sabato 16 dicembre 2006

il manifesto 16.12.06
Questione cattolica I rapporti tra Italia e Santa Sede, dalla Dc ai teocon
La legge di Dio sullo Stato laico
«Il Vaticano nega allo stato la legittimità a legiferare in autonomia sui temi che ne minacciano l'egemonia culturale». Parla lo storico Giovanni Miccoli


Giovanni Miccoli, emerito di storia della Chiesa dell'Università di Trieste, preferisce sorvolare sui volantini, con su scritto «Lasciaci in Pacs», lanciati dal palazzo del manifesto durante il corteo papale dell'Immacolata Concezione: «E' stata una discutibile goliardata, ma non ha senso parlare di violazioni delle norme del Concordato. Di più: non ha senso parlarne».

Professore, c'è in questo momento in Italia una nuova forte tendenza del Vaticano a riproporsi in termini di egemonia culturale?
Direi che c'è una linea di continuità che caratterizza il pontificato di Benedetto XVI come la seconda metà di quello di Giovanni Paolo II. Mi sembra che siano tre i nodi su cui c'è un particolare impegno della Santa Sede per ristabilire la propria egemonia culturale: la crisi delle grandi ideologie che crea un vuoto, sconcerto e incertezze: si vuole riempirla con una proposta forte. Ci sono poi tutti i problemi, seri e gravi, posti dalle nuove tecnologie nella ricerca biomedica con nuovi scenari che vanno regolamentati. E, per ultimo, c'è il profilarsi di società multietniche e multireligiose conseguenza delle migrazioni. La questione è che la Santa Sede tende a negare allo Stato la legittimità a legiferare autonomamente su queste questioni e mette in discussione la laicità dello Stato. Non a caso in un'intervista sul Corriere della sera di giovedì il cardinale Cafarra, come faceva Ruini qualche anno fa, parla di un concetto di laicità ormai superato.

Non c'è anche un quarto punto di preoccupazione per il Vaticano e cioè la mancanza oggi in Italia di un partito di riferimento come era la Dc?
Sì, questo è un problema oggettivo e reale: il venir meno della mediazione della Dc ha portato la gerarchia ecclesiastica a dover intervenire direttamente nel campo politico e civile italiano. E dall'altra parte i cattolici (ma non solo), divisi in vari fronti contrapposti, competono per catturare il consenso della Chiesa. Che così ottiene molta più udienza di prima. Non esiste più un Andreatta che in pieno Parlamento denuncia lo Ior di Marcinkus. Dentro la variegata Dc c'erano cattolici, come De Gasperi, che avevano il senso dello Stato e sapevano dire no alle richieste della Santa Sede, oggi sono più rari. Le domande del Vaticano passavano dal partito, mentre ora sono dirette e i due schieramenti concorrono per esaudire i desiderata della Chiesa.

Qualche giorno fa Ratzinger, incontrando i giuristi cattolici, ha messo in guardia contro la deriva laicista difendendo invece la laicità intesa come «effettiva autonomia dalla sfera ecclesiastica, ma non dall'ordine morale». Secondo lei in Italia oggi c'è davvero il rischio di un eccesso di laicismo?
No. Certamente, come ci sono insorgenze di vetero clericalismo, ce ne sono anche di vetero anticlericalismo. Ma il punto che va fortemente riaffermato è che la laicità non si può davvero considerare superata. Come faceva Giovanni Paolo II anche Benedetto XVI al sostantivo laicità affianca spesso un aggettivo: sana o legittima, ecc. Distinguendo un concetto di laicità valido e legittimo da uno non valido e illegittimo.

Come definirebbe la laicità?
Il concetto di laicità dello Stato, che ha una lunga storia di scontri e revisioni, implica il riconoscimento delle diverse ideologie e fedi senza farne propria nessuna. In una società pluralista e multiculturale, cioè democratica, è essenziale che lo stato si ponga in una posizione neutrale dando a ciascuno il legittimo spazio e cercando il proprio punto di riferimento nella Costituzione e nelle leggi. Originariamente la tradizione liberale vuole relegare la religione nella sfera privata, senza alcuna incidenza sul diritto di cittadinanza (che ovviamente era giusto). Discutibile invece era la prima pretesa, perché la religione è una netta espressione comunitaria e, come le ideologie e le varie fedi, ha un rilievo pubblico che va riconosciuto. D'altra parte l'enorme rilevanza pubblica che ha la Chiesa in questo momento in Italia nelle università, scuole, ospedali, istituzioni e nel dibattito culturale, mostra come sia una forzatura infondata parlare di una deriva laicista che sarebbe operante nel nostro paese. Attenzione perché la laicità non riguarda solo la religione ma anche le ideologie politiche: l'Urss non era uno stato laico, per esempio, ma portatore di un'ideologia che si presentava come una sorta di religione secolarizzata.

Il cardinale Grocholewki, due giorni fa, ha detto che «per la Chiesa l'importanza del matrimonio nasce dal diritto naturale: non tutto risale al diritto positivo». Qual'è la differenza tra i due concetti di diritto?
C'è una profonda differenza tra la concezione dei diritti nella dottrina ufficiale della Chiesa e quella che risale alla tradizione illuminista, da cui nasce poi la laicità dello Stato attraverso percorsi molto lunghi. Per il Vaticano i diritti devono fare riferimento a un ordine esterno oggettivo, un ordine morale dettato da Dio e inscritto nella coscienza, una legge naturale di cui la Chiesa è depositaria e interprete. In sostanza a ogni diritto corrisponde un dovere dettato dalla legge naturale. Nella concezione laica i diritti sono individuali e trovano il loro limite non in un codice esterno morale ma nel rispetto dei diritto altrui. E in quella che si può definire l'etica della responsabilità che non manca ovviamente di molti punti di incontro con l'etica cristiana.

Questa concezione dei diritti individuali però ha dei limiti...
In una società profondamente divisa in ceti forti e deboli, i detentori di poteri forti possono conculcare i diritti individuali di chi è più debole. Ciò che non è utile in questo contesto è affermare, come fa spesso la Chiesa, di essere depositaria di verità esclusiva. Nessuno nega che abbia il diritto di affermarlo, ma allo stesso tempo se vuole stabilire un dialogo, dovrebbe accettare che c'è molta gente che non le riconosce questa esclusività di verità. Anche perché ci sono diritti in conflitto tra di loro: il diritto del nascituro può entrare in conflitto con quello della madre o con il principio della maternità responsabile. Questo conflitto, tra l'altro, è stato riconosciuto nei secoli dalla Chiesa quando, ad esempio, contro gli eretici privilegiava il diritto alla difesa della «verità» rispetto a quello alla vita o si riconosceva la pena di morte a tutela dell'ordine sociale. Esiste un relativismo dei diritti che è legato ai processi storici e alla crescita di consapevolezza.

Non le sembra che il Vaticano stia cercando di fare concorrenza all'Islam e alla sua capacità di dettare legge nelle società dove è radicato?
Infatti il discorso che ha fatto spesso Ratzinger già da quando era cardinale è che la diffidenza del mondo islamico nei confronti dell'occidente è legata alla mancanza di senso di Dio e della sacralità. E quindi la via, per la quale l'occidente può diventare interlocutore valido e non creare timori nell'Islam, è proprio quella di recuperare con più forza una propria identità, che è anche un'identità religiosa e cristiana. Le argomentazioni su cui si buttano a pesce tutti, teocon e neocon, la Magna carta di Pera, insomma. Anche se con toni bellicisti rispetto a quelli ecclesiastici, parlano di recupero delle radici cristiane per fermare l'avanzata islamica.

In questo «relativismo dei diritti» qual è il ruolo dello Stato?
Un'opera di equilibrio e di regolamentazione alla luce dei valori che ne fondano la convivenza, e intervenendo su temi che possono generare conflitto. Sui Pacs, per esempio, non si può parlare di volontà di sradicare la famiglia mentre c'è la necessità di regolamentare delle realtà che si sono affermate su larghissima scala. E' qui che scatta la pretesa di mettere in discussione diritti e doveri dello Stato rispetto alla società civile. La cosa peggiore sarebbe la rinascita di una contrapposizione, antica e vetero, che non ha fatto bene al nostro paese, tra clericalismo e anticlericalismo. Però mi sembra che da parte della classe politica tutta ci sia una grande incertezza e debolezza, una scarsa chiarezza nei principi dei reciproci limiti e doveri. Ad esempio sarebbe del tutto ovvio che, in una società normale e consapevole, non fossero affissi simboli religiosi come il crocefisso nei luoghi pubblici, scuole o ospedali. Cosa che peraltro è stato il primo segno dell'alleanza Chiesa-fascismo che portò al Concordato del '29. Anche perché segna un depotenziamento di quello che è il vero significato, forte e profondo, del crocefisso. Diversa cosa è lasciare la libertà alle persone di indossare i propri simboli di fede, il velo islamico o il turbante dei sikh.

Per concludere: ma tutti questi sforzi riusciranno davvero a spostare la società italiana nella direzione sperata dal Vaticano?
A me pare che in prospettiva la pretesa della Chiesa di essere depositaria delle soluzioni per la vita sociale è, a lungo andare, una battaglia perduta: depotenzia le capacità che il mondo cristiano può avere rispetto alla vita collettiva ed è un enorme passo indietro rispetto a quelle che potevano essere le prospettive aperte dal Concilio Vaticano II.

l'Unità 16.12.06
Adozioni e coppie gay
Sono deluso lascio i Ds
di Aurelio Mancuso, Segretario nazionale Arcigay


Caro Fassino,
con questa mia, per quanto ciò possa valere, ti informo che non rinnoverò la tessera ai Democratici di Sinistra.
È una decisione sofferta, assunta dopo 25 anni ininterrotti di iscrizione al più grande partito della sinistra italiana.
Le tue dichiarazioni sulle adozioni alle persone omosessuali, sono l’ultima offesa, di una lunga serie di atti formali, che non mi permettono più di essere iscritto ad un partito, che individua nel nostro vissuto un tema da cui rifuggire, mentre tutti i giorni le gerarchie cattoliche, i “teodem”, la destra non perdono occasioni per alimentare un clima di odio e discriminazione, che è pagato direttamente, anche attraverso violenze fisiche e verbali, da milioni di cittadini e cittadine gay e lesbiche.
Ieri abbiamo scoperto che il relatore della Finanziaria in Senato è riuscito a cancellare dalla dicitura del nuovo Osservatorio contro le violenze «l’orientamento sessuale».
Ebbene, proprio in quel giorno il segretario dei Ds si scaglia contro la genitorialità omosessuale, argomento fino ad oggi utilizzato dalla destra.
Come militante della sinistra italiana, ti esprimo la mia profonda delusione e la presa d’atto, che la classe dirigente dei Ds non può comprendere cosa avviene concretamente nella società, perché non conosce, non approfondisce i temi, tratta questioni delicate con superficialità.
Infatti, se tu fossi stato più accorto ed informato, avresti saputo che esistono nel nostro Paese diverse centinaia di migliaia di genitori omosessuali, e da tempo sono presenti anche famiglie omogenitoriali, soprattutto formate da due donne. Dal tenore delle tue dichiarazioni («i bimbi non possono crescere con due persone dello stesso sesso») si evince che la prossima frontiera sarà quella di predisporre una legge che tolga alle madri lesbiche la potestà dei propri figli, per affidarli alle amorevoli cure di famiglie eterosessuali, possibilmente sposate in chiesa!
Se lo sguardo si volge fuori dallo spazio nazionale, il baratro tra le politiche messe in campo dai partiti del socialismo europeo e le posizioni tue e di altri leader dei Ds è per ora non colmabile: prendete la parola per marcare lontananze, per evocare recinti etici, per mettere in guardia rispetto ai processi reali della società moderna. Per questo stai zitto quando i nostri fratelli e sorelle sono violentati, picchiati, derisi. Per questo pensi che il tema del riconoscimento della dignità lgbt (lesbiche, gay, bisex, transessuali, ndr) sia una concessione «difficile» e, non la logica concretizzazione dei valori della sinistra. Rassicuri tutti i giorni la gerarchia cattolica perché entrambi condividete l’idea che esista un primato morale da rispettare, che invece la sinistra ha combattuto e che grazie ai movimenti delle donne, dei diritti civili, ha dovuto lasciare il passo all’autodeterminazione delle persone, alle libertà democratiche.
Naturalmente nei Democratici di Sinistra, si impegnano donne e uomini, che quotidianamente sono al nostro fianco, che negli anni hanno dimostrato concretamente la propria vicinanza, ma tu hai deciso di non rappresentarli e di scegliere il campo del confessionalismo progressista.
Avevo riposto, dopo Pesaro, molta fiducia nei tuoi confronti, conoscevo la tua serietà e determinazione. Negli ultimi tempi, forse a causa del fatto che il progetto del Partito Democratico prevede un mutamento genetico della sinistra riformista di cui sei il massimo rappresentante, le tue promesse sui Pacs, sulle norme anti discriminatorie, sul riconoscimento della cittadinanza gay e lesbica, sulla salvaguardia della laicità, si sono perse e con loro la fiducia di tanti e tante di noi.
È bene, quindi, segnare una marcata distanza tra il mio impegno personale dentro il movimento lgbt e un partito che sembra aver smarrito il senso dell’umanità e del socialismo democratico.

