sabato 30 agosto 2008

l’Unità 30.8.08
Pd, duello sul testamento biologico
di Tommaso Galgani


«Non si tratta di voler staccare la spina a nessuno. Ma di dare la possibilità a tutti di decidere per sé quali trattamenti ricevere in caso di malattia terminale. E fino a che punto farlo, mettendolo per iscritto». Ignazio Marino replica così alle posizioni di Paola Binetti sul caso di Eluana che sull’argomento appare più vicina alle posizioni del Pdl. Il confronto tra i due parlamentari del Pd va in scena alla Festa di Firenze. Intanto il Parlamento è pronto ad affrontare l’esame delle proposte di legge.

«ELUANA? Il suo cuore batte, e di giorno passeggia anche in carrozzina». Paola Binetti fa scattare così il brusio del pubblico, ieri durante l'incontro col collega di partito Ignazio Marino sul tema del testamento biologico, alla Festa Democratica in Fortezza a Firenze. La senatrice teodem del Pd, dopo quella frase, scalda la platea: «Ah, Eluana passeggia pure», le urla sarcastica una signora dalle prime file. In diverse occasioni la Binetti, che ha ribadito di essere pronta a votare col Pdl una legge in materia perché «quando si parla della difesa della vita non hanno senso né la destra né la sinistra», suscita il borbottìo della cinquantina di persone accorse ad assistere al dibattito. Che lentamente lascia perdere anche gli applausi di cortesia e mano a mano che procede la discussione fa partire anche qualche fischio.
L'applausometro della platea decisamente sorride a Marino, che a fine serata si ritrova anche qualche bigliettino in tasca da parte di alcuni militanti democratici che lo esortano ad andare avanti sulle sue posizioni in materia. Ma soprattutto quando si sforza di ribadire dal palco il principio guida del suo ddl sul testamento biologico, sottoscritto da 101 senatori: «Non si tratta di voler staccare la spina a nessuno. Ma di dare la possibilità a tutti di decidere per sé quali trattamenti ricevere in caso di malattia terminale. E fino a che punto farlo, mettendolo per iscritto. È un fondamentale principio di autodeterminazione». Tra i due senatori democratici provano a confrontarsi due sensibilità che, pur nella ricerca del dialogo, non sembrano conciliabili (l'unico punto in comune è considerare una necessità l'affrontare la materia dal punto di vista legislativo, dopo anni di discussioni: cosa che il Senato ha messo in agenda per il 2008).
E la Binetti riaccende anche gli animi della platea quando afferma di aver letto sulla rivista dell'associazione Luca Coscioni un modello di testamento biologico in cui una persona afferma di «non voler vivere in caso di sopraggiunta demenza». Dicendo: «Così si va verso il nazismo, che eliminava le persone dementi. Stesso discorso per i malati di Alzheimer». Brusio. Marino prova a smorzare la tensione ricordando che «i Radicali, vicini all'associazione Coscioni, hanno sottoscritto il mio ddl. Anche se loro sono per l'eutanasia legalizzata, per la quale io non ritengo che adesso ci siano le condizioni in Italia. E alla quale sono contrario». Ma l'ennesima dimostrazione di disapprovazione del pubblico arriva quando contesta i dati ricordati da Marino, peraltro comunicati durante un'audizione al Senato dai Rianimatori italiani, sul fatto che il 62% degli anestesisti italiani, negli ultimi giorni di un malato terminale, applichi sui pazienti la «desistenza». «Garanzia reale per il paziente e riconoscimento nella relazione medico-paziente la massima fiducia e la massima dignità di entrambi», continua a ripetere la senatrice, anche lei firmataria di un ddl sul tema. «Sono rimasto molto soddisfatto del dibattito», commenta Marino a fine serata. Che insiste: «Perché dovremmo avere paura di fare una legge che sancisce un principio di libertà?».
Non manca una riflessione sul caso Eluana: «Consiglio a Paola Binetti di recarsi personalmente a trovarla. Si tratta di una persona in stato vegetativo permanente, che comunque può mantenere la sua dignità. Ma resta la mia domanda di fondo: perché non far decidere all'individuo, e non a chiese o magistrati, se vuole arrivare fino a lì?»

l’Unità 30.8.08
L’alimentazione artificiale spacca le «due anime» del Pd
I Teodem con i forzisti. Il senatore-chirurgo: rispettare la Carta
di Maria Zegarelli


RITARDI Negli Stati Uniti se ne è parlato - e si è fatta una legge - un terzo di secolo fa. A seguire tutti gli altri Paesi hanno affrontato il delicato tema del testamento biologico. Lo hanno fatto la Spagna, la Germania, l’Australia, la Nuova Zelanda, solo per citarne alcuni. L’Italia da tre legislature affronta il tema della fine della vita senza riuscire a trovare un punto di sintesi. Nel precedente governo Berlusconi l’allora senatore Cdl Antonio Tomassini - attuale presidente della Commissione Sanità - presentò un disegno di legge che fu approvato all’unanimità dalla Commissione ma non approdò mai in Aula. Il contenuto non era molto diverso da quello che durante la scorsa legislatura fu presentato da Ignazio Marino (suo successore a capo della Commissione) e firmato dall’allora capogruppo Anna Finocchiaro. Ma le posizioni della Cdl cambiarono, forte di quel fragile equilibrio su cui si reggeva l’Unione. Parlare di temi etici nell’Unione equivaleva a camminare sulle sabbie mobili. C’erano i cattolici di Mastella e i teodem del Pd che su aborto, fecondazione assistita, testamento biologico (ma anche i Dico) minacciavano le barricate. Un lavoro certosino quello di Marino per cercare la sintesi su cui far convergere i consensi. Dopo 49 audizioni di scienziati ed esperti Marino arrivò ad un testo caduto, poi, insieme al governo Prodi a cui Mastella aveva posto fine per altri motivi. Ma già allora era chiaro che difficilmente si sarebbe arrivati ad una legge. Su un punto il dialogo si è arenato: l’idratazione e la nutrizione artificiale del paziente. Quelle che ancora oggi tengono in vita-non vita Eluana.
Secondo Paola Binetti, deputata Pd, teodem, interrompere l’idratazione e la nutrizione artificiale del paziente equivale a mettere in pratica l’eutanasia. È tutto qui il nodo politico attorno a cui si è aggrovigliata la discussione parlamentare durante il governo Prodi (erano 12 i ddl depositati in commissione Sanità al Senato, mentre oggi ce ne sono 14 tra Palazzo Madama e Montecitorio) e su cui rischia di aggrovigliarsi durante quella in corso. Con la differenza che stavolta sembra profilarsi una pericolosa - per il Pd - «alleanza» tra teodem e pezzi di Pdl. Ignazio Marino - scienziato made in Italy con una esperienza ventennale negli States - ha depositato un ddl lo scorso aprile su cui hanno apposto la loro firma 101 senatori. «Durante la scorsa legislatura - spiega Marino - ho fatto tesoro di quelle 49 audizioni, ho ascoltato i dubbi e i suggerimenti che ognuno dava al nostro lavoro. Da qui la decisione di escludere dal testo depositato pochi mesi fa l’obbligatorietà del testamento biologico e di aggiungere un’intera parte dedicata alla terapia del dolore e alle cure palliative. Il nostro obiettivo è quello di dotare l’Italia di una legge umana, che rispetti il dettato dell’articolo 32 della Costituzione». Nessuno può essere sottoposto contro la sua volontà a trattamenti medici: questo il faro, la direzione da seguire.
Nella legge si affronta anche un altro drammatico problema: la distribuzione sul territorio degli «hospice». Attualmente ce ne sono 120: 103 nel Nord, 3 nel Sud, il resto nel Centro. Nel Nord ci sono 25 milioni di abitanti, nel Sud 22. Un paese a due velocità, anche in questo caso. «Con il nostro testo - dice Marino - prevediamo un potenziamento di queste strutture, che possono ospitare pazienti come Eluana, anche nel Sud per colmare un vuoto che ricade completamente sulle spalle delle famiglie». Eppure, ancora una volta, la politica si spacca. Il Pd stesso si spacca. Emanuela Baio Dossi, infatti, ha presentato un suo ddl di legge - con le firme bipartisan di molti senatori cattolici - che converge con le posizioni espresse ieri da Maurizio Lupi (Pdl): «Primo: idratazione ed alimentazione non sono cure mediche. Quindi non si possono sospendere. Secondo: la volontà della persona deve essere continuamente reiterata, oggi puoi pensare una cosa... ma domani?». «Licenziare una legge che esclude idratazione e nutrizione dai trattamenti medici vuol dire impedire alle persone di esprimere la propria volontà - replica Marino -. Di fatto la legge sarebbe peggiorativa del dettato costituzionale». Il presidente del Senato Renato Schifani si è impegnato alla ripresa dei lavori parlamentari a dare priorità al dibattito. Stesso impegno assunto dal presidente della Commissione Sanità. Come è emerso da un sondaggio Euripes è l’86% dei cittadini a chiedere una legge sul testamento biologico.

l’Unità 30.8.08
La vita e la civiltà
di Maurizio Mori


Il caso Englaro ha assunto una straordinaria importanza nella vita italiana. Basti pensare che, per la prima volta nella storia della Repubblica, si è creata una situazione per cui è stato intravisto un «conflitto d'attribuzione» tra poteri dello Stato. Il Parlamento ha ritenuto che la Cassazione sia andata oltre i suoi poteri con la sentenza del 16 ottobre 2007 in cui ha stabilito liceità della sospensione dell'alimentazione e idratazione artificiali ove fosse accertata l'irreversibilità dello stato vegetativo permanente e la volontà di Eluana di non permanere in tale stato. La Corte Costituzionale dovrà dirimere la controversia. Nell’attesa, possiamo osservare come ormai i temi bioetici abbiano investito i vertici delle istituzioni democratiche sollevando problemi circa il fondamento stesso della vita civile del paese. Sul piano concreto l'azione del Parlamento non avrebbe inciso sul caso specifico di Eluana perché la sua vicenda avrebbe potuto concludersi prima del giudizio della Corte Costituzionale. Ma c'è stata una pausa forzata sia per la difficoltà di trovare una struttura idonea (essendo quasi tutti gli hospice privati e in qualche modo controllati dalla longa manus della chiesa) sia perché la Procura ha ricorso contro la sentenza di Milano. In queste pagine Beppino Englaro ripresenta la sua posizione, che - è bene sottolinearlo - i sondaggi dicono essere condivisa da circa l'80% degli italiani.
Presidente della Consulta di Bioetica Onlus

l’Unità 30.8.08
L’unica «certezza»: 16 anni senza segnali
L’irreversibilità come probabilità: criterio su cui funziona la pratica medica
di Carlo Alberto Defanti


Alcuni neurologi sostengono che sia impossibile dimostrare il non-ritorno dallo stato vegetativo: una risposta

LA PROCURA di Milano ha presentato un ricorso contro la sentenza della Corte di Appello che ha autorizzato la sospensione dell'alimentazione artificiale di Eluana adducendo che non vi è stato un «rigoroso apprezzamento clinico» convalidante l'irreversibilità dello stato vegetativo. Secondo il Sostituto Procuratore Maria Antonietta Pezza vi sarebbe incertezza «sul fatto che il paziente in stato vegetativo permanente sia del tutto privo di consapevolezza»; inoltre ella fa cenno ai recenti lavori di alcuni studiosi, fra cui Adrian M. Owen, da cui sembra emergere che in tali stati è possibile, mediante nuove tecniche di indagine come la Risonanza Magnetica funzionale, «dimostrare che possono residuare aspetti di percezione della parola, processi emozionali, comprensione del linguaggio». Non c'è dubbio che, nella decisione della Procura, abbia avuto un peso rilevante la lettera inviata alla stessa Procura da un gruppo di 25 neurologi in cui vengono citati i lavori di cui sopra e si asserisce in maniera generale l'impossibilità di formulare una prognosi attendibile di irreversibilità dello stato vegetativo.
Avendo avuto in cura Eluana in tutti questi anni ed avendo fornito due diverse certificazioni del suo stato, credo di dover intervenire. Ebbi modo di studiare il suo caso già nel 1996. Non rilevando in lei, malgrado una prolungata osservazione, alcun indizio di contatto con l'ambiente, conclusi per uno stato vegetativo permanente, formulai cioè una prognosi di irreversibilità attendendomi rigorosamente alle conclusioni di una importante Task Force statunitense che risalivano a due anni prima (1994) e che tuttora costituiscono le Linee Guida più autorevoli per la diagnosi/prognosi di stato vegetativo. In quel documento si afferma che la prognosi di irreversibilità può essere formulata già a partire da un anno dopo l'insulto traumatico, mentre nel caso di Eluana ne erano trascorsi già quattro (il trauma risaliva al 1992). A distanza di sei anni, nel 2002, ricoverai nuovamente Eluana, sottoponendola a nuovi esami, e raggiunsi la stessa conclusione. Infine circa un mese fa, pochi giorni dopo la sentenza, ho visitato nuovamente l'ammalata e non ho notato in lei alcun mutamento clinico. Gli anni trascorsi sono ben sedici. Ora, è del tutto pacifico tra gli specialisti che il criterio prognostico più forte di cui disponiamo è proprio il lasso di tempo trascorso dopo l'evento traumatico in completa assenza di indizi di contatto con l'ambiente.
Mi si può obiettare che la certezza assoluta della prognosi non esiste neppure dopo tutti questi anni e su ciò potrei anche concordare, ma solo a condizione che si tenga presente che nessuna certezza è raggiungibile in medicina. Nella pratica medica, «certezza» significa «altissima probabilità» ed è su basi probabilistiche che noi medici prendiamo quotidianamente le decisioni. Ad esempio, non esiste ad oggi nessuno studio che dimostri in modo inequivocabile l'irreversibilità della morte cerebrale, e ciò malgrado questa diagnosi viene posta ogni giorno in decine di casi e ne conseguono decisioni fondamentali come il prelievo di organi e la cessazione delle cure intensive. A questo punto mi domando perché non si voglia da parte dei colleghi mettere in questione la stessa diagnosi/prognosi di morte cerebrale.
L'intervento dei colleghi neurologi, quindi, ha avuto un carattere strumentale e ideologico: esso ha teso a minare la base scientifica della sentenza e a scongiurarne non solo l'applicazione nel caso in oggetto, ma soprattutto la sua possibile estensione ai molti casi simili che ci sono nel nostro paese.
* Primario neurologo emerito Ospedale Niguarda, Milano; Consulta di Bioetica

l’Unità 30.8.08
Diritto di morire? No, di lasciarsi morire
La sentenza della Corte di Cassazione e il rischio del medico-divinità
di Vittorio Angiolini


Eluana avrebbe già smesso di vivere senza i trattamenti imposti da altri, azione invasiva della sfera personale

NEL FIUME di parole, in cui è sommerso il caso di Eluana Englaro, si è andata perdendo una distinzione che è invece importante. Si è detto fino alla noia, come se questo fosse risolutivo, che non c'è il «diritto di morire», che il diritto alla vita è indisponibile, non rinunciabile e non può essere ceduto ad altri. Il che, per la verità, è stato ricordato anche nella sentenza della Cassazione su Eluana, che pure è stata attaccata, da più parti, come pericolosa «apertura» verso l'eutanasia. La Corte italiana ha ricordato espressamente che non c'è il diritto di procurarsi la morte né il diritto di farsela procurare da altri.
E nello stesso senso si è a suo tempo pronunciata la Corte europea dei diritti dell'uomo, rigettando la richiesta di un «suicidio assistito». Che il diritto alla vita sia considerato indisponibile in questa accezione anche in Italia non c'è dubbio: basterebbe pensare alla repressione penale dell'omicidio del consenziente. Che non si abbia «diritto di morire» significa però, appunto, soltanto che sono legittime contromisure per scongiurare che a porre fine alla vita sia la mano dell'uomo con azioni o anche semplici omissioni di comportamenti dichiarati obbligatori o doverosi. Il «diritto di morire», così concepito, non ha tuttavia con la vicenda Englaro nulla a che vedere. Eluana, dopo l'incidente che l'ha colpita nel 1992, è sopravvissuta grazie a pratiche rianimatorie e solo per la nutrizione artificiale impartita dalla struttura sanitaria in cui si trova ha dovuto prolungare per lunghi 16 anni una vita puramente biologica, priva di ogni esperienza cognitiva ed emotiva. È pacifico che Eluana cesserebbe ed anzi avrebbe già cessato di vivere se i trattamenti imposti da altre persone non avessero continuato ad allontanarne la morte. Il tema del caso Englaro non è dunque il «diritto di morire», ma solo quello del «diritto di lasciarsi morire», che è tema assai differente. Una cosa è che l'uomo uccida un altro uomo, cosa differente è che smetta di prolungarne indefinitamente la vita con accorgimenti tecnico-scientifici. Se non si tiene conto di questo, non si comprende la decisione della Cassazione sul caso Englaro. La questione non è quella di distinguere tra eutanasia attiva o passiva. La questione è, invece, se il medico o qualunque persona possa vedersi riconosciuto il potere di far vivere un altro ad oltranza e senza alcun limite grazie ad un'azione invasiva della sfera personale. Normalmente, il problema è risolto in base al principio costituzionale per cui chiunque può rifiutare ingerenze nella propria persona. Certo, il caso di Eluana Englaro è particolare, perché ella oggi non può più né consentire né dissentire da quello che altri facciano del suo corpo. Ma ciò, come ha osservato la Cassazione, non è affatto una buona ragione per lasciare Eluana priva di tutela riguardo alle intromissioni altrui nella sua sfera personale. A differenza del «diritto di morire», che in Italia e in grande parte dell'Europa non c'è, il «diritto di lasciarsi morire» è in definitiva essenziale perché nessuno possa impossessarsi del vivere altrui. Soprattutto chi del tutto legittimamente collega l'indisponibilità del diritto alla vita all'essere il vivere un dono di Dio, dovrebbe attentamente riflettere su questo aspetto: quando il medico pretendesse di essere sciolto da ogni vincolo nel far proseguire la vita altrui, all'uopo liberamente utilizzando tutto quanto la scienza e la tecnica permettono, in situazioni davvero disperate come quella di Eluana, il medico stesso potrebbe tramutarsi in una sorta di divinità, padrona di manovrare il residuo vivere del suo paziente.
* Ordinario di Diritto Costituzionale Università degli Studi di Milano

l’Unità 30.8.08
Il dolore oltre il dolore
di Beppino Englaro


La Cassazione ha ammesso che nessuno può decidere né «per» né «al posto» di Eluana
La morale medica e religiosa, nel Paese e nella politica, non è stata in grado di stare al passo dell’evoluzione medica

