambini perché adoravano gli idoli, senza nessun commento».
Ma è la Bibbia.
«D’accordo, ma non puoi diventare il beatificatore degli ebrei e non fare cenno alle loro brutalità contro chi segue altre religioni, come accade oggi. Mi dispiace, ma mi sembra che Benigni si sia disciplinato, e non va bene per un bravo comico».
E chi è un bravo comico secondo lei ?
«Di Crozza mi piacciono le tirate ironiche. E poi Fiorello. Mi piace anche suo fratello Beppe che potrebbe fare il film tratto dal mio libro Razza di zingaro nel ruolo del giovane pugile vittima del nazismo. Io farò l’allenatore. Ed è curioso perché anche nel primo e unico film che ho fatto,Lo svitato di Carlo Lizzani del ’56, c’era una scena di boxe».
Aveva 30 anni a quell’epoca: sognava di diventare la celebrità che è diventato?
«Franca e io lo eravamo già, avevamo incassi e spettatori più alti di tutti. Ma avevamo capito che i ricchi borghesi con noi ridevano di loro stessi e si assolvevano. Così lasciammo i teatri per le Case del Popolo. Continuammo coi pienoni ma correndo pericoli. Alla Palazzina Liberty a Milano ci misero le bombe. E a Sassari nel ’73 ci fu il mio arresto durante una replica di Guerra di popolo in Cile. La cosa divertente è che in galera gli agenti di custodia mi chiedevano gli autografi, gli altri detenuti urlavano “bravo”».
Quello fu anche l’anno della violenza su Franca.
«Fu bravissima Franca: decidere di raccontare a teatro quello che le avevano fatto fu una cosa potente. Io sono stato malissimo, perché fui punito per quello che avevo fatto nella cosa più cara. Pensavano: la donna di Dario Fo è il suo punto vulnerabile, colpiamolo lì. Ma hanno trovato un gigante: quando hai una donna, così voli».
Quanto le manca Franca?
«Non posso dire un momento della mia vita in cui lei non c’è. Franca aveva piantato tutti quelli che la corteggiavano, con macchinone, ville e case per questo citrullo che ero io. Ma forse le piaceva che io fossi fuori chiave. Ma sa che da un po’ succedono cose strane?».
Tipo?
«Fatti incredibili. Una sera, ero stanco, arrabbiato perché non era andata bene una prova. Passo davanti a certe piante solitamente mezze secche e nel vaso di Franca c’era un bel fiore rosso. Come a dire “vai vai che ci sono”. C’è un problema? Dopo un po’ si risolve. È Franca che mette a posto le cose».
Crede che sia vero?
«No, ma sono stupito».
L’amore è stato importante nella sua vita?
«Piacevo perché ero fuori dal coro. Sono stato amato, sì. A cominciare da mia mamma che ha sempre detto “Dario vincerà il Nobel”. Ma è pittore, le dicevano, non può. E lei insisteva: lo vincerà ».
Novanta: li sente?
«No, ma certo l’età c’è. Ho sentito il mio amico Albertazzi e anche lui aveva giù la voce. Se poi mi capiterà di morire, io ho fatto il possibile per campare».
Repubblica 19.2.16
Il mercante d’arte che rubava per Hitler
In un libro la saga dei Gurlitt: le opere confiscate dal padre nazista e le bugie del figlio
di Tonia Mastrobuoni

Cornelius Gurlitt, morto nel 2014: la storia di suo padre Hildebrand è raccontata nella biografia “ Hitlers Kunsthaendler” ( Il mercante d’arte di Hitler), della storica dell’arte Meike Hoffmann
Continuò ad acquistare tele di artisti ebrei anche dopo essere stato licenziato dal Museo Ma dopo la guerra non provò a restituire quanto aveva sequestrato e nascose quel “tesoro”

BERLINO LA scoperta dell’incredibile saga dei Gurlitt avviene come nel più classico dei gialli: per caso.
Sei anni fa, su un treno svizzero, la polizia doganale esegue un controllo di routine tra i passeggeri diretti a Monaco. E trova addosso a un vecchietto dall’aria innocua 9mila euro in contanti, cuciti nella giacca. Lì per lì non accade nulla, magari a qualcuno scappa anche un sorriso per il nascondiglio antiquato di Cornelius Gurlitt.
Ma qualcun altro si insospettisce e decide che la cosa non può finire lì. Il 79enne è ufficialmente povero, senza un reddito. Così, dopo qualche indagine, un paio di poliziotti bussano alla porta del suo appartamento nell’elegante quartiere di Schwabing, a Monaco. Quello che trovano, farà storia.
Gurlitt vive come un barbone, si nutre di cibo in scatola, ammassa carte e immondizia in mezzo a mobili da quattro soldi, ma alle pareti e ammucchiati negli angoli nasconde uno dei tesori più inestimabili del secolo. Migliaia di capolavori di ogni epoca, dati per scomparsi il 13 febbraio del 1945, bruciati ufficialmente nel terribile bombardamento di Dresda, uno degli episodi più cupi della fine della guerra, magnificamente raccontato da Kurt Vonnegut.
