sabato 21 ottobre 2006

Repubblica 21.10.06
Mancino, vicepresidente del Csm: vanno potenziate le misure alternative
Napolitano: sanzioni penali da rivedere


ROMA - Trovare «soluzioni condivise» per rivedere le sanzioni penali e la loro gestione. Ripensare il sistema delle pene. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha invitato a «riflettere approfonditamente» sulla necessità di «instaurare un sistema che consenta di bilanciare il percorso di rieducazione e risocializzazione del condannato con la valorizzazione delle persone offese dal reato e, più in generale, della sicurezza». Dopo l´indulto, che in due mesi ha decongestionato le sovraffollate carceri italiane, il messaggio del Capo dello Stato, in occasione del convegno organizzato dal Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, ha aperto il dibattito sulla necessità di puntare sulle misure alternative al carcere.
Anche il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, si è detto d´accordo e ha elencato una serie di possibili modifiche al sistema delle pene. Una sostanziale novità - secondo Mancino - ci sarebbe se le misure alternative al carcere venissero applicate direttamente dal giudice di primo grado anziché dal magistrato di sorveglianza. E ancora: andrebbe favorito «l´uso di strumenti di giustizia riparativa»; estesa, oltre le attuali competenze, l´applicabilità delle pene introdotte nel 2000 dal decreto legislativo che ha istituito i giudici di pace penali; potenziata «la fase della messa alla prova nell´ambito dell´istituto della sospensione condizionale della pena»; attuata una «corretta politica carceraria» che passi anche «attraverso il corretto impiego di una categoria professionale di veri e propri mediatori culturali che si facciano carico di spiegare ai detenuti soprattutto extracomunitari i valori sociali e culturali della nostra civiltà».
Il vicepresidente del Csm ha concluso ribadendo alcuni «punti fermi»: «Gli istituti sanzionatori non vanno più studiati come un problema che riguarda un solo settore della magistratura, ma come un problema orizzontale e multidisciplinare». E la magistratura di sorveglianza dovrà essere considerata «come il primo ed importante motore per l´attuazione di ogni possibile riforma».
Il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi ha detto che «è giustissima l´indicazione di Mancino di dare alle misure non detentive altrettanta dignità rispetto a quelle detentive e di ipotizzare che le misure alternative al carcere possono essere disposte in sede di sentenza». Su questo terreno sta lavorando la Commissione ministeriale per la riforma del codice penale presieduta da Giuliano Pisapia.

il manifesto 21.10.06
Marco e Bernardo, quelli che resistono
Piacenza contro Parma, il «free cinema inglese» contro la «nouvelle vague francese», un cinema «atrocemente autobiografico» e l'altro «teneramente in soggettiva». Alla Festa di Roma incontro con e tra Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci, i cugini, ovvero il giano bifronte, del cinema italiano perennemente giovane, ribelle e sperimentale
di Cristina Piccino


Roma. Nel maggio sessantotto li giravano Chris Marker, J.L. Godard, Alain Resnais, si chiamavano Cinétracts, «tratti» di cinema non firmati che nello spazio di pochi minuti distillano rivoluzione, e frammenti di utopia per il futuro. Un Cinétract è anche il lavoro di Jean Marie Straub e Danièle Huillet su Europa 51 di Rossellini, una specie di «seguito» del film al contemporaneo, molto applaudito alla festa di Roma, dove arriva con proiezione a sorpresa prima di Giardini in autunno forse su richiesta di Iosseliani come saluto affettuoso a compagni di rivoluzioni al cinema. Il Cinètract di Straub-Huillet è l'Europa globalizzata delle periferie ghetto in cui si vomitano gli indesiderati, quelli che puzzano (lo diceva Chirac degli immigrati algerini), condannati prima di cominciare. E mica è strano se appena arriva la polizia scappano, è meglio un salto su una centralina elettrica a costo di morirci come Bouna e Zeyd che bruciano vivi facendo esplodere le periferie parigine.
In realtà non è andata così, gli applausi cioè, qualche amico ci ha raccontato che la platea molto selezionata dell'Auditorium ha fischiato questo omaggio (a Huillet da poco scomparsa)dovuto. Ci viene in mente la storia ascoltando, nella stessa plaeta molto affollata, le parole di Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci, il giano bifronte della nouvelle vague italiana, specie quando Bertolucci confessa che la loro «distanza» è anche perché lui è cresciuto con la nouvelle vague francese, Bellocchio col free cinema inglese, cosa rara nella cinefilia del tempo. Straub-Huillet nel fuoricampo, cinema e vita dell'epoca in cui Pierre Clementi correva per le strade di Roma (Partner) e Bertolucci, come racconta, incontrava la prima volta Bellocchio a casa di Sandro Franchina (Morire gratis), insieme c'erano Gustavo Dahl e Paulo Cesar Saraceni, il cinema novo brasiliano, «sinistra festiva» che Veltroni, Bettini e gli altri dovrebbero guardare un po' di più.
Bellocchio e Bertolucci. Un evento averli insieme, e peccato che l'occasione sia un po' sprecata. Fa bene Bellocchio a un certo punto a dire: non mi aspettavo una cosa così seria. Cioè poco leggiadra, poco spiazzante. Ci è voluta la meraviglia oratoria di Bernardo Bertolucci, narratore che incanta, e la ruvidezza mirata con humor di Bellocchio per andare avanti con piacere d'ascolto. In quel primo incontro, siamo agli inizi degli anni 60, Bertolucci sta per cominciare La Commare secca. Nessuno ci crede, specie i brasiliani che infatti il giorno dopo eccoli a controllare il set. Poi c'è Prima della rivoluzione e, appena dopo i Pugni in tasca. «Li ho sentiti come pugni nello stomaco, ho pensato: chi l'avrebbe detto che da Piacenza potevano arrivare grandi registi». Già, c'è anche questo, Parma contro Piacenza. Ma per carità ci ride su Bertolucci niente campanilismi, è un gioco. Serissimo. Dice ancora: «I pugni in tasca e Prima della rivoluzione erano due film cugini, il mio teneramente autobiografico, quello di Marco atrocemente autobiografico. É stato per me uno di quei film che possono spingerti a scelte più violente».
Se Bertolucci è Pasolini, Moravia, l'intellettualità romana, Bellocchio cresce lontano da Roma, almeno intellettualmente. Il riferimento primo sono i Quaderni piacentini, il loro «moralismo»: «Il confronto tra il mio cinema e quello di Bernardo è stato ravvicinato fino a un certo punto, dal Conformista in poi abbiamo preso strade diverse». Bellocchio che studia al centro sperimentale ricorda l'incontro con Antonioni. Da studente gli chiede come girare un film, a chi rivolgersi. «Lei mi darebbe il suo numero di telefono?» osa il ragazzo Bellocchio. No secco di Antonioni. «Anni dopo questa cosa ha contibuito molto nel mio fare cinema. Allora tutto era più difficile, oggi la tecnologia permette di iniziare con meno fatica».
Affinità: la psicanalisi, per entrambi riferimento di vita e cinema. La serata si chiama «quelli che vanno, quelli che restano». Si potebbe dire resistono commenta Bertolucci. Come loro. Lo mostra Sorelle, il film che Bellocchio ha appena presentato. E Histoire d'eau, dieci minuti nel collettivo Ten minutes older di Bertolucci. «Ho sempre avuto la tentazione di essere qualcun altro, Godard, Renoir ... Bellocchio è stato sempre violentemente se stesso, ma la sua non è immobilità, è che ogni volta diventa se stesso» dice Bertolucci. «Ho cercato di essere personale, di tenere insieme 'vita e arte', la mia vita corrisponde a ciò che faccio» dice Bellocchio. «Perciò sono felice che un pubblico abbia visto Sorelle, è un film girato seguendo un desiderio. E è anche il suggello di dieci anni di lavoro». L'incontro finisce, prima qualcuno chiede a Bertolucci, le piace la festa del cinema? «All'inizio ero perplesso, ora vedo che sono riusciti a coinvolgere la città. Potete migliorarla».

il manifesto 21.10.06
«Sorelle», appunti familiari di immaginario
di C.Pi.


Sorelle Marco Bellocchio lo chiama un film «dilettantesco», nel senso che è stato fatto per diletto, non c'erano finanziamenti, tutti hanno lavorato gratuitamente, la leggerezza (democratica) del digitale ha garantito un gusto morbidamente scanzonato e assoluto piacere del cinema. Lo compongono la famiglia del regista, il figlio Piergiorgio, la figlia Elena (da bimba già straordinario talento d'attrice), le sorelle Maria Luisa e Letizia, Gianni Schicchi amico di famiglia da sempre. Gli attori come Donatella Finocchiaro, protagonista nel Regista di matrimoni, e i luoghi, Bobbio dove Bellocchio ha passato la sua infanzia, la casa familiare, che sono anche le stanze del suo cinema, I pugni in tasca intanto (ma in quella tavola apparecchiata per l'immutabile rito del pranzo non c'è pure uno scorcio di inquadratura dei pranzi nella casa del Regista di matrimoni?), apertamente dichiarati nello sfumare tra il viso offuscato di Piergiorgio Bellocchio e quello in rabbioso bianco e nero di Lou Castel. Poi «Fare cinema», la scuola che da dieci anni, sempre a Bobbio, Bellocchio dirige ogni estate. Venti studenti e professionisti che si incontrano, immaginano, scrivono, girano... Sorelle però non è un documentario, non si racconta la famiglia del regista o il lavoro di didattica, la realtà è punto di partenza obliquo in una tensione magnificamente sospesa di vissuto e film, un gioco di specchi dentro l'immaginario che commuove, diverte, volteggia leggero toccando nel profondo la sostanza stessa del fare cinema. Tre episodi, un quarto verrà aggiunto presto, che scaturiscono da uno stesso spunto narrativo: due fratelli, Sara aspirante attrice che nei primi due è assenza, voce lontana al telefono, Piergiorgio, ragazzo inquieto, e Elena, la figlia di Sara cresciuta dalle zie in quella piccola cittadina tra catechismo, preghiere al cimitero, riso in bianco, la tavola apparecchiata e sparecchiata quasi a scandire il passaggio del tempo. Gianni Schicchi che alle donne amministra il patrimonio e risolve i problemi della cappella al cimitero, le zie che conservano l'abito da sposa della madre sognando i matrimoni dei nipoti, e Sara che alla figlia dice ci si sposa quando non si è più innamorati mentre la bimba parla alla mamma, appena torna in campo, di cresima e catechismo.
Eccolo il cinema di Bellocchio nel farsi con consapevolezza e in un continuo desiderio di discussione. Sorelle è come un puzzle, un caledoscopio di frammenti lucidi le cui combinazioni si possono mutare a ogni sguardo. Il divertimento si dischiude nei dettagli (Piergiorgio, Elena, le zie, Gianni Schicchi il documento di finzione coi loro veri nomi, Sara l'attrice ne ha uno finto... ). Indizi sparsi tra le risonanze doppie, triple, molteplici come i volti di donne che si sovrappongono a quello di Donatella Finocchiaro, Paola Pitagora, Pamela Villoresi, la Nina del Gabbiano bellocchiano, e Cecov Piergiorgio lo legge dalla prima scena del film, che sono il femminile del suo cinema. Ma anche la noia, il sogno di fuga da quella provincia; sono destinato a tornare qui forse aprendo un hotel dice cinico Piergiorgio alla sorella scappata a Milano inseguendo pure lei fantasie di felicità e successo. Ritorni e partenze, la casa che resta lì, i due ragazzi che vanno e vengono, la bimba che corre stando ferma nello stesso luogo verso l'adolescenza. Il movimento del cinema, della poetica (politica) di un cineasta, restare se stessi col cambiamento necessario a esprimere urgenza, vitalità. Come accade a Marco Bellocchio, e questa scatola delle meraviglie che è Sorelle se ci porta con grazia raffinata dentro al suo cinema al tempo stesso libera qualcosa che è sempre diverso, che spiazza e sorprende a ogni fotogramma la rete dei rimandi. Aprendo diverse prospettive, orizzonti inediti, non si tratta di citazioni ma di vere e proprie folgorazioni dentro a una macchina complessa, in continua trasformazione.
É appunto la ricchezza del regista questa sua voglia di sperimentare condividendo insieme a altri - il film ci tiene a dire è stato realizzato davvero in modo collettivo, con la pratecipazione fondamentale di tutti - il suo cinema nell'attimo stesso del diventare narrazione, a messinscena, laddove realtà e finzione si ispirano reciprocamente. Lo sguardo che sentiamo osservare i due figli(zio e nipote) giocare, ridere assolutamente costruito, puro distillato di verità.