C’è una tragedia nella tragedia che pochi capiscono. C'è una tragedia umana che, malgrado tutto, un senso ancora ce l'ha. E c'è una tragedia artificiale tutta dentro quella umana, cui è difficile dare un senso.
La tragedia umana cui la mia famiglia è stata sottoposta è quella che la sorte ci ha riservato il 18 gennaio 1992: un incidente stradale ad una figlia di ventuno anni è una disgrazia che capita alle famiglie sfortunate. È l'imprevedibile di cui è costellata l'esistenza dagli inizi del tempo, a cui siamo abituati perché contrappasso della stessa possibilità del vivere: accettare che accadano cose sulle quali non è possibile per l'uomo avere un controllo, un governo, che non è possibile prevedere né impedire. Mia figlia uscì da questo incidente in coma profondo, intubata, la testa piena delle lesioni subite, fogliolina muta a brandelli, malamente attaccata all’albero della vita.
Ci dissero di attendere le prime quarantotto ore, poi altre quarantotto, poi ancora. Noi genitori eravamo del tutto sgomenti per quello che vedevamo accadere, ma fin qui ci sembrava di vivere nell'umana consuetudine, cui fa la sua parte vischiosa e drammatica anche il dolore - quello che fa piangere nei corridoi degli ospedali, quello che ti lascia un senso di precarietà così acuto da avvertirlo sotto lo sterno, una vertigine da perdere il fiato, da perdere il senno.
La tragedia maestra, sfidando la legge dell'umana sopportazione e lasciandoci di stucco perché credevamo di essere già sul fondo della disperazione possibile, doveva ancora arrivare.
Mia figlia, in piena salute, aveva avuto modo di vedere nel caso di un amico che cosa adesso le volevano fare, lo aveva visto con i suoi occhi ed aveva intuito che la strada intrapresa dalla medicina d'urgenza era piena di pericoli, o meglio ne sfiorava uno solo, ma profondo come un burrone.
Quando si interviene con i soccorsi e si salvano le persone dalla morte non va sempre bene. È questa una realtà di fatto quasi sconosciuta. I medici possono impedire il decesso ma creare un danno che è ben peggiore. Ben peggiore se viene sbarrata la porta di uscita, se non si può scegliere per la dipartita. Lo stato vegetativo permanente - SVP, è proprio ciò a cui mi riferisco. La sopravvivenza obbligatoria ad oltranza è poi la sua punta nauseabonda d'eccellenza.
Mi spiego: se i medici intervengono e grazie al loro soccorso qualcuno non muore ma entra in SVP, attualmente, non ne può più uscire. Anche se si era espresso in passato dicendo che non avrebbe voluto stare in vita senza accorgersene, con le mani altrui che violano ogni intimità, ogni distanza fra la sfera personale, il proprio corpo, e il resto del mondo, non ne può più uscire.
Mi accorsi con incredulità che i medici con cui parlavo e la gente tutta intorno, avevano un punto di vista antitetico al mio, avevano valori opposti ai nostri; guardando lo stesso punto vedevamo cose diverse. Eccola, la vera tragedia: la civiltà a cui appartenevo, in quel preciso momento storico, aveva fatto valere per tutti dei valori nei quali Eluana, sua madre Saturna ed io non ci riconoscevamo e non ci riconosciamo. Essa difendeva, con i suoi ordinamenti giuridici e deontologici, il dovere di far sopravvivere gli individui in SVP contro la loro volontà per rendere omaggio alla vita, a questo bene personalissimo. Che lo SVP sia eretto, come ora accade, a paradigma della difesa del valore della vita umana, che sia fatto strumento per innalzare osanna verso supposte divinità, mi sembra una follia. Che esso incarni lo stato dell'arte della medicina d'urgenza, dopo un prodigioso acceleratissimo sviluppo, anche.
«Ti strappiamo alla morte, non sei con i vermi», ho dovuto anche sentirmi dire dai medici «non ti basta»? No, non mi basta è la mia risposta.
Non riesco a concepire che questa cultura del «non morto encefalico» (così mi fu definita questa condizione in cui non sei più come le altre persone e non sei in stato di morte cerebrale) si faccia chiamare «cultura della vita». E mi sconvolge la tenacia con cui vogliono difendere questa conquista dell'invasività tecnologica che, ai miei occhi, è un macroscopico fallimento e miete vittime in modo inaudito, come le guerre.
Mi sembra di scorgere quello che è accaduto: la morale medica e religiosa dominante, nel nostro Paese e nella nostra politica, non è stata in grado di stare al passo dell'evoluzione medica e si è limitata a stazionare in quella che era la scelta consona per il secolo scorso, quando l'80% delle persone non moriva, come avviene adesso, nei letti ferrosi degli ospedali.
La tragedia nella tragedia è che Eluana sopravvive finora per il volere di alcune persone che si sono messe tra lei ed i fatti tutti suoi, tra lei ed il suo desiderio di essere lasciata morire senza prima sostare nel corridoio vuoto dello SVP. Mai e poi mai può essere dato ad alcune persone il potere di creare queste cose e ad altre il potere di imporle.
È di una violenza inaudita non poter rifiutare l'offerta terapeutica.
Eluana, Saturna ed io sapevamo come evitarlo, avevamo ben presenti i problemi della rianimazione ad oltranza e lo sbocco possibile nello SVP. Tutto era stato chiarito. I nostri pensieri convergevano verso un'unica opinione: è preferibile rinunciare a questa insensata possibilità di sopravvivenza.
Vorrei fosse sempre chiaro che noi, al contrario di altri, non esprimiamo giudizi su chi nutre fermamente un'opinione diversa dalla nostra. Per la libertà che difendiamo, rispettiamo il desiderio di chiunque riguardo a se stesso.
E nonostante gli scontri e le batoste ricevute non abbiamo mai smesso di cercare il dialogo, il confronto, perché sentiamo la nostra posizione umanamente e razionalmente sostenibile è sempre più condivisa.
Ho notato, con amarezza, che le persone restie ai condizionamenti - delle quali Eluana era una evidente esemplare - vengono mal tollerate dalla nostra società perché, reclamando l'esercizio delle loro libertà fondamentali, sovvertono l'ordine prestabilito, e questo infastidisce e spaventa. Non si coglie che essi sono una ricchezza per la collettività, uno sprone al pensare da sé, un contributo al pacifico e prezioso fermento civile. Forse si teme il contagio che la libertà, come l'allegria, sanno muovere tra le persone dalle sensibilità affini.
Con la sentenza della Corte Suprema di Cassazione del 16 ottobre 2007 e con il decreto della Corte d'appello del 9 Luglio 2008, è iniziata la controtendenza: da randagio che abbaiavo alla luna son passato ad araldo di un diritto sentito da molti (diritto che, non dimentichiamolo, in alcuni paesi è stato riconosciuto trent'anni fa!).
La Cassazione ha ammesso che nessuno può decidere né «per» né «al posto» di Eluana. Nei fatti sono dovuti trascorrere 5750 giorni, 15 anni e 9 mesi, per poter intravedere la possibilità di decidere «con» Eluana, la stessa che ho osato rivendicare dal lontano gennaio 1992.
Ho sempre dato per scontato che la possibilità di rifiutare la sopravvivenza in SVP dovesse rientrare tra le nostre libertà ed i nostri diritti fondamentali. Credo che le Corti non tarderanno a ribadirlo nonostante l'ultimo ricorso della Procura della Repubblica della Corte d'Appello di Milano.
*Socio della Consulta di bioetica

l’Unità 30.8.08
Voto in condotta o voto elettorale?
di Benedetto Vertecchi


In queste ultime settimane si è assistito alla ripresa di simboli collegati all’educazione da tempo dimenticati nelle soffitte delle scuole. Di fronte alla gravità della crisi che, in varia misura, sta investendo i sistemi scolastici dei Paesi industrializzati si sono richiamati aspetti marginali del funzionamento delle scuole, come l’uso del grembiule o l’espressione numerica dei voti. Alle manifestazioni di rifiuto della disciplina scolastica, fra le quali le più rilevanti sono quelle che sfociano in episodi di bullismo, si oppongono solo misure repressive, come se bastasse agitare lo spauracchio di un sette in condotta per ridurre a più miti consigli gli allievi meno inclini ad accettare le regole della convivenza e dell’impegno nella scuola.
Di per sé i cambiamenti introdotti sono di scarsa entità, o del tutto marginali, come nel caso del ritorno all’espressione numerica dei giudizi di valutazione. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la teoria valutativa sa, infatti, che un voto è un giudizio comparativo, che non esprime quantità, ma solo la posizione relativa dell’allievo al quale tale giudizio è assegnato rispetto agli altri presi in considerazione. Pertanto non c’è differenza fra la scala dei voti numerici da uno a dieci ora di nuovo introdotta nelle scuole elementari e medie e quella preesistente centrata su aggettivi e altre formulazioni verbali. In altri Paesi si usano lettere dell’alfabeto (per esempio, negli Stati Uniti il giudizio più positivo è indicato con la lettera A e quello più negativo con la E), scale numeriche più limitate (in Russia i voti variano da uno a cinque) oppure più estese (in Francia il voto più elevato è venti). Quel che conta non è come si esprime il voto, ma quali sono gli elementi sulle base dei quali si perviene a formularlo: si avrebbe un cambiamento effettivo se le scuole fossero messe in condizione di adeguare la loro cultura educativa alle nuove esigenze che si presentano nel lavoro educativo.
Sarà bene riflettere sulla confusione che non potrà non seguire all’uso del voto in chiave repressiva (com’è nel caso della condotta). È dubbio che la repressione sia efficace, ma è molto probabile che costituisca il punto di partenza per una contaminazione nel giudizio di valutazione fra aspetti cognitivi, affettivi e di socializzazione. È questo che si vuole? Probabilmente no. Tutto fa pensare che i cambiamenti appena introdotti non siano prevalentemente rivolti a migliorare le condizioni dell’educazione scolastica, ma debbano essere intesi come segnali rassicuranti rivolti a quella larga parte della popolazione che conserva la memoria autobiografica dei voti numerici (o del grembiulino, o del maestro unico). In altre parole, si rispolverano simboli capaci di trasmettere tranquillità ai genitori e ai nonni, ma del tutto irrilevanti per i bambini e i ragazzi che saranno direttamente investiti dalle nuove norme. Non solo: l’assunzione di un ruolo repressivo da parte della scuola libera la società civile (anche le famiglie) dalle responsabilità che pure dovrebbero essere avvertite circa le tendenze negative che si osservano nell’evoluzione dei profili di bambini e ragazzi. Eppure ci si dovrebbe chiedere che parte hanno nel manifestarsi di tali tendenze i messaggi attraverso i quali la società esercita il proprio potere di condizionamento sui comportamenti di bambini e ragazzi. La scuola sollecita all’impegno nell’apprendimento in un contesto in cui tutto sembra spingere nella direzione contraria, nel quale la cultura non costituisce un valore particolarmente apprezzato e nel quale la maggiore enfasi è posta sulla disponibilità di beni di consumo e sul conseguimento di un successo che richieda un minimo di produttività mentale.
In altre parole si suggerisce l’idea di una soluzione semplice per problemi che invece sono estremamente complessi. L’azione educativa che si esprime attraverso l’uso repressivo della valutazione interviene post factum, liberando dalla necessità di rivedere criticamente le scelte effettuate sia dalle famiglie, sia dalle scuole. Del tutto trascurata è poi l’incidenza che sui comportamenti indesiderati può aver avuto la proposta ossessiva di squallidi lustrini che raggiunge i bambini e i ragazzi attraverso i mezzi di comunicazione. Rassicurare i genitori e i nonni, evitando che si avvii una riflessione critica sui problemi dell’educazione che potrebbe sfociare nella richiesta di scelte politiche volte a produrre un’innovazione reale (alla quale non potrebbe non corrispondere la disponibilità di risorse adeguate) dovrebbe preparare il terreno ai cambiamenti nell’assetto istituzionale della scuola che si incomincia a profilare e che sarà segnato da un progressivo disimpegno dello Stato dall’istruzione.

l’Unità 30.8.08
Una proposta nuova e insieme «antica»
Per una pedagogia ispirata alla Costituzione
di Mario Lodi


Un articolo di Ernesto Galli della Loggia, pubblicato sul Corriere il 21 agosto invita a una riflessione seria sul problema educativo della scuola italiana di oggi. È vero che la scuola pubblica in Europa da due secoli ammette che non è solo un sistema per impartire nozioni, ma qualcos’altro, Che cosa? Rousseau scrisse che il bambino nasce libero e la società lo corrompe. Il grande scrittore Tolstoj aveva provato a realizzare per i figli dei contadini poveri la scuola di Jasnaia Poliana dove i bambini scrivevano i libri sui quali studiavano. Gli ultimi due secoli non sono stati avari di riflessioni e di esperienze singnificative.
Basta ricordare Maria Montessori che aprì le Case dei bambini, la Escuela moderna di Francisco Ferrer, la Cooperative Laic del Freinet che si diffuse in Italia con il Movimento di Cooperativa Educativa dopo la seconda guerra mondiale come pedagogia del buon senso, lasciando numerose opere pubblicate da Case Editrici famose. E contemporaneamente l’idea del priore don Lorenzo Milani di trasformare la sua parrocchia in scuola finalizzata ai valori della Costituzione, vale a dire la collaborazione nella libertà, invece della competizione.
In Italia la strumentalizzazione della scuola per fini politici fu attuata dal fascismo, durò vent’anni e portò alla guerra.
Con la Liberazione fu necessario cambiare le leggi del nuovo stato democratico e in sede in Assemblea Costituente pochi sanno che l’11 dicembre ’47, fu approvato all’unanimità e con vivi e prolungati applausi, un ordine del giorno di Aldo Moro in cui si chiedeva che «la Carta Costituzionale, trovi senza indugio adeguato posto nel quadro didattico delle scuole di ogni ordine e grado, al fine di render consapevoli le giovani generazioni delle conquiste morali e sociali che costituiscono ormai sicuro retaggio del popolo italiano».
Quel giorno era nata l’idea di una nuova scuola italiana con il fine di formare i cittadini futuri.
Il loro libro di orientamento era la Costituzione italiana ma non è stato usato con il fine di contribuire a formare i futuri cittadini, di cui la nostra società aveva bisogno. Nelle esperienze del dopoguerra troviamo alcune idee semplici che insegnanti sensibili e preparati possono applicare nella scuola di oggi con il fine di formare i cittadini democratici di domani.
I bambini a sei anni sanno già parlare correttamente dei loro bisogni e della loro vita. L’educatore può subito usare il linguaggio della parola per costruire le fondamenta della scuola democratica. Usando quel linguaggio ogni giorno, abituandoli ad ascoltare e a pensare senza interromperli come di solito fanno i politici in tv, si può parlare di tutto, conoscere gli altri, sapere come vivono. E si scoprirà che, pur sotto la divisa di un grembiule uguale per tutti i bambini sono, per fortuna, tutti diversi. La scuola della parola ci offre la chiave per entrare in quel mondo sconosciuto.
La scuola quindi è la prima società in cui entrano da protagonisti i bambini. È possibile renderla bella e funzionale? Assegnare a ogni cosa il suo posto? Dai quadri alle pareti, all’angolo del computer, dal posto della biblioteca, ai vasi di fiori freschi da cambiare ogni giorno, la nostra aula-laboratorio sarà d’ora in poi un po’ del nostro mondo da conoscere e rispettare. Come era la Casa dei bambini della Montessori.
I bambini che sentono come propria l’aula-laboratorio nel quale cominciano a vivere pensando e parlando e ci resteranno per otto anni, lavorando insieme. E insieme esprimeranno le regole della comunità nascente, rappresentata dall’assemblea-classe, entro la quale si formeranno di volta in volta i cittadini che hanno il diritto alla libertà espressiva sintetizzato dall’articolo 21: «Tutti hanno il diritto di esprimere il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo».
Sembra tutto facile, ma senza educatori professionisti, capaci e appassionati al loro lavoro, non è possibile. Ma chi li forma questi professionisti dell’educazione?
Questo è il compito di un ministro che ha una visione politica di un futuro positivo della società che i nostri legislatori hanno progettato alla fine della guerra e alla nascita della democrazia come partecipazione attiva. Formare gli educatori della nuova scuola dei cittadini, significa creare dei centri di sperimentazione specializzati e volontari che ogni anno immettono nella scuola la pedagogia dell’educazione civica.
Nella scuola-laboratorio ragazzi diversi per cultura imparano a studiare e lavorare insieme aiutandosi quando c’è bisogno come si faceva a Barbiana sostituendo la solidarietà alla competizione. È in questo ambiente che si impara l’educazione dell’ascolto invece della interruzione come si usa spesso in televisione. In questo ambiente dove c’è rispetto per tutti comincerà a essere sostituito il linguaggio volgare, con parole di rispetto verso chi vive insieme a noi. Allora, imparando dall’esempio acquisterà anche l’educatore quell’autorevolezza che in questi tempi sembra smarrita nei giovani e nei genitori, al Nord e al Sud.