la risposta di Piero Fassino:
Difesa dei diritti
siamo in prima fila
Piero Fassino
Caro Aurelio,
non credo che il tuo disagio nasca dalle mie parole, ma dalla campagna di ostilità e pregiudizio promossa da settori clericali e conservatori nei confronti degli omosessuali. È una campagna contro la quale, oggi come ieri, abbiamo il dovere di reagire.
La società italiana, infatti, da molto tempo ha maturato pieno rispetto per le scelte sessuali delle persone, riconoscendo a ciascuno il diritto di vivere liberamente la propria vita. Ed è, dunque, del tutto naturale che anche sul piano normativo e legislativo l’Italia - così come è accaduto da tempo in molti Paesi democratici - si doti di leggi e strumenti che riconoscano i diritti di coloro che, del tutto consapevolmente e liberamente, hanno scelto la convivenza di fatto. E questi diritti devono essere riconosciuti a coppie di fatto eterosessuali e omosessuali senza alcuna discriminazione.
È una battaglia che i Ds - grazie anche al contributo tuo e di compagne e compagni omosessuali - hanno sempre sostenuto e continuano a sostenere con convinzione. I fatti lo dicono. Ti ricordo che sono stato il primo Segretario dei Ds a partecipare ad un Congresso di Arci Gay. Che i Ds hanno depositato nel 2004 un progetto di legge - primi firmatari Fassino e Pollastrini - per l’introduzione dei Pacs in Italia. Che abbiamo dato riconoscimento statutario nella vita del nostro partito a Gayleft, organizzazione degli omosessuali iscritti ai Ds. E oggi siamo determinati a far sì che sia rispettato l’impegno assunto da Prodi e dai capigruppo del centrosinistra per una rapida approvazione in Parlamento della legge per il riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto. Di tutte, sia eterosessuali che omosessuali. E ti assicuro che non accetteremo veti fondati sul pregiudizio e la discriminazione e cercheremo di costruire in Parlamento le condizioni perché quella legge possa essere approvata con il più ampio consenso.
Quanto al tema delle adozioni - che in ogni caso non sarebbe oggi oggetto della legge sulle coppie di fatto - non mi sfugge affatto che esistono anche in Italia genitori omosessuali, così come esistono famiglie omogenitoriali. E ho verso di loro assoluto e massimo rispetto.
Non sfuggirà a te che l’adozione da parte di coppie gay è fenomeno ancora diverso e che investe una complessità e una delicatezza che non si possono liquidare sbrigativamente.
Personalmente - e ovviamente questa mia opinione non impegna altri - ho molte perplessità e non ho maturato fin qui un’opinione favorevole. Rispetto naturalmente ragioni e opinioni diverse e sono interessato a discuterne nel modo più aperto possibile.
In ogni caso credo che una discussione su questo tema debba muovere dalla consapevolezza che al centro di qualsiasi adozione sta il bambino e le sue esigenze di serenità e crescita e che ad esse debba essere vincolata l’aspirazione, del tutto legittima a essere genitore.
Comunque di tutto ciò potremo ancora discutere, tanto più se - come auspico - continueremo a lavorare insieme nei Democratici di Sinistra.
Con amicizia

venerdì 15 dicembre 2006

il Riformista 15.12.06
ETICA. CRITERI CONDIVISI E CONDIVISIBILI
Su alcune controversie politico-morali
DI LUIGI MANCONI


Le questioni che qui tratterò hanno, ognuna, uno spessore etico-giuridico assai robusto; e implicazioni particolarmente delicate e talvolta aggrovigliate. E, tuttavia, questo non impedisce che siano trattate sul piano del dibattito pubblico e della decisione politica, a partire da due criteri essenziali e condivisi (meglio: condivisibili).
Il primo criterio teorico-pratico è quello della «riduzione del danno»: ovvero la traduzione in termini politico-sociali di quel principio che, nella teologia e nella morale del cattolicesimo, è il «male minore». Il secondo criterio risiede nella consapevolezza della possibilità di fondare e argomentare in termini etici - non necessariamente di ispirazione religiosa - le opzioni su quei temi controversi e la loro trascrizione normativa.
Questo può aiutare a trovare soluzioni comuni su alcune questioni aperte.
1) Il confine tra cura doverosa e accanimento terapeutico è sottile, lo sappiamo: e spesso incerto. Ma quando una terapia si rivela inequivocabilmente incapace di fermare il progredire devastante del male, di alleviare le sofferenze e di migliorare in qualche misura la qualità di vita del paziente, lì si ha accanimento terapeutico.
E, in presenza di una terapia ostinata e inutile, il codice deontologico dei medici, tutta la giurisprudenza e i protocolli scientifici sono chiari: quella terapia va sospesa. Come affermò l’allora cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, «la rinuncia all’accanimento terapeutico è anche moralmente legittima».
La vicenda di Piergiorgio Welby rientra in quella definizione? A mio avviso, sì. Senza quella macchina, senza il ventilatore polmonare, la sua vita si sarebbe conclusa da tempo e, come dire?, naturalmente. L’intervento del ventilatore si presenta, pertanto, come una protesi, un sussidio meccanico, una strumentazione tecnologica, destinata a prolungare artificialmente la vita di Welby. Questo intervento - utile, e fin provvidenziale, come soluzione d’urgenza e terapia d’emergenza - in una situazione di cronicizzazione, si riduce a motivo di coercizione e afflizione e a fonte di sofferenze.
Interrompere l’attività di quella macchina significa sospendere una terapia fattasi aggressiva e ostile.
Non c’è nulla di utilitaristico in questo ragionamento e non c’è alcuna svalutazione del significato della vita umana. Certo, quella vita può avere un senso e una qualità anche quando non risponde ai parametri economicistici, salutistici e “mondani” della mentalità corrente: ma un corpo che decade progressivamente a sede esclusiva di sofferenze rischia di negare qualunque senso alla sopravvivenza, riducendola a mera perpetuazione del dolore.
Sospendere quel trattamento sanitario è, dunque, ragionevole, pietoso, perfettamente coerente con la nostra Costituzione e, poi, con leggi, regolamenti e codici professionali: e risponde a un’istanza morale, facendosi carico della sofferenza del malato terminale, e delle «scelte tragiche» che quella sofferenza impone.
2) Le tabelle relative alle sostanze stupefacenti sono una questione esclusivamente di natura giuridica, medica, penale e sociale. Di conseguenza, con criteri giuridici, medici, penali e sociali vanno elaborate e valutate. Non certo in base a opzioni morali o religiose. Tali opzioni sono importanti e contano, ma vanno fatte valere altrove e altrimenti rispetto agli ambiti e ai parametri che devono orientare la fissazione di quei limiti tabellari.
Tali limiti, all’interno della normativa vigente, hanno la sola funzione (approssimativa e imperfetta) di indicare un qualche accettabile confine tra detenzione a fini di uso personale e detenzione a fini di spaccio. A questo, e solo a questo, sono funzionali quei limiti.
Fissare quelle soglie massime risponde esclusivamente a un’esigenza di efficacia. Ovvero evitare il carcere, e ciò che comporta, a chi non è spacciatore: così come dichiara di volere la legislazione vigente (Fini-Giovanardi compresa).
Le scelte morali si collocano altrove, e sono legittime e preziose, ma non devono interferire con quei limiti tabellari. Fissare, poniamo, a 5 o a 10 quel tetto non significa disapprovare (se il limite è a 5) o approvare (se è a 10) il consumo di sostanze. Significa permettere che un certo numero di consumatori (se il limite è più alto) o un numero ancora superiore (se il limite è più basso) entri in carcere - contro la ratio della stessa legge, che pure contestiamo.
Dopo di che, superato o ridotto ai minimi termini il rischio detentivo per i consumatori di sostanze, si porrà il problema di elaborare intelligenti e razionali politiche di dissuasione dal consumo: tanto più efficaci quanto più saranno dirette, contemporaneamente, nei confronti delle cosiddette droghe legali (alcol e tabacco). A questo punto, ciascuno farà valere le proprie opzioni morali, le proprie strategie educative, la propria ispirazione anche religiosa.
3) A proposito di coppie di fatto, il punto cruciale mi sembra il seguente: alla famiglia eterosessuale fondata sul matrimonio si riconosce un progetto, una condivisione di aspettative e di valori e, dunque, una costituzione morale. Cosa, quest’ultima, che si nega alle altre forme di convivenza e che colloca queste, pertanto, in una condizione di inferiorità: innanzitutto morale. E infatti, secondo i sostenitori in buona fede dell’unicità della famiglia tradizionale, le «altre famiglie» possono essere tollerate e, in alcuni casi e per certe prerogative, tutelate: senza riconoscere loro, però, la piena dignità di relazione, dotata di una intenzionalità morale e di un progetto antropologico-sociale. E, ancor prima, senza riconoscerle come famiglie (e, addirittura, senza dirle famiglie). Questo sia nel caso delle famiglie di fatto a composizione eterosessuale, sia nel caso delle unioni omosessuali. Tanto la prima tipologia quanto la seconda vengono considerate come espressione, se non di disordine, di irregolarità (sociale e morale): e, dunque, suscettibili - al più - di venire tollerate (perché diventate fenomeno statisticamente rilevante).
Ma questo non è sufficiente. Non lo è, in primo luogo, rispetto alle trasformazioni avvenute (e da decenni!) nella società italiana; trasformazioni culturali e sociali, che hanno determinato il passaggio da una tipologia di famiglia a una pluralità di forme relazionali e coniugali. Così che - oggi, in Italia - le «nuove famiglie» riguardano milioni di persone e costituiscono il 17% di tutte le aggregazioni familiari.
Ma la tolleranza risulta insufficiente per una seconda (ancora più importante) ragione: perché non tiene conto della grande «trasformazione morale» in atto. Ed è il punto che più mi preme sottolineare.
Quella trasformazione consiste, sostanzialmente, in questo: una gran parte delle famiglie di fatto (eterosessuali e omosessuali) fonda la propria scelta relazionale e coniugale su principi morali. Che non sono, certo, quelli della «morale di maggioranza» (di derivazione religioso-cattolica): ma che, comunque, chiedono riconoscimento e domandano tutela.
A ben vedere, poi, in termini giuridici, i Pacs si limitano a prevedere l’allargamento del numero di cittadini garantiti da alcuni diritti: che sono una parte di quelli attualmente riconosciuti a due persone che contraggono matrimonio. Chi promuove una visione esclusivizzante di quei diritti («Vuoi usufruirne? sposati!») fraintende la sostanza stessa delle libertà cui essi sono preposti. Quella sostanza è positiva e tende a essere universale e generale. Se è vero che l’esercizio di un diritto non può condurre alla violazione di un altro diritto (da qui il principio della «coesistenza dei diritti»), è altresì vero che - come scrive Giuseppe Capograssi - i diritti «sono tra di loro solidali, fanno insieme sistema; nessuno può essere sacrificato col pretesto di arrivare, mediante questo sacrificio, all’appagamento degli altri». Ecco, esemplarmente, un caso in cui si rispettano entrambe le condizioni: riconoscere diritti ai cittadini impegnati in una convivenza duratura e solidale non minaccia i diritti di alcun altro. Per contro, riconoscere quei diritti vuol dire promuovere quel principio di mutualità, fare sistema, ridurre le disparità, garantire tutela e possibilità di convivenza: oltre che tra due persone, tra i cittadini tutti.
Rifiutare ciò è, a mio avviso, un errore grave: significa ignorare domande e comportamenti assai diffusi e significa accogliere una visione della società italiana, propria di alcuni settori più malinconicamente conservatori delle gerarchie ecclesiastiche: ovvero la società italiana come un deserto etico, dove resiste - assediata e clamans - la morale cattolica, quale solo presidio di valori forti. Le cose non stanno affatto così. La crisi della «morale di maggioranza» (che fu di maggioranza) non ha causato un vuoto di valori e di principi - il deserto dell’etica, appunto - ma ha prodotto, al contrario, un pieno di morali. Al plurale: morali di gruppo e di comunità, di subcultura e di tendenza, di minoranze e di identità. E tuttavia morali. Parziali e provvisorie, ma qualificanti e dirimenti per coloro che vi si riconoscono e meritevoli di rispetto e di tutela in una società pluralista.