Repubblica 21.10.06
Serata memorabile con i due grandi registi che hanno presentato le loro opere e parlato del loro film
di Maria Pia Fusco


Bertolucci e Bellocchio allo specchio "Che bello parlare assieme di cinema"

In "Sorelle" una serie di percorsi della memoria
In "Histoire d´eaux" una vita intera di ricerca

ROMA - La Festa ha avuto la sua serata memorabile: Bellocchio e Bertolucci, gli autori del cinema più bello e importante di una generazione, per la prima volta davanti ad un pubblico entusiasta, estasiato solo all´idea di vederli insieme. A scaldare l´attesa dell´incontro ci sono due esempi del loro cinema. Per Bellocchio il film Sorelle, nel cast un´attrice, Donatella Finocchiaro, un amico di sempre, Gianni Schicchi Gabrieli e tanti Bellocchio: i figli Pier Giorgio ed Elena, le sorelle Letizia e Maria Luisa , che sembra una quieta signorina di una certa età, benestante di campagna, ma è una straordinaria attrice, ironica interprete di valori, vizi, moralismi e vezzi del vivere in provincia).
Ambientato a Bobbio e sul fiume Trebbia con la collaborazione degli studenti di "Fare Cinema", il corso che il regista tiene ogni estate, Sorelle raccoglie tre episodi girati in tempi diversi, dal ´99 al 2005, una serie di ritorni e di partenze, visite per affetto ma soprattutto per interesse al patrimonio delle zie, riunioni di famiglia, dialoghi densi di sottintesi, percorsi nella memoria. Il film, secondo Bellocchio «non è un documentario nostalgico su alcuni componenti della mia famiglia, ma un film di fantasia su chi va e chi resta. La casa è la stessa di "I pugni in tasca". Per comodità, era un set già pronto, visto che è un film improvvisato e precario». Ma "I pugni in tasca" è un riferimento, con fugaci immagini del film in bianco e nero che si intrecciano al presente, Lou Castel, Paola Pitagora, la madre cieca, e per gli spettatori lo stimolo è quello del confronto tra i rapporti famigliari di oggi con quelli di trent´anni fa.
Bertolucci presenta invece 12 magnifici minuti di Histoire d´eaux, una favola sul tempo, con un uomo il quale, nel tempo che impiega alla ricerca di acqua per un vecchio saggio, vive una vita intera, si sposa, diventa padre, invecchia. «Viene da Prima della rivoluzione, la raccontava Adriana Asti, a me l´aveva raccontata Elsa Morante che era appassionata di leggende indiane», dice Bertolucci che ha esaltato la favola rendendo protagonista un musulmano lavoratore clandestino, che trova facilmente amore e felicità con la proprietaria di un bar, spiritosamente interpretata da Valeria Bruni Tedeschi.
Dopo le proiezioni, esemplari della differenza («Sorelle mi ha commosso, rispecchia Marco, nei suoi film lui c´è sempre, ogni volta diventa se stesso, mentre io, ogni volta, penso di essere Godard o Renoir, anche se alla fine sono io», dice Bertolucci), Marco e Bernardo, come li chiama il conduttore Mario Sesti, si incontrano. Piacenza e Parma, la stessa cultura di provincia alle spalle, gli stessi anni di esordio, la memoria del primo incontro. «Nel ´62, a casa di Sandro Franchina, c´erano parecchi allievi del Centro Sperimentale, c´era anche Marco. Quando annunciai che il giorno dopo avrei cominciato a girare il mio primo film, "La comare secca", ci fu un´ondata di incredulità. Di Marco ricordo il silenzio», racconta Bertolucci, affabulatore grandioso, e Bellocchio replica con i suoi toni apparentemente reticenti ma è solo il rapporto con il pensiero. «Fino alla fine degli anni Sessanta ci sono stati incontri non diretti ma ravvicinati, nei Quaderni Piacentini influenzati da intellettuali milanesi c´era sempre un atteggiamento critico moralistico verso il cinema romano. A partire da "Il conformista" le strade si sono separate, ma abbiamo continuato a "guardarci", ci interessiamo l´uno dell´arte dell´altro».
Parlano di cinema e di incontri, di debolezze e di rapporti con la famiglia, accettano di confrontarsi sui rispettivi, distanti rapporti con la psicanalisi. Bellocchio riassume il legame con massimo Fagioli, Bertolucci vanta allegramente le sue ore sul lettino «che se fossero di volo sarai pilota di jet». C´è ancora tanta curiosità e tanta voglia di ascoltarli, ma l´incontro finisce. Peccato.

Il Messaggero 21.10.06
Bertolucci: lavoro e penso d’essere altro Bellocchio: e non chiamateci maestri
di Roberta Bottari


UNA sala da pranzo e un tavolo intorno al quale si mangia, si aspetta, si perde tempo, si gioca a carte e si parla indifferentemente dell’iscrizione alle scuole medie di Elena e dell’esaurimento posti della cappella di famiglia al cimitero («non c’entra più nessuno, ma abbiamo avuto un colpo di fortuna: si è liberata la cappella vicina, per estinzione»). Sorelle di Marco Bellocchio è un affresco sulla vita quotidiana di una famiglia (la sua), realizzato in un film sperimentale di 70 minuti, composto da tre episodi girati in tre anni diversi (1999, 2004, 2005), interpretato dagli studenti della scuola “Fare cinema” di Bobbio, Gianni Schicchi, Donatella Finocchiaro, Pier Giorgio Bellocchio e le sorelle del regista, Letizia e Maria Luisa. Una storia molto reale, alla quale Bernardo Bertolucci “risponde” con un film assolutamente opposto, Historie d'eaux , un corto onirico di tredici minuti. Ovvero la storia del giovane clandestino Narada, di un vecchio suonatore di flauto, di un albero mitologico e di Sabrina (ammesso che i personaggi siano mai veramente esistiti). Grande cinema l’altra sera alla Festa di Roma. E grande incontro alla sala Petrassi dell’Auditorium, perché i due registi hanno accettato di confrontarsi, non solo con i loro film, ma anche raccontandosi davanti al pubblico. Il tema del dibattito, coordinato da Mario Sesti, era ”Quelli che vanno e quelli che restano”, ispirato a due quadri di Boccioni del 1911.
Che si tratta di autori molto diversi è evidente. Loro stessi, peraltro, non lo negano: «A differenza di Marco, che anche dietro la macchina da presa resta violentemente se stesso, quando lavoro io penso sempre di essere qualcun altro. Che so, Godard, Renoir: non gioco mai in ribasso. E, quando eravamo giovani, io amavo la Nouvelle Vague francese, lui invece preferiva il Free cinema inglese, una differenza non da poco. Ma poi, quando vidi I pugni in tasca, mi arrivò un pugno nello stomaco: un capolavoro», ha affermato Bertolucci. Ma è stato Marco Bellocchio a chiudere l’incontro, fermando il pubblico, che li definiva “maestri”: «Per piacere, non chiamateci così e non chiedeteci ricette per diventare registi. La forza per stare dietro la macchina da presa va trovata in se stessi, altrimenti è inutile tentare il nostro mestiere: quando ero ragazzo, a me lo fece capire Antonioni».

Il Giornale 21.10.06
Bertolucci e Bellocchio, faccia a faccia con nostalgia
di Cinzia Romani


Parma contro Piacenza, il rigorismo etico dei Quaderni Piacentini contro il permissivismo sessuale de L'ultimo tango a Parigi, il mondo salvato dalle vecchie zie contro il pianeta multietnico, la psichiatria di rottura di Massimo Fagioli contro il classico Freud, insomma Marco Bellocchio versus Bernardo Bertolucci, due maestri del cinema italiano, ieri a confronto nel corso d'una memorabile serata all'Auditorium, calda di memorie e di pubblico.
Con il pretesto (un po' forzato, per la verità) di far commentare ai registi due quadri di Boccioni (Quelli che vanno e Quelli che restano, 1911), Mario Sesti ha cercato di pilotare il duetto artistico sul tema dell'andarsene lontano, a cercare ispirazione, contrapposto a quello del restare dove si è nati. Per fortuna Marco e Bernardo, vecchi ragazzi impenitenti, se ne sono fregati delle dande discorsive sul «movimento pendolare delle origini», andando a ruota libera tra ricordi e racconti emersi dalle loro cornucopie.
Anche perché entrambi presentavano un «corto» eloquente di suo. Bellocchio accompagnava il documentario Sorelle, saporito frutto della sua scuola di cinema («Fare cinema») che lui dirige da dieci anni, d'estate, in quel di Bobbio, «natio borgo selvaggio» in riva al Trebbia, dove l'autore de I pugni in tasca possiede una vecchia casa di famiglia. La stessa usata per I pugni in tasca (1965), col tavolo di noce, dove Bellocchio mangiava, da bambino, insieme alle sorelle Letizia e Maria Luisa, qui tenere figure familiari evocate con amore e con rabbia, mentre si occupano della nipotina Elena, che ha una madre assente perché attrice, a Milano. E quanto fuoco raffreddato in quei tuffi nel fiume, in certe sere estive dove Giorgio, fratello in conflitto con la sorella Sara, ripensa a sé bambino e le zie sono dolci spettri viventi, inquadrati nello stipite d'una porta, mentre la crostata aspetta in salotto, sull'alzata di porcellana. E si affacciano Lou Castel, Paola Pitagora, Maya Sansa, a citare qualcosa d'indefinibile, che pure esiste. «La famiglia non c'è più», esordisce Bellocchio, striminzito cappottino di fustagno marrone su pantaloni senza età, «Sorelle è stato improvvisato dal mio piccolo corso senza soldi: abbiamo lavorato con i figli, con le sorelle, perché cerco sempre di tirar fuori temi che mi urgono dentro. Né riesco a mettere da parte l'immagine femminile, anche in famiglia: sento la necessità artistica di far riapparire storie familiari, che han fatto parte del mio cinema».
Bertolucci, meno introverso del collega, ha simpaticamente scherzato sul campanilismo Parma-Piacenza affermando: «Trovo bellissimo il film di Marco e guardandolo pensavo alle differenze tra noi due. Ogni volta che ho fatto un film, ho desiderato d'essere qualcun altro, che so Godard o Renoir, non sogni umili, dunque. Bellocchio è sempre stato identico a se stesso, comunque». Zoppicante, per un infortunio alla gamba che lo rende più «maestro» dato il bastone cui si appoggia, Bertolucci portava all'Auditorium un episodio del film Ten minutes older (2002), intitolato Histoire d'eaux, con Valeria Bruni Tedeschi nel ruolo d'una ristoratrice, che sposa uno straniero clandestino, mandato a cercare un po' d'acqua da un vecchio suonatore di flauto. Solo che ci metterà un anno. «È un film sul tempo, la cui storia mi narrò Elsa Morante: le storie d'acqua sono un classico nei racconti indiani», spiega Bertolucci sottolineando come anche nel film del collega «il tempo passi sui volti delle sorelle».
Divertente, infine, il ricordo di Pasolini, incontrato da un Bertolucci quattordicenne: «Pier Paolo venne a cercare mio padre, a casa nostra. Vedendolo con quel viso duro e scuro, lo credetti un ladro e lo chiusi fuori dalla porta». Più tardi, PPP gli avrebbe dedicato una poesia: «Ciò che tu vuoi sapere/giovinetto/si perderà non chiesto/finirà non detto».