Repubblica 30.8.08
I tagli alla scuola contraddicono il ministro
di Salvatore Settis


La scure che si è abbattuta sui finanziamenti non aiuterà ad introdurre un sistema di premi per chi lo merita

È vero che la scuola nelle regioni del Sud è uniformemente di basso livello, che i suoi insegnanti sono "indietro" rispetto ai loro colleghi del Nord? No, non è vero. Ma allora è vero che la scuola italiana, pur con tutti i suoi problemi, ha un livello uniforme su tutto il territorio nazionale? No, nemmeno questo è vero.
Ci sono disparità grandissime, a volte fra scuole o licei della stessa città (che può essere Treviso o Catania), con punte verso il basso che talvolta si concentrano in modo assai preoccupante in certe zone del Paese (non necessariamente, non solo al Sud). Non è nemmeno vero che nessuno se ne è accorto. In Calabria (cito, a scanso d´equivoci, la regione dove la mia famiglia è radicata da quasi seicento anni) la Regione ha appena lanciato, grazie al suo vicepresidente Domenico Cersosimo, un Piano d´azione 2007-2013 per complessivi 101 milioni di euro per l´istruzione e la formazione. I presupposti (cito dal sito ufficiale della Regione): «Sappiamo che esistono deficit e carenze che investono i nostri studenti, soprattutto a livello logico-matematico» (Loiero); «dal punto di vista delle competenze, la Calabria parte da uno svantaggio abissale, che è molto più pesante di quello fisico o geografico» (Cersosimo).
Con lungimirante intelligenza, Cersosimo sottolinea che il Piano «vuole iniziare a colmare il deficit nell´ambito del ciclo completo della formazione (...); si occupa di lavorare sulla base ma non dimentica le punte. Si propone di agire in termini di profezia perché mette finalmente in agenda la scuola e vuole premiare sia gli studenti che i docenti».
Parole d´ordine che, lo si vede subito, sono in sintonia con la preoccupazione del ministro Gelmini di «rimettere al centro della scuola il merito e la responsabilità», di immaginare la nostra scuola (la scuola della Repubblica Italiana) come il luogo in cui si alimenta «una visione, una cultura, un´idea dell´Italia e del suo futuro». È esattamente quello che è mancato e che manca alla scuola italiana, come ha scritto Galli della Loggia sul Corriere del 21 agosto. Essa riflette «la crisi dell´idea di Italia, è lo specchio della profonda incertezza di chi a vario titolo la guida», dal governo agli addetti ai lavori. Perciò occorre «ridare profondità storico-nazionale alla scuola, riappropriarsi del passato e della propria tradizione per ritrovarsi (...) riaffermando il carattere multiforme ma unico e specifico dell´esperienza italiana, (...) ricostituire culturalmente e organizzativamente il rapporto centro-periferia e Nord-Sud».
Il ministro Tremonti ha difeso sul Corriere i tagli a tutto e a tutti in nome della riduzione del deficit pubblico, e ha avanzato per la scuola alcune proposte, naturalmente a costo zero o con qualche risparmio: reintrodurre i voti in luogo dei verbosi giudizi, tornare al maestro unico nelle elementari, dare una qualche regola all´uso e all´abuso dei libri di testo. Su queste proposte, personalmente sono d´accordo con lui. Ma Tremonti sarà il primo a riconoscere che misure cosmetiche come queste non toccano il cuore del problema.
La scure che si è abbattuta sui finanziamenti non aiuterà ad avere scuole meno fatiscenti e più attrezzate; non incoraggerà a introdurre meccanismi premiali del merito; non capovolgerà, come sarebbe necessario, il messaggio fondamentale che viene dal governo di turno: che la scuola è marginale, conta poco o nulla rispetto alle priorità della politica. Come ha scritto Adriano Prosperi su questo giornale (25 agosto), «dalle condizioni sociali in cui si svolge la scuola nasce una disaffezione profonda e diffusa; nasce anche un minaccioso processo di produzione di disadattati».
In altri Paesi, ma anche nel nostro in altri momenti della sua storia, dovrebbe soccorrerci il richiamo alla Costituzione. La nostra pone la scuola fra i meccanismi essenziali al «pieno sviluppo della persona umana» (art. 3), e prescrivendo l´uguaglianza piena dei cittadini privilegia «i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi». Ma oggi è di moda parlare di Costituzione non per difenderla come un testo sacro (così fanno i cittadini degli Stati Uniti), ma solo per dire che è invecchiata.
Nella nostra Costituzione, viceversa attualissima, troveremmo quello che stiamo cercando, "un´idea dell´Italia", articolata con vivo senso della storia e con impressionante lungimiranza. Ma vogliamo cercarla davvero, un´idea dell´Italia, vogliamo davvero che la scuola ne sia il laboratorio e il tramite? Che cosa ha a che fare con questo progetto il vilipendio all´inno nazionale impunemente sbandierato da un ministro in carica? È forse "educativo"? E come è possibile alimentare una qualsiasi idea dell´Italia mentre ci avviamo verso un rassegnato federalismo senz´anima, senza che nessuno ci spieghi nemmeno quanto costerà, quanti altri tagli di bilancio, quante ulteriori disuguaglianze finirà col provocare?

Corriere della Sera 30.8.08
Neuroscienze. La nuova frontiera della ricerca porta al di là dei fenomeni scoperti da Freud
Oltre l'inconscio, capire la coscienza
Sappiamo molto sul cervello ma la mente rimane inesplorata
di Edoardo Boncinelli


Anticipiamo un brano dall'intervento che Edoardo Boncinelli pronuncerà stasera al Festival della Mente di Sarzana (ore 21, piazza Matteotti).

Da tempo gli esseri umani pensano di essere gli unici ad avere una conoscenza diretta della propria vita mentale, cioè una coscienza, come pure una coscienza di questa coscienza, cioè un'autocoscienza. Se siamo gli unici non è del tutto chiaro, ma sicuramente noi siamo esseri dotati di coscienza. Lo strumento principe della sua esplorazione è l'introspezione, una facoltà interiore che ci ha regalato ineguagliabili tesori letterari e filosofici. L'introspezione è anche lo strumento attraverso il quale si può mettere in pratica l'imperativo filosofico e sapienziale: «Conosci te stesso!».
Il problema è che per secoli si è ritenuto più o meno inconsapevolmente che tutta la nostra attività mentale fosse cosciente e che quindi attraverso l'introspezione si potesse prendere coscienza di tutti i nostri moti interiori. Non è chiaro se tutti quanti fossero perfettamente d'accordo con questa assunzione o se si tendesse a considerare rilevante solo ciò che poteva essere raggiunto dalla coscienza, relegando tutto il resto nel girone infernale delle funzioni puramente corporali. Tutto ciò ben si iscrive nel clima culturale imperante fino a tutto il Settecento e che non prestava nessuna particolare attenzione ai fenomeni che riguardavano la vita e i suoi meccanismi. La biologia è stata l'ultima scienza a divenire adulta, non certo perché più difficile, ma piuttosto perché più soffocata e paralizzata dalle sovrastrutture ideologiche, che del resto ancora oggi la condizionano prepotentemente.
Quello che è certo è che nella seconda metà dell'Ottocento e con gli inizi del Novecento questa visione della mente è andata progressivamente in crisi ed è poi miseramente e direi rumorosamente crollata. Fu Sigmund Freud a dare il colpo finale alla dottrina della pervasività della coscienza e a lui viene di solito attribuita la scoperta dell'inconscio. Fu insomma improvvisamente chiaro che dentro di noi accadono tante cose delle quali non siamo, e secondo Freud spesso non possiamo essere, coscienti. Questa proposta incontrò sulle prime enormi resistenze ma poi si impose, anzi stravinse, con le inevitabili esagerazioni nella direzione della onnipotenza e della presunta progettualità dell'inconscio.
Qual è la situazione oggi? Dopo decenni di psicoanalisi, di psicologia e di neuroscienze, si fa veramente fatica a credere che ci sia stato un tempo nel quale si è pensato che tutta la nostra attività psichica fosse conscia. Per noi quest'ultima visione è assolutamente inconcepibile, se non fosse per il fatto, cui abbiamo già accennato sopra, che se dalla attività psichica si esclude questo e si esclude quello, si può anche arrivare a pensare che tutto dentro di noi sia conscio ed esplorabile direttamente e con facilità.
Questa operazione di resezione della nostra attività psichica, con l'esclusione di molte sue manifestazioni, è oggi sempre più difficile e scientificamente impossibile, con tutte le cose concrete che abbiamo imparato del funzionamento della nostra psiche, dall'esecuzione di calcoli al ragionamento, dall'affettività alla decisione, dalla percezione alla ricostruzione degli eventi passati. Oggi buona parte della biologia è neurobiologia e lo studio del nostro cervello, e più in generale del nostro sistema nervoso, impegna le menti migliori e una gran mole di risorse materiali.
Quasi tutto quello che avviene nella nostra testa è inconscio e anche quello che emerge alla coscienza impiega non meno di un terzo di secondo a farlo. Questo è il tempo che separa il cervello dalla mente o, per meglio dire, dalla coscienza. Il nostro cervello lavora mettendo in atto continuamente processi inconsci: solo alcuni di questi, e solo qualche volta, emergono alla coscienza, con il ritardo temporale fisso di alcuni decimi di secondo. Ciò di cui la nostra mente prende coscienza è sistematicamente in ritardo su ciò che il cervello sta elaborando. «La nostra mente — dice efficacemente il neuroscienziato di origine italiana Michael Gazzaniga — è sempre l'ultima a sapere!» Ma — potremmo ribattere noi — è anche l'unica a sapere. Se non arrivano alla coscienza, tutti i moti dell'animo restano pura fisiologia, fosse pure cerebrale, e non lasciano che una traccia indiretta in noi. Ciò non vuol dire che non siano interessanti! Sono anzi l'essenza della nostra vita psichica e di tutte le sue articolazioni che ci permettono di sopravvivere, di reagire agli stimoli e di interagire al meglio con i nostri simili, ma sono nella loro vastissima maggioranza inaccessibili all'introspezione, non fanno cioè parte della coscienza.
Progressi enormi sono stati compiuti negli ultimi 20-30 anni nello studio di questi meccanismi. Non sappiamo certamente ancora tutto, ma quello che si sa è sufficiente a riempirci di orgoglio e a farci capire che il loro studio futuro ci spalancherà universi nuovi e entusiasmanti. Ma si assiste a un fenomeno paradossale: tutto quello che si è imparato e che riempie articoli e libri sulla mente, riguarda i moti inconsci dell'animo; di che cosa sia la coscienza e come alcuni di questi moti di tanto in tanto vi emergano, non ne parla quasi nessuno seriamente. Perché nessuno ne sa niente.
Il problema oggi non è l'inconscio, il grande sconosciuto del passato, ma proprio la coscienza. La neurobiologia di oggi non deve più persuaderci dell'esistenza dell'inconscio né descriverci molti suoi meccanismi, bensì dedicarsi alla comprensione dei meccanismi della coscienza e alle sue varie dimensioni e articolazioni. Questo è il grande compito di domani. Questo è l'oggetto di studio più formidabile. Questo è lo gnosci te ipsum,
il conosci te stesso del XXI secolo, o forse del terzo millennio. È un compito da far tremare le vene e i polsi, ma il premio sarà luminosissimo. Non si tratta di meno che di capire come si passa dal cervello alla mente. Come si passa cioè dal corpo allo spirito.

Corriere della Sera Roma 30.8.08
Villa Celimontana
Il «Sole» di Ada Montellanico


Il Villa Celimontana Jazz Festival (piazza della Navicella) ospita l'Ada Montellanico Ensemble in «Il sole di un attimo», titolo del nuovo disco di una delle più prestigiose ed originali voci del jazz italiano. Il cd rappresenta una tappa importante nella ricerca della vocalist romana: liriche struggenti, sinuose e penetranti, avvolte in ambiti musicali puramente afroamericani. I testi in italiano confermano la riuscita di una ricerca, svolta da molti anni, che declina il jazz nella nostra lingua. Sul palco anche Stefano «Cocco» Cantini sax, Alessio Menconi chitarra, Riccardo Fioravanti contrabbasso, Walter Paoli batteria, percussioni, Antonio Amanti corno di bassetto. Villa Celimontana, ore 22,15

l’Unità Roma 29.8.08
Il grande jazz italiano con
Amato, Ionata e Montellanico


Due sere dedicate al jazz italiano di qualità, stasera e domani, a Villa Celimontana. A cominciare dalla performance odierna del progetto di Giovanni Amato e Max Ionata, proseguendo con l’esibizione di domani sera dell’ensemble di Ada Montellanico, sicuramente tra le migliori voci jazz sul territorio nazionale.
Il quartetto Organic è diretto pariteticamente da Amato (tromba e flicorno), strumentista, compositore e arrangiatore personale, attivo anche come didatta e orchestrale, e dal più giovane Ionata, sassofonista romano che alterna il tenore e il soprano. I due hanno elaborato un repertorio originale radicato nello stile hard-bop, e arricchito dall’organo hammond di Julian Olivier Mazzariello, L’ingombrante strumento a tastiera, difficile da "domare", con i suoi registri ora liquidi ora aggressivi e il tipico vibrato ha impreziosito tante produzioni non solo jazz negli anni 60 e 70, e oggi torna prepotentemente in auge a dispetto (o a causa) dell’enorme sviluppo dei suoni digitali negli ultimi quattro lustri.
Completa la formazione Nicola Angelucci (batteria). Sabato la Montellanico presenta il cd Il Sole Di Un Attimo, tappa importante nella sua carriera. Dopo una lunga ricerca sugli standard e poi sulla canzone italiana rivisitata in jazz, Ada propone finalmente una raccolta di brani di cui è autrice di musica e testi.
Con lei Stefano Cantini (sax), Alessio Menconi (chitarre), Riccardo Fioravanti (basso), Walter Paoli (batteria). Ospite specialissimo Antonio Amanti al corno di bassetto, antico strumento amato da Mozart.

Il Giornale 29.8.08
Il corno di Mozart ha stregato Ada Montellanico


Un weekend di gran classe a Villa Celimontana. Stasera sul palco il quartetto di Giovanni Amato e Max Ionata, mentre domani Ada Montellanico presenterà l’album Il sole di un attimo. Amato e Ionata (tromba e flicorno il primo, sassofono il secondo), accompagnati da Julian Oliver Mazzariello all’organo hammond e da Nicola Angelucci alla batteria, propongono un repertorio originale con una forte radice hardbop. In scaletta, comunque, anche spazio per l’esecuzione di qualche standard, come nella migliore tradizione. La band sarà nuovamente in concerto a Roma, tra qualche giorno, nell’ambito della seconda edizione di «Musica senza confini», a Ponte Milvio.
Domani appuntamento con la splendida voce di Ada Montellanico. La cantante ha da poco pubblicato il nuovo cd e lo presenta a Villa Celimontana. Con lei una band di qualità: Stefano «Cocco» Cantini al sax, Alessio Menconi alla chitarra, Riccardo Fioravanti al contrabbasso, Walter Paoli alla batteria e alle percussioni, Antonio Amanti al corno di bassetto. Vista la particolarità dell’ultimo strumento, raramente inserito in una formazione jazz, vale la pena spiegare che si tratta di un antico corno usato da Mozart. Il suo suono misterioso ha colpito la cantante, che ha voluto scrivere L’alba di un incontro, brano in cui si fa accompagnare dalle sue delicate note.
La Montellanico è indubbiamente tra le più grandi interpreti del canto jazz in Italia, per lo stile e la voce inconfondibili e per la continua voglia di evolversi. Nel nuovo album le storie raccontate sono quasi tutte di sua composizione. I testi, rigorosamente in italiano, confermano la riuscita di una ricerca, svolta da molti anni, che declina il jazz nella nostra lingua, attraverso il raggiungimento di uno stile originale.
Tra i musicisti che la affiancheranno, tutti di grande talento, interessante il percorso artistico recente di Alessio Menconi. Il chitarrista genovese ha da poco pubblicato due album. Nel primo, intitolato Solo, interpreta standard del jazz, perle del pop e brani originali. From East to West offre quasi tutte canzoni scritte da Menconi e una manciata di cover raffinate, tra cui The fool on the hill dei Beatles.

