sabato 6 luglio 2013

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il Fatto 6.7.13
Un corpo a corpo con la filosofia
L’ex pontefice spara contro “L’idiota”
di Marco Filoni


UN CORPO A CORPO con la filosofia. L’enciclica papale Lumen fidei contiene molte citazioni: Sant’Agostino, ovviamente, e poi Rousseau, Dante, Newman, Ludwig Wittgenstein (che però scriveva: “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”), persino colui che più forte di altri esclamò che “Dio è morto”, cioè Friedrich Nietzsche. Ma Nietzsche aveva torto, esclama il pontefice. E non era il solo. Anche Fëdor Dostoevskij sbagliava, perché al protagonista dell’Idiota faceva dire di fronte a un dipinto del Cristo morto: “Quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno”. No, per carità, i papi, la mano è quella di Ratzinger, non sono d’accordo: “Gli effetti distruttivi della morte sul corpo di Cristo” non fanno perdere la fede, anzi, “la prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo si trova nella sua morte per l’u o m o”. Giusto, però Dostoevskij in una lettera del 1854 scriveva anche: “Quali terribili sofferenze mi è costata – e mi costa tuttora – questa sete di credere, che tanto più fortemente si fa sentire nella mia anima quanto più forti mi appaiono gli argomenti ad essa contrari! (...) Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità”. Fine Ottocento, lo scrittore russo vedeva arrivare una “grandiosa scienza nuova” e con essa un uomo nuovo. “E mi rincresce malgrado tutto per Dio”, chiosava laconico.

Corriere 6.7.13
«La banca vaticana canale per riciclare denaro frutto di reati»
I conti «laici» e le scarse verifiche sui clienti
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Esiste «l'elevato rischio che il modo di procedere dello Ior — che ha preteso di agire senza specificazione dei suoi clienti effettivi — possa essere stato utilizzato come schermo da parte dei suoi correntisti per mascherare operazioni illecite». È un durissimo atto di accusa sulla gestione della banca vaticana il provvedimento che i pubblici ministeri romani trasmettono al giudice sollecitando l'archiviazione delle accuse contro l'ex presidente Ettore Gotti Tedeschi, indagato per il trasferimento ritenuto illegale di 23 milioni di euro. Mentre riconoscono «l'estraneità del banchiere alle condotte illecite», evidenziano tutti i punti oscuri dell'attività del direttore generale Paolo Cipriani e del suo vice Massimo Tulli, ma soprattutto sottolineano le responsabilità «politiche» e i rischi che questi comportamenti opachi possono comportare. Anche perché ribadiscono come l'Istituto per le Opere Religiose «deve essere considerato alla stregua di una banca extracomunitaria» e dunque deve attenersi a una serie precisa di adempimenti.
La «confusione» di fondi
Il riferimento utilizzato dai magistrati è il conto 49577 aperto presso la sede di Roma del Credito Artigiano. E identifica una procedura che si ritiene evidentemente comune anche a depositi accesi presso altri istituti di credito. Scrivono i pubblici ministeri: «Nel conto confluiscono per rilevantissimi importi "operazioni riconducibili esclusivamente ai clienti Ior, o a coloro che con essi hanno rapporti". I relativi fondi "rimangono a tempo indeterminato" senza transitare da e verso l'istituto corrispondente. A ciò va aggiunta la circostanza rilevantissima che i clienti Ior, beneficiari dei bonifici e degli assegni, non sono identificati dall'intermediario Credito Artigiano, ma possono essere individuati solo attraverso una richiesta inoltrata allo Ior dalla banca italiana e dallo Ior evasa, peraltro in maniera non direttamente e autonomamente controllabile dalle autorità italiane».
Per l'accusa le conseguenze possono essere gravissime: «La "confusione globale" di fondi di diversa provenienza e natura nelle "disponibilità che interessano i conti Ior" e l'inosservanza delle modalità operative tipiche di un conto di corrispondenza o di passaggio privano di fondamento le tesi (sostenute dalla difesa) sulla asserita "proprietà" dei fondi movimentati e sulla natura dei conti oggetti di movimentazione».
I canali di riciclaggio
I pubblici ministeri specificano come «all'origine del procedimento penale c'è l'esigenza di garantire l'osservanza di norme poste a presidio del fondamentale valore di un ordinato e trasparente svolgimento dei rapporti tra enti creditizi italiani e Ior in funzione antiriciclaggio». E per questo denunciano: «In assenza di tale osservanza lo Ior può facilmente divenire canale per operazioni di riciclaggio di denaro provento di reato, grazie a tre circostanze: l'azione di correntisti Ior compiacenti o strumentalizzati che si prestano consapevolmente o meno a far utilizzare il loro conto presso lo Ior per operazioni di riciclaggio; le carenze di adeguate verifiche della clientela all'interno dello Ior; il mancato o carente rispetto degli obblighi di verifica rafforzata da parte degli enti creditizi italiani che intrattengono rapporti con lo Ior».
Finora era sempre stata negata ufficialmente l'esistenza dei cosiddetti conti «laici» presso lo Ior. Il primo a rivelarne l'esistenza fu proprio Gotti Tedeschi quando specificò di fronte ai magistrati che uno dei motivi di attrito con il direttore generale e con alcuni esponenti delle gerarchie vaticane fosse cominciata «quando chiesi notizie dei conti intestati ai laici». E adesso sono gli stessi pubblici ministeri a confermare nel provvedimento come «lo Ior raccoglie e amministra prevalentemente fondi altrui, riconducibili a una variegata pluralità di soggetti: istituzioni religiose della più diversa natura, ma anche singoli appartenenti al clero che hanno un conto o soggetti privati che, in virtù di un particolare rapporto con la Santa Sede, hanno ottenuto di poter effettuare depositi e aprire conti presso di esso».
La «guerra» con Gotti
L'operazione sui 23 milioni di euro viene inizialmente contestata a Cipriani e a Gotti. Ma il 30 settembre 2010, in un interrogatorio di fronte ai pm, il direttore generale ammette: «La firme in calce ai fax che dispongono il trasferimento di fondi sono la mia e quella del mio vice Tulli». Poco dopo viene sentito Gotti che conferma a aggiunge: «Non ho firmato quei fax e non so di chi siano quelle firme, anche se penso che una sia di Cipriani. Non so chi, in ambito Ior, abbia tali poteri dispositivi».
Il presidente si chiama fuori e soltanto in seguito, quando decide di collaborare con i magistrati, si avrà la conferma che era stato effettivamente escluso dalla gestione operativa. Non a caso, sollecitando per lui l'archiviazione, i magistrati scrivono: «È un dato oggettivo — risultante da più fonti e dall'analisi complessiva degli sviluppi delle recenti vicende dello Ior — che l'attività di Gotti Tedeschi come presidente è stata essenzialmente orientata a dar vita a una nuova policy dell'istituto nel quadro dell'adozione di un insieme di misure miranti ad allineare lo Stato della città del Vaticano, sul versante al contrasto del riciclaggio, ai migliori standard internazionali». Un tentativo evidentemente fallito visto che il 24 maggio 2012 è stato licenziato.

Corriere 6.7.13
Ecco le operazioni sospette dello Ior
Le contestazioni dei pm a Cipriani e Tulli. Gotti Tedeschi esce dall'inchiesta
di F. Sar.


ROMA — La Procura di Roma chiude le indagini sullo Ior e contesta tredici nuove operazioni sospette al direttore generale Paolo Cipriani e al suo vice Massimo Tulli, entrambi dimissionari martedì scorso. Oltre al passaggio illecito di 23 milioni disposto nel 2010 da un conto aperto presso il Credito Artigiano ad un altro di Jp Morgan, i magistrati individuano flussi di denaro che seguono lo stesso percorso ma dei quali «non si conosce né l'identità dei soggetti per i quali davano esecuzione alle operazioni di trasferimento, né le informazioni sullo scopo e sulla natura delle stesse operazioni». Esce invece di scena l'ex presidente Ettore Gotti Tedeschi che era stato indagato per gli stessi reati, ma ha dimostrato di non aver alcuna delega operativa. «Le indagini — evidenziano i rappresentanti dell'accusa nella richiesta di archiviazione — hanno consentito di accertare la sua estraneità alle condotte incriminate e al modus operandi dell'istituto sul versante dell'antiriciclaggio adottato dai rappresentanti della direzione».
Arriva dunque a una svolta decisiva l'indagine avviata tre anni fa su segnalazione della Banca d'Italia. I pubblici ministeri Stefano Pesci e Stefano Rocco Fava, coordinati dall'aggiunto Nello Rossi, ricostruiscono le attività finanziarie compiute e le elencano nel capo di imputazione. Si scopre così che tra marzo e aprile 2010 «i vertici dello Ior davano esecuzione a quattro operazioni di trasferimento di somme disposte, d'ordine Ottonello Giacomo, in addebito del conto corrente 1365 presso Jp Morgan filiale di Milano, tre volte per 50 mila euro e una per 70 mila euro».
Su quello stesso conto sono state effettuate analoghe movimentazioni: una «d'ordine Giuseppina Mantese per 100 mila euro il 24 febbraio 2011»; una «d'ordine Piccole Apostole della Carità per 120 mila euro il 6 dicembre 2010»; due «d'ordine Antonio D'Ortenzio per 48 mila euro il 12 maggio 2010 e 18.133 euro il 16 dicembre 2010»; tre «d'ordine Lelio Scaletti per 30 mila euro il 22 ottobre 2010, per 15 mila euro il 19 aprile 2011, per 25 mila euro il 21 giugno 2011»; una «d'ordine Lucia Fatello per 100 mila euro il 27 ottobre 2010»; una «d'ordine Civiltà cattolica per 250 mila euro il 17 agosto 2011».
Cipriani e Tulli erano stati costretti a lasciare l'incarico tre giorni dopo l'arresto di monsignor Nunzio Scarano, l'ex contabile dell'Apsa — l'Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica — accusato di aver tentato di riportare in Italia dalla Svizzera 20 milioni di euro degli armatori D'Amico e per questo rinchiuso a Regina Coeli. Le intercettazioni e le indagini svolte dagli investigatori del Nucleo Valutario della Guardia di Finanza guidati dal generale Giuseppe Bottillo — che si intrecciano con le verifiche sullo Ior — avevano infatti evidenziato i legami stretti che i due avevano con l'alto prelato e soprattutto le svariate operazioni effettuate su conti Ior. E proprio ieri il giudice ha respinto la richiesta di remissione in libertà presentata dal difensore di Scarano, l'avvocato Francesco Caroleo Grimaldi: «Niente arresti domiciliari, dovrà rimanere in carcere».

Repubblica 6.7.13
E i papi invocano San Michele “Cacci il maligno dal Vaticano”
Come Paolo VI che evocò “il fumo di Satana”
di P. Rod.


CITTÀ DEL VATICANO — «Nel consacrare lo Stato Città del Vaticano a san Michele Arcangelo, gli chiediamo che ci difenda dal Maligno e che lo getti fuori». Altro che Paolo VI e il suo «fumo di Satana entrato attraverso qualche fessura nella Chiesa ». La preghiera pronunciata ieri da Francesco va oltre, perché dice addirittura che non il fumo, ma il Maligno in persona, alberga oltre Tevere. E spetta a san Michele espellerlo, perché fu lui, secondo la Scrittura, ad aver difeso la fede in Dio contro le orde di Satana.
Tutto è avvenuto ieri, nel corso di una breve cerimonia svoltasi nei giardini vaticani nella quale Bergoglio, assieme a papa Ratzinger, ha benedetto una statua dedicata all’Arcangelo in occasione dell’affidamento dello Stato della Città del Vaticano a san Giuseppe e allo stesso san Michele. Il progetto era stato approvato tempo fa da Benedetto XVI. Francesco e il Papa emerito si sono abbracciati con affetto e sono rimasti vicini per tutta la cerimonia. «Nei giardini vaticani — ha detto Francesco — ci sono diverse opere artistiche; questa, che oggi si aggiunge, assume però un posto di particolare rilievo, sia per la collocazione, sia per il significato che esprime. Infatti, non è solo un’opera celebrativa, ma un invito alla riflessione e alla preghiera, che si inserisce bene nell’Anno della fede. Michele — che significa: “Chi è come Dio?” — è il campione del primato di Dio, della sua trascendenza e potenza. Michele lotta per ristabilire la giustizia divina; difende il Popolo di Dio dai suoi nemici e soprattuttodal nemico per eccellenza, il diavolo».
È dall’inizio del suo pontificato che Francesco cita il diavolo. L’ha fatto soprattutto durante le omelie del mattino pronunciate nella residenza di Santa Marta. Il diavolo, secondo lui, è una minaccia anzitutto per la Chiesa. Per difendersi dalle sue lusinghe e dai suoi attacchi — ha detto durante una di queste omelie a inizio maggio — «l’arma è la stessa arma di Gesù: la Parola di Dio, non dialogare, ma sempre la Parola di Dio e poi l’umiltà e la mitezza». Ma le esortazioni contro il demonio, il Papa le ha rilanciate anche su Twitter: «Non dobbiamo credere al Maligno che dice che non possiamo fare nulla contro la violenza, l’ingiustizia, il peccato », è il testo di uno dei due tweet diffusi da @pontifex.
Già all’indomani dell’elezione, giovedì 14 marzo, nella messa “pro ecclesia” celebrata con i cardinali nella cappella Sistina, soffermandosi sui concetti del «camminare, edificare, confessare », Bergoglio aveva detto: «Quando non si confessa Gesù Cristo, mi sovviene la frase di Leon Bloy: “Chi non prega il Signore, prega il diavolo”. Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio».

Per non imbarazzare il governo Letta-Berlusconi e il ministro degli Esteri italiani Bonino, (che o sono complici o vilmente tacciono e guardano altrove) né l’Unità, né Repubblica, né il Corsera dedicano un solo isolato rigo - né sulle loro edizioni cartacee in edicola, né sui loro siti su Internet - a questa terribile vicenda dell’ingiusta espulsione di una donna e di una bambina di sei anni, documentata solo su Stampa e Fatto qui di seguito
Una donna e una bambina di sei anni, profughe e senza alcuna difesa, tranquillamente e con imbarazzata fretta consegnate con la forza dello Stato nelle mani di un dittatore fascio-stalinista che le pretendeva per sé.
Siccome ci capita ancora di scandalizzarci, ce ne scandalizziamo e per davvero.
Ma sopratutto denunciamo più forte che possiamo il desolante orrore umano che caratterizza tutti questi “signori” che ci “governano” e ci “informano”.


La Stampa 6.7.13
“Espulse ingiustamente la moglie e la figlia del dissidente kazako”
L’Italia le consegna in una notte al dittatore Nazarbayev
di Francesco Grignetti

qui

La Stampa 6.7.13
L’appello di Ablyazov a Letta
“Faccia luce su questa storia”
“Volevano due ostaggi da usare contro di me, perché glieli avete dati?”
di Maurizio Molinari

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il Fatto 6.7.13
“Illegale espellere la moglie e la figlia del dissidente”
Il Tribunale di Roma critica la decisine di consegnare al tiranno Nazarbaev le familiari del rivale Ablyazov
di Roberta Zunini


E ora che il Tribunale del riesame ha giudicato la seconda “extraordinary rendition” effettuata dall'Italia un errore macroscopico, come salviamo la faccia? Se qualcuno pensava che il caso Abu Omar fosse un unicum, si è sbagliato. Nella notte del 29 maggio scorso una pattuglia di almeno 30 agenti in borghese della Digos di Roma ha fatto irruzione, senza alcun mandato della magistratura né un interprete, in una villa di Casal Palocco, quartiere residenziale della Capitale, per catturare l'ex banchiere kazako Mukhtar Ablyazov, ricercato con un mandato di cattura internazionale, appena diramato, per riciclaggio e truffa dall'autorità giudiziaria dell'ex repubblica sovietica, ma considerato fin dal 2009 un perseguitato politico dalla Gran Bretagna che gli aveva accordato l'asilo politico quando era fuggito a Londra.
NON TROVANDOLO, gli agenti avevano prima ingaggiato una violenta rissa con il cognato della moglie, finito al pronto soccorso con trauma cranico e contusioni varie, poi avevano catturato la moglie Alma Salabayeva e, nonostante la signora fosse titolare di un passaporto diplomatico della Repubblica centrafricana e di un permesso di residenza inglese e lituano - paesi Ue - l'avevano portata di peso nel Cie di Ponte Galeria assieme a decine di immigrati clandestini in attesa di identificazione. Mentre la donna tentava di spiegare che il suo passaporto africano era regolare, la figlia di sei anni, Alua, che aveva assistito terrorizzata all'assalto, rimaneva con la zia a Casal Palocco. Dopo qualche ora la situazione, anziché chiarirsi, si complica e un viceprefetto, convinto che il nome Alma Ayan riportato sul passaporto centrafricano, confermasse il falso, firma senza verifiche approfondite un ordine di espulsione immediato per reato di clandestinità.
Un aereo privato di una società austriaca decolla da Ciampino con a bordo la signora Salabayeva, la figlia minorenne, il console kazako in Italia e alcuni funzionari dell'ambasciata, prontamente fotografati dai piloti dei jet, persino loro insospettiti da quello strano viaggio, organizzato in fretta e furia dal Kazakhstan. Che però continua a dire di non saperne nulla della deportazione. Anche se, fin dal momento in cui hanno toccato il suolo di Almaty - l'ex capitale di uno dei paesi più ricchi di petrolio off shore e gas del pianeta - la signora e la piccola figlia vengono filmate da operatori ignoti, leggasi agenti dell'intelligence, in ogni loro mossa (le immagini vengono poi mandate in onda sul sito della tv di Stato del Kazakhstan) dentro e fuori le mura domestiche. Fuori si fa per dire, visto che la Salabayeva è una sorvegliata speciale e non può lasciare la città.
SECONDO I SUOI avvocati italiani non ha rappresentanza legale e rischia l'incriminazione per truffa e per aver nascosto il marito ricercato nella casa di Casal Palocco, rischiando peraltro di vedere la figlia finire in orfanotrofio. E' infatti certo che Ablyazov era a Roma fino a qualche giorno prima dell'irruzione della Digos. Da una località sconosciuta, al quotidiano La Stampa il magnate - ex ministro del governo al guinzaglio del padre padrone kazako, il presidente filo-putiniano Nursultan Nazarbaev che guida il paese da 24 anni e quindi oppositore politico finito in carcere per un anno dopo aver fondato nel 2001 il partito “Scelta democratica” - ha lanciato un’accusa gravissima al nostro ministero dell'Interno: “Sono state deportate in fretta perché gli agenti hanno voluto evitare che i giudici, procuratori e media scoprissero il blitz. Tutto ciò è avvenuto perché il dittatore Nazarbaev voleva due ostaggi contro il suo maggior oppositore politico. È riuscito a ottenerli grazie agli agenti italiani”.
L'oppositore ha lanciato un appello al presidente del Consiglio Enrico Letta perché intervenga. E il premier ieri ha dichiarato: “Ho chiesto di avviare immediatamente una verifica interna agli organi di governo che ricostruisca i fatti ed evidenzi eventuali profili di criticità. Non ho letto gli articoli ma li leggerò e gli darò una risposta”. Sul caso è sceso in campo anche il deputato di Sel Alessandro Zan, che chiede al governo di “riferire sulla vicenda e prendere tutte le iniziative del caso per garantire la sicurezza” delle due donne. Nei giorni scorsi - ricorda Zan - il Tribunale del riesame di Roma ha detto sostanzialmente che si è trattato di un errore, aggiunge il parlamentare. La sentenza infatti dice il passaporto presentato dalla signora era regolare e l'espulsione immediata è sospetta”. L'Italia, attraverso l’Eni, è uno dei maggiori fruitori del petrolio kazako. C’entra qualcosa?

il Fatto 6.7.13
Rispedite in Kazakistan, caso politico
“Espulsione ingiusta, fretta eccessiva”. Il caso del dissidente kazako diventa politico
Moglie e figlia del dissidente Ablyazov prelevate a Roma e consegnate al dittatore Nazarbayev
Il Tribunale: "Non andavano espatriate". Alfano accusato "di aver gestito in proprio". Letta prima dice di non sapere nulla, poi promette una verifica
di Luca Pisapia

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il Fatto 6.7.13
Caso Kazakistan, ecco chi è il dittatore Nazarbayev “caro amico” di Berlusconi
La figlia e la moglie del dissidente kazako, catturate nel raid organizzato da Alfano ed espulse dall'Italia perché accusate di avere passaporti falsi, sono ora nelle mani del leader del Paese, vecchia conoscenza del Cavaliere

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Repubblica 6.7.13
Datagate, l’ira di Morales convocato l’ambasciatore italiano

MADRID — Evo Morales vuole spiegazioni, è indignato per il trattamento ricevuto e lo stop di dieci ore all’aeroporto di Vienna. Per questo il governo boliviano ha fatto una mossa ufficiale: ha convocato gli ambasciatori di Italia, Francia, Spagna e Portogallo, cioè i paesi europei che martedì hanno negato lo spazio aereo al presidente sudamericano.