In realtà, quel patrimonio inestimabile cancellato dai libri di storia, è rimasto intatto. E nel piccolo appartamento di Gurlitt i poliziotti trovano oltre 1.400 capolavori di ogni epoc:, Canaletto, Picasso, Franz Marc, Matisse, Duerer, Kokoschka o Rodin. Altre migliaia di opere verranno rinvenute in una seconda casa a Salisburgo. Valore stimato, oltre un miliardo. Opere, però, dall’origine dubbia, criminale. Pezzi unici da mercato nero che Gurlitt vende da decenni per mantenersi, per pagarsi le cure mediche. Capolavori che ha ereditato da suo padre, Hildebrand Gurlitt.
Sul letto di morte, nel 1956, il figlio gli ha infatti promesso che continuerà a nasconderli, ad accudirli. Ma quei capolavori sono stati sottratti illegittimamente ai proprietari durante l’epoca nazista: rubati agli ebrei, confiscati su incarico della feccia bruna perché «arte degenerata ». Gurlitt muore nel 2014, tra mille polemiche, perché voleva donare tutto al Museo di Berna, ma nel dubbio che centinaia di quelle tele possano ancora essere restituite agli eredi dei proprietari veri, l’imbarazzo è grande.
Sul padre di Cornelius, Hildebrand Gurlitt, considerato a oggi uno dei mercanti d’arte più controversi del Novecento, è appena uscita in Germania una prima biografia: Hitlers Kunsthaendler (Il mercante d’arte di Hitler”, C.H. Beck Verlag), scritta dalla storica d’arte Meike Hoffmann della Freie Universitaet di Berlino e della giornalista del Tagesspiegel Nicola Kuhn.
Erano quattro, in realtà, gli specialisti incaricati ufficialmente da Hitler di confiscare opere d’arte in giro per la Germania per rivenderle all’estero e procurare soldi al regime nazista. Agli altri tre “mercanti di Hitler” sono già state dedicate delle monografie, mancava solo quella che ricostruisse la complessa vicenda di Gurlitt, il suo incarico era stato per anni anche quello di comprare capolavori per il “Museo del Fuhrer” di Linz.
Nato in una famiglia colta, di artisti e intellettuali di Dresda, una nonna ebrea, Hildebrand Gurlitt inizia la sua carriera al
Koenig- Albert- Museum di Zwickau, dove alla fine degli anni Venti colleziona con entusiasmo opere delle avanguardie, quadri di Max Pechstein, Ernst Ludwig Kirchner, Oskar Kokoschka. Quando l’aria si fa pesante, all’inizio degli anni Trenta, e comincia la cupa propaganda che condanna l’arte degli ebrei e delle avanguardie, Gurlitt viene licenziato. Anche come direttore di un Museo di Amburgo, poco dopo, continua a comprare tele degli espressionisti e di artisti ebrei. Il primo maggio del 1933, quando le camice brune sfilano per la città anseatica, Gurlitt si rifiuta di issare la bandiera nazista. A luglio è nuovamente costretto ad andarsene. E decide di mettersi in proprio. Ma poi, inspiegabilmente, avviene la conversione al nazismo, e Gurlitt comincia la sua irresistibile ascesa nel regime.
«Come mai uno spirito critico, un entusiasta delle avanguardie — si chiedono le autrici della biografia — ne diventa improvvisamente il liquidatore, si trasforma da vittima in carnefice? ». Per loro, tuttavia, peggio del ruolo avuto durante il nazismo è quello assunto da Gurlitt dopo la guerra. Il “mercante d’arte di Hitler” si è ben guardato dal restituire le opere ai legittimi proprietari o alle loro famiglie, non si è mai chiesto quanti danni avesse fatto a miriadi di persone. E ha chiesto al figlio di nascondersi per sempre nel buco nero della sua menzogna.
La Stampa 19.2.15
Dio non gioca a dadi, però...
In un’America ferita e inquieta, la teoria della complessità cerca di riconoscere le regole che governano il caso, per orientarsi nel caos
di Gianni Riotta

Provate ad allineare con i soldatini di piombo di una volta i contendenti nella guerra civile in Siria, che ha fatto 250.000 morti e milioni di profughi, destabilizzato il Medio Oriente e l’Europa, messo Usa contro Russia come ai tempi della Guerra fredda facendo dire a papa Francesco: «È la Terza guerra mondiale a pezzetti». Da una parte l’esercito di Assad, dall’altra i ribelli. Poi schierate con Damasco Putin, l’Iran sciita e gli hezbollah libanesi, con i ribelli gli Stati Uniti e la «coalizione», dagli inglesi ai sauditi. Qui siamo già a tre conflitti, Assad/ribelli, Usa/Russia, sciiti/sunniti, cui vanno aggiunti l’Isis, contro cui agisce una diversa coalizione, Italia inclusa, e ancora Turchia, curdi, al Qaeda…
Addio Laplace
La tragedia in Siria è un esempio perfetto di quella che gli scienziati chiamano «teoria della complessità», astrusa e affascinante disciplina che tratta con la stessa disinvoltura matematica e economia, biologia e linguistica, epidemiologia e informatica. La vecchia scienza credeva nell’idea di Laplace, fissata nel 1814 e così descritta dalla professoressa Melanie Mitchell nel saggio Complexity: A Guided Tour: «Date le leggi di Newton e la corrente posizione e velocità di ogni particella dell’universo, è possibile, in linea di principio, prevedere ogni evento, per l’eternità».