Repubblica 28.8.08
Atmosfere afroamericane per la sua voce calda
Villa Celimontana. Sabato sera presenterà dal vivo l'album "Il sole di un attimo" fusione fra jazz e repertorio melodico
di Felice Liperi


Sensibile e raffinata vocalist, capace di fondere il linguaggio jazzistico con la riscoperta di grandi melodie del nostro repertorio canoro, Ada Montellanico presenta sabato agosto a Villa Celimontana il suo ultimo progetto discografico: Il sole di un attimo. Un album importante in cui, insieme a ottimi musicisti, ha sviluppato ancora la sua sensibilità di compositrice di testi e musica: liriche struggenti e sinuose avvolte in ambiti musicali afroamericani. Dei nove brani sette sono suoi (a volte affiancata da Enrico Pieranunzi e Gianpaolo Conti, da tempo suoi compagni di strada) e confermano la sua capacità di fondere linguaggio jazzistico con la ricchezza melodica del nostro repertorio. "Ti sognerò comunque", "L´alba di un incontro" e "Suono di mare" sono appassionanti paesaggi di un percorso che apre a nuove prospettive. Idee emerse già nel progetto Suoni modulanti in cui aveva offerto sfumature diverse ai repertori che proponeva, dagli standard americani alla canzone italiana più classica e d´autore, come nei dischi dedicati a Tenco ("L´altro Tenco") e alla melodia classica all´italiana ("Ma l´amore no").
Al suo fianco nella realizzazione de Il sole di un attimo, oltre Pieranunzi, anche Walter Paoli (batteria), Paul McCandless e Stefano "Cocco" Cantini (fiati), Bebo Ferra (chitarra), Antonio Amanti (corno di bassetto) e Pietro Ciancaglini (contrabbasso). I testi, tutti in italiano, confermano il successo di una ricerca avviata da anni per declinare il jazz nella nostra lingua, con uno stile e un suono originali in cui dizione, esposizione della melodia, swing, fraseggio e improvvisazione si fondono in una voce calda e ambrata. Con lei sul palco al sax Stefano "Cocco" Cantini, alla chitarra Alessio Menconi, al contrabbasso Riccardo Fioravanti e alla batteria Walter Paoli. Special guest il corno di bassetto di Amanti. Un antico strumento usato da Mozart che ha così colpito la Montellanico da farle scrivere un brano ad hoc da suonare con il musicista.

Il Messaggero 30.8.08
La nuova Ada Montellanico a Villa Celimontana


La vocalist romana Ada Montellanico presenta live il suo nuovo cd ”Il sole di un attimo”, brani in gran parte di sua composizione che traducono in jazz testi in italiano. Con lei Stefano Cantini ai sax, Alessio Menconi alle chitarre, Riccardo Fioravanti al basso, Walter Paoli alla batteria e Antonio Amanti al corno di bassetto, antico strumento usato da Mozart. Villa Celimontana, via della Navicella, 06-77202256.

venerdì 29 agosto 2008

Il Foglio 23.7.08
Falce e macello
Secondo il filosofo bertinottiano Fagioli, "Vendola e Ferrero non valgono neppure mezzo Fausto"
"Vendola è cattolico, dunque non può fare il segretario. Ferrero è valdese, ma è un fatto privato"
intervista di Salvatore Merlo


Roma. Il "professor" Massimo Fagioli parla lungo e denso. Il suo fraseggio è così affollato di dottrine che è difficile individuare il soggetto, il verbo e il predicato. Ma poi a una domanda sulla successione al trono di Rifondazione (domani il congresso) risponde chiaro: "Né Paolo Ferrero né Nichi Vendola valgono mezzo Bertinotti. Vendola poi è un'aporia vivente. È all'unisono cattolico, comunista e omosessuale. È mai possibile conciliare queste tre identità?". Pasolini lo faceva. "Ma non era candidato alla segreteria - dice Fagioli - Ferrero è rimasto ai tempi della svolta occhettiana, è incartato nel passato marxista leninista. Ridicolo". Dice così il professore, il settantenne psichiatra che da quattro anni mantiene un sodalizio intellettuale con Fausto Bertinotti. Qualcuno ("i cretini", dice lui) lo definisce il guru del subcomandante Fausto. "Fu nel 2004 - racconta al Foglio - che con Bertinotti ci ritrovammo nell'avviare la svolta non violenta" del partito. Un passaggio storico. Da allora l'ex presidente della Camera ha preso le distanze dalle violenze dei noglobal e ha emarginato Nunzio D'Erme, celebre per avere sparso letame davanti all'abitazione romana del Cav. Un rapporto, quello tra Fagioli e Bertinotti, difficile da decifrare. Abbastanza intenso da aver fatto storcere il naso a molti nel Prc e nella sinistra in genere. Epica la lite con Giulietto Chiesa, che abbandonò la rivista Left all'arrivo del professore, capo - diceva Chiesa - "di una setta". "Io offro una nuova strada da percorrere spiega Fagioli - dopo il fallimento del comunismo perseguo 'la realtà umana'". Mica poco. Un orizzonte che pare abbia ispirato anche l'ultima - non riuscitissima per la verità - svolta bertinottiana, il lancio di quella sinistra Arcobaleno poi naufragata lontano dal Parlamento. L'ultimo incontro tra i due è avvenuto lunedì scorso, quando Bertinotti ha presentato il sesto numero della rivista "Alternative" a un pubblico di così detti "fagiolini", il gruppo di persone (qualche centinaio) che quattro volte alla settimana in piazza San Cosimato, nel rione Trastevere, partecipa a mastodontiche sedute di analisi collettiva che Fagioli chiama "psicoterapia di folla", Cosa ha detto a Bertinotti? "Che il cardine della nuova sinistra non è più la classe operaia, ma sono gli immigrati. Questo è il terreno del nuovo scontro. Anche gli italiani in America, prima di diventare operai, erano immigrati".
Ma Bertinotti ha lasciato, si ritira per "dedicarsi alla ricerca - ha spiegato lunedì - alla teoria politica più che alla prassi". Una perdita insostituibile per Fagioli, a cui i giovani duellanti di Rifondazione, Ferrero e Vendola, non piacciono affatto. Specie Vendola. "Come si fa ad accettare che il segretario di Rifondazione sia un cattolico praticante? Si rischia una sindrome bipolare, dissociativa. La religione cattolica non è un fatto personale. Come scriveva l'altro giorno Ritanna Armeni su Liberazione: la realtà umana conta in politica. Vendola è cattolico e in quanto tale non può fare il segretario". Ma anche Ferrero è uomo religioso, è valdese. "Sì - dice Fagioli - ma essere valdesi è un fatto privato. La chiesa valdese non ha mai avuto influenze sulla politica e lo stato. Come farà invece Vendola a proseguire nel solco del pensiero laico tracciato in Europa da Zapatero su aborto, divorzio, fecondazione assistita ed eutanasia? Si iscriva al partito di Casini". Eppure Vendola si è spesso smarcato dal Vaticano ed è un libertario omosessuale. "È lo stesso discorso. La sessualità è un fatto privato, che si può coltivare all'interno di associazioni di scopo, ma non si può proporlo come identità politica. E poi cattolico e omosessuale sono in contraddizione - continua Fagioli - Non bisogna confondersi le idee, tanto più che noi ci proponiamo di cercare la realtà umana. Insomma chi è Nichi Vendola? Non si capisce". Sarà. Ma è il favorito e gode della stima di Bertinotti (e non solo).
l’Unità 29.8.08
Come fare a pezzi la scuola
Meno maestri e meno soldi
di Marina Boscaino


Il recente rapporto di Bankitalia dice che al Sud c’è abbandono per strutture fatiscenti
Non c’è alcun rapporto scientifico tra la riduzione del bullismo e il voto di condotta

Siamo usciti - alla fine di luglio - da una fatiscente e disastrata scuola del XXI secolo; rientriamo, in settembre, in una fatiscente e disastrata scuola degli anni '60. Con questa consapevolezza, dopo il Consiglio dei Ministri di ieri, dopo le esternazioni di Gelmini al meeting di Rimini, andiamo a vedere come questa donna, fino a tre mesi fa sconosciuta - oggi monopolizzatrice di spazi televisivi e di articoli di giornale - nonostante la sua inadeguata competenza e il suo basso profilo politico continui a tenere accese su di sé le luci di una ribalta che resistono solo perché assecondano alcune pericolose richieste dell'elettorato italiano. Un esempio. Da qualche ora circola sul sito di "Repubblica" un sondaggio: siete favorevoli al ritorno del voto? Ebbene, alle 18 di ieri pomeriggio il 71% dei 6000 votanti era favorevole per tutti gli ordini di scuola; il 12% contrario; il 3% favorevole solo nelle scuole elementari e medie; il 14% solo alle superiori; l'1% non si è espresso.
Ecco un caso veramente indicativo di come vanno le cose nel nostro Paese: "pseudo-notizie" sulla scuola tengono banco, producendo l'effetto di far dimenticare i veri problemi. Parte dell'opinione pubblica interviene a plaudire ad un provvedimento che di sé appare molto meno significativo di altri. Cosa intendo per "pseudo-notizie"? Intendo, ad esempio, che la riabilitazione del voto al posto del giudizio sintetico (distinto, ottimo) rappresenta un risibile tentativo di dare una risposta al complesso problema della valutazione: in uno scontato gioco delle tre carte si sostituiscono i voti ai giudizi. Perché - dalla sostituzione dei voti con i giudizi, che aveva una sua specifica ratio di carattere pedagogico - di fatto i giudizi sintetici si sono trasformati in aggettivi basati su un criterio molto simile a quello numerale. Disturba, semmai, il ritorno ad un numero per valutare un bambino, ad una criterio di giudizio antico; e la disattenzione al dibattito che portò al cambiamento. L'idea non è né originale, né tantomeno rivoluzionaria: si tratta di una trovata ad effetto per assecondare il bisogno di ordine, l'irrinunciabile necessità di certezze sulle minuzie che caratterizza quest'epoca di confusione e distrazione sui grandi temi; e per far segnare un punto nella lista "interventi fatti" in nome di un fasullo efficientismo destinato a spostare di nulla i problemi della scuola.
Come il clamore sul voto di condotta: 5, automatica bocciatura; il voto in condotta fa comunque media. Sarebbe interessante - tra tanto sbandierare di pugni di ferro e provvedimenti demagogicamente repressivi - che il ministro producesse dati sul rapporto tra bullismo e rendimento scolastico: comprendere, cioè, quale sia stata la sorte, didatticamente parlando, dei numerosi bulli assurti alle cronache in questi ultimi anni. Facendo media, il voto in condotta inciderebbe sull'erogazione di credito scolastico, intervenendo sull'esito dell'esame di stato. È in grado, il ministro, di produrre evidenze che certifichino un numero significativo di alunni con rendimento scolastico brillante a fronte di comportamenti esecrabili? O non risulterebbe, piuttosto, uno stretto rapporto tra condizioni sociali e comportamenti, nella maggior parte dei casi? Ha valutato, Gelmini, che al Sud, secondo un recente rapporto della Banca d'Italia, il tasso di abbandoni è del 25% e che la ricetta, suggerita non solo dalla ricerca, ma da molti pedagogisti, è quella di intervenire preventivamente non con la repressione, quanto con la stabilizzazione della relazione educativa, limitando se non eliminando il precariato che si sposta ogni anno in classi e scuole diverse? Solo quella stabilizzazione, infatti, può produrre risultati significativi sul piano del successo formativo e dell'educazione alla cittadinanza. È realistico credere che un problema come il bullismo non incontri un'aggravante nei tagli di organico che ci troveremo di fronte nei prossimi 3 anni; e trovi un deterrente nella clava del 5 in condotta? Se nel bilancio del ministero il 97% del budget disponibile è destinato agli stipendi del personale, perché tagliare automaticamente sul personale - in cui, lo ricordo, rientrano alcune "anomalie", ora positive, ora negative, del sistema italiano: insegnanti di sostegno, di religione cattolica, di comuni montani e isole piccole - e non valutare se il budget è di per sé insufficiente, in una scuola in cui per buona parte la più avanzota tecnologia di comunicazione è tuttora il gesso? Insomma, la nostalgia per i "bei vecchi tempi" e la severità sono il segno demagogico delle rivoluzioni pedagogiche del governo di centro destra. In nome di questi saldi principi, però, si configura l'insidia peggiore, la meno sottolineata, se non dai sindacati: il ritorno al maestro unico dal 2009. Che non vuol dire esclusivamente - come ha affermato Enrico Panini - la riduzione dei 2/3 dell'organico per un totale di circa 250.000 unità. Ma significa anche smantellare un'esperienza, quella del team di insegnanti, che ha connotato in maniera significativa la scuola elementare, segnalandola come la parte della scuola italiana più qualificata, vitale e incisiva per la costruzione dell'emancipazione cognitiva dei bambini.
Il furor iconoclasta anti Sessantotto che compatta la compagine governativa ogni volta che affronta un problema culturale individua in un passatismo talvolta inconcludente, talvolta estremamente pericoloso, la propria arma principale. Il rischio è che - tra grembiulini, rigore indiscriminato, autorevolezza di facciata, autoritarismo controproducente, criteri economicisti - si avvii un'operazione che colpisce la parte più sana di un sistema in grave difficoltà. La vera notizia è questa.

l’Unità 29.8.08
Tornano i voti. Un decreto cambia la scuola
Quello di condotta e quelli per materie alle elementari e alle medie. Presto il maestro unico. La Cgil: faremo muro
di Federica Fantozzi


LO SGUARDO incastonato nella montatura indaco che sorvola senza soffermarsi la platea di cronisti, il ministro Mariastella Gelmini dà i numeri. Dieci minuti di solitaria conferenza stampa, un decreto per riformare la scuola italiana, il debutto del cinque in
condotta, il maestro unico alle elementari, il ritorno dei voti al posto dei giudizi, caro-libri bloccato per almeno tre anni.
Ma l’ultimo numero della scuola italiana declinata dal PdL è il senatore forzista Lucio Malan a ribadirlo: «Con queste misure sono finiti l’ideologismo e il pedagogismo che dal ‘68 hanno creato danni gravissimi». Ossessione sessantottina, ultimo atto: basta sperimentazioni, serietà nell’istruzione dei virgulti. Obiettivo, secondo la deputata del Pd Pina Picierno: riportare le lancette indietro agli anni 50.
Al netto di Alitalia, il volto del primo consiglio dei ministri è quello appuntito e compunto della Gelmini che, in tailleur cipria dai candidi revers, annuncia le novità dell’anno scolastico «imminente». Vale a dire dal primo settembre: a mezzo decreto legge e senza dibattito parlamentare. Misure a cui la titolare dell’Istruzione lavora con Tremonti e che finiranno in Finanziaria. Torna la vecchia educazione civica ribattezzata Educazione alla Costituzione e alla Cittadinanza: comprenderà le regole a tutela dell’ambiente e - su richiesta del ministro Matteoli - l’insegnamento del codice della strada.
Rentrée del voto in condotta non solo simbolico ma che fa media. Nuova la soglia: con il “5” scatta la bocciatura. «È una risposta necessaria - ha chiarito il ministro - al moltiplicarsi degli episodi di bullismo». Si torna a valutare i ragazzi con i voti anche alle elementari e medie: accompagnati sì dai giudizi, ma solo «esplicativi».
E l’introduzione del maestro unico alle elementari (che però entrerà in vigore solo nel 2009) consentirà, come sottolineato dai concreti ministri leghisti, «un bel risparmio». Come del resto la soluzione anti caro-libri: «Un forte incentivo del governo a non cambiare libri se non necessario per 3-5 anni. Materie come italiano e matematica non cambiano».
Considerando dunque sistemati i bulletti, i futuri pirati della strada, i bravi ma agitati e le famiglie in ristrettezze economiche, Gelmini è soddisfatta: «Provvedimenti importanti per ripristinare ordine e chiarezza». Il resto toccherà a Brunetta contro gli insegnanti fannulloni.
Non la pensano così né i sindacati né gli studenti. Laconici i ragazzi dell’Uds: «Ci vediamo in piazza, ci sentiamo traditi, no alla repressione». «Siamo pronti a fare muro contro il maestro unico» ha avvertito la Flc Cgil, per bocca del segretario generale Enrico Panini. «Si apre uno scontro frontale. La scelta del governo appartiene a un modello anni 50». La preoccupazione è di tagli all’organico: «Oggi sono 250mila insegnanti, significa ridurlo di due terzi. Non ci saranno più posti per le supplenze, i precari staranno a casa».
Idem Massimo Di Menna della Uil Scuola: «L’attuale modello funziona, il colpo di spugna è pericoloso». Negativo anche il giudizio del suo omologo Cisl Francesco Scrima: «Una forsennata politica di tagli che taglia le radici della buona scuola. Colpisce la disinvoltura sulla rottamazione, attraverso il ripristino del maestro unico, di esperienze innovative». Il ministro che da studentessa aveva 10 in condotta suscita invece l’entusiasmo del Moige e dei colleghi Meloni e Rotondi.
Nessun contrasto in cdm, dice La Russa (ormai autonominatosi garante dell’armonia governativa). A parte qualche tensione con la Lega sul ruolo di Malpensa. Berlusconi, sulla partita Alitalia, ha messo sul tavolo «rapporti diretti con gli Emirati Arabi». Non solo Air France, dunque ma «gli sceicchi». In conferenza stampa ha rimpianto i bei tempi del suo vertice con Putin a Pratica di Mare e ha chiarito che il nipotino di 8 mesi è «tutto suo nonno» perché non piange mai. In serata, ha scherzato con alcuni studenti:« Ragazzi, attenti al 5 in condotta»

