sabato 20 dicembre 2014

La Stampa 20.12.14
Armi e droga con i soldi raccolti dai Francescani
Devoti infuriati per lo scandalo che ha messo in ginocchio l’Ordine
di Giacomo Galeazzi e Antonio Pitoni


L’accusa è da far tremare i polsi: «Armi e droga con le offerte dei fedeli». I contraccolpi nelle gerarchie ecclesiastiche rievocano le stagioni buie dei «bancarottieri di Dio» Sindona e Calvi. «Perché i frati avevano decine di milioni di euro da investire?». Sull’orlo del crac dell’Ordine francescano, una domanda scuote i Sacri Palazzi nel giorno in cui significativamente Bergoglio dedica l’omelia del mattino proprio alla denuncia della «Chiesa imprenditrice» e del «potere che rende sterili». Scandalo internazionale così grave da finire tra le «questioni urgenti» del segretario di Stato, Pietro Parolin.
Stop alle finanze allegre
Le spericolate speculazioni finanziarie, realizzate attraverso la mediazione di faccendieri senza scrupoli, sulle quali sta già indagando la magistratura svizzera, confluiranno presto in un fascicolo d’indagine della procura di Roma. Il sequestro dei fondi, gli interessi passivi da pagare, la perdita di parte del patrimonio e l’esaurimento della liquidità hanno messo in ginocchio i frati esponendoli per svariati milioni di euro nei confronti di banche e istituti di credito. Tanto da costringere il nuovo ministro generale, padre Michael Anthony Perry, a scrivere una lettera-choc ai confratelli e a recarsi nelle Province per una colletta a sostegno della Curia generalizia. Bufera che sconvolge i fedeli del santo di Assisi. «Cacciate i mercanti dal tempio», è il grido di rabbia e frustrazione condiviso in questi giorni dal variegato «popolo di Francesco».
Il cantico dei debiti
Una «grave situazione di difficoltà finanziaria» svelata da un’approfondita indagine interna e provocata da una maxi-truffa con «il coinvolgimento significativo di alcune persone esterne all’Ordine». Luogo-simbolo delle «allegre finanze», l’hotel-ristorante «Il Cantico», a due passi dalla Basilica di San Pietro e di proprietà dei frati. È finito tra i capitoli incriminati: è stato ristrutturato di recente e dai piani alti si può ammirare il Cupolone. A guardarlo da fuori sembra più un «resort» di lusso che un sobrio albergo ispirato agli austeri valori del Poverello. «Siamo sereni, siamo solo dipendenti e continuiamo a lavorare», spiega la direttrice della struttura. Poche parole di rassicurazione prima di stringerci la mano e tornare frettolosamente a chiudersi nel suo ufficio, tradendo una malcelata preoccupazione. La stessa che accomuna i vertici dell’Ordine e la moltitudine dei fedeli in piazza.
La rivolta dei fedeli
Assisi è l’epicentro della protesta nella galassia francescana. «Qui preghiamo, a Roma fanno affari», è il mantra che unisce la gente e i religiosi. Alla basilica di Santa Maria degli Angeli mette la mani avanti padre Rosario Gugliotta, custode della Porziuncola: «È una questione che va approfondita». Ma i pellegrini mettono il dito nella piaga. «Il fine non giustifica i mezzi - protesta Mario Ponzetti, in visita a San Damiano con la famiglia -. Non importa che coi rendimenti dei fondi investiti la Curia pagasse i mutui per attività caritative e di culto». Angela Binci, alla guida di un gruppo di Ancona, rincara la dose: «Chi amministra le offerte non può dare deleghe in bianco agli squali della finanza. Sentir parlare di droga e armi è una bestemmia che contraddice lo spirito di San Francesco».

il Fatto 20.12.14
Stabilità, Renzi riscrive la legge come ordina l’Ue
Schiaffo al Senato
Il testo finale arriva in ritardo di 24 ore: Matteo ha dovuto togliere le “marchette” che non piacciono alla Ue
Il Senato costretto a votare alle due di notte per portare subito l’Italicum in aula

di Marco Palombi

Mentre andiamo in stampa a Palazzo Madama si vivono momenti di delirio paranoide: noia, rabbia a sprazzi, confusione e gravi problemi di ricerca del senso di sé. Davanti ai senatori della Repubblica, infatti, si stende una notte di votazioni sulla manovra per motivi che i più faticano a capire e ormai hanno poco a che fare con la politica, ma cominciano e finiscono nel dilettantismo giuridico di questo governo in salda alleanza psicologica con un disinteresse per il Parlamento che sfiora il disamore e ha una certa parentela col disprezzo.
Un breve riassunto: ritardi, disagi e concerti di Natale
Si sta parlando della legge di Stabilità e del Bilancio dello Stato, la cosa più importante di cui le Camere si occupano durante l’anno. Questi due disegni di legge, già approvati a Montecitorio, saranno fino a stamattina all’esame del Senato. La commissione Bilancio di Palazzo Madama, però, ha dovuto gettare la spugna mercoledì: non è riuscita a votare tutti gli emendamenti – moltissimi di maggioranza – e assegnare il mandato al relatore. Di fatto, non ha approvato la manovra. Poco male: il governo avrebbe comunque presentato un ma-xi-emendamento su cui chiedere la fiducia. Qui, però, iniziano i guai: in genere il testo del governo ricalca quello della commissione, ma stavolta non è andata così e non solo per il mancato voto finale della Bilancio. Prima di arrivare ai contenuti, però, c’è la sparizione del testo. Mercoledì pomeriggio il ministro Maria Elena Boschi annunciava alla riunione dei capigruppo: il maxi-emendamento del governo arriverà alle otto di stasera e domani a pranzo (cioè ieri, ndr) voteremo la fiducia. Poi è passato mercoledì sera, è passato giovedì mattina e niente: l’aula del Senato veniva continuamente riconvocata per assistere all’imbarazzato balbettio del viceministro dell’Economia Enrico Morando (“il testo ancora non è pronto, stanno scrivendo la Relazione tecnica”). Alle cinque della sera pure lui era sfiduciato: “Non sono in grado di fare previsioni”. Ne era seguita una protesta vintage della Lega con tanto di scarpe sbattute sui banchi. Solo oltre due ore dopo Morando ha potuto tirare un sospiro di sollievo: con quasi 24 ore di ritardo il ministro Maria Elena Boschi si è presentata a Palazzo Madama col nuovo ddl Stabilità per chiedere la fiducia. Il presidente Pietro Grasso si consegnava a una frase infelice: “È finita la ricreazione”. Nuova breve sosta e questa è l’organizzazione dei lavori serale: alle undici di ieri sera il dibattito, mezz’ora dopo mezzanotte le dichiarazioni di voto, alle ore due la chiama per la fiducia. Poche ore di sonno e stamattina bisognerà votare la “Nota di variazione” al bilancio: in fretta perché dopo l’aula è prenotata per il concerto di Natale. “Ripensiamoci a questo concerto”, è sbottata a un certo punto Loredana De Petris di Sel: “È un bell’evento, ma tutti gli anni succede la stessa cosa”.
Cosa c’è dietro: quel viaggio a Bruxelles e l’Italicum
Alla fine, nel maxi-emendamento del governo mancavano una ventina di norme approvate dalla commissione, alcune proposte dallo stesso governo: dalle assunzioni al Parco del Gran Paradiso all’Albo unico dei promotori finanziari, dai soldi alla Motorizzazione civile all’accordo per la bonifica di Pieve Vergonte. Qualcosa è pure entrato: il taglio delle partecipate locali “che risultino composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti”, come proponeva Carlo Cottarelli.
Dell’opera di taglia e cuci, dicono fonti di governo, s’è occupato personalmente Matteo Renzi col legislativo di Palazzo Chigi appena tornato da Bruxelles: all’ultimo Consiglio europeo del semestre italiano, infatti, il premier ha capito che la sua legge di Stabilità verrà passata ai raggi x in attesa del redde rationem di marzo. Pensare di introdurre provvedimenti di spesa di quelli che alla Commissione non piacciono esporrebbe un governo debole alle ritorsioni di Bruxelles: “Stiamo intervenendo perchè manovra non sia un mostro di norme con le varie leggi marchetta alla fine: non siamo perfetti, ma ci proviamo”, ha detto ieri pomeriggio lo stesso Renzi a “Radio 105”.
Poco male se alla fine il Senato non ha sostanzialmente potuto esaminare il lavoro di forbice del premier e ha dovuto votare il tutto a scatola chiusa, con la fiducia, in piena notte, intontito di sonno e stanchezza. D’altronde Renzi aveva un motivo per imporre a palazzo Madama il voto immediato: riuscire a avviare prima delle feste di Natale la discussione generale sull’Italicum, in modo da portarla avanti abbastanza prima che il Parlamento si fermi per eleggere il capo dello Stato. Per farlo gli serviva un voto dell’aula che sancisca che il tempo della commissione Affari costituzionali è finito e si va in Assemblea: un voto, ovviamente, in cui il Senato sia in numero legale, eventualità abbastanza improbabile se il tutto fosse slittato a lunedì. È tanto vero che ieri il governo ha ottenuto e preteso una riunione dei capigruppo in notturna, subito dopo la fiducia (attorno alle 4 di notte) proprio per decidere di velocizzare la pratica legge elettorale. Stamattina vedremo se il giochetto di Renzi è riuscito.

Corriere 20.12.14
Emendamenti a valanga con troppe «mance»
E Renzi prese le forbici «Non voglio un mostro con norme marchetta»
di Antonella Baccaro


ROMA «Quello che avviene all’interno del governo sono interna corporis , al di là delle facce che fa il ministro Morando (che non possono essere registrate agli atti parlamentari) che evidentemente non è un buon giocatore di poker, per cui non sa nascondere il suo pensiero....». Sono le 18 di sera quando Linda Lanzillotta, presiedendo un’assemblea di Palazzo Madama resa incandescente dall’attesa di un giorno del maxi emendamento del governo, bacchetta Enrico Morando. Il viceministro ha appena preso la parola per l’ennesima volta per annunciare che il maxi emendamento ancora non c’è e, per farlo, ha usato un’espressione (e una faccia) così: «Non sono in grado di prendere un impegno preciso sui tempi, non ho ancora ricevuto il testo...». Del resto, la sua promessa di portare in Aula l’intervento del governo entro le 17 è ormai bella che saltata.
Ma cosa è successo? Un corto circuito generale che ha rischiato, come ha profetizzato Renato Brunetta (Forza Italia) per tutta la giornata di ieri, di portarci dritti all’esercizio provvisorio. Ricapitolando: 1) la Camera ha stravolto il testo della manovra in prima lettura prendendosi tutto il tempo per farlo. 2) La commissione Bilancio del Senato ha iniziato il proprio lavoro con la spada di Damocle dei tempi stretti necessari per consentire al governo d’incardinare la legge elettorale, ma non ne ha tenuto conto, sfornando a propria volta una valanga di emendamenti, alcuni vere e proprie «mance». 3) Il governo ha fatto la sua parte producendo un’ottantina di emendamenti, ai quali sono seguiti i subemendamenti della commissione. 4) L’opposizione, soprattutto il M5S, vista l’ impasse , ha cominciato a rumoreggiare denunciando il pressing delle lobby .
A un certo punto è stato chiaro che la commissione Bilancio non avrebbe potuto completare per tempo l’esame del testo e il suo lavoro è stato sospeso senza una votazione. In questo modo l’intervento finale del governo con maxi emendamento non ha potuto limitarsi a fare proprio il testo della commissione aggiungendo solo alcune modifiche ma ha dovuto strutturarsi come un testo completo, corredato della necessaria relazione tecnica. E forse si sarebbe potuti arrivare a una conclusione nella mattinata di ieri se Matteo Renzi, di ritorno da Bruxelles, mentre assicurava «io non voglio sforare» il tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil «perché voglio rispettare le regole», non avesse deciso di spulciare il testo della manovra per espungere «le varie leggi marchetta». Molte di queste erano state segnalate dal M5S al presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia, con la promessa che se non fossero state cancellate sarebbe scattato l’ostruzionismo e la discussione sarebbe andata a Natale.
Conclusione: il maxi emendamento è arrivato in Aula rivisto e corretto soltanto alle 19.30 mentre l’assemblea ormai ribolliva. Al punto che quando il ministro Maria Elena Boschi ha preso la parola per porre la questione di fiducia l’Aula è esplosa in un boato. Il presidente Pietro Grasso è dovuto intervenire: «La ricreazione è finita» ha detto con espressione forse non troppo felice, visto che i senatori si erano tutt’altro che «ricreati» nell’attesa. Ma soprattutto dal momento che il ritardo ha costretto il Senato a votare a notte fonda: l’ultimo voto è iniziato alle tre.

Corriere 20.12.14
L’affanno del governo e l’ipoteca di Bruxelles
di Massimo Franco


Si va avanti a colpi di fiducia. E il governo è intenzionato a non farne a meno. Ma il risultato è quello di mostrarlo in perenne affanno sulle questioni economiche; e di allungare l’ombra della Commissione europea non solo sulla legge di Stabilità ma anche sulla successione a Giorgio Napolitano. La richiesta che ieri il governo ha avanzato all’ultimo minuto al Senato sulla legge di Stabilità non è una novità assoluta; né lo sono le proteste delle opposizioni. Anche in passato è capitato, quando si approvavano le leggi finanziarie. Matteo Renzi conosce così bene l’affanno della sua maggioranza e la difficoltà di far quadrare i conti, che ha ammesso di non potere fare altrimenti.
Il cosiddetto maxiemendamento, imbottito delle misure più disparate, era destinato a sollevare proteste. Le acrobazie per mettere insieme un testo presentabile, e il timore dell’accoglienza che potrebbe ricevere in Europa, spiegano il ritardo e sono rivelatori. Ribadiscono la centralità che le misure anticrisi e il rapporto con la Ue è destinata ad assumere nei prossimi mesi; e la delicatezza delle elezioni per il Quirinale, nelle quali conteranno il profilo internazionale e la credibilità del candidato o della candidata. I risultati del vertice di Bruxelles dell’altro ieri continuano ad essere letti in modo controverso. Come un successo, nella vulgata di Palazzo Chigi; come un mezzo fiasco, a sentire gli avversari di Renzi.
L’unica cosa certa è che l’Italia ha ottenuto un rinvio a marzo e che ci sono pochi soldi per gli investimenti nel piano del presidente Jean-Claude Juncker; e che, come ha ammesso lo stesso premier, le procedure saranno così lente da non offrire un qualche beneficio prima della fine del 2015. Si comincia a capire che tra i «grandi elettori» invisibili del prossimo presidente della Repubblica saranno le nazioni europee e i mercati finanziari. E questo può condizionare ulteriormente la scelta del prossimo capo dello Stato. Renzi continua a difendere Napolitano dagli insulti del Movimento 5 Stelle e dalle critiche di Forza Italia e Lega, e a sottolinearne il ruolo di «salvatore» del Paese.
La domanda è se questo indurrà il premier a lavorare per un successore che abbia un profilo simile. La speranza di una elezione ai primi scrutini, con i due terzi dei consensi, comincia a vacillare. Il premier insiste di voler trovare «il più alto consenso» sul nome offerto al Parlamento dal Pd. Mette le mani avanti, però, quando spiega che considererebbe «un fallimento» non eleggere il presidente della Repubblica. «Che l’elezione arrivi al primo giro, al terzo o al settimo non è il punto», aggiunge. In filigrana, si intuisce una strategia a tappe.
Prima il tentativo di ottenere la quasi unanimità; poi, quello di saldare una maggioranza del 51 per cento. Sullo sfondo rimane lo spettro del 2013, quando in realtà si registrò proprio quel «fallimento» al quale il premier allude; e che portò alla conferma di Napolitano. Il tentativo è di imporre la figura «di garanzia» accennata da Silvio Berlusconi e dal leader del Nuovo centrodestra Angelino Alfano, almeno su questo d’accordo. Lo sono un po’ tutti: il problema è «di garanzia» per chi. Il dubbio è se chi sostiene una candidatura sarà anche in grado di sostenerla compattamente.