La Stampa Tuttolibri 21.10.06
I rossi «diversi» dai neri
di Angelo d'Orsi


EDITORIA, scuola, università, media ricordano i settant'anni dall'inizio della Guerra civile spagnola. Accanto alla Rivoluzione Bolscevica, alla nascita del fascismo, prima della Seconda Guerra mondiale, quello scontro intestino tra repubblicani e nazionalisti, è stato uno dei grandi, terribili eventi storici del XX secolo. Ma chiamarla «guerra civile» è riduttivo: si trattò di un confronto armato internazionale, con nazisti tedeschi e fascisti italiani a dar manforte agli insorti contro il legittimo Governo Repubblicano, guidati dal «generalissimo» Franco; inoltre, quella guerra fu la conseguenza di una rivoluzione, che rinviava a sempiterni valori, con le attese, paure, speranze che le rivoluzioni si portano dietro... Tra i tanti volumi usciti negli ultimi tempi, quello del francese Benassar insiste su questo tratto. Non fu soltanto la difesa della Repubblica, ma fu un tentato, in parte realizzato «assalto al cielo», che per qualche tempo diede l'illusione di un capovolgimento dell'assetto patriarcale, rozzamente capitalistico o grevemente feudale, della società spagnola, dominata da proprietari terrieri e clero reazionario. Fu l'utopia che giunse al potere, prima di esserne violentemente scacciata, con una repressione di inaudita violenza, che certo andava molto oltre i pure esecrabili eccessi compiuti da una parte almeno dei repubblicani (anarchici, comunisti, socialisti...), nel pieno dello scontro. Benassar ha pagine efficaci sull'utopia dei rivoluzionari spagnoli, e dei loro entusiasti supporter venuti da tutto il mondo: lo straordinario fenomeno delle Brigate Internazionali, nelle quali molti italiani si fecero onore, trovandosi a combattere contro altri italiani in camicia nera, per cui Carlo Rosselli, uno dei leaders di quel movimento, lanciò il grido di battaglia: «Oggi in Spagna, domani in Italia». Gli altri, i fascisti, che si arruolarono più per denaro che per affermare un qualche ideale, sono diventati ora, in un libro di facile scrittura, ma di discutibile impianto, I ragazzi del '36. L'onda lunga del revisionismo, insomma, che aveva sfiorato il saggio di Gabriele Ranzato (L'eclissi della democrazia, Bollati Boringhieri, 2004, da me recensito su ttL) è andata avanti, e del resto Ranzato stesso, in uno smilzo volume, sembra volerne trarre le conseguenze politiche, più che storiografiche. Confesso di non aver capito l'intento dell'autore: se si tratta di un pamphlet per sottolineare che la storia deve prendere il posto della memoria (ma trattandosi di due ambiti diversi, possono coesistere), siamo d'accordo; ciò su cui non concordo, è il significato «politico» dell'operazione. Siamo nell'ambito del tema che si riassume nella formula del «passato che non passa»: non mi convince il tono recriminatorio e prescrittivo di Ranzato, che sembra voler impartire una lezione un po' a tutti, protagonisti di ieri, spagnoli di oggi. Gli uni, i «neri» e i «rossi» del '36, in quanto sbagliarono politicamente; e gli altri, ossia gli spagnoli di oggi, in quanto incapaci di lasciarsi alle spalle quel passato. E perché mai dovrebbe essere archiviato e, settant'anni dopo, affidato soltanto alla Storia? Se è ancora sangue vivo, è sofferenza e rancore, solo la scomparsa dalla scena degli ultimi protagonisti e dei loro discendenti diretti, può forse riuscire nell'intento. La solita storia della memoria condivisa, su cui mi pare di non dover aggiungere nulla a quanto ha scritto Sergio Luzzatto nel suo La crisi dell'antifascismo (Einaudi). In ogni caso, se Ranzato me lo concede, preferisco in lui lo storico, al precettore dei popoli... Del resto Benassar, che condivide molti di tali punti di vista, spiega che mentre le guerre fra nazioni quando finiscono, finiscono, quelle civili non finiscono mai. La repressione accanita esercitata da Franco contro gli avversari sconfitti non ha l'eguale nella storia d'Europa, specie se si pensi che tale azione fatta di incarcerazioni, torture e esecuzioni capitali, proseguì per decenni. Benassar ricostruisce con sguardo partecipe, anche troppo giudicante, soprattutto la vicenda dell'esilio (in particolare in Francia) di decine di migliaia di questi vinti, con tutte le ulteriori tragedie che esso potè significare; ed è questo il merito fondamentale del suo lavoro. La storia di quell'utopia rivoluzionaria che giunge al potere, facendo cose buone e cose meno buone, e anche cose pessime, è più equanimamente ricostruita da uno studioso non professionista, in una rielaborazione di un suo lavoro di trent'anni fa: Antony Beevor - questo il suo nome - ci racconta, da narratore, però documentato, di quell'utopia che subì una pesante involuzione, con il prevalere dell'influenza dell'Urss di Stalin e dei suoi emissari. Come Benassar, Beevor vede i due campi comportarsi, alla lunga, come agenzie della menzogna e del terrore; in entrambi i campi, pronti a giustificare o glorificare, si fecero avanti gli intellettuali, di modesto o di nessun rilievo, i nazionalisti, di grande o grandissimo valore i repubblicani (a cominciare dal nome simbolo, Garcia Lorca, ucciso dai falangisti nel '37, quando in Italia moriva, vittima del regime Gramsci, e in Francia i cagoulards in combutta coi fascisti ammazzavano i Fratelli Rosselli). Ma fu davvero la stessa cosa, il terrore degli uni e quello degli altri? Diversamente da Ranzato, da Benassar e da Griner, Beevor, pure attentissimo alle equivalenze, risponde con chiarezza: mentre per i franchisti il terrore fu sistematico, programmato, durando decenni, anche dopo la loro vittoria, nelle zone «rosse», la politica di terrore «fu soprattutto un'improvvisa reazione, che si spense presto, alle paure represse, esasperata dal desiderio di vendetta del passato». Sono queste le domande che ci si deve porre, al di là della contabilità di morti, feriti, incarcerati, se non si vuole cadere in una forma di «pansismo», sia pure di tutt'altro livello. Occorre insomma chiederci, come aveva una volta ammonito Bobbio, per che cosa combattevano gli uni e gli altri. E anche se nella Spagna repubblicana, i comunisti staliniani, spesso più attenti a distruggere trozkisti e anarchici che a lottare contro i nazionalisti, miravano probabilmente a regimi non democratici, arrivando a esecuzioni sommarie, processi farsa, internamenti, che sarebbero continuati in Unione Sovietica, contro membri delle Brigate Internazionali, non v'è dubbio che la rivoluzione abortita aveva come fondamentale scopo l'abolizione di un ordine decrepito, ingiusto, vessatorio verso i ceti deboli. Quell'ordine era garantito dalla Chiesa cattolica, che non a caso fu la migliore alleata di Franco, più ancora della Germania nazista e dell'Italia fascista. Alla vittoria della Falange, gerarchie e clero spagnolo diedero un contributo non soltanto simbolico. Era la nuova reconquista, una «crociata» per la limpieza della sacra terra ispanica, che Franco, con la croce e con la spada, volle «ripulire» da comunisti, socialisti, democratici, massoni, ebrei... «Leviamo i nostri cuori a Dio», telegrafò Pio XII al caudillo giunto vittorioso a Madrid alla fine di marzo del '39: «Porgiamo sincere grazie a Vostra Eccellenza per la vittoria della Spagna cattolica». Galeazzo Ciano, sul suo diario, annotava: «È una formidabile vittoria per il fascismo, forse la più grande finora». Al fascismo italiano, quella vittoria era costata cara, in termini economici e di vite (il libro di Griner lo documenta chiaramente); ma sul piano internazionale fu un successo, che valse nondimeno a far aprire gli occhi al mondo sul pericolo nero. Ma, grazie al fatto di rimanere fuori dalla Guerra, malgrado le pressioni italo-germaniche, e poi con l'avvio della Guerra Fredda, Franco si salvò e con lui il suo regime, che durò un quarantennio, attuando una spietata politica di vendetta verso quella metà del Paese che, fedele alla legittima Repubblica, lo aveva osteggiato. E ciò nel silenzio dell'Europa, che con quel dittatore sanguinario convisse tranquillamente. Forse, come si chiedono sia Benassar sia Beevor, se avessero vinto i «rossi» - ma Stalin lo voleva? - la Spagna sarebbe stata una nuova Romania; non lo sappiamo. Sappiamo però che cosa è stata la Spagna nazionalcattolica dopo la Guerra civile. L'invito ad «accettarsi nelle loro differenze» tra vincitori e vinti, e soprattutto ormai i loro eredi, con tali premesse appare difficilmente accoglibile. Almeno per ora. Alla Storia il suo compito, e alla memoria, individuale e collettiva, il suo.

l’Unità 21.10.06
DIPLOMA «HONORIS CAUSA» IN REGIA PER INGRAO
SETTANTUNO ANNI DOPO L’ISCRIZIONE AL CENTRO
di g. ga.


Ieri il presidente Francesco Alberoni gli ha consegnato il titolo "honoris causa"

«Mi piacciono gli elogi più dei rimbrotti, anche perché i miei non erano proprio tempi di elogi». Pietro Ingrao ieri sera alla Festa di Roma ha tenuto a battesimo la proiezione della versione restaurata di Ossessione di Visconti. E da vecchio studente del Centro sperimentale di cinematografia ha ricevuto il diploma honoris causa in regia, a coronamento di una passione, quella, per il cinema alla quale è stato sottratto dalla guerra e, poi, dalla politica. La Sua iscrizione al Centro sperimentale, infatti, risale alla metà degli anni Trenta. «Ingrao si è iscritto nel 1935 al corso di regia - ha detto Francesco Alberoni, presidente del Centro sperimentale - ma non ha mai ricevuto il diploma, avevamo già pensato di riparare e la Festa di Roma ci è sembrata l'occasione più giusta». Negli anni Trenta, con Ingrao, c'era un gruppetto niente male di amici: Giuseppe De Santis, Gianni Puccini e Mario Alicata. In breve i quattro amici entrano nella cerchia di Visconti. E Pietro inizia anche a scrivere un soggetto per il grande regista che di lì a poco avrebbe segnato l'inizio del neorealismo proprio con Ossessione. A firmarne la sceneggiatura sono, però, Puccini e De Santis. Il giovane Ingrao è «alle armi» in quei tempi di resistenza. Però il cinema, in fondo, non lo abbandonerà mai. E ieri sera la sua partecipazione alla Festa è stata accompagnata da un grande calore e da una sua lunga introduzione al film. A cominciare dal perpetuo stupore per la settima arte, «l'unica» capace di poter raccontare il mondo in movimento.

Repubblica 21.10.06
A Ingrao il diploma del Centro Sperimentale "Amo molto il cinema, rivoluzione del secolo"
di Roberta Rombi


ROMA - «Sono abbastanza vanitoso, devo confessarlo e preferisco gli elogi ai rimbrotti. Ho percorso anni molto duri in cui c´era poco da ricevere lodi ma molto da combattere». Un commosso Pietro Ingrao ha esordito così ieri quando gli è stato consegnato il Diploma honoris causa in Regia da Alberoni, presidente del centro Sperimentale che così ha motivato il riconoscimento: «Il Centro Sperimentale ha un debito nei riguardi di Ingrao perché non gli ha mai consegnato il diploma. Era iscritto nel 1935 al corso di regia poi ha abbandonato il cinema ma ha continuato a scriverne e a guardare al cinema come espressione dei sogni e delle speranze della nostra società».
«Il cinema» ha spiegato Ingrao «è stato il grande evento del secolo scorso» e ha ricordato come per millenni la rappresentazione della realtà, attraverso pittura e scultura «fosse stata costretta da immagini e paesaggi statici. «Negli anni in cui sono vissuto è avvenuta una svolta» continua Ingrao «le immagini si sono messe in movimento. Nel cuore di questo terribile secolo è avvenuta una rivoluzione che ci ha costretto a guardare il mondo in modo diverso, nel modo di relazionarsi degli uomini e nel modo di raccontare i loro pensieri, le loro guerre».
«Ho molto amato il cinema con i miei amici Puccini, De Santis e Alicata» ha ricordato Ingrao. Gli amici sono entrati poi nella cerchia di Visconti e hanno collaborato con lui, tranne Ingrao in quegli anni partigiano, alla realizzazione di "Ossessione", proiettato ieri in versione restaurata. Ingrao ha parlato per un´ora ricordando la sua passione per il muto e la partecipazione al neorealismo. «L´ho fatta molto lunga» ha concluso «ma voi mi scuserete. Con i vecchi succede questo».