l’Unità 29.8.08
Scuola, la cura che non c’è
di Luigi Berlinguer


La scuola torna in prima pagina. Aumenta l’attenzione politica su un tema che sembrava tramontato? Lo spero. Non vorrei che fosse una fiammata alimentata dalla benzina della vis politica. Sono anni che la scuola divide, e questo è un male. Da che dipende? Dal fatto - credo - che il dibattito culturale sulla scuola è arretrato di decenni, parla di una scuola che non c’è più. Cambiati i numeri, la natura, la missione; e di questo non c’è traccia nei commenti dei media. È ora invece che si cambino contenuti e metodi. È decisivo ciò che si impara e come. Occorre una rivoluzione curriculare e metodologica, con alla base la sollecitazione delle curiosità, degli interessi culturali e umani. Severità e rigore vanno insieme al coinvolgimento degli alunni. Il sapere è una conquista e non un’iniezione.
Esiste una «questione meridionale» della scuola italiana? Temo proprio di sì. Pochi sanno che il «Comitato per lo sviluppo della cultura scientifica» che presiedo ha promosso un’indagine sulla presenza dei laboratori scientifici nelle scuole italiane. Le risultanze sono state rivelatrici. Laboratori ce ne sono, ma sono scarsamente utilizzati.
Nel Mezzogiorno però questo difetto è di media più grave del 20% rispetto al centro-nord. Preoccupante.
Osserviamo un altro indicatore: la cosiddetta dispersione scolastica di cui i giornali di ieri hanno parlato, finalmente con interesse: chi abbandona la scuola anzitempo o la conclude con molto ritardo. Ebbene, in Italia questo flagello è più grave della media europea, come si è letto. Purtroppo però, dopo gli articoli di ieri temo che torni il silenzio, perché la pubblicistica ignora il fenomeno; ai nostri soloni non importa se tanti ragazzi vengono perduti nel corso del cammino della conoscenza. Il dato più allarmante, però, è nel Sud, ove le province continentali ed isolane registrano un abbandono ed un ritardo superiore del 5-10% rispetto alla media nazionale, che - si sa - è sotto la media europea, e la stessa media europea non va bene rispetto agli obiettivi di Lisbona. Ancora una volta però in Italia è la parte più debole del Paese che paga.
Ancora: sanno i nostri lettori quale sia lo stato dell’edilizia scolastica nel Sud? Spesso è disastroso. Nel centro-nord un tale problema - più esistente soprattutto in ordine al tipo di architettura degli edifici rispetto alle nuove esigenze didattiche - non si presenta drammaticamente, perché è stato fatto abbastanza. Nel Sud invece è il contrario. Esistono numerosi edifici fatiscenti, improvvisati, inadeguati, precari, sovraffollati, privi di attrezzature (palestre, multimedialità, piscine etc.): insomma scuole vecchie, disastrate, e per questo inefficienti, incapaci di un’offerta didattica e formativa adeguate. Questa situazione ha pesato e pesa ancora per l’esistenza di doppi turni quotidiani, che sono stati un flagello della nostra scuola.
Da ultimo, un altro fattore, l’handicap: nel Sud gli interventi sulle barriere architettoniche (scale, servizi igienici, porte, ascensori, trasporti) sono inferiori di almeno un 5-10% rispetto alla media nazionale. Né può trarre in inganno il dato della maturità, ove quest’anno le medie di voti elevati sono state leggermente migliori al Sud che al Nord: attenzione, è diffuso il timore che abbia giocato un brutto tiro il dato preoccupante della disparità di valutazione adottato dalle diverse commissioni esaminatrici locali.
Da ultimo vorrei citare i dati Ocse-Pisa, già ricordati in molti interventi in questi giorni: l’Europa non boccia l’Italia e i suoi quindicenni, in tema di competenze scientifico-matematiche o di lettura, ma boccia il Sud e le Isole, assai indietro rispetto alla media europea (mentre il centro-nord la supera nettamente). Mi si faccia ricordare, infine, un dato universitario: nella media italiana soprattutto per il Sud i laureati triennali tendono a proseguire in numero eccessivo negli studi specialistici, in Lombardia e nel Nord invece un’indagine «Stella» ha accertato che circa l’80% lavora dopo la laurea triennale.
Esiste allora una questione meridionale nella scuola? Altroché. Forse si può parlare addirittura di un vero dramma, di un’emergenza nazionale della scuola nel Sud. Le fredde statistiche ricordate rivelano un fenomeno inedito: un abbassamento della complessiva qualità scolastica nel Sud. Nel passato, in piena «questione meridionale» generale, un liceo o una scuola elementare di Napoli aveva in genere un livello analogo alle consorelle milanesi. Oggi non è più così. Il dramma è gravissimo, bisogna fare qualcosa. La spiegazione è - come sempre - complessa. Non è individuale (di docenti o discenti) ma strutturale. Gli enti locali, nel centro-nord, hanno fatto in questi decenni cose straordinarie per la scuola. Assessori capaci, molti fondi, strutture funzionanti, trasporti, attività culturali con relative attrezzature, promozione delle reti e dei contatti scuola-territorio. Insomma una vera bonifica culturale, un ambiente stimolante. Docenti e studenti hanno tante occasioni per arricchirsi e formarsi meglio. Nel Sud tutto questo o è episodico, o non c’è. Nel centro-nord la scuola è tema che influenza le scelte dell’elettorato locale, che stimola così gli amministratori. Al Sud o è episodico o non c’è. Nel centro-nord l’impianto educativo scolastico viene stimolato anche dal problem-solving, dal rapporto baconiano del «setting something in motion», dall’apprendere attenti alla dinamica e non con una conoscenza statica; nel Sud invece...
In altre parole l’ambiente e il territorio oggi - in qualunque Paese evoluto (Scandinavia docet) - è condizione essenziale del successo della scuola. Come pure l’impianto didattico, adeguato alla grande novità di una scuola di tutti, che deve essere stimolante, coinvolgente, aperto è - ovviamente - severo e responsabilizzante. Conta cioè il contesto culturale in cui sono immersi docenti e studenti: nel Sud c’è quasi un deserto, ci sono solo eccezioni ed eroi, e quanta fatica costa lavorare in queste condizioni. Manca un tessuto e un sostegno.
Quali potrebbero essere i rimedi? Certamente generali, ma il Sud è una vera emergenza nazionale. Nel Sud pesa assai di più la circostanza che la nostra scuola non stimola, non coinvolge, non favorisce la risposta agli interrogativi di senso, non viene percepita come una cosa propria. Ancor più nel Sud necessita un management strutturale, una riorganizzazione della didattica, un cambiamento epistemologico dei curriculi e dell’insegnamento; occorre motivare il bambino e il ragazzo.
Scuola e territorio, cioè. Ma in Italia appunto non esiste un solo territorio. C’è un territorio Centro-Nord e un territorio Sud. E una parte cospicua di questo territorio sfugge al controllo dello Stato, vi convivono Stato e potere criminale, violenza e pizzo sono vissuti come normalità, contribuiscono anch’essi a «educare», a «formare coscienze» distorte, «cittadini». Una bestemmia, che fa dell’Italia un Paese diverso, di difficile comparazione persino statistica in sede europea. Raccapricciante la rassegnazione con cui accettiamo questa tragedia.
Sono convinto che grave errore sarebbe non approvare il federalismo in Italia, anche per la scuola. Abbiamo bisogno di decentrare, nella scuola. Ma non è questa la vera emergenza nazionale, oggi, da gridare al mondo: è l’«originalità» tutta italiana, è il «doble poder». È questo Sud, ieri Magna Grecia, culla mediterranea, eccellenza culturale mondiale, oggi patria fra le altre di cose che tutto il mondo chiama mafie, assumendo un vocabolo meridionale italiano nel lessico internazionale. Va cambiato questo Sud, va salvata la scuola del Sud. E la scuola tutta.

Corriere della Sera 29.8.08
Ritratto di un secolo in cerca di nuovi linguaggi
Quell'avanguardia che spaccò il '900
Quando pittura, musica, cinema e teatro si mescolarono per sovvertire l'accademia
di Philippe Daverio


Come spesso capita ai russi, Vassily Kandinskij deve la sua genialità al mescolare viscere e pensiero. Nel 1910 dà libero corso allo smontaggio delle strutture fiabesche che per dieci anni lo hanno accompagnato. Lo fa, prima che con la pittura, con i titoli che immagina per i dipinti: improvvisazione, composizione, termini oggi naturali ed evidenti, allora totalmente innovativi in quanto cercavano nel mondo della musica i riferimenti per una nuova concezione delle arti visive. Pratica non solo sua ovviamente: il futurismo, essendo enunciato teorico prima che formale, non poteva che rivolgersi a tutte le arti contemporaneamente.
Russolo dipinge e inventa macchine sonore diaboliche, Balla lavora per il teatro, le parole in libertà di Depero sono contemporaneamente poesia e forma visiva, anzi non potrebbero essere l'una se non fossero l'altra. La mescolanza dei linguaggi diventa così una prassi necessaria a quel sovvertimento delle arti in ebollizione che chiamiamo avanguardia e che i professori d'accademia che avrebbero tentato successivamente d'insegnare una loro avanguardia ormai stabile si trovarono a chiamare avanguardia storica.
L'inizio del XX secolo è pieno di parentele, di richiami e di necessarie contaminazioni. La visione grafica del primo Grosz, quella cinematografica muta del Doktor Calegari di Robert Wiene nel '20 o di Metropolis di Fritz Lang nel '27 sono solo in attesa delle musiche di Paul Dessau, il musicista di Bertolt Brecht. Esiste un modo artistico delle alternative in corso mentre la Germania iniziava a dilaniarsi. In parallelo la decadenza ansiosa dell'impero viennese si scioglie nei deliqui di Klimt e di Schiele esattamente come nelle sperimentazioni musicali di Schönberg. Per il fratello Paul di Wittgenstein il filosofo, quello sfortunato grande pianista che perde la mano destra nella guerra, Ravel compone una trascrizione per sola mano sinistra della Ciaccona per violino di Bach.
Ma occorre oggi tentare di distinguere, grazie a quel cannocchiale fornito ormai dalla distanza d'un secolo rispetto allo scenario d'allora. I cubisti parigini non richiedevano parentele strette con la letteratura o la musica loro contemporanea se non quando si ritrovavano per bere assenzio ai tavolini della Closerie des Lilas. Certo de Chirico, giovanotto a Parigi col fratello allora scrittore e musicista, frequentava le magie metafisiche di Apollinaire. Ma Picasso era privo di manie intellettuali e rimaneva seduto accanto al giovane Severini appena arrivato da Cortona e pronto a sposare la figlia tredicenne del poeta Paul Fort, il quale invece giocava fra decadentismo e simbolismo senza interessarsi alla rottura formale in corso. Forse perché Picasso e Braque in quel 1913 non stavano aprendo sentieri nuovi ma concludevano solamente quelli formali iniziati da David, maturati da Delacroix e messi in causa da Cézanne.
Vista col senno di poi, la Francia prima della Grande Guerra, più che attratta dall'avanguardia fu stimolata dalla voglia di spaccare un secolo grandioso di formalismi, con piglio serioso, talvolta, e con autentico spirito goliardico tante altre, dall'Ubu Roi di Alfred Jarry in poi a teatro o seguendo le sottili ironie pianistiche di Erik Satie. In realtà ci pensarono i fanghi delle trincee sulla Marna a rompere definitivamente l'atmosfera della Belle Epoque. E per Céline nel Voyage au bout de la nuit, che ne fu il cantore più crudele, non era più necessaria l'allegra contaminazione col visivo, anche se fece illustrare il suo libriccino successivo sui gatti dal giovane esordiente Antonio Bueno.
Rivisti in quest'ottica, i primi lavori di Marcel Duchamp appaiono più come una conclusione del passato che come una apertura al domani. Ma ebbe egli la fortuna di migrare negli Stati Uniti dove nuovi adepti erano pronti a prendere il testimone; e mentre li lasciava, con spirito leggero, scivolare nell'illusione dell'avanguardia, acquisita dopo la mostra dell'Armory Show nel '13, lui stesso si metteva a disegnare piccoli appunti dal sapore neoclassico. Neoclassica fu la reazione postbellica. Picasso, pronto a rubare qualsiasi idea fosse degna di furto, fece un viaggio in Italia nel '17 e scoprì il disegno perfetto, che ornava le ciste romane antiche, per far nascere i suoi capolavori degli anni 20; così come Christian Schad, l'espressionista tedesco, si convertiva alle magie formali della pittura quattrocentesca. Il ritorno all'ordine era per molti il ritrovare basi perdute. E fu pure fondamento da rimettere in causa una seconda volta dai surrealisti, che ne sovvertirono l'ordine correndo verso l'inconscio. Il loro vate supremo, André Breton, vietava la frequentazione della sale di spettacolo e Max Ernst, timido ma comunque tedesco, andava di nascosto a Parigi a seguire i concerti.
Geniale, forse, il rigore della militanza, che si fece sempre più politica ed ebbe la fortuna di sopravvivere durante la seconda guerra mondiale, grazie alla fuga generale in America. Ma carica di sorde premonizioni, se gli artisti di successo dei giorni nostri, i loro critici e i loro organizzatori culturali quando arrivano a Milano non mi chiedono altro che potere trovare un biglietto per la Scala, sperando che non ci sia né Woyzeck né un concerto di Berio ma la più tradizionale rappresentazione della Traviata. E posso certificare che poco sanno del pensiero di Penrose o della musica di Nyman.

Repubblica 29.8.08
Se l’ideologo riforma la giustizia
di Stefano Rodotà


È ricominciata nel modo peggiore la discussione sulla giustizia. Ideologizzata, aggressiva, volutamente immemore dei guai procurati nel corso di lunghi anni da cattive politiche. Non sembra l´annuncio di una riforma, ma il definitivo regolamento di conti tra politica e magistratura.
È una deriva inarrestabile? Poco dopo le elezioni, introducendo la sessione sulla giustizia di un convegno dell´Aspen Institute, mi auguravo che il ministro della Giustizia volesse seguire l´esempio di quello che chiamavo il "lodo Tremonti-Sacconi", riferendomi alle dichiarazioni di questi due ministri sulla necessità di mettere da parte le polemiche sull´età pensionabile e sull´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, concentrandosi invece sui problemi concreti. Con il suo discorso al Csm il ministro della Giustizia sembrava aver fatto proprio questa scelta. Ma poi è venuto il vero "lodo Alfano", che ha travolto quel po´ di buone intenzioni appena manifestate. Si è accettato il diktat berlusconiano sui temi generali della giustizia, si annuncia un nuovo scontro su riforme costituzionali riguardanti proprio le questioni che arroventano inutilmente il clima (separazione delle carriere, obbligatorietà dell´azione penale, riforma del Csm) e si respinge sullo sfondo la questione capitale dell´efficienza della macchina giudiziaria, che esige impegno e collaborazione di tutti.
Conviene fare qualche passo indietro, anche perché molti stanno richiamando proprio il passato, evocando la Commissione bicamerale D´Alema e il suo progetto sulla giustizia. Ma non v´è alcuna età dell´oro alla quale tornare. Quell´esperienza, già valutata assai criticamente, non è affatto un esempio da seguire. E il suo richiamo è una mediocre furbizia per costruire un cappio con il quale l´opposizione dovrebbe impiccarsi. Cadrà il Pd in questa trappola "dialogica"?
Quel progetto introduceva inammissibili restrizioni all´autonomia e all´indipendenza della magistratura. La Costituzione dedica alla magistratura tredici articoli, con soli trentaquattro commi: nel testo della Bicamerale erano divenuti ben sessantacinque. Errori da non ripetere.
Per quanto riguarda il metodo politico, le valutazioni devono essere ancora più severe. La questione della giustizia venne imposta da Berlusconi come priorità assoluta, quasi come una condizione perché il lavoro della Bicamerale potesse essere avviato. Vi è una sinistra analogia con le cose di oggi. Di nuovo il tema della magistratura viene brandito come una clava, presentato come il terreno dove le forze oggi all´opposizione devono dare prova concreta della loro capacità di un dialogo che, però, appare asimmetrico, perché dovrebbe svolgersi sempre e solo alle condizioni imposte dall´altra parte. Se la storia non è maestra di vita, l´esperienza politica dovrebbe pur contare qualcosa, e indurre un Partito democratico finora ambiguo, diviso pure su questo tema, incapace di usare il pur flebile strumento del governo ombra, ad assumere qualche posizione finalmente limpida.
Il lontano progetto della Bicamerale come occasione per il Parlamento? Non scherziamo. Allora vi fu una duplice espropriazione del Parlamento. La Bicamerale si impadronì della materia della giustizia, che non le era stata esplicitamente attribuita (anzi, al Senato, il relatore Elia aveva escluso che rientrasse tra le competenze della Commissione). E, fatto questo passo, venne bloccato il lavoro parlamentare sul "pacchetto Flick", diciannove disegni di legge su temi essenziali della giustizia che, se esaminati nei tempi che pur erano disponibili, avrebbero avviato verso la soluzione molte questioni che continuano ad affliggerci, e pregiudicano gravemente l´efficienza.
Ecco il punto. Nel decennio 1996-2006, due maggioranze di segno opposto hanno scelto una linea politica che sacrificava l´efficienza ad una ideologia travestita da riforma costituzionale. Una storia che rischia di ripetersi?
Se la logica bipartisan deve essere la bussola, allora bisogna partire da una piccola apologia del ministro Mastella, capace di far approvare dal voto comune di maggioranza e opposizione una legge che almeno in parte, riconduceva a ragione e Costituzione la discutibilissima riforma Castelli, dando un nuovo assetto alle materie oggi rimesse in discussione. Sarebbe segno di saggezza partire dal "dopo Mastella", non riaprire polemiche che, proprio ieri, s´era di comune accordo deciso di abbandonare, e dedicare forze e spirito polemico alle vere questioni di sostanza. Dico da anni che la questione giustizia è una "catastrofe sociale": come accade per le catastrofi "naturali", avrebbe richiesto da molto tempo interventi d´urgenza su strutture e risorse, ben diversi da quelli che individuano nei magistrati, e non nell´inefficienza, il problema da combattere.
Ma non sono tempi di saggezza, e non sopravvaluterei qualche segnale ragionevole venuto dalla maggioranza. Staremo a vedere. Intanto, però, concentrarsi sull´efficienza non vuol dire minimizzare la rilevanza politica del tema della giustizia. Al contrario. Questioni come quelle legate all´obbligatorietà dell´azione penale o alla carriera dei magistrati sarebbero meglio avviate a soluzione se l´amministrazione della giustizia recuperasse funzionalità.
Può la riforma della giustizia prescindere da una riflessione sulla depenalizzazione e sul processo penale, dove il sacrosanto spirito garantista è stato corrotto da un formalismo che oscura spesso la sostanza delle questioni da giudicare? Qui vi sono responsabilità anche della corporazione degli avvocati, e diverse e influenti sono le coalizioni d´interessi che hanno finora impedito di affrontare un tema cruciale per l´efficienza, la radicale revisione delle circoscrizioni giudiziarie con conseguente soppressione di una serie di uffici. Appena si propone la chiusura di un tribunale, ecco che schiere davvero bipartisan di politici e avvocati scendono in campo esasperando i localismi e impedendo razionalizzazioni indicate fin dal 1974. Ne sanno qualcosa molti ministri della Giustizia, primo tra tutti Giuliano Vassalli. Si affronterà questo tema, che richiede scelte politiche lungimiranti, o l´unico obiettivo rimarrà quello di alimentare un clima di ostilità verso i giudici? Intanto si indicano sentieri pericolosissimi, come quello dell´elezione popolare dei pubblici ministeri: è troppo chiedere non la lettura della bibliografia americana in materia, ma almeno de Il falò delle vanità di Tom Wolfe, dov´è descritto il terribile inquinamento politico dell´elezione dei procuratori? O ingannevoli, come quello del braccialetto elettronico: un´occhiata, per favore, ai bilanci dell´esperienza inglese.
È ancora possibile abbandonare fuorvianti schemi ideologici e mettere a frutto una diffusa cultura dell´efficienza, nella quale spiccano molte proposte della vituperata Associazione nazionale magistrati? Qui il dialogo potrebbe dare risultati significativi, così come una riflessione sulla possibilità di estendere le "buone pratiche", vale a dire l´efficiente organizzazione del lavoro già realizzata in molti uffici, da Bolzano a Torino. E, sul tema delle risorse, si dovrebbero tenere in gran conto i suggerimenti di un esperto come Francesco Greco, che non ha soltanto mostrato quanto denaro può essere recuperato, ma ha pure messo in evidenza i vincoli imposti alla magistratura per favorire potenti corporazioni finanziarie. Più in generale, lo stesso ministero della Giustizia va messo in discussione: non dirò che debba essere soppresso, ma è certo che serve una agenzia per l´efficienza giudiziaria insieme ad un moderno ministero della Legislazione, capace di guardare con continuità all´evoluzione del sistema giuridico, invece di inventarsi etichette come la semplificazione legislativa.
Sono solo esempi, che però mostrano quale sia il terreno concreto della riforma e del dialogo. Ma il vero limite della discussione italiana è nella diffusa incapacità di comprendere il ruolo della magistratura in un mondo innervato da processi che superano le frontiere, dalla tecnoscienza, da una costituzionalizzazione della persona che mostra nuove dimensioni delle libertà e dei diritti. Ne riparleremo.

