sabato 29 dicembre 2012

l’Unità 29.12.12
Al via le primarie
Oggi e domani dalle 8 alle 21 aperti 6000 seggi nei circoli Pd
Al lavoro oltre cinquantamila volontari
Stumpo: chi perde non sarà salvato nel listino
di Virginia Lori

Oggi e domani il Pd e Sel apriranno le porte dei circoli per dare il via alle primarie per l’elezione dei parlamentari. Si vota dalle ore 8, e fino alle 21, oggi in Abruzzo, Alto Adige, Calabria, Campania, Liguria, Lombardia, Molise, Piemonte e Umbria. Domani toccherà a Basilicata, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Marche, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana, Trentino, Veneto.
COME SI VOTA
I seggi allestiti, fa sapere il Pd, saranno oltre 6000, grazie al lavoro di più di 50mila volontari, e anche in questa occasione sarà richiesta una sottoscrizione di almeno due euro per sostenere le spese della campagna elettorale. Potranno votare (per i parlamentari Pd) tutti gli iscritti del 2011 che abbiano rinnovato la tessera entro il giorno del voto; coloro che hanno votato alle primarie per il candidato premier del centrosinistra dello scorso 25 novembre e che sottoscrivano l’appello come elettori del Pd. Sarà possibile esprimere due preferenze, una a favore di una donna e l’altra a favore di un uomo, nel caso in cui le due preferenze fossero a favore di candidati dello stesso sesso, la seconda nell’ordine sarà considerata nulla. Saranno considerate invece valide, conseguentemente, le schede con una sola preferenza.
L’affluenza e i risultati dello spoglio e cioè il numero dei votanti e le graduatorie dei consensi saranno trasmessi dalle direzioni provinciali una volta espletate tutte le formalità e i conteggi al sito www. primarieparlamentaripd.it., ma stavolta bisognerà aspettare un po’ di più rispetto al risultato delle primarie della leadership. La composizione delle liste, infatti, dovrà tenere conto della parità di genere e quindi aver preso più voti in una provincia non garantisce automaticamente il posizionamento di eleggibilità in lista. L’ufficializzazione di tutte le liste Pd avverrà comunque l’8 gennaio, in occasione della direzione nazionale convocata ad hoc.
NESSUN SALVAGENTE
E intanto Nico Stumpo, responsabile Organizzazione dei democratici puntualizza: «Il Pd rispetterà l’esito delle primarie per i parlamentari e il voto democratico dei cittadini». Vale a dire: chi perde le primarie «non verrà recuperato nel listino bloccato. Faccio parte di un partito e di un gruppo dirigente dotato di un abbondante buon senso e sarebbe ben strano che chi è arrivato sotto altri che hanno vinto, poi si trovi sopra. Quando si fa una competizione se ne deve rispettare l’esito. Non si può certo giocare con il voto democratico dei cittadini». E sarà per una forma scaramantica, così come non si era espresso alle primarie del 25 novembre, anche stavolta nessuna previsione sull’affluenza. «Saranno un grande successo», prevede Stumpo.
Di primarie torna a parlare anche il sindaco di Firenze Matteo Renzi: quelle per la scelta del candidato premier del centrosinistra non sono «una partita conclusa in cui ci sono stati vincenti e perdenti. Tutti siamo usciti cambiati». Renzi scrive che si è vissuta «una stagione straordinaria. Le primarie sono state una grande occasione di incontro, di affermazione di idee, di apertura a nuove e coinvolgenti elaborazioni». Per il sindaco «i cittadini, oltre un milione, che hanno scelto e sostenuto la nostra proposta non si sono dissolti e con loro, ne sono sicuro, ci sono altri milioni di persone che vogliono migliorare il futuro di questo Paese e che ci sono vicini».
Nel giorno in cui il premier uscente Mario Monti si chiude in un luogo segreto con Casini e Riccardi per decidere liste e modalità di presentazione alle elezioni, Rosy Bindi, come anche Nichi Vendola oggi in un’intervista sul nostro quotidiano, segna la differenza: «Il Pd è l’unica forza che si mette in gioco per un vero cambiamento. Siamo gli unici a proporre forme di partecipazione e coinvolgimento reale dei cittadini. È un esempio di buona politica e anche un modo per “risarcire” gli elettori della mancata riforma della legge elettorale. Non ci siamo chiusi in un luogo top secret per stabilire la composizione delle liste». Ma non mancano le polemiche in casa democratica: in Calabria Cesare Marini, deputato uscente, ha rinunciato alla candidatura parlando di «primarie farsa» e di risultato già scritto, mentre a Catanzaro, malumori contro il commissario regionale, Alfredo D’Attorre, e la sua decisione di correre per la nomination svestendo, quindi, i panni di uomo super partes.

l’Unità 29.12.12
Come si vota

Date e modalità del voto
1 Le primarie per la selezione del 90% delle candidature del Pd al Parlamento nazionale si svolgono nei giorni 29 o 30 dicembre 2012. Non vengono computate le posizioni di capilista che saranno definite d’intesa tra la Direzione nazionale e le Unioni regionali.
2 Le Direzioni delle Unioni regionali si riuniscono entro il 21 dicembre e stabiliscono se nella regione le primarie si svolgono il 29 oppure il 30 dicembre 2012.
3 Si vota dalle ore 08.00 alle ore 21.00 del giorno stabilito dalla relativa Unione regionale nei seggi istituiti, di norma, presso i circoli del PD.
4 L’elettrice/ore può esprimere fino ad un massimo di due preferenze, differenti per genere. Qualora le due preferenze siano dello stesso genere, la seconda nell’ordine è nulla.

ELETTORI
1 Possono partecipare al voto per la selezione delle candidature al Parlamento nazionale:
a) le/gli elettrici/ori compresi nell’Albo delle primarie dell’«Italia Bene Comune»;
b) le /gli iscritte/i al Pd nel 2011 che abbiano rinnovato l’adesione fino al momento del voto.