Corriere della Sera 21.10.06
Montezemolo:«Stop a sinistra massimalista»
Nuovo attacco alla manovra: «Ispirata a un logica vecchia, è senz'anima e classista». E alla Cdl: «Non serve la piazza»
Poi il monito: «Cambiare rotta, i riformatori battano il massimalismo»


ROMA - I riformisti battano un colpo. Il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, torna a criticare in profondità la manovra 2007, che in queste ore sta avanzando alla Camera. Per il leader degli industriali il difetto più grave della Finanziaria varata dal governo Prodi è che è priva di «spirito riformatore». Non solo. Manca di «visione» e di «anima» ed è «classista». Da qui il monito a «modificare la rotta perché il tempo stringe», condito da un appello alle forze riformatrici a farsi sentire, a incidere sulla riscrittura della legge di bilancio e a «battere i massimalisti» che risiedono nella maggioranza.

LA LETTERA - Nel messaggio al seminario Glocus 2006, pensatoio della Margherita, l'attacco è mirato. «Sono riemerse vecchie locuzioni classiste che dividono il Paese» scrive Montezemolo. Ma, avverte, «non è questo ciò di cui il Paese ha bisogno. Non sarà l'invidia che ci porterà nel futuro». Poi, intervenendo al Forum di Piccola Industria a Prato, rafforza il concetto: «Non possiamo più avere una coalizione come quella attuale con la sinistra conservatrice e massimalista». In Toscana fa un riferimento indiretto anche alla manifestazione della Cdl a Vicenza: «Per affrontare i problemi reali del Paese non abbiamo bisogno della piazza ma di proposte e decisioni». E mette all'indice i fischi all'inno di matrice leghista: «Ho saputo che a Vicenza hanno fischiato l'inno di Mameli. È una cosa vergognosa, una forma di populismo che non ci piace».

LA CRITICA - «Il Paese ha bisogno di forze riformatrici ed orientate al futuro, per battere un massimalismo che è ancora troppo diffuso: io resto convinto che queste forze ci siano - dice Montezemolo nella lettera al seminario- e che, se stimolate, risponderanno positivamente a chi avrà il coraggio di avviare un discorso nuovo». Criticando duramente gli atti del governo il leader degli industriali ricorda che «non abbiamo bisogno di uno Stato che ci indichi i settori in cui investire, abbiamo bisogno di imprese libere che cerchino da sole le loro strade e di cittadini e lavoratori preparati e pronti per il futuro».

venerdì 20 ottobre 2006

Adnkronos.it 20.10.06
I due a confronto su cinema, vita e psicanalisi
Festa di Roma, tanti applausi per Bertolucci e Bellocchio
Il regista de 'L'ultimo imperatore': "Io, mentre giravo, sognavo sempre di essere qualcun altro, Renoir magari. Lui, invece, è sempre stato violentemente se stesso"


Roma, 20 ott. (Adnkronos) - Psicanalisi, rapporto con le proprie origini, ricordi d'infanzia. E poi ovviamente anche cinema. E' un dibattito ricco e avvincente quello fra Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci alla Festa di Roma. A unirli è il filo rosso dei ritorni, che accomuna i loro 'Histoire d'eaux' e 'Sorelle', accolti ieri sera da una selva di applausi alla Sala Petrassi dell'Auditorium. Il primo è il metaforico episodio con cui Bertolucci contribuisce al corale 'Ten Minutes Older' del 2002. Il secondo lo sperimentale mediometraggio uscito dai seminari di Bellocchio, in cui il regista ha reclutato amici e parenti, per parlare di ciclici ritorni e partenze dal paese natio. Il più illustre apprezzamento al filmato, dopo i lunghi e calorosi applausi in sala, arriva proprio dal collega premio Oscar per 'L'ultimo imperatore': "L'ho trovato bellissimo e molto familiare. Mi ha profondamente commosso".

Uno piacentino, classe 1939, autore di film come 'I pugni in tasca', 'L'ora di religione', il più recente 'Buongiorno, notte'. L'altro della vicina Parma, nato nel '41 e internazionalmente riconosciuto per 'Ultimo tango a Parigi', 'Novecento', 'Io ballo da sola'. Nonostante gli apparenti parallelismi, il ritratto che emerge è di due autori che si sono brevemente incrociati e poi sempre osservati a distanza: "Abbiamo alle spalle esperienze molto diverse - dice Bellocchio -. L'ambiente culturale piacentino guardava a quello romano con un certo 'moralismo critico'. Nella seconda metà degli anni '60 abbiamo avuto un confronto abbastanza ravvicinato. Poi le nostre strade si sono divaricate, fino a portarci a fare cose molto diverse". Il primo incontro risale al '62, poco prima che Bertolucci esordisse con 'La commare secca': "Vedevo in Marco un regista molto forte e diverso da me. Io amavo molto la nouvelle vague francese, lui, che era stato a Londra, il free cinema inglese".

La 'folgorazione' cinematografica arriva tre anni dopo con 'I pugni in tasca': "A me - racconta sempre Bertolucci - sono arrivati dritti nello stomaco. Un film atrocemente autobiografico, che se non mi ha proprio influenzato, ha però lasciato in me un segno molto profondo. Da allora sono andato a vedere con trepidazione quasi tutti i suoi film". Ancora lui, fotografa poi così le differenze che lo separano da Bellocchio: "Io, mentre giravo, sognavo sempre di essere qualcun altro, Renoir magari. Lui, invece, è sempre stato violentemente se stesso". La conferma arriva proprio da Bellocchio, che chiamato in causa risponde: "In modo forse ossessivamente narcisistico e complicato, ma ho cercato sempre di conciliare vita e arte. Far rispondere cioè quanto facevo a quello che ero in quel determinato momento".

Fra i più divertenti aneddoti della serata, il primo incontro di Bertolucci con Pasolini: "Avevo 14 anni ed ero nella casa dei miei genitori a Monteverde Vecchio, a Roma. Lui suonò alla porta, ma io non conoscendolo lo lasciai aspettare sul pianerottolo. Con quell'aspetto e quel ciuffo nero metteva paura, così andai da mio padre e gli dissi: 'Ti cerca uno che dice di chiamarsi Pasolini, ma secondo me è un ladro'". La stima nasce però immediata, non appena il regista di 'Uccellacci e uccellini' si trasferisce nello stesso stabile: "Qualche anno dopo era già diventato il mio grande amore. Quando scrivevo delle poesie non chiedevo più consiglio a mio padre, ma mi precipitavo giù dalle scale per fargliele leggere".

Al botta e risposta fra Bellocchio e Bertolucci, non può infine mancare il confronto sulla psicanalisi. Se il primo torna a parlare della sua esperienza con Fagioli, il secondo sdrammatizza con leggerezza: "Non ne ho mai fatto un mistero. Se avessi volato tanto quanto ho frequentato il lettino dello psicanalista, oggi piloterei un jumbo".

Il Resto del Carlino 20.10.06
Bertolucci e Bellocchio a confronto
Tra affinità e tante differenze
Rapporto con le proprie origini, ricordi d'infanzia e tanto cinema nel dibattito ricco e avvincente tra i due registi. A unirli il filo rosso dei ritorni, che accomuna 'Histoire d'eaux' e 'Sorelle'


Roma, 20 ottobre 2006 - «Il film di Marco è bellissimo. Mi ha quasi commosso, lo sento familiare, anche mio , non solo suo». A parlare è Bernardo Bertolucci, fianco a fianco con Marco Bellocchio per parlare su un tema «Quelli che vanno e quelli che restano», nella sala piccola dell'Auditorium piena come un uovo.

Poco prima erano stati proiettati in sequenza, e alla fine applauditissimi, il film «Sorelle» di Bellocchio (tre episodi di una stessa storia, quotidiana e realissima, girati in tre anni diversi, 1999, 2004 e 2005) e «Histoire d'eaux» di Bernardo Bertolucci, dieci minuti allegorici e surreali nati da un apologo indiano sul tema del tempo. Film diversissimi, come sono diversi i loro rispettivi autori, con l'eccezione di una analogia: in tutti e due si vede il tempo che passa.

Più che di «quelli che vanno e quelli che restano» si finisce per parlare di somiglianze e soprattutto differenze fra stili e modi di intendere il cinema. Esordisce Bertolucci. «In ogni film ho avuto la tentazione di essere un altro, Marco è sempre stato violentemente se stesso. Ricordo di averlo conosciuto nel 1962. Io amavo la 'Nouvelle Vague', lui il 'Free cinema' inglese. Cinematografie molto diverse, entrambe molto vitali». Ammette le differenze Bellocchio: «Ho cercato sempre di essere personale, sempre anche in modo ossessivamente marcisistico. Ho cercato di tenere insieme vita ed arte.

Fa sorridere la platea Bertolucci: «'I pugni in tasca' mi folgorò e dissi a me stesso 'chi l'avrebbe mai detto... da un piacentino...'. Segretamente penso che quel film abbia lasciato tracce in me ed allora ho sempre aspettato le opere di Marco con palpitazione e curiosità». Poi è Bellocchio a notare: «Dal 'Conformista' in poi si è dilatato fra di noi un confronto ravvicinato; eravamo su strade radicalmente diverse, con destini diversi. Ma tra noi c'è sempre stata una costante: ci siamo sempre interessati l'uno dell'altro».

Sul tema della serata, vale a dire su quelli che vanno e quelli che restano, Bertolucci riflette: «Il destino di chi nasce in provincia è quello di odiare la provincia e i suoi orribili valori. Magari, però, dopo trenta anni pensa che la provincia sia l'unico posto dove sia possile vivere».
il Riformista 20.10.06
CONVERSAZIONE. PRESENTA A ROMA UN’OPERA IN CUI TORNA NELLA CASA DEI «PUGNI IN TASCA»
Bellocchio e le sue «Sorelle», più il “gemello diverso” Bertolucci
DI LUCA MASTRANTONIO


Vite parallele e divergenti quelle dei due registi, conterranei, quasi coetanei, ma con differenti poetiche. L’autore del «Regista di matrimoni» promuove la Festa della capitale, aspetta che arrivino i Pacs, è favorevole agli agli aiuti di stato, elogia la tv-denuncia, come le Iene