L’ambiziosa speranza del marchese Laplace è datata 1814, giusto un anno prima che il Congresso di Vienna imponesse all’Europa regimi che, come le particelle dell’universo, dovevano restare fissati per sempre. La rivoluzione del 1848 li travolge in politica, mentre in fisica tocca aspettare il 1927, il principio di Heisenberg e la fisica dei quanti, per riconoscere che nell’universo, come nella storia, soffia forte il random, il caso, e addio sicurezza ferrea delle previsioni.
Einstein era certo, «Dio non gioca ai dadi»; Dio sembra invece divertirsi molto con il caso e la teoria della complessità prova adesso a riconoscere con quali regole, intrecciando i dati della biologia, della fisica, i calcoli matematici, i risultati di scienze umane e sociali, l’economia, per orientarsi nel caos, o almeno sapere quando non abbiamo nessuna rotta credibile.
Il blog Slate lancia in questi giorni A Crude Look at Whole: The Science of Complex System in Business, Life, and Society, ultimo libro dello studioso John H. Miller, confrontando la complessità con la riottosa America della campagna elettorale 2016. Miller e la Mitchell presentano esempi così disparati da lasciare, dapprima, di stucco il lettore. Cosa unirà mai un formicaio, le Borse mondiali, il funzionamento del nostro sistema immunitario, il moto dell’universo, i neuroni del cervello, l’evoluzione della vita sulla Terra, il web?
Previsioni ardue
Un tempo, sui libri di scuola, ogni disciplina era fissata con rigore, «la matematica non è un’opinione» dicevano severi i professori, ma con la complessità nulla è così lineare, nella scienza, e in politica ci sono strappi, passaggi random che rendono le previsioni ardue, per la Casa Bianca come per la Borsa. La domanda della Mitchell ci strega in questo confuso XXI secolo: «Perché mai tutti questi sistemi della natura che chiamiamo complessi - cervelli, colonie di insetti, il sistema immunitario, le cellule, l’economia globale, l’evoluzione biologica - producono comportamenti e si adattano in modo tanto complesso, a partire da poche regole comuni?».
E se queste «regole comuni» ai grandi sistemi esistono, saremo un giorno in grado di analizzarle e governarle? Potremo comprendere come il caso, un effimero cambiamento cellulare, possa produrre risultati macroscopici nelle specie animali o come una guerra locale a Damasco basti a infiammare il pianeta? Potremo programmare un computer «totale», capace di pensare?
Molti scienziati son certi di sì, progettano macchine pronte a lavorare per noi o, come aveva previsto Italo Calvino nel 1967, perfino a «scrivere romanzi». Però, con contraddizione tipica della complessità, il mito dell’Intelligenza artificiale è prima denunciato dal fisico Hawking come «l’ultima cosa che l’uomo farà», perché le macchine si ribelleranno al creatore sterminando l’Homo sapiens, poi, con meno spirito di fantascienza, deprecato dai suoi pionieri che temono un’ondata di disoccupazione. La scorsa settimana è stata fatta circolare dal Future of Life Institute, in Massachusetts, una lettera aperta con oltre 10.000 firme di scienziati: denunciano ai governi che le future macchine intelligenti lasceranno milioni di persone senza lavoro, impiegati, tecnici, operai, producendo povertà di massa e gravissima instabilità sociale (http://goo.gl/Bcbkop).
Da generazioni l’America non era inquieta e ferita come in questa stagione. Straordinario dunque che si appassioni giusto alla teoria della complessità, che ci mette in guardia dalla facilità con cui insignificanti fenomeni, a prima vista senza importanza alcuna, in un nonnulla distruggano comunità che si consideravano formidabili.
il manifesto 19.2.16
Spagna, sì di Podemos a Izquierda Unida: trattiamo insieme con il Psoe

In uno stallo politico che dura da più di due mesi, Podemos ha accettato ieri la proposta avanzata dal leader di Izquierda Unida Alberto Garzon di trattare per formare un governo guidato dai socialisti del Psoe.
Le trattative, per la prima volta nella storia spagnola, coinvolgerebbero quattro partiti: Psoe, Podemos, Iu e Compromis (valenziani).
Di fronte ai giornalisti, Pablo Iglesias ha glissato sul fatto che il leader del Psoe Sanchez sta già trattando con Ciudadanos, facendo però capire che tale negoziato a due è superato.