Repubblica 14.12.06
SE IL FILOSOFO TI ASCOLTA
Dibattiti/ Una forma diffusa di aiuto per chi ha problemi esistenziali
di PIER ALDO ROVATTI


Non si tratta di una cura con i modelli tradizionali
è implicita la critica a un eccesso di tecnicismo
I nuovi Socrati non si ritengono dei terapeuti ma piuttosto "aiutano a pensare" chi si rivolge a loro
Un ricorso non accolto dell'Ordine degli psicologi rilancia la discussione sul senso del "counseling filosofico"

Non c´è dubbio che la filosofia stia attraversando in Italia un momento abbastanza magico. Il fenomeno è singolare. Non riguarda tanto la qualità e l´originalità delle ricerche specialistiche, è piuttosto un aumento dell´interesse generale verso la filosofia stessa (come attestano le piazze affollate dei proliferanti festival e le mille iniziative che si contano nel solco delle cosiddette pratiche filosofiche).
Il fenomeno covava da anni, adesso però esplode in maniera quasi contagiosa e si accompagna alla nascita, un po´ dovunque, di un oggetto alquanto misterioso (la «consulenza filosofica») sul quale convergono - pare - molti desideri. Questa «pratica» è neonata, nel senso che non si regge ancora sulle sue gambe, ma è già avvolta in una nuvola densa di discorsi che si depositano in saggi, libri, dibattiti e relative polemiche, e che sono decisamente sproporzionati rispetto all´entità effettiva della cosa.
Il fenomeno complessivo del boom della filosofia si presta a molte interpretazioni, nonché equivoci, ma è un fatto davanti ai nostri occhi. E´ ingenuo credere che si tratti di una montatura artificiale ai fini particolari del relativo mercato. Vi si manifesta un´esigenza diffusa, certo tutta da analizzare, anche se già vi si legge con buona evidenza il bisogno di affidarsi a qualche fonte, se non proprio di verità, almeno capace di tenere assieme i segmenti sparsi e spesso confusi di ciò che oggi passa nella testa della gente.
Il fenomeno più ristretto della consulenza filosofica nascente si presta a considerazioni più puntuali. Qui, in vari modi, e per adesso più nell´ambito di ciò che si immagina che in quello di ciò che accade, si gira attorno alla parola «terapia», come se stesse diventando disponibile una specie di cura al deficit di senso che tutti lamentano: una cura che ci permetterebbe di evitare lo psicologo, lo psicoterapeuta, lo psicoanalista, e - chissà - perfino lo psichiatra. Come se - in termini ancora più espliciti - andare dal filosofo (quando e se ciò fosse possibile) ci esimesse da una qualche medicalizzazione, targata psi, del nostro disagio.
Se è questo il cuore della questione, occorre aprire un dibattito serio, non di parte, che cerchi di vedervi le diverse dimensioni. Il piccolo mondo della consulenza filosofica prende le distanze: noi - dicono - andiamo per la nostra strada, non vogliamo curare nessuno, vogliamo solo «aiutare a pensare» con gli strumenti della filosofia chi ne avesse voglia. E dunque, poiché non siamo terapeuti, non invadiamo in alcun modo il campo della psicologia, né abbiamo alcuna intenzione di farlo.
Il grande mondo variegato e complesso della potente psicologia se ne sta per parte sua abbastanza silenzioso. Un episodio, come quello appena conclusosi al tribunale di Trieste con l´assoluzione di un consulente filosofico denunciato dall´Ordine degli psicologi per abuso della professione, non increspa la superficie tranquilla della numerosa comunità. Il giudice ha sentenziato: «Il fatto non sussiste». Ma secondo me non basta un malaccorto e pur sintomatico autogol per cambiare la partita.
E´ infatti risibile prevedere che un esercito di nuovi socrati sloggi gli psicologi dal loro consolidato ruolo sociale, in una società - appunto - che ha integrato nel suo sistema la cura della psiche attraverso un dispositivo di consulenza capillarmente diffuso e in via di ulteriore espansione.
Umberto Galimberti ne ha parlato ampiamente, su questo giornale, nella sua duplice veste di filosofo e di analista, e credo converrà con me che non ci troviamo per nulla in una situazione di congedo dalla psicologia (uso questo termine per denotare l´intero universo psi) e che i consulenti filosofici, con il loro equipaggiamento tecnico così evanescente, non sono certo in grado di rappresentare - anche se lo volessero - una qualche reale concorrenza alla psicologia. Eppure, qualcosa sta accadendo, al di là delle buone intenzioni e delle ragionevoli dichiarazioni che provengono dal piccolo o piccolissimo mondo dei consulenti filosofici.
La filosofia riceve nuovo credito, il che solleva subito tante domande: quale filosofia? Che tipo di filosofi? Per la loro capacità etica? Perché possono chiarificare i nostri pensieri confusi? Ma, se la filosofia riscuote favore, perché comunque sembra in grado di aiutarci, è difficile non vedervi un segnale almeno di perplessità nei confronti dei trattamenti psicologici. La richiesta di aiuto è di per sé un problema.
Cosa dobbiamo infatti pensare di una società, come la nostra, che intensifica la richiesta di un «aiuto» di questo genere? Qualcuno l´ha chiamata «cultura terapeutica» e a me pare una definizione azzeccata. Quello che viene messo in dubbio è se la psicologia possa fornire una risposta davvero convincente.
In un saggio che ho appena pubblicato (La filosofia può curare?, Raffaello Cortina) ho risposto alla domanda contenuta nel titolo che la filosofia può innanzitutto curare se stessa, svestendosi del proprio accademismo e riscoprendo la sua vocazione di esercizio e di pratica pubblica. E´ plausibile una trasformazione dell´insegnamento della filosofia grazie a un bagno di anti-intellettualismo e vedo nella consulenza filosofica, pur con tutte le sue ingenuità, la possibilità di funzionare da pungolo in questo processo.
Mi auguro anche che il topolino testé partorito possa pungolare il gigante della psicologia. Gli psicologi, che per ora osservano curiosi e magari con un sorriso di sussiego quel che sta accadendo, non hanno proprio nulla da temere da quel topolino, ma forse dovrebbero sentir suonare un campanello in casa propria. E chiedersi da dove si origini la perplessità della gente verso le loro pratiche, pur così calzanti alla società di oggi.
E se proprio la filosofia potesse fornire agli psicologi un´occasione autocritica, mettendoli di fronte all´eccessivo tecnicismo delle loro discipline e pratiche? E´ una vecchia questione. Oggi però i termini risultano un po´ diversi, se non altro perché i dispositivi della psicologia sono diventati molto più strutturati e potenti, e la cultura psicologica si è rinforzata e consolidata con criteri «obiettivi» e metodi sperimentali. Non che la psiche sia diventata un oggetto docile e del tutto disponibile. E´ il rapporto tra lo psicologo e il suo oggetto che si è stabilizzato e forse calcificato in un modello di tipo medico-scientifico.
In genere la psicoanalisi ha rappresentato il ventre molle di questo corpo disciplinare, e infatti dalla porta della psicoanalisi sono spesso entrate ventate di rinnovamento filosofico. Ricordo anche che una parte della psichiatria, nel suo dissenso istituzionale, ha dato negli anni Sessanta e Settanta (l´Italia resta un esempio mondiale con le esperienze di Gorizia e di Trieste e la lotta contro i manicomi) una decisa spallata a questo modello e ancora adesso ne costituisce un´antitesi.
E´ davvero un modello vincente? Credo che si stia avvicinando il momento in cui i settori più avvertiti della psicologia debbano porsi davvero questo interrogativo. Non c´è dubbio che nel modello che ho chiamato medico-scientifico, e che oggi è dominante in tutta la cultura psicologica di lingua inglese, ci siano presupposti di pensiero stabilizzati che corrispondono spesso a una sorta di «metafisica ingenua». Una nuova alleanza con la filosofia servirebbe agli psicologi per cominciare a ridiscutere le proprie assunzioni di pensiero, e dunque per riaprire l´orizzonte critico della disciplina mettendo di nuovo al centro la questione del soggetto.
Faccio solo un esempio. Le facoltà di Psicologia, luogo della formazione e laboratorio dei criteri, potrebbero introdurre nei loro piani di studio insegnamenti di filosofia in modo più organico, cioè non solo episodico e complementare come accade adesso. So di non parlare nel deserto poiché questa sensibilità già esiste. E allora c´è da sperare che il fenomeno di cui sto parlando produca qualche effetto virtuoso in questa direzione.
Certo si ritorna al nodo: quale filosofia? Un insegnamento anodino costituito da pacchetti di nozioni lascerebbe le cose come sono. Ci vuole una filosofia critica, rivolta più alla «cura di sé e degli altri» (come direbbe Foucault) e dunque più all´esercizio della soggettività che non alla sistemazione delle conoscenze.

Repubblica 14.12.06
Sul banco degli imputati finisce sempre l'indulto
di ADRIANO SOFRI