Corriere 6.7.13
Alleanze disgregate e amicizie finite
Gli scontri interni frantumano il partito
Nella lotta quotidiana tra le correnti i «pretoriani» del governo contrapposti agli uomini del sindaco
di Tommaso Labate


ROMA — L’esempio più evidente s’è materializzato mercoledì sera alla cena dei dalemiani. Quando mentre da un lato del tavolo Massimo D’Alema evocava la teoria del «Renzi che fa la vittima» ma «non gli consentiremo mai di far cadere il governo Letta», dall’altro Nicola Latorre sposava ufficialmente la causa del renzismo: «Il momento di Matteo è ora. Altrimenti per lui è finita». L’esempio meno evidente, invece, l’ha messo in piedi giovedì Dario Franceschini, chiedendo ad alcuni dei suoi (Ettore Rosato, Gianclaudio Bressa) di accompagnarlo all’iniziativa di Fare il Pd e invitando contemporaneamente altri fedelissimi (Antonello Giacomelli, Pina Picierno) a disertare. Un po’ dentro e un po’ fuori, come da ordine di scuderia. Mentre l’esempio più divertente riguarda il destino dei Giovani turchi del tridente Fassina-Orlando-Orfini. Erano i tre bersaniani della sinistra del Pd e adesso si sono divisi. Il primo è rimasto con Bersani e pensa a una sua candidatura, gli altri due sostengono Gianni Cuperlo.
Perché, all’inizio dell’estate 2013, il Pd è andato ben oltre la balcanizzazione. Correnti solide che si scompongono, amici di una vita che non si frequentano più e un partito che, da «liquido» ch’era nato, s’è praticamente liquefatto. Nel caos generale, si sono formati due macro-blocchi eterogenei. Il primo è il fronte dei «governisti», disposto a tutto pur di salvare il governo di Enrico Letta. Il secondo è quello che s’è coagulato attorno all’unico personaggio in grado di determinare il big bang: Matteo Renzi.
Perché è attorno al sindaco di Firenze che ruota la partita. «E non è una questione di regole», va dicendo da giorni l’ex dalemiano Latorre. «Se si fanno le primarie aperte, Renzi vince 80 a 20 contro chiunque. Se cambiano le regole e votano solo gli iscritti vince col 60... ». I segni del cambiamento, almeno nel quadro interno, già s’intravedono. Non foss’altro perché Renzi, sul territorio, adesso ha dalla sua il segretario dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, il presidente della provincia di Pesaro Matteo Ricci, senza dimenticare i tantissimi ex Margherita pronti a saltare sul suo carro.
Eppure la partita non si sblocca. E nella cerchia ristretta dei renziani, capitanata da Luca Lotti, sono sempre meno quelli convinti che «Matteo alla fine si candida di sicuro». E, comunque sia, l’attendismo del sindaco potrebbe protrarsi ancora a lungo.
Ma è nel fronte «governista» che si sono registrate le ultime novità più importanti. Le frenate di Renzi hanno compattato il gruppo di coloro che, seppur divisi, sono diventati la guardia pretoriana dell’esecutivo di Letta. Il premier ha «congelato» le attività della sua corrente. Non ne ha bisogno, almeno per ora. Anche perché a blindare Palazzo Chigi ci pensano altri. I nomi? Il primo è Guglielmo Epifani, che ha stretto col premier un asse solidissimo. Poi ci sono Luigi Zanda e Roberto Speranza, che stanno gestendo i gruppi parlamentari in maniera unitaria evitando frizioni tra le correnti. E tutti e tre sono convinti che «costruire un correntone anti-renziano» sia, per dirla con D’Alema, una «pura idiozia». Il cuore del fronte «governista» è rappresentato dagli ex popolari. E tra questi c’è anche chi, nel caso in cui Renzi prima o poi faccia il grande passo, insisterà perché sia «Letta in persona» a sfidarlo per la segreteria. Come Beppe Fioroni, ad esempio.
Più distanti da questa impostazione, nonostante continuino a giurare «lealtà al governo» (copyright Bersani), sono i bersaniani. È a loro, in particolar modo alla discesa in campo di Fassina per la segreteria, che si riferiva Franceschini quando l’altro giorno ha parlato del «pericolo» di una divisione «tra comunisti e democristiani».
Ma se non sarà Fassina il candidato alla segreteria del fronte «governista», se l’ipotesi di una candidatura di Debora Serracchiani — come giura il franceschiniano Giacomelli — «esiste solo nelle chiacchiere», chi è il loro mister X per il congresso? Tutti gli indizi portano a Guglielmo Epifani. Anche in privato il segretario ripete a tutti di non essere interessato. Ma alcuni piccoli segnali sono la spia che «Guglielmo», nel caso in cui Renzi sia della partita, può ancora ripensarci. Tanto per dirne una l’ex leader della Cgil, parlando giorni fa con alcuni dirigenti, s’è lasciato scappare questa frase: «Io voglio un partito unito, con tutti dentro. Tra le altre cose, sto pensando di telefonare a Veltroni per chiedergli di tornare a essere dei nostri a tempo pieno... ». Una frase che, almeno per chi l’ha ascoltata, non sembrava proprio uscita dalla bocca di un «semplice» traghettatore.

Corriere 6.7.13
Il «correntismo» può distruggere il Pd
di Paolo Franchi


Si candida, non si candida? E, quale che sia la sua decisione, Matteo Renzi potrà prenderla senza mettere in conto la spaccatura e magari la sopravvivenza stessa del Pd? C'è qualcosa che proprio non torna, o meglio qualcosa di surreale, nel confronto (chiamiamolo così) tra il sindaco di Firenze e l'establishment (è un cortese eufemismo) del suo partito. Che, stando alle dichiarazioni ufficiali, considera senza ombra di dubbio Renzi il candidato più forte del centrosinistra, domani o dopodomani, per Palazzo Chigi; ma ciò nonostante, o forse proprio per questo, oggi fa di tutto per sbarrargli la strada della segreteria. Quasi che lo stesso personaggio potesse essere rappresentato contemporaneamente come una straordinaria risorsa (parola quanto mai pelosa) per l'Italia e come una iattura, o giù di lì, per il partito.
Michele Salvati ha scritto in proposito sul Corriere di giovedì 4 luglio cose del tutto ragionevoli e condivisibili: il leader di un grande partito è pressoché per definizione il candidato premier in un quadro almeno tendenzialmente bipartitico, non in un sistema politico in cui, per cercare di vincere, occorre comunque mettere insieme una coalizione. È vero. Così come è vero che un Renzi portato trionfalmente alla segreteria da una platea ben più vasta di quella rappresentata dagli iscritti e dall'elettorato attivo del Pd rappresenterebbe, anche al di là delle sue intenzioni, una mina, o qualcosa di peggio, per il governo presieduto da Enrico Letta e la sua strana maggioranza: a decretare la fine del governo Prodi, nel 2008, fu certo l'addio di Clemente Mastella, ma a segnarne la sorte fu l'ascesa, alla guida del neonato Pd, di un leader, Walter Veltroni, che, in nome della «vocazione maggioritaria», rese nota da subito la sua assoluta indisponibilità a rieditare coalizioni simili all'Unione. C'è però, temo, anche dell'altro. Dell'altro che ha parecchio da spartire con l'identità o, per meglio dire, con la natura del Partito democratico. Una natura così incerta che negli ultimi tempi, ha detto preoccupato Dario Franceschini, non si ragiona neanche più in termini di ex Ds e di ex Margherita, ma di comunisti e di democristiani.
C'è un precedente certo un po' polveroso, ma forse utile per capire di più. Fa parte della storia terminale della Prima Repubblica e, curiosamente ma non troppo, è un precedente democristiano. Partito di correnti, sempre meno di grandi personalità, sempre più di baroni e di oligarchi, la Dc era refrattaria, verrebbe da dire: costituzionalmente, alla logica dell'uomo solo al comando, nella fattispecie al famoso «doppio incarico» (segretario del partito e presidente del Consiglio) di Ciriaco De Mita. Andò a finire come andò a finire: tra il febbraio e il luglio del 1989 De Mita dovette cedere prima la segreteria (ad Arnaldo Forlani), poi Palazzo Chigi (a Giulio Andreotti). Può anche darsi, ma non credo, che il nesso tra le due cose non sia stato poi così stretto. Resta il fatto che lo scontro fu lungo, e, seppure nelle forme dello Scudo crociato, assai aspro; e che fu anche l'ultimo della lunga storia democristiana, perché di lì a pochi anni la Dc, e con lei quella Prima Repubblica di cui era stata l'architrave, letteralmente si estinse.
Ecco: Renzi non è De Mita (e, se è per questo, Massimo D'Alema non è né Forlani né Antonio Gava), e il Pd non è la Dc. Ma al vecchio cronista politico questo ricordano, l'estenuante contesa sulle regole congressuali in cui il Pd si consuma, e pure tante dotte polemiche sulla compatibilità o meno di leadership e premiership. Che paiono letteralmente incomprensibili, oltre che prive di qualsiasi interesse, a chi, non essendo in prima persona della partita, si chiede, semmai, tutt'altre cose. Del tipo: quando mai, se non adesso, il Pd dovrebbe fare il primo congresso vero della sua storia, mettendo a confronto non solo candidati più o meno ipotetici, ma idee, proposte, progetti che abbiano un senso per il Paese, e insomma cercando di decidere quale partito vuol essere? E come è possibile fare un congresso vero senza uno scontro vero tra candidature vere, e cioè fondate su piattaforme politiche vere, discusse apertamente dai militanti, o come si chiamano adesso, e dagli elettori? E come sarebbe mai immaginabile, se ciò avvenisse, che lo stesso Renzi non fosse della partita, tra l'altro costringendosi, o venendo costretto, a lasciare i panni del vincente per antonomasia per vestire quelli del contendente politico chiamato finalmente a entrare nel merito del partito e della sinistra che ha in mente? Si tratta, evidentemente, di domande un po' ovvie. Ma è curioso che non se le ponga nessuno. Come se non fosse conclamato che di doroteismo si muore. E che, oltretutto, scoprirsi (o riscoprirsi) dorotei con questi chiari di luna è letteralmente suicida. Non c'è logica, in questa follia.

l’Unità 6.7.13
D’Alema: «Voto lontano, il premier c’è,  ora ci serve un segretario »
«Renzi? Nulla di offensivo Ma è stravagante l’idea di fare un congresso per scegliere il premier»
«Il nuovo segretario dovrà dare un senso al Pd sul piano ideale e culturale Cuperlo è la scelta giusta»
Intervista a l’Unità: il nuovo leader del Pd sostenga l’esecutivo
Sfida di Renzi: il governo deve piacere agli italiani non a Schifani e Brunetta
di Vladimiro Frulletti


«Il voto è lontano, al Pd non serve un candidato premier ma un segretario». D’Alema, in un’intervista a l’Unità, critica la posizione di Renzi. «Oggi c’è bisogno di un leader che sostenga il governo», avverte. Ma il sindaco attacca l’esecutivo: deve piacere agli italiani non a Schifani e Brunetta. E a Epifani che propone un incontro dice: non ho nulla da dirgli, convochi il congresso.

«Se ci si candida è per fare il segretario del partito, non per fare una precampagna elettorale in vista di elezioni politiche che non sono neanche alle viste». Massimo D’Alema è nel suo studio nella nuova sede di Italianieuropei, sempre in Piazza Farnese ma qualche portone più in là. Il vero cambiamento riguardante la Fondazione è però un altro ed è contenuto nel fascicolo che ha sulla scrivania, di cui D’Alema con l’Unità e con Europa parla volentieri, prima di passare agli argomenti di più stretta attualità (e prima di andare ad incontrare Enrico Letta a Palazzo Chigi). «Secondo ricerche condotte dalla Sapienza e dall’Università della Pennsylvania siamo una delle quattro fondazioni culturali italiane più importanti, tra le 150 top mondiali, insieme allo Iai, alla Fondazione Mattei e all’Istituto Leoni. Sempre dagli americani siamo censiti, per valore di quanto prodotto, come sedicesimi al mondo. Un patrimonio del centrosinistra italiano».
L’umore è buono quando parla di Italianieuropei: «Quindici anni fa, come soci fondatori c’eravamo Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi ed io. Poi, nel nucleo dei fondatori, sono entrate altre persone. Ora siamo in 15». Ed ecco il cambiamento, che partirà da una prima riunione il 16 luglio: «Abbiamo deciso di allargare l’associazione Italianieuropei, aprendola a nuove adesioni, con un meccanismo graduale e selettivo. L’assemblea dei soci eleggerà un comitato di presidenza che designerà il Cda della fondazione. I soci fondatori si riservano di nominare 3 su 7 membri del comitato di presidenza, e quindi la Fondazione diventa più inclusiva». Ci sono già oltre cento parlamentari del Pd «di varie ispirazioni politico ideali» (e sì, anche renziani) che hanno fatto sapere di essere interessati a diventare soci.
Ma non mancano i contatti anche con deputati e senatori di altre forze politiche del centrosinistra, «a conferma di quanto sia infondata l’immagine di un soggetto correntizio.
La verità è che la selezione qui è sempre stata solo e soltanto meritocratica, e questo vorremmo mantenerlo. Non mi interessano le opinioni politiche di coloro che collaborano con la Fondazione, mi interessa la qualità del loro lavoro. Adesso vogliamo rendere questo organismo un patrimonio condiviso. Italianieuropei è una fucina di idee e uno snodo di formazione della classe dirigente nell’arena del centrosinistra».
Una fucina di idee potrebbe essere utile anche per la fase congressuale del Pd, visto che continuate a discutere di regole. E ieri lei si è preso una risposta dura dal sindaco di Firenze.
«Ma da parte mia non c’era nulla di offensivo nel dire che dobbiamo fare un congresso per eleggere il segretario, non il candidato premier. Un premier ce l’abbiamo, tra l’altro, e non siamo in campagna elettorale. Mi pare un concetto su cui non credo si possa aprire un grande dibattito». È però quello che succede da settimane. «Perché c’è chi insiste con un’idea a dir poco stravagante». Tanto stravagante non è se per superarla si deve modificare lo statuto del Pd, non crede?
«Non c'è bisogno di modificarlo dato che lo abbiamo già derogato. Quando si redige uno statuto e alla prima prova occorre derogarvi, vuol dire che non funziona».
Sta dicendo che è stato commesso un errore nel 2007, quando si scrisse lo statuto Pd?
«La norma fu pensata sulla base dell’idea politica che il Paese andasse verso il bipartitismo. Era rispettabilissima, però non si è concretizzata. I fatti sono testardi. Adesso siamo nel 2013, possiamo serenamente prendere atto che quel progetto non si è realizzato e che in Italia c’è un bipolarismo, non solo di partiti ma anche di componenti della società. E del resto, il bipolarismo di coalizione si sta affermando in diversi Paesi europei, tanto è vero che la coincidenza tra leadership di partito e candidatura a governare, che era la regola, per esempio nelle socialdemocrazie, adesso non lo è più. Aggiungo che da noi la stessa crisi dei partiti fa dubitare dell’opportunità della coincidenza tra leadership di partito e guida di una coalizione».
Di cosa si deve discutere allora in questo congresso, se non di chi debba essere il candidato premier?
«Il Pd ha necessità di concentrarsi su tre aspetti fondamentali. Primo, ha assoluto bisogno di un segretario che sostenga l’esecutivo, ma che cerchi anche di dare un’impronta visibile all’attività di governo. E certamente questa posizione di sostegno leale e di visibilità è molto più agevole se il segretario del partito non è sospettato di voler far saltare tutto per andare lui a Palazzo Chigi».
Secondo?
«Bisogna costruire un nuovo centrosinistra capace di vincere le prossime elezioni, e insieme a questo far crescere una leadership in grado di guidarlo. Allo stato indubbiamente il leader più forte, più popolare è Renzi, ma non sappiamo quando si voterà e non possiamo escludere che possano esserci altri candidati nella sfida delle primarie. Infine credo che il compito più importante che il nuovo segretario dovrà svolgere sia quello di lavorare sul partito, sul piano ideale, culturale, valoriale, perché il Pd si presenta ancora troppo come un insieme di storie, di tradizioni, di forze diverse che faticano a definire una propria rinnovata e chiara identità comune. Per questo penso che la persona adatta sia Gianni Cuperlo. Insisto: a mio parere chiunque si candidi lo deve fare per svolgere il ruolo di segretario, non per fare il candidato premier di elezioni che non sono dietro l’angolo».
Nonostante il Pdl stia discutendo se rompere o mantenere il sostegno al governo in autunno?
«Il Pdl si prendesse le sue responsabilità. Per noi sarebbe un errore gravissimo togliere le castagne dal fuoco a Berlusconi, provocando la crisi di governo perché qualcuno ha fretta di fare il candidato presidente del Consiglio. Del resto, non è affatto detto che una crisi di governo porti alle elezioni. Il Paese ha interesse che il governo svolga il proprio lavoro: sostenere la ripresa economica, rilanciare l’occupazione, approvare le riforme costituzionali e varare una nuova legge elettorale. Tutto questo, a mio parere, porta naturalmente a una scadenza che va oltre il semestre italiano di presidenza dell’Unione europea. A questo proposito, sarebbe un’idea strampalata andare ad elezioni durante la presidenza italiana dell’Ue. E credo che il Capo dello Stato non lo consentirebbe».
Non pensa sia stato un errore l’incontro promosso da «Fare il Pd», se ha dato modo a Renzi di attaccare il gruppo dirigente del partito sostenendo che parlate sempre di lui?
«Guardi, ieri mi sono affacciato a quella riunione e ho ascoltato una discussione seria, sui problemi del Paese, sul ruolo del Pd. Non ho sentito nessun commento su Renzi. L’unico che parla sempre di Renzi è Renzi, per la verità. Se avesse ascoltato quel confronto, si sarebbe reso conto che ci sono voci molto diverse nel merito e che non c’è nessun “correntone” contro di lui».
Se il congresso serve a scegliere il segretario del Pd, che non è detto sarà candi-
dato premier, a sceglierlo devono essere soltanto gli iscritti? Vanno cambiate le regole delle primarie?
«Non è proibito che il segretario concorra alle primarie, ma non può essere prevista la norma che vieta ad altri iscritti di candidarsi. Quella norma è assurda. Tanto è vero che giustamente Renzi ne chiese la cancellazione. Ed è paradossale che ora ne chieda il ripristino».
Barca in un’intervista ha proposto di far votare alle primarie tutti “i partecipanti”, cioè chi si impegna nelle battaglie del partito anche se non è iscritto: condivide?
«Barca ha ragione, si sforza di definire i tratti di una platea più vasta degli iscritti, di coinvolgere quelle persone che hanno dimostrato un interesse politico alle attività del partito, il quale, da parte sua deve essere in grado di offrire diverse forme e livelli di partecipazione, dalla militanza quotidiana, alle primarie, passando per la consultazione in rete su singole issues. Se Renzi ha interesse a dedicarsi a questo lavoro, benissimo, si candidi. Figurarsi se io ho detto che ha bisogno del permesso... Ho letto di repliche francamente scomposte da parte di alcuni componenti della sua corrente. Lui è il capo di una corrente, anche particolarmente agguerrita».
Renzi ha anche detto che è in atto un tiro al piccione...
«Ma quale piccione. Lui ha la potenza comunicativa di un bombardiere americano, non scherziamo. Non credo che lui sia nelle condizioni di fare la vittima».
Vi sentite con Renzi?
«Abbiamo un dialogo che non si è interrotto. Ecco, qui sul telefonino ho un carteggio che resterà per la storia, se qualcuno sarà interessato». Dovesse candidarsi?
«Avrà i suoi sostenitori, per convinzione o per convenienza».
Sarebbe più agevole aspettare le primarie per la premiership?
«Sarebbe sostenuto da tutti, avrebbe una grandissima forza dietro. Decida lui. A 38 anni non si è più ragazzi e non si è piccioni. Si è una persona adulta in grado di prendere da sola le sue decisioni, che attenderemo con rispetto».