2 Per esercitare il diritto di voto ciascun/a elettore/ice deve
a) dichiararsi elettrice/ore del Pd e sottoscrivere un pubblico appello per il voto al Pd secondo le modalità di cui al Regolamento per le primarie «Italia Bene Comune»;
b) versare una sottoscrizione di almeno due euro per la campagna elettorale;
c) sottoscrivere l’impegno a riconoscere gli organismi di garanzia previsti nel presente Regolamento come uniche sedi per ogni eventuale interpretazione, contestazione o controversia riferibile all’organizzazione e allo svolgimento delle elezioni primarie.

l’Unità 29.12.12
L’appello
Da Bologna arriva l’invito a votare solo donne

Altro che ticket maschio-femmina: le donne del Partito democratico di Bologna invitano a votare una candidata qualunque, purché sia donna. L’appello porta la firma di Federica Mazzoni, coordinatrice Donne del Pd di Bologna. «È fondamentale non lasciarsi sfuggire questa occasione per scegliere e votare una delle qualificate donne candidate che, con ottime e diversificate competenze, hanno dimostrato a tutti di sapere incarnare la prospettiva di genere nel proprio agire politico e amministrativo».

il Fatto 29.12.12
Primarie dei parlamentari: l’algoritmo di Bersani
di Wanda Marra e Paola Zanca

Matteo Richetti, presidente dimissionario dell’Assemblea regionale del-l’Emilia Romagna ha scelto un video con sottofondo rock, per Stefano Fassina, responsabile Economia del Pd, si sono mobilitate in appello le associazioni, Roberto Giachetti l’appello l’ha fatto in una video intervista, Matteo Orfini, responsabile democratico Cultura e Informazione, ha realizzato un video con le interviste ai militanti. E intanto, le proteste si moltiplicano: a Torino per i troppi inviti al voto per sms come a Bari per le mancate deroghe. Le primarie per i parlamentari del Pd assomigliano tanto a un terno al lotto. Necessario ma non sufficiente il cosiddetto “radicamento nel territorio”, favoriti i radicati nel partito. Un’incognita per tutti. I candidati sono 900, i vincenti non si sa.
PRENDIAMO il caso Roma: candidati 21, quanti ne passano? Dipende dai voti presi dagli altri che fanno capo al collegio Lazio 1. Ma quanti saranno i candida-bili usciti da Lazio 1? Non è chiaro: alle ultime elezioni furono 16 per la Camera e 11 per il Senato, ma bisogna fare una proiezione su quanti ne dovrebbe prendere un Pd vincente. E poi comporre le liste mettendo nei posti sicuri quelli che prendono più voti. Variabili che si moltiplicano. Anche perché tutto questo si va a intersecare con il listino del segretario: 93 posti più 46 capolista per 139 complessivi (di cui però alcuni usciranno dalle primarie). Blindatissimi tutti, con buona pace dei gazebo. Ieri Nico Stumpo ha fatto sapere che i perdenti non verranno recuperati. Più o meno mentre Bersani annunciava che nessun ministro sarà candidato nelle liste democratiche, “il che non significa che chi ha lavorato non possa essere ancora utile a questo paese”. Molti non candidati - in pole D’Alema e Veltroni, per arrivare a ipotesi tecniche, da Barca in poi - saranno ministri. Per il listino, dopo Grasso i Democratici annunciano sorprese. Gira voce di una candidatura di Mauro Moretti, numero 1 di Fs, contro cui si scaglia tutta la Versilia, memore della strage di Viareggio. Il portavoce del segretario, Di Traglia smentisce. Niente primarie, nonostante le promesse, per i derogati Fioroni, Marini, Agostini e Bressa. “Paracadutate” a Taranto e Reggio Calabria, Finocchiaro e Bindi. A scanso di esclusione dai giochi, Adinolfi, renziano d’adozione sceglie l’agenda Monti.
ANCHE SEL sceglierà i suoi candidati con le primarie oggi e domani. E anche qui, c’è il listino: 23 nomi scelti dal presidente della Puglia che hanno fatto storcere il naso alla base. Ci sono dirigenti del partito come Nicola Fratoianni, Massimiliano Smeriglio, Gennaro Migliore, Claudio Fava (unico derogato) e esponenti della società civile come Giorgio Airaudo della Fiom, i giornalisti Roberto Natale e Ida Dominijanni (Giuliana Sgrena invece farà le primarie), Laura Boldrini e Francesco Forgione. La polemica riguarda soprattutto il ricambio generazionale: tant’è che Nichi, alla fine, ha scelto di mettere tra i “sicuri” anche la giovane femminista e attivista antimafia Celeste Costantino. Tolti i 23 probabili capilista, in ballo ci sono una cinquantina di posti (i sondaggi danno Sel al 6%, che corrisponde a 70/80 seggi). Anche qui la sfida è tra chi già controlla voti nel partito (consiglieri regionali come Zaratti nel Lazio e Aiello in Calabria) e “nuove leve” come il lucano Cesare Roseti, Michele Curto (consigliere comunale a Torino), Laura Cirella, calabrese anche lei.