Si è saputo che il marocchino era tunisino. Che il convivente della giovane donna italiana di Erba era suo marito. Che il furgone usato da Azouz Marzouk per la fuga e ritrovato poco distante non era stato usato da Marzouk, non è stato ritrovato, e non era un furgone. Che l´assassino della moglie, del figlioletto, della suocera, e della coppia di vicini non era l´uomo che ha perso moglie figlioletto suocera e vicini amici. (È morto anche il cagnolino dei vicini, soffocato dal fumo). Che l´uomo con precedenti penali per rapina e spaccio non aveva precedenti per rapina, bensì solo per piccolo spaccio. Eccetera. Contrordine dunque: sei o sette contrordini. Diramati, in copia conforme, agli inquirenti, ai cronisti, ai direttori di telegiornali e giornali, alla cittadinanza di Erba e del resto d´Italia. Perfino le dichiarazioni dei conoscenti, promosse al rango di titoli, per una volta non avevano ricalcato l´avvilente copione delle stragi domestiche: «Era una brava persona, uno come noi: normale, regolare», anzi, l´aggettivo più sintomatico del nostro tempo, prima del raptus: «Tranquillo, tranquillissimo». No, questa volta l´occhio dei conoscenti si era affinato: «Sapevamo che era violento. Ci aveva minacciati tutti». Contrordine anche per loro. Non aveva minacciato nessuno, benché, come ha avuto la forza di dire ancora in sua difesa quell´ammirevole signor Carlo Castagna prima di scoppiare in pianto, «sapessimo che non era uno stinco di santo».
Nella sequela di contrordini, un punto rimane fermo, dopo ulteriore verifica: l´indulto, anzi, L´INDULTO, così, maiuscolo, come nei titoli a piena pagina. Marzouk è effettivamente uscito grazie all´indulto. Su questo punto cruciale nessuno può sollevare dubbi, a meno che non sia in totale malafede. È uscito grazie all´indulto: dunque, se avesse voluto lui massacrare i suoi e i vicini, grazie all´indulto avrebbe potuto farlo.
A questa constatazione nessuno deve sottrarsi, data la verosimiglianza della supposizione: la stessa verosimiglianza che, nel commento autocritico di un importantissimo giornale, ha caratterizzato «tutta la storia, a cominciare dal profilo del suo protagonista». Sebbene Marzouk non sia il feroce assassino della sua famiglia e dei suoi vicini, era verosimile che lo fosse. Infatti era marocchino e/o tunisino, ed era USCITO PER L´INDULTO. Tiriamola bene la conseguenza, senza maramaldeggiare con l´importantissimo giornale, che almeno ha sbattuto in prima pagina la propria resipiscenza. La conseguenza è che L´INDULTO è la verosimile premessa della più efferata strage famigliare. Peraltro la conseguenza era stata tirata, l´altroieri, senza riserve di verosimiglianza, da fior di campioni della demonizzazione dell´indulto, e dei suoi promotori gelosamente scelti.
Non è che abbia voglia di scherzare, né di affidarmi al sarcasmo. L´indecente e vanesio conformismo pressoché universale sulla vicenda di Erba rischia oltretutto di far passare in second´ordine una tragedia agghiacciante e commovente. Fosse stato quel Marzouk, la si sarebbe esorcizzata e archiviata più facilmente. Adesso, bisogna tornare a guardarci dentro, come quei bravi pompieri che sono intervenuti nella casa pensando a un incendio, e ne sono usciti vomitando. È difficile dire francamente quello che ci passa dentro, ogni volta che le pareti di una casa si spalancano davanti ai nostri occhi, a Novi Ligure o già un´altra volta a Erba, o a Parma e in troppi altri posti, e ci sorprendiamo a sperare che i colpevoli non siano "extracomunitari", come se il caso, del resto così frequente, in cui siano italiani, servisse ad attenuare le nostre paure, e a spuntare le armi dei razzisti.
Ma voglio ora, quando la lezione del contrordine di Erba è così fresca, e induce a maramaldeggiare alla rovescia contro i maramaldi anti-indulto, fare il contrario. Proporre ancora un esercizio di ragionevolezza. Rinunciare per qualche riga al senno di poi, e proporre di ragionare come si sarebbe potuto fare due giorni fa, quando il delitto di Marzouk veniva dato per provato. «Era uscito per l´indulto». Costui era in carcere con una condanna patteggiata a tre anni e mezzo, per spaccio di cocaina. Grazie ai tre anni d´indulto, avendo scontato i sei mesi, ne è uscito (salvo che anche queste informazioni d´ufficio siano smentite) nello scorso agosto. Senza l´indulto, ne sarebbe uscito perché la legge prevede una misura alternativa alla detenzione per i condannati sotto i tre anni (o quattro, se siano tossicodipendenti) che abbiano un domicilio ed eventualmente un lavoro. Senza ottenere - e non si vede perché no - una misura alternativa prima del fine pena, o almeno i tre mesi all´anno di liberazione anticipata prevista per chi tenga una condotta ordinata, sarebbe comunque uscito allo scadere dei tre anni, una volta espiata l´intera pena. I suoi propositi omicidi sarebbero caduti in prescrizione? La sua violenza, capace di spingersi fino a sgozzare il figlioletto, sarebbe stata addomesticata e placata da altri anni, altri mesi di cella? (Qualche altro centinaio di giorni illuminato ognuno, come si è saputo, da una lettera della moglie, qualche decina di settimane illuminate dall´ora di colloquio con lei e il bambino?) Nessuno, avvisato di una nefanda tragedia, può immaginare quali mire assassine possano sorgere o spegnersi nell´animo di un uomo recluso. Ma intitolare: «Ha sterminato la famiglia», e completare: «Era uscito per l´indulto», vuol dire che l´indulto non solo mette in libertà i delinquenti né solo promuove Previti dagli arresti domiciliari all´affidamento ai servizi sociali, ma autorizza e provoca la strage degli innocenti. Anche a non voler vedere la mutilazione della carità, manifesta oggi per tanti altri segni, e più tristemente dove se ne fa professione, c´è in questo una penosa irresponsabilità civile. E dov´è della giustizia che si fa professione, si può sorvolare sulle scarcerazioni davvero pericolose e oltraggiose, procurate non dal maiuscolo indulto, ma dalle minuscole colpose scadenze di termini. Normali, com´è normale che la nomina del primo presidente della Corte suprema finisca con dodici voti a favore e dodici contro, e un astenuto, supremo esempio di equanimità. Il fracasso sull´indulto ha avvelenato le acque. Chi resti attaccato alla ragione e alla pazienza, e non abbia perso la carità in qualche incidente di carriera, misura sui veri effetti dell´indulto - non dunque i mentiti, né i «verosimili» - la convinzione che la reclusione carceraria sia in una larghissima misura superflua, nociva, e cattiva. Ci sarà tempo per tirare le somme.
Né occorre, per opporsi alle strumentalizzazioni e all´allarmismo, farsi troppo buoni e ottimisti. L´amore di Raffaella Castagna merita la commozione, il rispetto e l´inquietudine che anche i suoi famigliari gli avevano dolorosamente riconosciuto. «Lei lo amava» - e questo ha deciso: era giusto così. Lei, e non solo lei, non ha voluto separare una vocazione professionale di educatrice, di assistente, dal sentimento personale. Ha bruciato una distanza di sicurezza. È stata libera di farlo, e questo non può che ispirare solidarietà e rispetto. Chi abbia esperienze simili sa in quante forme, e con quanti rischi, la distanza bruciata che chiamiamo amore pretenda la vita delle persone. Ci sono ragazzi maghrebini che non imparano a sopportare che la "loro" ragazza italiana resti padrona della propria vita. Ce ne sono che se ne aspettano un vantaggio per la loro sistemazione. Ce ne sono che si servono di una dipendenza dalla droga, e fra un carcere e l´altro si passano la compagna italiana. Ce ne sono capaci di un amore che sappia rinunciare a fare da padroni sulla donna italiana, ma incapaci di sopportare che sia sottratta loro la proprietà di un figlio. Sono sentimenti, lo vedete, molto simili a quelli che si trovano ancora fra gli italiani e cristiani "di ceppo", benché acuiti e complicati dalle differenze di lingua, di religione, di abitudini e di educazione. Spesso, a dirimere le guerre private che usurpano l´amore o gli succedono, nessuna persuasione basta, e bisogna chiamare la polizia, e bisogna che la polizia risponda. A volte non si è abbastanza pessimisti da figurarsi quanto possa costare. Da figurarsi, per usare le parole dette ieri da Marzouk, che «siamo diventati bestie, animali»: sapesse o no di chi parlava.

mercoledì 13 dicembre 2006

l'Unità 13.12.06
Indulto e tunisino
Ecco il mostro
Strage di Erba: scagionato l’uomo «accusato» da inquirenti e giornali
di Marco Bucciantini


ISTINTI. Il fatto, il sangue, la strage: la colpa è subito degli extracomunitari. E dell’indulto loro amico
Titoli e parole, chi è il vero mostro?

Sono state le parole di un uomo straziato a fermare l’infame corsa senza freni verso i peggiori istinti. Carlo Castagna ha spezzato l’onda di razzismo, qualunquismo, fanatismo che stava montando come si trattasse di una folle competizione fra giornalisti, politici, inquirenti avventati. «Marzouk era in Tunisia. Non è stato lui, non avrebbe mai mosso un dito contro il bambino». L’uomo cui toccherà dividere con il dolore tutto ciò che resta da vivere ha concesso un alibi “umano” a colui che pareva il carnefice della sua figlia e di suo nipote. Una frase semplice, vera. Che ridicolizza il “circo” piombato sul delitto con “religiose” sicurezze e ancestrali paure da assecondare.
Tocca essere duri, ma non c’è da aver scrupoli davanti a questo lancio di agenzia, del mattino di ieri - quando i dubbi sulla dinamica già si facevano largo nelle verità impostate: «Un uomo di estrema pericolosità, violento e senza regole. In sintesi l’identikit di Azouz Abel Marzouk, il 25enne tunisino ricercato in tutta Italia con il sospetto di essere l'autore della strage di Erba dove avrebbe sgozzato la convivente, il figlioletto di due anni, la suocera, una vicina e poi dato fuoco alla casa...Lui con una sfilza di precedenti per droga e rapine, che spesso massacrava la convivente di botte, era stato scarcerato in luglio grazie all’indulto...Un uomo con alle spalle un “curricula-criminis” da brividi. Un uomo tanto cattivo». E cadono anche i condizionali: «Raffaella era diventata mamma di Yousuf nel 2004 e con il piccino e quello che diventerà il suo carnefice, si era trasferita al primo piano della vecchia cascina ristrutturata...Di quel disperato amore restano i corpi carbonizzati, la rabbia della gente contro l’indulto. La sensazione di impotenza».
La vera impotenza è davanti a questi che uno medico fisiologo russo (Ivan Pavlov, lavorando sull’appetito dei cani) chiamava riflessi condizionati. Stimolo e risposta. Quello che condiziona è l'efferatezza del delitto, così sanguinario che è opera degli “altri”. Come già a Novi Liguri (Erika e Omar) o a Brescia (famiglia sterminata in villa), il primo colpevole è sempre il pezzente extracomunitario. Se il convivente non è fra i morti ed è africano, lo stimolo chiama la risposta e la notizia è fatta e commentata: marocchino esce per indulto e fa strage in villa. Questi i titoli delle agenzie di lunedì sera. Poi il marocchino è diventato tunisino. Giusto in tempo per i titoli sui giornali. Dove l’età del tizio variava fra i 24 e i 36 anni.
Attori così governati dai meccanismi primigeni si scagliano quindi contro l’indulto, che è perdono, concessione un po’ distante dagli istinti e troppo vicino ai colpevoli : «L’indulto gli aveva restituito la libertà... Lui, in un gesto tragico di violenza e follia ha tolto la vita a quattro persone». Questo l’attacco di un pezzo su un quotidiano importante. Si eccepirà: tutto remava da quella parte. Alibi che non regge davanti alla ripetuta definizione di «convivente di Raffaella» con cui si indica Marzouk. Per poi scrivere: «Si erano sposati con rito civile». Si chiama matrimonio, e lui diventa marito. O forse una brianzola e un tunisino sono “coppia di fatto” finchè morte non li separi?
Adesso i tg e le agenzie hanno spostato il mirino: tocca ai tossicodipendenti vendicativi. L’unica vendetta - sacrosanta - per ora è in quella frase così umana, così superiore ed evoluta che ha fatto tragica beffa delle nostre disumane convinzioni.
Ps.: l’ordine dei giornalisti non ha ritenuto di intervenire. Ci sono diffamati importanti da tutelare e da indignarsi e diffamati «tanto cattivi» e chi se ne frega.

l'Unità 13.12.06
Castelli, Gasparri, Di Pietro alla cieca contro l’indulto:
«Ecco il risultato... »
Tutti contro Mastella. La Lega: ha le mani sporche di sangue
Ma lo «scarcerato» non c’entra. Solo l’Idv fa retromarcia
di Massimo Franchi

