venerdì 3 febbraio 2006

Corriere della Sera, 03.01.06
Nuove terapie
Il ritorno dell'elettroshock?
In Usa si sperimenta una nuova tecnica per combattere la depressione, «a base» di stimolazioni magnetiche


Una scarica elettrica per sedare le persone, curare i «matti», «addomesticare» i ribelli. Lo immortalò «Qualcuno volò sul nido del cuculo», quando Jack Nicholson e il «grande capo» furono sottoposti a questa terapia. Oggi questo trattamento è stato riabilitato , ma i suoi possibili correlati fanno ancora paura. Ma la ECT (electroconvulsive therapy), gradatamente dimenticata in favore degli psicofarmaci, forse sarà sostituita dalla più soft TMS, un trattamento su cui c'è un crescente intersse in usa, che promette di rimuovere la depressione in cambio di molta gentilezza e nessun danno.
COME FUNZIONA - La nuova procedura (già in sperimentazione anche in Italia) farebbe uso di impulsi magnetici (e non elettrici) come descrive Wired . Sperimentata dalla società Neuronetics, si basa sullo stesso principio dell'elettroshock: i disordini dell'umore possono essere curati alterando l'attività elettrica del cervello. Nella TMS le scariche sarebbero indirizzate verso la corteccia pre-frontale, deputata alla gestione delle emozioni negative.
CRITICHE - Il trattamento provoca un aumento del livello della serotonina, regolatore del benessere e del ciclo circadiano. L' «elettroshock gentile» può essere effettuato su pazienti allergici ai farmaci. Inoltre il TMS non provocherebbe quello stato emozionale atarassico che caratterizza molti medicinali di questa famiglia.
Emanuela Di Pasqua




























ANSA, 03.02.06
FIGLI PIGRI E MAMMONI? SONO I GENITORI A TARPARE LE ALI


Altro che figli pigri e mammoni: la ragione che fa degli italiani i più propensi a starsene a casa con mamma e papà fino alla tarda giovinezza, non è la beata spensieratezza di cene e bucati fatti per loro, bensì la calcolata abilità dei genitori nel 'corrompere' i figli e convincerli a non lasciare il nido materno.

E' quanto affermano due ricercatori, anch'essi italiani, del Centre for Economic Performance della London School of Economics, secondo i quali a guadagnare da tale situazione non sarebbero i figli, bensì i genitori. In Italia l'80% dei giovani tra i 18 ed i 30 anni vive con i genitori: una percentuale enorme in confronto al 50% dei britannici e al 40% degli statunitensi. Secondo Marco Manacorda ed Enrico Moretti, che hanno pubblicato la loro ricerca sulla rivista Centrepiece, tale fenomeno è dovuto al fatto che al contrario dei genitori anglosassoni, a quelli italiani "piace avere i propri figli intorno e pur di convincerli a vivere con loro sono disposti a 'corromperli' in cambio di favori e soldi".

I genitori traggono beneficio dalla compagnia e dai servizi che i figli possono offrire e soprattutto, spiegano gli studiosi, dall'opportunità di costringere i figli a osservare le loro regole. Mentre quindi per i genitori la situazione risulta vantaggiosa, al contrario i giovani si trovano con le ali tarpate, sono spesso disoccupati, viaggiano di meno e faticano a mettere su famiglia. "Il prezzo che i giovani italiani si trovano a pagare è una scarsa indipendenza e, a lungo termine, poca soddisfazione nella vita.
In conclusione, riteniamo che i genitori italiani si sforzino molto per farsi amare dalla loro prole, ma in un certo senso comprano questo amore in cambio dell'indipendenza dei figli", hanno concluso i ricercatori.
























Liberazione, 03.02.06
Lo scontro tra due civiltà che si sentono deboli
di Piero Sansonetti


La libertà di stampa, e di opinione, va sempre difesa. Raramente si accompagna alla libertà di informazione (cioè la libertà non di informare, ma di essere informati) anzi quasi mai. La libertà di essere informati è ancora una chimera. La libertà di stampa comunque è la più grande conquista della civiltà occidentale moderna. Si è sviluppata soprattutto nel Novecento. In alcuni paesi, come gli Stati Uniti, più che in altri. Da noi per esempio questa libertà è stata affermata solo con la Costituzione del 1948 e non è ancora pienamente realizzata.
La campagna lanciata da settori integralisti islamici contro i giornali che hanno pubblicato vignette di offesa all’Islam e a Maometto è una campagna che punta a mettere in discussione la libertà di stampa. Bisogna opporsi.
Poi dobbiamo anche chiederci: questa vicenda delle vignette anti-islamiche e della reazione furiosa di pezzi di mondo islamico, e di mondo arabo, riguarda solo la questione della libertà di stampa, oppure ha qualcosa a che vedere con i rapporti ormai infuocati tra mondo arabo e occidente, e va letta dentro lo scontro di civiltà - voluto, o temuto, o favorito, o provocato, o auspicato - che dal 2001 è il fantasma della politica mondiale, e tutti i giorni sfiora il nostro pensiero, la nostra politica, le nostre discussioni, le nostre vite?
Penso che la vicenda delle vignette, nella sua paradossalità, c’entri molto con lo scontro di civiltà. E’ indubbio che nelle vignette pubblicate in Danimarca, poi in Norvegia e ora in mezza Europa, ci fossero elementi di insulto verso il profeta dell’Islam. Quei disegni, un po’ goffi, suonavano - e suonano - come fortemente offensivi per la sensibilità religiosa di quel mondo. C’è in quelle vignette un significato e, credo, una intenzione razzista. Per la sensibilità della cultura islamica, disegnare il profeta come un terrorista è una grandissima offesa. Come, per la cultura cattolica è la bestemmia. Ve lo immaginate un giornale italiano - non satirico - che pubblichi, magari in prima pagina, un titolo che contiene una bestemmia? Un insulto a Dio, o alla Madonna, o a Gesù? Non è mai successo. Non mi sembra neppure di ricordare vignette con l’immagine di Cristo associata a quella delle brigate rosse. E sulla nostra stampa è molto rara persino la presa in giro dei sacerdoti o del papa, che pure ha un impatto molto minore sulla sensibilità religiosa (una volta che sul nostro giornale abbiamo preso in giro, con delle immagini di scherno, il papa cattolico, si sono aperte polemiche accese, anche al nostro interno, e un sito internet è stato, per questo motivo, chiuso dalla autorità costituita).
Ciò che è angosciante, in questa crisi delle vignette, è esattamente la definizione di questa crisi: è angosciante che possa esistere una crisi delle vignette. Cioè che su una cialtronata un po’ volgare possa aprirsi uno scontro così forte, nel quale i contendenti pongono in modo drammatico e formale la propria questione di identità. Il mondo arabo scatta indignato perché sente offesa la sua dignità e la sua identità islamica. L’Europa reagisce a difesa della propria identità, e cioè l’insindacabilità della stampa e la definizione di libertà di stampa come libertà infinita e senza tutori.
Questa enorme sproporzione tra i fatti e le reazioni dimostra che ormai lo scontro di civiltà è sfuggito di mano. Incattivito dalla guerra, dalla questione mediorientale, dalle grandi difficoltà politiche e militari degli Stati Uniti, dall’incapacità dell’Europa di svolgere una sua politica estera e di esprimere un suo punto di vista. E incattivito, naturalmente, dall’ascesa dei fondamentalismi islamici, che indeboliscono in modo devastante la forza politica e culturale di quella civiltà.
Lo scontro avviene tra due civiltà sempre più deboli. Così deboli da rischiare di finire seppellite da uno stupido disegno ironico. E’ uno scontro pericolosissimo.




http://canali.libero.it, 02.02.06
Padre Fedele/ Il professor Francesco Bruno ad Affari: "La suora? E' pazza"


Padre Fedele Bisceglia "sta bene, almeno fisicamente E' in convento, dove si riprenderà spiritualmente e psicologicamente". Parola del professor Francesco Bruno, che parla con Affari del caso del monaco cosentino ora agli arresti domiciliari nel 'monastero dell'amore' di Belvedere Marittimo (CS). Il criminologo, noto per la sua assidua presenza nella trasmissione televisiva Porta a Porta sul caso Cogne, è stato chiamato dagli avvocati difensori del religioso come perito di parte, in attesa che venga autorizzata la perizia psichiatrica sulla suora che ha accusato padre Fedele di averla violentata. E Bruno, parlando di lei, dice: "non mi sembra che sulla base del materiale a mia disposizione, si possano rintracciare elementi che dicano con molta probabilità che questa persona abbia avuto traumi così profondi. Non recentemente, insomma". E le intercettazioni a luci rosse? "Molte cose non si dicono, molte cose non emergono, molti contesti sono diversi. Quindi è difficile interpretarle correttamente". Anzi, il vero problema in questa vicenda è quello del "celibato sacerdotale, il problema della Chiesa cattolica dei nostri tempi. Questo non possiamo ignorarlo ed è anche il motivo per cui questo scandalo viene usato con tanta partecipazione mediatica".

Ecco l'intervista:
Professore, ha già incontrato Padre Fedele? Come sta ora?
"Non l'ho ancora incontrato. Comunque sta bene, almeno fisicamente. E' in convento, dove si riprenderà spiritualmente e psicologicamente".

Lei ha chiesto la perizia sulla suora. Di che cosa crede che soffra?
"Mah, io penso che la suora sia sofferente. Penso che abbia dei problemi di personalità, per ora chiamiamoli così, che hanno molte persone e che non sono un dato patologico, ma sono alla base di molti nostri comportamenti e in qualche modo ci chiariscono. Questo è il primo punto: il secondo punto è che in ogni caso non mi sembra che sulla base del materiale a mia disposizione, si possano rintracciare elementi che dicano con molta probabilità che questa persona abbia avuto traumi così profondi. Non recentemente, insomma".

Ma potrebbe avere, per esempio, manie di grandezza o sdoppiamenti di personalità?
"Sì, sì".

O anche la stessa schizofrenia?
"No, questo non mi pare. Però potrebbero esserci situazioni, così, al limite tra la norma e la patologia insomma".

Il problema è che ultimamente sono state pubblicate le intercettazioni. Non è già un uno a zero in favore dell'accusa?
"Un uno a zero molto 'facile'. Nel senso che padre Fedele è indubbiamente una personalità particolare, quindi non è un frate chiuso nel convento, ma un frate che ha girato il mondo, è andato per sua stessa ammissione 'all'inferno'".

Perché?
"Perché è lì che dovrebbe andare un frate a prendere persone che hanno più bisogno di lui, e come tale ha dato luogo a conclusioni, interpretazioni più o meno malevole. Ora, anche le intercettazioni sono un po' come guardare dal buco della serratura, e quindi molte cose non si dicono, molte cose non emergono, molti contesti sono diversi. Quindi è difficile interpretarle correttamente"

Quindi lei ritiene che siano state usate in termini inquisitoriali?
"Io dico questo: sono stati usati una serie di elementi per colpirlo diciamo in quello che è un problema eventualmente della sua coscienza, ed eventualmente della Chiesa cui appartiene. Io sto parlando da laico, sono un laico, e quindi anche ammesso e non concesso, ma ammesso che padre Fedele avesse una vita sessuale, cosa riprovevole per la sua condizione, questo non solo non è un reato, come ovviamente tutti sappiamo, ma non ha minimamente a che vedere con l'utilizzazione della violenza a questi fini e questi scopi, perché non c'entra assolutamente nulla".

Quindi è un problema giuscanonistico?
"E' eventualmente un problema su cui la Chiesa non potrà rimanere indifferente. Il problema del celibato sacerdotale è il problema della Chiesa cattolica dei nostri tempi. Questo non possiamo ignorarlo ed è anche il motivo per cui questo scandalo viene usato con tanta partecipazione mediatica".

Antonino D'Anna






















AGI, 02.01.06
NEONATOLOGI, VITA UMANA INIZIA DA 24 SETTIMANE IN SU

Per la vita umana occorre che il nascituro arrivi alla 24esima settimana di gestazione che e' il limite di vitalita' indispensabile: sotto tale limite la sopravvivenza e' pari a zero nonostante interventi e cure intensive che, qualora praticate, sono accanimento terapeutico.
E' la tesi della Sin, Societa' Italiana di Neonatologia, che nel documento, 'Raccomandazioni per le cure prenatali nelle eta' gestazionali estremamente basse', propone di non intervenire al di sotto del limite di vitalita' delle 22-24 settimane.
Rapportati ai 600 mila nati, i prematuri tra la 22esima e la 24esima settimana sono l'1,60% pari a 924 neonati: di questi il 30% muore in sala parto; il 45% in terapia intensiva; il restante 25% sopravvive ma con esiti in handicap grave nella maggior parte dei casi. "Intevenire medicalmente con cure intensive in quei casi, al di sotto del limite minimo di vitalita', diventa inevitabilmente accanimento terapeutico, tentativo, desiderio di onnipotenza che sconfina nella medicina sperimentale", afferma il neonatologo e pediatra, direttore dell'Ospedale Pediatrico 'Meyer' di Firenze, Gianpaolo Donzelli per il quale, "la letteratura scientifica ci dimostra chiaramente che e' partire dalla 24esima settimana che crescono le probabilita' di vita umana per cui la medicina puo' interagire con una struttura biologica in grado di rispondere e agli stimoli dell'ambiente e alle cure mediche per dare salute e salute gioiosa".



