l’Unità 6.7.13
«Politicamp» lancia Civati: «Il partito lo sottovaluta»
Al via ieri a Reggio Emilia il raduno che rilancia la candidatura del parlamentare Pd
di Stefano Morselli


REGGIO EMILIA «Negli stati maggiori del partito, e anche nei mass media, la candidatura di Pippo Civati alla segreteria è molto sottovalutata. Secondo me si sbagliano, l’attenzione nei circoli e tra gli elettori sta crescendo. Non andiamo al congresso per fare un atto di testimonianza, andiamo per vincere». Nico Giberti è uno degli organizzatori di “Politicamp”, l’incontro nazionale dei sostenitori di Civati che è in corso fino a domani nel Chiostro della Ghiara di Reggio Emilia. Negli anni scorsi l’incontro si teneva fuori città ed era l’occasione per gettare qualche sasso nello «stagno» del partito, idee e proposte poi rimaste in gran parte lettera morta. «Questa volta è diverso dice Giberti è cambiato il contesto politico e ci stiamo avviando a un congresso di fondamentale importanza. Anche per questo, per dare maggiore visibilità e partecipazione all’iniziativa, siamo venuti nel centro della città. Non ci limitiamo più a formulare idee di rinnovamento nella speranza che i vertici le prendano in considerazione. Attraverso la candidatura di Pippo, proponiamo direttamente persone e politiche nuove alla guida del partito».
I lavori di “Politicamp” sono iniziati ieri sera. Il Chiostro della Ghiara, tanti anni fa sede di una scuola elementare, adesso ospita un Ostello, i cui cento posti letto sono da tempo tutti prenotati. Risultano esauriti anche i bed & breakfast nelle vicinanze e gli alberghi più a buon mercato. «Aspettiamo tra le cinquecento e le ottocento persone provenienti da fuori Reggio, in buona parte giovani precisa Dario De Lucia, anche lui dello staff organizzativo -. Giovanissimi, tra i 20 e i 25 anni, sono le decine di volontari che contribuiscono alla preparazione e alla gestione di questi tre giorni».
I primi arrivi sono dall’Emilia, dalla Toscana, dalla Lombardia, dall’Umbria, da Roma, da Matera. «Aspettiamo ospiti da tutta Italia, compresi parecchi non iscritti al Pd, ma comunque interessati alle idee di Civati», sottolinea De Lucia. Non per caso, i civatiani
spingono perché le primarie congressuali siano aperte anche a chi tesserato non è. «In questo siamo d’accordo con le sollecitazioni di Renzi spiega Giberti Bisogna trovare una formula inclusiva. Anche se, naturalmente, Civati ha un bacino di potenziale consenso all’esterno al partito collocato più a sinistra, diverso da quello che guarda a Renzi».
Meno entusiasmo verso il “Politicamp” a sentire gli organizzatori si nota da parte del gruppo dirigente reggiano del partito: «Noi abbiamo invitato tutti, diciamo che c’è un tiepido supporto ironizza De Lucia Ci hanno dato le bandiere, ecco. Il resto è tutto autofinanziato da noi: totale delle spese 12.000 euro, contiamo di recuperarli attraverso le offerte dei partecipanti. Entrate e uscite sono resocontate sul sito www.civati.it».
Dallo stesso sito si può assistere a tutti gli appuntamenti compresi nel programma, che vengono diffusi in streaming. Oggi si discute di leggi del cambiamento, di Unione europea, di comunicazione, di piattaforme digitali. Domattina della mobilitazione «occupy Pd», di legalità e lotta alle mafie, di tasse sul lavoro e reddito di cittadinanza. Poi, a mezzogiorno, l’intervento conclusivo di Pippo Civati. Che ieri si è detto certo della candidatura di Renzi alla segreteria del partito: «Gli do il benvenuto. Non faccio il tiro al piccione e non penso che sia un piccione».

Repubblica 6.7.13
Pisapia e Renzi, ecco il ticket che spiazza le correnti del Pd
Due sindaci diversi per provenienza, profilo e anagrafe, ma uniti dalla convinzione che i vecchi schemi non reggono più
E i democratici milanesi sono un pentolone che continua a ribollire ormai da tempo
di Rodolfo Sala

qui

Repubblica 6.7.13
Latorre si smarca dall’ex presidente del Consiglio. “Il correntone anti-sindaco? Se esiste è un grave errore”
“Dobbiamo incoraggiare Matteo a candidarsi D’Alema sbaglia, non separiamo segretario e premier”
di G. C.


ROMA — «Dobbiamo incoraggiare Renzi a correre per la segreteria del Pd, non scoraggiarlo». Nicola Latorre, l’altra sera alla cena dei dalemiani si è smarcato dall’ex premier.
Latorre, lei non è tra quelli che pensano Renzi vada convinto a non candidarsi per ora?
«No, e ripeto: va incoraggiato. Il Pd ha grandi temi davanti a sé. Innanzitutto, dobbiamo impegnarci perché il governo centri gli obiettivi, ovvero fronteggiare l’emergenza economica, realizzare le riforme istituzionali e la legge elettorale. E dobbiamo discutere sulle soluzioni per uscire dalla crisi. Il punto più alto di consenso al Pd è stato raggiunto durante le primarie Bersani/Renzi/Vendola perché si confrontavano tre ricette per guidare il paese fuori dalla crisi.Nel ballottaggio cominciammo a parlare di regole, e cominciò la fase calante. Aggiungo ora, che un’autocritica andrebbe fatta: al secondo turno delle primarie non andavano messi limiti».
Quindi, non ci vuole un segretario debole?
«Non ci vuole una leadership forte, ma fortissima. Un leader con popolarità, credibilità, capace di incarnare un’idea innovativa del progetto politico del Pd. La leadership più forte in questo quadro è quella di Renzi».
Insomma, lei ha cambiato opinione?
«Ho preso atto di una realtà. Scelsi Bersani perché proponeva un’idea di partito meno incentrata sul leader, e più radicato. Ma quell’idea ha prodotto più oligarchia e meno radicamento. Così come scrivemmo nello Statuto proposto da Veltroni, va mantenuta l’identificazione tra segretario e candidato premier».
D’Alema perciò ha torto?
«Quello che dice D’Alema è per me sempre oggetto di riflessione. Ma con Massimo questa volta non sono d’accordo. Penso che lo schema politico per cui chi fa il segretario non deve fare il premier, tenendo così in riserva le persone per la premiership, sia sbagliato e indebolisca il partito».
Renzi segretario del Pd insidia il governo Letta?
«La mia tesi è esattamente opposta. Per rafforzare il raggiungimento degli obiettivi che il governo si è dato, penso che un partito con una guida forte e un ritrovato protagonismo politico possa aiutare. Il precedente Veltroni/ Prodi è una favola priva di fondamento: non fu Veltroni a fare cadere il governo Prodi. Lo testimonio io, che non godevo certo di simpatie veltroniane, ma Walter insisteva in quei mesi sulla tenuta dell’esecutivo. Prodi cadde per colpa di Mastella. Certo, dopo la fine dell’esecutivo Prodi, Veltroni spinse perché si andasse subito a elezioni anticipate. D’altra parte, dopo Letta non ci potrebbe che essere un ritorno alle urne».
C’è un tiro al piccione contro Renzi?
«Non so se c’è questo “correntone” anti Matteo, però se così fosse sarebbe un grave errore, come osserva Cuperlo».

l’Unità 6.7.13
La lettera
Caro Epifani, sulla 194 ci si impegni di più
Snoq Factory, Comitato di «Se non ora quando?»


GENTILE SEGRETARIO EPIFANI, LE PARLIAMO PER QUELLO CHE SIAMO: UN GRUPPO DI DONNE CHE APPARTIENE AL MOVIMENTO SENONORAQUANDO? Altri concetti: destra, sinistra, emergenza, centro, larghe intese, democrazia, crisi, li mastichiamo abbastanza bene anche noi. Nessuno di essi, però, ci definisce. Dunque non scriviamo a Lei per una scelta d’elezione. Lo faremmo con qualsiasi altro segretario di partito che si prepara a un congresso. Abbiamo riflettuto a lungo su quello che è accaduto alla Camera dei deputati l’11 giugno scorso e ci preoccupa. Il problema è così serio che preferiamo un dialogo meditato a una reazione impulsiva. Il suo partito si è astenuto su tutte le mozioni tranne la propria, negando il proprio voto anche a dispositivi che rendessero più vincolanti gli impegni di cliniche ed enti ospedalieri per l’attuazione della legge 194 senza essere paralizzati dall’obiezione di coscienza.
Non ci accontentiamo più di sentirci dire, come alcuni deputati del suo partito hanno fatto nel recente dibattito parlamentare, «la 194 non si tocca». La 194 si tocca, eccome. Da 35 anni, dal 1978, l’anno in cui è entrata in vigore. Siamo sincere e sinceri, una volta per tutte. Quella legge è figlia di un’epoca, di un Paese, di un comprensibile compromesso. In alcune regioni, anche dove governa il suo partito, l’articolo due è stato interpretato a maglie larghe e si sono stipulate convenzioni con associazioni di volontariato che si sono comportate da veri e propri dissuasori. E hanno chiamato questa forzatura «piena attuazione della legge».
Noi non escludiamo affatto che una donna possa essere tormentata e attraversata da dubbi di fronte a una scelta così profonda, ma pensiamo che in questi momenti occorrono l’amicizia, gli affetti, i rapporti di fiducia.
Non lo Stato o il suo braccio convenzionato. In maniera uguale e contraria, l’articolo nove è stato interpretato a capriccio degli enti ospedalieri. Oggi l’obiezione di coscienza ha raggiunto l’80 per cento in media, ha superato il 90 per cento in alcune zone del meridione e spesso le regioni si sono ben guardate dal «garantire e controllare l’attuazione della legge anche attraverso la mobilità del personale», come recita il testo della 194.
Vede, a nostro parere, questa legge si tira e si allenta come un elastico a seconda degli equilibri di potere che in quel momento soddisfano il ceto politico e le sue tattiche. Di questo ne abbiamo abbastanza. Alcune di noi sono credenti, altre no. Nessuna di noi è per l’aborto, tutte siamo per la scelta libera e responsabile di ciascuna donna.
Finchè l’uno non si fa due, uno solo è il corpo, una sola è la coscienza, uno solo è il percorso di responsabilità. Le donne hanno sufficiente immaginazione e senso etico per aprire lo sguardo sull’ embrione, rappresentarsene la vita potenziale, e decidere di se stesse. Ognuna di noi è felice se la propria amica o la propria figlia sono state così sagge da prevenire l’aborto. Consideriamo un dono e un privilegio non essere passate attraverso questa esperienza. Del resto le cifre parlano da sole. Secondo gli epidemiologi dal 1980 ad oggi, rispetto all’abortività stimata prima della legge, sono stati evitati tre milioni e 300 mila aborti. E sarebbero anche di più se, sul tasso di abortività, non incidessero, per il 34%, le donne straniere che di doni e privilegi ne hanno assai pochi.
Vorremmo discutere con Lei di tutto questo. Distinguendo l’etica dalla tattica che, come Lei sa benissimo, sono due cose molto diverse.

l’Unità 6.7.13
Il governo è più forte se evita gli equivoci
Non ha alcun senso il parallelo tra il governo Letta-Alfano e la «politica di solidarietà nazionale» di Moro-Berlinguer
di Michele Ciliberto


SONO D’ACCORDO CON QUANTI INVITANO IL GOVERNO A CONCENTRARSI SULLA QUESTIONE ESSENZIALE, QUELLA DELLA CRISI SOCIALE, senza mettere troppi problemi sul tappeto, con il rischio di non concludere molto e di doversi rassegnare a una sorta di strategia del rinvio. Vale la pena però di chiedersi perché il governo attuale si trovi in questa situazione e gli equivoci da cui essa è generata,e che riguardano la stessa genesi del ministero. Vorrei provare a delinearne alcuni, cercando di chiarire quale dovrebbe essere a mio giudizio il compito essenziale di questo governo di «larghe intese».
Gli equivoci fondamentali, al tempo stesso storici e politici, sono due: proporre una interpretazione estensiva delle «larghe intese»; sostenere che questo governo nasce da un proposito di «pacificazione nazionale» che esso dovrebbe realizzare chiudendo una lunga e tormentatissima stagione della vita della nostra vita nazionale: in sostanza, la cosiddetta seconda repubblica.
Sono entrambi due equivoci assai gravi che caricano sulle spalle di questo governo compiti e responsabilità che non è in grado di assolvere, condannandolo a una esperienza di frustrazioni e fallimenti che non giovano al nostro Paese, specie in un momento così difficile. Vediamo dunque più da vicino questi due equivoci.
Il primo equivoco nasce da un parallelo storico senza alcun fondamento: non c’è infatti alcun rapporto tra la politica di solidarietà nazionale voluta a Moro e Berlinguer e il governo Letta-Alfano (tanto meno con i governi ai quali parteciparono, subito dopo la guerra De Gasperi e Togliatti).
Su questa abissale differenza alcuni commentatori hanno già espresso giudizi critici condivisibili, ma conviene approfondire ulteriormente il punto perché esso è gravido di molte, e gravi, conseguenze.
Le forze che diedero vita alla politica di solidarietà nazionale avevano in comune alcuni elementi tanto essenziali quanto decisivi: l’esperienza e la cultura dell’antifascismo; la battaglia per la Repubblica; la redazione della Carta costituzionale, sulla base di valori condivisi; l’estraneità alla destra politica, quale si era affermata in Italia durante il Ventennio. Tra Pci e Dc esisteva insomma, oltre una dura e aspra lotta e contrapposizione politica, un vincolo etico politico e civile che rendeva possibile, e praticabile, momenti di vicinanza e collaborazione che in una fase di guerra civile e di messa in questione delle fondamenta della Repubblica mise capo alla politica di solidarietà nazionale, che aveva profonde radici nella cultura e nella esperienza delle forze che ne furono le basi (a differenza del Psi di Craxi che si stava già orientando in altre direzioni).
La situazione attuale è del tutto diversa: tra Pd e Pdl non esiste alcun vincolo comune ma, anzi, su punti cruciali della storia e della vita della Repubblica essi sono su posizioni opposte; soprattutto il Pdl è volutamente estraneo alla cultura dell’antifascismo da cui è nata la Repubblica, e anzi rappresenta, nella storia italiana, una forte ripresa e un originale sviluppo della destra politica nazionale sia sul piano culturale che su quello ideologico e organizzativo.
Al governo, oggi, sono due forze che non hanno letteralmente niente in comune, e questo incide naturalmente nella vita del ministero spingendolo, per sopravvivere, alla strategia del rinvio. Del resto, fin dall’inizio la nascita di questo governo è stata argomentata con quella che si può definire una «ideologia della necessità»: con un argomento, cioè, di ordine esterno tecnico, verrebbe da dire che prescinde completamente dalla «costituzione interiore», sia politica che sociale, delle due forze che lo costituiscono.
Secondo grande equivoco è la cosiddetta «pacificazione nazionale» di cui il governo dovrebbe essere l’artefice, e della quale ciarlano sopratutto, e comprensibilmente, gli esponenti della destra, come se in Italia ci fosse stato una guerra civile e non invece, assai più prosaicamente ma con altrettanta durezza -, una vera e propria dittatura della maggioranza -, con tutti gli effetti che ne sono derivati sulla vita democratica nazionale, a cominciare dalla ordinaria dialettica parlamentare, mai stravolta e deformata come in questo periodo. Né è difficile capire cosa ci dia dietro questa favola, che ha l’unica ambizione di costituire un terreno favorevole, politico e giuridico, alla risoluzione della situazione giudiziaria di Berlusconi, trasformata in questo modo da problema di un singolo in una grave questione nazionale. La stessa nascita del governo si inscrive in questa logica, da parte si intende dei dirigenti del Pdl. Il resto sono chiacchiere buone per i gonzi che ci vogliono credere.
Sono questi gli equivoci che pesano sul governo, indebolendone paradossalmente le forze e l’iniziativa già di per sé assai precarie. Se questa analisi ha un fondamento, è naturale infatti che il governo sia in uno stato permanente di fibrillazione: non c’ è alcun vincolo, alcun cemento, che lo tenga insieme. Il che non vuol dire che non possa svolgere una funzione, ma, per essere efficace, essa dovrà essere netta, chiara, precisa, delimitata nel tempo, senza proporsi di realizzare un programma di cambiamenti e di trasformazioni per il quale non esistono le condizioni, e che non possono essere generati con gli strumenti della pura tecnica politica.
In altri termini: questo governo risulterà tanto più efficace quanto più sarà consapevole, in modo esplicito, dei limiti della sua azione. Altrimenti rischia di fare poca strada, anche meno di quella che potrebbe fare. Mentre invece può risultare utile se si configura seriamente, e prosaicamente, come un governo di scopo con alcuni obiettivi precisi e chiari, su cui chiedere il consenso del Paese e dell’Europa, come è avvenuto ad esempio nel caso, assai positivo dell’allentamento del vincolo di bilancio. Essi sono essenzialmente due: misure serie per contenere la crisi e il risentimento sociale; una nuova legge elettorale. In questo modo potrà contribuire a dare respiro all’Italia in un momento di gravi difficoltà, ristabilendo le basi di un normale, positivo, ricambio di governo tra forze alternative. Non sarebbe poco.