La Stampa 29.12.12
Via alle primarie col rebus ripescati
di Roberto Giovacchini

Sarà certo difficile raggiungere i notevoli livelli di partecipazione toccati nel duello tra Bersani e Renzi: aver scelto il periodo a cavallo tra Natale e Capodanno certo peserà sui risultati delle primarie parlamentari del Pd in programma per oggi e domani. Non per questo però non si tratterà di un appuntamento politicamente significativo.
Come si piazzerà a Roma Stefano Fassina, il giovane economista sostenitore delle politiche per il lavoro e contro l’austerity consacrato come nemico numero uno da Mario Monti e Pietro Ichino? Rosy Bindi e Anna Finocchiaro, chiesta e ottenuta la deroga e presentatesi rispettivamente a Reggio Calabria e Taranto, riusciranno ad avere dalla loro il conforto dei numeri o verranno respinte in quanto paracadutate? I molti parlamentari uscenti, finiti nel lotto dei candidati alle primarie parlamentari, riusciranno a battere la forza dei “signori delle tessere” locali, sconosciuti a livello nazionale ma forti nell’apparato del partito? Giorgio Gori, patron di Magnolia, ex boss di Canale 5 e ora eminenza grigia di Matteo Renzi, che si presenta a Bergamo, quanti voti prenderà? Molte delle risposte a questi interrogativi - e la complessiva efficacia dell’operazione politica fortemente voluta dal segretario Pier Luigi Bersani - dipenderanno dalla effettiva risposta ai seggi del popolo del Pd. Per adesso, l’unica certezza è che i risultati saranno disponibili soltanto un giorno dopo Capodanno: un ritardo ben comprensibile, se si pensa che tutto il lavoro ai seggi sarà svolto volontariamente da militanti che avranno ben il diritto di godersi spumante e lenticchie anche loro. Meno certezze ci sono invece - nonostante le precisazioni del responsabile organizzativo del Pd Nico Stumpo - sul fatto che vip o parlamentari trombati dagli elettori delle primarie non vengano davvero ripescati nella «quota protetta» dei candidati garantiti. Fascia «sicura» che Bersani ha spiegato rappresentare solo il 10% dei candidati. Fascia che però alla fine peserà per almeno il 30 per cento dei deputati e senatori eletti dal Pd. E così, non è affatto scontato che i vincitori delle primarie di oggi e domani (cioè quelli che prenderanno più voti) possano legittimamente attendersi di finire in Parlamento. Tutto dipenderà da come verrà costruito il listone unico dei candidati alla Camera come previsto dal Porcellum, che dovrebbe prevedere 280 deputati democratici eletti su 340, e da come saranno impostati i collegi regionali al Senato. Sorprese e polemiche, c’è da giurarlo, non mancheranno.
Molti i nomi noti in corsa per un posto in lista. In Piemonte spiccano Cesare Damiano e Pietro Marcenaro. In Lombardia sono in corsa Emanuele Fiano, Barbara Pollastrini, Erminio Quartiani, Pippo Civati e Daniele Marantelli. A Modena si è candidata Maria Cecilia Guerra, sottosegretario uscente al Welfare, a Bologna corre Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione delle vittime della strage del 2 agosto 1980, accanto a parlamentari uscenti come Sandra Zampa e Donata Lenzi. A Ravenna gareggia la canoista Josefa Idem. A Roma oltre a Fassina c’è il «giovane turco» Matteo Orfini, parlamentari uscenti come Roberto Morassut e Vincenzo Vita, a sfidare il boss della federazione Marco Miccoli. Corre a Barletta Francesco Boccia, mentre a Bari si presenta Gero Grassi. Tra i renziani a Firenze corrono Dario Nardella, Rosa Maria Di Giorgi, a Roma Roberto Giachetti, in Emilia Matteo Richetti e Salvatore Vassallo. Anche Sel chiama al voto i suoi elettori, per scegliere i candidati che completeranno la lista dei 23 «sicuri». Tra questi, la portavoce dell’Alto commissario Onu Laura Boldrini e l’ex sindacalista Fiom Giorgio Airaudo. "Risultati solo dopo Capodanno per problemi organizzativi"

La Stampa 29.12.12
Bersani: Monti non pensi che se perde sarà premier
Il leader Pd: governa chi vince. Rutelli candidato con Tabacci
di Carlo Bertini

Come sempre, c’è una sfera pubblica e una privata. Alla prima appartiene la domanda che pone Bersani quando si chiede se Monti e i suoi vogliono essere avversari del Pd o possibili alleati. «Il mio rapporto con Monti è amichevole, di stima e rispetto, noi siamo alternativi alla destra, a Berlusconi e ai populismi, ora bisogna vedere come loro si rapporteranno rispetto al Pd: competitivi, alternativi, disponibili ad un’alleanza? ». Alla seconda categoria appartiene invece una duplice preoccupazione: che non sia Monti a dettare l’agenda della campagna elettorale e che queste liste possano drenare voti al Pd.
«Oggi Monti è un concorrente e dopo il voto un possibile alleato, l’avversario è Berlusconi, ma Monti può toglierci voti, il Cavaliere no», ragiona Enrico Letta. «Bisogna capire se si andrà o meno ad una campagna elettorale abrasiva su tutti i fronti o no». Ma in ogni caso, a confermare la determinazione con cui tutto il vertice del Pd viva questa sfida col prof. è un concetto ripetuto da Bersani nei suoi conversari. «Non si illuda Monti che siccome gli abbiamo sempre votato la fiducia con massima lealtà per un anno, saremmo disposti a votargli di nuovo la fiducia dopo le elezioni». Un concetto che rende bene quale sia la linea del Piave: non cedere lo scettro di palazzo Chigi a Monti immolando la guida del governo sull’altare di un’eventuale alleanza politica con la coalizione centrista. Perché come fa notare lo stesso Letta, «col porcellum non ci sono alternative, chi vince alla Camera fa il premier e noi siamo sereni». Anche quel «wait and see, aspettiamo e vediamo», pronunciato dal premier in replica al quesito se potrà mai sedere a Palazzo Chigi se arrivasse secondo, non impensierisce granché. «Perché è francamente singolare immaginare che diventi premier il capo di una coalizione che ha perso le elezioni arrivando terzo o quarto», è la battuta che riecheggia dalla war room Pd.
Insomma, Bersani assicura che non scherza quando ad ogni occasione ripete che se finisse in pareggio «si tornerebbe a votare». Ma al di là di questo avvertimento i sondaggi confortano sulla vittoria, perché la coalizione PdSel risulterebbe comunque in vantaggio netto anche su una coalizione guidata dal professore. E paradossalmente la conseguenza positiva di una presenza in campo di Monti è che le sua lista potrebbe contribuire a far vincere il centrosinistra anche al Senato togliendo voti al centrodestra in Lombardia, la regione che esprime un maggior numero di senatori.
Ma lo spettacolo della conferenza stampa di Monti è vissuto con fastidio dai bersaniani che rigettano al mittente la critica che viene rivolta sempre al centrosinistra. «Loro sì che ricordano l’Unione, tra liste civiche, liste uniche, liste partitiche. Quel dovere di elencare uno per uno i partecipanti al vertice... ». Tradotto, neanche ha cominciato che già deve rendere onore a tutti i contraenti del nuovo patto politico centrista, nulla a che fare col rinnovamento.
Quel rinnovamento che il Pd sta mettendo in campo in tutti i modi, candidando un uomo di Stato come Piero Grasso per dare un antipasto del governo che ha in mente Bersani; e organizzando di corsa le primarie, anche se la sfida porta a porta che combattono gli aspiranti-parlamentari del Pd già fa prevedere una battaglia in Direzione dopo la Befana: i «giovani turchi» come Matteo Orfini non faranno sconti al segretario perché hanno il dente avvelenato con quelli che sgomitano per entrare nel famoso «listone bloccato» di 120 candidati sicuri. «Voglio proprio vedere - avverte Orfini - se ci saranno parlamentari uscenti, portavoce di questo o quello, che si sono defilati alle primarie sperando di strappare seggi sicuri. Faremo le barricate... »
E sulla formazione con cui presentarsi alle urne qualche problema c’è pure in casa dei progressisti. Dove il piemontese Portas non presenta più la sua lista dei Moderati per «non mischiarsi» con Tabacci e Donadi che si presentano col «Centro Democratico», una formazione alleata col centrosinistra dove sarà candidato anche Francesco Rutelli, capolista al Senato nel Lazio.