NIENTE DI PIÙ FACILE PER LORO Si alzano, vedono i titoli dei giornali e dettano alle agenzie i loro proclami. «La strage di Erba è il tragico effetto dell’indulto», parte Castelli. «Chi ha votato l'indulto ha contribuito a questo eccidio», continua Gasparri. Pure Di Pietro non perde l’occasione per attaccare il provvedimento di clemenza e chi lo ha firmato: «L'indulto non ha opposto Di Pietro a Mastella, ma il Parlamento al paese, che chiede una società dove c'è maggiore sicurezza. E non si dà sicurezza mettendo fuori decine di migliaia di persone perché non c’è spazio per tenerle dentro». Difficile andare oltre. Ci riescono i senatori della Lega Piergiorgio Stiffoni ed Ettore Pirovano: «Le mani sporche di sangue di una classe politica incosciente e pressappochista di fronte alle conseguenze prodotte dall’indulto». Gasparri va poi avanti: «Bisognerebbe perseguire come favoreggiatori di questa autentica strage quanti dissennatamente hanno votato l'indulto. Un’autentica vergogna. Sappiamo chi ha contribuito a questo eccidio. Basta leggere i resoconti del Parlamento». Non poteva mancare Mario Borghezio: «La spaventosa mattanza cui ha dato luogo a Erba un delinquente spacciatore marocchino (è tunisino, Ndr) ci prospetta uno scenario a cui dobbiamo abituarci. Quel che è successo a Erba può succedere, in ogni momento, dovunque personaggi non integrati semplicemente perché non integrabili, hanno trovato nel nostro territorio e, purtroppo, anche in Padania facile accoglienza, ottusa tolleranza, favoritismi politico-sociali d'ogni genere. È ora di finirla».
Peccato che già da qualche ora si sappia benissimo che Azouz Marzouk, il 26enne tunisino uscito per l’indulto, additato da gran parte della stampa come il mostro, sia già stato scagionato. La demagogia e la strumentalizzazione è lo sport preferito dalla destra forcaiola e vale a poco ricordare come il 14 novembre del 2002 l’intero parlamento in seduta comune (Lega e Alleanza Nazionale comprese) applaudirono Giovanni Paolo II che chiedeva «clemenza per i detenuti». Le cronache, ormai storiche, raccontano: «l’applauso più lungo è stato quello per l’invito ad un atto per le carceri che scoppiano».
La polemica politica monta appena chi è stato accusato ingiustamente legge dalle agenzie che l’indulto con Erba non c’entra niente. I “mastelliani” sono i primi a difendere il loro leader. «Le minacce ricevute dal ministro Mastella segnalano l'ulteriore degrado del clima politica nel paese - sostiene il capogruppo dell’Udeur alla Camera Mauro Fabris -. Pur di dare addosso all'esecutivo si usano tutti i mezzi, compreso quello di criminalizzare i singoli ministri, anche per responsabilità che non hanno. Adesso ci aspettiamo che gli ex ministri Castelli e Gasparri, e tutti coloro che li hanno seguiti su quella strada, quanto meno ritirino le accuse ingiuste che non avevano perso tempo a rinnovare contro il ministro Mastella». Anche il governo alza la voce: «Ancora una volta una tragedia diventa occasione per una “sentenza annunciata” contro l'indulto e le politiche del governo, mentre il ministro Mastella diventa oggetto di intimidazioni inaccettabili», interviene Giulio Santagata, ministro per l'Attuazione del programma. E in serata arriva il “dietrofront” dell’Italia dei valori che con il capogruppo alla Camera Massimo Donadi: «A nome di tutti i deputati esprimo piena solidarietà al ministro della Giustizia Mastella: il riaffiorare di polemiche sull'indulto ci appare in questo momento francamente fuori luogo».

Repubblica 13.12.06
Indulto, la destra accusa e poi frena
Gelo dopo la svolta sulla strage. L´Unione: e ora chiedeteci scusa

L´ex ministro Castelli: l´eccidio è un effetto devastante della legge
Gasparri: una vergogna ma poi si scopre che Marzouk non ha ucciso
Santagata: si usa una vicenda indefinita per emettere una sentenza annunciata

ROMA - L´ex ministro della Giustizia Roberto Castelli sbaglia i tempi giusto di mezz´ora. Sono le 12 e 30 quando detta alle agenzie l´ennesima dichiarazione polemica contro l´indulto e «i suoi devastanti effetti», contro le «conseguenze drammatiche e perverse» che lo sconto di pena continuerà a produrre. Se la prende con il suo successore Clemente Mastella che avrebbe assecondato la misura di clemenza verso i detenuti, mentre lui, inflessibile leghista, s´era sempre opposto. «Il ministro della Giustizia ha una fortissima influenza sul Parlamento su una misura come questa, tanto è vero che, finché sono stato ministro io, le Camere non hanno mai votato questa legge». Le parole sono pietre, e stavolta la frittata è fatta. Passano 25 minuti e il massacro di Erba cambia faccia, le colpe dell´indulto sfumano fino a scomparire perché Carlo Castagna, padre, marito e nonno di tre delle quattro vittime, assolve il genero Azouz Marzouk che lo ha chiamato dalla lontana Tunisia. Non c´entra lui e non c´entra l´indulto di cui ha usufruito.
In via Arenula il Guardasigilli Mastella, che ha appena ricevuto una lettera minacciosa con tanto di bossolo incluso, si prende la rivincita. Che sta nella prima reazione contro Castelli e l´aennino Maurizio Gasparri, un altro parlamentare che non manca occasione per dire tutto il male possibile contro l´indulto. Di buon mattino l´aveva definito «un´autentica vergogna» di cui aveva chiesto debito conto a quanti l´hanno votato. Il primo a segnare il cambio di rotta è Mauro Fabris, presidente dei deputati dell´Udeur, uomo politico vicinissimo a Mastella. Fabris vuole le scuse di Castelli e Gasparri che, quantomeno, dovrebbero «ritirare accuse ingiuste che non avevano perso tempo a rinnovare contro Mastella». Fabris inserisce la chiave politica: l´indulto è un mezzo per «dare addosso all´esecutivo con tutti i mezzi, compreso quello di criminalizzare i singoli ministri, anche per responsabilità che non hanno». Gli ultimi attacchi a Mastella non sono che «il segno del degrado politico».
Da Como giungono notizie che sempre più allontanano i sospetti da Marzouk (come i tabulati telefonici che lo localizzano lontano dal luogo del delitto) e l´Unione riprende fiato nel "proteggere" l´indulto. Parla il ministro per l´Attuazione del programma Giulio Santagata, prodiano doc, che nota come «ancora una volta» sia stata utilizzata una vicenda «i cui contorni sono tutti da definire» per emettere «una sentenza annunciata contro l´indulto e le politiche del governo mentre Mastella diventa oggetto di intimidazioni inaccettabili». Cambia musica anche l´Italia dei valori: se di mattina Silvana Mura, deputata vicina ad Antonio Di Pietro, definiva l´indulto «una scelta sbagliata», a sera il capogruppo alla Camera Massimo Donadi ammette che «le polemiche sullo sconto, in questo momento, appaiono francamente fuori luogo». L´ulivista Nello Palumbo mette in guardia dal rischio di legare «arbitrariamente» all´indulto «fatti di cronaca nera che sono una costante della nostra società». I verdi Paolo Cento e Paola Balducci invitano tutti «a non diffamare l´indulto e chi, in maniera trasversale, lo ha votato». La partita, almeno per questa volta, finisce uno a zero a favore dello sconto di pena.
(l.mi.)

Corriere della Sera 13.12.06
Quel tiro all'indulto
Sarà colpa della fretta, vista la tarda ora in cui la notizia è arrivata. Sarà anche il frutto di indicazioni investigative che si sono dimostrate, nel giro di poche ore, fragili e fuorvianti. O anche, a voler concedere un'ulteriore attenuante, l'aspetto di verosimiglianza che tutta la storia, a cominciare dal profilo del suo protagonista, ha messo in mostra. Fatto sta che colpisce la facilità con cui tutti i telegiornali e i giornali, compreso il nostro, hanno accolto la tesi della colpevolezza del tunisino ingiustamente accusato di aver fatto strage della sua famiglia in provincia di Como. E colpisce anche la reiterata attitudine a caricare il provvedimento di indulto approvato quest'estate di valenze negative che vanno ben al di là della sua reale portata. Come se l'indulto fosse la causa di una criminalità vecchia e nuova che sconvolge l'Italia da ben prima dell'applicazione di quel provvedimento. Discutere dell'indulto è ovviamente lecito e persino doveroso. E' demagogico invece stabilire un nesso logico ed emotivo permanente tra l'indulto e qualunque manifestazione criminale insanguini l'Italia. O gridare all'infamia dell'indulto per ogni omicidio commesso in Italia. E' sbagliato creare mostri, sempre. Ma anche fare di una legge un mostro. Sbagliato. E troppo facile
13 dicembre 2006

l'Unità 13.12.06
37 ANNI FA A Milano la commemorazione
Verità per Piazza Fontana
E Bertinotti ricorda l’anarchico Pinelli


Anche ieri, nel 37° anniversario della strage di Piazza Fontana in cui morirono 17 persone, centinaia di milanesi (assente il sindaco Letizia Moratti, impegnata a New York, non senza malumori e polemiche tra i manifestanti) hanno partecipato al corteo di commemorazione per chiedere alla cultura democratica del Paese ciò che la magistratura ormai non può più dare: verità e giustizia. Tra loro anche il presidente della Camera, Fausto Bertinotti che ha ricordato anche la vittima Giuseppe Pinelli: «Siamo qui con i familiari delle vittime per rendere omaggio e per proseguire con loro l’impegno per la verità. Ci sono ancora tanti punti oscuri, ma noi non abbiamo dimenticato». Alla memoria collettiva spetta ora mantenere e diffondere la verità storica e politica della stagione della tensione avviata dall’eversione fascista, «perchè - ha ricordato il presidente di Montecitorio - l’obiettivo è quello della pace e della convivenza democratica. Con la strage di Piazza Fontana cominciò la fine della prima Repubblica che si concluse con l’assassinio di Aldo Moro, ma ora è cominciato un altro cammino: i giovani non devono dimenticare, ma farsi aiutare dalla memoria di coloro che hanno costruito la Repubblica sui valori della Resistenza». Per questo Bertinotii ha lanciato un appello alla scuola e alla Rai, affinché «aiuti i giovani a diventare cittadini sgombrerando il campo dalla comunicazione degradante. Il servizio pubblico diventi un luogo di inchiesta e di verità».
Tanto più che di educazione e informazione adeguate c’è sempre più bisogno. Secondo una ricerca commissionata dalla Provincia di Milano all’Istituto Piepoli, infatti, la maggioranza degli studenti delle superiori di Milano pensa che siano state le Br a causare le stragi in Italia, piazza Fontana compresa. Tra gli oltre mille alunni intervistati nel sondaggio, la responsabilità è da attribuire per il 43% alle Brigate Rosse, per il 38% dalla mafia, per il 25% dagli anarchici, mentre il 26% ha risposto «non so». Amaro il confronto con un’analoga indagine di sei anni fa: mano a mano che passa il tempo cresce la percentuale di coloro che dicono «mai sentito parlare della strage di piazza Fontana», che nel 2000 era del 3% ed oggi ha raggiunto il 18%. l.v.

il manifesto 13.12.06
incontri
Bellocchio, Garrel, Gitai Kiarostami: conversazioni
di Cristina Piccino