giovedì 28 agosto 2008

l’Unità 28.8.08
Israele. I papiri, vecchi di duemila anni, furono rinvenuti nel 1947
I Rotoli del Mar Morto presto consultabili su Internet


Ci vorranno ancora alcuni anni ma, a progetto concluso, una banca dati permetterà a tutto il mondo di accedere in internet ai Rotoli del Mar Morto, fotografati ad altissima risoluzione, e alla documentazione relativa. Il progetto, presentato ieri Gerusalemme dall’Autorità per le Antichità di Israele, ha tra i suoi obiettivi anche la conservazione e il monitoraggio delle condizioni dei preziosi rotoli che, ha sottolineato Pnina Shor, capo del dipartimento per la cura e la conservazione dei reperti, «sono un patrimonio dell’Umanità». I Rotoli, che furono scritti alla fine del III secolo a.C. e in gran parte tra il I a.C. e il I secolo d.C., furono scoperti da un beduino in una grotta del Mar Morto nel 1947. Comprendono il più antico testo scritto esistente del Vecchio Testamento (ad eccezione del Libro di Ester), oltre a salmi, inni e testi apocrifi. I Rotoli, che hanno enorme importanza storica, religiosa e culturale, aiutano a far luce su un periodo di grandi sconvolgimenti nella storia del popolo ebraico alla fine del Secondo Tempio e sulla storia del primo Cristianesimo. Per 35 anni un gruppo di soli dieci studiosi aveva monopolizzato la pubblicazione dei testi. A parte pochi lunghi Rotoli, tutti gli altri consistono in circa 12 mila frammenti - conservati nel Museo di Israele - che i ricercatori hanno raccolto con certosina pazienza in circa 1200 lastre.

Corriere della Sera 28.8.08
L'intervista L'intellettuale afro-americano Gray
«Con Barack è finita la politica nera. È soltanto un bianco travestito»
di Alessandra Farkas


NEW YORK — «Obama non è un agente di cambiamento; tra lui e McCain non c'è grande differenza». Kevin Alexander Gray, il 51enne scrittore, giornalista ed attivista afro-americano autore di «The Decline of Black Politics: From Malcolm X to Barack Obama», appena uscito in America, è a Denver insieme al reverendo Jesse Jackson, storico leader nero, di cui nel 1988 gestì la campagna presidenziale in Sud Carolina.
«Aver snobbato così Jesse, non invitandolo a parlare alla Convention, è stato uno schiaffo in faccia», spiega Gray. «Obama ha voluto strizzare l'occhio all'establishment bianco che detesta Jackson e Al Sharpton, in quanto "neri arrabbiati". La sua ascesa segna la morte della storica black politics, provocatoria e di sinistra. Per quanto mi riguarda», aggiunge, «preferirei essere fuori dalla zona verde a Bagdad che alla convention di Denver».
Che cosa rimprovera a Barack Obama?
«Di essere un finto progressista, proprio come Joe Biden, che ha appoggiato la guerra di Bush. Io, cresciuto con l'immagine di Malcolm X che incontra Fidel Castro all'Hotel Theresa di Harlem, inorridisco quando Obama corre a Miami per dire ai cubani "manterrò l'embargo"».
Secondo i repubblicani Obama è perfino troppo liberal.
«Le sembra liberal andare davanti alla lobby ebraica Aipac per affermare "sono un sionista"? O minacciare di ridurre in cenere l'Iran? Le sembra di sinistra mortificare di fronte al mondo intero i padri afro-americani, presunti "assenteisti", quando uno studio del Boston College sostiene che, al contrario, passano più tempo coi loro figli di quelli bianchi? O, dal pulpito di una chiesa nera, chiamare i neri "boy", ragazzo, usando un termine razzista usato finora solo dai bianchi?»
Non crede che Obama incarni un'America dove bianco e nero sono ormai concetti superati?
«L'idea di un'America post-razziale promossa dai media è ridicola. L'espansione della
black middle class è cosmetica e anzi il divario di ricchezza tra neri e bianchi è peggiorato rispetto ai tempi di Martin Luther King».
Obama si ripromette di correggerlo.
«Come? Al Senato il suo curriculum è stato mediocre, pavido e inefficace. La sua campagna politica è disegnata e diretta da potenti maschi bianchi, guru come Axelrod e David Plouffe. Mi creda: per noi afroamericani Obama è come il poliziotto nero che sbarca nel quartiere: più cattivo degli altri».
Secondo tutti i sondaggi negli Usa vince chi conquista il centro.
«L'America voterebbe chiunque rappresenti davvero i suoi interessi. Se Obama fosse più populista e coraggioso sarebbe ben più avanti nei sondaggi».
Cosa gli consiglia per risalire?
«Scendere tra i comuni mortali ed essere meno elitario. La politica dev'essere personale: non puoi conquistare i cuori della gente con una campagna di marketing tutta hollywoodiana e televisiva. La bolla Obama è esplosa perché dentro c'era solo aria».
Ha fatto male a circondarsi di star?
«La sua intera candidatura è stata costruita dalle star e impacchettata dai mass media, da Scarlett Johansson a George Clooney. Per non parlare poi di Oprah Winfrey, che ha osato accreditare la sua millantata parentela con il "sogno" di Martin Luther King: un'operazione fraudolenta».
Cosa pensa della benedizione conferitagli dal clan Kennedy? «Camelot non è storia ma mito, come quello di Obama. Non dimentichiamoci che Robert Kennedy permise all'FBI di J. Edgar Hoover di spiare Martin Luther King e JFK non era certo un amico dei neri».
Le piace la moglie Michelle Obama?
«E' una donna brillante anche se nell'ospedale di Chicago dove era una dirigente fu assunta proprio per buttare fuori i pazienti poveri che non potevano pagare: molti neri».
Però la comunità afro-americana si è schierata tutta con loro.
«Certo: senza i neri non sarebbe mai stato nominato, non se lo dimentichi. Obama ha usato la carta razziale contro Bill Clinton nel sud, per vincere il voto degli afro-americani e l'ex presidente non gliel'ha perdonata. In realtà i due sono molto simili e quando Obama parla sembra che stia recitando interi brani dal libro "Primary Colors"».
Lei ha deciso per chi voterà?
«Sono contento che in gara ci siano Cynthia McKinney e Ralph Nader. Ma come tanti intellettuali della Black Academia, anche io avrei voluto vedere in corsa un candidato come Randall Robinson».

Tremonti: «Dio, Patria e Famiglia»
Corriere della Sera 28.8.08
Il ministro: cerchiamo solo di governare Non c'è il fascismo
di Roberto Bagnoli


RIMINI — «Non occorre una nuova Costituzione ma un sistema di valori che dia senso alla nostra società, guardo al Romanticismo, alle sue cattedrali, ai geni, accanto alla moralità, alla responsabilità, alla sussidiarietà». Poi la chiusura ad effetto che gli regala un applauso oceanico: «Se dovessi sintetizzare tutto questo userei tre parole, Dio, Patria e Famiglia». Il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ruba la scena al senatore a vita Giulio Andreotti da sempre idolo del popolo dei ciellini. Riuniti nella sala grande della fiera dove si svolge il Meeting, seguono affascinati i ragionamenti politico-etici di Giulio «secondo» che ragiona, insieme al «primo», sui 60 anni della nostra Costituzione.
Per il professore-ministro siamo di fronte «alla caduta delle ideologie del secolo scorso, il fascismo, il comunismo, il socialismo, il '68 nichilista, il liberismo mercatista hanno tutte fallito». E quindi da dove ripartire? «La nuova ideologia», ha sostenuto Tremonti, dovrebbe risiedere in una sorta di ritorno al passato, al «sistema dei valori del romanticismo». Ma c'è anche il presente nell'intervento del ministro. E così spiega che quello attuale «è un governo che cerca di governare e non perché siamo vicini al fascismo ma perché viviamo in una fase in cui c'è bisogno di governance. Siamo molto impegnati sul federalismo fiscale — ha aggiunto — ma a me non risulta che Mussolini fosse federalista".
Sulla riforma federale molti i passaggi. Andreotti non rinuncia all'ironia e sostiene che per un «romano come me il centralismo di Roma è intoccabile». Ma è il ministro Tremonti a difendere le ragioni del federalismo — anche se gli sfugge una battuta sul modello sovietico realizzato nientemeno che da Stalin— precisando che «va attuato anche nella parte fiscale». Per il ministro dell'Economia in questo modo «ci guadagneremo tutti e ci perderà solo la cattiva politica»

Corriere della Sera 28.8.08
Perché è uno degli artisti più grandi
Caravaggio star, il trionfo del vedere
di Carlo Bertelli


I suoi dipinti come il copione di un film E «sporcava» i santi con la vita vera

Caravaggio e Piero della Francesca sono riscoperte del XX secolo. Ne siamo debitori a due storici di sensibilità moderna, l'inglese Roger Fry e il nostro Roberto Longhi. Eppure nulla sembra legare Piero a Caravaggio. Anzi Caravaggio piomba nella storia come un inatteso meteorite. I suoi contemporanei disegnavano senza sosta. Di lui, invece, non esiste neppure un disegno. E quando si fecero le radiografie di tutte le sue opere conosciute, si scoprì che sotto il colore non vi era disegno alcuno. Il disegno isola e ragiona, mentre a Caravaggio interessava la totalità e la bruciante realtà della scena. La sua pittura era un trionfo del vedere.
Quando dipingeva, Caravaggio non partiva dall'immagine di una figura da mettere in uno sfondo. Partiva dall'intera scena. Anzi dalla sceneggiatura del film. Le radiografie del Martirio di san Matteo, in San Luigi dei Francesi a Roma, hanno dimostrato un furioso accumulo di varianti condotte sulla stessa tela. Non sono varianti di poco conto. È la regia del racconto che viene messa ogni volta in discussione.
Michelangelo Merisi aveva esordito nella bottega milanese di Simone Peterzano, che vantava un alunnato presso Tiziano. Non aveva dunque una formazione manierista. Ma a Roma si trovò a lavorare con un principe della pittura manieristica, il Cavalier d'Arpino. Con indubbia abilità, ma anche con prepotenza, riuscì a «fare le scarpe» al maestro. Dipinse lui, al suo posto, il quadro d'altare per la cappella di San Luigi dei Francesi.
A un certo momento il quadro era stato sostituito con una statua, poi di nuovo fu chiesto al Caravaggio di eseguirne un altro. Quello vecchio lo aveva comprato il cardinale Francesco Maria del Monte. Il cardinale apparteneva a una solida rete di intellettuali non conformisti. Era amico di quel Galileo Galilei che aveva anche lui esercitato la verifica dell'occhio, fino a scoprire che persino il sole, l'astro perfetto, aveva le macchie e girava sul proprio asse,trascinando i pianeti. La cerchia di protettori comprendeva anche Vincenzo Giustiniani, Ciriaco Mattei, il giovane monsignore Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII. Il Caravaggio aveva bisogno del loro sostegno non soltanto per un conforto d'idee, ma per i grossi guai in cui facilmente si cacciava. Nel 1603 era al centro di un processo per calunnia che toccava tutta la numerosa schiera dei pittori di Roma. Quasi ogni mese, dal 1600, c'è qualcuno che sporge querela contro il Caravaggio che l'ha aggredito o insultato. Gli atti del processo del 1603 sono preziosi non solo perché vi appare in pieno la fierezza del Caravaggio, ma per un'affermazione di principio: un pittore «valent'uomo» è per Caravaggio chi «sa dipinger bene e imitar bene le cose naturali». Non dice, naturalmente, qual è il segreto della sua pittura.
La sua dichiarazione corrisponde perfettamente ad un'altra, riferita dal marchese Giustiniani: «Disse il Caravaggio, che tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori, quanto di figure». La pittura è l'arte del descrivere la realtà, senza pregiudizi. Fiero e violento con gli altri, con se stesso il Caravaggio era ferocemente autocritico. Nessun altro avrebbe sacrificato brani di pittura splendidi, come quelli della prima redazione della Conversione di san Paolo, per passare alla versione definitiva, quella in Santa Maria del Popolo. Tutto è stato sfrondato, denudato, ridotto all'essenziale. Mai il miracolo era stato sentito in modo così interiore.
La realtà non è fatta solo di fiori e di frutta. È fatta di uomini. E Caravaggio si mischia agli altri uomini, siano prostitute, bari, lenoni o fattucchiere. Con loro rischia, conosce la loro vita, la traduce nei quadri. I pellegrini davanti alla Madonna di Loreto hanno i piedi sporchi e li mostrano sotto gli occhi dell'officiante. Una prostituta, che aveva il bel nome classico di Fillide, diventa una santa Caterina. Caravaggio sa bene che i suoi personaggi a Roma sono riconoscibili. Tanto più la sua verità sarà sconvolgente. Del resto, ama farsi testimone lui stesso. È alle spalle di sant'Orsola quando la martire è colpita dalla freccia del tiranno, si mostra come la testa tagliata di Golia, grondante sangue, nel Davide della Galleria Borghese. Inseparabile dalla sua arte è la sua vita tumultuosa, dell'uomo che arriva a uccidere per orgoglio, che dalla prigione passa alla mensa dei Cavalieri di Malta, che infine muore febbricitante e solo sulla spiaggia di Porto Ercole,in attesa d'una lettera assolutoria che non arriva. Un grande regista, Derek Jarman, in un film dell' 86, ha saputo raccontare in modo penetrante il travaso continuo di Caravaggio dalla vita all'arte, il suo essere allo stesso tempo aristocratico e popolano.