Repubblica, 02.02.06
Firenze, per la prima volta un documento di pediatri e commissione bioetica: tutte le raccomandazioni
"Fermiamo le cure intensive per i neonati troppo prematuri"
I medici: limitiamo l´accanimento terapeutico
Un accompagnamento dolce alla morte per chi nasce di 22-23 settimane "Ma spetta alla coscienza del singolo pronunciarsi caso per caso"
MARIA CRISTINA CARRATU


Venti centimetri di lunghezza, 380 grammi di peso. Quando nasce sotto le 22, 23 settimane di gestazione, un bambino è questo. Va dunque trattato con «rispetto, amore e delicatezza», tenendolo al caldo e dandogli un po´ di glucosio. Ma nient´altro. Tentare di più sarebbe accanimento terapeutico, contrario all´etica medica. Per la prima volta, la comunità scientifica italiana si pronuncia su un dilemma reso sempre più acuto dai progressi delle tecniche di terapia intensiva neonatale (nonché dall´aumento di gravidanze plurigemellari da fecondazione artificiale), ma di fronte a cui, finora, ogni medico ha dovuto decidere da solo. È giusto far sopravvivere prematuri di 22-3 settimane destinati comunque a morire, o a sopravvivere con handicap gravissimi? No, dicono, unanimi, tutti gli organismi più rappresentativi del settore (dalle Società italiane di pediatria, neonatologia, medicina perinatale, ginecologia e ostetricia, dei medici legali e delle assicurazioni, alla Federazione degli Ordini dei medici, a rappresentanti della Commissione nazionale di bioetica come il vicepresidente Mauro Barni), chiamati a raccolta dalla Clinica di medicina perinatale dell´Università di Firenze diretta da Giampaolo Donzelli, e da quella di ostetricia e ginecologia di Gianfranco Scarselli. "Raccomandazioni per le cure perinatali nelle età gestazionali estremamente basse" è il documento che sarà presto reso pubblico e dove per la prima volta è scritto chiaro: niente cure intensive per il neonato di 22-23 settimane, ma solo un accompagnamento dolce alla morte; trattamento intensivo per quello di 24 solo se la rianimazione produce «sforzi respiratori spontanei, frequenza cardiaca, ripresa del colorito»; rianimazione e cure intensive obbligatorie, invece, per i nati dalle 25 settimane in poi.
Stretti, finora, fra problemi di coscienza, dovere di «adottare ogni misura» (come dice la legge 194) per salvare il feto, indipendentemente dall´età gestazionale, rischi di denunce per omissione di soccorso, o per accanimento terapeutico, «adesso» dice Donzelli, «i neonatologi potranno lavorare con più serenità». Continua, certo, in Italia, a mancare un riferimento normativo: «Ma si potrà mai dire per legge chi deve vivere e chi morire?» osserva il presidente della Società italiana di neonatologia Giorgio Rondini. «Spetta alla coscienza del medico pronunciarsi, caso per caso. Una legge dovrebbe però tutelarlo nelle sue scelte». La medicina, in ogni caso, dice Donzelli, «dovrà sempre più interrogarsi sull´esatto beneficio del suo agire per il cittadino-neonato». Ormai, nota il presidente nazionale della Società di medicina perinatale Giulio Bevilacqua, «dobbiamo accettarlo: almeno per ora, interventi estremi su certi prematuri non sono né giusti né etici». E le "Raccomandazioni" saranno fondamentali anche per le famiglie: «In passato si parlava di aborto tardivo, e tutto finiva lì» dice Maria Serenella Pignotti, aiuto della Clinica di medicina neonatale di Firenze: «Oggi una famiglia si aspetta sempre il massimo. E invece, bisogna darle speranze vere, non finte».








Liberazione, 02.02.06
Le donne si fanno sentire, la Commissione sulla legge 194 smentisce Storace
Elettra Deiana


L’indagine conoscitiva sulla legge 194 è arrivata a conclusione. L’aveva voluta Storace, nella sua frenetica campagna antiaborista che ogni giorno si fregia di nuove performance, ed è stata realizzata dalla Commissione affari sociali della Camera. Si è trattato, per chi l’ha promossa, di un vero e proprio flop. Poche settimane di audizioni hanno confermato dati già ampiamente noti, dal momento che la legge 194 è una tra le più monitorate della Repubblica e, a parte medici abortisti e consultori che funzionano a singhiozzo, di essa non si può dire che bene. Ovviamente i dati dell’inchiesta non impediscono al ministro Storace di gonfiare i muscoli e di fare nuove minacce sulla necessità che le associazioni antiabortiste entrino nei consultori e l’accesso alla RU486 diventi un percorso ad ostacoli. Ma il flop non è dipeso soltanto dalle informazioni raccolte in sede parlamentare. E’ stato soprattutto il clima nuovo che si è creato nel Paese in seguito alla grande e straordinaria manifestazione di Milano, le 200mila donne che hanno fatto sentire la voce forte e determinante di una parte fondamentale del nostro Paese, quella che non è disposta a tornare indietro su questo terreno.
Usciamo dal silenzio, hanno detto le donne convenute a Milano e la loro voce è diventata un rimbombo che dura e invita ad abbassare la cresta della misoginia maschile.
L’indagine conoscitiva, come tante altre iniziative su questo terreno, era un tutt’uno con la campagna di criminalizzazione delle donne che abortiscono. Una campagna, lo sappiamo bene, che dura da anni, anzi da decenni, da quando con la 194 è stato riconosciuto nell’ordinamento il principio di autoderminazione femminile e la responsabilità delle donne rispetto al proprio corpo - l’asimmetrico habeas corpus femminile è radicato nella sessualità e nella capacita generativa di quel corpo - è diventata parte integrante del diritto di cittadinanza delle donne.
Questo è il punto di fondo, l’elemento centrale che ha animato e anima le invettive della Chiesa di Roma e delle forze politiche oscurantiste del centrodestra tutte unite nell’obiettivo di riportare al disciplinamento sociale e al controllo patriarcale il corpo delle donne.
Un colpo di spugna sulla libertà femminile: questa la posta in gioco.
Il mondo complesso e complicato delle donne, i percorsi di soggettività, di responsabilità, di autonomia, le differenti percezioni e decisioni del diventare madri o del non compiere una tale scelta anche abortendo, tutto schiacciato e cancellato nella dimensione dell’indifferenziato, della colpa e del peccato.
O del dramma. Perché non c’è via di scampo, neanche da parte di quante difendono la 194 rispetto a questa dimensione fusionale in cui tutte le donne sono accomunate dal loro essere donne, oggetto del pensiero maschile, corpi a disposizione, natura che assicura la perpetuazione della specie.
C’è da riprendere il dibattito sul tema dell’aborto, spostando decisamente il baricentro della riflessione, del punto di vista.
Ogni donna è una donna. Ogni scelta in un senso o nell’altro - diventare madre o decidere di no - è una storia a sé, che parla di quella donna, della sua storia.










Liberazione, 02.02.06
«Prossimo obiettivo l’8 marzo»
Le donne di “Usciamo dal silenzio” si riorganizzano per dare nuova visibilità a quella politica espressa lo scorso 14 gennaio
Claudio Jampaglia


Obiettivo 8 marzo, non solo per ritornare a una giornata di lotta, ma per presentare in quella data domande concrete alla politica. Le donne milanesi di “Usciamo dal silenzio” ripartono dove tutto è cominciato, dalla Camera del Lavoro, e vogliono portare a risultato le centinaia di migliaia che hanno manifestato il 14 gennaio. La scadenza elettorale non è il fine, ma tra i tempi lunghi per la riflessione e quelli stretti per incidere, si tesse l’intreccio.

«Non so dire se è fantastico o normale tutto quello che è successo», inizia così l’assemblea di circa 400 donne. Sono venute per organizzarsi, per dare un passo alla gigantesca domanda di visibilità e di interlocuzione con la politica espressa dalla manifestazione milanese e farlo subito. Il dibattito va dritto al cuore della proposta di cui si sono fatte carico, a nome di tutte le organizzatrici, Assunta Sarlo, Lea Melandri e Susanna Camusso: un mese di lavoro in gruppi tematici e strutturati per dare vita a una lettera/documento da consegnare a tutte le forze politiche (tutte) per le elezioni. Si direbbe “piattaforma” in politichese, loro invece parlano di una proposta/canovaccio. I gruppi di lavoro sono quelli già abbozzati nelle assemblee: dal lavoro sulla salute e i diritti, a quello sul lavoro e la precarietà, laicità e religioni, donne migranti, donne e politica, ma anche donne e media e quelli che si aggiungeranno in altre città e realtà. L’importante è arrivare presto a sintesi, in autonomia di pensiero e pratiche, senza strapparsi nell’urgenza, fissando i primi tasselli di una riflessione politica di lungo termine. Una politica dei due tempi. Come spiega l’ideologa (ci perdonerà), Lea Melandri: «E’ in atto un percorso di accomunamento, la politica delle donne che c’è sempre stata desidera tornare a incidere in tutta la realtà, e per farlo ancora una volta ci è richiesta elasticità e mobilità che intrecci riflessione e strategia». Lo scopo finale? «Intaccare la neutralità maschile rispetto alla condizione femminile vissuta come qualcosa da proteggere». L’universale per essere tale, più che neutro, dovrebbe almeno riconoscere due sessi.

Tre ore di discussione tra denunce di censura nei consultori milanesi, inviti a iniziative nei luoghi di lavoro o nelle università con il gruppo sulla rappresentanza politica al femminile alla Bicocca, esortazioni all’uso della democrazia digitale delle donne di “Io partecipo”, la disponibilità delle giornaliste di “Controparola”, delle precarie della “Casa di Ilaria”, fino al collettivo “Donna Mostra” che porta in dote un lavoro di un anno per una storia (fotografica e documentale) del movimento delle donne milanesi negli ultimi trent’anni.

Alcuni gruppi di lavoro veri e propri ci sono già, come l’Osservatorio sulla salute della donna, con operatrici del settore e medici che raccontano come l’applicazione della 194 sia ancora da attuare e aiutare, con alcune proposte (presentate da Eleonora Cirant): risposta certa in tempi brevi alla richiesta di interruzione di gravidanza, mediazione culturale, quota di medici non-obiettori obbligatoria negli ospedali (a Milano sono assunti solo antiaboristi), scambio con l’esperienza francese sulla pillola Ru486. Altri hanno più urgenza di ripartire, come la riflessione sul lavoro che torna a contrapporsi con violenza alla scelta di maternità, ricorda Adriana Nannicini. Mentre Nadia De Mond invita tutte a non scordarsi la forza delle due piazze del 14 gennaio e continuare ad approfondire e battersi sui temi della «molteplicità delle scelte sessuali ed affettive».

Il comune denominatore? «Non perdiamo l’occasione», come hanno detto in tante (tra cui Paola Melchiori e Grazie De Benedetti). «Abbiamo bisogno che le nostre parole arrivino subito esempi forti per dire cose forti», dice Nicoletta Gandus di Magistratura democratica. Poi chi entrerà in parlamento vedrà, perché il movimento rimane altro: «Nella fabbrica del programma noi non vogliamo starci, la rete di relazioni rimane il nostro modo di vivere, pensare, fare politica». In breve, come sintetizza Donatella Bassanesi, «va bene interrogare la politica, ma ci vuole un percorso perché il movimento sia un vero interlocutore». Per tutte è chiaro il conflitto da sciogliere tra tempi della politica, necessità di elaborazione e incontro. Giovanna Capelli del Forum donne del Prc è convinta della proposta in campo, «ma ho bisogno di qualcosa di più che non perda l’intimità dei gruppi di affinità, la capacità di stare insieme e affrontare le contraddizioni e i conflitti tra donne». Perché le accelerazioni sono sempre un trauma.

Un solo intervento dissenziente, di Monica Bianchi, che teme «la litania della parità dei luoghi di potere rispetto alla necessità di liberazione, di ridisegnare la propria vita con la ripresa dell’impegno femminista». Le due cose non si escludono, le risponderanno in tante, tra cui Susanna Camusso (appena rieletta alla segreteria generale della Cgil lombarda) che proverà la sintesi finale: «Sono un’inguaribile ottimista, ma non credo si elidano i tempi della politica con quelli dell’elaborazione. Tutte abbiamo bisogno di dare un senso più compiuto e più collettivo alle parole forti del 14 gennaio». Anche per darsi respiro per elaborare e non darlo a chi ha il dovere di rispondere agli attacchi alle donne, alla parola d’ordine più scandita dalla mobilitazione: «Nessuno decida per noi».