La Stampa 6.7.13
Il vero bivio tra indulto e amnistia
di Vladimiro Zagrebelsky


Il favore dichiarato dal ministro della Giustizia per un’amnistia non può certo esprimere solo un’opinione personale. E’ invece da credere che sia l’annuncio della posizione di questo governo, diversa da quella del precedente. Evidentemente si considera insufficiente il recente provvedimento in materia di pene detentive. In effetti, non si capisce come possano essere state diffuse stime di migliaia di detenuti che ritroverebbero la libertà o otterrebbero pene alternative al carcere.
Per ciascuno dovrà intervenire la decisione del giudice, che, secondo i criteri ordinari, dovrà valutare in particolare se vi sia rischio di recidiva. Il risultato è naturalmente imprevedibile e comunque non sarà rapido come sarebbe necessario.
Il riferimento generico all’amnistia, fatto senza particolari precisazioni in interventi destinati alla pubblica opinione, va spacchettato e sciolto per vedere cosa può contenere. In particolare bisogna distinguere l’amnistia dall’indulto o condono. Quest’ultimo è sostanzialmente uno sconto di pena, che produce un’anticipazione della liberazione per i condannati che siano detenuti. L’amnistia invece estingue il reato: prima della sentenza non si ha condanna e dopo la sentenza cessa l’esecuzione della pena. In passato solitamente il provvedimento di clemenza conteneva sia l’amnistia, che l’indulto. L’amnistia estingueva i reati minori – normalmente quelli pretorili, punibili con la pena massima di tre anni di reclusione – con molte specifiche esclusioni. L’indulto invece condonava le pene pecuniarie e uno o due anni di quelle detentive. Anche il provvedimento di indulto prevedeva limiti, escludendo categorie di reati e di condannati, come i recidivi.
Salvo immaginare che si pensi a un’amnistia di enorme ampiezza, tale da coprire ed estinguere reati anche molto gravi, il suo effetto sul numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane sarebbe minimo. Sostanzialmente porterebbe a marginali riduzioni di pena per detenuti che, unitamente alla sanzione per gravi reati, scontano anche quella per i reati minori ricompresi nell’amnistia. Rimarrebbe irrisolto il problema del sovraffollamento delle carceri, che vedono ora presenti quasi ventimila detenuti in più dei circa quarantamila posti dichiarati dal ministero. L’amnistia servirebbe invece a orientare gli uffici giudiziari verso la definizione dei procedimenti per i reati più gravi, eliminando una massa di procedimenti minori, destinati spesso alla prescrizione. E, se la amnistia è unita all’indulto, si eviterebbe di condurre processi sostanzialmente inutili, essendo la pena comunque condonata.
Guardando al problema gravissimo del sovraffollamento delle carceri, che infligge a molti detenuti un trattamento inumano, vietato dalla Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, lo strumento è l’indulto. Si calcola che il condono di un anno di reclusione possa portare alla liberazione anticipata di circa diecimila detenuti, condannati a pene brevi o che ne hanno già scontata una parte e sono quindi prossimi alla liberazione. L’indulto ha anche il vantaggio di operare immediatamente. E la rapidità del risultato corrisponde alla necessità assoluta di non protrarre una situazione di grave violazione in cui l’Italia si trova. Naturalmente si tratterebbe di un provvedimento di emergenza, poiché il problema del sovraffollamento nelle carceri richiede provvedimenti strutturali. E’ indispensabile la selezione dei reati puniti con pene detentive in carcere, insieme all’ampliamento del numero e della natura delle sanzioni non detentive e all’adeguamento degli edifici carcerari e del personale che vi è addetto. Ma i tempi non sono brevi.
Indulto quindi e piccola e ben calibrata amnistia al seguito. Non viceversa. Questo è il provvedimento necessario e urgente se, come si dice, si vuole affrontare il problema dell’eccessivo numero di detenuti in rapporto alla possibilità delle carceri di riceverli. In questo senso si potrebbe dire questa volta che «ce lo chiede l’Europa», aggiungendo anche che «ce lo chiede la Costituzione», che vieta pene contrarie al senso di umanità.
Ma l’improvvisa conversione di tanti tra le forze politiche finora indisponibili, sollecita qualche interrogativo, che occorrerebbe chiarire subito. L’amnistia estingue il reato e fa cessare sia le pene principali, che quelle accessorie. L’indulto estingue o riduce solo la pena principale. Le pene accessorie sono varie, legate al tipo di reato e alla gravità della pena: dall’interdizione dai pubblici uffici, che comporta l’ineleggibilità del condannato, alla interdizione da una professione o dagli uffici direttivi delle imprese, alla incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, alla decadenza o sospensione dalla potestà di genitore. Esse, anche se dette appunto «accessorie», hanno un rilevante significato tanto che nei progetti di riforma del diritto penale se ne raccomanda la trasformazione in pene principali, talora in luogo della pena detentiva. La loro estinzione è automatica con l’amnistia ed è solo eventuale con l’indulto, se c’è una previsione espressa. Non vi è evidentemente alcun legame con il problema urgente del sovraffollamento delle carceri. Ma potrebbe rispondere a una finalità diversa.
Si richiede un intervento di «pacificazione» e si è arrivati addirittura ad assimilare questa prossima amnistia alla «amnistia Togliatti» che nell’immediato dopoguerra volle contribuire alla fine della guerra civile che aveva insanguinato l’Italia. Se ne è parlato già al tempo delle trattative per la formazione del governo, con la sua «strana maggioranza». Se ci sarà un disegno di legge governativo o un’iniziativa parlamentare capiremo di più. Non è immaginabile un’amnistia amplissima, tale da coprire per esempio le frodi fiscali o delitti per i quali i trattati internazionali chiedono all’Italia maggiore severità, come la corruzione. Ma accanto ad un’amnistia della portata normale, già conosciuta nel passato, e all’ombra di essa potrebbe passare un indulto applicabile a una vasta schiera di reati e comprensivo delle pene accessorie. La maggioranza richiesta dei due terzi dei componenti di Camera e Senato dovrebbe però approvare un articolo che specificamente preveda il condono delle pene accessorie e tra queste quella che prevede la ineleggibilità. Poiché v’è un’unica ineleggibilità che in concreto pesi politicamente, quella che rischia Berlusconi, la portata generale della legge di amnistia e indulto nasconderebbe in realtà un provvedimento diretto alla persona. Le proposte di legge, gli emendamenti, il dibattito e la legge finalmente approvata permetteranno di valutare la genuinità della nuova disponibilità a un atto di clemenza nei confronti dei detenuti.

il Fatto 6.7.13
“Ci teniamo i soldi perché...”
I tesorieri dei partiti provano a spiegare le ragioni per cui non fanno come i grillini
di Wanda Marra


Perché non restituiamo la diaria? (... pausa.... risata...) Bella domanda” Antonio Misiani, tesoriere del Pd esordisce così. Poi ci pensa su “Perché, Grillo l’ha restituita tutta? Mi risulta solo la parte non rendicontata”. Bene, e allora perché i parlamentari del Pd non fanno altrettanto, ovvero restituiscono la parte non rendicontata, quella che non riguarda spese documentate? “Non abbiamo un sistema di rendicontazione della diaria”, risponde ancora lui. Poi, si fa serio. Ha una posizione chiara su come dovrebbe essere: “Noi siamo per una revisione complessiva del trattamento economico dei parlamentari, che completi il lavoro avviato nella scorsa legislatura nella direzione della trasparenza e della rendicontazione”.
L’ALTROIERI i parlamentari grillini hanno celebrato il “Restitution Day”: hanno restituito allo Stato 1.569.951,48 euro. Le parte non spesa delle diarie in questi primi mesi di legislatura. La foto del mega assegno qualche problemino agli altri partiti deve averlo creato. Tanto che il segretario democratico, Guglielmo Epifani si è affrettato a dichiarare: “I parlamentari del Pd versano una quota importante per il partito, si scelgono strade tutte degne”. Immediatamente rintuzzato - in un Tweet - da Beppe Grillo. “I parlamentari Pd versano una quota importante al partito. Il M5S allo Stato per ridurre il debito pubblico”. In effetti, un parlamentare in un anno di diaria prende 42.000 euro. Che moltiplicato per 630 deputati e 315 senatori fanno ben 39 milioni e 690 mila euro. Una bella cifra.
“Non mi risulta che il Pd sia l’unico a non restituire la diaria”, esordisce Matteo Mauri, tesoriere del gruppo democratico a Montecitorio. Questo è pacifico. Allora, va avanti: “Loro ci hanno fatto un pezzo di campagna elettorale”. Poi, arriva al punto: “Se si fanno i conti, alla fine è meno di quanto un nostro parlamentare restituisce al Pd”. Le cifre: “Diamo 1500 euro al nazionale, circa 1200-1300 (la cifra è variabile, a seconda delle zone) ai provinciali, e circa 500-600 al mese ai Regionali”. Non basta: “In più per l’elezione devono dare 30-40 mila euro”. Oboli consistenti. Ma i Cinque Stelle li versano allo stato, non al partito. Pronta risposta: “Noi abbiamo un partito, e loro non ce l’hanno. Il Pd deve poter vivere, per far vivere la democrazia. Noi non abbiamo il miliardario che mette i soldi, e neanche l’altro miliardario, quello del blog”. Peccato che scandali e inchieste su dove sono finiti i soldi dei partiti sono all’ordine del giorno. Mauri, tra l’altro, è stato pure un fedelissimo di Filippo Penati. Ma ha una risposta a tutto. Tono sicuro e monocorde: “Sono cose che non riguardano questa legislatura e neanche quel-l’altra. La magistratura chiarirà”.
“Eh, la stessa domanda si può farla a tutti i partiti”, alla domanda risponde così il tesoriere del gruppo di Scelta Civica a Montecitorio, Paolo Vitelli. Ma la domanda è stata fatta a tutti i partiti. “Noi diamo un contributo significativo a un partito che essendo neonato non ha preso soldi dallo stato”. Ma anche i Cinque Stelle non hanno preso soldi dallo stato. “Questo è un fatto (pausa... silenzio, cambio di argomentazione). “Io personalmente ho creato 20 borse di studio da 600 euro ciascuna con la mia indennità da dedicare ai figli dei cassa integrati che devono andare al liceo”. Ma al di là del-l’iniziativa personale, a quanto ammonta questo “contributo significativo” versato a Scelta Civica? “Non so, non sono autorizzato a dirlo”. Poi, dopo qualche minuto richiama: “Allora, volevo darle la cifra precisa: noi ogni mese diamo 1500 euro al partito”. Ma insomma, c’è una differenza tra darli a Scelta Civica o allo Stato, no? “I Cinque Stelle vivono sul web, e bisogna vedere quanto vivono”.
CAMBIO DI ACCENTO, stesse motivazioni per la Lega Nord. Parla il tesoriere del gruppo, Nicola Molteni: “I deputati della Lega Nord contribuiscono con una parte consistente del loro contributo allo svolgimento dell’attività del partito”. Quanto? “È tutto nei documenti ufficiali”. Va bene, ma allora quanto? “Nel 2012 più di 42 mila euro l’anno”. Quindi, più o meno l’equivalente di tutta la diaria. “Sostanzialmente così”. Poi, comincia con le spiegazioni: “Io avevo pubblicato sul sito lo stato patrimoniale e la dichiarazione dei redditi”. Ma perché i soldi al partito e non allo stato? “(pausa, sospiri) Noi abbiamo questo meccanismo. Da sempre”. Pensate di cambiarlo?: “Per ora funziona così”. Poi, ancora sulla difensiva: “Se lei fa il conto, 41mila euro per 5 anni io non dò una piccola somma”. Sergio Boccadutri, tesoriere di Sel, va sulla stessa motivazione. “Perché non restituiamo la diaria? Noi versiamo 3500 euro al mese al partito”. Solita obiezione: il partito non è lo stato. “Ho capito (deciso). Noi non abbiamo il miliardario che paga i palchi a San Giovanni”. Parlare con il Pdl è piuttosto difficile. Il tesoriere, Maurizio Bianconi, non risponde neanche ai messaggi. Loro sono un partito diverso: un contributo lo danno: 800 euro al mese a parlamentare e 15-20 mila per l’elezione. Però non hanno sensi di colpa. Spiega Luca D’Alessandro: “Noi siamo il Pdl, mica il Movimento 5 Stelle. Non ci occupiamo di scontrini, ma di fare le leggi”.

Repubblica 6.7.13
L’ultimo blitz di Pd e Pdl per salvare i soldi ai partiti
Spunta l’emendamento per il “rimborso a progetto”
di Carmelo Lopapa


ROMA — La «tenda canadese» è stata armata nella cantieristica specializzata del Partito democratico, si chiama “finanziamento a progetto”. Mezzo di soccorso da campo per consentire ai partiti di trovare rifugio dall’imminente ciclone destinato ad azzerare da qui a un paio d’anni le loro finanze con l’addio all’erogazione di milioni di euro a pioggia. Il tesoriere democrat Antonio Misiani è da poco rientrato dal Canada, appunto, dove il meccanismo esiste da anni e — a quanto dice lui — funziona. Lo ha studiato, analizzato, messo a punto. E anche i colleghi Pdl, sensibili al tema, sono pronti ad accettare il “modello Ottawa”.
Il premier Enrico Letta sembra non sappia nulla di quanto si stia orchestrando. L’argomento è all’ordine del giorno nella riunionedi gruppo di martedì a Montecitorio, giusto per sondare il terreno. Ma i renziani puntano il dito, aprono il caso, loro non ci stanno. Tagliare, ma con giudizio. E in estate allargare le maglie della fin troppo rigorosa legge sull’abolizione del Finanziamento pubblico ai partiti può riuscire anche meglio. L’ha partorita il governo un mese fa, in Parlamento si sta già lavorando per emendarla. E stavolta è proprio in casa Pd che stanno prendendo corpo gli interventi di chirurgia più invasivi. La disciplina varata dal Consiglio dei ministri concluderà il suo iter in commissione il 26 luglio ma già è chiaro a tutti che per l’esame in aula se ne riparlerà a settembre. «Faremo di tutto per approvarla alla Camera prima della chiusura estiva, ma in calendario il testo è preceduto dal complesso decreto del Fare, in ogni caso la legge voluta dal governo va approvata e presto» spiega il capogruppo Pd in commissione Affari costituzionali, Emanuele Fiano. Del pacchetto sul finanziamento, il deputato è relatore insieme con la pidiellina Mariastella Gelmini. La commissione si è presa tutto il suo tempo. Ben nove audizioni, approfondimenti, lunghi dibattiti che proseguiranno per tutto il mese. Ora la faccenda entra nel vivo. E il nodo cruciale è la norma che introduce la contribuzione volontaria del 2 per mille, che suscita parecchie perplessità sia a destra che a sinistra. «Creerebbe di fatto un’anagrafe degli elettori, una cosa inaccettabile, al pari dell’intromissione indebita nella vita interna dei partiti consentita dalla prima parte della legge, anche quella da rivedere » spiega la Gelmini. Pure Fiano ha dei dubbi su quel meccanismo simile all’8 per mille per la Chiesa che di fatto smonterebbe l’intestazione stessa della legge («Abolizione del finanziamentopubblico»), laddove a rimetterci sarebbe solo lo Stato, privandosi di una quota delle entrate fiscali. Tutti d’accordo sulla necessità di trasformare questa parte della disciplina. Ma come? «Stanno lavorando a un meccanismo piuttosto originale, lo chiamano rimborso a progetto — anticipa con un certo disappunto la giovane deputata Pd Maria Elana Boschi, vicina a Renzi — In pratica, si consentirebbe ai partiti di ottenere delle somme per la realizzazione di progetti specifici. Noi non ci stiamo. Vuol dire rimettere in discussione l’intera legge, che già di suo sembra arrancare, comunque rischia di tradirne lo spirito. Diciamo la verità: comporterebbe il passaggio dal finanziamento diretto a quello indiretto dei partiti». Non solo, la deputata renziana con i colleghi di area è pronta ad aprire un secondo fronte, tutto interno al Pd. «Chiediamo cosa ne sia stato dei due euro versati dai tre milioni di militanti che in autunno hanno votato alle primarie — incalza la Boschi — Va bene, il bilancio interno sarà certificato, ma noi lo vogliamo su internet e ancora non ve n’è traccia. Renzi ha portato al voto un milione di persone. È lecito sapere che utilizzo è stato fatto delle somme versate?» La battaglia congressuale, neanche a dirlo, è destinata ad accendersi anche all’interno delgruppo, proprio sulla legge sul finanziamento. Misiani, tesoriere Pd, non accetta di passare per colui che tenta di allargare le maglie: «Andiamoci piano, c’è una riflessione in atto. Il meccanismo del finanziamento a progetto esiste nel mondo anglosassone, in Gran Bretagna consente di finanziare progetti di formazione, per esempio, o altre iniziative, e funziona». Ma è vero che lei è stato in Canada per studiarlo? «Sì, di recente, lì il finanziamento diretto alla politica è stato superato da forme avanzate di fund raising, tra le quali proprio il sistema a progetto, e mi sembrava opportuno approfondire e valutare la fattibilità in Italia. Ma vedremo, attenti a trarre subito conclusioni ». Mariastella Gelmini conferma che la norma cammina. «Sì, loro ci hanno fatto questa proposta, ma in via ufficiosa, non ancora ufficiale. Il Pdl è per il superamento del 2 per mille, ma sul finanziamento a progetto ci riserviamo di valutare — spiega —. L’importante è che non si traduca in un passo indietro e su questo non ci stiamo». Presto si vedrà se la tenda canadese montata nottetempo riuscirà a resistere.