Corriere della Sera 28.8.08
Le immagini che raccontano il genio
Unghie nere e piaghe. È chirurgia delle emozioni
di Roberta Scorranese


Due lezioni di anatomia. Padova, diciassettesimo secolo: Galileo Galilei seziona il cielo. Roma, diciassettesimo secolo: Michelangelo Merisi da Caravaggio sta sezionando un altro cielo. Quello più nascosto, più impenetrabile. E la condanna sarà comune a entrambi: osarono avvicinare cielo e terra. E non è un caso se oggi, sfogliando il nono volume della Storia dell'arte universale del Corriere della Sera (in edicola dal 27 settembre), non riusciamo a capire bene se quelle di Caravaggio erano contadine vestite da Madonne o Madonne vestite da contadine. Che cosa ha di san Tommaso quel vecchio artritico e straccione? E che c'entrano piedi gonfi e sporchi con il sacro fervore dei pellegrini? Le immagini ad alta risoluzione del volume «Da Caravaggio a Bernini» parlano di un cielo contaminato irrimediabilmente dalla terra.
Ma non corrotto. Piuttosto arricchito, quasi completato. È come se l'ansia di esperienza che innerva la sensibilità barocca riunisse, alla fine, gli estremi: l'alto e il basso, il sublime e l'orrido. Scopriamo il cielo, capiamolo. Se possibile, re-inventiamolo: ecco che cosa leggiamo scorrendo le foto della collana: popolane con le unghie sporche che giocano alla divinazione, angeli grassi e lascivi, sacre piaghe di Cristo violate in nome di un desiderio assoluto: conoscere, esplorare, andare oltre. Non troviamo l'ansia di raggiungere il cielo (raccontata dalle cattedrali europee nel volume dedicato al Gotico), né quella di riprodurre un'armonia tra umano e divino (che leggiamo nelle pagine della collana sul Rinascimento). Qui c'è l'ambizione a «sperimentare » il sacro.
Appunto, a sezionarlo. Un'anatomia del sovrannaturale che in Caravaggio si fa scandalo: dettagli fisici (rughe, gonfiori, carie) accentuati dal naturalismo pittorico; provocazioni intellettuali, come le Madonne dipinte prendendo a modello volti di prostitute. Le schede, le immagini, le introduzioni del volume ci conducono per mano ad un punto in cui alto e basso si incontrano. Come nei versi del contemporaneo Giacomo Lubrano che, nelle «Scintille poetiche », esalta il baco da seta, verme e tessuto pregiato al tempo stesso. Oppure come il gusto estremo di Giovan Battista Marino, che ricorda: Orribil no, ché nell'orror, nel sangue / il riso col piacer stassi raccolto. «In questi volumi — dice Filippo Melli, tra i supervisori della collana — vogliamo andare oltre l'arte. Non solo pittura e scultura, ma anche visioni storico culturali d'insieme».
L'orror e il riso, come nelle ferite di Artemisia Gentileschi. Il piacere e il dolore, come nella santa Teresa del Bernini. Il tormento e l'estasi, come nelle poesie san Giovanni della Croce («Svelati e uccidimi / visione di bellezza»). Ecco perché davanti a queste immagini di Caravaggio, dall'«Amor Vittorioso» alla «Deposizione », ci sembra di assistere a una rappresentazione teatrale. È l'energia che nasce dalle contrapposizioni. Una chirurgia delle emozioni.

Repubblica 28.8.08
Il barone che sognava di fermare Hitler
di Hans Magnus Erzensberger


Il nuovo libro di EnzeNsberger sulla figura di Kurt von Hammerstein
L´opinione del generale dopo i primi colloqui con il futuro Führer era che quell’uomo parlasse troppo
Aveva ricoperto la carica più alta dell´esercito ma la sua nomina era stata controversa
Era assurdo definirlo uomo di sinistra: era un militare e un nobile di vecchio stampo
Si opporrà poi al regime nazista sia pure in modo segreto e prudente morendo pochi mesi prima dell´attentato

Come ogni mattina, il 3 febbraio 1933 alle sette in punto il generale lasciò il suo appartamento nell´ala est del Bendlerblock. Non doveva fare molta strada per raggiungere gli uffici. Si trovavano al piano di sotto, dove quella sera stessa si sarebbe seduto a tavola con un uomo di nome Adolf Hitler.
Quante volte l´aveva visto prima di allora? Pare che l´avesse incontrato già nell´inverno 1924-25 a casa di un vecchio conoscente, il fabbricante di pianoforti Edwin Bechstein. È quanto dice suo figlio Ludwig, secondo il quale Hitler non aveva fatto una grande impressione sul padre. Allora lo aveva definito un confusionario, anche se abile. La signora Helene Bechstein era stata fin dal principio una grande ammiratrice di Hitler. Non solo lo aveva finanziato durante gli anni di Monaco – si parlava di prestiti e di gioielli – ma lo aveva anche introdotto in quella che riteneva la buona società. Aveva dato grandi cene in suo onore per fargli conoscere amici influenti, gli aveva insegnato come si usa il coltello a tavola, quando e dove si bacia la mano a una signora e come si porta il frac.
Poi, qualche anno dopo, nel 1928 o 1929, Hitler era passato dall´appartamento privato del generale nella Hardenbergstrasse, non lontano dal Bahnhof Zoo, probabilmente per scoprire cosa si pensasse di lui allo Stato maggiore generale. Franz von Hammerstein, che a quel tempo aveva sette, otto anni, ricorda come suo padre aveva accolto la visita: «Erano seduti sul terrazzino e chiacchieravano. L´opinione di mio padre era che quell´uomo parlasse troppo e in modo troppo confuso. Lo aveva trattato con freddezza. Eppure Hitler aveva cercato di ingraziarselo e gli aveva mandato l´abbonamento omaggio a un periodico nazista».
Un terzo incontro era avvenuto il 12 settembre 1931 a casa di un certo signor von Eberhardt, su richiesta di Hitler, che a quel tempo guidava il secondo partito più forte della Germania. «Hammerstein aveva detto per telefono all´amico (ed ex ministro della difesa) Schleicher: "Il grand´uomo di Monaco desidera parlarci". Schleicher aveva risposto: "Purtroppo non posso"». Il colloquio era durato quattro ore. La prima ora - a parte una considerazione di Hammrestein - Hitler aveva parlato ininterrottamente, durante le altre tre avevano discusso, e pare - secondo il signor von Eberhardt - che concludendo Hammerstein avesse dichiarato: «Noi vogliamo arrivarci più lentamente. Per il resto siamo dello stesso avviso». Lo aveva detto davvero? Sarebbe un indizio delle profonde ambiguità tipiche di un´epoca di crisi, da cui non erano immuni neppure le teste più fini.
Dopo quel colloquio, Schleicher aveva chiesto al signor Eberhardt: «Allora, cosa ne pensa di questo Hitler?» - «Anche se molto di quanto dice quest´uomo è da scartare, non possiamo ignorarlo, viste le grandi masse che lo seguono». - «Che me ne faccio di quello psicopatico? « pare avesse risposto Schleicher, a quel tempo generale di brigata e uno degli uomini politici più influenti del paese.
Non era passato un anno e lo «psicopatico» aveva preso il potere in Germania. Il 3 febbraio 1933 si presentò per la prima volta davanti al comando della Reichswehr, le forze armate tedesche, per esporre i suoi piani e, se possibile, guadagnarne la fiducia. A fare gli onori di casa quella sera era il generale Kurt Freiherr von Hammerstein-Equord.
Il barone von Hammerstein aveva allora cinquantaquattro anni e sembrava aver davvero raggiunto l´apice della carriera. Nel 1929, quand´era generale di brigata, era stato nominato Capo del Truppenamt, l´Ufficio delle truppe, nome di copertura del Capo di Stato maggiore generale della Reichswehr, che ufficialmente, stando al Trattato di Versailles, non poteva disporre di un simile organo di comando. Un anno dopo era stato promosso generale di corpo d´armata e nominato Comandante in capo dell´esercito; era la carica più elevata dell´esercito tedesco. La scelta a suo tempo era stata molto controversa. I partiti di destra lo contestavano violentemente; lo accusavano di non essere abbastanza «nazionalista». Al ministero della difesa lo chiamavano il «generale rosso» probabilmente perché, per esperienza personale, conosceva bene l´Armata Rossa. Hammerstein era impressionato dallo stretto legame che univa l´esercito russo al popolo, mentre politicamente la Reichswehr era del tutto isolata dalla classe operaia. Nondimeno era assurdo attaccarlo definendolo uomo di sinistra come faceva il «Völkischer Beobachter», in fondo, per quanto concerneva il suo modo di essere, era un nobile e un militare della vecchia guardia. Durante un´adunanza dei comandanti nel febbraio del 1932, si era espresso in modo piuttosto chiaro: «Ideologicamente siamo tutti di destra, ma dobbiamo tener presente di chi è la colpa se l´attuale politica interna è in rovina. Sono stati i vertici dei partiti di destra. Sono loro i colpevoli».
Perciò, malgrado potesse vantare una carriera di successo, un anno dopo Hammerstein ne aveva davvero abbastanza del suo incarico.
(...) I baroni von Hammerstein sono una famiglia molto ramificata che discende dall´antica nobiltà vestfalica ed è suddivisa, come informa il «Gotha», in due linee e quattro rami. Si erano stabiliti mille anni fa in Renania dove, nei pressi di Andernach, sono visibili ancora oggi le rovine di un castello che porta il loro nome; poi nella zona di Hannover, in Austria e in Meclemburgo. Tra loro figurano proprietari terrieri, ufficiali, alti funzionari regionali e soprintendenti forestali; le figlie contrassero matrimoni di rango o finirono i loro giorni come canonichesse o madri badesse.
Il padre del generale era soprintendente forestale in Mecleburgo-Strelitz. Aveva mandato il figlio alla scuola per cadetti, anche se pare che avrebbero preferito fare l´avvocato o il mercante di caffè a Brema. Siccome aveva altri due figli, ma nessun patrimonio, non poteva pagare un´istruzione superiore diversa. Inoltre, a quel tempo il giovane Hammerstein veniva assegnato di tanto in tanto alle mansioni di paggio presso la corte imperiale di Potsdam, cosa che lo divertiva poco, al pari del rigido addestramento. Aveva conosciuto il futuro cancelliere Kurt von Schleicher già all´Accademia militare. A vent´anni avevano preso entrambi il diploma di ufficiale ed erano entrati nel 3º Reggimento guardie di fanteria col grado di sottotenente. Era un reparto che godeva di grande reputazione; ne erano usciti numerosi generali, purtroppo anche Paul von Hindenburg e suo figlio Oscar.
Come preparazione alla Scuola di guerra, Hammerstein era entrato nel reggimento di artiglieria terrestre di Karlsruhe. Aveva viaggiato portando tutti i suoi averi dentro due ceste da biancheria, dopo aver venduto il resto all´asta presso il suo reggimento. Quella decisione avrebbe avuto per Hammerstein conseguenze di ampia portata; a Karlsruhe avrebbe incontrato nuovamente la signora per la quale si era fatto trasferire: la figlia del barone Walther von Lüttwitz, capo di Stato maggiore regionale. Si chiamava Maria. L´aveva conosciuta nel 1904, a Berlino, e avrebbe fatto di tutto per sposarla.
Lüttwitz discendeva da una facoltosa famiglia di funzionari pubblici dell´antica nobiltà slesiana. Della moglie, una contessa von Wengersky, di origine ungherese, si diceva che avesse sangue gitano e che fosse completamente diversa dalla maggior parte delle donne tedesche (...) Nel suo diario, Lüttwitz scrive: «ovviamente il sottotenente Kurt von Hammerstein frequentava la nostra casa come mio vecchio compagno di reggimento. E giocava molto a tennis con le mie due figlie. All´inizio non immaginavamo che mirasse a Mietze (Maria). Ma pian piano ce ne rendemmo conto e, siccome a nostro parere non c´erano abbastanza risorse per sposarsi e vivere senza pensieri, quando, poco dopo, il signor pretendente si rivolse a me con una proposta di matrimonio, glielo feci notare. Pretesi che facesse un passo indietro, lui comprese le mie ragioni, ma per salvare le apparenze mi chiese il permesso di non interrompere la frequentazione. Acconsentii, ma, come avrei dovuto prevedere, la conseguenza fu che la storia d´amore andò avanti».
Maria von Hammerstein ricorda: «Kurt e io ci eravamo conosciuti nell´inverno del 1904. Mi aveva colpito perché era particolarmente serio e tranquillo, diverso dagli altri. A una festa in costume, lui vestito da magiaro e io da «Vecchia Strasburgo», ballammo insieme parecchio. Quando ero con lui mi sentivo sempre così strana». Si erano incontrati nuovamente al tennis club. «Andando a casa, il signor von Hammerstein mi portava sempre le scarpe. Alla festa d´addio portò con sé quattro bottiglie di spumante. A novembre ci incontrammo nella Festhalle per una fiera di beneficenza. Io danzavo in abito bianco, tutta dipinta di bianco, nel ruolo di una statuina di Sèvres. Guardavo al futuro con una strana apprensione».
(©2008 Suhrkamp Verlag, Frankfurt Am Main per gentile concessione di Einaudi editore Traduzione di Valentina Tortelli)

Repubblica 28.8.08
Si apre domani a Sarzana il festival della mente. Scienza filosofia e politica
Darwin, quanti nemici
di Piergiorgio Odifreddi


Pubblichiamo la prima parte dell´intervento intitolato "L´elmo di Don Chisciotte da Anassagora a Marcello Marchesi"
Contro il padre dell´evoluzionismo la polemica si è scatenata fin da subito. Vi parteciparono Tommaseo e Croce. Ecco i loro epigoni
Il fisiologo russo Herzen denunciò "la brama clericale dell´ignoranza"

L´11 gennaio 1864, cinque anni dopo la pubblicazione de L´origine delle specie, il professore di zoologia Filippo De Filippi tenne a Torino una famosa conferenza intitolata "L´uomo e le scimmie", che innescò anche in Italia l´isterismo antidarwinista già esploso in precedenza in Inghilterra.
Un resoconto del 1884, fatto da Michele Lessona nel libro Naturalisti italiani, ricorda le reazioni dell´epoca: «I giornali seri, come i faceti, s´impadronirono dell´argomento. Quella enorme parte del pubblico che dice perché sente dire, grida perché sente gridare, urla perché sente urlare, fu tutta addosso al De Filippi. Certi colleghi rabbrividirono, altri inorridirono, vi fu chi gridò essere un´infamia che il Governo lasciasse un uomo così fatto stillar dalla cattedra le scellerate massime nell´anima degli studenti, e fu un coro a proclamare il De Filippi campione di materialismo».
Addirittura, quando il credente De Filippi morì tre anni dopo a Hong Kong, dopo aver ricevuto i sacramenti, due preti ringraziarono pubblicamente Dio dal pulpito a Torino per «aver toccato il cuore ad un gran peccatore al momento della sua morte».
Il secondo atto della commedia andò in scena il 21 marzo 1869, quando il fisiologo russo Alessandro Herzen parlò a Firenze "Sulla parentela fra l´uomo e le scimmie", e il giornale La Nazione commentò sensatamente tre giorni dopo: «non comprendiamo come l´ammettere una legge naturale necessaria implichi la negazione della divinità». Gli rispose il 4 aprile il senatore e abate Raffaello Lambruschini, spiegando dottamente che «se la legge naturale è necessaria, allora Dio è schiavo», e aggiungendo dogmaticamente che «la scienza è libera d´investigare, ma non di dare per verità affermazioni che distruggano verità di un altro ordine». Al che Herzen ribatté che da tempo non si era udito nessuno «esprimere così francamente la brama clericale dell´ignoranza obbligatoria del popolo».
Scese in campo quello stesso anno anche Niccolò Tommaseo, ormai vecchio, che nel pamphlet L´uomo e la scimmia credette di poter ovviare alla mancanza di argomenti profondi con spiritosaggini superficiali, quali: «V´annunzio una lieta novella. L´Italia, che da tanti secoli invocava l´aiuto straniero per ricuperare la propria dignità, ha finalmente trovato uno straniero magnanimo che gliela rende. Gliela rende però senza offesa dell´uguaglianza, mettendo gli italiani alla pari non solamente coi Russi e gli Ottentotti, ma con le scimmie. Questo si chiama sedere al banchetto delle nazioni davvero. La nuova libertà vi rivela, o Italiani, che voi non siete liberi, ma che non potete volere; vi rivela la vostra imbecillità durata per secoli, l´imbecillità di quelle scimmie trasformate che voi onoravate col titolo di uomini grandi».
A voler essere generosi, si potrebbero scusare queste reazioni invocando l´attenuante che l´evoluzionismo era allora giovane e incompreso. Ma era ormai maturo e ben compreso nel 1939, quando Benedetto Croce se ne lamentò comunque nel saggio La natura come storia senza storia da noi scritta: «Non solo non vivifica l´intelletto, ma mortifica l´animo, il quale alla storia chiede la nobile visione delle lotte umane e nuovo alimento all´entusiasmo morale, e riceve invece l´immagine di fantastiche origini animalesche e meccaniche dell´umanità e con essa un senso di sconforto e di depressione e quasi di vergogna a trovarci noi discendenti da quegli antenati e sostanzialmente loro simili, nonostante le illusioni e le ipocrisie della civiltà, brutali come loro».
È difficile invece trovare scuse di sorta per gli scienziati che, nell´Italia di oggi, continuano a prestarsi alla causa delle frange oscurantiste cattoliche e le fiancheggiano nella loro resistenza contro il darwinismo. Il biologo Giuseppe Sermonti, ad esempio, che nella sua battaglia per far Dimenticare Darwin (Rusconi, 1999) ha sostenuto che «il confine fra il naturale e il soprannaturale è pura convenzione accademica», che «la forma biologica ha origine da elementi che prescindono dai geni e dalla selezione», e addirittura che «le scimmie derivano dall´uomo»!
Leggere, per credere, l´articolo "Dopo l´uomo la scimmia" pubblicato nel 1988 sulla rivista Abstracta: «La teoria evoluzionista, che fa discendere l´uomo dalla scimmia, ha confinato nel regno delle favole l´antropologica biblica, che vuole l´uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Eppure, i dati delle più recenti ricerche della paleontologia e della biologia molecolare sembrano indicare la grande antichità dell´uomo e il carattere secondario e derivato degli scimmioni africani. Riacquistano così significato le antiche mitologie, nelle quali l´animalesco trae le sue origini dall´umano».
O il fisico Antonino Zichichi, che nel suo libro Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo (il Saggiatore, 1999) afferma che la teoria dell´evoluzione «non è Scienza galileiana» perché non è espressa da un´equazione matematica, incurante del fatto che la legge di Hardy e Weinberg compia quest´anno cent´anni. E aggiunge: «L´evoluzione biologica della specie umana va distinta da tutte le altre forme di evoluzione biologica. E questo, per un motivo semplice. Tra le innumerevoli forme di materia vivente noi siamo l´unica dotata di un privilegio straordinario: quello di sapere decifrare la Logica di Colui che ha fatto il mondo»
O il medico Bruno Dalla Piccola, direttore scientifico dell´Ospedale di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, e presidente del Comitato Scienza e Vita che ha condotto il riuscito boicottaggio del referendum per l´abolizione della Legge 40, che ha dichiarato il 23 novembre 2002 a Il Tempo: «Credo nella creazione divina anche se, come genetista, accetto il processo dell´evoluzione che è del tutto fondato. Credo che con il progredire della scienza diventi sempre più possibile migliorare le nostre conoscenze, ma sono convinto che qualche anello mancante rimarrà sempre: detto altrimenti, rimarrà quell´aspetto magico che ci spinge ad amare la vita. Forse sono un po´ troppo poeta, ma penso che il caos non può compiere cose tanto mirabili quanto quelle che vediamo ogni giorno. Credo invece in un disegno ordinatore».
Non può stupire che, con consulenti ministeriali come Zichichi e Dalla Piccola, il secondo governo Berlusconi abbia emanato il 18 febbraio 2004 un decreto legislativo che aboliva dai programmi ministeriali per le scuole medie le due voci «Struttura, funzione ed evoluzione dei viventi» e «Origine ed evoluzione biologica e culturale della specie umana»: cioè, precisamente, gli argomenti dei due capolavori di Darwin L´origine delle specie e L´origine dell´uomo. In seguito a una reazione popolare guidata dai due premi Nobel per la medicina Rita Levi Montalcini e Renato Dulbecco il governo ha fatto apparentemente marcia indietro, ma non illudiamoci: soprattutto ora che Berlusconi è tornato in carica, i crociati e i crociani torneranno alla carica, fino a quando non riusciranno a crocifiggere la verità che tanto li inquieta.