Liberazione, 02.02.06
La rivoluzione culturale, un mito finito sotto il controllo dell’esercito
Quarant’anni fa iniziava il gigantesco processo nella società cinese messo in movimento da Mao all’insegna dello slogan “sparate al quartier generale”. Oggi un volume collettivo ne ripercorre la storia
Antonio Moscato


Abbiamo più volte lamentato che gran parte della sinistra che aveva esaltato la rivoluzione culturale cinese, compresi i compagni del Manifesto, importanti numericamente e anche culturalmente, avessero avuto una specie di rimozione nei confronti degli antichi amori senza trarre un bilancio degli esiti e delle stesse sviste interpretative. Oggi Tommaso Di Francesco, della redazione internazionale de “il manifesto”, ma anche scrittore e poeta, affronta la questione in modo stimolante, anche se forse per certi aspetti ancora insufficiente, in un libro collettivo (L’assalto al cielo. La rivoluzione culturale cinese quarant’anni dopo).

L’insoddisfazione viene dal fatto che, se è innegabile che la rivoluzione culturale sia stato un grande fenomeno di massa, almeno inizialmente spontaneo e generato da profonde contraddizioni sociali e politiche, come aveva sottolineato efficacemente Livio Maitan in un libro di grande respiro su Esercito partito e masse nella rivoluzione culturale cinese (che fu allora respinto e ridicolizzato dalla “nuova sinistra” italiana senza farci i conti, con l’unica eccezione di Aldo Natoli, che lo presentò a Roma insieme all’autore), è altrettanto innegabile che fin dalla seconda metà del 1967 questo movimento aveva subito una battuta d’arresto ed era stato sottoposto a un controllo dell’esercito e dell’apparato, ed era poi stato sostanzialmente chiuso con la deportazione di un gran numero di Guardie rosse nell’estate del 1968, cioè proprio quando in Italia, dimenticato e banalizzato rapidamente Che Guevara, iniziava la più smoderata esaltazione acritica di un processo già concluso.

Il pregio del libro principale del libro curato da Di Francesco è l’ampiezza del ventaglio di contributi, da quelli recenti e originali di vari autori, ai due saggi “storici” di Rossana Rossanda e K. S. Karol del gennaio 1978, a un anno dalla morte di Mao e dalla seconda “resurrezione” di Deng Xiaoping, entrambi interessanti e con l’ammissione di alcuni errori di valutazione («concepimmo la palingenesi come più “semplice” del creato», scriveva la Rossanda), ma che consideravano allo stesso modo concluso il processo solo con la morte di Mao.

Il libro curato da Di Francesco invece fornisce la possibilità di una datazione ben diversa. Infatti un pregevole saggio di Alain Badiou, pur rivendicando orgogliosamente la sua partecipazione alla «corrente maoista, l’unica vera creazione politica degli anni ’60 e ‘70», presenta una periodizzazione che rende perlomeno anacronistica la fase di maggiori entusiasmi europei per la rivoluzione culturale, perché vedeva già nel 1967 i robusti tentativi di subordinare il movimento delle Guardie rosse a comitati tripartiti in cui i giovani rivoluzionari erano in minoranza (le altre due componenti erano la cosiddetta “parte sana” dell’apparato e l’esercito, che pur avendo una non lontana origine rivoluzionaria e una funzione non paragonabile a quella che hanno le forze militari nella società capitalistica, non poteva essere neppure considerato uno strumento di partecipazione democratica.

In ogni caso per Alain Badiou fu l’invio di grossi contingenti di lavoratori nelle università alla fine di luglio del 1968 a rappresentare «l’episodio finale dell’esistenza di organizzazioni studentesche indipendenti». Nel 1968, non nel 1978…
Ma la testimonianza più importante sulla chiusura della rivoluzione culturale è quella di Mao. La troviamo nel saggio di Alessandro Russo, buon conoscitore della realtà cinese, che dei tanti documenti delle Guardie rosse non destinati inizialmente alla pubblicazione ma poi apparsi dopo la loro sconfitta in occidente, ha riportato larghi stralci di uno finora inedito in Italia, il verbale della «scena conclusiva», come chiama l’incontro tra i principali esponenti delle Guardie rosse della capitale con Mao, Lin Biao, Jang Qing e Zhou Enlai ed altri dirigenti. Il testo meriterebbe un’analisi più dettagliata, soprattutto per le considerazioni di Mao sulla scarsa utilità degli studi in Cina (ma quanto ci si ritrovano i nostri studenti di oggi!), dato che «i corsi di base sono ripetitivi» e scarsamente utili, mentre quelli «specialistici neanche gli insegnanti li capiscono. I filosofi non sono in grado di parlare della filosofia. Che cosa s’impara a scuola?». L’attacco era diretto soprattutto a Nie Yuanzi, la giovane docente che aveva affisso il primo dazibao nel 1966, ma si allarga a temi più generali: «A che serve studiare filosofia? La filosofia è qualcosa che uno può imparare all’Università? Se uno non è mai stato operaio o contadino e va a studiare filosofia, di che filosofia si tratta?»

E la stessa cosa viene riproposta per la letteratura, che secondo Mao si studiava in modo che «il cervello si pietrifica». E Zhou Enlai ricorda a questo proposito che uno scrittore autodidatta di origine contadina, Gao Yubao, esaltato e inviato all’università come esempio della democratizzazione degli studi, aveva smesso subito di scrivere. Mao sottolineava che tutti i grandi marxisti non avevano laurea o se l’avevano, a partire da Marx, non avevano fatto certo carriera accademica. «Chi ha fatto l’esame a Marx? A Engels? A Lenin? Al compagno Lin Biao? I nostri insegnanti sono stati i bisogni delle masse e Jang Jeshi», cioè il nemico. Ben vengano invece le biblioteche per uno studio libero e autonomo: «le università sono mortalmente noiose, dovrebbero funzionare con maggiore libertà».

Mi rendo conto che forse questi brani mi hanno colpito tanto perché coincidono col giudizio sull’Università che avevo da studente e ho ancor oggi da docente “atipico”. In realtà in quel momento quel giudizio drastico preludeva a quanto si stava preparando: chiudere per un certo tempo le università e disperdere ai quattro angoli del paese le Guardie rosse. Deportarli, in altre parole, nelle zone più remote della Cina più arretrata. E questo fu deciso appunto alla fine del luglio 1968, prima della grande ondata di entusiasmo acritico per la rivoluzione culturale in Europa.

Bisognerà riprendere la discussione, facilitata indubbiamente da questo libro efficace e ben articolato, ma che dovrebbe affrontare direttamente i testi, in particolare quelli scritti da Mao in quegli anni e non compresi nella raccolta ufficiale delle opere. Parecchi di essi, essendo stati riprodotti in centinaia di migliaia di copie underground durante la rivoluzione culturale, hanno finito per arrivare anche a Hong Kong e poi in Europa e negli Stati Uniti.

Tra questi, riprodotti in due volumi interessantissimi (Mao Tse-tung, Note su Stalin e il socialismo sovietico, a cura di Hu Chi-hsi, Prefazione di Aldo Natoli, Laterza, Roma-Bari, 1975; Mao Tse-tung, Su Stalin e sull’Urss. Scritti sulla costruzione del socialismo, Introduzione di Gianni Sofri, Einaudi, Torino, 1975) ma che ebbero scarsa eco per il periodo in cui apparvero in Italia, c’era anche una critica allo stesso Manuale di Economia stroncato nel 1966 da Che Guevara nel più importante degli inediti, che ha alcuni punti di contatto sicuramente non casuali e che illuminando sul complesso rapporto di Guevara con la Cina. Il Che potrebbe averne avuta una copia nel suo ultimo viaggio a Shangay nel 1965, o da un ignoto simpatizzante presente nella affollatissima ambasciata di Pechino a Dar es Salaam, durante il suo soggiorno in quella città dopo il ritorno dal Congo e prima del suo passaggio clandestino per Praga, prima della Bolivia. Un problema stimolante, su cui ritornare.




La Stampa, 01.02.06
RITORNA UN CLASSICO DI BOBBIO: E' L'OCCASIONE PER FARE CHIAREZZA SU DUE TERMINI CHE MOLTI CONFONDONO, CON CONSEGUENZE PARADOSSALI
Si fa presto a dire liberaldemocratico
di Franco Sbarberi



Da tempo la prospettiva della rivoluzione comunista non riscalda più i cuori delle masse diseredate del mondo. Si sta dunque affermando un'egemonia indiscussa dei valori autenticamente liberali (come sostengono alcuni) o siamo invece entrati nell'era di un liberalismo eclettico, cinicamente cavalcato dai soggetti più spregiudicati? L'uso vago e teoricamente indifferenziato dei concetti di liberalismo, democrazia, liberaldemocrazia da parte di vasti settori dei mass media e della classe politica viene giustamente sottolineato da Franco Manni nella sua introduzione alla ristampa del libro di Norberto Bobbio Liberalismo e democrazia (Simonelli editore, pp. 153, e10): «quasi tutti confondono tali parole, e le danno rassegnatamente per sinonimi, sì che la confusione diventa la norma, la norma diventa inconsapevole, l'inconsapevolezza si diffonde per contagio, ed ecco che abbiamo quel che si dice un Luogo Comune».

Si è giunti, per molti aspetti, a una situazione paradossale. Dopo un secolo in cui hanno dominato le ideologie totali, chi aveva delle identità forti costruite sull'antitesi amico/nemico tende a rimuoverle o ad annacquarle; chi non ha mai avuto radici proprie va a cercarle in casa altrui, variamente distorcendole. La riduzione dei principi liberali e democratici a nozioni elastiche, buone a tutti gli usi, si deve a disparate convenienze politiche, maturate perlopiù nell'ultimo decennio. Ma a questo maquillage ideologico contribuisce anche la scarsa consapevolezza generale che il liberalismo e la democrazia provengono da famiglie distinte, diversamente orientate al loro interno sin dalle origini e solo parzialmente convergenti nel corso del Novecento.

Chiariamo questo problema cruciale. Il liberalismo politico è una teoria moderna nata dalla confluenza tra due correnti di pensiero: un filone inglese inaugurato da Locke, empirico e moderato, e un filone continentale legato all'illuminismo francese, razionalista sul piano filosofico e radicale a livello politico. Nell'Ottocento, questi due diversi orientamenti si trovano fusi nel pensiero di John Stuart Mill, sostenitore fervido di una «eguale libertà di sviluppo per tutti». Ma una corrente moderata e una avanzata del liberalismo europeo sono facilmente percepibili fino ai giorni nostri.

Oggi come ieri, per liberalismo si intende quella concezione della politica che introduce la limitazione del potere e delle funzioni dello Stato attraverso lo strumento della legalità costituzionale. L'opposto dello Stato liberale è dunque lo Stato assoluto, in qualunque forma si presenti. Per un verso, il liberalismo traccia un confine netto tra sfera pubblica e sfera privata per salvaguardare le libertà fondamentali degli individui; per un altro, esige che sia applicato in termini rigorosi il principio della divisione dei poteri, cosicché «il potere limiti il potere». Sono queste le parole illuminanti di Montesquieu, convinto che l'istinto di dominio sia quella «malattia eterna \ di cui ogni uomo che ha potere è portato ad abusare finché non incontra dei limiti» (Lo spirito delle leggi, XI, 4).

La difesa appassionata dell'indipendenza individuale, riproposta nell'Ottocento anche da Constant, ha una validità permanente. Il potere politico, infatti, se non è limitato per legge e sottoposto a controlli pubblici, tende per sua natura a espandersi, e in taluni casi a fondersi pericolosamente con altre forme di potere, come l'esperienza prima del fascismo, poi dell'ultimo decennio ha insegnato anche al nostro paese. È singolare che leader politici che fanno martellante professione di liberalismo non rinuncino motu proprio alla concentrazione dei poteri pubblici e privati. Essa infatti genera rapporti neo-patrimoniali con lo Stato, tipici dei regimi assoluti. Ma su questo problema converrà tornare in un altro momento.

Passiamo ora al termine democrazia. Con esso si allude a quella forma di governo in cui il potere è gestito dai più, siano essi il popolo dei liberi, come nell'antichità, o la maggioranza dei cittadini attraverso i loro rappresentanti, come negli Stati democratici moderni. Se l'opposto dello Stato liberale è lo Stato assoluto, l'opposto dello Stato democratico è l'autocrazia, tanto nella forma monarchica quanto in quella oligarchica. In altre parole: il liberalismo porta l'attenzione sui limiti strutturali che deve avere il potere statale; la democrazia privilegia i soggetti che devono esercitarlo. Governo limitato in un caso, governo dal basso nell'altro.