Sanchez, a Bruxelles per l’incontro dei socialisti europei, non ha commentato l’iniziativa.
Mentre Iglesias ieri ha detto che spera sinceramente che l’incontro per un governo progressista non sia l’occasione per «farsi una foto» ma per «lavorare insieme».
Alberto Garzón difende fortemente la scelta di un governo progressista: “Abbiamo la responsabilità morale di provare a formare un governo di alternativa”. E a Podemos, che finora ha bloccato l’accordo con il Psoe soprattutto per il referendum dell’indipendenza catalana, dice: ” Quel referendum bisogna difenderlo, mantenerlo, ma non va posto come una linea rossa più importante della lotta alla disuguaglianza o alla povertà”.
La Stampa 19.2.15
Banche, conti e riforme: l’Italia è sotto accusa
Da Londra a Berlino fino a Bruxelles gli affondi più duri
Per la stampa anglosassone l’incertezza sul credito può far deragliare il premier
Schaeuble in pressing sui nostri titoli di Stato e Juncker critica il governo su debito e deficit
di Giuseppe Bottero

Dai conti pubblici alle banche, l’Italia torna nel mirino. I primi dubbi, verso la fine di gennaio, sono comparsi sul «New York Times». Poi, rumoroso, è arrivato l’affondo del «Financial Times», a firma dell’editorialista tedesco Wolfgang Munchau. Erano i giorni più duri dello scontro Renzi-Juncker. Il presidente della Commissione Ue aveva accusato il premier di offendere continuamente Bruxelles, e il quotidiano ha sfoderato il carico da novanta mettendo in dubbio «la sostenibilità dell’Italia all’interno dell’Eurozona» e dipingendo un panorama con Roma e Atene malate quasi incurabili. Ci è tornato su, un paio di giorni fa, il corrispondente da Roma: «La fortuna di Renzi si sta esaurendo» e i «venti contrari, nel corso di un anno cruciale, potrebbero creare una situazione più cupa del previsto». Prima era toccato a «The Economist»: «Il sistema bancario è strangolato dai crediti in sofferenza». E sempre sulle banche è andato in scena il pressing di Schaeuble: vuole mettere un tetto alla presenza di titoli di Stato nei bilanci. Ieri, a rafforzare i timori di Palazzo Chigi sui possibili movimenti ostili dalle parti di Berlino, Bruxelles, Londra e Washington, ci ha pensato di nuovo il «Financial Times». «La questione che può far deragliare il leader di centrosinistra è l’incertezza che avvolge le banche».
Repubblica 19.2.16
“Migranti, un danno per l’economia tedesca”
Duecento esperti bocciano la Merkel: “Più danni che benefici dai nuovi arrivi”
di Tonia Mastrobuoni

BERLINO. Sembrano lontanissimi i tempi in cui la star degli economisti tedeschi Marcel Fratzscher strigliava i politici, colpevoli di «alimentare le paure» dei tedeschi. E dimostrava, dati alla mano, che i profughi sono un’opportunità, per un Paese con piena occupazione, ottimi ritmi di crescita e una pessima curva demografica. O che il capoeconomista di Deutsche Bank, David Folkerts-Landau, parlava della più grande occasione per la Germania dai tempi della riunificazione. Adesso l’Ifo ha colto un umore molto diverso, tra i colleghi tedeschi.
Se è vero che l’istituto di Monaco è celebre per essere stato guidato fino a poco tempo fa da un “falco” come Hans-Werner Sinn, noto per la sua ostinatissima richiesta di buttare fuori la Grecia dall’euro, l’Ifo è resta uno dei più autorevoli e importanti istituti economici tedeschi. Calcola l’indice del clima tra le imprese e ricerche importanti. E l’indagine diffusa ieri è destinata a far discutere.
La maggioranza dei 220 economisti interpellati dall’Ifo è convinto che l’enorme flusso di migranti porterà più guai che benefici alla Germania. La quota relativamente più ampia (40%) ritiene che i profughi provocheranno soprattutto danni alla prima economia europea; un altro 38% pensa che «in parte» provocheranno problemi, «in parte» no. Una quota schiacciante degli economisti raccolti nell’indagine è insomma scettica, sull’accoglienza generosa dei rifugiati divenuta ormai la cifra dell’ultima fase di Angela Merkel, che ama anche usare argomenti economici per giustificare la sua insistenza nel rifiuto a stabilire un tetto agli arrivi.