l’Unità 6.7.13
Roma rinasce dai Fori
Auto e Fori: la guerra dei trent’anni
Argan disse: «O le macchine, o i monumenti» Ci provò Petroselli, adesso Marino raccoglie quella felice visione e rompe l’inerzia
In fondo quella «autostrada» urbana fu una brutta idea del Duce
Il sindaco-marziano fa della convivenza fra antico e moderno il suo cavallo di battaglia
di Vittorio Emiliani


L’invocazione, dell’allora sindaco di Roma, il grande storico dell’arte Giulio Carlo Argan, «o le automobili o i monumenti», risale al 1978. L’inquinamento aveva raggiunto livelli così alti da mettere in pericolo i marmi romani. Nasce allora l’idea dagli studi di Leonardo Benevolo, dalle denunce di Antonio Cederna di chiudere al traffico tutta l’area dei Fori.
In seguito ci fu la proposta di un grande Parco urbano ed extra-urbano, dal Campidoglio all’Appia Antica, ai Castelli, su cui Cederna lavorerà alla Camera, in Campidoglio, al Parco dell’Appia, fino alla morte, nel 96.
Con felice e coraggiosa intuizione il neo-sindaco Ignazio Marino imprime alla politica capitolina, degradata e svilita nel quinquennio di Alemanno, una svolta netta, ripropone quell’idea antiveggente, assieme alla sua Giunta e al I° Municipio, per invertire la rotta, per rimediare ad uno dei peggiori disastri dell’urbanistica-spettacolo di Mussolini: Via dell’Impero. Che spacca in due l’area dei Fori diventando un autostrada urbana con vista sui monumenti (magari sul loro didietro) e riversa insensatamente una marea di veicoli su piazza Venezia, sul centro storico. Siamo tanto abituati a questo melodrammatico stradone che però consentiva al duce di vedere il Colosseo da Palazzo Venezia da averne dimenticato l’origine e la funzione. Magnificare la nuova romanità del fascismo picconando a tutta forza quanto si opponeva alla cavalcata inaugurale del Capo, con tanto di pennacchio, nel decennale della Marcia su Roma. Basti ricordare il prodigio che tale opera rappresentò, scrive all’epoca il pur colto Giuseppe Bottai, infatti, nel termine ristretto di soli sette mesi, si sono demoliti ben 5500 vani d’abitazione, si sono scavati e asportati 300.000 metri cubi di terreno, di cui la sesta parte, circa, costituita da roccia e da vecchi calcestruzzi romani.
In realtà ci ha spiegato uno storico e urbanista della statura di Italo Insolera in Roma moderna fu sbriciolata l’edilizia medioevale e completamente distrutto il quartiere costruito all’inizio della Controriforma, furono atterrate due chiese, cancellate almeno dodici vie e tranciata, abbassata la collina della Velia, fra Colle Oppio ed Esquilino, uno dei Sette Colli dell Urbs più antica. Tant’è: gli abitanti di quelle malfamate casupole erano come i loro simili della Spina di Borgo proletari e sovversivi da deportare nella nuova borgata di Primavalle. Un annientamento. Già sperimentato in periodo umbertino e replicato ossessivamente da Mussolini all’Augusteo e altrove. Facendo oltre tutto di una città policentrica (San Pietro, San Giovanni in Laterano, Quirinale, ecc.) come osserva uno degli studiosi più acuti, Mario Sanfilippo, nelle Tre città di Roma (Laterza) una metropoli nevroticamente monocentrica attorno alla ingestibile piazza Venezia.
Ma torniamo al grido di Argan, ripreso dal soprintendente Adriano La Regina. Luigi Petroselli, che nel 1979 subentra al dimissionario, stremato Argan, ha già un saldo rapporto con gli intellettuali più avanzati e pone mano alle prime misure concrete: lo smantellamento della via che separa Foro e Campidoglio e la creazione dell area pedonale fra Colosseo e Arco di Costantino. Così si ricostituisce la continuità Colosseo-Via Sacra-Clivo Capitolino, mentre Colosseo e Arco di Settimio Severo vengono salvati da veleni e scosse del traffico. Nell’81 un ministro dei Beni Culturali, spesso dimenticato, il repubblicano Oddo Biasini, vara la legge speciale n. 92 con cui si assegnano 168 miliardi in cinque anni alla Soprintendenza di Roma per lavori di restauro. Il Messaggero da me diretto (lasciatemelo ricordare) dove scrivono Vezio De Lucia e Italo Insolera sostiene senza riserve il progetto del grande Parco. Sul Corriere della Sera (14 marzo 81) 220 intellettuali e dirigenti del Ministero firmano un appello per il Parco stesso (a favore del quale si esprimerà nell 82 anche il ministro Enzo Scotti).
Purtroppo, prima che finisca l’81, muore all’improvviso Petroselli, sindaco coraggioso e deciso. Cambia l’assessore al Centro Storico, con Carlo Aymonino al posto di Vittoria Calzolari autrice del piano di assetto dell Appia. La spinta si affievolisce. Il cantiere aperto nel Foro di Nerva non procede.
Alcuni intellettuali di sinistra esprimono dubbi di sostanza sullo straordinario parco urbano-metropolitano da piazza Venezia ai piedi dei Castelli (per il quale Cederna presenterà poi un disegno di legge). Nell’83 il ministro Nicola Vernola ha rovesciato l assenso del predecessore Scotti. La leva fondamentale assieme allo SDO della riqualificazione ambientale e urbanistica di Roma, della sua stessa immagine finisce in archivio. Tanto più dopo l’avvento, nell’85, di amministrazioni a guida Dc, fragili e spente.
Ignazio Marino, il marziano, ne fa ora, dopo 35 anni, un autentico cavallo di battaglia per coniugare felicemente antico e moderno, per ridare dignità e decoro ad una capitale degradata e imbruttita, invasa ovunque da auto, furgoni, pullman. Ed è proprio sull intera città antica, sugli usi distorti ai quali è stata piegata una volta espulsi i residenti (ridotti ad appena 85.000) che si dovrà esercitare il nuovo fervore, la nuova attenzione culturale suscitata dalla proposta, chiara e netta, del nuovo sindaco della capitale. Con misure graduali e però risolute, fondate su studi e piani del più alto livello. Come Roma merita.

l’Unità 6.7.13
«Il parco dal Colosseo all’Appia Antica»
I progetti del Primo cittadino. E un pomeriggio con i romani in assemblea davanti all’anfiteatro
di Jolanda Bufalini

ROMA Per ora è solo una limitazione, una rivoluzione del traffico intorno al Colosseo ma tanto basta a far riscoprire il sogno di una Roma restituita ai suoi abitanti, ai ciclisti, ai bambini e ai turisti, «ma loro dice una giovane mamma vengono comunque a vedere i Fori e il Colosseo, siamo noi romani ad avere diritto a una città più vivibile».
Sulla scena spettacolare dei Fori in un assolato e tardo pomeriggio romano, i residenti dell’area interessata allo sconvolgimento del traffico discutono con due assessori, Flavia Barca (cultura), Guido Improta (trasporti), la presidente del primo municipio Sabrina Alfonsi e con l’ingegnere Alessandro Fuschiotto di «Roma servizi per la mobilità» che, in equipe, ha studiato i cambiamenti che saranno sperimentati alla fine di luglio, per chiudere, ad agosto, l’ultimo tratto di via dei Fori Imperiali al traffico privato. Gli interventi dei comitati, dal Celio a via Merulana a Monti, ai ciclisti, sono a favore, anche quando esprimono preoccupazione. Soprattutto piace, lo dice Roberto Crea di Cittadinanza attiva, che «siamo alla secondo incontro pubblico partecipato da parte di una giunta e di un municipio che si sono insediati da sette giorni». Apprezzato il metodo nuovo, si espongono i problemi e le speranze: «Tutto il centro storico deve essere pedonalizzato», «Il trasporto pubblico deve essere una priorità», «I pullman turistici affogano il traffico». Si chiede il prolungamento del tram 8 al Colosseo, l’ampliamento della Ztl. L’ingegnere Fuschiotto spiega che, per ora, la Ztl non verrà ampliata.
Lunedì si riunirà la conferenza dei servizi con le soprintendenze per studiare tutti i passi. Soprattutto per non creare una zona archeologica di serie A, e una di serie B. Spiega Daniel Modigliani ex direttore del Prg di Roma: «il centro archeologico monumentale non è solo l’area dei Fori, ma è individuato nel piano regolatore come area da tutelare e comprende anche Colle Oppio con le Terme di Traiano, le Terme di Tito e la Domus Aurea».
Lo studio della riduzione del traffico che entrerà in vigore a fine mese è iniziato su input delle soprintendenze archeologiche, quando è partito il cantiere della metro C e c’erano preoccupazioni per le vibrazioni intorno al Colosseo. Il sindaco Marino che, in campagna elettorale accusava Alemanno di lasciare nel cassetto gli stessi studi dei suoi tecnici, ha colto l’occasione al volo per rilanciare l’idea di Antonio Cederna: «Il progetto attuale vuole rendere orgoglioso il nostro Paese nei confronti del mondo. Stiamo parlando del più grande parco archeologico della terra. È solo l’inizio: il progetto si completerà quando avremo realizzato il parco archeologico dell’Appia antica». Il presidente della Regione, Nicola Zingaretti, apprezza il coraggio del sindaco: «È una grande occasione per dare all’Italia una spinta alla crescita ripartendo dalla cultura, un simbolo di una nuova fase che andrà vissuta come una sfida». Se si creeranno problemi nel traffico, aggiunge Zingaretti, «li affronteremo».
In piazza, ai cittadini, l’assessore Guido Improta spiega: «Ci sarà il coinvolgimento di più assessori, non è tanto un progetto trasportistico ma un progetto che mette al centro della scena mondiale la valorizzazione di un’area archeologica che tutto il mondo ci invidia». Le criticità nel traffico «si supereranno con un’analisi molto attenta dei flussi fatta dall’Agenzia per la mobilità, e anche grazie ad una responsabilità nuova e condivisa da parte dei cittadini».

il Fatto 5.7.13
Rai, i familiari delle vittime delle stragi: “Lucarelli torni in onda”
Le associazioni chiedono che la trasmissione Blunotte venga reinserita nel palinsesto della rete pubblica. "Si tratta di autentico servizio pubblico", scrive Paolo Bolognesi dell'associazione 2 agosto 1980, "chiediamo che i vertici ripensino alla decisione"

qui

il Fatto 6.7.13
La Fiat regna ma non governa
Neppure conquistare il Corriere può aiutare Marchionne, bocciato dalla Consulta e snobbato dalla Boldrini
di Stefano Feltri


Certi silenzi spiegano più di mille dichiarazioni il momento della Fiat e la scoperta di un’improvvisa debolezza o almeno di una certa solitudine. Due giorni fa il presidente della Camera Laura Boldrini rifiuta l’invito di Sergio Marchionne a partecipare a una cerimonia nello stabilimento Sevel in Val di Sangro, colpa di imprecisati “impegni istituzionali”, ma anche di scarsa simpatia per chi compete nella “gara al ribasso sui diritti e sul costo del lavoro”. Sono passati appena sette mesi da quando Mario Monti, allora premier, si prestò a fare da testimonial per il rilancio dello stabilimento di Melfi (pochi giorni dopo Marchionne mise tutti in cassa integrazione). Polemiche sul caso Boldrini: pochissime, giusto un mugugno di Fabrizio Cicchitto (Pdl). Secondo silenzio eloquente: nella battaglia per il Corriere della Sera l’imprenditore della Tod’s Diego Della Valle – per ora il grande sconfitto – accusa il presidente Fiat John Elkann e il capo dello Stato Giorgio Napolitano di aver interpretato una “sceneggiata da Istituto Luce”: invece che rispondere alla chiamata con cui Elkann annunciava al Quirinale che aveva raddoppiato il peso nell’azionariato Rcs, da circa il 10 a oltre il 20, Napolitano avrebbe fatto meglio a “chiamare gli operai di Pomigliano”. Polemiche su questo attacco: zero. C’è il vuoto politico attorno a Marchionne, ma c’è anche poca simpatia attorno al-l’operazione su Rcs: è vero che l’editrice del Corriere della Sera vacilla sotto il peso di debiti e perdite frutto di scriteriate operazioni passate, ma sono in pochi a salutare l’avanzata di Elkann come un sollievo. A che scopo vuole il Corriere? Magari per contare di più e allontanare il direttore Ferruccio de Bortoli, colpevole di aver pubblicato (anche) articoli critici sulle strategie del Lingotto? O forse per consegnarlo a Rupert Murdoch in vista del doppio riassetto industriale, quello del settore tv in Italia, che interessa allo Squalo, e di quello auto con la fusione con Chrysler negli Usa, per il quale a Elkann farà comodo il sostegno della Fox di Murdoch. Chissà.
IL FACCENDIERE Luigi Bisignani ieri ha dato un giudizio che, in bocca ad altri, avrebbe portato a immediate querele dalla Fiat: “Elkann? Mi sembra una specie di furbetto del quartierino di Torino, ha preso i diritti a quattro lire come il nonno che approfittò della vicenda P2 per prendersi la Rizzoli. Poi ha chiamato Napolitano e non si capisce perchè”. Parole sgradevoli ma prive di conseguenze. A differenza di quelle della Corte Costituzionale che tre giorni fa ha sancito che la linea seguita da tre anni contro la Fiom è illegittima. “La sentenza della Consulta sancisce che è incostituzionale interpretazione che Fiat ha dato dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori per escludere la Fiom dai suoi stabilimenti”, spiega al Fatto Maurizio Landini. L’articolo 19 stabilisce che “rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito” da parte delle “associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva”. Un articolo modificato da un referendum del 1995 (prima la rappresentanza era concessa alle “associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”). Marchionne lo ha interpretato in maniera incostituzionale, dice la Consulta, stabilendo che la conseguenza degli accordi separati sugli stabilimenti Fiat e la scelta della Fiom di non aderire al nuovo contratto scritto fuori dalle gabbie nazionali (il Lingotto ha portato le fabbriche fuori da Confindustria) come una cessazione di tutti i diritti sindacali dei metalmeccanici Cgil.
CONFUSI DALLA CONTINUA alternanza di sentenze favorevoli e contrarie, pochi hanno chiaro che la segregazione della Fiom è stata smontata pezzo dopo pezzo dai tribunali: Landini ha già ottenuto di poter avere le trattenute sindacali in quasi tutti gli stabilimenti, a Pomigliano d’Arco il tribunale di Roma ha stabilito che c’era stata una discriminazione ai danni degli iscritti Fiom e che dovevano essere riassunti nella nuova fabbrica (la Fiat cerca di rimandare il problema tenendo gli operai in cassa integrazione così da non assumere). Ora Landini vuole proporre alla Fiat un armistizio dalla posizione di forza in cui lo ha messo la Corte Costituzionale: “Stiamo valutando un passo formale verso la Fiat per avere il riconoscimento dei nostri diritti: la nomina delle Rsa e l’uso delle salette sindacali”, dice Landini. L’idea è questa: inutile continuare a contrapporsi in tribunale, visto che dopo la sentenza della Consulta le possibilità della Fiat di ottenere ragioni sono molto più basse, facciamo un tavolo con tutte le parti sociali e troviamo un compromesso una volta per tutte. Landini ne parlerà in una assemblea con i delegati del gruppo Fiat. Elkann pare abbia altri pensieri. Starà ragionando su chi deve essere il direttore del suo Corriere.

il Fatto 6.7.13
Luciano Gallino
“Nessun quotidiano vale 2 milioni di automobili e gli stipendi che creano”


NESSUN GIORNALE, nemmeno il Corriere della Sera, vale uno o due milioni di automobili con l’indotto di stipendi che si portano dietro”. Il sociologo Luciano Gallino è scettico, ma non sorpreso dalla decisione di John Elkann di scalare Rcs: “Non mi pare strano, è più o meno quello che hanno sempre fatto i grandi gruppi industriali”.
Cioè?
Estendere la propria capacità comunicativa. Lo fanno in tutti i paesi del mondo e la stessa Fiat l’ha fatto finora con La Stampa.
Questo, però, avviene mentre la presenza industriale in Italia va spegnendosi.
È il risultato prevedibile delle azioni della stessa famiglia Agnelli, non si tratta di un incidente di percorso: da anni dimostra che al fatto di produrre automobili in Italia non tiene molto.
Parla degli anni di Marchionne?
I numeri sono implacabili: nel 2004, quando l’ad è arrivato a Torino, l’Italia era al secondo o terzo posto nella produzione di automobili in Europa, oggi è al nono dopo Repubblica Ceca e Polonia. Un declino marcato, anche se l’azienda si consolida all’estero.
E non c’è da rallegrarsi.
Non c’è niente di cui gioire se Fiat va bene in Turchia o in Brasile mentre posti di lavoro e interi siti produttivi scompaiono in Italia: Pomigliano dimezzato, Termini sta per chiudere, a Mirafiori si lavora una settimana al mese. Tanto paga l’Inps....
Non solo la produzione declina in Italia, anche la figura di Marchionne.
Ha tirato la corda e ha sbattuto la faccia.
Boldrini che si rifiuta di visitare lo stabilimento in Val di Sangro, la Consulta dà ragione alla Fiom...
Marchionne sembrava sostenere che l’azienda possedesse i sindacati, ma in questo paese c’è ancora una Costituzione e un certo numero di persone pronte a farla valere.
E ora che succede?
Servirebbe una legge sulla rappresentanza sindacale. Certo si aprirebbero altri problemi.
A cosa si riferisce?
Alle pressioni che possono arrivare sulla politica. La Fiom avrà modo di farsi valere in Parlamento, ma pure la Fiat. Ora con due giornali poi...

il Fatto 6.7.13
Massimo Mucchetti
“L’influenza di Torino su via Solferino non ha sempre dato buoni risultati”


DA GIORNALISTA DEL CORRIERE della Sera ha firmato articoli poco graditi alla Fiat, ora Massimo Mucchetti è parlamentare del Pd.
Mucchetti, la scelta di Fiat di investire su Rcs è una prova di forza o di debolezza?
Se, dopo l’asta dei diritti, la Fiat avrà ancora la maggioranza relativa e conserverà l’appoggio delle banche, l’acquisizione del controllo di fatto su Rcs allargherà l’influenza di Torino sul-l’opinione pubblica. Finora, il Corriere di Ferruccio de Bortoli ha dimostrato autonomia di giudizio sia su Fiat che su altri soci eccellenti. Con equilibri diversi, vedremo. Che editore è la Fiat al Corriere nella tua esperienza? La Fiat non è stata editrice del Corriere. É stata un azionista influente ma non sempre buono: l’affare Carolco, l’affare Fabbri, il tentativo di portare Carlo Rossella alla direzione, lo stesso affare Recoletos aveva la benedizione di Luca di Montezemolo. Se ora la Fiat vuole piazzare la Stampa al Corriere, che cosa dobbiamo pensare?
Lo dica lei.
Se ci si arriverà, sarà necessario un ferreo rispetto delle best practices, non solo delle norme di legge, sui conflitti d’interesse tra parti correlate. Per Elkann prendere il Corriere è solo un omaggio alla memoria del nonno?
Giovanni Agnelli mai avrebbe pensato di avere meno del 100 per cento della Stampa, anche se si vantava di avere sempre un’azione Rcs più di chiunque altro.
L'aumento di capitale risolve i problemi di Rcs?
Questi 400 milioni sono insufficienti. Servono solo a comprare un po’ di tempo.
I conti della Fiat che compra giornali sono quelli di un'azienda sana?
Sbaglio o le obbligazioni Fiat sono ancora senza rating?
C'e' l'ipotesi di un'alleanza tra Rcs e Murdoch.
Fantafinanza o scenario plausibile?
A Sky Murdoch si è rivelato un buon editore. Al Wall Street Journal pure. Certo, se il direttore del Corriere lo nominasse un sostenitore di George W. Bush e ci fosse un’altra guerra in Iraq alle porte, quale sarebbe la credibilità del giornale? Ma prendo atto che l’ipotesi Murdoch è stata smentita.