Se liberalismo e democrazia sono nati come dottrine tendenzialmente in conflitto, la pratica politica dei paesi più avanzati ha reso possibile tra Ottocento e Novecento la formazione di Stati liberaldemocratici, prima mediante l'allargamento del suffragio ristretto, poi con il suffragio universale maschile e femminile, sotto l'impulso costante dell'associazionismo politico. Il rapporto tra liberalismo e democrazia si è poi consolidato anche per altre vie. Una democrazia rappresentativa a suffragio universale esige infatti precise regole del gioco a salvaguardia della libera partecipazione dei cittadini: la tutela delle libertà personali e della libertà di pensiero; l'esistenza di una pluralità di partiti che competano in piena autonomia per le alternanze di governo; decisioni collettive assunte in base al principio di maggioranza; rigorosa salvaguardia dei diritti delle minoranze.

Un altro problema va ora chiarito. La nascita e lo sviluppo del movimento socialista hanno posto (e continuano a porre) all'intera famiglia liberaldemocratica la «questione sociale». La storia dei diritti dell'uomo ha vissuto una svolta decisiva quando si è passati dalla richiesta dei diritti civili e politici (i diritti della «prima generazione») a quella dei diritti sociali (i diritti della «seconda generazione»). Dal principio di universalità, sancito nel 1789 («Tutti gli uomini nascono e rimangono eguali e liberi nei diritti»), al principio di differenza, che privilegia la persona storicamente determinata. Nel caso delle differenze di età, salute, potere economico, cultura, sesso, è la specificità delle singole persone, e non tanto la comune appartenenza al genere umano, che deve essere riconosciuta e tutelata.

Mentre la battaglia per l'universalizzazione dei diritti civili è stata intrapresa dall'intera famiglia liberale, solo l'ala radicale del liberalismo, il movimento democratico e quello socialista si sono prima battuti per l'universalizzazione dei diritti politici e poi per l'acquisizione dei diritti sociali. Ciò che ha diviso (e continua a dividere) la famiglia liberale non è l'idea che gli uomini debbano essere eguali nel diritto alla libertà, bensì il giudizio su quali beni primari debbano essere inclusi nella nozione di libertà e quali no.

Anche nel Novecento, per un filone conservatore del liberalismo - esemplarmente rappresentato da Mises e da Hayek, da Nozick e da Milton Friedman - una società che si autoregola sulla base della proprietà privata e del contratto deve rispettare i principi della giustizia commutativa (in primo luogo lo scambio alla pari tra prestazione e controprestazione), ma non quelli della giustizia distributiva (ovvero la perequazione permanente dei beni da parte dell'autorità pubblica), perché ciò livellerebbe illegittimamente capaci e incapaci.

Altri teorici del liberalismo invece, come Rawls e Dworkin, Walzer e Sen, più sensibili alla tradizione solidaristica del movimento democratico, sostengono che la politica non è riducibile alla lotta per acquisire vantaggi economici. Essa deve creare anche le condizioni oggettive di una partecipazione libera e consapevole dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, attraverso il riconoscimento e la soddisfazione dei diritti sociali (a partire dal diritto all'istruzione, al lavoro e alla salute).

Se ora torniamo al problema sollevato all'inizio, possiamo trarre la seguente conclusione. Soltanto la piena consapevolezza delle diverse opzioni presenti all'interno della famiglia liberaldemocratica è funzionale a una democrazia «di indirizzo» (come l'ha definita Leopoldo Elia), che antepone la scelta ragionata di un programma di governo a quella del leader che è chiamato a realizzarlo.

La generica adesione a non meglio precisati valori liberaldemocratici favorisce invece una democrazia «di investitura», che privilegia la scelta del capo rispetto a quella di un coerente progetto politico. La democrazia di indirizzo presuppone e sollecita soggetti individuali e collettivi informati e partecipi (una comunità di cittadini organizzati). La democrazia di investitura sorregge e incentiva i «partiti personali» e l'apatia politica dei più. Se non sono precisati i valori che la ispirano e le priorità programmatiche che ne derivano, la politica, da chiunque gestita, si riduce a pura competizione per il potere





















Corriere della Sera, 31.01.066
Percezione
Perché i cinque sensi non ci bastano più
Ne sono stati accertati almeno 21. Ma per alcuni sono oltre 30.
Oggi si va scoprendo una complessa rete sensoriale, per lo più inconsapevole


Hanno avuto successo a Berlino, a Parigi, a Londra, a New York e da qualche mese sono approdate anche a Milano. Sono le «Cene al buio» (Dinner in the dark, per dirla con gli americani), studiate per far riscoprire sensi sopiti. Ad occhi bendati si «annusa» un piatto, lo si tocca, si cerca di identificare gli ingredienti. E si fanno belle scoperte, a quanto sembra. Ma se il gradimento per questa iniziativa dimostra che non usiamo al meglio i cinque sensi canonici (gusto, olfatto, vista, tatto e udito), la ricerca nel campo del sensoriale, passando dal macroscopico al microscopico, potrebbe approdare ad esperimenti e conclusioni ben più arditi. Ne è convinto Bruce Durie, scrittore e giornalista scientifico scozzese, presidente dell’Edimburgh Science Festival, che lancia una provocazione: senso è tutto quello che fa riferimento a un’informazione sensoriale specifica che arriva al cervello, indipendentemente dalla nostra consapevolezza dell’evento. In questa chiave diventa senso anche la percezione, ad esempio, di avere lo stomaco pieno. Ma andiamo per gradi.

L’informazione sensoriale viene captata da minuscoli «sensori», i recettori, presenti negli occhi, nelle orecchie, sulla lingua, sulla pelle, ma anche negli organi interni, nelle arterie, nei muscoli, nelle articolazioni. Recettori dei quali si conosce sempre di più, scoprendone funzioni altamente specializzate. Nell’occhio, ad esempio, questi si dividono in coni e bastoncelli che captano tre colori diversi, sulla lingua sono piccoli bottoni gustativi che distinguono l’acido, l’amaro, il dolce, il salato. Da poco si è scoperto che ce n’è uno specifico per il glutammato, l’umami, identificato per la prima volta, non a caso, nei giapponesi. Si può continuare a dire che la vista è una sola e non lasomma di quattro sensi diversi (luce, colore rosso, verde e blu) e il gusto graniticamente uno?

In questa chiave analitica, recettoriale, se andiamo avanti, di sensi ne contiamo parecchi: ventuno, accettati dalla maggior parte dei ricercatori in questo settore, forse di più. C’è chi dice oltre trenta. «I sensi sono basati su informazioni sensoriali numerose quanto i recettori che le trasportano, ma per promuoverle a "sensi" ci vuole la dimostrazione che arrivino alla corteccia e vengano elaborate, identificate come t a l i — commenta Gianpiero Zucca, professore di fisiologia generale dell’Università di Pavia, ricercatore sui recettori sensoriali —. Questa prova ancora non c’è. D’altro canto non possiamo nemmeno escludere un’ipotesi del genere. Esistono nell’uomo sensi ancora inesplorati, la sensibilità al campo elettrico o al campo magnetico, ad esempio. D’altro canto è ben noto che certe persone avvertono i terremoti in arrivo: analogamente agli animali ne sentono l’imminenza. Perché? Si pensa che sia in gioco un’estrema sensibilità alle vibrazioni, capace di percepire il fenomeno sismico ai suoi albori. Altro esempio sono i gemelli monovulari, capaci anche a distanza di sentire se all’altro sta succedendo qualcosa. E perché ancora, il dolore dell’infarto e solo quello, si accompagna alla sensazione di morte imminente? Non lo sappiamo.

In realtà il mondo sensoriale dell’uomo non ci è ancora noto quanto sarebbe necessario. Così come sarebbe importante rianalizzare le nostre convinzioni sulle informazioni della posizione del corpo nello spazio, fornite dai recettori presenti nei muscoli e nelle articolazioni. Non ne abbiamo coscienza, però arrivano senza dubbio alla corteccia cerebrale. Lo dimostra il fatto che, anche chiudendo gli occhi, siamo consapevoli della posizione del braccio, se è sul bracciolo di una poltrona, lungo il corpo o sollevato ». Ma Bruce Durie va ben oltre, ipotizzando che i recettori presenti nelle arterie e nelle vene siano veri e propri sensi perché vengono elaborati dalle corteccia cerebrale in quella che i medici chiamano omeostasi, equilibrio metabolico dell’organismo, ovvero la percezione di benessere e di stare in buona salute. Questi recettori sono tanti, sparsi all’interno di tutti gli organi e ormai ben conosciuti: percepiscono la pressione del sangue dentro i vasi, il contenuto di ossigeno del sangue, la differenza del livello degli zuccheri fra il sangue venoso e quello arterioso,ma anche il grado di riempimento dello stomaco e della vescica, quanta aria è presente nei polmoni. Gli studi sul mondo animale quanto ci possono essere d’aiuto in questa ricerca? «Per capire il sistema sensoriale dell’uomo abbiamolavorato soprattutto sulla rana.Manon dimentichiamo che gli animali sono dotati di sensi che non esistono nell’uomo — risponde Zucca —. La sensibilità agli ultrasuoni che i pipistrelli utilizzano come sistema di navigazione, ad esempio. Noi umani non abbiamo sensibilità a quelle frequenze.

I serpenti vedono l’infrarosso che in loro, animali a sangue freddo, identifica la preda. Gli insetti, vedendo l’ultravioletto e la luce polarizzata, riescono ad orientarsi nella ricerca del cibo. È evidente che siamo di fronte ad un percorso evolutivo completamente diverso che ha condizionato pesantemente le capacità sensoriali: gli animali hanno nel tempo ipertrofizzato quei sensi che erano più utili alla sopravvivenza e al controllo del territorio. L’uomo, al contrario, non ha guadagnato nei millenni il privilegio di un senso particolarmente spiccato; in compenso, ha sviluppato un cervello enormemente complesso. «Forse il problema è proprio qui—conclude il fisiologo— . Gli scienziati oggi sono assolutamente convinti che il "sesto senso" dell’uomo sia la corteccia cerebrale e sottovalutano l’importanza di ulteriori studi in campo sensoriale. L’enorme successo delle neuroscienze e gli investimenti di risorse in questo tipo di studi ne sono la prova più evidente ». Che sia arrivato il momento di studiare i pranoterapeuti? Chissà!
Franca Porcini





















La Stampa, 01.02.06
E’ un jogging interiore che fa restare sani
CERVELLO, CUORE, POLMONI E SISTEMA IMMUNITARIO SI TRASFORMANO. «E L’ORGANISMO SI RAFFORZA»


PARTE dal cervello, passa per la bocca ma arriva fino a cuore, polmoni e oltre. Una risata coinvolge l’intero organismo, tanto che la medicina prende in considerazione sempre più seriamente il suo valore terapeutico. Secondo il pioniere degli studi sugli effetti della risata, lo statunitense William Fry, psichiatra a Stanford, ridere è un «jogging interiore»: 100 risate al giorno avrebbero lo stesso effetto di 10 minuti al vogatore. Perché ridere mette in movimento apparato respiratorio, sistema cardiovascolare, muscolatura di tutto il corpo. Ma che cos'è una risata? E’ una reazione nervosa che può essere scatenata da molte cause, accomunate da un senso di sorpresa di fronte all'interpretazione di un evento. Studi di «imaging cerebrale» (l’osservazione dell'attività del cervello con la risonanza magnetica e l'elettroencefalogramma) hanno mostrato che nei momenti che precedono il riso, per esempio durante l'ascolto di una barzelletta, alcune aree del cervello diventano particolarmente attive in sequenza, da quelle coinvolte nella comprensione del linguaggio a quelle emotive, fino a un picco di attività (il momento in cui si capisce la barzelletta) a cui fa seguito la risata. Che, dal punto di vista fisiologico, è una espirazione spasmodica, con la glottide aperta e la vibrazione delle corde vocali. In quei momenti aumentiamo la quantità d'aria scambiata tra i polmoni e l'esterno, liberandoci di quell'aria residua, ricca di anidride carbonica, che la normale espirazione non elimina. Così si aiuta a prevenire le infezioni e migliora l'ossigenazione del sangue. Inoltre, il battito cardiaco accelera e la pressione sanguigna sale, favorendo il ritorno al cuore del sangue venoso e la pulizia dei vasi sanguigni. E’ un dato confermato sulla rivista «Heart» da Michael Miller dell'Università del Maryland, che ha mostrato a due gruppi di persone sequenze di un film comico («Tutti pazzi per Mary») e di uno drammatico («Salvate il soldato Ryan»): nel primo gruppo il flusso sanguigno nei vasi aumentava del 50%. Quanto ai muscoli, per ridere se ne mettono in moto una sessantina, da quelli facciali e quelli delle spalle, del diaframma e dell'addome. E se quelli coinvolti nella risata si contraggono, il resto della muscolatura si rilassa, alleviando le tensioni. Anche il sistema endocrino (quello formato dalle ghiandole che secernono ormoni) viene coinvolto. Diversi studi suggeriscono che ridere riduca i livelli di cortisolo, epinefrine, dopac e ormone della crescita, i cosiddetti «ormoni dello stress», che restringono i vasi sanguigni e ostacolano l'attività del sistema immunitario. È poi un’ipotesi condivisa che venga stimolato il rilascio di endorfine (gli analgesici naturali), aumentando la resistenza al dolore. Ridere, infine, sembra dare una mano al sistema immunitario: Kathleen Dillon del Western New England College, Massachusetts, ha dimostrato che nella saliva di soggetti che guardano un film comico aumenta la concentrazione di immunoglobuline A. Queste molecole sono la prima difesa contro gli agenti infettivi che entrano dai canali respiratori. Studi della Loma Linda University, California, hanno anche documentato che ridere aumenta i linfociti T e le cellule «natural killer» presenti nel sangue, tutti elementi fondamentali della risposta immunitaria. Il messaggio è chiaro: ridere è una medicina, per di più senza controindicazioni.
Nicola Nosengo