Il 53% degli studiosi pensa persino che ai richiedenti asilo andrebbe negato il salario minimo, conquista recente della Germania. Un altro 37% riesce a fare un ragionamento più articolato e rifiuta l’idea di escludere i profughi dalla garanzia di un minimo orario, per il timore che una decisione del genere possa creare tensioni tra stranieri e tedeschi. Sorprendenti anche le risposte degli economisti a due domande che riempiono anche le prime pagine dei giornali. La prima è se andrebbero presidiati più severamente i confini esterni di Schengen. Il 76% è d’accordo, solo il 13% contrario. Altrettanto curiosa la risposta alla domanda su dove ricavare i fondi per la prima accoglienza. Ed è una risposta che certamente non piacerà al ministro delle Finanze Schaeuble, fierissimo del suo pareggio di bilancio conseguito l’anno scorso. Quando si tratta di aiutare i profughi, il 45% degli economisti pensa che lo Stato dovrebbe indebitarsi, un altro 36% accetterebbe aumenti di tasse, solo il 22% ritiene che bisognerebbe aumentare l’età pensionabile o (21%) tagliare altra spesa sociale.
il manifesto 19.2.16
Casson: «È Renzi a dover pretendere rispetto da al-Sisi»
L'intervista. Felice Casson, segretario del Copasir: «L’Egitto non collabora e sta violando la nostra dignità e sovranità»
di Eleonora Martini

Il senatore Pd Felice Casson, ha partecipato ieri, come segretario del Copasir, all’audizione del direttore dell’Aise Alberto Manenti che si trovava il 3 febbraio al Cairo per un’altra missione, nel giorno in cui è stato ritrovato il corpo di Giulio Regeni. Ma sui contenuti della riunione di ieri tenuta a Palazzo San Macuto «rispetto l’obbligo alla riservatezza», premette Casson.
Da magistrato, che idea si è fatta delle indagini condotte in Egitto sull’omicidio Regeni?
Sono state fatte molto male. Ho l’impressione netta che non si voglia arrivare alla verità. Ci sono ritardi chiarissimi e non c’è collaborazione con gli organi di polizia giudiziaria italiani che sono andati al Cairo. Per esempio, i controlli sulle telecamere disseminate nel quartiere dove Regeni viveva sono stati fatti molto in ritardo: i negozi e gli uffici infatti dopo alcuni giorni cancellano le immagini registrate, e in due settimane i servizi sono in grado di fare qualsiasi cosa sulle registrazioni in modo da non fare avere elementi di prova che invece sono fondamentali. Il fatto che i tabulati telefonici ancora non arrivino è una chiara prova di non mancanza di volontà. Così come è caduta nel vuoto la richiesta di interventi per verificare tramite i cellulari chi fosse presente sul posto. Insomma, a distanza di settimane non c’è stata alcuna risposta concreta nel rispetto delle linee di azione investigative e dei protocolli che di solito si rispettano in queste situazioni.
A cosa è dovuto, secondo lei?
Bisogna calarsi in quell’ambiente: l’Egitto è certamente un regime, e con uno Stato aduso a sistemi di tortura contro gli oppositori politici di qualsiasi genere. Ne abbiamo avuto anche una prova diretta nel caso di Abu Omar quando venne sequestrato a Milano da agenti dei servizi segreti italiani e dalla Cia e venne portato in Egitto dove fu sottoposto a tortura. In più, all’interno di quello Stato ci sono guerre intestine feroci tra apparati e tra fazioni.
Il suo collega Giacomo Stucchi, il presidente del Copasir, denuncia diplomaticamente la «mancanza di dialogo tra le loro forze in campo» che sono «coordinate in modo diverso da come avviene da noi». Ma secondo lei, ritardi e depistaggi sono frutto di un ordine impartito dall’alto o sono dovuti alla condizione di uno Stato senza controllo?
Le due cose non sono in contraddizione. La mancanza di dialogo è dovuta alla guerra intestina egiziana. A mio parere è soprattutto un problema interno, con risvolti ovviamente internazionali. Ma credo spetti allo Stato egiziano pretendere chiarezza, nel suo stesso interesse. Perché credo che sarebbe un problema per qualunque nazione sapere che ci sono pezzi di Stato — che si chiamino squadroni, forze speciali, intelligence, polizia o altro — che fanno quello che vogliono.
E le sembra che la pressione italiana sia sufficiente per convincere le autorità egiziane a collaborare di più?
A livello di indagini, quello che l’Italia doveva fare è stato fatto: gli esperti sono stati inviati sul posto rapidamente, ma essendo un territorio straniero non hanno mano libera o carta bianca. Ogni loro azione dipende rigidamente dalla volontà degli egiziani. Ma dal punto di vista politico si può fare di più: il nostro vertice statale deve pretendere in maniera più forte la verità. Perché qui si tratta di diritti fondamentali di una persona, ma anche di dignità di uno Stato. Non possiamo subire situazioni come quelle che si sono verificate in altri casi: penso alla vicenda dei marò, che è molto diversa ma che per certi versi è sintomatica di un’incapacità di gestire i rapporti internazionali.
In questo caso però ci sono in ballo gli interessi economici del capitalismo italiano.
Sì certo, grandi interessi, ma c’è una sproporzione molto forte tra le due cose. Credo che non ci siano al momento elementi per collegare questi forti interessi alla vicenda Regeni, che potrebbe essere anche più limitata.
Legami diretti con l’omicidio no, ce lo auguriamo almeno. Ma non si può non ricordare che il presidente del consiglio e segretario del suo partito ha detto che «l’Eni è un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi segreti».