il Fatto 6.7.13
Rcs, il 15 per cento in bilico tra Elkann e Diego Della Valle
Se l’imprenditore della Tod’s vuole davvero soffiare il quotidiano alla famiglia Agnelli dovrà investire fino a 60 milioni di euro oltre ai 35 già impegnati
Ma i fondi Clessidra e Investindustrial possono complicare la partita
di Carlotta Scozzari

Milano Mentre sta per chiudersi l’operazione di aumento di capitale di Rcs, si delineano le nuove geometrie nell’azionariato del gruppo del Corriere della Sera. Ieri, ultimo giorno disponibile per esercitare i diritti relativi alla ricapitalizzazione, la società editoriale ha comunicato che l’operazione si è conclusa con un inoptato del 15 per cento sulle azioni ordinarie. In altri termini, dei 400 milioni complessivi di titoli ordinari che andranno a rafforzare il capitale del gruppo, eroso per oltre un terzo dalle perdite, al momento, attraverso i diritti, sono stati “prenotati” soltanto 340 milioni. Le azioni risparmio, invece, offerte per 21 milioni, sono state ipotecate quasi per intero.
A QUESTO punto, le opzioni relative alla parte residuale dell’aumento - l’inoptato - saranno offerte in Borsa tra il 10 e il 16 luglio, altrimenti resteranno in pancia alle banche del consorzio di garanzia, che le eserciteranno e in un secondo momento tenteranno di vendere le azioni.
Ed è proprio sull’inoptato che si giocherà la partita del-l’imprenditore Diego Della Valle contro il presidente della Fiat, John Elkann. Quest’ultimo, a sorpresa, tramite il gruppo automobilistico, venerdì 28 giugno aveva annunciato di avere prenotato tanti diritti del-l’aumento di Rcs che gli permetteranno, a operazione finita e ipotizzando una sottoscrizione integrale delle azioni (comunque scontata per l’intervento del consorzio di garanzia), di passare dal 10,4 al 20,14 per cento del capitale del gruppo editoriale. Un blitz che a Fiat costerà qualcosa come 93 milioni di euro e che su Elkann ha attirato le ire di Della Valle. L’imprenditore marchigiano, purché si sciolga il patto di sindacato (che prima del-l’aumento blindava il 58 per cento del capitale della società), si è detto pronto a sottoscrivere abbastanza inoptato da superare il 20 per cento di Rcs, oltrepassando la stessa Fiat. Se Della Valle, che al momento staziona al-l’8,7 per cento, sottoscrivesse tutto l’inoptato, per un investimento di 60 milioni, potrebbe salire di slancio fino a quasi il 24 per cento del capitale.
CI PROVERÀ davvero? E, se sì, ci riuscirà? Nei giorni scorsi, alcune indiscrezioni indicavano i due fondi di private equity Investindustrial, del patron di Bpm Andrea Bonomi, e Clessidra, dell’ex numero uno di Fininvest Claudio Sposito, come interessati a entrare nel gruppo editoriale attraverso l’aumento di capitale. L’unica cosa certa, per il momento, visto che ieri è arrivato un comunicato ufficiale, è che Diego Della Valle ha sottoscritto tutti i propri diritti, così da restare all’8,81 per cento del capitale, per un investimento intorno ai 35 milioni.
Anche Intesa Sanpaolo ieri ha annunciato di essersi assicurata tanti diritti da restare al 5,018 per cento dopo l’aumento, per un investimento intorno ai 20 milioni. In questo modo, ferma restando l’incognita sull’inoptato, dopo l’aumento, in cima alla lista dei soci dovrebbe collocarsi Fiat con poco più del 20 per cento, seguita da Mediobanca, che investirà poco più di 60 milioni per restare intorno al 15 per cento, e da Della Valle con il suo (momentaneo?) 8,81 per cento. Seguirebbero, poi, Unipol, Pirelli e la stessa Intesa, con quote intorno al 5 per cento a testa del gruppo editoriale.
GLI EREDI di Giuseppe Rotelli, l’imprenditore della sanità morto venerdì scorso e che era il primo socio di Rcs al 16,6 per cento fuori dal patto di sindacato, scenderanno al 4 per cento dopo l’operazione. Se poi il consorzio di garanzia dovesse accollarsi dell’inoptato, una parte finirebbe a Banca Imi, andando indirettamente ad aumentare la partecipazione complessiva di Intesa. Il consigliere delegato della banca milanese, Enrico Cucchiani ha replicato a Della Valle: il tema dell’eventuale scioglimento del patto di sindacato di Rcs, così come qualsiasi cambiamento della governance del gruppo, “è un argomento che va affrontato una volta concluso l’aumento di capitale”.

il Fatto e The Independent 6.7.13
Egitto
Per la prima volta nella storia un golpe non è un golpe
Il “non golpe” magico: piace a Israele, Usa e anche Siria
di Robert Fisk


Per la prima volta nella storia un golpe non è un golpe. L’esercito depone e incarcera un presidente democraticamente eletto, sospende la costituzione, arresta i soliti sospetti, si impadronisce di tutte le stazioni televisive e fa scendere le truppe per le strade della capitale. Ma la parola “golpe” non può e non deve uscire dalla bocca di Barack Obama. E nemmeno l’impotente segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon osa mormorare una simile sconveniente parola. Non che Obama non sappia cosa sta accadendo. Questa settimana al Cairo i cecchini hanno ucciso 15 egiziani sparando dal tetto di quella stessa università nella quale Obama nel 2009 pronunciò il famoso discorso al mondo islamico.
LA RETICENZA di Obama si deve al fatto che milioni di egiziani volevano il rovesciamento di Morsi, primo caso nella storia in cui il popolo è sceso in piazza in massa per chiedere un golpe? Oppure Obama teme che definendolo per quello che è gli Stati Uniti sarebbero costretti a imporre sanzioni nei confronti del Paese arabo più importante tra quanti sono in pace con Israele? O forse il problema va individuato nel fatto che se si ammettesse che di golpe si è trattato, i militari egiziani potrebbero perdere per sempre il miliardo e mezzo di dollari che ricevono dagli Usa ogni anno? Nel famoso discorso del 2009, Obama disse che alcuni capi di Stato e di governo “auspicano la democrazia solo quando non sono al potere; una volta al potere soffocano brutalmente i diritti degli altri. Bisogna rispettare i diritti delle minoranze e governare con tolleranza piegandosi ai compromessi”.
Queste parole Obama le ha dette quattro anni fa e riassumono gli errori di Morsi. Ha trattato i suoi seguaci della Fratellanza Musulmana come padroni e non come servitori del popolo, non ha tutelato in alcun modo la minoranza cristiana e infine ha provocato l’ira delle forze armate partecipando a una riunione dei Fratelli Musulmani nel corso della quale gli egiziani sono stati invitati a unirsi alla guerra santa in Siria per uccidere gli sciiti e rovesciare il regime di Assad. C’è un fatto di particolare importanza negli avvenimenti delle ultime 72 ore. Nessuno è più felice di Assad, nessuno è più soddisfatto né più consapevole della correttezza della scelta di combattere ‘islamisti’ e ‘terroristi’. L’Occidente aspira a distruggere Assad, ma non muove un dito se l’esercito egiziano rovescia un presidente eletto, ma colpevole di essersi schierato dalla parte dei nemici di Assad. L’esercito ha definito i seguaci di Morsi “terroristi e pazzi”. Non è in questo modo che Assad definisce i suoi nemici? E comunque proprio ieri Assad ci ha ricordato che nessuno deve strumentalizzare la religione per conquistare il potere. C’è da scoppiare a ridere.
IN OGNI CASO Obama è ancora in mezzo al guado. I leader occidentali che vengono a raccontarci che l’Egitto è tuttora in cammino verso la democrazia e che quello attuale è solo un momento “di transizione” e che milioni di egiziani appoggiano il golpe che non è un golpe, non possono dimenticare che Morsi è stato eletto con elezioni svoltesi sotto il controllo dell’Occidente. Certo ha ottenuto poco più del 50% dei voti, ma ha vinto. E George W. Bush ha vinto veramente le prime elezioni presidenziali? Morsi senza dubbio gode dell’appoggio di una percentuale più ampia della popolazione rispetto a Cameron. Ha perso ogni legittimazione democratica tradendo la volontà della maggioranza degli egiziani. Ma questo vuol forse dire che gli eserciti occidentali possono assumere il controllo del governo ogni qual volta l’indice di gradimento del primo ministro scende al di sotto del 50%? E, tanto per essere chiari: i Fratelli Musulmani potranno partecipare alle prossime elezioni? E cosa accadrà se parteciperanno e il loro candidato vincerà di nuovo?
Israele comunque può essere soddisfatta. Sa benissimo che di golpe si tratta e può riprendere il ruolo, tanto caro agli israeliani, di “unica democrazia” del Medio Oriente avendo al potere in Egitto i governanti che più le vanno a genio: i militari. E visto che i militari egiziani percepiscono dagli Usa un miliardo e mezzo di dollari l’anno, certo non faranno nulla per mettere in discussione il trattato di pace con Israele per quanto impopolare possa essere tra la gente. Attendiamo con ansia la prima visita ufficiale di una delegazione americana in Egitto. Allora capiremo se gli americani credono o no che in Egitto c’è stato un colpo di Stato. Basterà vedere con chi si incontreranno al loro arrivo al Cairo. Io dico con i militari. E voi?
© The Independent

l’Unità 6.7.13
L’esercito spara: Egitto in fiamme
In piazza i filo-islamici. Scontri e morti
Violenze al Cairo e in altre città: almeno 6 vittime
Il presidente ad interim scioglie il Parlamento
La Guida suprema della Fratellanza: nessun compromesso con i golpisti. I tank nelle strade
di Umberto De Giovannangeli


Il «venerdì del rifiuto» si trasforma in un venerdì di sangue. Pro e anti Morsi si sono scambiati colpi di arma da fuoco nei pressi della piazza davanti all’università del Cairo dove si sono riuniti stanno radunando i supporter del presidente egiziano deposto: almeno quattro persone sono morte. Lo riferiscono fonti della sicurezza secondo le quali ci sono anche diversi feriti. Ma un portavoce dell’esercito nega: non abbiamo sparato sui manifestanti. Una fonte della sicurezza citata dalla tv di Stato ha affermato che «non ci sono state vittime durante gli scontri davanti al quartier generale della Guardia Repubblicana». Sono migliaia i supporter del deposto presidente egiziano Mohamed Morsi in manifestazioni al Cairo e ad Alessandria.
Un militante islamico è morto all’alba di ieri Luxor, nel sud dell’Egitto, negli scontri tra musulmani e cristiani per la destituzione di Morsi. Secondo quanto riferito dal quotidiano Al Ahram, l’uccisione di Hassan Sayed Sedki ha scatenato la reazione dei musulmani che hanno dato alle fiamme diverse abitazioni cristiane in città. Due poliziotti di guardia ad un edificio governativo della località egiziana di El-Arish, nella penisola del Sinai, sono stati uccisi da un gruppo di uomini armati: lo hanno reso noto fonti della sicurezza egiziana. Il valico di Rafah con la Striscia di Gaza è stato chiuso e l’esercito ha imposto lo stato d’emergenza nel Sinai e nella provincia di Suez.
Un funzionario del ministero della Salute egiziano, Khaled el-Khatib, ha confermato la morte di una persona e un numero imprecisato di feriti. Secondo le testimonianze, i corpi di due persone sono stati coperti con lenzuola, mentre a terra giaceva un terzo manifestante, ucciso da un colpo alla testa. Il sito dei Fratelli musulmani ha riportato di «quattro martiri». Il partito Libertà e giustizia, braccio politico della confraternita islamica, ha riferito che sono cinque i morti negli scontri. Le piazze urlano la propria rabbia dopo il golpe che ha portato all’insediamento di Adli Mansour a presidente ad interim. Le truppe sono presenti in forze all’esterno della moschea Rabia al-Adawiya, nel quartiere di Nasr City. La zona, in cui sono accampate migliaia di persone, è circondata da veicoli militari. Una dichiarazione della Fratellanza letta dai sostenitori nei pressi della moschea conferma «il rifiuto completo del colpo di Stato militare contro un presidente eletto e contro la volontà della nazione»; e annunciato il rifiuto «a partecipare a qualsiasi attività con le autorità usurpanti». Sul posto è apparso anche uno dei membri più autorevoli del movimento, Mohamed Beltagy, che non è stato arrestato.
NESSUN COMPROMESSO
A infiammare la folla è la Guida suprema dei Fratelli musulmani, Mohammed Badie. Giovedì si era sparsa la notizia che Badie era stato arrestato. Ed è proprio Badie a infiammare la manifestazione tenendo un discorso: «Non sono in fuga, non mi hanno arrestato. A tutti gli egiziani dico: Morsi è il vostro presidente. E resteremo nelle strade a milioni finché non riporteremo in trionfo il nostro presidente eletto». «L’esercito deve restare lontano dalla politica e l’Egitto non conoscerà mai più il potere militare. Il golpe militare è nullo. Non ci sono alternative alla restaurazione di Morsi: l’unica sono le nostre vite», è l’ultimo monito di Badie.
Intanto, l’Egitto non ha più un Parlamento: come preannunciato, il presidente ad interim, Adly Mansour, ha emesso un decreto costituzionale con cui viene sciolto anche il Consiglio della Shura, la Camera alta (la Camera bassa era stata sciolta circa un anno fa dalle autorità militari poco prima dell’elezione di Morsi). Lo ha annunciato la tv di Stato, aggiungendo che Mansour ha no-
minato un nuovo capo dell’intelligence: Mohamed Ahmed Farid succede a Mohamed Raafat Shehat, voluto da Morsi. In serata migliaia di sostenitori del presidente deposto provano a raggiungere la sede della Tv di Stato, poco distante da piazza Tharir dove si sono radunati, in migliaia, gli oppositori di Morsi. Inizia una fitta sassaiola. Echeggiano colpi d’arma da fuoco. Intervengono i tank per evitare il contatto tra i due schieramenti. La tensione è altissima. Per l’Egitto è un’altra notte di paura. E di sangue.

l’Unità 6.7.13
Dalla Turchia alla Tunisia lo spettro dei «golpe popolari»
Quattro anni fa Obama evocò un «nuovo inizio» nei rapporti con l’Islam puntando sulla istituzionalizzazione dei partiti islamici
di U.D.G.


Sono qui per cercare un nuovo inizio fra gli Stati Uniti ed i musulmani nel mondo, basato sul mutuo interesse e sul mutuo rispetto. E sulla verità: America e Islam non devono essere in competizione. Invece, si sovrappongono e condividono principi comuni, di giustizia e progresso, di tolleranza e dignità di tutti gli esseri umani». Era il «Nuovo Inizio» di Barack Obama. Un’apertura storica, quella che caratterizzò il discorso pronunciato dal presidente Usa all’Università di Al-Azhar al Cairo, il più importante centro di studi dell’Islam sunnita. Era il 4 giugno del 2009, le «Primavere arabe» non erano ancora germogliate. Ma in quel discorso, il presidente Usa delineava i principi culturali di una strategia politica: quella di portare l’Islam politico ad una piena secolarizzazione, attraverso la via democratica e la prova del governo.
Una prova che Mohamed Morsi e i Fratelli musulmani hanno fallito in Egitto, sul piano sociale prim’ancora che su quello identitario. Ma non per questo, il «Nuovo Inizio» evocato quattro anni fa da Barack Hussein Obama va liquidato come una «toppa» epocale. Perché la via istituzionale dell’Islam politico vive ancora in altri Paesi, dalla Turchia alla Tunisia, in cui partiti islamisti hanno fatto da argine ad una possibile deriva jihadista di masse di diseredati o di giovani acculturati alla ricerca di una identità forte in cui riconoscersi. Morsi ha fallito perché si è rivelato incapace a trovare soluzione ai problemi quotidiani della popolazione. Ma ciò non deve servire a pretesto per riportare in voga l’idea, mutuata dall’impianto ideologico dei neocon Usa, secondo cui l’Islam è in sé, in tutte le sue declinazioni, incompatibile con la democrazia.
IL CASO TURCO
Perché se si «sdoganano» i militari in Egitto, allora lo stesso potrebbe avvenire per la Turchia, per la Tunisia, o, in nome di un Islam che non può che essere integralista-jihadista, finire per considerare il regime di Bashar al-Assad in Siria come il «male minore». Ecco allora il premier turco Recep Tayyip Erdogan denunciare il «golpe militare» che tre giorni fa ha destituito si, criticando «l’ipocrisia» dei Paesi occidentali riguardo ad un evento «contrario alla democrazia». «Ovunque accadano, i colpi di Stato sono una brutta cosa, sono chiaramente contrari alla democrazia: chi conta sulla forza delle armi o dei mezzi di comunicazione non può costruire la democrazia, la democrazia si costruisce nelle urne» ha spiegato Erdogan accusando l’Occidente di «aver fallito il test della sincerità»: «Mi dispiace, ma la democrazia non accetta i due pesi e le due misure». Il premier turco che dalla sua elezione nel 2002 ha fatto di tutto per ridurre l’influenza delle forze armate sulla politica turca ha poi invitato gli egiziani a trarre le conclusioni dai colpi di Stato militari accaduti in Turchia: «Ogni golpe, senza eccezione, ha fatto perdere decenni al Paese, ogni golpe ha paralizzato l’economia, è costato molto caro al Paese e alle giovani generazioni». Guarda all’Egitto, Erdogan, ma con gli occhi e l’esperienza di uno che è finito a suo tempo in galera nell’ultimo «golpe bianco» delle Forze armate kemaliste.
AL BIVIO
A condannare il golpe egiziano è anche Il partito islamista Ennahda al potere in Tunisia. Ennahda ha le proprie radici nel gruppo dei Fratelli musulmani, a cui appartiene anche lo stesso Morsi. Il comunicato del leader di Ennahda, Rachid Ghannouchi, condanna l’arresto dei leader del partito egiziano Libertà e giustizia, braccio politico dei Fratelli musulmani, e la chiusura dei suoi organi di stampa. In Tunisia «ci sono alcuni giovani che sognano di fare come in Egitto, ma perdono solo tempo perché ci sono delle differenze tra i due Paesi», ha affermato il leader di Ennahda , intervistato dal quotidiano arabo Asharq al Awsat. «In passato è stata la Tunisia ad avere influenze sull’Egitto e non il contrario – ha aggiunto l’anziano leader islamico –. Ora in Tunisia non ci saranno reazioni a quanto avvenuto in Egitto perché da noi la discussione sulla Costituzione è proseguita in modo diverso, abbiamo fatto molte concessioni per cercare di arrivare a un testo il più possibile condiviso. Abbiamo, inoltre, un governo composto da diversi partiti di diversa estrazione e il potere in Tunisia è diviso tra i vari partiti».
Considerazioni che danno conto di una articolazione di posizioni nel variegato Islam politico. Ed è anche per questo che occorre evitare una liquidazione ideologica di un processo di secolarizzazione che ha comunque segnato una rottura con quelle forze del radicalismo islamista che, non a caso, avevano tacciato di «tradimento» i Fratelli musulmani egiziani, il partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) turco, lo stesso Hamas in Palestina, responsabili, per i fautori della Jihad globale, di aver accettato di mettersi in gioco partecipando alle elezioni e cimentandosi, con esiti diversi, alla prova del governo.
«La sha’ria non dà da mangiare», sintetizza efficacemente il leader dell’opposizione laica egiziana, Mohmamed El Baradei. Ma al tempo stesso l’ancoraggio ad una visione «islamica» della società da parte della Fratellanza non può giustificare, di per sé, l’esaltazione dei militari come portatori di modernità o di democrazia.