Corriere 20.12.14
Manovra nel caos al Senato
di Mario Sensini


ROMA Con ventiquattr’ore esatte di ritardo, segnate dalle continue proteste dell’opposizione in Aula, con Forza Italia che lascia i lavori ed invita le altre opposizioni a fare altrettanto, il governo ha presentato ieri sera in Senato il maxiemendamento «interamente sostitutivo» della legge di Stabilità, sul quale il ministro Maria Elena Boschi ha subito chiesto la fiducia, le cui votazioni sono iniziate alle due di notte.
Il testo del governo, accolto in Senato dalle urla della Lega Nord, di Sel e del M5S, con il presidente Pietro Grasso a richiamare l’ordine con un perentorio «la ricreazione è finita» che ha innescato altre bagarre , conferma le principali modifiche concordate dai gruppi politici in commissione Bilancio, ma non tutte. «Il governo accetta e si scusa per gli errori commessi anche nella relazione tecnica ma abbiamo cercato di rendere più leggibile il testo» spiega il viceministro dell’Economia, Enrico Morando. Dal maxi emendamento sono saltate alcune norme «marchetta», come le avevano definite i cinque stelle e ieri lo stesso Renzi.
Nel testo, che arriverà in Aula alla Camera per l’approvazione definitiva e senza ulteriori modifiche entro il 23 dicembre, sono dunque confermati il congelamento della Tasi per il 2015, che non potrà salire oltre il 2,5 per mille, e del Canone Rai, il credito d’imposta del 10% sull’Irap per i lavoratori autonomi che non hanno dipendenti, e che dovrebbe riguardare quasi un milione e mezzo di piccole partite Iva. Il testo su cui il governo ha posto la fiducia alleggerisce, ma solo parzialmente l’aggravio della tassazione sui rendimenti dei fondi pensione, portata dall’11,5 al 20%. Per quelli che investono in economia reale è previsto un credito d’imposta del 9%, che viene ridotto al 6% per i medesimi investimenti delle casse previdenziali professionali.
Il pacchetto messo a punto dal governo, la cui presentazione è slittata nel corso della giornata almeno cinque volte, complicando anche l’iter della riforma elettorale, interviene anche sul personale delle Province, che da giorni, temendo tagli selvaggi, sta occupando sedi in mezza Italia. Per le Province montane e di confine il taglio del personale sarà del 30 e non del 50%. Per due anni i dipendenti delle Province manterranno il posto di lavoro e scatterà il ricollocamento in altre amministrazioni. Solo dal 2017, per chi non avrà trovato un posto, partirà la mobilità, con l’80% dello stipendio.
Il sottosegretario alla Presidenza, Graziano Delrio, ha spiegato che «il personale delle Province non rimarrà per strada, ma verrà riassorbito con il blocco di tutte le assunzioni in tutte le amministrazioni dello Stato».
Tra le misure che erano state concordate in commissione Bilancio, ma che poi non sono state approvate formalmente (il lavoro della commissione si è chiuso, per motivi di tempo, senza mandato al relatore), ci sono quelle per incentivare il disboscamento delle partecipate degli enti locali, con l’obbligo di chiudere entro il 2015 quelle che hanno più amministratori che dipendenti, quelle non indispensabili alle finalità istituzionali e i «doppioni», la cessione della rete elettrica delle Fs a Terna e la riduzione dei tagli a carico dei patronati, che scendono a 35 milioni nel 2015. C’è anche la costituzione del registro nazionale dei donatori, che di fatto consente l’avvio della fecondazione eterologa nelle strutture pubbliche italiane.
Nel maxiemendamento sono confermate misure come l’aumento dell’Iva sul pellet da riscaldamento, l’esclusione dell’Expo dall’obbligo delle gare Consip, il finanziamento ad Italia Lavoro, di cui il M5S chiedeva la cancellazione. Ma mancherebbero alcune norme concordate a livello politico. E sarebbe in assoluto la prima volta.

La Stampa 20.12.14
Il ritorno dei vecchi pasticci
di Paolo Baroni


Il governo ha cercato di tagliare i tempi e invece sulla legge di Stabilità ha finito per incartarsi. Il Senato avrebbe dovuto votare ieri mattina al più tardi la fiducia per passare la palla alla Camera, che tra oggi e lunedì avrebbe chiuso definitivamente la pratica della legge di bilancio, ed invece di rinvio in rinvio i senatori sono stati chiamati al voto nel cuore della notte ingarbugliando il resto del calendario parlamentare di fine anno, camera compresa.
Cosa è successo? Le colpe sono molte. La Commissione bilancio non è riuscita a concludere i tempo i lavori ed in aula è arrivato un testo «aperto», senza il tradizionale mandato al relatore. Per poter chiedere la fiducia il governo ha così dovuto approntare un maxiemendamento e la relativa relazione tecnica che ha richiesto più tempo del previsto in seguito ad un nuovo rimpallo tra Palazzo Chigi, il Tesoro, la Ragioneria dello Stato ed i tanti interessi in gioco. In questi ultimi giorni si è infatti tornati alla vecchia pratica delle finanziarie di una volta, in perfetto stile assalto alla diligenza. Con tanto di lobbisti che affollavano i corridoi del Senato (a cominciare dal «re delle slot machines» segnalato dai grillini), e deputati, «soprattutto quelli del Pd» accusavano ieri dall’opposizione, che intasavano i lavori di commissione con le loro richieste di modifica.
O di «marchette», come le hanno definite quasi all’unisono sia Renzi sia i grillini. E’ chiaro che il governo è andato in tilt, mentre a Palazzo Madama è andata in scena una commedia dell’assurdo con l’aula convocata a ripetizione per votare sul nulla.
Misera conclusione per l’iter di una legge che partiva sotto i migliori auspici: una stazza consistente, 36 miliardi poi scesi a 32, ben 18 miliardi di riduzione delle tasse (dal bonus da 80 al taglio dell’Irap), risorse aggiuntive per gli ammortizzatori sociali e una significativa carica espansiva nei confronti dell’economia. Poi, in corso d’opera, da un lato è stata infarcita di micronorme che nulla avevano a che vedere col bilancio, come la proroga delle armi da scena (per salvare le riprese romane del nuovo film di James Bond e altre produzioni di cinema e tv), e dall’altro si è dovuti intervenire per correggere una serie di norme, come il taglio dell’Irap (che penalizzava le imprese senza dipendenti) o le nuove tasse su fondi pensione e casse private (a cui alla fine è stato concesso un parziale credito di imposta). Come se non bastasse poi per cercare di tacitare l’opinione pubblica alle prese col salasso fiscale di fine anno, e per questo comprensibilmente irritata, hanno pure inventato due disposizioni che hanno il sapore della presa in giro: da un lato, anziché varare per davvero la nuova «local tax» che almeno serviva a fare un po’ d’ordine, si è deciso solamente che nel corso del 2015 le tasse sulla casa non aumenteranno e dell’altro si è congelato a 113,5 euro il canone Rai. Quello stesso canone che sino a qualche settimana fa doveva invece finire in bolletta ed essere dimezzato.
E pensare che quando venne introdotta nel 2010 la legge di Stabilità doveva servire esattamente ad evitare tutti questi pasticci. Mandando in soffitta la pratica delle leggi finanziarie e le sue tante degenerazioni, questo nuovo «strumento» doveva farsi carico esclusivamente di regolare per tre anni la vita economica dell’Italia coordinando e tenendo assieme politica di bilancio e norme di finanza pubblica. Insomma tabelle e poco più, coi vari fabbisogni, i saldi, ecc. E col divieto assoluto di infarcirla di norme ordinamentali di qualsiasi tipo. Regola che nel giro di pochi anni è stata però bellamente stravolta.

La Stampa 20.12.14
L’imbuto del governo
Troppe riforme tutte insieme
Dieci ore di blocco dei lavori, Renzi taglia e cuce per recuperare il tempo perduto
di Fabio Martini


Da giorni l’imbuto del governo era talmente pieno di provvedimenti che ieri si è rischiato l’incidente da “overdose”. Per dieci ore, mentre il governo continuava a non presentare un testo definitivo sulla legge di Stabilità, nell’aula del Senato i rappresentanti della maggioranza si sono ritrovati in prima linea senza argomenti, costretti a balbettare. Un personaggio dalla solida reputazione come il viceministro Enrico Morando si è trovato a dire: «Signora Presidente, non ho ancora ricevuto il testo, quindi... A differenza di quanto pensassi, francamente non sono in grado di prendere un impegno preciso... posso chiedere al Governo, di cui faccio parte, che intanto venga depositato il testo....». L’imbarazzo e anche il fastidio di Morando viene percepito dai senatori delle opposizioni che non infieriscono. Seguono rinvii su rinvii. A palazzo Chigi, in quelle ore Matteo Renzi sta cercando di recuperare il tempo perduto. Taglia e cuce, leva mance e cerca coperture . E così mentre il governo continua a latitare, nell’aula di palazzo Madama, l’aula riprende i lavori ma è costretta a sospenderli di nuovo ed è un altro personaggio di punta della maggioranza, il presidente dei senatori Luigi Zanda a doversi esporre: « Rivolgerei un sollecito al Governo perché nei tempi più rapidi possibili la relazione venga completata...». Finalmente, dopo dieci ore di rinvii, il presidente del Senato Pietro Grasso annuncia che ii maxi-emendamento è pronto e appena dà la parola al ministro per i Rapporti col Parlamento Maria Elena Boschi, i senatori di opposizione insorgono e Grasso commenta: «La ricreazione è finita!».
Certo, scene ordinarie da Finanziaria: ogni anno si ripetono. Ma proprio Maria Elena Boschi ha finito per diventare, per ragioni controverse, il “personaggio del giorno”. Da inizio dicembre il ministro per le Riforme e per i Rapporti col Parlamento sta seguendo da vicino provvedimenti molto impegnativi, come la legge di Stabilità, il Jobs Act la legge elettorale, la riforma istituzionale. Dice Rocco Palese, per competenza e ponderazione nei giudizi, uno dei deputati di Forza Italia più stimati dai colleghi: «Ma la povera Boschi come può far tutto? Stiamo esaminando in pochi giorni leggi imponenti che richiedono un esame attento e se manca nel governo chi coordina e chi detta i tempi, è inevitabile che capitino incidenti, forzature e perdite di tempo come quelli di queste ore. Renzi si fida di troppe poche persone, questa volta si è notato...».
Le “voci di dentro” della maggioranza, sia pure a mezza bocca, concordano: la giovane ministra non ce la fa ad occupare tutte le prime linee. Lo si è visto nei giorni scorsi al Senato, quando la legge di Stabilità è stata infarcita di tante piccole misure micro-settoriali, quelle che i Cinque Stelle hanno efficacemente definito emendamenti-marchetta. Un assalto alla diligenza che alla Camera era stato contenuto per effetto della vigilanza del presidente della Commissione Bilancio Francesco Boccia e del filtro paziente del vicepresidente dei deputati Ettore Rosato.
Al Senato invece dove il controllo spettava in prima luogo alla ministra, il filtro è saltato. Ieri sera il presidente del Consiglio commentava: «Stiamo cercando di far sì che la legge di stabilità non sia quel monstrum di norme con tanto di leggi marchetta». A palazzo Chigi hanno effettivamente tagliato, ma l’ingolfamento delle “marchette” si era determinato anche per effetto di un fenomeno originale: il governo aveva presentato una novantina di emendamenti alla propria legge di Stabilità. Nella nottata il governo era intenzionato ad incardinare nell’aula del Senato la riforma elettorale. Se ne riparlerà a gennaio.

Repubblica 20.12.14
Il gioco facile del Corruttore
di Gianrico Carofiglio


MOLTI parlano di corruzione e sembrano sapere che cosa fare per reprimerla. Quelli che esibiscono le opinioni più nette sono gli stessi che non hanno idea di cosa siano un’indagine e un processo per questo tipo di reato.
LA corruzione è (quasi sempre) un reato senza testimoni. Quando il fatto viene commesso — quando i soldi cambiano mano o viene formulata la promessa illecita — sono presenti solo il corrotto e il corruttore ma per ovvie ragioni nessuno dei due ha alcun interesse a raccontare l’accaduto ai magistrati o alla polizia. Questo anche perché manca ogni norma per incentivare la collaborazione con la giustizia, come nelle indagini per mafia.
Quasi mai esiste una notizia di reato nella quale si dica esplicitamente che il tale funzionario pubblico ha preso una tangente o che il tale cittadino l’ha pagata. Quando le denunce arrivano sono di regola imprecise o congetturali e richiedono l’avvio di lunghi e faticosi accertamenti. Fra questi le intercettazioni, sulle cui spese conviene, in breve, soffermarsi.
Un’intercettazione ambientale costa infatti circa 80 euro al giorno, un’intercettazione telematica 120 euro al giorno, l’intercettazione di messaggi whatsapp 200 euro al giorno (!), il noleggio delle varie apparecchiature fra i 50 e i 100 euro al giorno. Con queste tariffe un’indagine media arriva facilmente a bruciare fra i 500 e i 1000 euro al giorno. E un’indagine media dura mesi, quando non addirittura anni.
Uno potrebbe dire: va bene, lo Stato spenda quello che c’è da spendere purché il fenomeno sia investigato e represso con efficacia. Purtroppo non è così. Per molte ragioni — la cautela degli indagati, l’omertà di chi potrebbe collaborare, la sproporzione fra il fenomeno e i mezzi per combatterlo — questa complicata e costosa rete lascia sfuggire quasi tutti i pesci.
Le poche volte che questo non accade e che a carico di qualcuno vengono acquisiti concreti elementi di prova inizia un’interminabile trafila, sempre uguale: ordinanze di custodia cautelare, riesami, questioni preliminari, dibattimenti, trasferimenti di magistrati, ripetizione dei dibattimenti, primo grado, Appello, Cassazione, nullità, inutilizzabilità, prescrizione, sconti di pena, attenuanti generiche, ricorsi, riammissioni in servizio, scusate tanto abbiamo scherzato.
A fronte delle enormi spese di queste indagini e dei relativi processi, il numero di persone per le quali si arriva a una sentenza di condanna definitiva e a una effettiva espiazione di pena, è semplicemente ridicolo. Una combinazione più unica che rara di spese enormi e di risultati pressoché nulli.
In un contesto simile aumentare le pene — per la corruzione o per qualsiasi altro reato — è del tutto inutile e rischia di essere propagandistico.
Tocca per l’ennesima volta ricordare la lezione di Beccaria: la capacità di intimidazione e di prevenzione di una pena non è legata alla sua misura e alla sua durezza ma all’elevata probabilità e soprattutto alla rapidità della sua applicazione.
Provate a parlare a un pubblico ministero americano di questi argomenti. Provate a dirgli come funziona (funziona?) in Italia il sistema della repressione penale di questi reati. Vi guarderà con espressione incerta, chiedendosi se state scherzando o se vivete in un Paese di pazzi. Poi, dopo essersi ripreso, vi spiegherà come fanno loro e immancabilmente vi parlerà di agenti sotto copertura.
L’agente sotto copertura è un ufficiale di polizia che, con una falsa identità, avvicina un criminale e gli propone un affare. Se l’altro accetta si consuma il reato e (indipendentemente dal fatto che l’arresto scatti subito o lo si rinvii per approfondire le indagini e individuare ulteriori colpevoli) le possibilità che il malandrino possa sottrarsi alla giustizia sono molto ridotte. C’è il filmato, c’è la registrazione, c’è poco da discutere o interpretare.
In Italia è già prevista la possibilità di compiere operazioni sotto copertura per reati di criminalità organizzata, traffico di armi e droga, per pedopornografia. Non è prevista per il reato che più di tutti lo richiederebbe, cioè appunto la corruzione. Eppure non si tratta di un’idea bizzarra di qualche magistrato forcaiolo. Ce lo chiede, come si suol dire, la comunità internazionale. L’articolo 50 della convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla corruzione impegna gli stati firmatari ad adottare norme che consentano le operazioni sotto copertura, con presupposti chiaramente indicati e sotto il rigoroso controllo dell’autorità giudiziaria. La convenzione Onu è stata ratificata dall’Italia già da oltre 5 anni ma da allora nulla è accaduto. O quasi.
Va detto infatti che giace in commissione Giustizia alla Camera un buon disegno di legge presentato da alcuni parlamentari del Pd proprio in materia di operazioni sotto copertura e lotta alla corruzione. Se questo disegno di legge fosse rapidamente esaminato e approvato — assieme ad altre fondamentali riforme, in materia di prescrizione e collaboratori di giustizia — , il senso di impunità di corrotti e corruttori comincerebbe a sgretolarsi. E soprattutto si farebbe percepire ai cittadini e alla comunità internazionale che in questo Paese c’è la volontà di uscire davvero dalla poltiglia morale. Quella in cui alcuni sguazzano e in tanti rischiano di affogare.