Repubblica 29.12.12
Bersani chiede chiarezza a Monti “Dica come si schiera rispetto al Pd”
“Noi coerenti, non candidiamo ministri”. Replica al Vaticano
di Alberto Custodero

ROMA — «Monti adesso dica come si pone nei confronti del Pd, il primo e più grande partito del Paese». Pier Luigi Bersani accoglie con freddezza l’annuncio che il Professore sarà il candidato premier di una coalizione di liste centriste. Anche se, precisa, «con lui c’è un rapporto amichevole, di stima, di rispetto reciproco». Ma, a proposito di una possibile convergenza con i centristi, il segretario democratico chiede chiarezza: «Si riterranno alternativi, competitivi, disponibili a un’alleanza? Adesso non tocca a noi chiarire. Tocca agli altri». «Io — aggiunge — ho sempre detto che i progressisti sono aperti a discutere una convergenza con una forza europeista, moderata, centrale che si ritenga alternativa alla destra, ai populismi, alla Lega e a Berlusconi ». Bersani entra quindi nel merito del programma per sottolineare la differenza tra il Pd e le altre formazioni in corsa alle elezioni: «Rispetto agli altri nel nostro programma c’è più equità e lavoro e anche più riforme perché il cambiamento è ancora da fare. E noi vogliamo farlo dal lato dei progressisti così come avviene a livello europeo». Il Pd, dichiara, è «dal lato dei riformisti, noi ci riteniamo dentro la grande famiglia dei progressisti europei e mondiali, è questa la qualità del nostro programma».
Il candidato premier del centrosinistra piuttosto annuncia una mossa che può mettere in imbarazzo i montiani, cioè l’esclusione dalle liste Pd dei ministri tecnici dell’attuale governo (erano circolati i nomi di Balduzzi e Profumo). «Un anno fa — spiega Bersani — abbiamo fatto un governo super partes. Se la politica è una cosa nobile, mettiamoci un po’ di stile». «Io — dice, riferendosi in modo indiretto al premier — rispetto le scelte di tutti. Ma voglio essere coerente al di là delle convenienze elettorali». «Un po’ di coerenza — sottolinea — è necessaria per questo Paese».
Il segretario pd replica anche all’editoriale dell’Osservatore Romano a proposito del sostegno espresso alla “salita” in politica di Mario Monti al quale è stato attribuito il merito di aver ridato nobiltà alla politica. «Mi piace molto il concetto di “nobiltà della politica” — dice — io la penso in questo modo fin da bambino. Ma a me vengono in mente le sindachesse della Locride che lottano da anni contro le cosche. E poi i centomila volontari che si sono mangiati le vacanze per organizzare le primarie». «Per me — replica, polemico, al quotidiano del Vaticano — la nobiltà della politica non è una sorpresa quando si riesce a guardarla dal basso. E io intendo guardarla dal basso perché la nobiltà della politica c’è in giro». Il leader pd chiarisce però poi di non voler
polemizzare con l’Osservatore Romano. L’elogio del premier e della sua scelta di impegnarsi come leader politico, a giudizio di Bersani, «non è una ingerenza, ma è libera espressione di giudizio. Va benissimo, si sta parlando di cos’è la politica, poi ognuno farà le sue scelte».
Quanto al caso Ichino, «ognuno va dove lo porta il cuore, per noi problemi zero». Così Bersani, senza troppo rimpianto, dice addio al giuslavorista e ai quattro parlamentari cattolici passati al servizio dell’“Agenda Monti”.

Repubblica 29.12.12
Il leader dei Democratici ostenta ancora fair play, ma nel partito c’è chi attacca a testa bassa
Il segretario prepara la battaglia “Ora Mario non è più super partes sta creando una lista delle élite”
di Goffredo de Marchis