Perugia. Il titolo, «Cinema in pegno» è un po' un gioco, vuole sdrammatizzare, cinema e impegno potrebbe creare improvvise voglie di fuga. Protagonisti: Marco Bellocchio e Philippe Garrel, due universi del cinema politico/poetico, il primo riferimento per i ragazzi del maggio francese più arrabbiati che vedono nel suo I pugni in tasca, come racconta Philippe Garrel, il film di rivolta che aspettavano». Di Garrel, che a batik è ospite abituale, abbiamo appena visto L'enfant secret (1979), l'ispirazione è ancora una volta Nico, il bambino segreto biondo con capelli in dolce caschetto è il figlio che l'artista factory ebbe insieme a Alain Delon. Cinema politico, di rivolta e dolore, desiderio e necessità che stravolgono l'immaginario iniettandovi vissuto. Un modo di fare cinema (e politica) che è personale e collettivo nella sua singolarità. Del resto: non erano I pugni in tasca già storia familiare nella sua dichiarazione di rifiuto?
A distanza di quarant'anni Marco Bellocchio è tornato sui luoghi di quel film (e del suo cinema), la sua città, la famiglia di ieri e di oggi, la figlia nelle ultime sequenze ragazzina e nelle prime bimba (il film è girato in anni diversi e in tre episodi), i laboratori estivi per giovani attori a Bobbio, vicino a Piacenza, Donatella Finocchiaro splendida protagonista del Regista di matrimoni in Sorelle. Ma torniamo ai Pugni in tasca, a quel 1965. Dice ancora Garrel: «Il film di Bellocchio è un riferimento importante per chi come me comincia a fare cinema dopo la nouvelle vague, è l'espressione infatti di ciò che ci unisce, il Sessantotto, il sentimento di ribellione, lo stesso che era nei film di Jean Eustache ... In questo senso I pugni in tasca è proprio delle generazione nate subito prima o subito dopo la seconda guerra mondiale, io sono del 1948, Marco Bellocchio del 1938 come Euustache. I nostri padri credevano nell'antifascismo, noi ci sentivamo uniti nel rifiuto dello stato di polizia come era allora in Italia o in Francia». Da parte sua però Bellocchio confessa che allo stato di polizia, almeno consapevolmente, girando I pugni in tasca ci aveva pensato poco. Punto di partenza per lui è la famiglia (per certi versi la sua attuazione nel germe primario, utile alibi sempre strumentalizzabile come dimostrano in questi giorni le ipocrisie politiche nel centrosinistra intorno ai «pacs»). «La città per me era lontana, erano le letture, qualche film... La mia realtà apparteneva alla provincia, alla dimensione familiare... E la rivolta contro la famiglia nasceva dalla sensazione cercasse di uccidermi, di rendermi una persona 'normale'». «Mi viene in mente un film di Garrel come La cicatrice interieure, la sua spregiudicatezza richiede coraggio e rischi di stile. Nel mio lavoro sono sempre partito dalla storia che volevo raccontare, non mi sono mai posto il problema di rompere con una forma o di lanciare dei messaggi. I miei film nascono da qualche immagine, poi la storia comincia a prendere una sua fisionomia e complessità». Riferimenti cinematografici per Bellocchio Antonioni dell'Avventura, Jean Vigo, Fellini. Per Garrel il maestro è invece JL Godard. «Ha inventato il cinema moderno, tutti noi in qualche modo ne siamo discepoli. Il luogo della rivolta può essere il soggetto, o il modo di fare cinema. Il sabotaggio artistico avviene sempre nel mezzo dell'arte. Se potessi fareisolo film muti e in bianco e nero».
Altre conversazioni, altri confronti. Amos Gitai, Abbas Kiarostami, e il digitale. Un altro gioco in fondo pensando che nel cinema di Gitai la molteplicità dei mezzi, video, pellicola, digitale è cifra fondante dai suoi inizi, mentre per Kiarostami il digitale è scoperta recente, quindi laboratorio ancora tutto da sperimentare. Dice Kiarostami: «É un mezzo molto amichevole, che ti permette di tornare sugli errori. Parlare di una differenza tra mezzi è forse perché facciamo ancora parte della cultura della pellicola, probabilmente tra alcuni decenni non si discuterà più di questo. Nella mia esperienza posso dire che il digitale mi ha permesso talvolta di sparire come regista mentre giravo, e di avere dei rapporti coi personaggi impossibili altrimenti. Mostrare un dialogo come tra il bimbo e la madre in Ten sarebbe stato impossibile con ogni altro supporto tecnico». Gitai: «Non mi piace feticizzare il mezzo, al contrario mi preoccupa la tendenza che c'è oggi all'uniformità, all'uso del video come una moda. Preferisco mantenere un atteggiamento eclettico, non credo che il cinema deve ammirare ogni ulatima invenzione della tecnica, e questo lo dico senza nostalgia della pellicola». Kiarostami: «Il digitale aiuta anche a sfuggire la censura». Gitai: «Credo che sia un po' facile, se è così perché non abbiamo film dalla Brimania o da Darfour? Penso che il fatto che il digitale sia 'leggero' e costi poco non è di per sé una forma di resistenza alla repressione. E non basta da solo a liberare uno spirito critico verso il mondo». C.Pi.

martedì 12 dicembre 2006

Repubblica 12.12.06
COME IL MEZZO CINEMATOGRAFICO HA CAMBIATO IL '900
LA LINGUA IMMAGINARIA CHE NOI PARLIAMO
di PIETRO MONTANI


Nei bazar c'erano macchine automatiche in cui il flusso delle immagini era ottenuto mediante il movimento di una manovella
Dubbi circa la morte di Dio, ne ho molti; sulla morte del Cinema, nessuno
Si va sovente al cinema. Scopro nuovi modi di combattere la guerra con "Ribalta di gloria" e il tip tap di James Cagney
Il cinema stesso è la creazione di un mondo, da cui il creatore ha enormi difficoltà a distaccarsi, e lo spettatore ammirato anche
Svolte. L'esperienza cinematografica ha mostrato di disporre fin dall'inizio di una potenza paragonabile all'invenzione della stampa
Intrecci. La capacità di far dialogare media diversi e diversi regimi di rappresentazione appartiene alla nuova cultura cinematografica

La forza del cinema, quella che gli ha permesso di cambiare molte cose nella nostra cultura e nella nostra esperienza quotidiana, sta tutta nella sua natura ibrida: a mezza strada tra una tecnica di riproduzione del mondo visibile e una forma evoluta dell´espressione figurativa, tra la registrazione dei fatti e la libera invenzione narrativa, tra l´industria e l´arte. Ciò gli valse, all´origine, numerosi sforzi di legittimazione estetica, ma anche, e per converso, la rivendicazione di un potere dissacrante capace di portare lo scompiglio nel sistema delle arti rovesciandone una volta per tutte i rituali della fruizione raccolta e contemplativa. È nell´ambito di questo spazio ibrido, tuttavia, che il cinema è cresciuto, ha brillantemente superato i "traumi" tecnici (il sonoro, il colore, il digitale) che hanno rischiato di pervertirne la natura e, soprattutto, ha saputo attivare la sua forza di penetrazione culturale realizzando un po´ dovunque profondi effetti di "cinematizzazione", come li definirono, usando la stessa parola, due cineasti e teorici degli anni Venti che la pensavano in modo diametralmente opposto: Ejzenstejn, l´artista di genio, attento al prestigio dell´invenzione formale e alla potenza del coinvolgimento emotivo e Vertov, il modesto artigiano, attento alla veridicità testimoniale dell´immagine e al distanziamento critico di chi la riceve.
Osserviamo la cosa dal primo punto di vista. Il cinema, forma evoluta della comunicazione per immagini (il montaggio fu - e resta - la sua arma più efficace), ha avuto l´effetto di "cinematizzare" le arti figurative e la letteratura, ma anche la nostra percezione comune e l´organizzazione della nostra memoria. Se noi guardiamo all´intera tradizione figurativa e narrativa a partire dal cinema possiamo infatti interpretarla come un interminabile tentativo di dar corso, con mezzi tecnici inadeguati, a un desiderio di complessità che il cinema ha a portata di mano: l´introduzione del tempo e della discontinuità nelle immagini fisse della pittura, la pluralità delle prospettive e delle voci narranti in letteratura. Così, la pittura e il romanzo moderni scoprirono questo desiderio inespresso e dovettero elaborarlo in proprio, confrontandosi, spesso in modo diretto e dichiarato, col cinema. Ma c´è di più: l´immagine cinematografica ha mostrato di disporre fin dall´inizio di una potenza mediale paragonabile solo all´invenzione della stampa: la nostra percezione (fu Benjamin a farlo notare) si è modificata sensibilmente dopo la comparsa del cinema (e della vita metropolitana), orientandosi verso una decifrazione sequenziale e discontinua del caotico mondo visibile. Un fatto davvero epocale, questo, che solo le nuove tecnologie dell´immagine, fluide e ipertestuali, stanno oggi mettendo in discussione. Il cinema insomma ci ha coinvolto nel profondo perché fin da sempre, senza saperlo, eravamo predisposti a prolungare la nostra percezione e la nostra memoria, la nostra immaginazione e le nostre emozioni in un artefatto tecnico capace di dispiegarle al meglio. Il cinema come arte si è nutrito precisamente di questa attitudine, e l´ha a sua volta nutrita.
Ma se ora ci volgiamo all´altro senso della "cinematizzazione", quello pensato da Vertov, scopriamo qualcosa di ancor più attuale e inquietante. Cinematizzazione, infatti, è da intendere come il corrispettivo di "alfabetizzazione", come l´istruzione di uno spettatore competente, in grado non solo di ricevere immagini tecniche ma anche di produrle in proprio e di metterle in circolazione. Quando parlava di una "cinematizzazione delle masse", dunque, Vertov stava anticipando un fenomeno che solo oggi è divenuto accessibile e che è sempre più massicciamente praticato grazie all´uso di videocamere digitali, webcam e telefonini palmari collegabili in Rete e aperti a diverse forme di interattività: dal controllo politico e testimoniale (è il caso delle violazioni di diritti perpetrate al G8 di Genova e dei cento occhi elettronici che le hanno restituite alla giustizia) alla vuota chiacchiera esistenziale dei Blog fino al degrado voyeristico (è il caso del materiale pornografico accessibile in rete) e all´espressione inelaborata della pura e semplice barbarie (è il caso delle torture inflitte a un ragazzo autistico in una scuola torinese e poi messe in Rete).
Si dirà che questa cinematizzazione, di cui non riusciamo ancora a valutare la portata antropologica e le conseguenze giuridiche, non ha più niente a che fare col cinema. Ma non è così. Si direbbe, piuttosto, che è proprio in questo inedito - e inquietante - spazio di contaminazione tra la fluidità e l´immediatezza della registrazione digitale e la disciplina di un severo controllo formale che il cinema è oggi tenuto a mettere alla prova, e a far valere, la sua capacità di inventare nuove modalità di esperienza comunicativa e di elaborazione del senso. Gli esempi non mancano: da Abbas Kiarostami a Michael Moore, dall´ultimo Spike Lee all´ultimo Bellocchio. In tutti questi casi, pur nella grande differenza nel trattamento dell´immagine, sembra che l´aspetto comune sia da vedere nella natura intermediale della nuova cultura cinematografica, nella sua capacità, cioè, di far dialogare media diversi e diversi regimi della rappresentazione: la testimonianza e l´invenzione visionaria, la presa diretta sulle cose e la fatica del distanziamento critico. È di questo che la civiltà del cinema, se vuole continuare a espandersi, sembra oggi avere più bisogno.

l'Unità 12.12.06
Bertinotti: la politica deve ripartiredai movimenti di Seattle e Porto Alegre


ROMA «È nella costituzione del movimento altermondista che vedo la possibile rinascita della politica e, dunque, se mi si chiede dove ricomincia la formazione, rispondo che ricomincia da Seattle, Porto Alegre, Genova e Firenze, ricomincia da qui». È quanto sostiene il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, nel messaggio inviato al presidente di Unione a sinistra, Edoardo Sanguineti, e al coordinatore di «Uniti a sinistra», Pietro Folena, per il simposio «Problemi del socialismo».
Una iniziativa «particolarmente utile - rimarca Bertinotti - in un quadro internazionale che vede il capitalismo incamminato nella sua specifica fase della globalizzazione e della conoscenza, quest’ultima anch’essa responsabile dell’acutizzarsi delle disuguaglianze».

l'Unità 12.12.06
Veronesi: «Arrestare la scienza: questa sembra essere la parola d’ordine»