Due vite parallele e divergenti, con alcuni punti d'incontro. Così Marco Bellocchio, al telefono con il Riformista, qualche ora prima dell'attesissimo incontro previsto per ieri, all'Auditorium di Roma, nell'ambito degli eventi della Festa del cinema, definisce il suo rapporto con Bernardo Bertolucci. «Siamo quasi coetanei, veniamo dall'Emilia, lui ha esordito giovanissimo con la Comare secca, io ero al centro sperimentale, poi ho fatto I pugni in tasca, da allora abbiamo lavorato in parallelo e a distanza, a volte ravvicinata. Ma appartenevamo a due mondi differenti. Io di Piacenza lui di Parma. E mi ricordo sempre una battuta in Partner di Bertolucci: “Piacenza, l'Italia ne fa senza”. C'era, in realtà, una rivalità legata a dei mondi di appartenenza, Bertolucci era Roma, gli intellettuali come Moravia e Pasolini, la letteratura; io ero più Milano, Franco Fortini, i quaderni Piacentini. Poi, le nostre strade personali si sono allontanate definitivamente con il suo successo internazionale».
Ma delle biografie e geografie “culturali”, a divergere sono soprattutto gli sguardi, le visioni cinematografiche: «Lui condivideva estremamente le scelte di Godard, io non sono mai stato un grande fanatico». Ma non si perdono d'occhio. Nel 1969, assieme a Godard, Pasolini e lo stesso Bertolucci, Bellocchio fece parte, con Discutiamo, discutiamo..., del film collettivo Amore e rabbia: «Il mio episodio voleva essere brechtiano, didascalico, pedagogico. Godard invece mise a frutto l'esperienza del leaving theatre, con risultati molto più pregevoli dei miei». Infine, nel 2003, Bertolucci e Bellocchio si ritrovano a Venezia, uno con The dreamers, l'altro con Buongiorno, notte, ossia il '68 parigino e il '78 italiano. Bertolucci prese le parti di Bellocchio, clamoroso sconfitto alla corsa per il Leone d'oro: «Con un sguardo diverso raccontavamo due mondi diversi, due vicende diverse che, certo, sono contigue sul piano cronologico; il '68 è stata una breve primavera, vissuta felicemente tra spontaneismo e liberazioni di vario tipo, ma dopo, quasi subito, quando si è sentita la necessità di organizzarsi nella politica, nei partiti, la sua vitalità è andata perduta».
Bellocchio, alla Festa del cinema di Roma, presenta Sorelle, un'opera transgenerazionale, frutto del lavoro del laboratorio di cinema a Bobbio («Fare cinema», diretto da Bellocchio). Vi recitano i familiari di Bellocchio e Donatella Finocchiaro. Si torna nella casa dei Pugni in tasca, ma con spirito più sereno: «Ci sono tre generazioni, c'è mia figlia che ha dieci anni e mio figlio, che ne ha trenta e il personaggio della Finocchiaro che ne ha più di trenta. Quest'occasione è nata dalla necessità di girare un soggetto in questo corso di cinema e allora, volendoci divertire e approfondire alcuni aspetti psicologici, siamo tornati in alcuni luoghi della memoria, c'è la casa dei Pugni in tasca, anche se lo spirito è più sereno, mitigato. Non ci sono la rabbia e il furore di allora».
L'impressione dominante è che la famiglia sia cambiata, non è più quell'istituzione metafora del potere costituito, cellula di sopraffazione sociale. Sembrano esserci meno risentimenti, verso la famiglia, ma i sentimenti che la animano sembrano immutati. Forse, Bellocchio non si sbilancia, ma annota: «Ci sono dati estremamente interessanti sullo stile di vita familiare. Leggevo che negli Stati Uniti ci sono più coppie di fatto che matrimoni e quindi c'è un'istituzione che cambia o comunque perde terreno, certo si sta trasformando, l'idea di coppia. Speriamo che vengano presto fuori i benedetti Pacs. E comunque, il problema della famiglia rimane, al fondo: è sempre un discorso della ripetizione dei legami, anche la convivenza è ripetizione, legame, e sul piano dei sentimenti, della psicologica, vale per i conviventi quello che vale per i non sposati. Alla base delle differenze ci sono motivazioni economiche, ma anche la convivenza impone e obbliga a sopportare la ripetizione e la tenuta di un rapporto che se uno potesse, se fosse libero da necessità materiali, vivrebbe più liberamente. Insomma, permane il rischio della famiglia: quello di semi-libertà, di libertà condizionata dell'individuo. E vale sia per i matrimoni che per i Pacs».
Ma di film di denuncia non è più tempo, come l'altro ieri ha detto Giuseppe Tornatore, presentando la sua Sconosciuta. Anche Bellocchio, eterno ribelle, la vede così: «Ormai c'è un certo conformismo diffuso, soprattutto a livello intimo, dove deve avvenire la ribellione, per un artista. C'è una cultura dominate con cui io sono in disaccordo. Ma non ha più senso il cinema di denuncia politica come avveniva negli anni '70 e '80. Oggi questo compito spetta alla televisione, che ha i mezzi e la velocità necessari per denunciare quello che non va o che bisogna mostrare. Mi ha molto colpito il servizio delle Iene sui politici e le droga, il loro continuo sputtanamento della classe politica, la denuncia del fatto che in Parlamento c'è chi non sa dov'è il Darfour, chi sia Mandela. La tv ha una potenza che è irraggiungibile per il cinema, una immediatezza cui il cinema deve rispondere con la profondità e la ricerca di immagini nuove. Certo la televisione ha il problema che spesso è asservita al potere, ma il caso delle Iene, per paradosso, dimostra il contrario».
Tornando alla Festa di Roma, Bellocchio prova sensazioni positive, per la lontananza da qualsiasi «premiopoli» - che è l'oggetto della critica del suo recente Regista di matrimoni - e da una visione elitaria del cinema: «I premi alla festa di Roma sono tenuti in secondo piano, e questo è positivo. Ma succede in tanti festival, anche a Toronto. Non c'è la corsa al premio e questo fa molto bene ai film, perché i media non stressano l'ambiente e non riducono le proiezioni a una gara; per non parlare, poi, del ruolo delle giurie. La festa di Roma è anche molto popolare, c'è una città vera, gente che va al cinema, non è divisa dal mare, come accade a Venezia. Il pubblico di Roma è reale».
Sul versante degli aiuti di stato, Bellocchio, che chiarisce subito di averne usufruito, è convinto che il cinema vada sostenuto come le altre arti: «Ci sono progetti che senza gli aiuti di stato non potrebbero realizzarsi. Il cinema, come le altri arti, penso alla musica lirica o al teatro, vada aiutato». Sui recenti strali lanciati contro il centro-sinistra che «si comporta come la destra», Bellocchio precisa di essersi riferito ad alcune nomine a capo di istituzioni importanti, come Cinecittà Holding, Istituto Luce e al Centro sperimentale: «Sono state fatte scelte per soggetti che non hanno una specifica competenza in ambito cinematografico. Scelte che tradiscono una certa indifferenza verso il settore. Però questo mio giudizio è un giudizio con beneficio di inventario, nel senso che mi auguro che altre scelte vengano fatte con maggiore sensibilità. Ho incontrato il ministro Rutelli, che aveva letto le mie dichiarazioni, mi ha detto che ci dobbiamo incontrare, ma ancora non ci siamo visti».

l’Unità 20.10.06
Diario di famiglia firmato Bellocchio
di Alberto Crespi


FRATELLANZE Nella stessa sala si ritrovano vicino Bellocchio e Bertolucci. Le due B&B del cinema italiano, il primo con «Sorelle» l’altro con il corto «Histoire d’eaux»

Roma. B.B.: cosa ci ricorda questa sigla? Brigitte Bardot? Ma per cortesia, non siamo così provinciali! Se siete autentici cinefili, la sigla B.B. deve farvi immediatamente pensare a Bertolucci & Bellocchio, i due giovani «maledetti» che sconvolsero il cinema degli anni '60 con opere della forza di I pugni in tasca e Prima della rivoluzione. Partendo entrambi dalla Bassa emiliana, e raccontando storie intensamente autobiografiche (stile Nouvelle Vague, come no?), diventarono subito i nomi più internazionali di un cinema italiano che si divertiva, in quel decennio, a stupire il mondo.
Marco & Bernardo si erano incrociati già a Venezia nel 2003: il primo in competizione con Buongiorno notte, il secondo fuori concorso con The Dreamers. Ma l'evento di ieri sera, alla Festa, è stato un incontro al vertice del tutto inedito. Nella stessa sala dell'Auditorium, la Petrassi, B&B hanno presentato due lavori: Bellocchio l'inedito Sorelle, Bertolucci il corto Histoire d'eaux che è parte del progetto collettivo Ten Minutes Older già visto a Cannes. Ma l'emozione vera, al di là dei film, è stata vederli entrare insieme, con Bernardo (perseguitato dal mal di schiena) appoggiato al braccio di Marco, che nell'occasione sembrava, fra i due, l'arzillo fratellino minore. Ed è proprio di parentele che parla Sorelle, un lavoro che Bellocchio va realizzando da anni (dal 1999) nella natìa Bobbio, in provincia di Piacenza. È un work in progress, più che un film: una sorta di diario girato in video che, pur nella sua leggerezza, sembra voler diventare una sorta di summa del cinema di Bellocchio. Sappiamo bene quanto la famiglia – anche con i suoi oggetti, a cominciare dalla casa avita – sia centrale nella sua opera sin dai Pugni in tasca. Qui Bellocchio la racconta mescolando parenti veri (a cominciare dalle due ziette terribili viste anche nell'Ora di religione) e attori che recitano in ruoli di parenti, e inserendo qua e là (come il Bertolucci di The Dreamers, certo!) scene dai suoi film: ovviamente I pugni in tasca, ma anche una galleria di volti di donna dalla Balia, da Diavolo in corpo, dal Regista di matrimoni. Sorelle mette in scena tre generazioni e diventa una parabola su un tema molto forte: da una parte Bobbio (il nido, l’infanzia, le radici), dall’altra il mondo, dove alcuni personaggi vorrebbero fuggire, e dal quale altri sono terrorizzati. Il distacco dalla famiglia, insomma, che per Bellocchio è stato bruciante e doloroso, e sul quale ora sembra riflettere con serenità, da un’altezza poetica davvero incommensurabile. Sorelle conferma il periodo felice - artisticamente e, ci giureremmo umanamente - che questo regista sta vivendo. E conferma la sua capacità di fare un cinema personalissimo, dove tutti i personaggi sembrano suoi alter-ego: perché, come ha detto Bertolucci nel successivo incontro, «io nei miei film ho sempre sognato di essere qualcun altro, a volte Godard, a volte Renoir... sempre sogni molto umili, come vedete! Marco invece è sempre, violentemente se stesso. Mi ha quasi commosso, con questo film».
Concordiamo. Ieri sera, forse perché a questi B&B vogliamo un gran bene, eravamo commossi anche noi.

Liberazione 20.10.06
«L’occidente è preda di nuova ondata di illuminismo e laicismo». Cori di «Silvio, Silvio» e di «liberate l’Italia» ma c’è chi dice sia stata solo una claque organizzata. Smentito il conciliarismo di Tettamanzi
Ratzinger con Ruini e i Teocon
(fischi a Prodi applausi a Berlusconi)
di Fulvio Fania


Ruini gongola. I teocon pure. A Cesare quel che è di Cesare purché Cesare obbedisca a Dio. La religione è pubblica e fa politica.

Trenta cartelle, oltre un’ora di discorso al quarto convegno della chiesa italiana, tutto il pensiero di Ratzinger e consistenti inserti ruiniani. Il Papa benedice in particolare «la grande opportunità» di «coloro che non condividono la nostra fede» ma ugualmente «avvertono il rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà». Sono gli atei devoti, appunto, i quali, insieme ad un sorridente Berlusconi, al pomeriggio nello stadio Bentegodi, riescono a intascare anche una bordata di fischi di un settore della folla contro Prodi, venuto alla messa del papa come prescrive il protocollo. Gli interessi della fede forse si mescolano al portafoglio della finanziaria.

L’ultima parola di questo “congresso” cattolico spetterà a Ruini ma ormai è come se avesse già parlato. Come se il dibattito non fosse neppure cominciato, come se i gruppi di lavoro su affetti, fragilità, tradizione, cittadinanza, lavoro e festa avessero girato a vuoto, come se certi dissensi emersi sui temi sociali avessero dato solo fiato al vento. Benedetto XVI evoca le comunità cristiane delle origini, la testimonianza personale della propria fede e, nell’omelia, recupera perfino la «non violenza». Però il suo passaggio a Verona lascia ben altri segni.

Il cardinale Tettamanzi, nella sua relazione inaugurale, aveva provato a riaprire la finestra: forti richiami allo «stile» del Concilio; una ventata di ottimismo anziché vedere ovunque le catastrofi del relativismo; infine una stoccata contro chi si proclama cristiano senza esserlo. Giuliano Ferrara e soci si erano molto risentiti. Il patriarca di Venezia Angelo Scola, candidato alla successione Cei, aveva già preso le distanze dal collega di Milano in un’intervista al “Gazzettino”. Adesso i teocon possono rincuorarsi e “Libero” pubblicherà il testo integrale del Papa. Il Concilio, in quelle pagine, si riduce invece ad una citazione fugace. Se c’è una prospettiva che Ruini vede come fumo negli occhi è che la sua chiesa possa farsi prendere di nuovo da fremiti e divisioni post-conciliari.