ROMA — Competition is competition ed è appena cominciata perché ormai Monti «non ha più un profilo super partes». Pier Luigi Bersani ha seguito l’evoluzione della giornata insieme con lo stato maggiore del Pd: Enrico Letta, Maurizio Migliavacca, Miro Fiammenghi, gli uomini e le donne dello staff. Dopo la conferenza stampa del premier, nella sede del Pd hanno cominciato subito a ragionare su come calibrare adesso la campagna elettorale. In quelle stanze, si è sentito dire che è nata la «lista delle élite ». Una definizione in parte confermata dal segretario durante la presentazione del capolista Piero Grasso. «La nobiltà della politica per me nasce dal basso. Dai nostri sindaci della Locride che sono in prima linea contro la ‘ndrangheta. Dai volontari che rendono possibili le primarie e la partecipazione di popolo alle scelte della politica». Una risposta nemmeno troppo implicita al sostegno del Vaticano al Professore, a un establishment che si schiera quasi tutto dalla parte del centro. E all’annuncio di Monti, certo.
Chi conosce bene il risiko dei poteri forti, come Letta, non sottovaluta l’impatto diretto di Monti sul voto e la possibilità che la sua forza personale dreni voti anche al Partito democratico. Non lo fa neanche Bersani che però vede alcuni limiti dell’operazione. Monti prima o poi dovrà dire da che parte sta, se è alternativo alla destra e alla sinistra in eguale misura o se pensa di rappresentare il centro del centrosinistra nell’alleanza alla quale il segretario Pd non ha smesso di credere. È una scelta imprescindibile che toglierà il Professore dalla posizione di mezzo in cui si è collocato ora perché «le agende sono le agende ma poi c’è la politica». Il bivio si pone in Italia e in Europa, e un europeista come il premier non potrà sottrarsi: starà con il Ppe dove «c’è Angela Merkel ma accanto a lei siede Viktor Orbàn», il leader liberticida dell’Ungheria che ha imposto un solo canale televisivo e tagliato della metà gli atenei? I democratici sono convinti che alla lunga Monti sarà costretto anche a fare i conti con le anime rappresentate dai suoi alleati. Nella lista del premier, infatti, convivono le Acli di Olivero che chiedono un’intesa con i progressisti, gli ex Pdl che non se la possono permettere, chi come Riccardi immagina di essere alternativo tanto al Pdl quanto al Pd e anche un po’ di vecchia politica. Fini e Casini, per esempio, che si «nascondono sotto l’ombrello di Monti ma sempre vecchi sono». Parole che oggi vengono solo sussurrate ma in campagna elettorale potrebbero diventare slogan e strumento di propaganda.
A tutti Bersani ripete che non si metterà «a dare cazzotti» al premier. Che non sarà questo il tema della sua corsa alle elezioni. Non ha gradito però essere messo sullo stesso piano di Berlusconi nella descrizione del bipolarismo combattivo fatta da Monti. Quindi, pace e fair play. Ma se i centristi pensano di collocarsi nell’area dell’equidistanza, allora i colpi partiranno anche dal centrosinistra.
Non c’è dubbio, il clima è cambiato e il segretario si prepara alla battaglia a tre: il populismo di Berlusconi, la coalizione dell’élite, e la forza popolare dei progressisti, «quelli che vogliono vedere la realtà dal basso, che stanno in mezzo alla gente, che non risolvono la crisi della politica chiudendosi in cinque in una stanza per fare le liste e per di più in un luogo segreto». Sono questi i ragionamenti svolti nelle riunioni del gruppo dirigente presente a Roma non tanto per seguire le mosse del centro ma per organizzare al meglio le primarie per i parlamentari di oggi e domani.
Nel partito emergono anche posizioni estreme. La complicata formula della lista unica al Senato e delle liste multiple alla Camera viene considerata «roba da Prima repubblica». Se poi lo fanno per avere più spazio in tv durante la fase della par condicio «la figura è persino peggiore». Alcuni vedono «un replay dell’Unione ». In pratica, una grande ammucchiata. Non è la linea del candidato premier Bersani che si rifiuta di considerare Monti avversario al pari del Cavaliere, che continuerà a muoversi «nel filone profondo di una condotta europeista, ovviamente rimanendo dentro il solco del progressismo
». Ma si prepara a ribattere colpo su colpo all’offensiva montiana: già oggi, e poi distillate una al giorno, arriveranno nuove candidature del Pd dalla società civile. La più scontata: la campionessa olimpica Josefa Idem, in caso di successo alle primarie, sarà capolista in Emilia. Ma l’elenco del segretario è lungo: imprenditori, professori, professionisti. È lui a contattarli direttamente, come ha fatto con l’ex procuratore antimafia Grasso.
Sarà la sfida di questi giorni: il tasso di “civismo” nelle liste. Ma verrà il tempo del confronto diretto e della campagna elettorale vera e propria. Come si comporterà Monti? Bersani spiega ai suoi colleghi di partito come si comporterà lui. «Non sarò io a sferrare il primo colpo. Ma so come vanno certe cose. Alla fine purtroppo tante se ne prendono. E tante se ne danno».

l’Unità 29.12.12
Lista «arancione»? Un caso di appropriazione indebita
Il colore della primavera milanese e di tante altre città è stato un percorso di partecipazione ,
non un modo di infilarsi in una nuova formazione fatta di tante sigle in lotta
Trasformare questo movimento nei «tesserati» di qualcuno è il modo sicuro per perderli
di Giuliano Pisapia
Sindaco di Milano