La Stampa, 01.02.06
PSICOLOGIA, MATEMATICA E MEDICINA
La femmina umana si conquista ridendo


LE donne apprezzano gli uomini spiritosi e gli uomini apprezzano le donne che ridono alle loro battute. Se l'amore è cieco, il senso dell'umorismo ha invece il pregio di attirare l'attenzione e di preparare il terreno all'innamoramento e ai rapporti intimi. A questa duplice conclusione sono giunti due studi americani pubblicati su «Nature»: uno svolto nell’università dell'Ontario da Eric Bressler e Sigal Balshine e l'altro nell’università del New Mexico da Geoffrey Miller. Entrambi gli studi sono stati condotti con il metodo dell'intervista, a cui hanno risposto studenti e studentesse di college americani. Che dire di questi risultati? Che il senso dell'umorismo contribuisca a creare un clima di intimità favorevole alla formazione di un rapporto sentimentale o sessuale è un fatto senza dubbio condivisibile: le persone spiritose sanno cogliere il lato lieve della vita, sdrammatizzano, comunicano allegria e, quando vogliono conquistare qualcuno, il loro impegno nel rendersi simpatici aumenta ulteriormente. E' una delle strategie vincenti del corteggiamento e della vita in società. Il fatto invece che donne e uomini, pur valutando entrambi positivamente il senso dell'umorismo, si posizionino diversamente - l'uno prendendo l'iniziativa, l'altra mostrando di divertirsi e di apprezzare - indica che tra gli studenti nordamericani continuano a funzionare i vecchi cliché. In quel gioco delle parti che si crea durante il corteggiamento le donne continuano a lasciare il ruolo principale agli uomini: una strategia molto antica e molto nota alle donne che sanno come alimentare il narcisismo maschile. Ciò su cui invece si può avere qualche riserva è un'altra spiegazione, molto teorica e generale, fornita dai ricercatori. Secondo Bressler, Balshine e Miller, all'origine di questa sottile dinamica tra i due sessi, ci sarebbe quello che gli psicobiologi definiscono un «vantaggio evolutivo». Le donne resterebbero bene impressionate dall'umorismo degli uomini e gli uomini dalla capacità delle donne di apprezzare il loro humor, perché saper scherzare è indice di creatività e intelligenza: scegliere come proprio partner un uomo spiritoso e/o una donna che ha il senso del comico aumenterebbe le probabilità per entrambi di avere dei figli intelligenti e con maggiori possibilità di sopravvivenza. Ma per il momento si tratta di un’ipotesi, non certo di una prova. Uno dei meriti di questo studio è però anche quello di far nascere altri interrogativi. Superata la fase iniziale del corteggiamento, quali possono essere le evoluzioni successive? Quali i vantaggi e i potenziali svantaggi dell'umorismo sul lungo periodo? Su questo punto i ricercatori americani non si sono pronunciati, ma non è difficile immaginare degli scenari. I vantaggi sono lampanti. Una battuta spiritosa può capovolgere una situazione e riportare il buon umore. A volte nulla funziona meglio di un po' di umorismo, specialmente se proviene dall'interno della coppia piuttosto che dall'esterno. C'è dinamismo, creatività, allegria e la sensazione che molti problemi possono essere risolti. Ci sono però anche dei rischi potenziali. Il maggiore è forse quello di voler risolvere tutto con battute di spirito anche quando bisogna affrontare questioni che richiedono serietà e approfondimento. L'umorismo ad oltranza può anche essere un modo per creare una distanza tra i membri della coppia: in casi del genere la battuta spiritosa invece di facilitare la comunicazione e favorire l'intimità finisce per creare delle barriere. Un altro potenziale svantaggio si verifica quando un dei due usa l'umorismo come arma per colpire l'altro senza assumersi la responsabilità dell'attacco («era solo uno scherzo!») oppure per ridicolizzarlo. L'umorismo ha molte facce e sfumature. Dato il potere di seduzione che possiede, quando un uomo lo usa per far colpo su una donna questa dovrebbe domandarsi se è interessata a quell'uomo o no. Se la risposta è «no», dovrebbe cercare di non ridere troppo alle sue battute, perché questa reazione viene interpretata, dalla controparte, come un via libera per «avances» e profferte amorose.
Anna Oliverio Ferrarsi



La Stampa, 01.02.06
Dai numeri le formule dello humor


C’E’ una formula per lo humor? I matematici e i logici ne sono convinti: i rapporti tra numeri e umorismo sono più stretti di quanto si possa immaginare. La matematica, infatti, è gioco, risata, divertimento e usa le stesse operazioni e le stesse strutture dell'umorismo. E' quindi lo strumento più appropriato per tentarne una misura e una valutazione. Gabriele Lolli, logico dell'università di Torino, ha messo in evidenza queste affinità nel saggio «Il Riso di Talete - Matematica e Umorismo» e ha costruito un percorso che analizza le diverse situazioni del «riso matematico», partendo da quelle più semplici, vale a dire dalle risate provocate dai matematici imbranati, protagonisti di tante barzellette. Per esempio: Il figlio di un logico torna a casa e racconta che è arrivato a scuola un nuovo compagno, ma è difficile parlargli, perché non sa una parola di italiano. «Ah sì?», chiede il padre soprappensiero: «Quale?». Ma secondo i matematici il divertimento più grande proviene proprio dal loro lavoro, che considerano il più grande gioco mai inventato dall'uomo. Ed è sufficiente ripercorrere la storia della matematica per vedere lo stretto rapporto tra numeri e gioco: dalle filastrocche matematiche dell'Antico Egitto ai giochi di Archimede (lo «Stomachion»), dai giochi di Eulero fino a «Life», inventato da John Conway, uno dei più celebri matematici viventi.
I paradossi sono alla base dell’umorismo. Borges pensava che fossero la prova del carattere allucinatorio del mondo. «Quello che li accomuna - spiega Lolli - è l'aspetto divertente, perché si tratta di sorprese, e all'inaspettato, come alla paura, si reagisce con il riso». Per esempio: «Pietro è apostolo, gli apostoli sono 12, quindi Pietro è 12». Un paradosso che è già barzelletta. Nel saggio «Mathematics and Humor» John Allen Paulos arriva a presentare un modello matematico della barzelletta, partendo da alcune idee della «teoria delle catastrofi». Il modello è ben evidente nel caso di una storia ambigua, in cui sono presenti due diversi significati, e lo sviluppo può portare verso l'uno o più verso l'altro, finché non si arriva alla battuta cruciale, la «punch line», che provoca la «catastrofe» dello scambio delle interpretazioni. Nella barzelletta, come nella matematica, si parte da fenomeni all'apparenza confusi per trovare schemi e «armonie». Un esempio: Che differenza c'è tra il primo amore e una chitarra? Il primo amore non si scorda mai...
Federico Pei retti




















La Liberazione, 01.02.06
Lettera a Storace «Lascia decidere me e le donne come me»
Cara "Liberazione", ho scritto una lettera a Francesco Storace, ma non ho trovato un suo recapito sul web. Te ne inoltro una copia.


Caro Francesco Storace, sono una studentessa-lavoratrice di 28 anni. Non sono molto brava con le parole, vorrei solo raccontarti la mia storia, e quella di altre ragazze che mi camminano accanto in questo difficile e splendido percorso dell'essere donna. In casa mia non si è mai parlato di sesso, non almeno quando ne avevo il bisogno. Nell'età in cui ho iniziato a farmi domande e ad essere curiosa la mia famiglia non se ne è mai preoccupata. Ho dovuto fare tutto da sola, informarmi su quei giornaletti per adolescenti cercando di carpire qualche informazione in più. Non sapevo proprio a chi rivolgermi. Mi sono sentita così inadeguata in quel periodo delicato della mia vita! Dovrebbe essere questa la prevenzione di cui tu parli tanto, non prevenzione dell'aborto, ma informazione! Le giovani donne devono essere informate. Ad esempio, prendiamo in considerazione il coito interrotto. E' assurdo che sia ancora uno dei metodi più usati! Ha la percentuale di fallimento più elevata!
Ma dov'è l'informazione? E i consultori gestiti da volontari super partes? Le donne che decidono di interrompere una gravidanza indesiderata lo fanno comunque, con o senza la RU486. Perciò trovo sia una barbarie il fatto che vengano sottoposte ad un intervento chirurgico quando se ne potrebbe fare a meno, come se il dolore fosse una punizione per aver vissuto appieno un rapporto umano, intimamente legato alla realtà sessuale. E se la tua preoccupazione è un'eccessiva "leggerezza" nella considerazione della serietà della cosa, ti consolo io con le storie delle persone che mi vivono accanto: nessuna che io conosca delle mie più grandi amiche e compagne di viaggio ha mai affrontato la propria vita e la propria sessualità con leggerezza, e neanch'io. Quando si interrompe volontariamente una gravidanza si è già al passo successivo. E' il momento in cui succede quello che mai e poi mai avresti voluto.
Francesco, lascia decidere a me, e a milioni di altre donne come me, come camminare e chi portarci dietro, o meglio accanto. Solo noi possiamo saperlo.
Serena via e-mail











La Liberazione, 01.02.06
Approvata l'indagine conoscitiva sull'aborto.
Si astiene Moroni. Aria fritta per l'Unione, ma Volonté (Udc) rilancia: «La modificheremo nella prossima legislatura»
Il flop del ministro Storace: la 194 è una legge giusta
di Gemma Contin


Erano andati per suonarle, alle donne, rimettendo le zampe sulla legge 194. E invece, come i pifferi di montagna, sono stati suonati, il segretario dell'Udc Cesa il presidente della Camera Casini e il cardinal Ruini, una prima volta, il 14 gennaio, dalla possente manifestazione delle donne a Milano, e una seconda, ieri, dai risultati della «indagine conoscitiva sull'applicazione delle norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza».

Indagine, come si ricorderà, voluta, con gran battage mediatico e vociazzate inaudite, dalla Chiesa cattolica e dal centrodestra e sponsorizzata elettoralmente dal ministro della Salute Francesco Storace che adesso, per ritorsione, si accanisce contro la pillola Ru486.

Ieri a Montecitorio, nella sala del Mappamondo, la commissione voluta, anzi pretesa, dalle anime governative più obbedienti all'oscurantismo clericale sulle questioni che riguardano famiglia sessualità maternità e aborto, ha dovuto ammettere, per bocca della deputata berlusconiana Chiara Moroni (Nuovo Psi di Gianni De Michelis) che l'indagine conoscitiva era inutile e che i dati (raccolti in fretta e furia in tre settimane a fine legislatura, sperando di poterli utilizzare per un altro manifesto elettorale) hanno smentito l'intero impianto critico che le anime belle della Casa delle Libertà avevano cercato di "montare" sull'Ivg, l'interruzione volontaria della gravidanza già riscaricata come una colpa sulla schiena delle donne e sulla "cattiva" coscienza femminile, anzi femminista.

Scorno totale, per Casini Ruini Cesa e Storace, perché l'indagine - non ha potuto non dire il presidente della Commissione Affari sociali Giuseppe Palumbo - ha confermato nei numeri, nelle statistiche e nelle audizioni dei rappresentanti delle strutture sanitarie, dei consultori, degli ordini professionali e delle associazioni di volontariato, compreso quello parareligioso, l'impianto della 194, la correttezza della sua applicazione, la validità del supporto fornito dai consultori famigliari, l'alto livello professionale degli operatori sanitari e sociali.

Dunque nessun abuso. Semmai una ancora insufficiente capacità di far conoscere la legge, la sua applicazione, le strutture di assistenza e di sostegno a cui rivolgersi, alle immigrate e alle minorenni, verso le quali sarebbero necessari appositi programmi di informazione e di educazione alla prevenzione. E una carenza di servizi, dagli asili nido al tempo scolastico prolungato, e di iniziative a sostegno delle donne che vivono di lavoro instabile e in precarie condizioni di vita.

«La relazione dice che la legge 194 è giusta e che l'indagine è inutile», ha detto la deputata di Rifondazione comunista Tiziana Valpiana, anticipando che il centrosinistra non avrebbe neppure l'avrebbe neppure votata e stigmatizzando il comportamento del presidente della Commissione che, introiettando i comportamenti irrispettosi delle istituzioni del berlusconismo, ha consegnato il documento conclusivo ai giornalisti prima ancora che la Commissione ne avesse discusso i contenuti e lo avesse formalmente approvato.