Una frase imprudente. Ed è vero che ha detto anche che l’Egitto attuale è un esempio di democrazia. E io non sono assolutamente d’accordo. Capisco che Renzi, che gestisce i rapporti diretti ad altissimo livello, non possa dire tutto quello che pensa, però ci troviamo di fronte ad uno Stato che è ancora un regime e non possiamo farci mettere i piedi in testa. Credo che in questo modo ci stiano prendendo in giro. Non è assolutamente accettabile.
Quali armi abbiamo per poterli convincere, se non quelle economiche?
Penso che il rapporto diretto tra vertici funziona meglio dei canali indiretti diplomatici, che hanno un loro peso ma certamente inferiore. È una questione che va affrontata al più alto livello, facendo rimanere impregiudicati i rapporti economici e di lavoro tra i due Stati. Pensiamo anche ai tanti egiziani che vivono qui da noi. Non si possono agitare ritorsioni o minacce di qualsiasi genere: a livello di autorità statali è possibile pretendere il rispetto della propria dignità e della propria sovranità che in questo caso è stata violata.
Quindi sta nella capacità di Renzi di farsi valere con Al-Sisi. Ma il premier dovrebbe convincersi che il nemico del mio nemico non è necessariamente mio amico, e che qualunque sia il fine la repressione violenta che viola i diritti umani non può essere tollerata.
Questa è una questione molto complicata, perché l’Egitto certamente costituisce un fulcro e uno snodo all’interno del mondo arabo. E certamente non era pensabile che si potessero sviluppare al suo interno movimenti come quelli delle primavere arabe. È un punto di equilibrio tra mondo arabo e occidentale, come per altri versi lo è anche la Siria. Rendere instabili Stati di questo tipo può costare moltissimo. Ma non si può pensare che sia un singolo Stato a mantenere equilibri o a fare da baluardo al terrorismo jihadista: è una questione che va risolta a livello di comunità internazionale, tutta insieme. In particolare poi, i metodi repressivi egiziani che violano i diritti umani non sono utilizzati contro il terrorismo islamico ma nei confronti degli oppositori al regime, nei confronti della sinistra, dei sindacati o dei Fratelli musulmani. Al di là delle ideologie, è il metodo antidemocratico e violento che assolutamente non può essere accettato, né dall’Italia né dagli altri Paesi democratici, e non solo per l’Egitto.
Anche in Italia è prevista l’impunità per la tortura di Stato.
Infatti bisognerebbe far approvare il disegno di legge che introduce la tortura nel codice penale e che viene continuamente rimandato in commissione da tre o quatto legislature.
Il Sole 19.2.16
Nessun aiuto all’Italia dai servizi segreti egiziani
Copasir. Audizione del direttore dell’Aise Alberto Manenti
di Marco Ludovico

ROMA I servizi segreti egiziani non hanno dato informazioni alla nostra intelligence sulla tragica morte di Giulio Regeni. In tre ore e mezza di audizione davanti al Copasir (comitato parlamentare per la sicurezza) il direttore dell’Aise (agenzia informazioni e sicurezza estera), Alberto Manenti, ha risposto alla commissione bicamerale presieduta da Giacomo Stucchi (Lega Nord). Si parla degli scenari in Libia e Siria, temi che saranno affrontati giovedì prossimo dal Consiglio supremo di difesa presieduto da Sergio Mattarella. Si affronta il tema della diga di Mosul, dove sono impegnati 450 militari italiani. Nella riunione emerge che all’Italia sono affidati i lavori di esecuzione, ma il generale contractor del progetto è la Difesa Usa.
Tutti, però, trattengono il fiato quando si affronta il tema cruciale e più delicato: la fine di Regeni dopo torture atroci. Manca del tutto una risposta al perchè il ricercatore sia stato non solo mutilato, con le orecchie tagliate e le unghie strappate - atto dal chiaro valore simbolico - e torturato, ma anche ucciso. Se si esclude l’ipotesi che chi lo stava seviziando avesse commesso un errore, resta forse una sola spiegazione plausibile: Regeni ha visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere, andava eliminato. Manenti ha reso noto che colleghi americani di Regeni, presenti al Cairo, hanno subito vicende drammatiche: tre di loro sono scomparsi e non se ne sapeva più niente, salvo ritrovarsi salvi in Usa dopo aver subito un certo numero di violenze. Gli stessi egiziani, insomma, che li avevano rapiti, hanno poi provveduto a riportarli oltreoceano. Resta tuttavia sconfortante la cronologia dei fatti ricostruiti al Copasir. Insieme alla delegazione del ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi - che poi ritornerà subito in Italia alle prime drammatiche notizie sul ricercatore italiano - c’è il vicedirettore dell’Aise, generale Giovanni Caravelli. Poi subito al Cairo arriva anche Manenti, per una missione tuttavia definita «già programmata». Fatto sta che dai servizi d’Egitto, Mukhabaràt in testa, non arriva nessuna notizia, riscontro, traccia informativa tale da aiutare l’Aise e il governo italiano per metterlo nelle condizioni di conoscere almeno una parte della dinamica dei fatti. In quelle ore, al Cairo, davanti alla richiesta di informazioni, c’è stato un rimpallo tra servizi e polizia egiziana: un gioco delle parti per coprire la verità. Per il resto, dunque, il comitato parlamentare apprende che poco o nulla si sa. I risultati dell’autopsia non sono ancora disponibili.In corso resta c’è il lavoro della procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone con i Carabinieri del Ros e lo Sco della Polizia di Stato. Ieri, però, il quotidiano filo-governativo egiziano AlYoum7 online, citando fonti vicine alla procura egiziana, ha scritto che Regeni «sarebbe stato ucciso da agenti segreti sotto copertura, molto probabilmente appartenenti alla confraternita terrorista dei Fratelli musulmani, per imbarazzare il governo egiziano». Notizia poi smentita dal procuratore egiziano di Giza, Ahmed Naji.