Corriere 20.12.14
Un linguaggio comune per il nuovo presidente
di Piero Ostellino


È incominciata la campagna, in Parlamento e nel Paese, per l’elezione del presidente della Repubblica e già nascono i primi equivoci sulla sua natura, primo fra tutti quello che l’eletto dovrebbe essere «di garanzia» nei confronti di tutte le forze in Parlamento. In realtà, non si vede come potrebbe essere di garanzia. Se non è eletto rapidamente, a maggioranza qualificata dei due terzi, ma, dopo le prime tre votazioni, a maggioranza assoluta, è certamente il presidente della maggioranza parlamentare che regge il governo. Insomma, un uomo di parte.
Napolitano è stato, piaccia o no, un presidente di parte, favorevole soprattutto alla propria parte politica, vale a dire il Partito democratico. Lo ha fatto persino in modo, diciamo così, sfacciato, nel 2011, quando – persa da Berlusconi la propria maggioranza in Parlamento – aveva nominato senatore a vita e poi presidente del Consiglio il professor Mario Monti.
Una operazione analoga Napolitano cerca ora di fare attraverso l’attuale capo del governo, Matteo Renzi, al quale dà il proprio sostegno per evitare, in nome di una fantomatica stabilità, nuove elezioni, nel timore le vinca, come sarebbe probabile data la situazione del Paese e i fallimenti di Renzi, la destra di Salvini e Berlusconi. Napolitano è prigioniero del vecchio schema della sinistra, secondo il quale la democrazia c’è quando a vincere le elezioni è la stessa sinistra, non c’è se le vincono gli altri. Renzi, che consulterebbe Napolitano persino se dovesse divorziare dalla moglie, non è un buon governante, ma un affabulatore che per restare in carica si è inventato persino delle Olimpiadi da tenere nel 2024 a Roma. A tenere bordone a Napolitano, è il sistema informativo che si è mobilitato per delegittimare Matteo Salvini, il segretario della Lega che ha rilanciato il proprio partito e minaccia di fargli conseguire un grosso successo elettorale.
   Napolitano non è stato un pessimo presidente come, ad esempio, Scalfaro, ma neppure buono. Si è mostrato, ad esempio di parte nominando senatori a vita quattro personaggi che, in Parlamento, avrebbero votato per il Pd. Forse, prima di procedere nella votazione per l’elezione del presidente della Repubblica, le forze politiche dovrebbero cercare, e trovare, un linguaggio comune e una procedura che risponda a concreti principi democratici al posto di quelli monarchici.

La Stampa 20.12.14
Quell’accordo che ancora non si intravede
di Marcello Sorgi


Gli effetti dell’annuncio di Napolitano di giovedì («imminente la fine del mandato») ancora non si vedono e il Parlamento sarà impegnato almeno fino a Natale per l’approvazione della legge di stabilità, da oggi di nuovo alla Camera dopo la fiducia (con 24 ore di ritardo) sul maxi-emendamento del governo, spedito a Palazzo Madama solo ieri sera.
La girandola dei nomi per il Colle continua, ma un accordo non c’è, né s’intravede. Non è neppure sicuro che il governo riesca, come si propone, ad ottenere l’approvazione della legge elettorale e il secondo voto sulla riforma del Senato prima che il Capo dello Stato lasci e siano convocate le Camere riunite per l’elezione del suo successore. L’accordo con Berlusconi, recuperato da Renzi grazie alla clausola di blocco dell’efficacia dell’Italicum fino al settembre 2016, che mette in fuga i timori che il premier punti ad elezioni anticipate a breve, ha di nuovo innervosito la minoranza bersaniana del Pd, che adesso chiede nuove modifiche sulle preferenze e si prepara a presentare emendamenti in questo senso. Così che la discussione, a gennaio, potrebbe avere tempi più lunghi e scavalcare le dimissioni di Napolitano.
La data dell’uscita di scena del Presidente la conosce solo l’interessato, anche se il riferimento alla fine del semestre italiano di presidenza europea, che si conclude il 13 gennaio, ha diffuso la sensazione che da quel giorno in poi ogni momento è buono per decidere. Napolitano probabilmente starà a guardare, sia l’andamento del dibattito parlamentare sulle riforme, sia le trattative sulla scelta del suo successore, e poi si comporterà di conseguenza. Sarebbe ovviamente più soddisfacente per lui uscire sull’onda di una ritrovata armonia tra i partiti e di alcuni risultati concreti in ambito riformatore, anche a costo di attendere qualche giorno. Ma se la situazione dovesse complicarsi, il Presidente confermerà la sua intenzione di passare la mano per ragioni «personali» e di salute, anche senza attendere un chiarimento.
Un largo accordo che consenta di eleggere il nuovo Presidente alla prima o in una delle prime votazioni al momento non c’è. Renzi ieri lo ha ammesso pubblicamente e ha aggiunto che non sarà un problema se l’elezione avverrà più avanti, scontando un numero maggiore di scrutini e una maggioranza più limitata. Segno che la sua strategia continua ad essere quella di provare a costruire l’unità interna al Pd e poi cercare i voti che mancano per arrivare al quorum necessario all’elezione. Senza alcuna corsia preferenziale per Berlusconi e con grande attenzione ai nuovi gruppi parlamentari che ogni giorno spuntano nei corridoi delle Camere.

La Stampa 20.12.14
Poletti ai sindacati: “Sul Jobs Act nessuna trattativa”
Il reintegro sarà più difficile e licenziare costerà meno Cisl e Uil attaccano: risponderemo con lotte crescenti
di Roberto Giovannini


Se l’intenzione era quella di riaprire un canale di comunicazione con i sindacati sul «Jobs Act», l’incontro di ieri tra il ministro del Lavoro Giuliano Poletti e le parti sociali sui primi due dei decreti attuativi della riforma del mercato del lavoro non pare proprio aver raggiunto il suo scopo. Premesso che il governo ha soltanto illustrato sommariamente i contenuti dei decreti, le associazioni datoriali hanno dato un sostanziale via libera alle norme sull’Aspi (l’indennità di disoccupazione universale) e sul contratto a «tutele crescenti». Molto diversa la reazione dei sindacati: se la Cisl si limita a esprimere delle richieste su indennizzi e contratti precari, Cgil e Uil riprendono i toni battaglieri. Susanna Camusso parla di contratto «a monetizzazione crescente», mentre il leader della Uil Carmelo Barbagallo promette che «di fronte a un contratto a tutele decrescenti» si risponderà con «lotte crescenti».
Una conclusione facilmente prevedibile, se si considera che l’Esecutivo - oltre a non far vedere nessun testo - continua a ripetere il suo mantra: «si discuterà - dice Poletti in una nota al termine dell’incontro - ma non ci sarà nessuna trattativa». In ogni caso, spiega il ministro, il confronto «continuerà, per vie formali ed informali», anche in vista dei successivi decreti attuativi.
Nel merito - paradossalmente - si parla soprattutto di licenziamenti, e non di assunzioni. Sembra di capire che la reintegra nel posto di lavoro, a parte i licenziamenti discriminatori, in pratica non ci sarà nemmeno per i licenziamenti disciplinari, a parte i casi in cui le accuse sono state certificate come false; ma dovrà essere il lavoratore ad avere l’onere di dimostrare la sua innocenza. E per le aziende sarà tutt’altro che pesante, economicamente, allontanare i dipendenti per ragioni economiche: il governo deve ancora decidere, ma pensa a fissare l’indennizzo tra i 3 e i 6 mesi di retribuzione, a fronte dei 12 attuali. Resterebbe invece invariato il tetto massimo di 24 mesi di indennizzo a fronte di una anzianità aziendale rilevante e di altre non meglio precisate condizioni. Per le piccole imprese, quelle con meno di 15 dipendenti, le norme non cambiano: l’indennità resterà tra i 2,5 e i 6 mesi di retribuzione. In generale, chi accetta i soldi senza creare problemi, rinunciando a ogni altra vertenza, avrà un trattamento fiscale un po’ migliore.
Sul fronte dell’Aspi, l’assegno di disoccupazione, Poletti ha ribadito l’intenzione di unificare l’Aspi e la mini-Aspi dei precari, ma per adesso soldi non ce ne sono. Infine, sotto la lente del governo ci sono anche i licenziamenti collettivi, tema su cui non è stata presa ancora una decisione. Nessun accenno è stato fatto invece sullo «scarso rendimento» come giusta causa di licenziamento economico.
Per Confindustria (ma concordano anche Rete Imprese Italia e le cooperative) il vicepresidente per le relazioni industriali Stefano Dolcetta ritiene che «lo schema illustrato abbia aspetti positivi»: «un passo avanti per una maggiore certezza delle imprese». Il Jobs Act è una delega «esplicita alle imprese», torna ad attaccare Camusso, sostenendo che il governo è «indisponibile ad avere un normale rapporto con le parti sociali». La Cisl, invece, condivide l’idea di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti come forma più «competitiva e diffusa» ma ribadisce la necessità di chiudere la stagione delle false partite Iva, delle associazioni in partecipazione e dei co.co.co. E chiede anche che sugli indennizzi per i licenziamenti illegittimi non ci siano «operazioni al ribasso». Anche per l’Ugl «il governo non può pensare che il contratto a tutele crescenti possa essere accettato come una semplice presa d’atto».

Corriere 20.12.14
Jobs act, Cgil e Uil danno battaglia
Poletti: nessuna trattativa sui decreti
L’incontro tra ministro e sindacati. La Cisl: l’indennizzo deve essere congruo
di L. Sal.


ROMA Il nuovo segretario della Uil, Carmelo Barbagallo, promette «lotte crescenti» e si lamenta perché «ancora una volta sul tavolo non c’era uno straccio di documento». Il numero uno della Cgil, Susanna Camusso, dice che quello proposto dal governo è un «contratto a monetizzazione crescente» e lo definisce una «nuova strenna natalizia per le aziende». La Cisl, invece, continua a smarcarsi dopo il «no» allo sciopero generale e con il segretario confederale Luigi Petteni dice «ok al nuovo contratto ma a patto che gli indennizzi siano adeguati».
Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti è l’unico a non scendere in sala stampa dopo l’incontro fra governo, sindacati e imprenditori sul primo decreto attuativo del Jobs act, quello che riguarda il contratto a tutele crescenti con il nuovo articolo 18 che limita a pochissimi casi il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo. Negli ultimi giorni Poletti si era speso per una linea più morbida ma adesso tiene le distanze, nei fatti e nelle parole: «Il governo – fa sapere – raccoglie le istanze e le sollecitazioni ma poi prenderà le sue decisioni. Insomma, non ci sarà nessuna trattativa».
In realtà qualcosa si sta muovendo in vista del consiglio dei ministri della vigilia di Natale. Sembra saltata l’estensione delle nuove regole sui licenziamenti alle piccole aziende, quelle al di sotto dei 16 dipendenti. C’era l’idea di applicare anche a loro, in versione light , il meccanismo di calcolo per gli indennizzi ma le regole dovrebbero rimanere quelle attuali. Sembra in bilico l’applicazione del nuovo regime dei licenziamenti economici anche a quelli collettivi: in questo caso il reintegro sarebbe saltato, per i nuovi assunti, in caso di mancato rispetto delle procedure di consultazione previste dalla legge. Ma nelle ultime ore quello che sembrava un punto fermo è stato messo in discussione. Non ci sono grandi novità, invece, sul problema più discusso e cioè sulla riscrittura dell’articolo 18: il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento disciplinare illegittimo sarà possibile solo quando è stato deciso sulla base di un «fatto materiale insussistente». Non un fatto grave, tanto meno un reato. Mentre non è stata ancora presa una decisione sull’opzione aziendale, e cioè la possibilità per l’aziende di «superare» il reintegro deciso dal giudice pagando un indennizzo più alto.
Confermata la volontà di inserire anche lo «scarso rendimento» del lavoratore tra le ragioni del licenziamento economico, che quindi eliminerebbe la possibilità del reintegro. Lo scarso rendimento, però, andrebbe inteso in senso oggettivo: non come scarso impegno personale ma come impossibilità a svolgere alcune mansioni. Resta da fissare l’indennizzo minimo, per evitare che le aziende possano essere incentivate ad assumere incassando i contributi e poi licenziare a costo quasi zero. L’ipotesi più probabile è un minimo di tre mesi di stipendio, che potrebbero scendere a due in caso di conciliazione. Nel secondo caso (risorse permettendo) potrebbero essere esentasse.

Corriere 20.12.14
«Scarso rendimento? Si torna in mano ai giudici»
Il giuslavorista Dell’Aringa: così c’è il rischio che l’azienda faccia scelte discrezionali
intervista di Lorenzo Salvia


ROMA «Sì, ho letto. Il governo vuole escludere il reintegro per i licenziamenti legati allo scarso rendimento del lavoratore. Mi permetto di manifestare qualche dubbio». Carlo Dell’Aringa non è solo un deputato del Pd. Insegna Economia politica alla Cattolica di Milano, è stato tra gli estensori del «libro Bianco» che portò alla Legge Biagi, nel governo Letta ha fatto il sottosegretario al Lavoro, nel governo Monti era arrivato ad un passo dalla poltrona di ministro. Insomma, è uno dei nomi più illustri nel ristretto club dei giuslavoristi che in queste ore sezionano le notizie in arrivo dal fronte del Jobs act .
Quali sono i suoi dubbi professore?
«Tutto dipende da cosa si intende per scarso rendimento. Può essere oggettivo, cioè non dipendere dalla volontà del lavoratore ma dalle nuove mansioni che deve svolgere in caso di innovazioni organizzative o tecniche».
Facciamo un esempio?
«L’azienda compra un macchinario nuovo e naturalmente vuole che lo si faccia funzionare per bene. Ma il dipendente non ci riesce proprio, non basta nemmeno uno specifico corso di formazione. Se per scarso rendimento si intende questo già adesso la prassi e la giurisprudenza prevedono che possa dar luogo a un licenziamento di tipo economico. In sostanza non cambierebbe molto, si preciserebbe meglio una fattispecie già coltivata nella prassi».
Ma per scarso rendimento si può intendere anche il poco impegno del lavoratore.
«Ecco, il punto è questo. Se si fa riferimento allo scarso impegno ma anche alla cattiva volontà o alla negligenza del lavoratore, la modifica del governo diventa impropria. Qui il motivo non sarebbe più oggettivo ma soggettivo: insomma si rientra nel campo dei licenziamenti disciplinari che, anche con le nuove regole scritte dal governo Renzi, prevedono in alcuni casi il reintegro».
Par di capire che il governo voglia intendere lo scarso rendimento in senso oggettivo. Insomma, lo scarso impegno non c’entrerebbe.
«Me lo auguro, altrimenti si finirebbe per complicare le cose. Poi non ci si può lamentare se i giudici sbagliano».
Quasi tutti i sindacati hanno protestato dopo l’incontro a Palazzo Chigi: solo linee generali, nessun dettaglio, la sensazione che i giochi siano già fatti. Da ex uomo di governo, hanno ragione loro?
«Li capisco. Un atteggiamento del genere sarebbe giustificato solo se il governo non avesse le idee chiare su cosa fare. Ma non mi sembra questo il caso. La materia va discussa e affrontata davvero, altrimenti questi incontri rischiano di essere percepiti come una presa in giro».
Da esperto, le pare possibile che le nuove regole sui licenziamenti valgano solo per i nuovi assunti mentre per tutti gli altri no? Il problema dell’Italia non è anche la distinzione fra lavoratori giovani non garantiti e anziani più garantiti?
«Se il mondo del lavoro si abituerà a queste nuove norme sarà inevitabile estenderle a tutti nel giro di qualche anno. Il doppio regime può reggere nella fase transitoria ma non può durare 10 o 15 anni».
E secondo lei ci abitueremo a fare a meno dell’articolo 18?
«Ci siamo abituati alla scomparsa della scala mobile. Ci abitueremo anche a questo».
Entro il 2020, quindi, il Jobs Act sarà valido per tutti?
(Ride )«Questo lo dice lei, ma certo non dovremo aspettare il 2030».

il Fatto 20.12.14
I dipendenti delle Province in rivolta
Cortei e occupazioni in mezza Italia
In 22mila temono di finire in mobilità e poi perdere ilposto
di Ma. Pa.