«Come si è visto - afferma Valpiana - i problemi non si risolvono con crociate ideologiche ispirate dal cardinal Ruini, ma si affrontano con strumenti, sostegni, servizi e opportunità». Cosa fatta dal centrosinistra con le leggi sui consultori dove operano una pluralità di figure professionali e di voci, non tentando verso le donne strumentali prediche dissuasive ma assicurando loro il sostegno medico, psicologico e sociale necessario ad affrontare una difficile decisione; «senza spacciare l'apostolato cattolico, che dovrebbe essere gratuito, per volontariato privato da infilare nei consultori, per il quale tra l'altro si chiedono risorse pubbliche».

Furibonda la reazione dell'Udc che per bocca del capogruppo alla Camera Luca Volonté ha attaccato "la crociata anticlericale" della parlamentare del Prc, anticipando e minacciando che comunque il centrodestra rimetterà le mani sulla legge «nella prossima legislatura» per limitarne usi e abusi. Insomma, questi non ascoltano e non imparano niente neppure dalle indagini che conducono e dai documenti che votano in splendida solitudine.

Prima di lasciare la Commissione, anche l'ex ministra della Sanità Rosi Bindi, a nome della Margherita, ha parlato di «un'indagine in cui non ci riconosciamo, usata con cinismo dalla maggioranza come arma impropria a fine legislatura. Un inutile atto propagandistico». E di «inutilità e pretestuosità» ha parlato anche la deputata diessina Grazia Labate, che ha accusato la maggioranza, tra l'altro, di non aver fatto «neanche il minimo accenno alla riduzione delle misure già insufficienti nelle Finanziarie del centrodestra».

In conclusione tutte le parlamentari dell'Unione si sono rifiutate di votare il documento finale, approvato dalla sola maggioranza con l'astensione di Chiara Moroni, e hanno tenuto una conferenza stampa in cui si è detto che «si evince dallo stesso documento della maggioranza che le uniche leggi a sostegno della famiglia e della maternità sono state quelle fatte dal centrosinistra. Una pratica - ha detto alla fine l'ex ministra diessina Livia Turco - che riprenderemo ritornando al governo, per coprire il vuoto fatto dal Polo attorno alle donne e alle questioni che le riguardano».

















La Liberazione, 01.02.06
«La Chiesa non fa politica» ma ci prova
di Fulvio Fania


Il Papa: interveniamo «non in prima persona». La Cei insiste: famiglia e "vita" sono contenuti irrinunciabili per scegliere chi votare. Criticata la legge Far West
Città del Vaticano - La Chiesa non fa politica. E no, la fa, eccome. La giostra delle affermazioni che sembrano contraddirsi, spesso solo in apparenza ma non completamente, ha ripreso a girare, con una lettera del Papa a Famiglia cristiana e un documento del Consiglio permanente della Cei. Con l'aggiunta di un duro messaggio antiaborto dei vescovi, già presentato a novembre e rilanciato proprio ieri in vista della "Giornata per la vita".

Spiegando la sua recente enciclica ai lettori del settimanale paolino, Benedetto XVI scrive: «Di sua natura la Chiesa non fa politica in prima persona bensì rispetta l'autonomia dello Stato». E tuttavia - precisa il Papa - «la Chiesa partecipa appassionatamente alla battaglia per la giustizia». In un altro documento dedicato alla Quaresima Ratzinger sostiene che i «cristiani dovranno imparare a valutare i programmi di chi li governa».

Anche i vescovi italiani, ripetendo Ruini, fanno dichiarazioni di principio rassicuranti ma per entrare poi in campo politico. La Cei promette il «non coinvolgimento della Chiesa e quindi dei pastori e degli organismi ecclesiali rispetto agli schieramenti politici e ai partiti». Ci sono però «contenuti irrinunciabili» ai quali i cattolici dovranno prestare «una speciale attenzione» e, manco a dirlo, in prima fila figurano la famiglia fondata sul matrimonio e «la difesa della vita dal concepimento al termine naturale». Traduzione: no all'eutanasia e no all'aborto, che secondo il "messaggio per la vita" sarebbe una «soppressione diretta di vite innocenti» alla quale le donne ricorrerebbero nientemeno che «con leggerezza».

Nella sua relazione all'esecutivo dei vescovi, il cardinale Ruini si era aggrappato a Ratzinger: i valori sostenuti dalla Chiesa «non sono norme peculiari della morale cattolica ma verità elementari della comune umanità». Deve essergli sembrato ancora insufficiente. E così nel comunicato finale Cei, la pressione sui "contenuti irrinunciabili" è aumentata, chiamando a conforto anche Wojtyla il quale, dopo la fine della Dc, esortò i cattolici ad evitare la «diaspora culturale» e la «facile adesione a forze» in contrasto con la dottrina. Persona, rispetto della vita umana, famiglia, libertà scolastica (ovvero scuola privata), solidarietà, giustizia e pace erano i principi cardine ai quali elettori ed eletti cattolici dovevano ispirarsi. E tra questi - ci spiega il segretario della Cei monsignor Giuseppe Betori - «famiglia e vita sono particolarmente interrogati dalla situazione di oggi». Ma che cosa vuol dire «speciale attenzione» prima di votare? I parroci consiglieranno i fedeli? «La persona - ci risponde il vescovo - dovrà tener conto del modo in cui questi contenuti sono difesi e promossi in ogni programma politico. Non sta alla Chiesa dire a quale dare sostegno». Un partito favorevole ai Pacs, non bisogna votarlo? Risposta: «Ci sono tantissime forme di riconoscimento giuridico e alcune non possono essere accettate in quanto violano il riconoscimento che spetta soltanto alla famiglia fondata sul matrimonio».

Il quaderno dei desideri episcopali è già scritto, almeno sulle questioni "etiche". «Ci pronunciamo adesso, prima che siano definiti i programmi degli schieramenti», rimarca Betori, volendo dimostrare che non esistono pregiudizi. La Cei vuole influire sui programmi delle coalizioni e contrariamente al solito non fa regali nemmeno a Ciampi. Sulla par condicio, infatti, il segretario Cei non si pronuncia: tocca alle istituzioni decidere come assicurare serenità al confronto politico.

Ma tra le cose che non piacciono alla Cei, per fortuna, c'è la legge del far-west delle armi. La libertà d'uccidere potrebbe «oscurare o relativizzare il valore della vita umana» o anche «indebolire l'impegno delle istituzioni per la tutela dei cittadini». I vescovi «auspicano» che non produca questi effetti e Betori osserva che la legittima difesa deve essere «proporzionata» al pericolo incombente. E si domanda: «La difesa dei beni è proporzionata alla vita»?

Poco gradite ai vescovi inoltre le «intercettazioni usate ancora una volta in forma di processi sommari diffondendo dati che andrebbero invece tutelati». Betori si riferisce a frate Fedele Bisceglia, accusato di violenza sessuale in un «contesto - afferma - di comportamenti moralmente deplorevoli». Ma il cappuccino di Cosenza non è l'unico ad aver letto le sue telefonate sui giornali. Per lui comunque l'inchiesta interna alla chiesa ci sarà, ma probabilmente soltanto dopo quella civile.















Liberazione, 01.02.06
Quale Marx per il XXI secolo? Nella discussione interviene lo studioso marxista Christopher Arthur, tra gli autori del volume collettivo "Sulle tracce di un fantasma". Propone di recuperare l'idea hegeliana di totalità
E se per sconfiggere il capitale avessimo bisogno di Hegel?
di Christopher J. Arthur


Come uno degli autori che hanno contribuito al volume Sulle tracce di un fantasma, curato da Marcello Musto, sono lieto che le questioni lì trattate abbiano dato vita a un dibattito sulle pagine di questo giornale. Il libro, in effetti, testimonia di un recente interesse al rapporto Hegel-Marx. Questa "Nuova Dialettica" è però molto diversa da due diversi modi di appropriarsi di Hegel da parte dei marxisti: il Diamat di Engels e Plekhanov, e lo storicismo di Luk‡cs.

A mio parere, la lezione più importante che Hegel fornisce alla teoria contemporanea è la necessità di una dialettica sistematica delle categorie nella ricostruzione della logica interna della società capitalistica. I critici post-moderni attaccano ogni tentativo di pensiero sistematico come totalitario, e ovviamente Hegel viene presentato come un autore la cui logica sarebbe esempio di un sistema di pensiero "chiuso", e secondo cui la storia inesorabilmente si muoverebbe verso un fine prestabilito. Come può dunque la filosofia della liberazione avere alcunché a che fare con Hegel? Per me la pertinenza di Hegel viene dal fatto che l'"Idea Assoluta" è l'eternizzazione della logica specifica del capitale. Il fondamento del sistema capitalistico è la realtà di quella astrazione nello scambio che è dovuta all'identificazione di merci eterogenee in quanto "valori". Questa "astrazione pratica" produce una realtà "rovesciata", nella quale le merci presentano la loro essenza astratta come valori, e i lavori concreti contano solo come diverse quantità di lavoro astratto.

Anche la logica di Hegel ha inizio con una astrazione da tutto ciò che è determinato, per lasciare solo "pensieri puri". Per questo può essere utilizzata nella teoria marxiana, in quanto il capitale ha origine da un processo di astrazione pratica, nello scambio, sostanzialmente analogo alla dissoluzione e ricostruzione della realtà di Hegel, predicata sulla base del potere di astrazione del pensiero. Quando abbiamo a che fare con la logica del capitale siamo di fronte proprio a una Idea hegeliana: ovvero, a una astrazione che si muove autonomamente, benché questa idealità emergente sia racchiusa dentro una materialità sociale. E' precisamente questa omologia con le forme della logica di Hegel che mostra il capitale quale realtà rovesciata, sistematicamente alienata dai suoi portatori. Visto che tale inversione implica una interpenetrazione tra ideale e materiale, la relazione capitalistica è una unità contraddittoria.

Tale contraddizione non è quella tra capitalista e lavoratore (questo in realtà è semplicemente un conflitto): la contraddizione interna nasce dalla circostanza che "capitale" e "lavoro" pretendono entrambi di costituire l'intero della relazione che li implica. Ciascuno dei due lati rappresenta l'altro come differenza dentro di sé. Il capitale pretende di assorbire il lavoro nella forma del capitale variabile, in quanto, attraverso il salario, ha preso possesso del lavoro. Dall'altro lato, il lavoro vivo pretende che il capitale sia nient'altro che lavoro morto poiché, in quanto sorgente del valore, il lavoro aliena la propria sostanza. Dunque, il capitalismo è caratterizzato da una contraddizione nell'essenza. Comunque, il Capitale è il momento principale della contraddizione perché, attraverso questo rapporto realizza se stesso. Il lavoro salariato, invece, si nega nel produrre plusvalore. Il capitale è accumulazione continua; il lavoro continuamente ritorna alla sua mancanza di proprietà.

Dunque: da una parte, in quanto Idea hegeliana, il capitale pone se stesso come totalità chiusa; dall'altra parte, il sistema è aperto nella misura in cui l'opposizione non risolta tra capitale e lavoro gli è propria. Se la principale contraddizione del capitale è tra capitale e lavoro, allora il "capitale" compare due volte, una volta come tutto e una volta come parte. Se il fondamento sociale delle azioni degli agenti è costituito da questa totalità relazionale, allora il lavoro salariato, nel momento in cui è costituito dal rapporto di capitale, vi è pure anche negato. Quindi, è dentro e contro di esso come un tutto, non semplicemente implicato in una lotta parziale contro posizioni capitalistiche parziali.

Una conseguenza dell'inversione tra astratto e concreto, caratteristica del capitale come "Idea" che si rende attuale, è che all'interno della forma-valore il lavoro viene riconosciuto socialmente solo come astrazione di se stesso. E' attraverso lo scambio che l'astrazione si comunica al lavoro, perché è la forma dello scambio che innanzi tutto stabilisce la sintesi sociale, prima che i lavori spesi possano esservi commensurati. Inoltre, l'astrazione è presente nella stessa produzione: il capitale tratta qui tutti i lavori come identici, dal momento che ha un pari interesse a sfruttarli indipendentemente dalle loro specificità concrete. Quando il capitale organizza il processo di produzione, il lavoro vivo occupato conta solo come trascorrere del tempo. Il lavoratore diventa la «carcassa del tempo», secondo l'espressione di Marx [dalla Miseria della filosofia, ndt].

E' però un errore identificare il lavoro socialmente astratto, ovvero la sostanza del valore, con il preteso carattere "astratto" del processo di lavoro contemporaneo nella sua forma fisica. Il capitale ha di fronte un insieme di lavori specifici, inclusi nella loro totalità in modo astratto, ma i membri dell'insieme non mancano di specificità; persino il movimento più semplice ha qualche qualità, non può essere astrazione in quanto tale. Ovviamente, è necessario per il capitale che la forza-lavoro sia flessibile quanto basta per essere una totalità vivente a disposizione del capitale. Ma questa universalità concreta del lavoro è sussunta sotto la totalità astratta del capitale.