Sembra un epilogo già scritto. Con ipotesi fin troppo facili da formulare e già trapelate all’inizio del caso (si veda IlSole del 7 febbraio). Il Copasir ha poi disposto all’unanimità dieci giorni fa - la notizia è emersa ieri - che il Dis (Dipartimento informazioni e sicurezza) svolga un’ispezione sugli avvicendamenti all’Aise: «Alcune persone sono state tolte dai ruoli che ricoprivano ma sono state fatte scelte con motivazioni corrette» ha detto Stucchi. Decisioni, va aggiunto, dettate anche da intercettazioni che hanno coinvolto agenti, ex appartenti ai servizi, personaggi del Vaticano anche di alto livello. Dal contenuto delle conversazioni, a quanto pare alcune piuttosto imbarazzanti, sono emersi fatti che hanno determinato quella che in gergo si chiama «rottura del rapporto fiduciario» tra Manenti, responsabile del reparto Stati e un direttore di divisione.
il manifesto 19.2.16
Nuovo soggetto cosmopolitico
Sinistra. Al Palazzo dei Congressi la tre giorni romana, quasi-nascita del partito. Da oggi un fitto programma di tavoli, dibattiti, laboratori e colpi di scena. Ci saranno anche Zedda e Pisapia
di D. P.

ROMA Un ricordo di Giulio Regeni, il giovane ricercatore torturato e ucciso al Cairo, dei cui assassini ancora non si sa nulla. Un video sull’esaltante campagna elettorale di Bernie Sanders. Il promo di un film sulle trivelle (il regista è Emanuele Bonaccorsi) per ricordare che il primo appuntamento con il destino, per la nuova creatura politica che nasce, è quello del referendum del 17 aprile.
Partono oggi pomeriggio alle quattro — al Palazzo dei Congressi di Roma — le tre giornate di Cosmopolitica, la quasi-nascita del nuovo soggetto della sinistra. Il vero parto avverrà a dicembre, almeno secondo la proposta di molti del gruppo di organizzatori, quando dovrebbe tenersi il congresso fondativo; dopo il referendum sulla riforma costituzionale, che sarà uno spartiacque per il futuro del paese.
Il programma è fitto di dibattiti, laboratori, tavoli ma anche piccoli eventi e colpi di scena, in qualche misura. Il modello è quello della kermesse ’sellina’ Human Factor, e non è diversissimo dalla Leopolda renziana. Ma gli organizzatori smentiscono con fastidio: i dibattiti dei tavoli finiranno condensati in una sintesi che poi andrà a implementare il programma politico. Si vedrà.
Nei laboratori o nel palco della plenaria arriveranno figure storiche della sinistra italiana, come Luciana Castellina, ma anche storie più recenti, e più impreviste, come quella di Giovanna Martelli, consigliera per le pari opportunità del governo Renzi che qualche settimana fa ha lasciato il gruppo del Pd in polemica. C’è chi dice che potrebbe annunciare il suo avvicinamento a Sinistra italiana.
Ci saranno i sindaci Leoluca Orlando e Luigi De Magistris, ma anche Giuliano Pisapia e Massimo Zedda, che è vero che sono di Sel, ma la loro presenza non era per niente scontata: si tratta pur sempre della nascita di un soggetto ostile alle alleanze con il Pd in piena campagna elettorale nelle proprie rispettive città.
Fra gli scettici, ma con motivazioni opposte, anche Marco Revelli dell’Altra Europa e Paolo Ferrero del Prc, ma anche loro ci saranno. Come i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil, un messaggio di Maurizio Landini, i presidenti di Legambiente, Arci, Arcigay.
Nichi Vendola non ci sarà, sarà presente con un video che sarà proiettato domenica. E c’è da scommettere che sarà un momento delicato per l’assemblea, quello del fondatore di Sel non presente al suo evento di trasformazione in nuovo partito.