l’Unità 6.7.13
Il rischio egiziano e l’assordante silenzio dell’Europa
di Rocco Cangelosi


LA SITUAZIONE IN EGITTO STA DRAMMATICAMENTE PRECIPITANDO. L’APPELLO ALLA RICONCILIAZIONE nazionale lanciato dal Consiglio supremo delle forze armate dopo la caduta del presidente Morsi è destinato a cadere nel vuoto e ieri ci sono stati i primi morti in piazza. L’arresto dei più alti responsabili dei Fratelli musulmani, in particolare di Mohamed Badie, guida suprema della confraternita e del suo vice Khairat al Chater ha fatto temere arresti di massa e ha scatenato le reazioni della folla fedele al presidente deposto. D’altra parte anche i sostenitori della rivoluzione vedono con preoccupazione le azioni di forza che potrebbero essere condotte da parte
dell’esercito per reprimere i tumulti e evitare una saldatura tra il fronte islamista e il fronte rivoluzionario. I precedenti sono significativi. Nel 1981 Sadat fece arrestare 1500 persone e Mubarak lo superò largamente negli anni 90 . Anche questa volta i militari potrebbero fare ricorso alla forza se posti alle strette.Intanto le reazioni internazionali sono estremamente imbarazzate.
Lo strano golpe, con il quale i militari hanno rimosso a furor di popolo il presidente Morsi, legittimamente eletto, viene seguito con estrema prudenza, in attesa delle mosse americane. Non è un mistero il rapporto stretto che da decenni lega l’esercito egiziano agli Stati Uniti sulla base di ingenti aiuti militari che alimentano la più importante lobby affaristica dell’Egitto, di cui gli alti gradi dell’esercito sono i principali attori e beneficiari. Il sostegno americano
è stato finora ripagato dalla fedeltà e dal ruolo svolto dal Cairo per tenere a bada gli estremismi di Hamas e svolgere un ruolo di moderazione e stabilizzazione nell’area.
L’avvento di Morsi e dei fratelli musulmani aveva in qualche modo rimesso in discussione questo patto tacito e gli Usa non hanno mancato di far conoscere discretamente il loro punto di vista alla gerarchia militare, che aveva mantenuto saldamente in mano il potere reale. Il golpe ha sancito la situazione di fatto esistente, tant’è che il generale Al Sissi si è affrettato a dire che l’esercito non vuole sostituirsi al potere civile, affidando al presidente della Corte Costituzionale Mansour il traghettamento del Paese verso nuove elezioni. In tal modo i militari conservano saldamente nelle loro mani le leve del potere ed evitano di metterci la faccia.
In questo contesto il silenzio dell’Europa è assordante, come se la questione non la riguardasse. Dopo essere stata sorpresa dallo scoppio della primavera araba, che ha spazzato i dittatori sui quali la sua politica mediterranea aveva fatto affidamento, l’Unione europea e i Paesi membri maggiormente proiettati verso il Mediterraneo, rimangono in attesa degli eventi e delle decisioni statunitensi. L’Egitto è un tassello fondamentale per tutto il medio-oriente e la situazione è talmente complessa che nemmeno i militari possono essere sicuri di dominare gli eventi e impedire lo scoppio di una guerra civile di religione, con il rischio di infiammare tutta la regione mediterranea ancora in ebollizione.
L’Europa avrebbe tutto l’interesse a prendere l’iniziativa facendosi promotrice di un articolato programma di sviluppo e sostegno alle riforme per dare ai Paesi dell’area e soprattutto ai giovani, che sono stati gli artefici della primavera araba, una reale prospettiva di cambiamento che non sia affidata nè al fondamentalismo islamico nè alla dittatura strisciante dei militari. La situazione dell’Egitto è infatti sull’orlo del collasso. Il crollo di valuta estera proveniente dal turismo, la crisi del sistema bancario e un’inflazione selvaggia possono aprire la strada agli scenari più preoccupanti spingendo i salafisti a riprendere la strada della violenza e i movimenti terroristici, come Al Quaeda, a riproporsi come interlocutori credibili.

Corriere 6.7.13
Intervista a Vali Nasr
E’ uno dei maggiori esperti americani sul Medio Oriente, docente alla Johns Hopkins University
«Il rischio di un boomerang politico Così si gonfiano le file dei terroristi»
Vali Nasr: «I Fratelli Musulmani, da incompetenti a vittime»
di Paolo Valentino


NEW YORK — «Ciò che è successo a Mohammed Morsi assomiglia a ciò che successe a Nawaz Sharif in Pakistan, nel 1999: venne accusato di voler arraffare tutto il potere e venne cacciato da Musharraf senza un verdetto popolare. Tredici anni dopo Sharif è tornato al potere a Islamabad. Per questo dico che il golpe in Egitto è un colpo devastante, ma non è la fine dell’Islam politico».
Vali Nasr è uno dei maggiori esperti americani sul Medio Oriente. Docente alla Johns Hopkins University, Nasr è stato anche consigliere speciale di Richard Holbrooke, l’inviato speciale della Casa Bianca per l’Afghanistan, morto nel dicembre 2010.
Eppure, professore, molti parlano d’inizio della fine per l’Islam politico, emerso dalle primavere arabe come la forza più legittimata e meglio organizzata per governare.
«E’ un giudizio destinato ad avere vita breve. Nel 2011, per esempio, in tanti si affrettarono a dire che Al Qaeda era finita. Conclusione molto semplicistica, come si è visto. Purtroppo Morsi non è stato sconfitto nelle urne. Sarebbe stato molto diverso se gli egiziani gli avessero votato contro. Così lui si avvia a diventare un martire. Se i militari non faranno bene, cosa più che possibile, i Fratelli Musulmani potranno dire che è stato sabotato, cacciato illegalmente dal potere con una congiura orchestrata dall’esercito. E’ un fatto che Morsi era stato eletto democraticamente e in democrazia un cattivo governo non può essere rimosso con mezzi anti-democratici».
Ma è vero anche che Morsi e i Fratelli Musulmani stavano truccando il sistema democratico…
«I laici in Egitto hanno impunemente truccato il sistema per decenni. Non voglio difendere Morsi, ma questo è il modo in cui gli islamisti e i loro sostenitori percepiscono ciò che è successo. Ogni volta che si cambia un regime in modo antidemocratico, si lascia la porta aperta a trasformare quel regime in martire. E ci sono tutte le condizioni perché i Fratelli Musulmani vengano visti come difensori della democrazia in Medio Oriente».
Ma il fatto che Mohamed Morsi abbia fallito come leader e come capo di governo conterà pure qualcosa?
«Sì, ma ora i Fratelli Musulmani hanno un alibi, possono nascondere il fallimento della loro governance dietro la retorica che non è stato dato loro il tempo necessario, che i militari complottavano nell’ombra e che l’Occidente non si è mai veramente impegnato in un serio piano di aiuti».
Cosa significa per l’Islam politico sul piano interno?
«Le ali più estreme diranno che partecipare al gioco democratico è inutile, perché truccato. E quindi che per andare al potere occorre buttare giù l’intero sistema, compresi i militari. Secondo, i generali cercheranno di regolare una volta per tutte i conti con i Fratelli Musulmani. Lo stanno già facendo: arresti, rimozioni, purghe. Sarà una caccia alle streghe, com’è successo altrove, in Turchia nel 1980, in Pakistan nel 1999. Questo darà un’altra spinta verso la radicalizzazione. Rischiamo di allevare una nuova generazione di terroristi. Terzo, tutta l’esperienza della cacciata di Mubarak ha spappolato la società e l’economia egiziana, che è a pezzi. Sarà difficile che i militari riescano a rimettere insieme i cocci. E allora vedremo nuovamente le strade piene, ma questa volta saranno folle islamiche. Alla lunga la forza bruta non basterà a contenerle».
Qual è la sfida ora per gli Stati Uniti e l’Europa?
«Americani ed europei devono assumersi le loro responsabilità, invece di voltare di fatto le spalle come nei due anni seguiti alla caduta di Mubarak. Fra vent’anni l’Egitto rischia di essere un Paese di 140 milioni di abitanti, radicalizzato e impoverito. E sarebbe un problema ancora più grande per l’Europa che per l’America, un cancro che potrebbe infettare il resto della regione. L’Occidente dev’essere duro con i generali. Deve esercitare forti pressioni perché restituiscano al più presto il potere ai civili, ammettendo i Fratelli Musulmani a partecipare al sistema politico. Penso anche che la comunità internazionale debba vincolare gli aiuti a vere riforme politiche ed economiche, costringendo i militari a mollare il controllo dell’80% dell’economia egiziana. L’Egitto non ha più bisogno di F-16 o carri armati, ma di riforme, privatizzazioni e apertura economica».

Corriere 6.7.13
Il blogger anti-Putin rischia 6 anni di prigione
di Fabrizio Dragosei


MOSCA — Sarà certamente un caso, ma se verrà condannato Aleksej Navalny si troverà ancora in prigione nel 2018. Non sarà, quindi, in grado di candidarsi quando Vladimir Putin potrebbe diventare presidente per la quarta volta. E sulla condanna pochi hanno dubbi, visto che in Russia meno dell’uno per cento dei giudici respinge le richieste dell’accusa. Sei anni per appropriazione indebita e truffa in base a vecchie accuse che erano state già accantonate in una prima indagine. Poi Navalny, avvocato specializzato nel dare filo da torcere ai boss che controllano grandi aziende, è diventato uno dei principali organizzatori delle manifestazioni che un anno fa portarono in piazza migliaia di giovani urbani insoddisfatti. Si protestava contro la rielezione quasi plebiscitaria di Putin, contro quello che lo stesso Navalny aveva ribattezzato «il partito di ladri e truffatori», Russia Unita.
Le proteste, piano piano, si sono spente, anche perché buona parte della Russia profonda non è affatto d’accordo con i giovani arrabbiati e pensa che Putin sia l’uomo della provvidenza, come ha detto il Patriarca di tutta la Russia.
Ma il potere non dimentica e così contro Navalny è stato messo in piedi il più grande processo che abbia coinvolto un leader dell’opposizione nella Russia post-sovietica. Naturalmente dopo quello che nel 2005 mandò in galera Mikhail Khodorkovskij, che era un oligarca ma aveva il vizietto di finanziare l’opposizione, venendo meno a un patto di ferro stretto tra i tycoon russi e il presidente. Lyudmila Alekseyeva, vecchia dissidente e leader del movimento per i diritti umani, ha detto di non aver dubbi che questo sia «un processo politico». E lo stesso Navalny dopo la requisitoria ha bollato con parole di fuoco il sistema politico di Putin: «I miei colleghi e io faremo comunque tutto ciò che è in nostro potere per distruggere il sistema feudale instaurato in Russia grazie al quale l’83 per cento della ricchezza è nelle mani dello 0,5 per cento della popolazione». Intanto, però, secondo un sondaggio del Centro Demoscopico Levada, per una grande parte di russi l’oppositore deve essere «zittito». Una percentuale che sale al 57 per cento a Mosca.

Corriere 6.7.13
Servire il popolo (dei ricchi) In Cina è di moda il maggiordomo
E la serie tv «Downton Abbey» è in cima alle classifiche degli ascolti
Postura e look
di Guido Santevecchi


LONDRA — Le produzioni televisive inglesi stanno conquistando il mercato cinese. E in testa alle classifiche di ascolto c’è «Downton Abbey», la fiction ambientata nella tenuta di campagna dei conti di Grantham e popolata da una schiera di domestiche, valletti e maggiordomi fedeli. Il caso ha richiamato l’attenzione degli istituti di rilevazione dell’audience in Cina: sappiamo così che la serie inglese in costume ha il suo pubblico tra la classe medio-alta, con solide basi culturali. Questo genere di programmi sui social media attrae il 9% delle discussioni, un dato ancora lontano dalle popolarissime soap opera coreane, che interessano il 28% della gente. Ma se si considerano i siti web frequentati da impiegati di buon livello e studenti liceali e universitari, il rapporto di interesse si rovescia: 13% alle serie come «Downton Abbey» e «Upstairs, Downstairs» solo l’1% per i coreani.
Entgroup, società di consulenza cinese specializzata in tv e siti online che trasmettono telefilm (spesso con tecnologia pirata) prevede che nei prossimi 2-3 anni le produzioni made in Britain avranno 160 milioni di spettatori. In più, un dato psicologico: le fiction inglesi sono in cima a quella che gli esperti definiscono «la catena del disprezzo», vale a dire che gli appassionati di «Downton Abbey» guardano con senso di superiorità ai patiti di telefilm americani, i quali a loro volta si sentono migliori degli spettatori di telenovele sudcoreane. In fondo alla catena ci sono le persone comuni, quella maggioranza silenziosa che ancora si nutre di telefilm cinesi.
Dietro il successo delle avventure del valletto Bates e del maggiordomo Carson c’è una realtà emergente nella Repubblica popolare: se la classe media si accontenta di guardare in tv il conte di Grantham che si fa aiutare a indossare la giacca dello smoking dal servitore personale, in Cina si sta formando una classa di super-ricchi che il butler (il maggiordomo) lo vogliono in carne e ossa. E sono pronti a importarlo dal Regno Unito.
Robert Watson, presidente della società The Guild of Professionals English Butlers, ha detto all’agenzia Bloomberg che la domanda sta superando l’offerta: i suoi maestri preparano circa mille maggiordomi all’anno e un quinto va in case private (il resto è richiesto dai grandi alberghi).
Le scuole nel Regno Unito sono rifiorite. Nel 1912, 800 mila case britanniche avevano servitori, e di questi 30 mila erano a disposizione della nobiltà. Oggi sono solo 8 mila. Ma la società Greycoat Placements di Londra dice di avere nei suoi elenchi 20 mila servitori professionisti pronti o a partire per l’Asia o a lavorare nelle case londinesi dei nuovi ricchi cinesi.
Il fenomeno resta di nicchia. Ma a Pechino ne ha scritto anche il Global Times, giornale in inglese del glorioso gruppo guidato dal Quotidiano del Popolo. Titolo: «Il ritorno del maggiordomo inglese». L’autore dell’intervento è uno storico inglese che ha prodotto tra l’altro un saggio sulla «Superpotenza cinese». E che osserva: «Oggi il butler è anche un consigliere capace di spiegare a un businessman cinese l’etichetta occidentale, quale coltello prendere per primo a tavola, come salutare, quanto a lungo guardare negli occhi un interlocutore».
Il presidente della Repubblica popolare nonché segretario del partito comunista, Xi Jinping, ha appena tenuto un discorso solenne ai quadri, sottolineando con forza che non si può derogare dalla linea del socialismo con caratteristiche cinesi e che bisogna imparare dal passato e «servire il popolo con il cuore e con l’anima». C’è da credere che la sua idea non fosse di far servire il popolo (dei ricchi) da un’élite di maggiordomi addestrati in Inghilterra.

La Stampa 6.7.13
La resistenza di Marzullo da “Sottovoce” a senza voce
Secondo le nuove regole del dg Gubitosi in quanto vicedirettore non può più stare in video, lui rimonta le interviste come monologhi
di Alessandra Comazzi


«Si faccia una domanda e si dia una risposta» oggi è più vero che mai

La cultura dell’omaggio Gigi Marzullo il 25 luglio compirà 60 anni ed è vicedirettore di Raiuno con delega alla Cultura. Tutti ridono. Ma poi tutti gli intellettuali si ritrovano da lui. Che interpreta la cultura come omaggio all’artista. È diventato una categoria, del video se non dello spirito
«Io sono un poeta, un incrocio tra Marziale e Catullo: praticamente, Marzullo». Questa, di Luciano Manzalini, uno dei Gemelli Ruggeri, è la battuta più bella sul vicedirettore di Raiuno, laureato in medicina e giornalista. Soltanto un poeta poteva inventarsi quello che si è inventato lui pur di aggirare un invito di Luigi Gubitosi. Che essendo il direttore generale Rai, più che un invito, il suo, era un ordine. Mirato a non sovrapporre cariche e funzioni. Disse: chi ricopre ruoli apicali nelle redazioni, e va pure in video, a condurre programmi o tg, deve scegliere. O la dirigenza, che implica di far lavorare gli altri, o la visibilità. Sceglie Francesco Giorgino, non sarà più capo del politico, preferisce condurre il Tg1. Sceglie Susanna Petruni, lascia la conduzione, si tiene la vicedirezione. Bianca Berlinguer, direttore del Tg3, ottiene una deroga per qualche sporadica apparizione in casi eccezionali. Insomma, ognuno decide la sua posizione.
E poi c’è l’opzione-Marzullo. Che non rinuncia alla vicedirezione: allora non va più in video? Certo che no, lui è di buon comando. Solo che il suo programma, Sottovoce, dipendendo dalla struttura che fa capo a lui stesso, resta in onda. Però, «obbedisco! », senza la sua faccia e senza neanche più le sue parole. L’altra notte è stata particolarmente surreale. Avevano appena assegnato il premio Strega a Walter Siti. Lui si era già portato avanti col lavoro, li aveva tutti, i candidati. Perché tutti andavano e vanno da Marzullo. Nessuno lo temeva, e partecipare a un suo programma, tanto garbato e personale, checché se ne dica faceva status. Una cosa buffa nel blasone. Quindi giovedì, ecco l’intervista a Siti. Che non è più un’intervista ma un monologo. Di una persona che però non parla a ruota libera, si faccia una domanda e si dia una risposta, ma risponde a domande fatte da altri, cioè da «un» altro, da Marzullo. Domande che non si sentono. Soltanto a un certo punto, Siti sta parlando della sua religiosità, e si ode la coda di un «E da bambino? », cancellata dall’astuto montatore.
Insomma, ha creato un nuovo genere, l’autore di Mezzanotte e dintorni, di Cinematografo, di Sottovoce. E: «Questa è la televisione che a noi piace - diceva -: sottovoce», e aveva buon gioco, in mezzo a tutte le urla della tv impositiva. Inventore, anche, di alcune tra le frasi più citate dell’universo video: si faccia una domanda e si dia una risposta (a questo punto mai così vera) ; la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio? Questioni che poneva ai suoi spesso illustrissimi ospiti. Non dimentichiamo che anche Fabio Fazio, grande riutilizzatore di talenti, si è volentieri servito del vecchio Gigi, che il 25 luglio compirà 60 anni, e se lavorasse per la carta stampata, sarebbe già prepensionato da tempo. Ma lui lavora alla Rai. Dal 1983, portato direttamente da Ciriaco De Mita. La sua vicedirezione di Raiuno ha la delega alla cultura. Tutti ridono. Ma poi tutti gli intellettuali si ritrovano da lui. Che interpreta la cultura come omaggio all’artista. Ma omaggi così articolati a viventi presentano sempre il rischio della commemorazione preventiva: rischio che Marzullo democristianamente gestisce. Lui, diventato una categoria, del video se non dello spirito. Tanto vituperato, ma il suo stile ha fatto scuola. Se si incalza un politico su problemi della collettività, è meglio non essere tanto soft. Ma Marzullo indaga sulle personalità, a lui le mode non fanno né caldo né freddo: e questo rassicura i suoi cospicui ospiti. C’è da scommettere che continueranno a fare a gara per andare da lui a «non» farsi fare nessuna domanda.