I postmoderni contestano la validità della categoria di "totalità", implicando che Hegel e Marx avrebbero avuto torto nell'impiegarla: ma il punto è che entrambi riflettono - Hegel, non criticamente; Marx criticamente - la logica totalizzante del capitale che sussume sotto di sé ogni possibile contenuto.

Un'ultima conseguenza di questo modo di vedere il capitale è che gli stessi "molti capitali" esistono solo dentro un intero unitario. Preoccuparci esclusivamente di combattere manifestazioni particolari del capitale - siano essi la Ford, la Shell, o la McDonald's - rischia di non tener conto di questa verità. Inteso in senso proprio, il nemico è il "Capitale": perché il capitale è un potere sociale "totale", logicamente prioritario rispetto ai suoi momenti individuali. Dire: "la malattia è il nemico" sembra grammaticalmente simile a "il capitale è il nemico". Nella realtà, noi moriamo di malattie differenti, e dire "la malattia è il nemico" significa personificare un'astrazione. Non vi è nulla, in realtà, come "la malattia", con la M maiuscola. Vi è solo una successione di malattie specifiche. Ma il "Capitale", con la C maiuscola, esiste davvero. Dire "il capitale è il nemico" non è retorica.

traduzione a cura di Riccardo Bellofiore











Il Manifesto, 01.02.06
Prodi difende la pillola abortiva


«L'aborto è un fatto drammatico e gli strumenti devono alleviare il dramma che in quel momento si compie: l'introduzione della pillola abortiva non incide sull'aborto ma sulla tecnica sanitaria». Questo il commento del leader dell'Unione Romano Prodi alla decisione del ministro della salute Francesco Storace di limitare l'importazione di prodotti farmaceutici non registrati in Italia tra cui la Ru486. Per Prodi, oltre che guardare agli altri paesi europei e riflettere sulle loro scelte, è ora necessario dare la parola alla scienza. «E' evidente - ha affermato il presidente del gruppo Udc alla camera, Luca Volontè - che Prodi si sta vendendo mani e piedi alle forze più laiciste della sua coalizione e che il professore deve accontentare le ali più estreme del centrosinistra. In tutti i casi è bene che si sappia come la pensa sulla vita, sulla morte, sulla scienza». E quello dei centristi è un attacco compatto. «Proprio nel giorno in cui la Cei ricorda a tutti i politici i riferimenti a cui i cattolici debbono richiamarsi - afferma il senatore Udc Maurizio Ronconi - considerare, come fa Prodi, la pillola abortiva uno strumento della scienza per far abortire meglio e con meno rischi, significa abbracciare in pieno le tesi dei radicali più incalliti». Immediata la replica di Rosi Bindi, responsabile Politiche sociali della Margherita: «Solo la cattiva coscienza di chi nasconde, a se stesso e agli altri, la verità può far esprimere giudizi così grossolani come quelli di Mantovano e Volontè. La verità è che la legge 194, con le sue regole e le sue limitazioni, non è aggirata se invece dell'intervento chirurgico la donna assume, sotto controllo medico, un farmaco».



















Il Manifesto, 01.02.06
Un amore comune


Caro Parlato, ho letto la tua lettera a Ida Dominijanni dal titolo «Se torna l'amore» e debbo dire che trovo positivo che tu ti sia sentito chiamato in ballo, penso però obiettivamente che noi uomini possiamo e dobbiamo fare di più. Da tempo seguo la rubrica Politica o quasi, trovo quella rubrica un laboratorio fertilissimo che cerca di sviluppare un pensiero del presente che si sforza di reinventare la politica, per dare un senso al nostro agire quotidiano. Per fare questo non possiamo che onestamente guardare dentro di noi. Scrivi nella tua lettera, «tornare ad amare è giusto e vitale, ma si può tornare ad amare dimenticando l'amore per il quale sei stato in lutto?». Credo che rielaborare il lutto, ci modifica, ci cambia, ci fa essere migliori, ma anche l'oggetto del nostro amore, in questa operazione si è modificato, l'idea di comunismo che avevo nel `68 e che inizialmente ho perseguito, si è modificata profondamente. All'inizio il comunismo per me era garantito e favorito da una struttura statale, certo molto diversa da ciò che si era realizzato in Urss, più vicina alla forma che si era realizzata in Cina con Mao. Pensavo che la rivoluzione culturale in Cina avesse gettato le basi per un comunismo non imposto ma che cresceva dal basso, ma anche su questo mi sono dovuto ricredere. Ormai è già da un bel po' che il comunismo per me, perché non si riduca a «una vecchia lapide», non è solo ciò che rende il mondo più giusto, meno egoista, più umano, ma è qualcosa che deve trasformare innanzi tutto me e quelli con cui sono in relazione, uomini e donne, avendo consapevolezza delle differenze innanzitutto sessuali e giovarmi di queste differenze per trasformare la politica e il mondo. Trasformare la politica è indispensabile, la politica come ricerca e conquista del potere, anche quando il potere non è fine a se stesso, ma è perseguito per realizzare un mondo migliore, mostra ormai tutti i suoi limiti. Le donne del pensiero della differenza, Ida Dominijanni nell'articolo - «Se la sinistra si tornasse ad amare» - suggeriscono un altro approccio: «imparare ad amare di nuovo». Nella tua risposta mi sembra di leggere un leggero scetticismo «In tutti i modi ti ringrazio per il tuo invito ad amare», anche se credo che non sia sufficiente, eppure i tuoi appelli a sottoscrivere un abbonamento, a costruire la casa comune a permettere a questo nostro giornale di vivere e diffondersi che altro è se non una richiesta di amore, se non la richiesta di vivere insieme un amore comune?
Fernando Lelario

Caro Lelario, a 75 anni un po' di scetticismo è inevitabile, ma proprio questo scetticismo rende più radicati e forti il desiderio e la volontà di amore, di non essere freddi spettatori di quel che accade. E quando dico così non mi riferisco all'irrazionalista «ottimismo della volontà», (chiedo scusa alla memoria di Gramsci), bensì all'ottimismo della ragione che nasce dall'osservazione e dallo studio delle cose di questo mondo. Anche per questo ti ringrazio molto (anche da parte di Ida).
Ciao, a rileggerci.
valentino parlato













Il Manifesto, 31.01.06

Ministro in pillola
MICAELA BONGI


Premiato per la sua sconfitta alle elezioni regionali con la poltrona di ministro della salute, il nazional-alleato Francesco Storace porta avanti in ogni dove la sua missione per conto di Ruini. Ossessionato dalla pillola Ru486 e in generale dall'aborto, dopo aver pensato di sguinzagliare le milizie del movimento per la vita nei consultori, dopo aver sponsorizzato un'inchiesta sull'applicazione della 194, dopo aver tentato di bloccare la sperimentazione torinese della pillola abortiva, ecco che l'infaticabile Storace ne ha pensata un'altra: ha annunciato che oggi stesso modificherà il decreto ministeriale del 1997 che regola l'importazione in Italia dei farmaci non registrati. In Toscana grazie a quel decreto, ma anche a seguito di un'apposita delibera regionale e dei pareri positivi del consiglio sanitario e della commissione di bioetica, è possibile fare ricorso alla Ru486. E poiché a questo punto per Storace quella regione è diventata la «regina dell'incentivo all'aborto», ecco fatto, basta rendere più complicato l'arrivo dei farmaci dall'estero per ottenere due piccioni con una fava: uno schiaffo alla Toscana (evidentemente Storace è anche in missione per conto del premier che vuole «detoscanizzare l'Italia»), ma soprattutto uno alle donne. Se proprio - tanto per fare un dispetto a papa Ratzinger, a Camillo Ruini e a Marcello Pera - hanno deciso di interrompere la loro gravidanza, che almeno lo facciano chirurgicamente. Senza contare che lo schiaffo, da bravo titolare della sanità, Storace lo somministra a tutti i malati che dall'estero aspettano farmaci urgenti. Compenserà il disguido occupandosi della salute degli immigrati: visite mediche per chiunque arrivi in Italia, annuncia il ministro, assicurando che è solo per il bene degli stranieri. E allora non si capisce perché Roberto Calderoli si complimenti per la trovata.

Ma tant'è: quando la destra più becera si mette in testa una cosa - che sia vietare la Ru486 o gli spinelli, tutto finisce in un indistinto brodo pre elettorale - è inutile andare per il sottile e ogni scorciatoia è lecita: si può piegare a proprio piacimento il decreto sulle Olimpiadi per infilarci la legge sulle droghe ma anche provare un brivido nostalgico nel riproporre l'autarchia, almeno farmaceutica. Dimenticando che la pillola che si vuole bandire è riconosciuta dalla competente agenzia europea. Il prossimo passo potrebbe essere la richiesta di uscire dalla Ue. Nel frattempo Storace alza la voce accusando altre istituzioni di «aggirare le norme»: è quello che secondo il ministro sta facendo la Toscana.

E invece la destra le norme le cambia senza troppe timidezze. Si modifica oggi il decreto sui farmaci, con la speranza di cambiare in peggio, domani, la 194. Una speranza che, con l'aria che tira, non è necessariamente legata al risultato elettorale. Del resto la corsa a ingraziarsi le alte sfere vaticane è partita da tempo. E ultimamente non è stato Romano Prodi a dirsi «amareggiato» per la manifestazione sui Pacs?













Il Manifesto, 31.01.06

Storace scatenato
Il ministro della Salute annuncia di voler cambiare il decreto che autorizza l'importazione della pillola abortiva. E sugli immigrati avverte: «Li sottoporremo a visita medica»
LEO LANCARI


Attacca la Regione Toscana definendola «regina dell'incentivo all'aborto». Poi annuncia che oggi modificherà il decreto che consente di acquistare farmaci all'estero, in modo da rendere più difficile per le strutture sanitarie l'importazione della Ru486, la cosiddetta pillola abortiva. Infine se la prende anche con gli immigrati per i quali dice di voler istituire visite mediche per verificare le loro condizioni di salute al momento della richiesta del permesso di soggiorno. Per carità, «non per cacciare chi sta male, ma per curarlo» spiega mettendo le mani avanti, dal momento che «è ovvio che qualcuno strillerà, perché a sinistra non capiscono niente di queste cose». Non si trattiene Francesco Storace. Il ministro della Salute ha condotto ieri una personale e scatenata campagna elettorale utilizzando vecchi cavalli di battaglia come la lotta alla legge 194, ma cercando anche di stimolare, allo stesso tempo, le paure degli italiani agitando i peggiori e infondati luoghi comuni della destra sugli immigrati come portatori di malattie. Storace parla a Firenze, dove ieri si è svolta la Consulta nazionale della salute di Alleanza nazionale, ma è chiaro che quella che ha in testa è una platea ben più ampia. Le sue proposte, però, ricevono solo il consenso d'ufficio dell'Udc per quanto riguarda l'aborto, e del solito Calderoli sugli immigrati. Tante, invece, le critiche provenienti da medici, associazioni dei consumatori ed esponenti politici del centrosinistra.

Ru486. Quello di Storace è un attacco mirato. Diversamente da quanto accade a Torino, dove sulla pillola abortiva è in corso una sperimentazione all'ospedale Sant'Anna, in Toscana l'interruzione di gravidanza attraverso l'uso della Ru496 è ormai quasi una pratica consolidata. In particolare alla Asl di Pontedera, tra le prime a rivendicare il diritto a un metodo meno invasivo dell'intervento chirurgico grazie anche alla possibilità offerta dalle legge - un decreto del 1997 - di poter acquistare la pillola all'estero. Procedura vista come il fumo negli occhi dal ministro della Salute, che del resto non lo ha mai nascosto. Così, ieri, l'attacco a testa bassa: «Domani modificherò il decreto del `97 che regola l'acquisto all'estero di farmaci non registrati in Italia», annuncia. «Dal 1997 al 2004 - prosegue Storace - ci sono state in media 10.000 confezioni arrivate in Italia ogni anno, ma nemmeno una di Ru486. Tutto si è scatenato nel 2005. Per la Ru486 il 90% delle procedure è venuto dalla Toscana e, di queste, il 55% da uno stesso medico. La Toscana è la regina dell'incentivo all'aborto», è la conclusione.

Quello che Storace non dice è che il decreto che vorrebbe cambiare - e con esso le procedure messe in atto dalla regione Toscana - ha avuto di proprio di recente l'approvazione del Consiglio superiore della sanità, ma soprattutto che la sua ansia di ostacolare l'applicazione della 194 rischia di costare caro a pazienti in cura con farmaci salvavita che in Italia non sono in vendita. «Quella intrapresa dal ministro è una china pericolosa», commenta l'assessore alla sanità della Toscana, Enrico Rossi. «Ci accusa di incentivare gli aborti ma non è vero, e la prova è che da quando utilizziamo la Ru486 il numero degli aborti è diminuito». Ma a Storace Rossi critica anche un'altra cosa: «Vuole cambiare una legge dello Stato per seguire i suoi principi ideologici, e questo è grave».