Ma l’elenco è impossibile, il programma completo si trova su Cosmopolitica.org. Il calcio d’avvio è affidato a Betta Piccolotti, responsabile comunicazione di Sel, poi a Andrea Ranieri, il braccio destro di Sergio Cofferati che riassumerà il documento politico su cui nasce l’ipotesi del nuovo soggetto, e ancora il sociologo Carlo Galli, ex deputato Pd e ora entrato nel gruppo di Sinistra italiana e poi la filosofa Laura Bazzicalupo.
Più o meno a questo punto dovrebbe andare in onda il video di Laura Boldrini, la presidente della camera proveniente dalle file di Sel ma che guarda con qualche apprensione il percorso della ’nuova cosa’. Per la quale, spiega, è certa che ci sia «uno spazio politico». Altri due ’scettici’ della possibile radicalizzazione a sinistra saranno presenti di persona: domani Giuliano Pisapia, alle prese con grosse turbolenze nella sua ex lista, domenica Massimo Zedda.
Più tardi, già oggi, la prima assemblea plenaria sul percorso costituente, per dare un minimo di organizzazione e un comitato provvisorio nel periodo transitorio di qui al congresso (questa sessione sarà tenuta da Peppe De Cristofaro, senatore e responsabile organizzazione di Sel).
L’assemblea si riconvocherà domani alla stessa ora. Qui si parlerà della forma partito, qui si deciderà il nome della nuova cosa, almeno quello provvisorio. «Sinistra italiana» per ora è il più quotato da Sel ed ex Pd, ma anche il più criticato dai movimenti.
Domani sarà giorno dei ventiquattro tavoli tematici (dai diritti civili al disarmo, dalla sanità al futuro del terzo settore, dalle banche all’antimafia fino al Sud e all’accesso ai saperi, dal Jobs Act all’austerità alla criminalizzazione delle migrazioni), e della discussione sulla democrazia digitale anche per cominciare a prendere le misure con Commo, la piattaforma digitale del nuovo soggetto politico, che rischia di essere una presenza sovraccarica di senso — forse anche di aspettative — sin dall’inizio del nuovo percorso.
Nel pomeriggio quattro assemblee sulle altrettante aree tematiche che sostanzieranno le quattro prime campagne del nuovo soggetto, insomma il primo abbozzo di programma. «Democrazia, partecipazione, riforme costituzionali», «Saperi, scuola, istruzione, conoscenza», «Ambiente, clima, conversione ecologica dell’economia», «Lavoro, welfare, politiche economiche».
Indro Montanelli nel 1994:
«Oggi, per instaurare un regime, non c’è più bisogno di una marcia su Roma né di un incendio del Reichstag, né di un golpe sul palazzo d’Inverno... Basta la televisione».
Repubblica 19.2.16
Angelo Guglielmi
“Per cambiare davvero ci voleva Santoro a capo della terza rete”
intervista di A. Cuz.

La vera svolta avverrà solo se riusciremo a vendere i nostri programmi finalmente all’estero
Angelo Guglielmi, critico letterario e direttore di Rai 3 dal 1987 al 1994

ROMA. Secondo Angelo Guglielmi - direttore di Rai3 dal 1987 al 1994, autore della rivoluzione che la portò dal 2 al 10 per cento di share con programmi come
Quelli che il calcio, La TV delle ragazze, Avanzi, Samarcanda, Blob, Chi l’ha visto?
- non è dai direttori di rete che si capirà se Antonio Campo Dall’Orto è davvero in grado di trasformare la televisione pubblica.
E da cosa si vedrà?
«Dalla sua capacità di fare della Rai una società di produzione che interessa anche il mercato estero, una televisione che guardi fuori e non alle solite platee sempre più ristrette. Perché se vuole lasciare che Rai1 cresca su Sanremo e don Matteo, non cambia nulla».
Ma cosa pensa dei nuovi direttori?
«Questi o altri non conta. Contano il progetto e le risorse. Mica basta il canone per lavorare in una prospettiva più ampia. In Italia nel mondo del cinema e della televisione lavorano in tutto 47mila persone. Tecnici, registi e sceneggiatori compresi. Alla Bbc sono 135mila. In Francia 70mila».
L’obiettivo è la media company che esporta i suoi prodotti su tutte le piattaforme.
«Io ho il timore che il dg la lascerà essere quel che è sempre stata: una piccola società rivolta ai bisogni nazionali».
Cosa pensa di Daria Bignardi a Rai3?
«Ha cominciato con noi a Milano-Italia, non ho nulla da dire contro di lei o contro gli altri. Ma non è il momento delle nomine ad avere a che fare con quel che deve essere la nuova Rai. Non è una questione di nomi più o meno azzeccati. Anche se...un grande direttore di Rai3 sarebbe stato Michele Santoro. Il renzismo di queste nomine sta in questo: hanno escluso quei pochi che avrebbero potuto garantire la voglia di cambiare, come abbiamo fatto noi nell’87. Quelli che avrebbero potuto portare un pensiero diverso o almeno la voglia di un pensiero diverso ».