UN ANNO E MEZZO... ERA DAL GIUGNO DEL 2011, DA QUANDO SONO DIVENTATO SINDACO, che non riuscivo ad avere un po’ di tempo per me. Scrivo solo ora queste riflessioni, che avevo in testa da un po’ e che molti mi sollecitavano, dopo aver ricevuto da Gianni fotografo per passione e tappezziere di professione un meraviglioso regalo: un album con tante foto bellissime della campagna elettorale che ha cambiato colore a Milano, togliendo dopo diciassette anni la città al governo della destra.
Quelle immagini delle assemblee, delle strade colorate strapiene di gente in festa, di quella piazza del Duomo tinta di arancione, affollata come accadeva solo nei grandi comizi del dopoguerra, mi spingono a intervenire su quello che è stato chiamato il «movimento arancione». Perché all’orizzonte vedo un pericolo: quello che il fenomeno politico più interessante, originale e promettente degli ultimi anni, venga ucciso prima di diventare grande. Vedo il rischio che una nuova specie di leaderismo impoverisca, e ponga fine, alla preziosa novità che consiste nella reale partecipazione collettiva.
Ora, se non esiste un copyright depositato all’ufficio brevetti per quel fenomeno che è sembrato una nuova primavera della politica italiana, certo sono state Milano e la campagna elettorale per il sindaco della mia città, il punto di partenza e il centro di quel rinnovamento. In campagna elettorale ho pubblicato un diario della mia esperienza, che si intitolava proprio «Cambiare si può» (nome che ho visto ripreso...) ed era la cronaca fedele dell’ondata di partecipazione che ha coinvolto le associazioni, gli scout, le parrocchie, i quartieri, i partiti, ogni genere di comitati, i genitori delle scuole, gli studenti, i centri sociali e che si andava ingrossando ogni giorno di più.
Milano era la città più saldamente in mano al centrodestra, la città di Berlusconi, di Bossi e dei colonnelli di La Russa. E se la nostra vittoria elettorale è stata possibile, è perché quel movimento ha trovato la sua più alta e libera espressione. Ed è da qui che poi si è diffusa anche con i segni esteriori: i palloncini, le bandiere, i braccialetti arancioni... in tutte le elezioni comunali del 2011.
Ma non è per mettere il cappello, né per difendere una primogenitura, che ho deciso di prendere posizione. Ho deciso di farlo perché sono preoccupato per i pericoli che vedo concretizzarsi  all’orizzonte: vedere il popolo arancione strattonato da tutte le parti, trasformato in un aspirante piccolo partito, strumentalizzato al fine di ottenere qualche deputato, plasmato per infilarlo in una lista, accodato a questo o a quel candidato leader scelto dall’alto, mi preoccupa. E mi fa temere che questa, di trasformare gli «arancioni» nei tesserati di qualcuno, sia la strada sicura per perderli e per perdere. Siccome la conosco bene, so che la filosofia del popolo arancione è quanto di più libero esista: gli arancioni sono quelli che hanno partecipato spesso senza avere  una tessera; sono quelli che hanno lavorato per il bene comune senza essere incasellati in un partito e senza aspettarsi niente in cambio; coloro che hanno fatto politica immaginandola come servizio, non come ruolo.
Il movimento arancione è stato, ed è, qualcosa di veramente rivoluzionario: è fatto di persone che, semplicemente ed è un insegnamento di don Milani hanno deciso di «usare le mani, invece di tenerle in tasca». La sua forza sta nella passione disinteressata e nell’unità; il contrario delle divisioni che si intravedono oggi. Sta nell’essere inclusivo, che è il contrario dell’essere settario. Nell’essere direttamente protagonista della partecipazione, non per interposta persona.
Non è stato, quello arancione, un simbolo inventato a tavolino. Il processo è stato il contrario: chi ha deciso di occuparsi della cosa pubblica che non è né scendere, né salire in politica e di farlo a seconda di modalità sue proprie, all’interno del proprio contesto, si è raccolto sotto quel colore vitale, ottimista, positivo. L’arancione della primavera milanese e poi di quella di Cagliari, di Genova e di centinaia di amministrazioni comunali in tutta Italia è stato un percorso di coinvolgimento, ascolto, partecipazione di centinaia di migliaia di persone che avevano trovato il modo di manifestare un nuovo atteggiamento, non di infilarsi in una nuova formazione, tanto meno se formata da tante sigle, spesso in contrasto fra loro. Non è pre-politica; piuttosto, se proprio occorre una definizione, è post-politica. La forma-partito, al popolo arancione sta stretta. Non ha bisogno di simboli e di leader; sono tante persone diverse unite dalla voglia di partecipare e di rinnovare la politica con l’impegno in prima persona. L’arancione, dal luglio 2010, è diventato una filosofia, un’idea, un percorso, una scelta anche di vita fatta da donne e uomini molto diversi tra loro che hanno deciso di cambiare in profondità i territori dove vivono mettendo al centro del loro pensare la partecipazione attiva dei cittadini.
È un cambiamento radicale che pone al centro dell’agire politico la ridefinizione di un nuovo senso civico di appartenenza alla città e alla comunità. Un nuovo senso civico che si caratterizza attraverso il rispetto dei diritti di tutti e la salvaguardia del territorio e dei beni comuni e che deve continuare ad avere le primarie come premessa per un modo diverso di selezionare la dirigenza politica e/o l’esperienza parlamentare.
Ecco perché credo che una realtà così complessa non possa essere rappresentata da una lista. Ecco perché sono convinto che non siano i pur bellissimi slogan a dover unire, ma il metodo. Ecco perché non ho dubbi sul fatto che il nuovo modo di fare politica, nato nel luglio del 2010 e fondato sulla democrazia partecipata, debba avere inizio dalle primarie. Infine, ecco perché condivido l’opinione di chi giudica le manovre intorno alla costituenda lista arancione un’appropriazione «politicamente indebita» e un’operazione pericolosa. Sono particolarmente attento a tutto ciò che si sta muovendo nel vasto universo della sinistra, e so quanto possa essere difficile elaborare percorsi innovativi senza subire forzature non richieste e sempre dannose. L’arancione è il colore che ha tinto i sogni di tantissime persone e non può e non deve essere utilizzato solo da una parte di queste, né contro qualcosa o qualcuno, ma per l’interesse collettivo e il bene comune. Attenzione a non uccidere l’esperienza più bella che tante donne e tanti uomini hanno costruito per dare una speranza di futuro migliore per tutti.

il Fatto 29.12.12
Lettera di Ingroia Bersani non risponde

HA INTENZIONE di rispondere alla lettera di Antonio Ingroia nell’ottica di un dialogo o un’alleanza elettorale?”. Alla domanda del Fatto Quotidiano, Pier Luigi Bersani ha risposto diretto: “Io rispondo solo alle lettere che mi arrivano per posta. Questo è il mio modo di fare e non vale solo per Antonio Ingroia. Ricevo tante lettere pubbliche, da tante parti, alle quali non ho risposto. Se si vuole discutere lo si fa in un altro modo, non c'è alcuna ostilità nei confronti di nessuno ma ho sempre fatto così”. Sulla possibile candidatura di Ingroia è intervenuto anche l’ex magistrato Piero Grasso in conferenza stampa. “Abbiamo bisogno nel Paese di schiene dritte – ha dichiarato Grasso – una volta mi disse Antonino Caponnetto: ‘vai avanti ragazzo a testa alta e schiena dritta e segui la voce della tua coscienza’. Tutti quelli che si identificano in questo modo di pensar per me sono i benvenuti, se poi vi sono idee che possano essere condivise sono pronto a considerare qualsiasi ipotesi di colloquio con chiunque”. Stamattina l’ex procuratore di Palermo Ingroia scioglierà definitivamente il nodo sulla sua candidatura.

La Stampa 29.12.12
Ingroia: “Mi candido a premier per una rivoluzione civile”
Il magistrato correrà come capolista alle politiche: «Il Pd ha abbandonato il passato, confronto possibile solo se abbandonerà le sue contraddizioni»
qui
http://www.lastampa.it/2012/12/29/italia/politica/ingroia-scioglie-i-dubbi-mi-candido-gomw54uzsw87Q3jRxPQldK/pagina.html

l’Unità 29.12.12
Agenda progressista, punto uno: ristabilire i diritti sindacali
di Luigi Mariucci