Una decisione che «non ha basi scientifiche» anche per Silvio Viale, il ginecologo promotore della sperimentazione al Sant'Anna di Torino. «Non c'è alcun motivo per non utilizzare in Italia un farmaco registrato nei Paesi dell'Ue proprio perché approvato dalle rispettive agenzie farmacologiche e riconosciuto da quella europea», afferma il medico esponente della Rosa nel pugno. Per Francesco Fioroni (Margherita), a rischiare maggiormente sarebbero i malati di patologie particolarmente gravi: «Ci sono migliaia di pazienti affetti da cancro o da patologie degenerative - spiega - che aspettano dall'estero farmaci che possono salvargli la vita e che in questo modo rischieranno di non averli per tempo».

Visite agli immigrati. Una battuta il ministro della Salute l'ha riservata anche agli immigrati per i quali ipotizza apposite visite mediche: «Si tratterà di test specifici per le persone che arrivano in Italia con i permessi di soggiorno», ha spiegato. Un'idea che però piace solo al ministro leghista Roberto Calderoli. Critiche, invece, dal centrosinistra: «Il ministro si preoccupi di curare il razzismo e l'antisemitismo dilagante di certi ultrà, invece di agitare impropriamente temi di salute pubblica che non conosce», ha commentato Rosy Bindi (Margherita), mentre per Ali Baba Faye, responsabile immigrazione dei Ds, «le esternazioni del ministro evocano fantasmi che hanno prodotto pagine tristi nella storia del secolo scorso».












Il Manifesto, 31.01.06

«Nessun rischio dagli stranieri»
Secondo il medico degli immigrati i controlli sanitari non si possono imporre


Aldo Morrone, dell'ospedale San Gallicano di Roma: «Il vero problema per la salute è l'aumento della povertà, ma questo vale anche per gli italiani»
ELEONORA MARTINI
«Sicuramente l'immigrato non porta malattie e ormai su questo c'è un'ampia letteratura. E va detto chiaramente che il rischio di contagio non esiste». E' deciso il professor Aldo Morrone, responsabile del servizio di Medicina preventiva delle migrazioni dell'ospedale San Gallicano di Roma. Quest'anno il servizio compie 25 anni di attività.

Innanzitutto, si può imporre una visita medica a chi chiede di entrare in Italia?

No, non si può imporre a nessuno, nemmeno agli italiani. Noi dobbiamo far in modo di accogliere persone e facilitare, anche attraverso modelli culturali, il fatto che accettino di essere visitati . Negli Usa si era pensato di richiedere il test dell'Hiv alle persone in ingresso, ma poi ci hanno rinunciato perché la stessa Oms ha dimostrato l'inefficacia di questo tipo di intervento. Infatti, come anche l'Europa ha capito, la cosa importante è far accedere alle cure il maggior numero di malati possibile, per ridurre fortemente il rischio di diffusione della malattia. Questo è un grande vantaggio per tutti.

C'è una differenza tra le malattie degli immigrati e le nostre?

Visitiamo circa 200 persone al giorno e, in questi 25 anni di attività a contatto con gli immigrati, ci siamo resi conto che la differenza non sta tra immigrati e italiani, ma tra persone povere e meno povere, cioè garantite o no. Questa è la grande novità. Negli ultimi anni abbiamo notato che una larga fascia di popolazione in Italia si è impoverita ed è aumentato il bisogno di facilitare il loro ingresso al sistema sanitario nazionale. E' aumentato il numero di nuovi poveri, sia nelle famiglie monoreddito, che negli anziani e nei disoccupati, che spesso si rivolgono tardivamente al Ssn.

Che tipo di malattie riscontrate in media nelle persone provenienti dal sud del mondo?

Sono più o meno le stesse malattie che si osservano negli italiani. Faccio però due esempi di malattie con un tasso diverso: l'Hiv e la tubercolosi. Nel primo caso il motivo è che molte persone vengono in Italia, come nel resto d'Europa, attratte dall'idea di poter ricevere quelle cure che nei loro paesi non possono avere. E questa è una caratteristica europea che, per esempio, non viene offerta dagli Usa. La tubercolosi ha un'incidenza leggermente più alta, ma non a rischio contagio, dovuta alle cattive condizioni di salute spesso riscontrate da chi ne è affetto. Molte anemie, per esempio, dovute a una scarsa alimentazione, possono abbassare le difese immunitarie.

Malattie della pelle?

Certo, ce ne sono, ma con la stessa incidenza con cui vengono riscontrate tra gli italiani. L'unica differenza è che gli immigrati arrivano un po' in ritardo dal medico, come arrivano in ritardo, va detto, fasce di pensionati a reddito minimo che hanno difficoltà ad accedere comunque al Ssn. Gli immigrati mediamente usano male e in maniera tardiva il Ssn perché non si è investito molto nell'informare e, ovviamente, più precoce è la diagnosi, meno si rischia un aggravamento delle malattie.



Il Manifesto, 31.01.06

La videoarte ha perso Nam June Paik
Se ne va il grande giocoliere elettronico grazie al quale l'interazione tra immagini, suoni, luci e colori divenne un linguaggio artistico di primaria importanza sulla scena contemporanea
ELENA DEL DRAGO


Se si pensa a un nome al quale associare l'invenzione della videoarte viene immediatamente in mente Nam June Paik: è dopo il suo lavoro pionieristico attorno alle possibilità offerte dall'interazione tra l'immagine, il suono, le luci e i colori che il video comincia ad essere considerato un linguaggio artistico di primaria importanza. Nato a Seoul settantaquattro anni fa, Paik da lungo tempo era residente negli Stati Uniti, prima a New York, dove era diventato un referente indiscusso per tutte le sperimentazioni legate all'immagine, dunque a Miami dove è morto per cause naturali domenica sera, dopo un lungo periodo di sopravvenuta paralisi. La sua formazione, però, era stata europea: agli studi di estetica era seguita la tesi su Arnold Shönberg all'Università di Tokyo, poi la partenza per Monaco, Friburgo e quindi Darmstadt, città nelle quali si era recato per completare il suo percorso musicale. In Germania conobbe, tra gli altri, John Cage, Karlheinz Stockhausen e Joseph Beuys. Entrò prestissimo a fare parte delle innumerevoli, rivoluzionarie, performance di Fluxus, il movimento artistico nato in America nei primi anni della guerra fredda, che si era dato tra i suoi obiettivi quello di sottrarre importanza all'oggetto artistico per consegnarla invece alle situazioni, alla messa in scena di quello avrebbe dovuto essere uno spettacolo. Dal 1960 per Nam June Paik fu un continuo viaggiare tra New York e Berlino, Parigi e Londra, assecondando quella vocazione alla mobilità che solo la malattia lo forzò ad abbandonare. Nel 1963 aveva avviato il suo lavoro con i tubi catodici e nel giugno di quell'anno aveva presentato alla galleria Parnasse di Wuppertal un percorso espositivo fondamentale per il futuro sviluppo della videoarte. Exposition of Music/Electronic Television sperimentava, infatti, per la prima volta, la relazione tra l'immagine e il suono attraverso l'utilizzo del dispositivo elettronico della televisione: il tutto si presentava come un'installazione di tredici video-monitor, disposti casualmente, che riproducevano altrettante immagini distorte, riempiendo con le loro luci lo spazio e interagendo con gli spettatori. Nell'allestimento della coreografia che faceva da sfondo mobile alla performance erano presenti anche pianoforti rovesciati, diversi oggetti passibili di sonorità come pentole e chiavi, un manichino femminile disarticolato in una vasca da bagno e una testa di toro grondante sangue. Ma, più interessante ancora, è il fatto che Nam June Paik seppe portare la verifica delle potenzialità realizzabili nell'incrocio tra i vari mezzi espressivi fino a inventare nuovi strumenti: alla fine degli anni Settanta, infatti, mise a punto l'Abe-Paik Sinthetizer, mentre successivamente utilizzò le trasmissioni via satellite. Non meno fondamentale resta il suo video realizzato a New York nel 1965, l'anno del suo trasferimento, per il quale si servì, per la prima volta, di una telecamera portatile: Café à Gogo, 152 Bleeker Street, October 4 and 11, 1965 si concentrava su un momento del caotico traffico scatenato dalla visita di Paolo VI: il video venne riproposto - la sera stessa in cui il papa era arrivato in città - in un ritrovo del Greenwich Village: fu una sorta di evento artistico in diretta, che contribuì a creare un clima di grande libertà espressiva, potenziato dal fermento legato alla continua evoluzione tecnologica. La straordinaria genialità di Nam June Paik, indipendentemente dal media utilizzato di volta in volta, è dunque consistita nel creare forme-immagini che sapessero, nella loro tridimensionalità, offrire un'esperienza aperta allo spettatore, affatto condizionata da considerazioni meramente estetiche, linguistiche o da tentazioni virtuosistiche.

Nessun artista come Nam June Paik ha avuto, in definitiva, un'influenza altrettanto profonda sull'immaginazione e la realizzazione delle virtualità offerte dal linguaggio sperimentale del video; tuttavia il suo contributo maggiore riguarda il ruolo dell'artista nel suo complesso, che diventa più che mai agente in prima persona dell'incontro sempre auspicato tra poetiche e prospettive differenti. Un ruolo catalizzatore di energie e di progetti, incurante della distanza eventuale tra interessi e sensibilità eterogenee: un ruolo, insomma, troppo spesso dimenticato dalla grande maggioranza degli artisti, raramente capaci di abbandonare una prospettiva univoca ed esclusivamente concentrata sul proprio mezzo espressivo privilegiato. Grazie alla sua parabola artistica Nam June Paik è stato definito da Curti - in occasione di una mostra a Torino dove veniva chiamato Giocoliere elettronico - un «nomade capace di percorrere strade e storie, di leggere tra passato e presente, di trasformare e di trasformarsi, di unire ingegno tecnico e invenzione artistica. Uomo di conoscenza, sciamano, padrone del metodo scientifico, del sapere informatico e audiovisivo, viaggiatore ed esploratore di mondi. Medium egli stesso, dispositivo e ponte fra comunicazione e tecnica, tra agente e interlocutore».



















Citato al martedì:

Corriere della Sera, 26.01.06

Severino: ma alla fine il vincitore è il filosofo
«Il Papa ha colpito, ma il colpo gli torna indietro
Non si liquida un pensatore così in poche frasi»


Il Papa ha avuto buon fiuto: «Effettivamente Nietzsche è uno degli avversari più radicali e rigorosi del cristianesimo». Ma, alla fine, «Nietzsche ha avuto la meglio». Il discorso, dunque, non è chiuso. Il Papa ha colpito, ma il colpo gli torna indietro. Professore Emanuele Severino: il cristianeimo ha distrutto l' eros, come sostiene Nietzsche, o lo ha purificato, come scrive il Papa?
«Il problema dell' eros è iscritto nel più ampio richiamo di Nietzsche ad essere fedeli alla terra. E allora è inevitabile che lui, e prima ancora Leopardi, vedano nel cristianesimo un rifiuto della terra e una esaltazione di quell' aldilà che, dal loro punto di vista, è il nulla». Il riferimento a Nietzsche, nell' enciclica, ha un obiettivo chiaro: confutarlo dal punto di vista della speculazione, dimostrare che ha torto. «Non si può liquidare un pensatore così con poche frasi. Da tempo invito la Chiesa a fare seriamente i conti con il significato più profondo della filosofia del nostro tempo. Lo scontro non si decide dicendo che l' avversario nega il cristianesimo, anche se dal punto di vista massmediatico è un messaggio forte. Occorre invece saggiare la consistenza della sua critica. Per Nietzsche il cristianesimo è nichilismo perché annienta i valori della terra fra cui l' eros, l' erotismo, la carne, la bellezza, la potenza e attribuisce l' essere vero a quell' aldilà che in verità è niente». Deluso, professore, dell' enciclica papale? «Se cominciassimo a fare un discorso diverso dalla propaganda della fede, dovremmo dire che il Papa ha sì individuato l' avversario giusto, ma questo avversario ha tutti i titoli per mettere fuori combattimento la tradizione alla quale il cristianesimo appartiene». La citazione di Nietzsche porta il Papa ad altre conclusioni. «Ma il pensiero del nostro tempo prevale e ha diritto di prevalere.
Dopo avergli dato una mano, si tratta però di mettere in questione il terreno su cui si scontrano i due avversari: la tradizione, in cui primeggia il cristianesimo, e la contemporaneità che lo distrugge.
Nell' uno come nell' altro caso si pensa che le cose siano oggetto della volontà di potenza, di un dio o degli uomini. E' questa volontà a unirli. Certo: l' amore terreno separato dal divino è errore, violenza, depravazione. Ma Dio esiste? Se si sorvola su questa domanda, i conti tornano. Ma Nietzsche non sorvola. E i conti bisogna farli con Nietzsche (e non solo con lui)». Daniela Monti
Monti Daniela