A Verona è tornato il papa di Ratisbona. Gli islamici stavolta non c’entrano, meno che mai nel senso degli immigrati che non sono neppure menzionati. Ritorna invece la parte principale del discorso che Benedetto XVI svolse all’università bavarese. L’Occidente è preda di una «nuova ondata di illuminismo e laicismo», l’etica «è ricondotta entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo». Tutto questo rappresenta un «taglio radicale» dal cristianesimo e «dalle tradizioni religiose e morali dell’umanità». L’Occidente ha «escluso Dio dalla vita pubblica» e per questo non riesce a dialogare con le altre culture segnate invece dalla religione. «Testimonianza» dell’esser cattolici, sottolinea tra gli applausi Benedetto XVI. Ma non è solo questione di testimonianza. Nessuna «energia» - avverte infatti il Papa - deve essere sprecata contro «l’insidia del secolarismo». Mettiamola allora in politica. «Il cristianesimo e la chiesa fin dall’inizio hanno avuto una valenza pubblica». E a chi spetta la politica? «Ai fedeli laici», risponde Ratzinger incontrando una sensibilità diffusa tra i delegati. Potrebbe essere una buona novella rispetto all’ingerenza delle gerarchie. Ma il vero dilemma è se i credenti laici possono mediare con le altre posizioni culturali oppure no: le direttive non lasciano però scampo. Scuola cattolica: ci sono ancora «antichi pregiudizi» che «generano ritardi dannosi». E’ Ruini puro. E soprattutto «bisogna fronteggiare il rischio» di un riconoscimento giuridico delle coppie senza matrimonio che «contribuirebbero a destabilizzare la famiglia»; vanno impedite inoltre le leggi che non tutelano la vita «dal concepimento alla fine naturale». Molte righe su questo argomento, solo una parolina di sfuggita su guerra e terrorismo. Ecco il conto che Ratzinger ha già presentato quando in serata si affaccia nello stadio dove accorrono oltre al presidente del senato Marini e ai ministri Bindi e Fioroni, il Cavaliere, Letta, Casini, Fini, Buttiglione, D’Onofrio.

Secondo il Papa (e Ruini) l’Italia può essere un’eccezione nel panorama della «secolarizzazione europea» che sta contagiando la stessa chiesa. Anzi può fare da luminoso battistrada. Le precise rivendicazioni politiche vengono esposte in nome di «principi antropologici» che sarebbero connaturati all’uomo. Chiesa e Stato sono separati, ma la società deve riconoscere verità fondanti e innate che la religione contiene. Lo stesso vale per la scienza che, secondo Ratzinger, «implica» un «disegno intelligente» nell’universo. Anche la battaglia contro l’evoluzionismo arruola volentieri i laici devoti “creazionisti”.

Per le strade di Verona non c’è grande folla, prevalgono gli spazi deserti transennati dalla sicurezza, pochissimi davanti al megaschermo di piazza Bra, allo stadio non superano i 35mila. Ratzinger non è Wojtyla.

il manifesto 20.10.06
Demonio d'un laicismo
di Filippo Gentiloni

Il papa a Verona ha tenuto un'altra solenne «lezione magistrale», sul tipo di quella, ormai famosa, tenuta in Baviera ma, questa volta, senza citazioni ambigue nei confronti dell'islam. Il pensiero di Ratzinger, comunque, si fa sempre più chiaro. E anche più duro.
Il punto di partenza è il giudizio sul mondo moderno e la sua cultura. Un giudizio decisamente negativo. Relativismo, utilitarismo, individualismo. Un vero disastro. La secolarizzazione con le sue conseguenze ha colpito un po' tutti, anche l'Italia, nonostante alcuni aspetti favorevoli che la chiesa italiana è riuscita , anche se a stento, a conservare.
Il disastro indica una motivazione chiara: la pretesa di fare a meno di dio, il laicismo.
Il papa non ha dubbi. La salvezza non può venire che dal cristianesimo cattolico (delle altre forme di religione non si parla neppure) la cui ragionevolezza si fonda sulla fede. Di questo rapporto stretto fra fede (cristiana) e ragione il papa sembra fare un'ancora di salvezza per il mondo. L'unica possibile. E l'unico a gestirla è proprio il Vaticano.
Una posizione di principio dalla quale il papa trae tutte le conseguenze logiche, a cominciare da quelle che riguardano l'educazione. Logiche e concrete, a partire dalla scuola cattolica (compresi i finanziamenti). Immediato il passo a tutti gli argomenti oggi in discussione: la vita dal concepimento alla morte, la famiglia, il matrimonio, e così via. Tutto si tiene, se è vero, come è vero, che fuori dalla fede cattolica non c'è salvezza e che solo la fede cattolica è fortemente e saldamente razionale. Perciò deve valere anche per chi non crede.
Alla chiesa - italiana, in questo caso - il compito di far trionfare questa impostazione. E' chiaro che la chiesa in quanto tale non fa politica, non è un partito. Il compito non è della chiesa in quanto tale ma dei cattolici in politica: a Verona i delegati applaudono. Non potranno né dovranno appoggiare leggi e posizioni che siano contrarie alla rigida impostazione cattolica della politica.
Un'impostazione che potrebbe apparire razionalista, anche perché il papa non teme di esaltare addirittura la matematica. Galileo padre della chiesa. Perciò il papa completa la sua lezione citando la recente enciclica sulla carità. L'amore deve completare il quadro che altrimenti rischierebbe il razionalismo. Verità, ragione e anche amore: un trinomio che dovrebbe portare la salvezza a un mondo altrimenti dannato e disperato.
Addio laicità, dunque. La grande avversaria, secondo il papa, sarebbe la grande sconfitta. Ma il cattolicesimo laico accetterà questa impostazione che dovrebbe abbracciare teologia, filosofia e scienze? Se ne può, per lo meno, dubitare. Anche in questi giorni di convegno a Verona si sono fatte sentire le molte espressioni di un cattolicesimo che non vuole rinunciare ai valori della laicità e del pluralismo.
Nonostante le lezioni dall'alto, il dibattito rimane aperto. Lo richiedono, d'altronde, le mille voci che anche all'interno del cattolicesimo all'ascolto di una lezione da una cattedra preferiscono il dialogo e i passi di un cammino.

il manifesto 20.10.06
Così Ratzinger dà la linea alla chiesa italiana
Dalla famiglia alla bioetica, dal «progetto culturale» fino alla questione di fondo della visione dell'uomo, da cui deriva tutto il resto. La «magna charta» di Benedetto XVI per il mondo cattolico. Con un occhio all'Italia e l'altro all'intero mondo occidentale
di Mimmo de Cillis

E' arrivato a dettare la linea. E lo ha fatto con chiarezza di idee, argomentazioni convincenti (almeno per il suo pubblico), lucidità e maestria. Papa Ratzinger sapeva che il suo discorso al convegno della chiesa italiana - comunità guida a livello planetario per cultura, teologia, incidenza nei gangli della Santa sede - sarebbe stato un altro dei passaggi storici del suo pontificato. E ha sfornato così una magna charta per l'identità e la missione della chiesa italiana per i prossimi anni. Toccando tutte le questioni cruciali per la presenza dei cattolici nella società italiana: dal piano strettamente spirituale a quello della testimonianza nella vita civile; dai temi della famiglia e della bioetica al «progetto culturale», fino alla questione di fondo, quella antropologica, la visione dell'uomo da cui deriva tutto il resto. E' un discorso eminentemente paradigmatico, che vale per l'Italia, ma vale certo per tutto l'Occidente e, mutatis mutandis, per le altre chiese del mondo. C'è il Ratzinger filosofo e il Ratzinger maestro, c'è il Ratzinger uomo di cultura e il Ratzinger apologetico, perfino con una certa vis polemica, nel discorso di venti pagine che per più di un'ora ha tenuto desta l'attenzione (e l'entusiasmo) dei delegati presenti a Verona.
Benedetto XVI ha iniziato definendo il convegno ecclesiale come «una nuova tappa del cammino di attuazione del Vaticano II», intrapreso dalla chiesa italiana in piena comunione con il papa. «Avete compiuto una scelta assai felice - ha detto - ponendo Gesù Cristo risorto al centro dell'attenzione del convegno». Dall'evento storico della risurrezione discende «il salto decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova», rispetto alla mentalità e alla cultura dominante.
Di qui Ratzinger fa partire una spietata analisi della situazione del contesto italiano: «L'Italia di oggi - afferma - si presenta a noi come un terreno profondamente bisognoso e al contempo favorevole per la testimonianza». Bisognoso, perché «partecipa di quella cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente». Ecco nascere «una nuova ondata di illuminismo e di laicismo, per la quale sarebbe razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile», mentre «la libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare». Così - ecco il peccato - «Dio rimane escluso dalla cultura e dalla vita pubblica». Secondo Ratzinger, «in stretto rapporto con tutto questo ha luogo una radicale riduzione dell'uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come ogni altro animale». Anche «l'etica viene ricondotta entro i confini del relativismo e dell'utilitarismo, con l'esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso». E «questo tipo di cultura rappresenta un taglio radicale e profondo non solo con il cristianesimo» ma anche «con le tradizioni religiose e morali dell'umanità: non è quindi in grado di instaurare un vero dialogo con le altre culture», dove è presente la dimensione religiosa.
In questo contesto culturalmente «ostile» la chiesa italiana è chiamata a dare il suo apporto «alla crescita morale culturale dell'Italia», per far sì che le «radici cristiane» della civiltà italiana non spariscano. Qui Ratzinger nota con compiacimento l'appoggio a queste argomentazioni fornito anche dai teo-con, ovvero «molti e importanti uomini di cultura, anche tra coloro che non condividono o almeno non praticano la nostra fede».
Si passa poi al capitolo sull'antropologia, più denso a livello filosofico. Ricordando che «alla base dell'essere cristiano non c'è una decisione etica, ma l'incontro con la persona di Gesù Cristo», Benedetto XVI declina una visione della uomo e dell'universo: l'uomo, con la sua «ragione soggettiva», non può esimersi dal considerare la «ragione oggettiva» presente nella natura, e dunque dovrà necessariamente «aprirsi alle grandi questioni del vero e del bene» su cui, secondo il papa, tutti gli uomini dovrebbero perciò convenire, solo su basi dell'intelligenza, con i credenti in Dio. Ma la persona - afferma, «porta dentro di sé il bisogno di amore, di essere amata e di amare a sua volta». Perciò resta scossa di fronte ai grandi interrogativi esistenziali: al male, alla morte, alla sofferenza, al senso ultimo della vita. Per questo occorre essere «sempre pronti a dare risposta (apo-logia) a chiunque ci domandi ragione (logos) della nostra speranza».
E' altrettanto prezioso, poi, trasmettere «l'esperienza dell'amore» alle nuove generazioni e dunque valorizzare l'educazione cristiana, soprattutto le scuole cattoliche, bersaglio di «antichi pregiudizi». Gli stessi che allignano quando un certo laicismo critica l'intervento della Chiesa in politica: qui il papa ha chiarito che, data la necessaria «distinzione e l'autonomia reciproca tra lo stato e la chiesa», quest'ultima «non è e non intende essere un agente politico». «Il compito di agire in ambito politico per costruire un giusto ordine nella società - invece - appartiene ai fedeli laici, che operano come cittadini sotto propria responsabilità»: un discorso che stimola ancora di più i cattolici italiani a farsi sentire nella vita pubblica del paese.
Soprattutto per un motivo: «Fronteggiare il rischio di scelte politiche e legislative che contraddicano fondamentali valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell'essere umano». Il riferimento esplicito è «alla tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale, e alla promozione della famiglia fondata sul matrimonio, evitando di introdurre nell'ordinamento pubblico altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzarla».
Ecco l'approdo, che, di fatto, teorizza con chiarezza la volontà e la legittimità di influenzare la legislazione statale, secondo idee e principi cristiani. Ecco le consegne di papa Ratzinger all'Italia. Il discorso è rivolto al bel paese, è vero, ma ha un senso e un valore universale: lo dice lo stesso pontefice definendolo «prezioso all'Italia, utile e stimolante anche per molte altre nazioni».
*Lettera22

il manifesto 20.10.06
Il discorso
Benedetto XVI in pillole

Questi alcuni dei passaggi del discorso del papa ieri alla assemblea della Chiesa italiana, nella fiera di Verona: no al riconoscimento di unioni diverse dal matrimonio; la responsabilità politica è dei laici; ci sono «antichi pregiudizi nei confronti della chiesa cattolica, che generano ritardi dannosi e ormai non più giustificabili nel riconoscerne la funzione e nel permetterne l'attività; c'è una ondata di illuminismo e laicismo che esclude Dio dalla cultura e dalla vita pubblica; «molti e importanti uomini di cultura, anche tra coloro che non condividono o almeno non praticano la nostra fede», vedono il »rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civilta»; «impariamo a resistere a quella "secolarizzazione interna" che insidia la Chiesa del nostro tempo»; il convegno di Verona «è una nuova tappa nel cammino di attuazione del Vaticano II»; il compito è sempre »l'evangelizzazione, per tenere viva e salda la fede nel popolo italiano».

l’Unità 20.10.06
IL MESSAGGIO DEL PAPA. No ai Pacs. Ma la scuola confessionale è ancora «vittima di pregiudizi»
I valori cattolici contro laicismo e illuminismo
di r. m.