Corriere 6.7.13
Quei segnali radio nello spazio che arrivano dal passato
Captati dai telescopi, sono partiti otto miliardi di anni fa
di Tullio Avoledo


Segnali radio provenienti da misteriose sorgenti nelle profondità del cosmo accendono in questi giorni la fantasia del grande pubblico, se non degli scienziati.
I segnali, potenti e rapidissimi, della durata di pochi millisecondi, sono stati intercettati dai telescopi di un gruppo di ricerca internazionale di cui fa parte anche l'Italia. Sono fenomeni tutt'altro che rari, spiega Nicolò D'Amico, responsabile del Sardinia Radio Telescope che partecipa al gruppo di ricerca. La caratteristica straordinaria dei segnali appena intercettati è però la distanza da cui provengono: otto miliardi di anni luce. Il loro viaggio nello spazio è iniziato quando l'universo aveva poco più della metà dell'età attuale e il Sistema Solare non esisteva ancora.
I ricercatori non sono in grado di determinare le cause esatte di queste emissioni radio. Secondo le prime ipotesi, osserva D'Amico, le possibili sorgenti «potrebbero essere stelle di neutroni o anche buchi neri, oggetti in cui la materia si trova in condizioni estreme. C'è ancora molto lavoro da fare, però, prima di capire esattamente come si generano».
Non si tratterebbe quindi di segnali inviati da una civiltà extraterrestre come quelli che il Progetto Seti (Search for Extra-Terrestrial Intelligence: Ricerca di Intelligenza Extraterrestre) insegue dal 1974. Non è un'impresa facile: la nostra sola galassia, quella che chiamiamo Via Lattea, misura 100.000 anni luce, e contiene trecento miliardi di stelle. Scandagliare con successo uno spazio simile alla ricerca di un segnale radio presumibilmente distante e debole è praticamente impossibile. I ricercatori hanno dovuto elaborare tutta una serie di strategie per ridurre il campo di ricerca alle stelle che per svariati fattori hanno più probabilità di ospitare in orbita attorno a sé un pianeta abitabile.
Una volta ristretto il campo delle stelle da tenere sotto controllo, si presentano altri problemi, come quello del rumore di fondo del cosmo, del tipo di segnale da cercare (non abbiamo idea di come possa essere modulato un segnale extraterrestre) e infine della frequenza su cui sintonizzare il ricevitore. Per quest'ultimo aspetto cruciale il progetto Seti si è basato su un articolo scritto nel 1959 dai fisici Giuseppe Cocconi e Philip Morrison, che ipotizzarono quali fossero le frequenze di trasmissione più adatte alle comunicazioni interstellari. I due scienziati ritenevano particolarmente promettente la frequenza di 1,420 gigahertz: quella emessa dall'idrogeno neutro. È lì che un segnale extraterrestre avrebbe avuto, secondo loro, le maggiori probabilità di trovarsi. I fan del progetto Seti chiamano questa frequenza watering hole: il posto dell'abbeverata, quello dove gli animali si radunano per bere.
Seti è stato, e per molti è ancora, uno dei grandi sogni dell'umanità. Notevole fu l'emozione quando nel 1974 un messaggio in codice di 1.679 bit venne trasmesso verso l'ammasso globulare M13, distante da noi 25.000 anni luce. Il messaggio, che visto oggi sembra una schermata di un vecchio giochino elettronico come Space Invaders, conteneva le informazioni di base sulla Terra e sulla razza umana, tanto che alcuni parlarono di una pericolosa divulgazione di dati a un potenziale nemico.
La fantasia degli scrittori di fantascienza si è scatenata su questo argomento. L'esito più popolare, sinora, è «Contact» di Carl Sagan, che fu uno dei padri fondatori del progetto Seti. Il momento clou del libro, da cui fu tratto un film con Jodie Foster, è quello in cui il segnale alieno intercettato dai radiotelescopi viene decifrato e si rivela essere un filmato di Hitler che inaugura i giochi olimpici di Berlino, nel 1936: una delle prime trasmissioni televisive, che gli extraterrestri di Sagan hanno captato e ritrasmesso sulla Terra...
L'intuizione più visionaria l'ha avuta Frank Herbert, il padre del ciclo di Dune, che in due romanzi minori descrisse i «Calebani», intelligenze aliene che vivono in un'altra dimensione e che nel nostro universo vengono percepiti come stelle.
Il fatto è che, malgrado le delusioni, continuiamo a nutrire la speranza di non essere soli nell'universo. In queste sere d'estate capita a tutti, prima o poi, di alzare gli occhi al cielo e di dirsi che una simile meraviglia non può essere lì per così pochi spettatori; che da qualche parte nello spazio qualche altra creatura volge lo sguardo in alto con le stesse domande, la stessa voglia di un contatto. E poco importa se, come nel caso dei segnali appena intercettati, sono stati prodotti da una stella, e non da un alieno. È bello chiedersi se Herbert non avesse ragione, e se quei lampi di energia stellare non possano essere la voce di un Calebano che giunge a noi dagli abissi del passato.

Repubblica 6.7.13
I dialoghi
Le nuove oligarchie
Canfora e Zagrebelsky: “Ecco come il potere svuota la democrazia”
Lo storico e il giurista discutono i mutamenti che stanno esautorando la politica e i possibili rimedi per restituire lo scettro ai cittadini
di Luciano Canfora e Luciano Zagrebelsky


Anticipiamo parte del dialogo “Democrazia e oligarchie” che si terrà lunedì 8 luglio all’Archiginnasio di Bologna

Gustavo Zagrebelsky
Nell’ultima pagina dell’Intervista sul potere,a cura di Antonio Carioti, tu fai cenno al ritorno alla prevalenza delle oligarchie, dopo due secoli di lotte democratiche, come un problema molto grave del mondo in cui viviamo.
Mi piacerebbe partire da qui per questo nostro dialogo, di cui il tuo libro-intervista costituisce l’occasione. Anche a me sembra che questa sia la questione politica principale del nostro tempo. Qui c’è forse la chiave per comprendere l’incomprensibile, a iniziare dalla fine della politica e dal trionfo della tecnica, che nasconde alla vista il potere, le sue forme, i suoi attori. In un recente saggio apparso suMicromega, ho definito l’oligarchia come il regime della disuguaglianza, del privilegio, del potere nascosto e irresponsabile, cioè del governo concentrato tra i pochi che si difendono dal cambiamento: sempre gli stessi che si riproducono per connivenze, clientele. Le forme della democrazia vacillano, ma non sono travolte. La sostanza, però, sta andando perduta. Questo mi pare il tempo dell’ipocrisia democratica, addirittura su scala mondiale.
Questa valutazione non nega quella che Michels definì la “legge ferrea delle oligarchie”. Non si può non convenire che gruppi dirigenti esistono sempre e hanno un ruolo decisivo nei partiti così come negli Stati democratici di ogni tipo. Ma c’è una differenza traélites aperte al ricambio e controllate da contropoteri forti come la magistratura indipendente e la libera stampa, e oligarchie chiuse.
Nell’intervista tu fai riferimento a un ritorno ai caratteri “primordiali” delle antiche oligarchie, fondate innanzitutto su ricchezza e discendenza aristocratica: in che modo si manifesta secondo te questo ritorno?
Luciano Canfora
Penso soprattutto a fenomeni macroscopici e istruttivi al tempo stesso. Facciamo un esempio. Il Presidente degli Stati Uniti viene eletto (e sia pure da una minoranza degli aventi diritto, dato l’assenteismo patologico dell’elettorato statunitense) ma le decisioni fondamentali le prendono altri: forze decisive e retrosceniche che possono in fondo infischiarsene dei riti elettorali. Ai fini dell’egemonia politico-militare è necessario un disinvolto e illegale spionaggio informatico? Il Presidente forse ne ignora persino l’esistenza, ma esso viene praticato, da chi ne ha il potere, senza scrupoli anche a costo di gravi crisi con i co-siddetti alleati europei non meno che con gli antagonisti russi o cinesi. Il Presidente predica contro il fiorente e libero commercio delle armi, i cui effetti sono atroci? Ma la potentissima lobby dei produttori di armi paralizza ogni decisione in proposito. Questa è la sostanza della macrorealtà americana, questo è, via via, il modello che si afferma per ogni dove.
Michels aveva intuito una “legge” ma la realtà da lui studiata erapiccola cosa rispetto a quella inquietante e brutale che è sotto i nostri occhi. L’analisi di Michels e dei suoi maestri elitisti si riferiva a formazioni politiche ottocentesche o protonovecentesche come i partiti politici o più in generale la classe politica. Il problema è che essa è stata soppiantata nel suo ruolo, pur restando al suo posto, da forze di ben altra dinamicità, consistenza e potenza, totalmente sottratte al “gioco” elettorale o alla “verifica” popolare. Sono queste le nuove oligarchie. L’imperativo del momento è riuscire a squadernarne la natura e la dominanza: prima di tentare di combatterle. Ci vorrebbe un nuovo Marx, capace di studiare il potere economico-finanziario del tempo presente e del prossimo venturo!
Purtroppo per ora ci dobbiamo accontentare dei talmudisti (invero sempre meno numerosi), protesi alla chiosa del Marx “antico”, laddove la realtà che ci sta di fronte e ci sovrasta domanda ormai di essere “disvelata” sin dalla radice. E senza la compiacente e reticente benevolenza dei “tecnici”, competenti certo, e però complici dei nuovi poteri che reggono le fila degli organismi decisivi.
Platone aveva sognato, nei libri centrali della Repubblica, che al vertice dello “Stato ideale” giungessero dei “filosofi-reggitori”, assurti con ascetica dedizione alla comprensione e contemplazione del sommo bene e del giusto e perciò legittimati a governare tutti gli altri. Al posto dei filosofi-reggitori, il nostro onnipotente, ricco e armatissimo «primo mondo» ha collocato i grandi conoscitoriprotagonisti della finanza. Essi sanno quello che vogliono, ma èda temere che non vogliano né il sommo bene né la giustizia.
Dunque la domanda da porsi, per intanto (poiché non è possibile attendere inerti e passivamente l’avvento del nuovo “grande analista” della modernità) è la seguente: in una situazione di questo genere quale possibilità vi è di riappropriarsi, come cittadini comuni, del potere di poter contare?
Gustavo Zagrebelsky
Parli di “forze retrosceniche”. Sono sempre esistite. Che la politica “sulla scena” delle istituzioni sia una messinscena per distogliere gli occhi del pubblico dalla realtà del potere (che “sta nel nucleo più profondo del segreto”, ha scritto Elias Canetti) è un’idea realistica. Un tempo, il retroscena era visto come il luogo dell’oscurità, degli intrighi, dei complotti, delle cose indicibili: tutte cose negative, da combattere in pubblico, attraverso istituzioni veritiere. Pensiamo, per esempio, alla glasnost’ di Gorbacëv che, per un certo periodo, ha coltivato quest’idea. Oggi? Oggi siamo di fronte a qualcosa di nuovo. Le conseguenze sulla vita delle persone sono evidentissime, la matrice anche: il predominio dell’economia sregolata e manovrata dalla finanza speculativa. Ma è una matrice incorporea che, per ora, sembra inafferrabile, non stanabile “sollevando un velo”. Constatiamo il declino della politica, fino alla pantomima dei suoi riti: personaggi inconsistenti, che talora si presentano come “tecnici”, rivelandosi così esecutori di volontà altrui; “posti” come posta d’una lotta che, usurpando la parola, continua a chiamarsi politica; nessun progetto dotato d’autonomia; parole d’ordine tanto astratte quanto imperiose: lo chiedono “i mercati”, la “Europa”, lo “sviluppo”, la “concorrenza”. Questo degrado, che si manifesta macroscopicamente come immobilismo e consociativismo, è la conseguenza di quello che è oggi il vero “nucleo del potere”. Per poter essere contrastato con i mezzi della democrazia, deve essere innanzitutto compreso, senza fermarsi solo a deplorarne le conseguenze, scambiandole con le cause.
Tu poni la domanda cruciale: che fare affinché ci si possa riappropriare di almeno un poco dell’espropriata nostra capacità politica? Noi apparteniamo alla cerchia di chi esercita una professione intellettuale. Il nostro compito primario (non voglio dire esclusivo) è cercare di capire, non di cambiare il mondo. Sarà pur vero, come tu dici, che non sono alle viste nuovi Marx o Tocqueville. Ma il nostro compito, nel piccolissimo che è alla nostra portata, è di questa natura. Il che significa innanzitutto rifiutare il ruolo di consulenti che con tanta abbondanza questo sistema di sterilizzazione della politica offre a chi ci sta. Sarebbe già una bella rivoluzione.

Repubblica 6.7.13
Con “Repubblica” il dvd (con libro) “Il perché non lo so” l’autobiografia testamento dell’astrofisica recentemente scomparsa
Il racconto intimo e privato di una vita straordinaria
Margherita Hack
“Dalle cannonate naziste alle stelle Io e la mia sfida contro l’ignoto”
di Marco Cattaneo


«Spesso mi facevano compagnia le cannonate che si scambiavano i tedeschi, che occupavano la città e sparavano dalla collina di Fiesole, e gli Alleati, che stavano guadagnando terreno da sud, dalla zona della Certosa». Era il 1944, quando la ventiduenne Margherita Hack svolgeva le osservazioni per la sua tesi di laurea nelle notti dell’osservatorio di Arcetri, a Firenze, insolitamente buie per il coprifuoco e dunque ideali per chi si affacciava all’oculare di un telescopio.
In verità — racconta nelle pagine diIl perché non lo so,una suggestiva autobiografia per episodi in edicola con Repubblica el’Espresso da lunedì 8 luglio — Margherita Hack era arrivata a quella tesi in astronomia quasi per caso. Le avevano negato una tesi in elettronica, e nell’altra materia disponibile, la fisica matematica, non si reputava particolarmente brillante. Così preferì trascorrere le lunghe notti in compagnia delle cannonate e delle Cefeidi, una classe di stelle variabili la cui regolarità serve a misurare la distanza delle galassie in cui si trovano. E ancora di recente ricordava quelle notti avventurose con l’entusiasmo contagioso di un ricercatore alle prime armi.
Alla fine della guerra ebbe un incarico come assistente volontaria all’osservatorio e una modesta borsa di studio dell’Istituto nazionale di ottica, per diventare assistente ad Arcetri nel 1948. Fu in quegli anni che, grazie anche all’incontro con il direttore Giorgio Abetti e con il francese Daniel Chalonge, cominciò ad appassionarsi all’astrofisica. Grazie alla spettroscopia, che permetteva di conoscere la composizione chimica di un astro, lo studio delle stelle smetteva di essere una pura pratica osservativa per diventare una scienza fisica a tutti gli effetti. E mentre proseguiva il suo lavoro di ricerca — con frequenti viaggi tra Berkeley e Parigi, Princeton e Utrecht — cominciò ad appassionarsi alla divulgazione scientifica, collaborando con un quotidiano. Nel frattempo si dedicava alle atmosfere stellari, producendo i suoi lavori scientifici più importanti nello studio dell’evoluzione stellare e nella classificazione spettrale delle stelle. Il suo primo libro rivolto al grande pubblico, L’universo. Pianeti stelle galassie,edito da Feltrinelli, è del 1963.
Un anno dopo Margherita Hack è a Trieste, dove ha vinto la cattedra di astronomia e assume la direzione del locale osservatorio. «Quando cominciai a lavorare — scrive ancora in Il perché non lo so— trovai una situazione di abbandono». Lo staff era composto da due soli ricercatori, e l’unico strumento disponibile era un piccolo telescopio amatoriale. Così, risoluta come era in ogni sua espressione, avviò la costruzione di un nuovo osservatorio lontano dall’inquinamento luminoso della città, vicino a Basovizza, sul Carso triestino, attorno al quale raccolse giovani ricercatori invitando i massimi esperti della materia. Grazie anche alle sue qualità didattiche, che emergono in tutta la sua opera di divulgazione, e alle ottime relazioni internazionali, nel giro di pochi anni l’osservatorio divenne un centro molto attivo, che riceveva visite da tutto il mondo. E quando lo lasciò, vent’anni dopo, aveva uno staff di un’ottantina di persone.
Il perché non lo so è il racconto appassionato di una vita tutta ispirata dalla scienza. Dove si leggono la pazienza, la tenacia, il sacrificio e la solitudine che occorrono per misurarsi con l’ignoto, «proprio la situazione in cui si trovano Sherlock Holmes o Hercule Poirot». Ma, chiosa Margherita Hack senza alcun rimpianto, «nessuna fatica è inutile se lo scopo è importante». Ed è forse questa l’eredità più preziosa che ci lascia.

Tratto da “Il perché non lo so” (Sperling & Kupfer Gruppo ed. L’Espresso)

Corriere 6.7.13
Su Rai Storia ore 23.30
Così Margherita parlava di sé


A una settimana di distanza dalla scomparsa di Margherita Hack (foto), viene riproposta l’intervista che la «signora delle stelle» concesse nel gennaio del 2010 alla trasmissione di Rai Educational «Visioni private». Attraverso la chiave personalissima dei suoi ricordi televisivi, la celebre astrofisica ripercorre le principali tappe della sua vita e della sua straordinaria carriera scientifica. Dal diploma di laurea conseguito a Firenze durante gli anni bui della Seconda guerra mondiale fino alla direzione dell’Osservatorio di Trieste.