Un miliardo di tagli nel 2015 che mettono a rischio funzioni fondamentali (e ipotecano pure il futuro delle città metropolitane quando dovranno sostituirle) e ventimila dipendenti - più duemila precari - che dovrebbero essere ricollocati a breve, ma non sanno ancora quale sarà il loro destino. Questo è un rapido ritratto delle province in via di abolizione a fine 2014. Non è un ozioso riepilogo perché tra politica territoriale e lavoratori l’irritazione verso una situazione terribilmente mal gestita cresce da settimane e rischia di esplodere proprio in prossimità di Natale.
COME HA RIPORTATO ieri l’Ansa, a macchia di leopardo nella Penisola la “rivolta” è già iniziata: a Firenze, Arezzo e Brindisi è in corso l’occupazione di alcuni locali della Provincia da parte dei dipendenti; a Pisa ieri c’è stato un corteo nelle vie del centro con tanto di striscioni contro Renzi; a Vicenza e a Imperia i dipendenti della provincia hanno simbolicamente occupato l’aula del Consiglio; a Genova, invece, un migliaio di lavoratori delle province in corteo ha prima bloccato il traffico nel centro città e poi anche i lavori del Consiglio regionale.
Il motivo di queste proteste è semplice: i lavoratori temono che con l’abolizione delle province anche il loro posto di lavoro finisca per essere rottamato: il piano di governo e Regioni sul tema, infatti, non esiste ancora, mentre esiste eccome la possibilità teorica che nell’impossibilità di essere ricollocati si finisca in mobilità e di lì a casa (una possibilità inserita di recente per il pubblico impiego).
La cosa non è così impossibile: molti potrebbero, ad esempio, dover lavorare in un’altra città e non poterlo fare per mille ragioni. Se si rifiuteranno, però, si apriranno per loro le liste di mobilità all’80% dello stipendio. In buona sostanza l’anticamera del licenziamento. Insomma, i dipendenti delle province hanno più di una ragione per essere preoccupati e cercare di tutelare preventivamente i loro legittimi interessi. “Chiediamo al Parlamento di evitare il peggio e alle Regioni di fare la loro parte”, hanno detto ieri i dipartimenti Pubblico impiego di Cgil, Cisl e Uil: “Questi tagli mettono a rischio il funzionamento dei servizi di area vasta: dalla sicurezza scolastica alla tutela ambientale, passando per la viabilità e le politiche attive sul lavoro”.
SUI TAGLI CI SARÀ poco da fare, anche perché il testo finale della legge di Stabilità arrivato ieri sera in Senato li contiene ancora e pure sui dipendenti la possibilità teorica di una fregatura esiste eccome: in sostanza, dice la manovra di Matteo Renzi, per due anni chi lavora nelle province manterrà il posto di lavoro e scatterà il ricollocamento in altre amministrazioni (prioritariamente negli uffici giudiziari) e solo dal 2017 per chi non avrà trovato nuovo posto scatteranno le procedure di mobilità”.
Almeno a parole, però, il governo ha aperto alle richieste dei sindacati. La voce più autorevole è stata quella del sottosegretario Graziano Delrio: “Il personale delle province non rimarrà per strada ma verrà assorbito tramite il blocco di tutte le assunzioni in tutte le amministrazioni dello Stato e affini”, ha spiegato sostenendo però che nella legge di Stabilità c’è un “elemento di certezza e non d’incertezza come qualcuno ha erroneamente sottolineato”. Se la pensa così, non ha letto bene.
La Cgil, per dire, non l’ha presa benissimo: “Tranquillizzare non basta. Servono fatti o la mobilitazione continua”. Il ministro Madia è avvisata.

il Fatto 20.12.14
Sempre più Mafia Capitale
La cloaca politico-criminale romana è un pozzo senza fondo
Il guerrigliero rosso, e gli appalti dei rifiuti
di Marco Lillo


Non c’è solo Salvatore Buzzi, il ras della 29 giugno, a rappresentare la categoria dei ‘rossi omicidi’ nel grande affare dei rifiuti scoperchiato da Roma Capitale. Di fronte alla storia di Franco Cancelli (ras della cooperativa Edera, talvolta rivale ma talvolta alleata della 29 giugno) le 34 coltellate inferte da Buzzi nel 1980 al suo ex socio in truffe fanno sorridere. Il presidente della cooperativa Edera è finito agli arresti domiciliari il 2 dicembre con l’accusa di turbativa d’asta per la gara della raccolta del ‘multimateriale’. Roba da ridere per Cancelli, un pregiudicato rosso che non ha molto da invidiare al Nero Carminati per spessore criminale.
CANCELLI è un ex militante del gruppo Guerriglia comunista, un’associazione sovversiva di sinistra nata negli anni settanta e molto attiva a Roma (un po’ come i Nar dall’altra parte) sul fronte degli omicidi e delle rapine. Il suo certificato del casellario giudiziale occupa cinque pagine e comprende undici condanne definitive, senza contare tre violazioni stradali e un cumulo delle pene.
Cancelli ha finito di scontare la pena nel 2001. Nel 2000 nasce la cooperativa sociale Edera, che entra nel mondo degli appalti Ama per la raccolta dei rifiuti di Roma nel 2003. Oggi gli ex detenuti di Edera si spartiscono il settore con gli ex detenuti della 29 giugno. Un potere che ha attirato invidie tanto che potrebbero spiegare l’incendio nel quale sono andatidistrutti dieci camioncini di Edera nel 2013.
Su quattro lotti del servizio di raccolta differenziata “porta a porta” del multimateriale presso bar e ristoranti, due sono andati a Edera e due alla 29 giugno tramite il Cns, un consorzio rosso di Bologna del quale 29 giugno fa parte. L’appalto assegnato a gennaio 2014 dura 24 mesi e riguarda il 45 per cento dei ristoranti, bar e mense presenti a Roma. Scrive il Ros: “in merito alla gara Ama sul Multimateriale, il consigliere Regionale Eugenio Patané (del Pd), avrebbe chiesto a Buzzi, per mezzo di Franco Canccelli la somma di euro 120mila”.
Anche il servizio di raccolta dell’umido è stato assegnato nel 2012 alle due coop rosse. A Edera è andato solo uno deicinque lotti mentre il resto è tutto appannaggio di Cns e quindi di Buzzi. Il Ros registra anche per questa gara da 21,4 milioni già nel novembre 2011conversazioni interessanti dalle quali emerge come “Buzzi 20 giorni prima dell’aggiudicazione abbia certezza dell’essere affidatario dei lavori e il giorno prima conoscesse addirittura che uno dei lotti fosse appannaggiodi Edera”. Edera si è aggiudicata da sola anche la commessa per la raccolta del 25 per cento dei cassonetti e la movimentazione dei rifiuti sanitari presso il termovalorizzatore Ama di Ponte Malnome.
Anche se non fa parte di Mafia Capitale e non gli si contesta il 416 bis, “la posizione del Cancelli, sul versante privato dei reati contro la pubblica amministrazione – scrive il gip che lo spedito ai domiciliari – è tra quelle più prossime all’operatività del sodalizio”. La sua pericolosità sociale per il gip sarebbe provata dal suo certificato penale “perché anche nei suoi confronti si registra il desolante fallimento di tutti gli strumenti previsti dall’ordinamento penitenziario intesi alla rieducazione e al reinserimento del condannato. Cancelli in particolare, ha fruito di due anni, undici mesi e venticinque giorni di liberazione anticipata e dell’affidamento in prova, spazi che egli ha utilizzato per reinserirsi a pieno titolo in circuiti criminali di elevatissima pericolosità. Ha inoltre fruito di tre anni, undici mesi e venti giorni di condono, evento che ha solo ridotto il tempo del suo reinserimento, a pieno titolo, in attività criminali”.
IL CASELLARIO giudiziale di Cancelli, depositato agli atti di ‘Mafia Capitale’ parla da solo: dopo una mezza dozzina di condanne per furti e ricettazioni commessi tra il 1973 e il 1975, la sua prima condanna per omicidio risale al 1980: il 28 gennaio del 1978 assieme ad altri ‘compagni’ di Guerriglia comunista, Cancelli uccide il gioielliere Giorgio Corbelli, 54 anni, nel corso di una rapina. La condanna a 14 anni diventa definitiva nel 1988 e lui nel 1989 non rientra a Rebibbia dopo un permesso. Lo riarrestano e gode di un attimo di notorietà. Nulla al confronto del riverbero mediatico dell’altro omicidio di Cancelli: il 27 luglio del 1982 durante l’ora d’aria nel supercarcere di Trani, Cancelli con altri detenuti partecipa all’uccisione con molti colpi di punteruolo del ‘compagno’ Ennio Di Rocco, ritenuto colpevole di avere tradito il criminologo Giovanni Senzani, arrestato pochi giorni dopo Di Rocco. Per questa esecuzione arriva una condanna definitiva a 21 anni a cui si aggiunge nel 1990 un’altra condanna per associazione a delinquere semplice, ricettazione e rapina, per fatti del 1979. Guerriglia comunista era considerata un’organizzazione sovversiva dedita anche a rapine che poco avevano a che fare con la politica. Nel 1991 applicando il cumulo delle pene per otto sentenze gli applicano 27 anni e 5 mesi. Nel 1994 arriva la semilibertà, nel 1996 l’affidamento in prova. Nel 2001 la pena è dichiarata estinta. Inizia l’avventura imprenditoriale.

il Fatto 20.12.14
I neri, l’omicidio e la politica
di Valeria Pacelli


Il deputato di Forza Italia, Ignazio Abrignani, si è mostrato disponibile alla richiesta di Manlio Denaro – ritenuto amico di Massimo Carminati – il quale gli chiedeva un intervento in carcere per far trasferire Emanuele Macchi di Cellere. Sia Denaro sia Macchi di Cellere sono stati arrestati due giorni fa con l’accusa di essere tra i presunti organizzatori del tentato sequestro, poi finito in omicidio, di Silvio Fanella, ritenuto il cassiere di Gennaro Mokbel. Quando Denaro chiede un intervento del deputato di Forza Italia, però, Macchi di Cellere si trovava in carcere per un’altra vicenda. L’ex Nar era stato arrestato a settembre scorso dalla procura di Genova, mentre era latitante in Francia. Infatti, per lui le manette erano scattate il 3 marzo 2012 nell’ambito di un’inchiesta per un traffico di droga. A settembre, Macchi di Cellere finisce a Rebibbia ma vuole essere trasferito nel carcere di Genova. Si lamenta con i fratelli durante i colloqui, ma quelle chiacchierate vengono registrate, facendo scoprire così i tentativi di pressione per il suo trasferimento: l’ultimo, tramite Manlio Denaro, istruttore nella sala pesi del Fleming del deputato Abrignani. Infatti lo contatta il 29 novembre scorso.
Macchi Di Cellere: Ignazio bello.
Abrignani: Allora mi dicevi che lui è ancora nel reparto non è in infermeria.
M: lui sta al transito, non è in infermeria. Ha un braccio paralizzato, è mal vestito. Non vivrà molto... perché non sta mangiando.
A: Ma lui quanti anni ha?
M: Lele ha 58/59 anni... comunque una persona che va là e gli dice: ‘guarda io sono un deputato, vediamo di farti spostare adesso con calma vedrò di farti spostare in infermeria’. Sto ragazzo non ha tanto da vivere. A: provo a sentire la Polverini (Renata, ex presidente della Regione Lazio, ndr) intanto se riesce a spostarmelo. Perché lei conosce il direttore di Rebibbia... capito? vediamo se intanto riusciamo a spostarlo in infermeria prima di andarlo a trovare. M: L’infermeria di Rebibbia mi sa che è piena (...) Però certo se la Polverini riesce a farlo spostare in infermeria almeno perchè... cioè... vorrei che morisse in un posto tranquillo. (...) È una questione umanitaria (...).
ABRIGNANI conferma al Fatto di aver ricevuto la telefonata: “Mi chiese un intervento umanitario per una persona che mi disse stava male. Mi chiese di farlo spostare da una zona di transito a una cella normale. Io dissi che avrei contattato la Polverini ma non l’ho mai fatto”. Versione confermata da Renata Polverini: “Non mi ha mai chiesto nulla per nessun carcerato, e in ogni caso non avrei fatto nulla”.
Tuttavia quando parlano al telefono Denaro e Abrignani, la mattina del 29 novembre, Macchi è già stato trasferito nel carcere di Marassi a Genova, come annota in un’informativa del 1° dicembre la squadra mobile guidata da Renato Cortese. Adesso bisognerà verificare se siano andati in porto gli altri tentativi per ottenere il trasferimento. Macchi – scrive la squadra mobile – chiede ai fratelli di intercedere affinchè tornasse a Genova “rappresentando di avere avviato contatti con Rampazzi di Re-bibbia (potrebbe essere una dirigente, ndr) tramite l’amica Germanella”. Questa “potrebbe individuarsi per Germana De Angelis, moglie dell’ex Nar Luigi Ciavardini” e “sorella di Marcello De Angelis, ex senatore ed ex di Terza Posizione”. Il fratello Gianluigi dice: “Rampazzi è sollecitata pure da quell’altra amica di Germanella, ieri gli ha telefonato, ha dato il numero a Emilio (Siviero, avvocato di Macchi, ndr) e gli ha dato dei consigli su come avvicinare il Dap”.
POCO dopo i due fratelli parlano della direttrice del carcere di Sulmona che, dice Gianluigi, “viene una volta a settimana qua e quando viene parla con la Ram-pazzi. (...) Ieri (...) questa qui di Sulmona ha dato due nomi del Dap da contattare a Emilio”. Si tratta di parole, tutte da riscontrare, come pure lo è la storia raccontata da Macchi di Cellere: aver fatto pressioni per una sospensione di pena, ad aprile 2011, a Pierluigi Concutelli, condannato per la strage di Bologna. Dice Macchi: “Io per tirare fuori Concutelli non è che hocacciatocentomila, hopagato 5 mila una perizia 2 mila un’altra, era perché sono riuscito ad arrivare no… Come a Maroni (in realtà fonti investigative spiegano che il riferimento è ad Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio ndr) tramite la Mambro (Francesca, ex Nar, ndr) ci sono arrivato, sono nomi che non si possono fa’ ma lei lavora al Partito radicale, è lei che ha avuto ’sti contatti, tramite Francesca che abita accanto a Lavinia (figlia di primo letto della moglie di Macchi di Cellere) la conosce da ragazzina”. La Lavinia di cui si parla potrebbe essere Lavinia Morsello, figlia di Massimo Morsello, fondatore di Forza Nuova, deceduto nel 2001. Angiolo Marroni, il garante dei detenuti del Lazio, che sentito dal Fatto smentisce: “Conoscevo Concutelli per il mio lavoro. Macchi di Cellere mai visto. E non ho mai subito pressioni”.

il Fatto 20.12.14
Milano 2015. Dopo gli articoli-denuncia del “Fatto”
Expo-Farinetti: Cantone ora indaga sull’appalto Eataly
“Voglio vedere le carte”. Nel mirino l’appalto senza gara affifato a Mr. Eataly
di Gianni Barbacetto


Il più grande ristorante del mondo affidato senza gara al fedelissimo del premier, il capo dell’Anticorruzione: “Voglio vedere le carte”. Il patron del gruppo della ristorazione si lamenta pure: “Se continuano le polemiche, me ne vado”. Sel porta la questione in Parlamento

Milano Vuole vedere le carte. Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, ha chiesto alla società Expo 2015, guidata da Giuseppe Sala, la documentazione sull’affidamento diretto di due padiglioni dell’esposizione a Oscar Farinetti, il patron di Eataly. Mercoledì il Fatto Quotidiano aveva raccontato il progetto “Italy is Eataly”: due grandi “store” di 8 mila metri quadrati totali, assegnati senza gara all’imprenditore passato dagli elettrodomestici Unieuro ai grandi magazzini del cibo e della gastronomia. Lì, nella “più grande trattoria che mente (e pancia) umana abbia mai pensato”, apriranno 20 ristoranti, uno per Regione italiana, in cui si avvicenderanno 120 ristoratori scelti da Farinetti.
DOPO L’ARTICOLO del Fatto, è scattata un’interrogazione parlamentare di due deputati di Sel, Adriano Zaccagnini e Franco Bordo, che hanno chiesto “come mai siano stati assegnati a Eataly due padiglioni senza gara” e “quali siano stati i criteri” della scelta. Al ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina, che ha la delega su Expo 2015, i due parlamentari hanno poi chiesto se “non intenda intervenire al fine di sospendere l’assegnazione dei due padiglioni e di fare indire una gara a evidenza pubblica con cui poter selezionare chi rappresenterà l’Italia e la sua ristorazione all’esposizione universale, tenendo in debito conto delle migliaia di microcosmi del cibo che il nostro Paese sa raccontare”.
Cantone – che ieri a Milano ha incontrato le commissioni antimafia del Comune di Milano, guidata da David Gentili, e della Regione Lombardia, presieduta da Gian Antonio Girelli – ha reso noto di aver chiesto la documentazione su Eataly: “Sì, ho chiesto di vedere le carte. Io sono abituato a esprimermi sulla base dei documenti, dunque mi riservo di verificare come sia avvenuta l’assegnazione”.
FARINETTI replica: “Se continuano le polemiche di gente che non fa e che ha un sacco di tempo da perdere per criticare chi fa, noi ci ritiriamo senza problemi. Questo non è un affare sotto il profilo dei quattrini”, ha aggiunto, “tant’è che altri appalti sulla ristorazione sono andati deserti”. Ha poi spiegato il meccanismo economico dell’operazione: “Abbiamo ipotizzato investimenti fissi per 7 milioni di euro, in più ci è stato imposto di pagare il 5 per cento su tutti gli incassi lordi. Questo rappresenterà un bell’introito per Expo”. Sul meccanismo dell’assegnazione si pronuncerà invece Cantone, che aveva già dichiarato al Fatto: “Su questo affidamento non abbiamo potere, perché è avvenuto prima del 24 giugno 2014, quando è entrata in campo, per decreto del governo, l’Autorità nazionale anticorruzione. Sappiamo però che Expo può utilizzare poteri in deroga e fare affidamenti diretti”, aveva proseguito il presidente dell’Anticorruzione, il quale aveva comunque subito annunciato i controlli: “Acquisiremo i documenti e verificheremo che cosa è stato fatto, anche se non abbiamo alcun potere su atti precedenti al nostro arrivo”.
IERI IL PRESIDENTE dell’Anticorruzione ha criticato il progetto dell’Albero della vita, la struttura alta 35 metri che dovrebbe diventare, nelle intenzioni del commissario del Padiglione Italia Diana Bracco, la Tour Eiffel dell’Expo milanese: “Progetto opaco”, ha detto Cantone, su cui si proiettano le ombre “di un conflitto d’interessi”. Ha poi tracciato un primo bilancio dell’attività svolta in questi sei mesi. “Sono ottimista sul fatto che si riesca a fare Expo nel modo più pulito possibile”, ha detto. “Il nostro lavoro è nato in un momento emergenziale, con tanti problemi”, ma “abbiamo messo a punto un sistema di controlli che credo stia funzionando abbastanza bene. Abbiamo avuto una grande collaborazione da parte di Expo, stiamo rispettando i tempi, senza far perdere tempo alla stazione appaltante”, cioè a Expo 2015 spa. Ha poi comunicato i numeri degli interventi: “L’unità operativa speciale si è occupata di 68 procedure tra bandi, accordi transattivi, varianti, contratti di sponsorizzazione, convenzioni, nomina di commissioni giudicatrici e aggiudicazioni. Per ulteriori otto casi specifici, inoltre, l’Autorità ha richiesto di propria iniziativa chiarimenti o informazioni alla stazione appaltante”.
Delle 68 procedure avviate, “50 si sono concluse con rilievi di illegittimità, 36 con rilievi di opportunità, mentre 12 sono stati i casi senza profili di illegittimità”.

il Fatto 20.12.14
Eterologa, arriva il Registro donatori
di Fa. Ni.