«Arrestare la scienza», sarebbe questa la parola d’ordine e l’effetto di un sistema dei media che «non è in grado di creare conoscenza». Lo denuncia il professore Umberto Veronesi nella “lectio magistralis” tenuta ieri all’università Federico II di Napoli in occasione del conferimento della laurea honoris causa in in Scienze e Tecnologie agrarie. «Senza libertà di pensiero non c’è possibilità di azione» osserva. «C’è qualcosa di più - denuncia, spiegando i condizionamenti esercitati dal potere politico, economico e da quello religioso -, il potere politico ha sempre avuto un po' paura della scienza». Osserva come la ricerca «sia sempre fiorita a ridosso delle crisi della religione». «Lutero inchiodò le sue 95 tesi a Wittenberg, e 26 anni dopo uscì il “De Rivolutionibus Orbium Coelestium” di Nicolò Copernico». Nella sua prolusione lo studioso si è soffermato sulle prospettive dell’ingegneria genetica, che grazie allo studio del dna «può far guardare con fiducia al futuro della lotta ai tumori. «Se tutti abbiamo la stessa conformazione perché non usare questa conformazione per trasferire un gene da un organismo a un altro?» ha continuato lo scienziato. Non si nasconde le perplessità che questo crea. «Possiamo interferire direttamente sulla natura e creare addirittura specie nuove. Se togliessimo da un embrione umano il gene P66- spiega -, in un’operazione brevissima, potremmo creare un bambino che vivrà 120 anni, e così suo figlio. Si tratta di una nuova linea umana». Tuttavia, ha concluso, gli eventuali limiti che si devono imporre alla scienza «devono essere dettati dalla ragione, non dalla paura». Quello che lo preoccupa è che «l’opinione pubblica non ha ancora elaborato la rivoluzione genetica, un evento di portata analoga alla rivoluzione copernicana». Allora l’importante per Veronesi, è conoscere. Per questo insiste sulla «funzione civilizzatrice» della scienza ed invita medici e scienziati ad uscire dalle corsie e dai laboratori e a confrontarsi, alleandosi con i filosofi, arrivando all’opinione pubblica. «Esiste un valore universale che tutti gli scienziati devono diffondere e seguire: la scienza, elemento per allargare i confini del sapere, per la ricerca della verità, e che ha funzione civilizzatrice».

l'Unità 12.12.06
MACALUSO. «Non si fa una nuova forza politica in astratto»


ROMA Emanuele Macaluso risponde a quanti, come Giuliano Amato, invitano ad accelerare con la costituzione del partito democratico, osservando che «non si può progettare la nascita di una nuova forza politica in astratto, ragionando su ciò che sarebbe giusto e bello fare, senza tener conto dei rapporti che le forze politiche hanno con la società». Macaluso cita l'intervista alla Repubblica di domenica, in cui Amato afferma che senza partito democratico «rischiamo un' ondata di antipolitica che può travolgere tutto», e osserva che «neanche i partiti che si autodefiniscono socialisti riescono a trovare in Italia una strada comune». In risposta, Macaluso ricorda che Amato è «la stessa persona che in un non dimenticato congresso dei Ds» aveva illustrato «le virtù del socialismo democratico»; e se oggi non riesce ad unirsi chi si dice socialista, «per quale miracolo», chiede Macaluso, può esserci l'unità «con chi socialista non è, non vuole essere e non vuole convivere nello stesso partito europeo». Per Macaluso, l'operazione partito democratico ormai «non raccoglie nemmeno tutto il consenso dei due apparati, dei militanti, degli iscritti. Fuori di essi non c'è nulla se non delusione e scetticismo ed è difficile risalire la china affidandosi a una chimera».

l'Unità 12.12.06
HANAN ASHRAWI. L’ex ministra dell’Anp attacca Ahmadinejad: cancellare la storia non porterà certamente a una pace giusta fra pari»
«Da palestinese dico all’Iran: sbagliato negare l’Olocausto»
di Umberto De Giovannangeli


«Un futuro di pace non può fondarsi sulla negazione della storia. Una pace giusta, tra pari, nasce anche dall'acquisizione di verità che le ragioni del presente non possono piegare né distorcere. L'Olocausto è una di queste verità. Per questo da palestinese che non ha smesso un solo giorno di battersi per i nostri diritti nazionali dico che la Conferenza di Teheran non aiuta la nostra causa perché non è gettando dubbi sull'Olocausto ebraico che si porterà verità e giustizia in Medio Oriente». A sostenerlo è una delle figure più rappresentative della dirigenza palestinese: Hanan Ashrawi, già ministra dell'Anp, parlamentare, la prima donna a ricoprire l'incarico di portavoce della Lega Araba. Sul presente e le aperture evocate dal primo ministro Ehud Olmert, Ashrawi replica così: «Per ridare spazio alla speranza occorre un atto concreto da parte del più forte. La tregua non basta. Israele deve porre fine all'assedio di Gaza».
A Teheran si è aperta la Conferenza sull'Olocausto indetta dal regime iraniano. Se fosse stata invitata vi avrebbe partecipato?
«Non sono stata invitata e se lo fossi stata avrei detto di no. Quella conferenza non aiuta la causa palestinese perché noi palestinesi non otterremo mai giustizia e non affermeremo mai i nostri diritti negando la storia o ridimensionando tragedie come l'Olocausto ebraico. Chi, come noi, è vittima della storia non può pensare di avere effimere rivincite violentando la storia».
I promotori della Conferenza affermano che Israele ha «usato» l'Olocausto per «comprare» il consenso dell'Occidente, alla sua politica di oppressione verso i palestinesi.
«Se anche fosse così ciò non porta a negare l'Olocausto o a cercare di circoscriverne la portata. Non si ottiene giustizia per sé ferendo la memoria collettiva dell'altro. Altra cosa è la responsabilità delle classi dirigenti israeliane nell'aver inteso riscrivere la storia di questi ultimi 60 anni (dalla nascita dello Stato d'Israele) a proprio uso e consumo. Emblematico in tal senso è l'affermazione di Golda Meir secondo cui la Palestina era "una terra senza popolo per un popolo senza terra". Cancellare dalla storia il popolo palestinese non è certo un servizio reso alla verità né un incentivo al dialogo. Perché un dialogo, per essere davvero produttivo, deve necessariamente partire dal riconoscimento dell'altro da sé».
Ciò vale anche per i palestinesi…
«Gli accordi sottoscritti dall'Anp così come la Dichiarazione di Algeri dell'Olp (1993) partono dal riconoscimento dello Stato d'Israele. Su questo occorre la massima chiarezza: la grande maggioranza dei palestinesi si sono battuti e continueranno a battersi perché in Medio Oriente nasca uno Stato in più (lo Stato di Palestina) e non perché ve ne sia uno in meno (lo Stato d'Israele)».
Non è questa la posizione del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad.
«Certi proclami fanno parte della propaganda di chi intende accreditarsi come potenza regionale. Per quanto mi riguarda, ho sempre sostenuto che non esistono scorciatoie militari per ottenere i nostri diritti nazionali. Per questo rigetto affermazioni come quelle del presidente iraniano così come mi sono sempre battuta contro la deriva militarista della seconda Intifada, convinta che tra rassegnazione e disperazione violenta esista una terza via: quella della disobbedienza civile, di una rivolta popolare non violenta».
Lei parla di una pace fondata sul principio di due popoli, due Stati. Ma Hamas non è di questo avviso.
«In questi casi occorre essere pragmatici. Puntare ai fatti più che alle proclamazioni di principio. Accettare da parte di Hamas il cosiddetto "Documento dei prigionieri" significa accettare la costituzione di uno Stato di Palestina nei territori occupati da Israele nel 1967. Ciò significa, di fatto, riconoscere lo Stato d'Israele. Partiamo da qui e dalla rinuncia di Hamas ad ogni pratica terroristica per riavviare su basi nuove un percorso di pace, ma allo stesso tempo Israele deve mostrare, nei fatti e non solo a parole, che intende davvero porre fine a quella sciagurata politica unilateralista che è parte fondamentale del conflitto israelo-palestinese e non certo la sua soluzione».
Quali potrebbero essere dei primi atti concreti da parte israeliana?
«Porre fine all'assedio di Gaza, bloccare la colonizzazione della Cisgiordania e dirsi disponibile alla liberazione di prigionieri palestinesi non solo in rapporto allo scambio con il soldato rapito».
Tra questi detenuti da liberare c'è anche Marwan Barghuti?
«Barghuti è un parlamentare palestinese e può dare un contributo importante ad una svolta negoziale. La sua liberazione sarebbe un investimento per la pace. Un investimento produttivo anche per Israele».
Quali dovrebbero essere le novità da apportare rispetto agli accordi di Oslo?
«Definire da subito lo sbocco del negoziato (quello di due Stati) e definire il tempo massimo (non più di un anno o due) per portare a compimento un accordo globale. Sono questi, a mio avviso, i due pilastri su cui fondare una pace giusta, globale, tra Israeliani e Palestinesi. Una pace tra pari».
Si parla di pace intanto però Gaza inorridisce per l'assassinio dei tre bambini figli di un responsabile della sicurezza dell’Anp.
«Si tratta di un fatto orribile, ignobile. Il sangue di quei bambini ricadrà su mandanti ed esecutori di questo crimine. C’è bisogno di una rivolta morale contro questi banditi che vogliono imporre con la forza più brutale la loro logica sanguinaria. Dobbiamo fermarli, prima che sia troppo tardi».

aprileonline.it 11.12.06
Prove di unità a sinistra
di Piero Di Siena


Dalla manifestazione convocata domenica 10 dicembre da Uniti a Sinistra, dall'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra e dall'Associazione RossoVerde è giunto un messaggio chiaro: principi e valori sono ampiamente convergenti in un'area che va da Rifondazione sino alla sinistra Ds
C'è veramente qualcosa che si muove a sinistra? Può avere un punto di approdo l'aspirazione a unire la sinistra italiana, che molti di noi hanno coltivato in questi quindici anni e più che ci separano dalla fine del comunismo del novecento e dall'implosione dei partiti di massa nel nostro paese?
Dalla manifestazione convocata domenica 10 dicembre da Uniti a Sinistra, dall'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra e dall'Associazione RossoVerde, e conclusa da Aldo Tortorella, è giunto senza possibilità di smentite un messaggio positivo in questa direzione. L'occasione era quella di sottoporre a discussione il documento che le tre associazioni hanno formulato per dare un contributo di idee alla costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra italiana. E la verifica è stata positiva. Come ha avuto modo di sottolineare Fabio Mussi nel suo intervento, principi e valori sono ormai ampiamente convergenti in un'area che va da Rifondazione sino alla sinistra Ds, e soprattutto animati da una forte ispirazione innovativa.
La sconfitta della sinistra del XX secolo è stata ormai ampiamente introiettata e elaborata per poter porre le basi del futuro del socialismo in termini di forte discontinuità rispetto alle culture e alle esperienze del secolo scorso. E' una scelta alternativa a quella del partito democratico ma la cui formulazione non nasce da una reazione a quest'ultimo, quanto piuttosto dall'autonoma presa di coscienza della necessità storica di una sinistra radicalmente nuova. Una sinistra che, come recita il documento, fa della libertà il principio fondante di un nuovo socialismo, ritrova nel lavoro dell'età della globalizzazione il suo radicamento, individua nello sviluppo della democrazia e nella riforma della politica obiettivi e forme del suo agire politico.
Si tratta di una ricerca che avviene mentre tutta la sinistra italiana è al governo, nell'ambito di una coalizione che deve saper esprimere nell'interesse del paese un compromesso alto tra capitale e lavoro, mentre interrogativi inquietanti si addensano attorno al destino del mondo che oscilla tra crisi ambientale e pericoli di guerra, in un quadro nel quale l'Europa stenta a trovare un ruolo che possa essere all'altezza di una rinnovata sua missione di civilizzazione.
Una sinistra nuova deve essere in grado di rispondere a tutto ciò, producendo un'innovazione teorica che superi i confini dello stesso stato di diritto così come è stato pensato in occidente, ricorda Russo Spena.
E su queste basi, dopo l'iniziativa di domenica, è dunque più agevole sperare che "in tempi ragionevoli" - come ha affermato Cesare Salvi - possa nascere un nuovo soggetto unitario della sinistra italiana.

aprileonline.it 11.12.06
Piazza Fontana non si dimentica
di E.S.


Le ricorrenze che determinano le tappe della storia di un paese spesso assumono le caratteristiche di una retorica populistica fine a stessa, specialmente quando si vuole soltanto evidenziare lo scarto di una differenza, la diversità ideologica e politica tra fazioni contrapposte.
Ma la strage di piazza Fontana, 37 anni dopo, col passar del tempo assume sempre più i contorni di un tragico inizio, la prima testimonianza di un itinerario che non avremmo mai voluto percorrere, trascritto negli annali con la definizione di strategia della tensione.