LA LETTURA DEL DOCUMENTO PRESENTATO DA MONTI, LA COSIDDETTA «AGENDA» PUBBLICIZZATA CON TANTA enfasi, suscita un sentimento di delusione. Almeno sui temi del lavoro, che costituiscono il problema principale della agenda vera, vale a dire della agenda-Paese. Qui colpiscono più le cose che mancano di quelle che vengono dette. Nulla si dice ad esempio di un tema cruciale al fine di restituire funzionalità e senso al sistema di relazioni industriali: la necessità di definire regole precise in tema di rappresentatività sindacale e di efficacia dei contratti collettivi. In mancanza di tali regole infatti l’intero complesso delle relazioni collettive rischia di naufragare nell’indistinto, in una conflittualità entropica in cui non si capisce più chi contratta a nome di chi, e dove tutto è possibile, compresa l’esclusione del sindacato che dissente da uno specifico contratto dal diritto di essere rappresentato nei luoghi di lavoro, come è avvenuto alla Fiat. Un caso che non ha paragoni in nessun Paese civile. A proposito di Europa, questo dovrebbe essere il primo punto di una seria agenda sul lavoro: portare il sistema delle relazioni sindacali italiane al livello degli altri Paesi europei, dove le regole di cui si parla sono chiaramente stabilite dalla legge e dove quindi i conflitti intersindacali si svolgono nel merito e non sul piano stesso della legittimità.
Data la reticenza sul tema cruciale appena accennato non stupisce quindi che nel documento in oggetto nulla si dica della necessità di abrogare il prima possibile una norma indecente introdotta dal governo Berlusconi nella sua fase finale: mi riferisco all’articolo 8 della legge n. 148 del 2011, che attribuisce ai contratti aziendali comunque stipulati la potestà di derogare in peggio a ogni disciplina stabilita dai contratti nazionali e dalla legge, su temi cruciali come i licenziamenti, la qualificazione dei rapporti di lavoro, i rapporti atipici e così via. Una norma incivile, sicuramente incostituzionale, che non esiste in alcun Paese europeo e in nessuno stato di diritto. Si poteva capire perché il governo Monti tra i suoi tanti provvedimenti non avesse previsto questa doverosa abrogazione dell’articolo 8: allora era sorretto dalla strana maggioranza, di cui facevano parte la destra berlusconiana e l’ex ministro Sacconi, autori di quella norma indegna. Non si comprende invece perché non lo si dica ora. Mentre c’è da sperare, anzi da essere sicuri, che l’eliminazione di quella norma farà parte dei primissimi provvedimenti del nuovo governo di centrosinistra, se e quando vincerà le elezioni.
Nel documento Monti invece in vari passaggi si invoca la necessità di un più forte decentramento contrattuale, e si richiama il recente «accordo sulla produttività», sottoscritto, com’è noto, senza l’adesione della Cgil, la quale del resto dallo stesso Monti viene liquidata per essere un soggetto meramente «conservativo». Nulla si dice invece del fatto che la contrattazione, dove esiste, vale a dire nell’industria, copre al momento solo il 30% delle aziende, ed è pressoché assente in altri comparti, come quello dei servizi, di modo che solo l’esistenza di un contratto nazionale di lavoro può assicurare la garanzia di minimi di trattamento a tutti i lavoratori del settore.
Un diverso discorso si dovrebbe poi fare su altri temi toccati dal documento in questione, come quello relativo agli strumenti di contrasto alla precarietà e agli ammortizzatori sociali. Qui ci si limita a una generica rivendicazione delle normative introdotte dalla legge Fornero, senza tenere in alcun conto i punti critici già emersi in fase di prima attuazione di quella legge, invece ampiamente evocati da tutte le parti sociali.
In conclusione, a una prima lettura si può dire che si tratta di un documento deludente e povero di contenuti. Mi stupisce che Pietro Ichino, già senatore del Pd e ora candidato nella lista Monti, ne rivendichi la paternità. Le proposte di Ichino, pure non condivisibili, hanno tuttavia il pregio della chiarezza: sono proposte di marca nettamente iperliberista, fondate sulla idea che in Italia sia utile una sorta businnes unionism, un sindacato meramente economico, e che per avere lavoro i lavoratori italiani debbano mercanteggiare i loro diritti. È una idea sbagliata, ma almeno chiara. L’agenda Monti, al confronto, mi pare invece una minestra insipida.

l’Unità 29.12.12
Allarme Cgil: Sei milioni di pensionati esclusi dagli aumenti
Rivalutazione bloccata anche nel 2013 per gli assegni superiori a tre volte
il minimo
Spi-Cgil: non sono ricchi, così perdono 1.135 euro
Cantone: il governo ha scelto di colpire questa categoria salvaguardando chi poteva dare di più
di Felicia Masocco