NEL CAOS della giornata del maxiemendamento alla legge di Stabilità, la confusione ha coinvolto anche il Registro dei donatori per la fecondazione eterologa. In un primo momento sembrava che la sua istituzione dovesse saltare. In serata, però, è arrivata la conferma da fonti istituzionali che “è certa” la presenza nella legge di Stabilità dell’emendamento che lo prevede. Si tratta dello strumento che garantisce l’applicazione della sentenza della Consulta che, ad aprile, aveva definito incostituzionale il divieto al ricorso a un donatore esterno di ovuli o spermatozoi nei casi di infertilità assoluta. Il Registro nazionale dei donatori, voluto dalla ministra della Salute Beatrice Lorenzin, sarà elettronico e avrà un software dedicato. Il percorso dei gameti sarà tracciato. Nel caso di malattia genetica si potrà risalire ai donatori e nel caso in cui ci sia la necessità di cellule e tessuti compatibili, il servizio sanitario pubblico può contattare il donatore e verificare la sua disponibilità alla donazione. Un’altra funzione è quella di evitare eventuali donazioni plurime dello stesso donatore in sedi diverse. Una svolta: come quella capitata alle posizioni dalla ministra che alla vigilia delle elezioni politiche del 2013 diceva convinta alla tv del Corriere della Sera: “Sono contraria alla fecondazione eterologa”.

il Fatto 20.12.14
Il vero “mondo di sotto”
“Centro rifugiati al collasso, non abbiamo neanche l’acqua”
“Qui a Ciampino si rischia la rivolta”
di Silvia D’Onghia


L’altra faccia degli affari spietati del sistema “29 Giugno”: “Qui alla Abc rischiamo la rivolta: i 95 immigrati sono allo stremo, non ci sono neanche le medicine. E noi operatori non vediamo lo stipendio da due mesi
Immagini lei, a rimanere per colpa d’altri, due mesi senza riscaldamento, e poi pure senz’acqua e senza gas. Mi scusi il termine, ma lei non si incazzerebbe? Ecco, adesso trasferisca questa situazione a un gruppo di immigrati africani che vivono in un centro di accoglienza: il minimo che possa succedere è una rivolta. Così poi passano pure per stranieri violenti che vanno cacciati”. A parlare è un operatore del centro per richiedenti asilo “Casale dei Monaci” di Ciampino, alle porte di Roma: uno di quelli gestiti dalla Abc, cooperativa del galassia della 29 Giugno di Salvatore Buzzi. Non vuole uscire dall’anonimato, perché il diktat arrivato dall’alto è quello di tacere. “Ma come posso tacere, se stiamo parlando della vita di 95 persone? ”.
Intende gli impiegati della cooperativa?
No, noi siamo solo 10. Sto parlando dei 95 uomini, tra i 18 e i 40 anni, che sono ospiti del centro. Sono tutti africani, si sono lasciati alle spalle guerre e torture e sono nel nostro Paese in attesa di asilo politico. Oltre a loro c’è una famigliaegiziana con due minori, tra i quali una bambina di cinque anni.
E cosa sta accadendo?
Ci avevano detto che avrebbero acceso il riscaldamento a ottobre, e invece siamo a Natale ed è ancora tutto spento. Fa freddo. Lunedì scorso ci hanno chiuso l’acqua e da lunedì prossimo, ci hanno annunciato, saremo anche senza gas. Sa cosa significa?
Che il servizio non si può più garantire?
Che le persone non si possono lavare, non possono bere, non possono tirare lo sciacquone quando vanno in bagno. E che l’impresa di pulizie non può pulire. Finora abbiamo provveduto con le bottiglie d’acqua. Il problema è che le stiamo pagando di
più.
Vuol dire che dalla cooperativa non arriva più un euro?
Vuol dire che abbiamo finito il fondo cassa da un po’ e che, siccome siamo in amministrazione controllata, anche se con un nuovo Consiglio di amministrazione, fino al 28 dicembre nessuno ha intenzione di far nulla. Noi operatori abbiamo messo mano al portafogli, ma adesso non ce la facciamo più.
Almeno voi siete salvi?
Non riceviamo lo stipendio da due mesi e della tredicesima non si parla nemmeno: parliamo di 1.100 euro al mese con turni di 12 ore, non creda chissà che. Fino al 28 dicembre, quando hanno detto che ci convocheranno, non sapremo se potremo andare a lavorare il primo gennaio. Però, mi creda, la preoccupazione principale è per questi ragazzi. Qui non si tratta di mangiare il panettone a Natale, qui si tratta di mangiare e basta. E pure di curarsi.
In che senso?
Trentatré degli ospiti hanno contratto il virus della tubercolosi in Africa e, per non ammalarsi, si devono sottoporre a una terapia continuativa per sei mesi. Sono tre settimane che non prendono nulla, perché non abbiamo neanche più i soldi per le medicine. Alcuni operatori hanno provveduto ai medicinali da banco, pagandoli di tasca propria. Ma, anche se ci spinge una passione immensa per questo lavoro – altrimenti non lo faremmo – non è volontariato.
Salvatore Buzzi era a capo di tutto il sistema. L’ha mai visto? E cosa pensa di lui?
Che deve marcire in galera. Buzzi lo conoscono tutti, si presentava in ogni centro. Prima che venisse fuori questo schifo, pensavo che potesse aver fatto degli impicci, certo, perché per vincere appalti così grandi devi aver fatto degli impicci. Ma da qua a dire che c’ha gli impicci con Carminati, è un altro discorso. Non è una mazzetta qualunque, qua si parla di terrorismo.
Ed è questo a farle rabbia?
Non solo. Quello che mi fa più schifo è che Buzzi ha sfruttato la sofferenza di queste persone e la nostra passione per il lavoro.
Si è visto qualcuno dei politici qui, da quando è venuta fuori l’inchiesta?
Nessuno. Cgil, Cisl e Uil ci hanno assicurato che faranno il possibile per salvare i posti di lavoro, ma io finché non vedo qualcosa di concreto non credo più a nessuno. Per quanto riguarda il riscaldamento, per esempio, finora c’è stato solo un rimpallo di responsabilità tra la coop e il Comune di Ciampino. Intanto ai ragazzi abbiamo dovuto dare due coperte ciascuno e qualche stufetta.
E lunedì prossimo, quando non potrete più nemmeno cucinare?
Finora abbiamo detto loro che ad avere problemi con l’acqua è tutta Ciampino, non solo noi. Altrimenti la rabbia, palpabile ogni giorno, sarebbe cresciuta. Lunedì non so proprio cosa ci inventeremo. Il rischio concreto è quello di una rivolta.

il Fatto 20.12.14
Buon anno ai rom e ai sinti del nostro Paese
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, a proposito dei vostri articoli sui campi nomadi come centro d’affari per Mafia Capitale, volevo segnalare queste parole di Rita Bernardini, allora deputata radicale: “Torno da una visita a un campo rom di Roma. È un posto ai confini della realtà, dove le istituzioni ghettizzano centinaia di donne, uomini, bambini (tanti) vecchi (pochi, perché la vita media nei campi rom è di poco superiore ai 50 anni). Li deportano nei campi, nei ghetti, spendono decine di milioni per allestire questi squallidi luoghi di emarginazione. Sono convinta che mazzette consistenti siano andate a finire nelle tasche di chi ha gestito “l’emergenza nomadi”.
Enrico Salvatori

RINGRAZIO Enrico Salvatori per avere ricordato questo intervento di Rita Bernardini, una precisa accusa e anticipazione dei tempi, che diventeranno poi indagine e incriminazione nelle dimensioni che sappiamo, ma che al momento non ha provocato la minima reazione o tentativo di risposta da parte di Parlamento o governo. La tecnica è sempre stata di trattare denunce come queste, benché precise e tempestive, come sfogo polemico da parte di chi si dà come scopo di disturbare il buon lavoro del potere. Eppure vale la pena di ricordare le parole della Bernardini perché mentre è giusto che siano sotto inchiesta e sotto processo le persone fisiche che sono state colte sul fatto (il fatto è rubare danaro pubblico, ma anche trattare con disprezzo, indifferenza, crudeltà la vita degli altri) continua a mancare il contesto e dunque il giudizio sulle condizioni che ci sono prima del delitto e permangono dopo il delitto, indipendentemente dalle frasi liberatorie “chi sbaglia paga” e “i corrotti vanno a casa”. Riconosciamo che, con queste due frasi è stato fatto un passo avanti rispetto alla diffusa abitudine di chiamare a sempre nuovi incarichi personaggi come quelli indagati. Riconosciamo che è stata costituita una Autorità contro la corruzione (presidente Cantone) che deve fare in modo che si arrivi il più presto possibile (o addirittura sul nascere) a identificare eventi e persone tipo “la mafia capitale”. Resta il fatto che i radar restano ciechi sulla maggior parte della nostra vita pubblica. Il problema non è di mettere “metal detector” dappertutto in una specie di mondo-aeroporto. Ma di riorganizzare daccapo la vita pubblica in modo che il rendiconto diventi, non tanto (non solo) un dovere di legge, ma un comportamento normale, istintivo e diffuso. Pensate per un istante all’Expo. Si apre portandosi addosso la sua brutta immagine di furto e non ne appare libera neppure adesso, perché la distanza fra eventi costosissimi e informazione dei cittadini rimane immensa e inesplorata. Lo stesso vale per il Mose o “Mafia Capitale”. Sappiamo tutto sul brutto passato dei protagonisti e sulla presente determinazione dei giudici di accertare ogni responsabilità. Ma appena ricomincia la vita e, per esempio, si parla di Olimpiadi romane per il 2024, di nuovo comincia il percorso lungo e oscuro che un giorno, forse, i giudici chiariranno. Ma dopo, a fine percorso.

La Stampa 20.12.14
“Non è abbandono di minore se la bambina è rom”
E il giudice assolve il padre
di Marco Birolini


Lasciare sola in strada una bimba nomade non è abbandono di minore. Il provocatorio principio è stato fissato dal giudice di Bergamo Tino Palestra, che in udienza preliminare ha deciso di non procedere nei confronti di Murat Halilovic, bosniaco 48enne definito con arguzia «diversamente integrato (volgarmente zingaro)» dal magistrato. Nel settembre scorso l’uomo aveva lasciato Stella, la figlia di 7 anni, sulla scalinata delle Poste centrali, mentre lui si allontanava per chiedere l’elemosina. I passanti avevano subito avvisato la polizia locale. Gli agenti erano intervenuti e avevano riconsegnato la bimba al padre, salvo poi denunciarlo per abbandono. Una fattispecie che però secondo Palestra non sussiste, in quanto la circostanza non esponeva la piccola «a nessun tipo di pericolo». Non solo perché l’abbandono era «programmaticamente momentaneo», ma soprattutto perché - ed è il passaggio più audace - non c’è nessun rischio «quando i bambini stessi sono abituati a certe situazioni e conoscono perfettamente lo stile di vita nel quale sono destinati a crescere, senza che lo Stato-tutela ritenga di intervenire in alcun modo». Quasi ad anticipare le obiezioni perbeniste, il giudice puntualizza: «Dirlo sembra cinico, se non addirittura velato di razzismo, ma è semplicemente realistico». Infatti Stella non piangeva né sembrava in difficoltà, né si sa se chiedesse l’elemosina. Semmai sembrava «rassegnata alla sua condizione sociale».
Palestra poteva sbrigarsela in fretta e senza rumore, affibbiando al genitore qualche mese di reclusione con la condizionale. Ma ha evitato una decisione che nulla avrebbe cambiato nella condizione della bambina e di tanti altri ragazzini che ogni giorno, come lei, sono costretti a vivere in strada. Palestra non le manda a dire ai vigili, che non solo riconsegnano la figlia al bosniaco dopo poche decine di minuti ma, pur conoscendo bene i soggetti, «non ritengono di dovere/potere attivare qualche agenzia di assistenza». Il gup rimarca anche che «non si sa da quanto la bambina fosse lì, chi ce l’avesse portata, se fosse un’abitudine e se andava a scuola, con chi viveva ecc. ecc., semplicemente perché nessuno glielo ha chiesto».
La stessa «reazione» (le virgolette sono del giudice) dell’ordinamento non va oltre la decisione della Procura minorile di «disporre il (ri)affidamento di Stella al genitore, di fatto valutando come non abbandono - nel senso pregnante del termine - ciò che Halilovic aveva appena fatto, e così chiudendo l’incidente». La macchina della giustizia, inesorabile, ha poi proseguito il suo corso. Finché Palestra ha fermato gli ingranaggi, spiegando che – almeno lui - non se ne sarebbe lavato le mani.

Repubblica 20.12.14
L’ultima follia per aiutare i musei “Le opere d’arte negli alberghi”
Nel mondo l’impresa privata concorre a mantenere il patrimonio pubblico attraverso il mecenatismo. In Italia si sceglie il contrario
di Tomaso Montanari


LE OPERE dei depositi dei musei italiani rimangono l’oscuro oggetto dei desideri di coloro che in quei depositi non hanno mai messo piede. Ora il presidente di Federalberghi (nonché senatore di Forza Italia, nonché membro del comitato di presidenza di Civita) Bernabò Bocca rilancia l’idea.
CONCEDERE quelle opere in comodato d’uso ai trentaquattromila hotel italiani, perché ci arredino le hall. Plaude Philippe Daverio («Almeno le opere d’arte abbandonate negli scantinati serviranno a qualcosa»), plaude perfino il senatore Corradino Mineo, qui allineatissimo alla maggioranza. E non dice no la sottosegretaria ai Beni Culturali, Ilaria Borletti Buitoni: «Noi non abbiamo preclusioni, la proposta è suggestiva ».
Sorvoliamo (per un attimo) sui problemi di conservazione e sicurezza, e sul fatto che queste preziose riserve sono (in tutto il mondo) i polmoni dei musei: che “respirano” studiandoli, esponendoli a rotazione, permettendone la visita a chi ne faccia richiesta.
Sorvoliamo. E concentriamoci sulla “politica culturale” che una simile proposta presuppone. In tutto il mondo l’impresa privata concorre a mantenere il patrimonio culturale pubblico non sostituendosi allo Stato, ma sommandosi all’azione di quest’ultimo. E lo fa attraverso il mecenatismo: cioè attraverso atti di generosità senza ritorni immediati. In Italia, al contrario, si è scelta la strada delle sponsorizzazioni: operazioni commerciali che fanno leva sul patrimonio pubblico. E ora si vorrebbe fare un altro passo su questa strada: si vorrebbe che fosse lo Stato a fare il mecenate per l’impresa privata, concedendo in comodato gratuito alle grandi catene alberghiere le opere d’arte che appartengono a tutti, anche agli indigenti. E dal mecenatismo allo sfruttamento privato di un bene pubblico c’è davvero un bel tratto di strada.
Allora uno è costretto perfino a rivalutare (si fa per dire) l’idea avanzata da Domenico Scilipoti (proprio lui) e poi da Laura Puppato, e perfino dalla Commissione dei Saggi del Quirinale: che era quella di affittare quelle stesse opere ai privati, ma almeno a titolo oneroso. Perché forse sarebbe troppo desiderare un Paese in cui gli albergatori si occupino di portare i nostri alberghi ad un livello europeo, e lo Stato si occupi di mantenere dignitosamente i nostri musei, depositi compresi. Senza noleggi, affitti e comodati. Come se fossimo un Paese civile. O, almeno, ci provassimo.