Per chi non ha vissuto quel periodo, e per coloro che più o meno volontariamente hanno cercato di rimuoverlo, vale la pena ricordare che allora la classe dirigente italiana temeva uno spostamento a sinistra dell'asse politico nazionale, un mutamento fortemente osteggiato perché ritenuto destabilizzante rispetto ai meccanismi di potere già ben oliati dopo vent'anni di gestione democristiana, seguìta alla fine della seconda guerra mondiale. Nel perseguire questo obiettivo, ad un certo punto le vittime causate da stragi orrende sembra essere la strada intrapresa. Fu così messa in atto una strategia che verosimilmente doveva portare, nelle intenzioni degli esecutori, alla realizzazione di un modello (anti)democratico autoritario, gestito dai più alti organi dello stato per mettere fuori gioco gli avversari politici, creando un clima di paura e soggezione che giustificasse agli occhi degli elettori e dell'opinione pubblica l'incontrastata egemonia del partito a capo del governo.

Parte da qui l'idea di un braccio armato, di un esecutore materiale idoneo alla messa in pratica delle meschinità omicide dei mandanti. Una bomba, scoppiata alle 16,30 nel salone centrale della Banca Nazionale dell'Agricoltura a Milano, causa sedici morti e ottantasette feriti: la nuova e misteriosa strategia, che coinvolge vittime innocenti e comuni cittadini, rompe gli indugi. Suona da subito strano che le indagini delle forze dell'ordine guardino agli ambienti della sinistra anarchica, così come risulterà sempre più emblematico lo svolgimento lento e involuto dei vari processi che partire della metà egli anni ottanta sino a noi coinvolgeranno nomi noti e meno noti della destra estrema italiana, senza mai riuscire a far piena luce sui responsabili di quel drammatico evento.

Oggi, tornati alla ribalta vecchi e nuovi successori della Democrazia cristiana ufficialmente frammentata, in realtà sapientemente distribuita nelle dinamiche politiche determinate dal falso bipolarismo italico, quel 12 dicembre del 1969 molti vorrebbero farlo tornare nel dimenticatoio, magari insieme a tutte quelle torbide storie che, solo per citarne alcune, da Pinelli all'Italicus, da Moro a Ustica, arrivando sino a noi, continuano a dar testimonianza di un'inquietante anomalia, nel cuore di un paese solo formalmente cresciuto sotto la confortante immagine di una democrazia reale e compiuta.

"Io so, ma non ho le prove", scrisse uno dei poeti più amati e odiati sulla prima pagina del più importante quotidiano italiano. Era il novembre del 1974. Chissà cosa ne scriverebbe oggi, uno come Pier Paolo Pasolini, di un paese ridotto ancora a fare i conti con il proprio passato, per cercare di capire di quale pasta sia realmente fatto.

corriere.it 12.12.06
A 37 anni dalla strage alla Banca Nazionale dell'Agricoltura
Bertinotti a Milano per ricordare piazza Fontana


Alle 17.30 parte il corteo da piazza della Scala, il comizio conclusivo alle 18. Non ci sarà il sindaco Moratti, in missione a New York

Studenti in piazza per ricordare la strage del 12 dicembre '69 (Delbo)
Il presidente della Camera Fausto Bertinotti nel pomeriggio sarà a Milano per partecipare alla cerimonia in occasione del 37° anniversario della strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969). Le commemorazioni inizieranno alle 16.30, con la sospensione per dieci minuti delle attività cittadine. Alle 16.37, ora in cui scoppiò la bomba, in piazza Fontana verranno deposte le corone sotto la lapide che ricorda le vittime. Alle 17.30 partirà il corteo da piazza della Scala, il comizio conclusivo si terrà alle 18. Non ci sarà il sindaco, Letizia Moratti, in missione a New York, ma verrà inviato un rappresentante del Comune. Alla manifestazione parteciperanno i familiari delle vittime, le associazioni degli ex partigiani e il «Comitato permanente antifascista contro il terrorismo per la difesa dell’ordine repubblicano», composto tra gli altri da partiti (Ds, Margherita, Rifondazione, Sdi, Pdci), sindacati (Cgil, Cisl, Uil) e Acli. Al termine del corteo, che sarà aperto dai gonfaloni del Comune e della Provincia, si terranno i discorsi commemorativi in piazza Fontana. L'intervento del presidente della Camera è previsto intorno alle 18.
I valori dell'antifascismo e della democrazia, la cultura del pacifismo e del dialogo, la memoria del passato per conoscere il presente: questi i temi al centro della manifestazione organizzata questa mattina dagli studenti delle scuole superiori. Il corteo (2mila partecipanti secondo gli organizzatori) si è svolto senza incidenti e con molta partecipazione. Partito alle 10 da largo Cairoli, si è concluso in piazza Fontana, davanti alla Banca Nazionale dell'Agricoltura. I ragazzi si sono seduti per terra e sono stati ripercorsi alcuni fatti tragici della storia italiana, per dire «basta con le stragi e con la politica delle tensione che è tornata in forme diverse, come con l'uccisione di Carlo Giuliani a Genova». Annunciate mobilitazioni a partire dalla prossima settimana, con autogestioni e cogestioni di diverse scuole. Nel giardinetto, sulla lapide che ricorda l'anarchico Giuseppe Pinelli, è comparso un mazzo di fiori con un foglietto: «Pinelli assassinato». «La memoria è fondamentale - ha detto Rossella, del liceo Parini - anche perché a scuola non si parla mai della storia degli anni Settanta».

lunedì 11 dicembre 2006

il Riformista lunedì 11 dicembre 2006
Unioni di fatto. Quella dell’Osservatore Romano è proprio un’ingerenza
Caro Piero, perché piuttosto non rassicuri noi?
di Paolo Franchi


Vengo, più o meno, dalla stessa scuola di Piero Fassino, quella dell’articolo sette e della pace religiosa degli italiani che non va turbata perché altrimenti sono guai seri per tutti, credenti e non credenti. E quindi capisco, o almeno mi sforzo di capire, il segretario della Quercia. Persino quando, in un piovoso pomeriggio domenicale, se ne va in tv da Lucia Annunziata a spiegare come e perché, se l’Osservatore Romano scrive che la priorità del governo di centrosinistra è «sradicare la famiglia», non è poi il caso di prender cappello e parlare di «ingerenza». E pure quando giura che non dispera affatto di trovare di qui a gennaio, sulle unioni di fatto, un’intesa con la Binetti, e anche con una parte del centrodestra.
Ti capisco, Piero. O almeno mi sforzo di capirti. Ma non fino al punto di non sentire il dovere di chiederti come andrebbe definito altrimenti, l’attacco dell’Osservatore. E se davvero ci credi, all’idea che, con le vacanze natalizie e l’anno nuovo, teodem e compagnia cantante, quegli stessi che hanno minacciato l’altro giorno di far venir giù il governo sulle successioni, cambieranno idea, e si adegueranno, operosi e felici, a varare una legge che addirittura «non consideri dirimente, al fine di definire natura e qualità dell’unione di fatto, né il genere dei conviventi né il loro orientamento sessuale». Con tutto il rispetto per i maggior nostri, e pure per Eugenio Scalfari, che su Repubblica ci esorta a essere fiduciosi, io, caro Piero, non ci credo, e onestamente non credo di essere il solo.
Mi sbaglio, e si sbagliano tutti quelli che la pensano come me? Fosse vero, sarei il primo a prenderne atto e a esserne felice. Il fatto è però che dovresti essere tu, caro Piero, a spiegarci perché abbiamo torto a essere pessimisti. Fin qui, ogni volta che gli altri hanno puntato i piedi, e lo hanno fatto un giorno sì e l’altro pure, prudentemente i laici dell’Unione e dell’Ulivo (non sembra, forse, ma ci sono anche loro) ne hanno preso atto, rinculando in attesa di tempi migliori, per non mettere in pericolo l’unità del centrosinistra e dello stesso governo. Stavolta, se ho capito bene, a puntare i piedi, seppur previo rinculo sulla successione dei conviventi in finanziaria, dovremmo essere noi, i laici: senza iattanza, senza arroganza, senza esasperati laicismi, ci mancherebbe, e però con serena determinazione. Bene, benissimo, siamo pronti. E però consentirai, caro Piero, che, visti i precedenti, siamo noi, e con noi «tutti quelli che hanno scelto la convivenza secondo criteri di buon senso», che dovremmo essere per primi rassicurati sulle buone intenzioni dell’Unione e dell’Ulivo. Noi. Non il Vaticano, non la Cei, non i teodem, non i crociati della «famiglia tradizionale» e neppure Pier Ferdinando Casini che, proprio mentre rimarca la sua autonomia da Silvio Berlusconi, chiama alla lotta frontale contro le unioni di fatto manifestando tutto il suo orrore per la deriva zapaterista che, auspice Romano Prodi, minaccerebbe i cattolici e, con loro, la società italiana.
A proposito di deriva zapaterista: a me, e credo a molti altri come me, non dispiacerebbe affatto, caro Piero, che qualcuno, magari proprio tu, trovasse la forza e la serenità, queste sì zapateriste, di sostenere apertamente, e anzi di assumere come fondamentale punto di principio, che qui non si tratta di sottrarre dei diritti a qualcuno, ma di darne a chi non ne ha o non ne ha abbastanza; e che questo ha moltissimo da spartire con una moderna politica di sinistra, con un moderno riformismo, e pure con la natura di quel Partito democratico per il quale tu con tanto impegno continui a batterti. Che Partito democratico sarebbe mai quello che non avesse iscritto nel suo codice genetico, assieme alla laicità, l’impegno a estendere i diritti e ad allargare la democrazia? Su questo punto cruciale, temo, le divisioni sono profonde. Più profonde e radicali ancora che sull’adesione o meno al socialismo europeo. E verranno tutte alla luce.


La Voce d'Italia (http://www.voceditalia.it/index.asp)

Grandi appuntamenti anche oggi al palazzo dei Congressi dell´Eur
Più libri più liberi: 2° giorno
Aggiornamenti in tempo reale:
(...) 13.28 - Si è da poco conclusa la presentazione del sesto libro di Massimo Fagioli, “Una Vita irrazionale. Lezioni 2006”, edito da Nuove Edizioni Romane.
Hanno partecipato all’incontro oltre all’editrice, Gabriella Armando, ed all´autore, Massimo Fagioli, David Armando e lo psichiatra Paolo Fiori Nastro.
Fagioli- laureatosi in Medicina all’Università di Roma, poi specializzatosi in Neuropsichiatria- nel suo libro propone un’idea diversa dell’irrazionale, e parla della necessità di scoprire la memoria non cosciente, e le immagini trasformate del pensiero senza coscienza.

Fagioli si occupa anche della percezione delirante. Che spinge le persone a credere una cosa, e non a pensarla. Se la percezione è qualcosa di normale e fisiologico, ed il delirio è la malattia mentale per antonomasia, la percezione delirante fa sì che si manifesti una discrasia nel passaggio dall’immagine dell’oggetto al linguaggio. “Non si tratta di una patologia organica- spiega Fiori Nastro durante l’incontro- perché non si è mai riusciti ad individuare qualcosa di fisiologico, ma di una malattia mentale. Non patologia della coscienza, dunque, ma qualcosa che sta al di là della coscienza. Nell’Inconscio. Viene fuori che la capacità di trasformare l’immagine in linguaggio, consente di legare l’immagine con l’inconscio”. Immagini come dimensione non cosciente. Non ‘Inconoscibile’, ma ‘non conosciuto’ e quindi studiabile e da studiare.

Al termine della presentazione la parola è passata direttamente all’autore Massimo Fagioli, che dopo i dovuti ringraziamenti agli ospiti intervenuti, ha parlato anche del concetto di “diverso” e della necessità di accettare ed apprezzare il diverso (...).

in redazione Federica Giordani e Paola Genovese
Data: 08/12/2006 21.54.09