Un'ora e un quarto è durata la «lezione» di Papa Ratzinger a Verona. In venti cartelle ha indicato alla Chiesa Italiana la strada da percorrere. Al centro della sua riflessione, come a Ratisbona, il rapporto tra fede e ragione, la speranza cristiana con il suo messaggio d'amore e le grandi sfide della società contemporanea. Il suo discorso che è stato interrotto quarantadue volte dagli applausi dei delegati, è parso distante da quell'ottimismo «conciliare» presente nella prolusione del cardinale Dionigi Tettamanzi.
Anche Benedetto XVI parte dal Concilio Vaticano II e lancia il suo messaggio. Chiede alla Chiesa di testimoniare i suoi valori perché anche in Italia sarebbero a rischio «le radici cristiane». Tutta colpa di «una nuova ondata di illuminismo e di laicismo». «Una cultura - osserva - che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente». Per la quale sarebbe «razionalmente valido solo ciò che è sperimentale e calcolabile».
L'effetto? Quella esclusione di Dio dalla cultura e dalla vita pubblica che per il Papa finirebbe per ridurre la libertà dell'uomo. La stessa etica, «senza vincoli morali che abbiano un valore in sé stessi», si vedrebbe «ridotta entro i confini del relativismo e dell'utilitarismo».
Il Papa riconosce che in Italia si è reagito a tutto questo. Una Chiesa «popolare», radicata nella società, ha difeso l'ancoraggio delle radici cristiane della società italiana. E non è rimasta sola. Ha visto al suo fianco anche «molti e importanti uomini di cultura» non credenti - osserva il pontefice - che li ha indicati come interlocutori preziosi, invitando la Chiesa a non «trascurare alcuna delle energie che possono contribuire alla crescita culturale e morale dell'Italia». Mette in guardia dall'«insidia del secolarismo» che rischia di corrodere anche dall'interno la Chiesa.
Da Verona il Papa offre una sua originale chiave di lettura del rapporto tra fede e ragione che suona come un ulteriore attacco alla teoria evoluzionistica. Parte dalla «corrispondenza» tra le strutture della matematica, che è creazione dell'intelligenza umana, e quelle reali dell'universo per concludere che vi dovrebbe esservi «un'unica intelligenza originaria, comune fonte dell'una e dell'altra».
Così - osserva - viene capovolta «la tendenza a dare il primato all'irrazionale, al caso e alla necessità». E' un passaggio importante del suo ragionamento. Perché è su queste basi che «diventerebbe possibile - assicura - allargare gli spazi della razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia».
E' così che la fede cristiana troverebbe piena cittadinanza nella cultura contemporanea. Uno sforzo di cui il «progetto culturale» della Chiesa italiana voluto dal cardinale Camillo Ruini, osserva, rappresenterebbe «un'intuizione felice e un contributo assai importante».
Da Benedetto XVI arrivano anche richieste «politiche», «ruiniane». Prende decisamente posizione a difesa della «scuola cattolica», vittima di «antichi pregiudizi che generano ritardi dannosi, ormai non più giustificabili, nel riconoscerne la funzione e nel permetterne in concreto l'attività».
Il Papa lo ribadisce: «la Chiesa non è e non intende essere un agente politico». L'agire in ambito politico «spetta ai fedeli laici», che operano come «cittadini sotto propria responsabilità», anche se «illuminati» dal magistero della Chiesa.
I terreni del loro impegno sono la giustizia, la difesa degli ultimi, ma anche quei «valori non negoziabili» che ieri ha voluto richiamare. Lo ha fatto mettendo sullo stesso piano «guerre, terrorismo, fame, sete e alcune terribili epidemie» con il rischio di «scelte politiche e legislative che contraddicano fondamentali valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell'essere umano».
Sono i consueti: tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale e la promozione della famiglia fondata sul matrimonio. Con un perentorio invito a non introdurre nell'ordinamento pubblico «altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzarla, oscurando il suo carattere peculiare e il suo insostituibile ruolo sociale». La Chiesa sbarra la strada ai Pacs.

il Riformista 20.10.06
VERONA. DURO RATZINGER AL CONVEGNO ECCLESIALE
«Cattolici d'Italia non vi fate travolgere dall'ondata degli illuministi senza dio»
DI RIO PALADORO

Verona. C'è tutto il pensiero “ruin-ratzingeriano” nel discorso pronunciato ieri dal pontefice al convegno ecclesiale di Verona. Con una sottolineatura in più. Una sorta di sconfessione delle istanze anti “teo con” pronunciate nella prolusione di lunedì dal cardinale Dionigi Tettamanzi: per il papa, infatti, tutto l'impegno profuso da coloro che lavorano contro il rischio che la società si stacchi «dalle radici cristiane delle nostra civiltà» - si tratta spesso di «uomini di cultura che non condividono o almeno non praticano la nostra fede», ha detto il papa - è benedetto, accettato, ben visto.
Il discorso di ieri è stato rivolto da Ratzinger direttamente alla Chiesa e al suo rapporto con lo Stato laico italiano, in scia a quanto già avevano affermato ai convegni precedenti Paolo VI nel 1976 e Wojtyla, soprattutto nel 1985, a Loreto: la Chiesa - lo disse Giovanni Paolo II a Loreto - deve recuperare rispetto alla nazione italiana «un ruolo-guida e un'efficacia trainante». Perché l'Italia sia letteralmente «trasformata» - la parola ricorre più volte nel testo ratzingeriano - dalla fede dei cattolici. Ma mentre a Loreto il richiamo alla trasformazione della società era innanzitutto riferito ad un episcopato incapace di riconoscere appieno la forza della testimonianza cristiana nella società che veniva dal nascere dei movimenti ecclesiali laicali, oggi, a Verona, il medesimo richiamo è rivolto a tutto il popolo cattolico che se non testimonia con forza ciò che vive, rischia inevitabilmente il fagocitamento da un mondo giudicato «laicista» e «senza Dio». Chi si aspettava una retromarcia rispetto alle tesi ruiniane dell'interventismo cattolico nella società, ha dovuto alzare bandiera bianca. Dopo i discorsi soft di Tettamanzi e le discussioni all'acqua di rose dei giorni precedenti, Verona ha subito ieri una botta impressionante provocata dallo squadernamento di una vera e propria “agenda Ratzinger”, un'agenda programmatica dettata direttamente ai laici cattolici, partendo dal convincimento che una società senza Dio altro non può provocare che «un'ondata inarrestabile di laicismo» e «illuminismo» che porta l'uomo a divenire «mero prodotto della natura», «non libero» e, dunque, addirittura «suscettibile d'essere trattato come ogni altro animale». Proprio così, «come ogni altro animale».
Al di là delle evidenti tesi ruiniane affiora, per la prima volta, dietro le parole di Ratzinger, l'influenza del cardinale Tarcisio Bertone - che ha contribuito alla stesura del testo -, un porporato da sempre impegnato a spiegare come il confronto e il dialogo Chiesa-Stato laico debba preventivamente partire dal tentativo di rispondere alle istanze che la società pone mettendo sul piatto della discussione preventivamente - e non a posteriori - quei principi non negoziabili a cui ogni società umana dovrebbe guardare. Ma dietro le parole del papa c'è anche molto il cardinale Carlo Caffarra (da ieri più che mai candidato numero uno alla successione, tra qualche mese, a Ruini) soprattutto nella metodologia espositiva del discorso veronese. Come è nello stile dell'arcivescovo di Bologna - non a caso figlio spirituale del combattivo cardinale Giacomo Biffi - la premessa da cui si parte è la necessità di uscire dalle insidie del secolarismo attraverso la testimonianza «senza ripiegamenti rinunciatari» di una «fede vissuta in rapporto alle sfide del nostro tempo», per poi arrivare, di conseguenza, ai temi concreti e soprattutto etico-morali.
Anche rispetto alla politica, le parole di Ratzinger lasciano pochi dubbi: «La Chiesa non è e non intende essere un agente politico». Quindi se ne sta in disparte? Niente affatto. Essa ha «un interesse profondo per il bene della comunità politica», interesse che viene manifestato attraverso «la sua dottrina sociale» e soprattutto attraverso il lavoro dei «fedeli laici che operano come cittadini sotto propria responsabilità» e che sono dunque chiamati, eccome, a dire la loro nell'agone politico. Non si tratta tanto della volontà di ricostituire un fronte politico stile Democrazia Cristiana - fronte più volte perseguito dalla leadership della Cei negli ultimi quindici anni - quanto della necessità che in ogni fronte politico vi siano cattolici devoti alle cause della Chiesa. Cause che, ieri, sono state recepite dai politici italiani devotamente presenti all'arena: Romano Prodi -fischiato da parte dell'arena alla fine della messa -, Silvio Berlusconi - applaudito a lungo - Franco Marini, Francesco Rutelli, Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini, Rocco Buttiglione, Rosy Bindi e altri.
Dal richiamo generale all'interventismo in politica, ecco quello particolare volto al riconoscimento della scuola cattolica nei confronti della quale sussistono «antichi pregiudizi che generano ritardi dannosi». Ecco la necessità della solidarietà - al di là delle simpatie partitiche - verso gli ultimi della terra. E ancora, ecco la richiesta di politiche in difesa della famiglia fondata sul matrimonio, con il conseguente no ai Pacs: occorre quindi guardarsi dal «rischio» dell'introduzione «nell'ordinamento pubblico» di «altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzare» la famiglia tradizionale. E, infine, ecco il no all'eutanasia e all'aborto, con la raccomandazione alla tutela «della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale».

il Riformista 20.10.06
VERONA. CHI STA CON LUI E CHI INVECE CON TETTAMANZI
Il laicato cattolico non rimpiangerà Ruini
DI ETTORE COLOMBO