Repubblica 20.12.14
Amianto all’Olivetti chiesto il processo per De Benedetti Passera e Colaninno
Morti sospette, coinvolti trentatré manager L’ingegnere: “Durante la mia gestione massima attenzione alla salute dei lavoratori”
di Paolo Griseri


IVREA La procura di Ivrea ha chiesto il rinvio a giudizio per i vertici della Olivetti a partire dagli anni Ottanta. I manager coinvolti sono 33. Tra questi gli ex amministratori delegati Carlo De Benedetti, Franco Debenedetti, Corrado Passera e Roberto Colaninno. Gli indagati sono accusati di omicidio colposo e lesioni colpose per 15 casi di tumore ai polmoni e altre gravi patologie dovute al contatto con fibre d’amianto. Secondo la ricostruzione dell’accusa, le fibre erano contenute in equipaggiamenti da lavoro (come tute e guanti) e nel talco utilizzato per proteggere le parti in gomma. Al momento della chiusura indagini, nel settembre scorso, i pm Laura Longo e Lorenzo Boscagli avevano incluso 39 persone nell’elenco degli indagati. Oggi per 6 di loro la stessa procura ha chiesto l’archiviazione. L’udienza preliminare è prevista per il prossimo mese di marzo anche se la data non è stata ancora fissata.
La richiesta di rinvio a giudizio è stata accolta positivamente dai legali dei familiari delle vittime e dai sindacati: «Al di là delle responsabilità individuali ci attendiamo che i vertici dell’azienda si assumano la responsabilità morale dell’accaduto», ha detto l’avvocato Laura D’Amico. La Fiom in questi mesi ha aperto uno sportello per segnalare i casi di ex dipendenti ammalati di mesotelioma. «Quella dei morti per amianto alla Olivetti è una pagina tragica in una grande storia industriale e per questo è importante che vengano accertate le responsabilità personali di chi ha diretto l’azienda», ha commentato il segretario torinese Federico Bellono.
Il presidente del Gruppo Espresso, Carlo De Benedetti, ha «preso atto» della richiesta di rinvio a giudizio ma, si legge in una nota del suo portavoce, «insiste nel ribadire la propria estraneità ai fatti contestati e ha fiducia che di fronte al giudice per l’udienza preliminare possano essere chiariti i singoli ruoli e le specifiche funzioni svolte all’interno dell’articolato assetto aziendale di Olivetti». È prevedibile infatti che, se il gup deciderà per il rinvio a giudizio, il processo si giocherà in gran parte sulla catena di comando dell’azienda e sulle responsabilità e le deleghe che all’epoca gravavano sui manager ai diversi livelli. «La corposa indagine dei pubblici ministeri - prosegue la nota del portavoce dell’Ingegnere - deve ancora essere sottoposta al vaglio di un giudice e si basa su mere ipotesi, come dimostra il coinvolgimento di persone che non avevano alcuna responsabilità operativa nella società. L’ingegner De Benedetti ricorda che, per quanto di sua competenza, l’Olivetti ha sempre prestato la massima attenzione alla salute e alla sicurezza dei lavoratori con misure adeguate alla normative e alla conoscenza scientifiche dell’epoca». Sulla vicenda è intervenuto in serata anche l’ex ad Roberto Colaninno sottolineando che i fatti a lui addebitati «si riferiscono al solo reato di lesioni colpose e per un solo caso», aggiungendo che «non è mai stata portata alla mia attenzione alcuna problematica relativa alla presenza di amianto nei luoghi di lavoro ». Nelle ultime settimane alcuni degli indagati avevano presentato ai pm memorie difensive. Ma in una dichiarazione all’agenzia Ansa il procuratore capo di Ivrea, Giuseppe Ferrando ha invece sottolineato che «il vaglio fatto dalla procura non ha consentito di effettuare archiviazioni se non per posizioni marginali». In questi ultimi mesi si è aperta a Ivrea una seconda indagine, la Olivetti bis, su altri dieci ex dipendenti che si sono ammalati di mesotelioma.

Repubblica 20.12.14
Malagiustizia e libertà di inquinare
di Giovanni Valentini


L’INQUINAMENTO assolto, la giustizia negata. Quando andai a Bussi a marzo per vedere con i miei occhi la “discarica dei veleni”, sapevo che era considerata la più grande d’Europa.
MA NON potevo sapere che sarebbe stata definitivamente “intombata”, sepolta sotto una montagna di carta bollata. Una bomba ecologica, a scoppio ritardato, disinnescata dalle lentezze e dai ritardi della malagiustizia.
Quella minaccia, in realtà, incombe ancora sull’ambiente e sulla salute collettiva, se è vero — come hanno rivelato poi le perizie tecniche agli atti del processo e come sostiene l’Avvocatura dello Stato — che l’avvelenamento delle acque s’è esteso fino alla costa adriatica e continua tuttora a inquinare le falde. E chissà quanti danni, alla natura e alla popolazione, avrà prodotto nel frattempo o potrà continuare a produrre in futuro. Come alla Thyssen di Torino o all’Ilva di Taranto, da un capo all’altro del Malpaese.
Ma si sa che, soprattutto in questo campo, i tempi della giustizia italiana non si conciliano purtroppo con la ricerca della verità. Destinata anch’essa a essere sepolta insieme alle 250mila tonnellate di rifiuti tossici e scarti industriali che sono stati disseminati nel corso degli anni su una superficie di 30 ettari, tutt’intorno al polo chimico dell’ex Montedison. Un disastro ambientale consumato in nome di un malinteso sviluppo, proprio nel paradiso dei Parchi d’Abruzzo, tra il Gran Sasso e la Maiella. All’università, s’insegna agli studenti di Giurisprudenza che la certezza del diritto si fonda sulla tempestività della pena. Una sentenza che arriva troppo tardi, quale che sia, non fa più giustizia. Qui, però, non arriva più, non arriva affatto, in un cortocircuito di responsabilità che ancora una volta manda in tilt la credibilità dell’apparato giudiziario e “brucia” la fiducia dei cittadini.
L’inaccettabile paradosso è che il disastro c’è, ma il reato viene prescritto. Senza poter cancellare, tuttavia, né l’uno né l’altro. Il disastro viene “derubricato”, come dicono i giuristi, da doloso a colposo e quindi scadono i termini per punire gli imputati. In pratica, secondo questa sconcertante sentenza, i dirigenti dello stabilimento chiamati a risponderne non sapevano di inquinare e non volevano inquinare, contro la tesi della consapevolezza — sostenuta invece dall’accusa — al fine di risparmiare sui costi della bonifica.
Sta di fatto che tra il 1963 e il ‘71, all’epoca in cui la discarica fu realizzata, non esistevano norme di tutela ambientale e perciò non costituiva un illecito. Oggi, forse, non sarebbe più così. Ma ecco un motivo ulteriore per introdurre gli ecoreati nel Codice penale — come gli ambientalisti reclamano da sempre — proprio per rendere le pene più severe e più certe, anche in rapporto alla durata dell’inquinamento e dei suoi effetti più nefasti, a rilascio prolungato.
C’è voluto molto tempo prima che l’opinione pubblica cominciasse ad acquisire coscienza dei limiti e delle regole che devono presiedere alla salvaguardia della natura e della salute. Prima che la cultura ambientalista diventasse, insomma, senso comune. La “vergogna di Bussi” sta lì a indicare, però, che è ancora necessario codificare questi principi e questi valori, per tutelare la nostra sopravvivenza: lo dobbiamo a noi stessi e soprattutto alle generazioni future.

Repubblica 20.12.14
Bollette nei rifiuti e carte clonate così dilaga in Italia il furto di identità
Dati Crif: donne le vittime principali Il picco delle truffe si registra a Natale nel mirino soprattutto gli acquisti a rate
di Rosaria Amato


ROMA Al momento di acquistare un computer Claudia, 33 anni, romana, si è sentita dire che non poteva pagarlo a rate perché aveva già ricevuto un finanziamento circa un anno fa, ed era in ritardo con i pagamenti. Con molta fatica è risalita all’acquisto: si trattava di un impianto Hi-Fi comprato in un negozio di Latina. L’acquirente aveva la carta d’identità di Claudia, solo che al posto della sua foto c’era quella di una donna che tempo addietro le aveva fatto un colloquio per assumerla come baby sitter, chiedendole appunto la fotocopia del documento. Giacomo e Letizia, una giovane coppia calabrese, hanno perso la caparra versata per l’acquisto di una casa, perché al momento di chiedere il mutuo la banca ha detto no: a loro nome risultava l’acquisto di un’auto mai pagata. Nei primi sei mesi del 2014, secondo l’Osservatorio Crif, ci sono stati in Italia più di 9.000 frodi, con un aumento dell’importo medio del 7%. I malviventi - e non si tratta solo di individui, perché cresce sempre di più il coinvolgimento della criminalità organizzata - non utilizzano né armi né passamontagna: si limitano ad appropriarsi dei dati di un’altra persona, e a suo nome e per suo conto comprano qualcosa che non hanno alcuna intenzione di pagare. Nel 18% dei casi, la vittima viene a conoscenza della frode dopo tre anni o più. E più tempo passa, più è difficile scoprire il vero colpevole e, spiega il Crif, «ripristinare la reputazione creditizia della vittima».
La conseguenza peggiore del furto d’identità è la perdita diretta di danaro (nel 41% dei casi): i truffatori si appropriano del conto in banca, o prelevano somme di danaro con un bancomat clonato. I “ladri d’identità”, però, ora si stanno orientando verso una modalità più subdola: preferiscono infatti presentarsi in un negozio con una carta d’identità fasulla, rubata o fotocopiata o ricostruita attraverso dati trovati in rete (i social network sono fonti inesauribili), comprare un oggetto di valore, chiedendo un finanziamento a lunga scadenza, con preferenza per rate che s’iniziano a pagare da sei mesi a un anno dopo l’acquisto. Nell’80,1% dei casi la frode creditizia si attua infatti attraverso un prestito finalizzato: nel 43% dei casi si tratta di piccole somme, inferiori ai 1500 euro, ma c’è anche un bel 27% di finanziamenti di importo superiore ai 10.000 euro. Nel mirino soprattutto i negozi di elettrodomestici, elettronica, informatica e telefonia, destinatari del 53,7% delle richieste di finanziamento fraudolente. Tanto che il Crif lancia “l’allarme Natale”: «Per questo periodo - spiega Beatrice Rubini, direttore della linea Mister-Credit di Crif - ci aspettiamo un picco di casi in concomitanza con l’accentuarsi dei consumi che vengono finanziati durante le festività natalizie». Il rimanente 20% è quanto mai vario: si va dal “phishing” che permette di carpire i dati bancari rubando soldi dai conti on line all’appropriazione dell’identità altrui, defunti compresi, perché si ha bisogno di un nuovo nome. A volte i dati vengono utilizzati anche per motivi che apparentemente non danneggiano il frodato, per esempio per ottenere prestazioni sanitarie.
Naturalmente la raccomandazione degli operatori e delle associazioni dei consumatori è di «porre la massima attenzione a tutto ciò che viene condiviso online »: siti e social network sono fonti di informazioni preziosissime sulle persone, ci si trova tutto, titoli di studio, date di nascita, figli, professione, interessi. La maggior parte delle vittime sono infatti nella fascia d’età che più utilizza Internet: il 25,6% ha tra i 31 e i 40 anni e il 24,8% dai 18 ai 30. Eppure il Crif ha rilevato un corposo aumento, del 27,6%, delle frodi a danno degli ultrasessantenni: ci sono anche metodi non legati a Internet per appropriarsi dei dati personali di altri, si può rubare la posta, recuperare bollette o altra corrispondenza frugando nella spazzatura, si possono chiedere i dati direttamente all’interessato, con una buona scusa (la stipula di un finto contratto di fornitura di energia elettrica, per esempio).
Sei frodi creditizie su dieci sono a danno di uomini, anche se il numero delle donne è in crescita. Quanto alle aree del Paese, la maggiore incidenza è in Campania (17,5%), seguita da Sicilia e Lombardia.

Corriere 20.12.14
La violenza psicologica come reato
Cameron promette 5 anni di carcere
di Fabio Vavalera


Tutto nasce da una ricerca del ministero dell’Interno britannico che, preoccupato dal numero di denunce sulle violenze domestiche, ha voluto capire meglio le dimensioni del fenomeno e studiare i possibili rimedi. Ne è venuto fuori che il 30% delle donne e il 15% degli uomini subisce in casa forme di violenza psicologica da parte dei partner e che l’85% della popolazione ritiene le norme in vigore poco efficaci. Da qui nasce l’impegno del governo Cameron di promulgare in tempi stretti una legge che prevede un nuovo reato, «il comportamento coercitivo e il controllo invasivo», associato a una pena fino a 5 anni di carcere. In parole povere la moglie, la compagna, la convivente (e viceversa) che si vedono impedite o a frequentare gli amici o a praticare gli hobby preferiti o ad andare al cinema da sole e a controllare o movimentare per necessità i conti in banca potranno denunciare e fare condannare l’altra metà a una pena esemplare e liberarsi da quello che la conservatrice Theresa May ha bollato come «un abuso che equivale alla tortura». La violenza psicologica è un crimine subdolo che resta nascosto nelle pieghe di relazioni prive di amore. Spesso è difficile da smascherare, si circonda di omertà e di falsità, si fonda su una cultura ancora diffusa di prevaricazione, di misoginia e di potere dispotico esercitato in ambiente familiare. Potrà sembrare strano che lo Stato britannico, sempre attento a non invadere la sfera delle relazioni private, si contraddica introducendo una specifica tipologia sconosciuta al diritto consuetudinario, il «coercive and controlling behaviour». Ma le intimidazioni e le umiliazioni più infide sono violenza che si vede poco, però pur sempre violenza. E allora ben venga la svolta di Londra che finalmente accetta uno dei cardini del diritto romano: «dura lex sed lex» contro i tiranni nelle coppie.

Repubblica 20.12.14
Il disgelo Usa-Cuba
Nella villa bunker di Fidel l’invisibile líder máximo regista occulto della svolta
di Omero Ciai