Repubblica 28.8.08
Benedetto XVI ha scritto alle autorità del Trentino Alto Adige
Il papa non vuole la rana in croce
Ma la direttrice del museo difende l'opera. E oggi verrà costretta alle dimissioni


BOLZANO. La Rana Crocifissa è stata scomunicata dal papa in persona. Reduce da nove giorni di sciopero della fame anti-blasfemia, con i diavoli tentatori che gli organizzavano sotto il naso la sagra del canederlo, ieri mattina il presidente del consiglio regionale del Trentino-Alto Adige, Franz Pahl, ha divulgato un passo della lettera che Benedetto XVI gli ha inviato mentre si trovava in vacanza a Bressanone. La Rana di Martin Kippenberger, esposta al museo di arte moderna di Bolzano, «ha ferito il sentimento religioso di tante persone che nella croce vedono il simbolo dell´amore di Dio e della nostra salvezza, che merita riconoscimento e devozione religiosa», scrive Ratzinger.
Forti dell´appoggio papale - sollecitato anche da manifestazioni in piazza degli Schutzen - i fautori dell´allontanamento della Rana hanno deciso ora di giocarsi il tutto per tutto, convocando per questa mattina il consiglio della Fondazione Museion, a soli tre mesi dall´inaugurazione dello scintillante museo nel centro di Bolzano, che ha avuto finora 26mila visitatori. I componenti di nomina provinciale, che sono la maggioranza, hanno già fatto sapere che voteranno contro la Rana, sconfessando la direttrice, Corinne Diserens. Che risponde: «La Rana resterà suo posto». Probabile, quindi, il braccio di ferro, con le dimissioni della direttrice e del comitato artistico del Museion. Nonostante il motivo del contendere sia ormai solo di principio: la statua raffigurante una rana crocifissa che stringe in una zampa un boccale di birra e nell´altra un uovo, opera dello scomparso artista tedesco Martin Kippenberger, se ne sarebbe comunque tornata a casa sua, in Svizzera (una collezione privata), il 21 settembre, quando si concluderà la mostra «Sguardo periferico e corpo collettivo».
La contesa può apparire surreale, ma sono ormai tre mesi che in Alto Adige ci si accapiglia intorno all´opera di Kippenberger, che voleva simboleggiare l´ipocrisia di una società la quale, corrotta nel suo profondo, mantiene un´immagine irreprensibile all´esterno. La chiave sta tutta nelle prossime elezioni provinciali di fine ottobre, con il partito di maggioranza assoluta, la Svp, che teme di perdere la decennale supremazia e cerca di riacquistare credibilità nelle frange integraliste. L´eroe della lotta contro la Rana è l´esponente riconosciuto di questa frazione della Svp, Franz Pahl, che in realtà dovrebbe baciare il ranocchio, perché potrebbe tramutarsi in un bel gruzzolo di voti.
Dalla sua parte il sindaco di Bolzano, il presidente della Provincia Durnwalder, il Pdl, il vescovo Wilhelm Egger. A favore della Rana in croce la direzione del Museion e i partiti di sinistra. A inizio giugno le prime bordate: «La Rana deve essere inserita in un costruttivo dialogo socio-politico. L´opera non deve essere estrapolata dal contesto», suggerisce l´assessore alla Cultura, Kasslatter Mur. Pahl inizia lo sciopero della fame. Il museo reagisce fornendo ai visitatori dépliant informativi sull´opera di Kippenberger. Il 28 luglio arriva in Alto Adige il Pontefice e immediatamente il vescovo gli espone la «questione». Il senatore centrista Gubert annuncia un esposto in procura, mentre la stampa locale - soprattutto quella di lingua tedesca - attacca ad alzo zero l´opera «blasfema». Il museo fa una piccola, ma non sufficiente ritirata: sposta la statua al terzo piano, accanto a opere dello stesso artista, e la copre in parte con gli articoli di giornale usciti in quei giorni. Pahl interrompe lo sciopero della fame, ma promette: «La mia battaglia non è conclusa». E quando ha in mano la lettera del Papa, scatena l´ultima offensiva.

Repubblica Napoli 28.8.08
Un supplemento di anima per curare l’anoressia
di Franco Cataldo


L´autore è professore ordinario di Medicina interna presso l´Università Federico II e, per l´Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II, fa parte di un team specialistico dedicato alla cura di pazienti con malnutrizione da disturbi del comportamento alimentare.

Poi, in genere, tutto svanisce nell´arco di qualche giorno.
Si può bene comprendere che si tratta di situazioni di difficile gestione, ma che riaprono una questione di ordine generale, complessa ma tipica di un certo aspetto della sanità oggi.
Per molte malattie croniche è necessario garantire, oltre le cure mediche propriamente dette, anche un´assistenza continua: quest´ultima richiede tra l´altro una adeguata organizzazione del sistema sanitario.
Per l´anoressia nervosa (e patologie correlate) , praticamente in tutte le regioni del centro-nord ed in qualcuna del sud (ricordo, a memoria, Liguria, Piemonte, Lombardia, Triveneto, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo, Lazio, Basilicata) , esistono una o più strutture dedicate alla lungo-degenza.
Queste strutture residenziali possono rappresentare un valido momento di riabilitazione clinico-nutrizionale e psicologica consentendo un distacco - ma non una separazione completa - dall´ambiente abituale di vita.
Devo dire che ormai siamo costretti, con frequenza sempre maggiore, a fare ricorso a queste strutture extra-regione, in particolare quando la fase critica di malattia è stata superata.
Non è questa la sede per entrare nei dettagli della cura e dell´assistenza per tale patologia. Ricordo solo che, con i colleghi psichiatri del Policlinico Federico II, siamo stati forse i primi a proporre un approccio integrato medico-psichiatrico per la diagnosi e terapia di tale patologia e, pur nelle difficoltà - mediche e psichiatriche - ben note per la cura di queste pazienti, i risultati clinici (ma anche scientifici) sono stati negli anni numerosi e continui.
Ora mancano le strutture per produrre e garantire un´assistenza adeguata alla realtà dei tempi ed al mutare della patologia. Da qui le migrazioni forzate fuori regione (con costi aggiuntivi per la sanità regionale) , altri disagi - oltre quelli già presenti - a familiari e parenti delle pazienti, ed un danno in più: l´impossibilità di fare una adeguata formazione per medici, psichiatri, psicologi eccetera.
Formare personale è più difficile di quello che può apparire ad un osservatore frettoloso e superficiale: posso dire, anche per mia diretta esperienza, che occorrono molti anni di formazione. E non si finisce mai, perché alla fine sono i malati che continuamente ti insegnano come aiutarli a guarire.
Quindi l´assenza di un sistema assistenziale integrato e coordinato in Campania, ormai tra le poche a non averne disponibilità, significa più costi, più disagi, più rischio professionale, più sfiducia non solo del cittadino, ma anche di chi opera nel sistema salute, ed infine vi è la caduta della formazione di nuove energie professionali.
Come tutte le storie veramente tristi non può mancare l´aspetto tragicomico.
Molti anni fa ero componente della commissione del ministero della Sanità che elaborò i protocolli diagnostici e terapeutici per la diagnosi e cura della malnutrizione da disturbi del comportamento alimentare, poi adottati da tante Regioni.
Chiesi, in quella lontana occasione, al presidente della commissione un "consiglio" su come cercare di "spingere" perché anche in Campania "si smuovessero le acque".
Mi fu consigliato di scrivere una lettera al sottosegretario responsabile di questo progetto. Puntualmente scrissi "la lettera": che giunse al sottosegretario, che la trasmise al capo-gabinetto, che la trasmise all´assessore alla Sanità campana di allora (francamente non ne ricordo il nome), che la trasmise al capogabinetto, che la trasmise al direttore generale dell´Azienda Policlinico, che la trasmise all´allora direttore del dipartimento di Clinica medica, che la trasmise a me: il tutto nel giro di poche settimane. In altre parole, avrei dovuto rispondere a me stesso!
Non ho mai parlato pubblicamente di questo episodio e mi sono chiesto anche perché non l´abbia fatto: penso, a distanza di anni, per frustrazione, perché l´evento aveva talmente superato la mia modesta immaginazione da paralizzare una mia reazione. Altro ancora? Non so come il ministro Brunetta commenterebbe una storia del genere: sicuramente con una reazione più pronta della mia, forse solo verbale, forse efficace.
In un´epoca seriosa di "tagli" alla sanità (il che significa avere di meno di quello che già si ha, mentre sarebbe meglio cercare soprattutto di riprogrammare il sistema) credo che l´opinione pubblica, che include non solo il comune cittadino che paga le tasse ma anche il politico, il medico, l´amministratore pubblico e/o della sanità (anche questi, come me, pagano le tasse perché sono cittadini come gli altri), sia necessario almeno esplorare nuove opportunità nell´interesse degli ammalati, ma anche delle future generazioni di professionisti che hanno diritto ad essere formati, se lo desiderano, nel modo migliore.
Alla fine si chiede solo che la vita continui: cioè senza abbandonare l´esperienza acquisita e la speranza, anche se questo richiede «un supplemento di anima», come mi ricordava - sorridendo - un giovane con qualche problema di salute.

Repubblica Napoli 28.8.08
"Punita perché aveva pochi soldi"
Stupro a Torre Annunziata, confessano i due ragazzi fermati
di Conchita Sonnino


Torre Annunziata - «Era bella», raccontano ora i piccoli carnefici. «Ma ci guardava sempre in faccia, proprio negli occhi. Troppo». Ultima fermata, Rovigliano, "il Giudizio".
La banda accusata della rapina con stupro sulla coppia di tedeschi a Rovigliano aveva compiuto altre scorribande. Ma c´è voluta l´esemplare solidità e la coraggiosa determinazione di una straniera di 25 anni, una psicologa cresciuta sulle letture di Kafka e Mann, per assicurare alla giustizia i tre stupratori di 16 anni, contro i quali la città malata non osava puntare il dito.
Luigi S., figlio di un boss ergastolano, detto Limone. Giovanni L., secondogenito di un commerciante di frutta, alias Mollechella. E Valentino G., terzogenito di un impiegato comunale incensurato, sono tutti fermati nel Centro di prima accoglienza. Accusati di rapina a mano armata, sequestro, stupro, e incastrati dalle rispettive confessioni incrociate. A pensarci ora, con la suggestione del cerchio già chiuso, la loro resa era scritta in un libro che la vittima, Sandra, aveva portato con sé nel lungo viaggio che doveva essere «un tour romantico, lungo due mesi, lungo le coste del sud Italia». Un volumetto lasciato sul cruscotto e trovato nell´accurata ricognizione svolta dalla Scientifica sulla "Ford Escort" trasformata in camera delle torture di Sandra: e quel libro è "Das Urteil", "Il Giudizio", un racconto di Kafka, 1913. Nessuno degli aguzzini ci aveva fatto caso. Ma le impronte, tante, che la scientifica ha colto, spalmando tessuti e cruscotto di agenti chimici come la ninidrina e il cianacrilato, vengono anche da quel frontespizio. E saranno comparate nelle prossime ore con quelle degli indagati. Insieme al test del Dna già avviato dal vicequestore Fabiola Mancone.
Due giorni e tre notti di indagini serrate. Un´inchiesta che sembra un film. Ma l´abbrivio lo dà la straordinaria forza di Sandra, la vittima. Il suo restare per ore a visionare foto e costruire identikit: malgrado gli occhi di pianto, lo choc, lo stress di ascoltare e farsi tradurre ogni domanda. Gli uomini diretti dal vicequestore Attilio Nappi non lasciano alcuna strada intentata. Prima rintracciano Luigi S., in abito crema e gemelli d´oro, fuori alla chiesa dove sta per sposarsi il fratello: e gli scovano addosso una pistola calibro 7.65. Poco dopo, in commissariato, quando Luigi sta impassibile al di là del vetro all´americana, Sandra ha uno scatto. Lo indica tra tre giovani. E chiede di farlo parlare. L´indagato Luigi pronuncia il suo nome a voce bassa, non si sente. Glielo fanno ripetere due volte e lui fa un gesto di stizza spazientito: in uno scatto sporge il busto in avanti. Ed è lì che Sandra salta dalla sedia, rivede il suo carnefice. «È lui - grida - sono sicura. La voce. E anche la gestualità del corpo».
Poi si arriva all´identificazione dei complici. Anche da soprannomi. Mollichella, ad esempio. Giovanni e Valentino dormono nella stessa casa. Li portano negli uffici di polizia. Solo dopo, i baby aguzzini cominciano molto lentamente a cedere, a parlare.
Ecco, in ordine sparso, il racconto. «Era bella, quella donna. Alta, bionda. Ma quando ci siamo avvicinati per fare quelle cose, lei non abbassava lo sguardo. Prima ci ha detto che forse era incinta. Noi abbiamo detto va be´, sta dicendo per gioco». E ancora: «I soldi erano pochi, volevamo fare uno sfregio. La ragazza sembrava una delle pubblicità, che si vedono sui giornali... Qualcuno ha perso la testa».
E poi: «Ci guardava sempre in faccia, negli occhi. Questa cosa non me la dimentico. Quegli occhi pareva che ci accusavano. Perciò io sono rimasto nervoso tutto il tempo, e non sono riuscito a fare niente. Le ho detto di girarsi, di mettersi come dicevo io, ma quegli occhi era come se mi perseguitavano». I legali di Giovanni e Valentino, tuttavia, oggi negano «l´esistenza di qualunque confessione». Lo dice l´avvocato Massimiliano Lafranco. «Si dicono cose inesatte, qui è tutto da rifare». Gli indagati hanno infatti reso spontanee dichiarazioni, come la legge prevede. Circostanza che già viene usata dalla difesa, dal momento che il pm della Procura per i minori, «dopo legittima valutazione - dicono i legali - non ha raggiunto la sede del commissariato, non ha inteso ascoltarli in un interrogatorio di garanzia, dinanzi a noi». Forse solo quella scelta avrebbe blindato le dichiarazioni dei ragazzi, scongiurando rischi di ritrattazioni. Ma restano le accuse gravissime per Luigi, Giovanni e Valentino. Ora sono loro a dovere spiegare, presunti carnefici inchiodati dallo sguardo di Sandra. A Rovigliano, ultima fermata.