I vescovi e la Chiesa, invece che fare politica, devono occuparsi di diffondere il Vangelo e ri-evangelizzare il loro popolo. Il quale deve sapere unire, alla fede, «l'intelligenza». I laici cattolici - di ogni schieramento - devono però far valere, difendendo o facendo vincere, i principi cristiani. «Con coraggio e responsabilità» dice, sommerso dagli applausi. Sulla vita come sulla famiglia, sull'etica come sulla bioetica. Persino, tanto per capirsi, sulle scuole cattoliche. Che vanno difese e rilanciate. Perché il principio «dell'educazione» è centrale, per un cattolico e perché «certe scelte, anche legislative, contraddicono valori e antropologici ed etici radicati nell'animo umano». È un Benedetto XVI ancora “ruiniano” ma, nello stesso tempo, già “post-ruiniano”, quello che emerge dal discorso tenuto ieri a Verona, in occasione del convegno ecclesiale della Cei.
Almeno così appare nelle analisi e nelle interpretazioni di influenti laici cattolici che ieri lo hanno seguito e ascoltato: allo stadio al mattino e nella messa del pomeriggio. Interpellati sul punto dal Riformista, valutano le parole del papa. Con la prudenza tipica di ogni buon cattolico ma anche con (malcelata) soddisfazione. A “destra” come a “a sinistra”, per capirci. «Da questo convegno ecclesiale esce una Chiesa più unita e più vitale di prima», canta vittoria il presidente dell'Mcl Carlo Costalli. Che sta per lanciare una nuova Fondazione para-politica strettamente collegata con le Fondazioni europee Schumann e Adenauer e vicina all'Udc. Costalli ha molto apprezzato «sia la relazione del rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi che quella del presidente della Fondazione Sud Savino Pezzotta». «Anche se - nota Costalli - nelle parole del papa c'era più traccia di Ornaghi, che di Pezzotta, specialmente in merito al tema cruciale, quello dell'educazione». Diversa, invece, la valutazione del presidente delle Acli Andrea Olivero, sideralmente lontano dai teo-con ferrarian-periani (che il papa ha difeso) quanto decisamente vicino ai teo-dem diellini Bobba e Binetti. Per Olivero, «Ratzinger non è né Tettamanzi (che i teo-con li ha attaccati e duramente, lunedì, ndr.), il quale ha tenuto una bellissima e ricca prolusione, né Ruini, che resta ancorato al suo sano pragmatismo. Il papa difende i valori cristiani ma non vuole, giustamente, che la Chiesa si trasformi in una “agenzia politica”, forse perché non vive con apprensione le vicende politiche italiane, come fanno anche alcuni vescovi e cardinali. La Chiesa italiana non è una corazzata ma una “barca fragile”, che trae la sua unica forza dalla fede», chiosa soddisfatto anche lui dalle parole del papa il giovane presidente delle Acli. L'unico punto su cui Olivero concorda con Costalli è quando dice che «il laicato cattolico sta bene ed è in salute. Magari parla in modo meno plateale di un tempo, ma è vivace, specialmente sui territori. E i movimenti ecclesiali sono uniti come non mai, in questa stagione, e lo testimoniano, come ha detto benissimo l'ex presidente di Azione cattolica Paola Bignardi con toni dimessi solo in apparenza».
Eh già, perché anche di questo sì è parlato, a Verona, molto di più - per capirsi - dei (tanti) applausi a Berlusconi e degli (altrettanto forti) fischi a Prodi, polemiche sulle quali i laici cattolici preferiscono sorvolare. Forse per il loro, noto, profondo senso di pietas. E cioè del (presunto?) «silenzio dei laici». Del resto, c'erano eccome, a Verona, i laici cattolici. Non tutti, certo. I «cattolici del dissenso», per dirne una, sono rimasti a casa, da quelli para-marxisti del movimento «Noi siamo Chiesa» fino ai cattolici democratici che si raccolgono intorno alla newsletter Adista passando per diverse comunità locali (l'Isolotto di Firenze in testa) totalmente in disaccordo con la gestione della Cei e con la «gelata» ruiniana da loro molto subita, negli ultimi, e lunghissimi, 25 anni.
«La Chiesa italiana ha finalmente accettato il bipolarismo e la sua logica, anche se persino in questi giorni veronesi qualche accento di rimpianto per l'epoca del partito unico dei cattolici si è sentito eccome», chiosa il delegato della diocesi di Terni Giorgio Armillei, ex Fuci e ora vicino all'Azione cattolica. Poi, però, mette le mani avanti: «Non vorrei che, alla burocrazia ecclesiale, che pure c'è, si affianchi ora una burocrazia laicale, che reclama solo spazi. Vorrei dei laici che sappiano ascoltare meglio e di più chi opera nelle burrasche del mondo e della storia». «Per certi versi, una parte del laicato cattolico è ancora fermo agli anni Settanta e le sue posizioni sanno tanto di deja vù», dice invece il costituzionalista Stefano Ceccanti, peraltro ex fucino “di sinistra” anche lui.
E questo vale per il rapporto tra laici e gerarchie, laici e popolo di Dio, ma per quanto riguarda il rapporto tra Chiesa e politica cosa si può dire? «Parafrasando un'antica battuta in voga ai tempi della Dc («Quando De Gasperi e Andreotti vanno in chiesa, De Gasperi parla con Dio, Andreotti parla col parroco», ndr.) si può dire che Ratzinger ha parlato alla coscienza dei cattolici mentre Ruini oggi parlerà anche e soprattutto alla politica italiana. E cercherà di continuare a dare consigli interessati, se non veri e propri ordini». Commenta così, con parole e toni visibilmente soddisfatti, un autorevole esponente del mondo cattolico che, ieri mattina, ha assistito al discorso del papa e che, oggi, ascolterà le conclusioni del convegno pastorale di Verona. Che saranno tenute, appunto, dal vicario di Roma e presidente (molto uscente) della Cei, il cardinal Ruini. Insomma, Benedetto XVI, si collocherebbe «a metà strada», pensano sia Ceccanti che Olivero, tra le posizioni dell'arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi (che l'altro giorno ha detto parole nette, in particolare contro i «teo-con») e quelle di Ruini. La pensa all'opposto, anche in questo caso, Costalli, ruiniano doc: «Il papa è in perfetta linea con le scelte di Ruini. Che interviene su vita e famiglia, mica sul Tfr. Contro leggi impregnate di “relativismo” un vero cristiano non può che combattere, ha detto il papa. Più chiaro di così cosa doveva dire?». «Detto questo - chiosa - oggi il vero partito di Ruini sta dentro la Margherita. È quello di Bobba e Binetti».

Liberazione 20.10.06
Bisogna considerare la transizione al socialismo non una necessità ma una possibilità. Il concetto di destra e di sinistra è mutato nel corso del tempo, ma non il conflitto di classe
Per la Sinistra Europea
di Sandro Valentini


Un movimento rivoluzionario che vuole prospettare un’alternativa storica al capitalismo o esiste in una dimensione internazionale o semplicemente non esiste. O si è, nel nostro continente, in una dimensione europea o si è forza marginale, anche se internazionalista. Per questo il problema non è di ricostruire un Movimento Comunista Internazionale mettendo insieme ciò che non c’è. Il problema, per dirla con Gramsci, è quello della “rivoluzione in occidente”. C’è chi dice, per dare una sottolineatura maggiore al problema, “torniamo a Marx”. Ma anche questo semplice proposta non è di nessuna utilità perché nel frattempo abbiamo dal novecento imparato che le diverse tesi di Marx sul crollo del capitalismo si sono dimostrate inadeguate e perfino fuorvianti. E’ bene invece tenere conto della lezione della storia. In primo luogo considerando la transizione al socialismo non una necessità ma una possibilità; in secondo luogo riproponendo il nodo del superamento del capitalismo nei punti alti dello sviluppo capitalistico.

In questa ricerca non partiamo da zero. Lenin e Gramsci avevano intuito: per questo piegarono il bastone verso la soggettività comunista (rivoluzionaria), per fare uscire il marxismo dalle secche del determinismo della II Internazionale. Oggi bisogna fare la stessa operazione: torcere il bastone verso una nuova soggettività rivoluzionaria. In altre parole, portare le forze comuniste, i settori più avanzati della socialdemocrazia, l’insieme della sinistra di alternativa e le culture antagoniste dei movimenti dentro un progetto di costruzione di una sinistra capace di aprire una fase nuova, dopo quella ottocentesca delle prime lotte operaie e del movimento socialista e quella comunista del secolo scorso.

Che siano universali i principi di libertà contenuti nella rivoluzione francese nessuno può negarlo, anche se sono ancora largamente disattesi e sia superato il ruolo dei partiti giacobini; allo stesso modo il principio di uguaglianza sociale contenuto nella rivoluzione d’Ottobre è altrettanto universale ed è drammaticamente non attuato a prescindere dall’attualità dei partiti comunisti,
Non è vero che, dopo il terremoto dell’89, gli orizzonti possibili siano due: quello di una sinistra comunista che sceglie la via riformista o socialdemocratica e quello, al contrario, in cui si impegna per una riorganizzazione del movimento comunista.

Il crollo sovietico è stato una grande catastrofe per i comunisti, i quali per essere oggi “rivoluzionari” sono chiamati a svolgere, partendo dalle contraddizioni della società, un’azione politica che contenga l’idea della trasformazione. E la genialità del pensiero di Marx sta proprio nell’aver colto la fondamentale contraddizione della società: quella tra capitale e lavoro. Da questo conflitto di classe bisogna ripartire per esplorare nuovi orizzonti.

Nel pensiero moderno vi sono dunque “due anime” della libertà e della democrazia: la prima, la “libertà civile” la seconda, la “libertà sostanziale”, basata sull’uguaglianza sociale. Il concetto di destra e di sinistra è mutato nel corso del tempo, ma non il conflitto di classe, cioè il diritto di qualunque essere umano al riconoscimento sociale delle sue capacità, a iniziare dal diritto al lavoro garantito.

Anche a sinistra si è determinata una dialettica tra il binomio libertà e uguaglianza. Il “socialismo realizzato” è stato fallimentare sul versante della libertà, ma è anche vero che la socialdemocrazia, in quanto forza subalterna alla borghesia e al capitalismo, si è dimostrata altrettanto fallimentare sul versante dell’uguaglianza sociale.

Il contrasto le due diverse istanze di libertà resta ancora oggi di straordinaria modernità; anzi, rispetto alla tendenza del capitalismo di concentrare capitali in poche mani anche la “libertà civile” diventa, come ci ha insegnato il vecchio Engels, un terreno strategico da difendere. Infatti il moderno capitalismo mira, per riprodursi, a restringere o a negare gli spazi di democrazia, poiché solo così riesce a governare le proprie contraddizioni; allora diventa compito non rinunciabile della sinistra difendere le libertà (tutte) e i diritti democratici, come fecero i comunisti e i socialisti nella lotta contro il nazi-fascismo.

Abbiamo perciò imparato che anche le libertà individuali sono un momento importante della lotta per realizzare la democrazia socialista. Quello del “nesso imprescindibile tra democrazia e socialismo”, tra libertà e uguaglianza nell’ambito di una “via pacifica al socialismo”, sono state delle grandi intuizioni e innovazioni del gruppo dirigente del Pci, che incontrarono durissime resistenze nel partito, da destra e da sinistra, ma che lo mutarono profondamente, fino a trasformarlo, senza socialdemocratizzarlo, almeno fino agli anni ’70. Ora bisogna fare altrettanto, anzi farlo con maggiore impegno perché veniamo da una sconfitta di portata epocale.

Proprio in ragione di queste considerazioni la proposta di costituire la Sezione Italiana della Sinistra Europea vuole essere una risposta ai problemi che abbiamo ereditato dal novecento. Occorre coinvolgere nel progetto, senza faziosità e preclusioni, l’insieme delle forze della sinistra di classe, alternativa, anticapitalistica, comunista e delle diverse culture e movimenti antagonisti.

La proposta della confederazione favorisce innovazione, unità e partecipazione dal basso, e riduce il rischio che il processo di costruzione sia solo un’aggregazione di ceto politico. Per questa ragione la confederazione, in quanto aggregazione di soggetti, può diventare un polo politico ed elettorale in grado di essere alternativo e competitivo alla pari, nella lotta per l’egemonia, con il partito democratico.

La nascita di una nuova soggettività politica più ampia a sinistra darebbe inoltre molta più concretezza alla linea dell’alternativa.

E’del tutto evidente che il governo Prodi è un governo di alternanza, sia pur di rottura con quelle pratiche politiche e sociali neoliberiste delle destre. Ma la possibilità di qualificare a sinistra l’azione del governo diverrebbe il terreno strategico su cui avviare la costruzione dell’alternativa. Dunque, la scelta netta deve essere quella di una Sinistra Europea dalle caratteristiche di massa, capillarmente insediata nel “mondo dei lavori”e che persegua l’obiettivo di unificarlo; una nuova soggettività politica quindi fortemente rappresentativa del nuovo proletariato urbano, capace di intrecciare le lotte sociali con quelle sui diritti e di aprirsi alle esperienze delle culture antagoniste, ambientali e di genere, rilanciando, attraverso questa capacità di coniugare le battaglie sociali e di libertà, il conflitto di classe. Una sinistra che coniughi concretamente l’innovazione delle sue forme e il costante aggiornamento della sua analisi con la pratica dell’unità, che faccia della lotta contro la guerra una scelta permanente della sua azione politica.

Per questo credo che la situazione tedesca sia la più avanzata. Lì, per la prima volta, è maturata un’esperienza dalle dimensioni di massa, nella quale vi è una ricomposizione storica tra le due principali culture marxiste del novecento: quella socialdemocratica e quella comunista. Una formazione politica articolata e innovativa, ma dalle caratteristiche marxiste e di classe. Si tratta di capire se la costituenda Sezione Italiana vuole rassomigliare di più all’esperienza tedesca o, se invece, si farà impigliare nella rete del radicalismo, rappresentando così meramente l’antagonismo delle nuove culture critiche, come quella ambientale e di genere. Non è che l’insieme di queste culture del conflitto e di movimento non siano importanti e non debbano trovare il sufficiente spazio nella Sinistra Europea e intrecciarsi profondamente con le lotte per il lavoro; ma se la sinistra di alternativa vuole uscire sia in Italia che in Europa da una dimensione minoritaria o si attrezza a divenire una sinistra di classe, fortemente radicata nel “mondo dei lavori” o rischia di restare minoritaria: una avanguardia elitaria come lo fu la “nuova sinistra” negli anni ’70. Ben altre sono invece le nostre ambizioni.