L’AVANA TUTTI i pomeriggi verso le cinque Fidel Castro beve un grande bicchiere di spremuta d’arancia e mangia qualche sedano: agenti antiossidanti contro il cancro e un toccasana per la malattia che lo ha portato due volte, nel 1992 e nel 2006, a un passo dalla morte. La diverticolite nell’intestino.
Arance e sedani, come moltissime altre cose vengono prodotti in loco, nella grande fattoria, si chiama “Punto Cero”, che circonda la sua villa dell’Avana, quartiere di Siboney. L’abbiamo intravista ieri sbirciando oltre la vasta vegetazione che l’abbraccia. La strada che gira intorno alla fattoria della famiglia di Fidel è l’unica senza traffico in città. Ogni cento metri una videocamera di sicurezza. Tre accessi con la sbarra e il gabbiotto dei soldati. Praticamente è un fortino e se, per caso, qualcuno si ferma in meno di due minuti arriva la macchina della polizia. Prima chiedono i documenti, subito dopo danno l’ordine di sloggiare in fretta. C’è anche il cartello che proibisce di scattare fotografie.
Che il potere debba essere invisibile e superprotetto è da sempre una prassi dell’anziano líder maxímo. Così a pochi giorni dalla svolta di Obama e Raúl, in assenza di dichiarazioni ufficiali, sul pensiero del patriarca si può soltanto speculare. Deve averlo saputo qui, dietro questi enormi alberi, il fogliame e la recinzione che nascondono tutto. Nel suo studio o nel salotto, dove il fratello Raúl — questo è certo — si reca spesso a salutarlo.
La casa di Raúl, si chiama “La Rinconada”, invisibile come quella di Fidel, è a meno di mezzo chilometro in linea d’aria. Come, sempre a meno di mezzo chilometro, c’è il Cimeq, la clinica super accessoriata per i dignitari del regime dove venne operato per tre volte Hugo Chávez. E dove probabilmente il caudillo venezuelano morì prima di essere riportato a Caracas. Molti dettagli riservati della vita di Fidel li ha rivelati in un libro — “La vie cachée de Fidel Castro” — uscito a Parigi qualche mese fa, un bodyguard della sua scorta, Juan Reynaldo Sanchez, fuggito in Florida nel 2008. Le descrizioni sono abbastanza eccezionali. Secondo Sanchez, “el Caballo”, vecchio soprannome popolare del leader, governava l’isola come un signorotto medievale cui ogni cosa era permessa. Case in ogni dove, zone riservate per la caccia e per la pesca (Fidel adorava quella subacquea), e “Punto Cero”, dove si produce tutto quello che lui e la sua famiglia mangiano, comprese le mucche per il latte di tutti giorni su un’isola dove per decenni tutti gli altri hanno bevuto solo quello in polvere che arrivava dall’Urss.
Fidel ha sempre giustificato la più assoluta segretezza con la necessità della sicurezza sua e della sua famiglia. Necessaria per la serie di attentati falliti — ma molti sono inventati dalla propaganda — che ha subìto dalla Cia. Ma è ovvio che c’è molto di più: l’invisibilità incute terrore e innalza il mito dal resto dei mortali.
Sull’Avana splende un tiepido sole, è alta stagione, il dolce inverno dei Caraibi: «Tra due mesi avremo le Marlboro», dice il proprietario di uno dei tanti piccoli caffè privati all’aperto nelle strade intorno al vecchio centro coloniale della città sorti con le riforme economiche promosse da Raúl. Ma intorno a lui gli avventori sperano in molto di più. Si va dal famoso slogan di Deng («Compagni arricchitevi ») che fece esplodere l’economia cinese al «Benvenuto Mr. Marshall», l’imponente programma di aiuti americani all’Europa della post guerra contro il nazismo. In molti sono convinti che inizia un’altra era, senza la povertà e le carestie che hanno scandito i lunghi anni dell’avventura socialista. Arriveranno gli yankee e gli investimenti per ricostruire le facciate sfregiate dei palazzi, l’asfalto scassato delle strade e i marciapiedi butterati. Ma soprattutto arriveranno nuove opportunità di affari e lavoro per tutti.
Nelle stanze del potere le cose non stanno esattamente così. È la pace dei vincitori quella che Raúl vuole firmare con l’America tenendo ben lontani i vinti, la vecchia cricca degli anticastristi sconfitti che stanno a Miami, dagli eventuali prossimi bottini economici. E per questo tanti pensano che dietro alle mosse del fratello ci sia la celebre astuzia di Fidel che, di certo, non può non gioire di fronte a un presidente americano che, finalmente, riconosce in mondovisione che l’embargo e tutta la politica degli Stati Uniti verso la sua Cuba sono stati un clamoroso, quanto inutile sbaglio.
È come se attraverso Raúl, che si assume tutti i rischi di un gesto che forse lui non avrebbe potuto compiere, Fidel abbia vinto ancora una volta. Come quando scese dalla Sierra o come quando respinse, in tre giorni di guerra, l’invasione della Baia dei Porci. Ha vinto ancora, ora che l’America non si propone più di abbattere con qualsiasi mezzo disponibile né lui, né l’eredita che ha lasciato. Ma vuole collaborare perché «Somos todos americanos». Anche se fosse l’ultima è la sua vittoria più bella perché nessuno sta più chiedendo all’isola che conquistò con la guerriglia all’alba del 1959 di cambiare regole per essere accolta nel consesso internazionale. Il partito unico, la censura alla stampa, la caccia ai dissidenti prima o poi finiranno. Ma finiranno quando lo decideranno Raúl e gli oligarchi dell’esercito che lo circondano, o i loro eredi, e non perché lo pretende, affamandoli e combattendoli, il nemico di sempre.
La morale piaccia o non piaccia sta qui. Per questo molti repubblicani Usa e i congressisti cubani della Florida sono furibondi. Il regime di Cuba li ha messi ancora una volta fuorigioco. Non contano nulla, come gli sconfitti di ieri, in questa partita. Allora da qualche parte in questa storia ci dev’essere la leggendaria sagacia politica del “Caballo” che morirà nel suo letto di “Punto Cero” dopo aver fatto per decenni di quest’isola quello che ha voluto.

Repubblica 20.12.14
Mariela Castro
“Mio zio è felice ha sicuramente preso parte alle trattative”
intervista di Chritiane Amanpour


LA SVOLTA nelle elazioni tra Cuba e Usa sta avendo grande risonanza globale. Ne parla per la prima volta un membro della famiglia Castro: Mariela Castro Espín, membro del parlamento e figlia del presidente cubano Raúl.
Signora Castro, come vede questa svolta?
«È una cosa che che abbiamo sempre voluto fin dall’inizio della rivoluzione così come era stato annunciato da Fidel».
Suo zio Fidel ne è a conoscenza? Cosa ne pensa?
«Non lo so, ma credo che molto presto scriverà le sue riflessioni, come sempre. Sono sicura, comunque, che sia contento; sicuramente ha preso parte a questo processo di negoziazione ».
Lei ne era al corrente?
«Non ne avevo la più pallida idea. Sono rimasta sorpresa come tutti i cubani, come tutto il mondo. Non lavoro insieme a mio padre, ognuno di noi fa il suo lavoro».
Che cosa era più importante per il governo di Cuba, il rilascio dei tre agenti o il ritiro delle sanzioni?
«Sono importanti entrambi. Se avessi dovuto scegliere, avrei scelto prima il rilascio dei Cinque e poi le negoziazioni. Questo è un passo molto importante e vorrei congratularmi con entrambe le parti per aver fatto le due cose insieme».
Quali sono i suoi commenti sul presidente Obama?
«Innanzi tutto, vorrei congratularmi con lui per il suo coraggio. Ciò che più desideravo è che il presidente Obama passasse alla storia come il presidente statunitense che aveva messo fine all’embargo e liberato i Cinque. Non ho mai pensato che fosse un’utopia».

Corriere 20.12.14
Stalin incombe, Prokofiev sorride
Le Sinfonie sono un monumento. E il valzer della Settima è pura vita
di Paolo Isotta

Uno degli avvenimenti musicali più importanti dell’anno è stato il «Festival Prokofiev» svoltosi la settimana scorsa per l’Accademia di Santa Cecilia. Un’orchestra in gran forma ha eseguito le Sinfonie del genio russo sotto la guida di Valery Gergiev: ed è stata la volta che ho visto meglio prodursi questo direttore immensamente dotato ma discontinuo e a volte addirittura poco serio. Qui egli ha diretto il ciclo con grande consapevolezza della fondamentale unità stilistica e di ethos, pur nella grande diversità, di queste opere, dalla Seconda alla Settima (la Prima è cosa sui generis , come diremo); con grande lucidità tecnica e interpretativa; con scioltezza e sicurezza; e persino con un gesto inconsuetamente contenuto, il che di questi tempi è una rarità.
Il massiccio delle Sinfonie di Prokofiev si contrappone, pur se lievemente meno elevato, nella prima metà del Novecento a quello altissimo delle Sinfonie di Sciostakovic; e costituisce anch’esso un terribile monito compositivo ai musicisti ricorrenti alla formula, quale che sia. Con quest’articolo io continuo la palinodia nei confronti dei Mani di Prokofiev che ho incominciata a giugno dopo l’esecuzione de L’amore delle tre melarance al Maggio musicale fiorentino; Mani da me lungamente offesi. Mi è guida, innanzitutto, la voce dedicata al Maestro russo dal sommo Guido Pannain sull’ Enciclopedia musicale Utet nella prima edizione; malamente sostituita nella successiva, come anche per la voce dedicata a Wagner: al suo posto ne è stata collocata una scritta da un celebre fantasista.
La Prima Sinfonia, risalente al 1917, è la più conosciuta delle sette per la sua amabilità neoclassica; e porta infatti il titolo di Classica per il rifarsi allo stile di Haydn. È un pezzo piacevole ma niente di più; e giacché nel 1912 Franco Alfano scrive la sua Sinfonia classica , di un livello e di una complessità armonica e formale pur nella cristallinità dell’impianto da poter essere accostata solo alla musica di Ravel, di Roussel e di Schmitt (ponendosi quindi ben al di sopra di Hindemith e Honegger), il caso della Prima di Prokofiev andrebbe chiuso qui.
La Seconda è invece tra i più importanti monumenti sinfonici del Novecento; e mi pare, insieme con il Giuocatore , da Dostoevskij, e l’ Angelo di fuoco , una delle poche opere autenticamente tragiche di Prokofiev. Il primo movimento è un atroce perpetuum mobile basato su di un ostinato ritmico che pare dipingere il macchinismo del predominio della tecnica nel mondo; e l’orchestra è trasformata in un gigantesco, inesorabile apparato percussivo. Il secondo movimento ne racchiude in realtà tre: a un meraviglioso stormire di zefiri succede un’affermazione vitalistica seguita da un aspro Corale, di nuovo pessimistico; onde, non possedendo tale Corale natura sintetica e conclusiva, tu non sai qual sia la parola ultima della Sinfonia. Prokofiev è anima profondissimamente russa; eppure l’ultima strofe di Quaternario di Gottfried Benn vale a perfettamente descrivere il secondo tempo della Sinfonia: «(...) – scene / ma nessuna ti dà la certezza / se l’ultima cosa sia il pianto / o l’ultima cosa il piacere / o ambedue un arcobaleno / che frange alcuni colori, / riflesso oppure menzogna - / tu non lo sai, non lo sai». Già nella Terza e nella Quarta s’introduce un elemento, dal Pannain definito «beffardo e sardonico», ch’è affatto altra cosa dal grottesco nichilista di Sciostakovic, e che io denominerei Chout , dal titolo del bellissimo Balletto Chout il buffone . Esso erode la compattezza degli stessi primi tempi di Sinfonia, oltre a occupare il luogo dello Scherzo.
Esemplare il caso della Quinta , con uno Scherzo mirabile, e un primo tempo e un tempo lento di quella lancinante intensità melodica propria al nostro Autore. Se questa Sinfonia non possedesse un debole Finale sarebbe un capolavoro assoluto alla stregua della Seconda . A mio disdoro debbo confessare che ho fatto trascorrere esattamente quarant’anni fra il primo e il secondo mio ascolto della Sinfonia. L’avevo apprezzata nel 1974 in un’esecuzione diretta alla Scala dal grande Mtislav Rostropovich.
Prokofiev era così profondamente russo da non resistere lontano dalla patria ancorché questa giacesse sotto la tirannide staliniana; e dai burocrati di partito, assai più illiberali del medesimo Stalin, ebbe a subire persecuzioni che lo fiaccarono.
Oso tuttavia dissentire dal mio Maestro Pannain il quale dice di una dimidiata capacità creativa degli ultimi anni di Sergej; la Settima Sinfonia possiede un’intensità melodica così, mi ripeto, lancinante, e una tale translucidità timbrica, che mi pare vada accostata ai capolavori orchestrali di Olivier Messiaen. Al centro di essa un lungo, complesso e raffinato Valzer: sebbene esso possegga caratteri prettamente novecenteschi non emana da esso l’ethos spettrale emanante dalla Valse di Ravel e dai Valzer di Mahler e Sciostakovic. Sergej non riesce a impedirsi di sorridere.

Corriere 20.12.14
Dossier in conclave, così trionfò l’Inquisizione


Massimo Firpo narra gli intrighi e l’ascesa al potere di Papa Paolo IV Il 29 novembre 1549 si aprì un drammatico conclave per eleggere il successore di Paolo III, il Papa che, convocando il Concilio a Trento, aveva cercato di riformare la Chiesa cattolica per rispondere alla sfida protestante.
Grande favorito appariva il cardinale inglese Reginald Pole, raffinato diplomatico e accreditato di sincere volontà riformatrici, ma pure di posizioni teologiche ambigue. Per impedirne l’elezione, il cardinale Gian Pietro Carafa non esitò a accusarlo apertamente nel corso delle votazioni, sventolando minacciosamente incartamenti che non si è mai chiarito cosa effettivamente contenessero.
Uscì eletto Giulio III (Giovanni Maria del Monte), malaticcio e poco autorevole, che cercò invano di contenere il crescente potere del Sant’Uffizio, guidato da Carafa: questi, infatti, proseguì a raccogliere prove e testimonianze contro Pole e altri esponenti della gerarchia, nonostante l’esplicito divieto papale. Materiali che tornarono utili nel 1555, alla morte di Giulio III, per sconfiggere definitivamente gli «spirituali» guidati da Pole e far salire al soglio pontificio proprio un inquisitore, il più moderato Marcello Cervini (Marcello III) e, dopo la sua repentina morte, lo stesso Carafa (Paolo IV).
Questi mandò sotto processo Pole e il cardinale milanese Giovanni Morone, e impresse una svolta decisiva alla vicenda della Chiesa, subordinandone la dimensione pastorale allo scrutinio dell’ortodossia dottrinale, di cui il Sant’Uffizio era custode.
Grazie alla sua lunga frequentazione dell’epoca tridentina, Massimo Firpo offre nel libro La presa di potere dell’Inquisizione romana (Laterza, pp. 260, e 22) un’avvincente ricostruzione di questo scontro, guidando il lettore tra atti inquisitoriali, lettere e memoriali privati, dispacci diplomatici. Al di là della dimensione istituzionale del conflitto, restano però da indagare i profili individuali dei protagonisti, i cui drammatici percorsi personali e conflitti di coscienza rimangono sullo sfondo, specie nel caso degli spirituali, ridotti a figure politicamente irresolute e impaniate nelle loro ambiguità teologiche.

Corriere 20.12.14
I documenti del processo al nazista Klaus Barbie
L’«avvocato del diavolo» all’asta: 15 mila euro per le carte di Vergès
di Stefano Montefiori


PARIGI A vederli lì, impilati e protetti da una vetrina all’Hôtel Drouot, storico luogo d’aste di Parigi, quei documenti non emanano un gran alone romantico. È la cara, vecchia carta, segnata da una scrittura a mano sempre più rara. Eppure il fascino è poco e comunque sinistro: i 250 fogli con inchiostro nero sono gli appunti preparatori per il processo che Jacques Vergès, noto come l’«avvocato del terrore», avrebbe affrontato nel 1987 in difesa di Klaus Barbie, capo della Gestapo a Lione durante la Seconda guerra mondiale, e colpevole della deportazione nei campi di concentramento nazisti di centinaia di ebrei francesi.
Quei fogli, che mesi fa erano stati ritirati dalla vendita, sono tornati all’asta e ieri qualcuno se li è aggiudicati per 15 mila 130 euro. L’acquirente è segreto, nelle settimane scorse si era diffusa la voce che a essere interessato fosse l’avvocato Roland Dumas, ex ministro degli Esteri della Francia, grande amico di Vergès e compagno di scorribande intellettuali e legali spesso al di là del moralmente accettabile.
Il «Corriere» lo incontrò nel suo studio di rue Ventimila pochi giorni prima della sua morte, nell’agosto del 2013, a 88 anni, alcuni dei quali (tra il 1970 e il 1978) trascorsi non si sa dove: una parentesi misteriosa. Un grande tavolo nell’anticamera era ricoperto di giochi di scacchi in pietre e legni di pregio, il grande salone era pieno di oggetti d’arte e ricordi di una vita avventurosa, dai sigari cubani alle maschere africane del presidente della Costa d’Avorio, Houphouët-Boigny, a migliaia di libri. Più un gigantesco arazzo orientale. Tutti oggetti andati all’asta e venduti già nel gennaio scorso.
Vergès praticava la «difesa di rottura». Invece che invocare le circostanze attenuanti a favore del suo cliente, partì all’attacco e trasformò la tutela del criminale nazista in una requisitoria contro la Francia e i crimini coloniali, la sua grande ossessione. Se Barbie aveva torturato, per Vergès non aveva fatto altro che adottare i metodi dei colonialisti francesi in Africa e in Asia. A questo sono serviti i fogli andati all’asta ieri.
Mancava da piazzare il pezzo più inquietante, il documento per il processo Barbie, uno dei momenti più celebri della sua discutibile carriera. Vergès era amico del rivoluzionario cambogiano Pol Pot, architetto del genocidio tr il 1975 e il 1979, e conobbe Mao Zedong. Soprattutto difese l’indipendentista algerina Djamila Bouhired (poi sposata, ebbero due figli), Khieu Samphan (capo di Stato nel regime dei Khmer rossi), il terrorista Carlos e il guerrigliero libanese Georges Abdallah, senza farsi mancare il serial killer Charles Sobhraj. Ma il momento di gloria fu l’arringa al processo del boia di Lione, un discorso più contro la Francia che in difesa di Klaus Barbie.
A farli uscire dall’ombra è stata la donna che in quegli anni, dal 1982 al 1989, era la sua assistente e amica, Myriam Marello. Nel corso degli anni la donna ha perso molte bozze delle arringhe di Vergès ma ha conservato con più cura quelle del processo Barbie, un momento storico. Nel video del processo, racconta «Le Monde», si vede una bella donna rossa di capelli seduta alla destra dell’avvocato. È lei, Myriam Marello, alla quale Klaus Barbie dice in francese: «Signora, la ringrazio di avere lavorato alla mia istruttoria». Vergès si avvicina e le mormora con il suo abituale umorismo acido: «Vede, non è cambiato, non ama che le ariane».
La battaglia legale sui documenti del processo Barbie comunque non è finita. «Ci riserviamo ancora la possibilità di azioni legali — ha detto ieri dopo la vendita Emmanuel Pierrot, membro del consiglio dell’ordine degli avvocati e conservatore del museo del foro di Parigi —. Il punto è accertarsi chi sia il vero compratore. Può darsi che si tratti di un acquirente rispettabile, ma potrebbe anche essere un neonazista o un offerente non in grado di pagare».

Corriere 20.12.14
Matteotti e Gesù, l’elegia di Alberto Bellocchio
di Franco Manzoni


Senza tregua né respiro, come se fosse costretto ad agire sotto dettatura, Alberto Bellocchio possiede il dono di una scrittura particolare, unica, che cuce riflessioni personali a trasposizioni rielaborate di cronache, discorsi, brani giornalistici. Si tratta di una narrazione in versi liberi e lunghi, a cui la scansione ritmica, pur insolita, non manca. Intesse così una serie di eventi con l’occhio moltiplicato del testimone nella silloge La casa dei martiri (Moretti & Vitali, pp. 96, e 12).
Quasi non si sa da che parte stia l’autore. Tuttavia emerge l’eccezione di assistere alla storia attraverso più visioni. Al borghese qualunquista, che assimila lo squadrismo fascista a un male accettabile portatore di ordine, oppone il socialista, che assiste con nostalgia alla drammatica fine degli ideali del sole dell’avvenire e si scaglia soprattutto contro i massimalisti e la loro rivoluzionaria utopia di un proletariato in grado di realizzare in Italia quanto portato a termine da Lenin e dai soviet.
Fra il nero e il rosso Bellocchio dà soprattutto voce al numeroso stuolo di chi non volle schierarsi per opportunismo. È la parte grigia della società italiana tra il 1919 e il 1924, che seppe salire al momento giusto sul carro del vincitore. Come sempre.
Nel poemetto l’autore — nato a Piacenza nel 1936, fratello di Marco, noto regista, e di Piergiorgio, critico letterario — narra la tragedia di un’Italia costretta nel 1915 ad affrontare la carneficina di una guerra non voluta e messa alle corde dal successivo scontro tra lotta proletaria e violenza nazionalista. Per giungere al delitto Matteotti e alla consacrazione del dittatore Mussolini. Troviamo evocati assieme Gesù e Karl Marx, simboli di un socialismo umano che chiede orari di lavoro e salari equi.
Con saggezza ed emozione raggelata Alberto Bellocchio descrive l’epopea del Milite Ignoto, il biennio rosso e quello nero, gli arditi del popolo, la marcia su Roma, una giornata di Mussolini a Piacenza per inaugurare la Casa dei Martiri tra camicie nere e alalà. A novant’anni dall’assassinio, l’autore rievoca infine l’apostolo Matteotti, che agì per far crescere «il socialismo dentro ognuno di noi».

Corriere 20.12.14Il sale della terra
Successo di Wenders con il documentario sul fotografo Salgado

Non ci avrebbe scommesso nessuno, ma è una di quelle sorprese che fanno ben sperare: il film di Wim Wenders su Sebastião Salgado, Il sale della terra, dopo nove settimane di tenitura continua ad attirare pubblico avvicinandosi al milione e mezzo di incasso (ieri, secondo i dati Cinetel, era arrivato a 1.449.944 euro), diventando il documentario più visto in Italia. Persino Sacro GRA, Leone d’oro a Venezia, si era fermato poco sopra il milione. E se interessano i confronti va detto che finora ha incassato quasi quattro volte di più della Trattativa di Sabina Guzzanti e quasi il doppio dei Dardenne con Due giorni, una notte, di Perez con Zingaretti o di Anime nere di Munzi. Certo, Wenders è un nome noto e Salgado uno dei fotografi più amati ma che insieme diventassero un blockbuster non lo pensava nessuno. Escluso evidentemente il pubblico, che sa riconoscere quando il cinema parla di cose davvero importanti e lo fa con amore e passione. (P. Me.)

Repubblica 20.12.14
Quel che resta dietro il silenzio del passato
Hilary Mantel racconta in questo testo inedito la sua ossessione creativa per la Rivoluzione francese
di Hilary Mantel


AVOLTE il libro che vuoi leggere non esiste. Allora non hai altra scelta: devi scriverlo tu. La storia segreta della rivoluzione è stato il mio primo romanzo, anche se è apparso molti anni dopo, quando ero ormai ufficialmente una scrittrice di professione. L’ho cominciato a ventidue anni, mentre lavoravo come assistente sociale nell’ospedale geriatrico di una cittadina industriale nel Nordovest dell’Inghilterra. All’università avevo studiato giurisprudenza, non storia, ma non avevo i mezzi per andare avanti. Quel lavoro, per quanto importante, non era la mia vera vocazione. Mi sentivo smarrita, avvolta in una nuvola, in una nebbia. Di notte leggevo della Rivoluzione francese, divoravo qualsiasi libro riuscissi a trovare sull’argomento, alimentando un’ossessione iniziata durante l’adolescenza.
La storia è sempre stata dentro di me, nel senso più autentico della parola. I morti, per me, sono sempre stati lì, nella stanza accanto. L’unica frustrazione era quella porta chiusa che ci separava. Perché ho deciso di aprirla? Perché dall’altra parte c’era qualcosa d’importante, di cui avevo soltanto un vago sentore. Si dice sempre che i primi romanzi sono di carattere autobiografico e il mio non fa eccezione. Crescendo, ciascuno di noi fa la propria rivoluzione: ci ribelliamo alle regole, alla persona che ci obbligano a diventare. Io ho sempre messo in discussione ciò che mi circondava: durante l’infanzia, nella mia difficile vita familiare, sentivo di dover combattere contro un regime che consideravo oppressivo. Mi riusciva dunque semplice identificarmi con gli uomini e le donne che nel 1789 erano vittime degli ingranaggi di un potere arbitrario e volevano trasformare il mondo.
Forse avevo sbagliato a non studiare storia. Quindi cosa potevo fare? «Un romanzo può scriverlo chiunque», mi sono detta. Ero un’ingenua, certo, ma mi sono lasciata guidare dal desiderio: non soltanto di approfondire quegli eventi, ma di impegnarmi in un serio sforzo d’immaginazione. Tutti i romanzi che leggevo sulla Rivoluzione sembravano parlare soltanto di aristocratici e famiglie reali. Ma cosa hanno di tanto interessante i privilegiati e la loro meccanica difesa dello status quo? Se all’epoca avessi letto Il Gattopardo, forse avrei compreso il fascino malinconico di un modo di vivere giunto al tramonto, ma allora ero giovane e mi identificavo con chi rischia, con chi vuole cambiare. Le storie dei rivoluzionari mi sembravano più affascinanti: e non erano mai state raccontate.
L’obiettivo che mi ero prefissata era arduo da raggiungere. Allora ero sposata con un giovane insegnante, avevamo pochi soldi e dovevo lavorare ogni giorno. Scrivevo soltanto la sera e nei fine settimana. La vastità dell’argomento avrebbe dovuto terrorizzarmi, ma ero troppo inesperta per lasciarmi intimorire. La mia forza è stata l’ignoranza. E il tempo era dalla mia parte.
Alla fine della prima stesura, la mia vita era completamente cambiata. Vivevo e lavoravo in Botswana. Era difficile avvicinare un editore da un posto allora così remoto. E la fortuna non mi ha assistito. Allora, il romanzo storico, almeno in Inghilterra, era liquidato come “narrativa femminile”. Si dava per scontato che avendolo scritto una giovane donna dovesse essere di genere romantico. Gli agenti e gli editori non volevano leggerlo né tanto meno pubblicarlo. Ai loro occhi era un enorme, sconcertante cumulo di carta venuto da una sconosciuta che parlava di persone di cui non avevano la minima cognizione: troppo difficile, troppo rischioso, troppo fuori dai canoni.
Così mi sono data al romanzo contemporaneo. È stato il modo in cui mi sono assicurata un agente, un editore e una piccola cerchia di lettori. E la fiducia necessaria a rivedere il mio manoscritto e riproporlo. Erano gli anni Novanta e le aspettative sulla scrittura femminile e sul romanzo erano cambiate. Dopo la pubblicazione del libro, ho vinto un premio importante. Sentivo di aver avuto il mio riscatto; ma il vero riscatto poteva darmelo soltanto la reazione del pubblico. Per alcuni si trattava di un romanzo disorientante, di cui riuscivano a leggere solo poche pagine. Per altri è diventato una specie di ossessione, come era accaduto a me durante la fase di scrittura. Si immergevano in quel mondo e ne uscivano di malavoglia, cambiati, negli occhi il tricolore intriso di sangue. Un giorno in una libreria una donna mi ha mostrato i segni delle lacrime che aveva versato sulle pagine.
Sono sempre partita dall’assioma che la verità, se vi si riesce ad arrivare, è più interessante dell’invenzione. Agli inizi pensavo che se mi impegnavo a fondo nello studio avrei scoperto tutto ciò che era necessario sapere sui tre giovani rivoluzionari di cui avevo deciso di scrivere. Mi ci è voluto un po’ di tempo per imparare ad ascoltare gli eloquenti silenzi della storia. Credevo di sapere come si scrive un romanzo, ma sbagliavo: dovevo dar libero corso alla mia immaginazione e imparare a muovermi nelle lacune, nelle omissioni, a ricostruire la vita privata dietro l’ombra proiettata dai grandi avvenimenti.
Cosa accade a un signor nessuno quando sale alla ribalta della storia? Cosa accade all’uomo portato a spalla dalla folla? È ancora padrone di sé oppure è la storia a impadronirsi di lui? Chi è quando rimette i piedi a terra? E dietro gli eventi, le persone che li affollano, si nascondono domande a cui non ho ancora trovato risposta: come agisce la nostra memoria del passato, perché alcune cose si salvano e altre vanno perdute? Quel che mi prefiggo è far rivivere la possibile atmosfera che si respirava al centro di quegli avvenimenti. Lo storico mi racconta cosa è accaduto, ma io non mi accontento. Voglio conoscere gli stati d’animo: l’euforia, la paura, la disperazione, attimo dopo attimo, con la stessa intensità, vividi come nel 1789. I timidi, in situazioni d’emergenza, diventano coraggiosi. Anche l’immaginazione vive le sue emergenze: da giovane avevo spesso l’impressione di far parte di un popolo rivoluzionario. Soltanto l’impegno e l’azione concreta mi avrebbero salvato la vita, e con la rivoluzione ne avrei trovato una degna di essere ricordata.
Traduzione di Giuseppina Oneto Copyright 2-014 Hilary Mantel
IL LIBRO: Un posto più sicuro. La storia segreta della Rivoluzione, seconda parte ( Fazi, pagg. 352, 18 euro) di H. Mantel

Repubblica 20.12.14
La notte
Da Caravaggio a Van Gogh come dipingere l’oscurità
Alla Basilica Palladiana di Vicenza un singolare percorso tra capolavori antichi e moderni che descrive il rapporto dell’arte con il buio
di Lea Mattarella


CARAVAGGIO, Michelangelo Merisi da Caravaggio: Marta e Maria Maddalena ( 1598)

DIPINGERE la notte. Quella che oscura il paesaggio, ma anche quella dell’anima, delle sue tenebre. Oppure della quiete e del silenzio. La mostra Tutankhamon, Caravaggio, Van Gogh. La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento , curata da Marco Goldin e aperta fino al 2 giugno alla Basilica Palladiana di Vicenza, ci conduce attraverso un viaggio tra tramonti e notti stellate, tra natura e sacralità. Goldin affida a circa 120 opere il compito di raccontare quella che Merleau Ponty chiama la “notte senza profili”, che permette di delineare una “spazialità senza cose”, la cui “unità è l’unità mistica del mana”, del soprannaturale, della forza vitale, dell’energia. Il primo capitolo di questa lunga storia è l’Egitto dove la notte – spiega Goldin – «è intesa in senso figurato, come cammino nell’oscurità di un dopo morte che invece si illumina con la resistenza delle immagini della vita, degli oggetti della vita, le figure, i segni, i simboli».
SI PASSA poi a una narrazione che raccoglie alcuni capolavori della pittura occidentale come Giorgione, Veronese, Caravaggio, El Greco, Tiziano, Guercino, Annibale Carracci, Tintoretto. L’oscurità avvolge gli episodi della vita di Cristo e dei santi. E, spesso, in mostra si procede per confronti tra dipinti lontani per geografia e per cronologia che, tuttavia, sono capaci di agire come detonatori gli uni degli altri. Guardiamo ad esempio le Crocifissioni: ecco quella dipinta da Veronese alla fine della sua carriera nel 1580, che mostra come anche questo pittore, di solito attento a celebrare la gloria mondana, sia capace di riflessioni intensamente spirituali. Qui, mentre si compie il sacrificio di Cristo, il cielo si copre di oscurità, di nuvole minacciose e l’unico elemento luminoso è proprio quello che arriva dal corpo straziato del figlio di Dio. Affollata di persone è la messa in scena di Nicolas Poussin. In quest’opera della piena maturità “il pittore filosofo” con quei rossi che squarciano lo spazio tocca vertici di grande drammaticità. Tanto da rifiutarsi di dipingere una successiva Salita al Calvario . «Non ho più abbastanza allegria né salute – scrive al committente – per impegnarmi in soggetti tristi. La Crocifissione mi ha fatto stare male, ho provato molta pena, ma un Cristo portacroce finirebbe con l’uccidermi. Non potrei resistere ai pensieri penosi e seri di cui bisogna riempire lo spirito e il cuore per riuscire in soggetti di per sé così tristi e lugubri. Dunque risparmiatemi, per favore».
Tocca poi a Francis Bacon e al suo Frammenti di Crocifissione del 1950 elevare a dismisura il tasso di immaginazione tragica, tra spazi inafferrabili, urla e carni straziate. E nella sua dichiarazione «ogni volta che vado dal macellaio, mi stupisco sempre del fatto di non trovarmi lì al posto dell’animale» c’è proprio questa idea di un destino che non risparmia nessuno, la consapevolezza di esistere e di potersi “vedere” solo attraverso il sacrificio, il sangue, la sofferenza.
Un’altra storia religiosa che ama il buio è quella di san Francesco in estasi: lo inquadrano con l’angelo Caravaggio e Orazio Gentileschi, mentre El Greco lo ritrae in preghiera, nelle sue forme allungate che emergono da grigi e neri e ne accentuano l’elemento mistico. E Zurbarán ne restituisce un’immagine potente, arcaica, spirituale e immobile costruita con i toni terrosi che sempre predilige.
Nel percorso dell’esposizio- ne c’è anche il frammento della notte: quello che giunge dalla finestra. Bellissime le due di Antonio López García, grande artista spagnolo, che sa interpretare la realtà in senso emotivo, capace di cogliere la vita tra le cose. Eccolo, il suo “cielo in una stanza”. E poi c’è il misterioso Doppio ritratto di Giorgione con quell’incrociarsi di sguardi, uno malinconico e l’altro scaltro. Non lontano dal dettaglio dei due pastori affacciati alla finestra della mangiatoia nell’ Adorazione di Savoldo che pare un presepe.
La terza sezione della mostra è dedicata al bianco e nero di due geni del segno inciso: Rembrandt e Piranesi. Il primo maestro nella rappresentazione di scene sacre dominate dal chiaroscuro; l’altro creatore di architetture fantastiche e inquiete.
La notte investe il paesaggio, soprattutto in epoca romantica. L’Ottocento prevale nella parte della mostra intitolata alla luna e alle stelle e al “secolo della natura quando viene sera”. Fa buio tra pescatori, chiari di luna e mari in tempesta, tra Turner e Friedrich in un mondo nordico in cui la natura va contemplata con timore. Per giungere poi davanti al crepuscolo americano di Winslow Homer e a quello abitato da fanciulle che rievocano le ninfe di Camille Corot.
Affascina vedere come gli impressionisti – Monet e Pissarro ad esempio – che avevano eliminato il nero dalla propria tavolozza, abbiano un modo tutto loro, di rosa e azzurri, per interpretare i notturni. E incanta il passaggio cromatico tra il Van Gogh olandese e quello francese, quando il colore si accende e la pennellata diventa febbrile. Procedendo ancora per confronti ecco Venezia inquadrata da Whistler e da Monet, e un bellissimo dialogo tra Andrew Wyeth con i suoi riflessi di luna sugli edifici e un capolavoro di Edward Hopper come Emporio. L’ultima emozione della sezione la regala un paesaggio al tramonto di Piet Mondrian in cui già intravedi quel mondo di verticali e orizzontali, di maschile e femminile che cercano la loro armonia definitiva.
Nel Novecento la notte è anche quella dello spirito: Nicolas De Staël e Mark Rotkho sono due giganti nel fartene sentire la potenza. E, infine, nell’ultima sala ecco una specie di compendio di tutti questi notturni suonati da strumenti diversi. Ci sono Luca Giordano, Narciso di Caravaggio , Gauguin, Cézanne (con un’opera degli esordi, piena di pathos), Van Gogh. E un Rothko come una restituzione di luce. L’infuocato Arancione e marrone che ci piace immaginare come un’alba.

Vincent van Gogh: Sentiero di notte in Provenza ( 1890)
Giorgione: Doppio ritratto (inizio XVI secolo)
Caspar David Friedrich: Città al chiaro di luna (1817)
Nicolas De Staël: Natura morta su fondo blu (1955)
James Abbott McNeill Whistler: Blu e oro ( 1880)
Claude Monet: San Giorgio Maggiore, Venezia ( 1908)