ROMA Dal primo gennaio le pensioni aumenteranno del 3% per essere adeguate al costo della vita: 6 milioni di pensionati però non avranno alcuna rivalutazione e, come quest’anno, saranno loro a doversi adeguare. È lo Spi-Cgil a mettere a fuoco uno dei tanti aspetti della riforma Fornero e a denunciare come nel biennio gli interessati perderanno complessivamente 1.135 euro. Un doveroso taglio alle pensioni d’oro? Niente affatto, a rimetterci sono quei pensionati il cui assegno supera tre volte la soglia minima. Più o meno 1.217 euro netti (1.486 euro lordi) con cui non c’è molto da scialare.
L’ACCANIMENTO
Un pensionato che si trova in questa fascia sottolinea il sindacato di categoria della Cgil ha già perso 363 euro nel 2012 e ne perderà 776 nel 2013. Un pensionato con un reddito mensile di 1.576 euro netti (2.000 lordi) invece nel 2012 ha perso 478 euro e nel 2013 ne perderà 1.020. «In questo anno abbiamo assistito ad un accanimento senza precedenti sui pensionati, che più di tutti hanno dovuto pagare sulla propria pelle il conto della crisi», commenta il segretario generale dello Spi, Carla Cantone. «L’aumento annuale delle pensioni che scatterà nei prossimi giorni continua è risibile e non garantisce il pieno recupero del loro potere d’acquisto. Oltretutto da questo meccanismo automatico sono stati estromessi per decreto sei milioni di pensionati, la maggior parte dei quali non possono di certo essere considerati dei ricchi o dei privilegiati».
La sindacalista critica il governo che «ha scelto deliberatamente di colpire la categoria dei pensionati lasciandone in pace tante altre che potevano e dovevano contribuire al risanamento dei conti ed è per questo che per noi la cosiddetta Agenda Monti non può di certo essere la ricetta giusta per la crescita e lo sviluppo del Paese».
A questo punto non si può che aspettare il prossimo governo e quantunque sia piuttosto difficile che rimetta le mani a riforme già fatte, il sindacato non rinuncia a chiedere maggiore equità. Oltre allo Spi-Cgil, è la Uil con il segretario confederale Domenico Proietti a chiedere «a chi si candida a governare il Paese di prendere l’impegno di reintrodurre misure di equità, usando maggiore flessibilità nei criteri di accesso al pensionamento, e una maggiore adeguatezza degli assegni pensionistici, ripristinandone immediatamente la perequazione al costo della vita». Richiesta analoga dall’Ugl.
I sindacati sono uniti nel mettere l’accento sulla sostenibilità del sistema previdenziale più volte riformato. «I dati dell’Inps sull’accesso alla pensione nel 2012 continua Proietti dimostrano come il nostro sistema fosse in equilibrio economico già prima dei provvedimenti Fornero, che sono stati una gigantesca operazione di cassa fatta sulle spalle dei lavoratori e contribuendo ad aggravare le recessione».
Nei primi undici mesi del 2012, intanto, gli assegni liquidati dall’Inps, compresi quelli dell’ex Inpdap, sono calati del 18,5% a quota 267.732 (erano 328.549 nello stesso periodo del 2011). È il risultato dell’introduzione della finestra mobile (12 mesi di attesa per i dipendenti, 18 per gli autonomi una volta raggiunti i requisiti) e dello «scalino» della riforma Damiano sempre per il 2011 per la pensione di anzianità con le quote (da 59 a 60 anni l’età minima a fronte di almeno 36 anni di contributi). Gli effetti della riforma Fornero invece si avvertiranno dal 2013 quando si esauriranno la gran parte delle uscite con le vecchie regole (chi ha raggiunto i requisiti entro il 2011 e poi ha atteso le finestre).
I conti dell’istituto sono così «messi in sicurezza», commenta il presidente Inps Antonio Mastrapasqua il quale si sofferma anche sugli importi che verranno calcolati nel prossimo anno, ponendo però l’accento su una sola faccia della medaglia: «I nuovi coefficienti fotografano l’aumento delle aspettative di vita, che sono appunto in rialzo e ciò non può che essere un fatto positivo» e comunque su questa base, i lavoratori che andranno in pensione più tardi percepiranno un assegno più alto, è il suo commento. C’è tuttavia l’altro aspetto: chi lascerà il lavoro prima dei 65 anni sarà penalizzato. Esempio: con un montante contributivo medio di 400mila euro (lordi) perderà 50 euro al mese.

l’Unità 29.12.12
Bagnasco: «Il valore del premier riconosciuto da tutti»
di Roberto Monteforte

CITTÀ DEL VATICANO «Sull’onestà e la capacità di Monti penso ci sia un riconoscimento comune, poi ognuno può avere opinioni diverse, ma credo che su questo piano sia in Italia, sia all’estero ci siano stati riconoscimenti». Così ieri il presidente della Cei e arcivescovo di Genova, cardinale Angelo Bagnasco, è tornato su quanto scritto dall’Osservatore Romano a proposito del «salire in campo» del professor Mario Monti. Pur sempre con parole molto felpate, ha confermato il sostegno all’impresa politica del premier.
Quella di Bagnasco è una dichiarazione che, per differenza, suona come una rinnovata presa di distanza della Cei nei confronti di Silvio Berlusconi, il quale continua a vantare i meriti per i sostegni dati alla Chiesa durante la sua stagione a Palazzo Chigi. Ma la critica al Cavaliere è stata rafforzata ieri anche dal direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, che nella rubrica delle lettere ha risposto a un deputato Pdl, rimproverando molte omissioni al precedente governo, in particolare la mancanza «di concrete ed eque politiche fiscali e di welfare a sostegno della famiglia». Il titolo emblematico della risposta di Tarquinio: «Il valore delle cose “non fatte”». Sempre su Avvenire di ieri non è stato tenero neanche il giudizio sull’«agenda Monti». L’economista Stefano Zamagni l’ha definita: «Un bel documento, ma senz’anima». Un segno che sul giudizio sui contenuti proposti dal Professore i cattolici sono divisi.
Il presidente della Cei, ieri, partendo da Monti è anche tornato a insistere «sulla necessità di una politica nobile». «Auspichiamo veramente ha affermato che chiunque è nella politica, soprattutto nelle prossime elezioni, faccia una politica alta per il bene del Paese. Di questo ha concluso c’è bisogno per la gente». È così che chiosa quanto scritto dall’Osservatore. Conferma l’apprezzamento per la novità politica rappresentata dal governo di Monti. Ma al tempo stesso sfuma. Spersonalizza. Richiama il valore generale delle buone pratiche. I vertici della Chiesa italiana, forse ancora segnati dagli errori e dai collateralismi del recente passato, sembrano malgrado tutto non volersi identificare totalmente con un soggetto o con un’ipotesi politica. Anche se il «nuovo Centro» dei moderati rientra negli auspici delle gerarchie.
Tutti i vescovi sanno bene quanto il voto cattolico sia diviso, quanto sia destinato a restare pluralista e quanto vada in misura non marginale al centrosinistra. Sono pure consapevoli dell’esigenza di recuperare al voto una larga fascia di cattolici delusi dalla politica, che vanno strappati all’astensionismo o al voto di protesta. È anche per recuperare una credibilità alla politica che la Chiesa lancia la parola d’ordine di «una politica alta per il bene del Paese».
È un obiettivo condiviso anche dal segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, candidato premier per il centrosinistra, che ha deciso di rispondere con serenità al quotidiano vaticano, evitando la minima polemica. «Ho letto sull’Osservatore romano e non solo lì ha commentato l’esigenza di una forte nobiltà della politica». E aggiunge: «La forte rivalutazione della nobiltà della politica mi piace molto, però quando ci penso ha osservato mi vengono in mente le nostre sindache della Locride che combattono contro la mafia, e i centomila volontari che si sono mangiati un sacco di giornate libere per organizzare le primarie». Per il segretario del Pd «la nobiltà della politica non è una sorpresa». «Alla nobiltà della politica spiega bisogna guardare dal basso e non dall’alto, perché esiste dal basso, e io farò così». Tante persone già vivono nella quotidianità, senza clamore, con dedizione e sacrificio l’impegno per il bene comune. A proposito di «buona politica» in Italia non tutto parte da zero. Vi è un patrimonio diffuso di impegno politico e sociale «disinteressato» di cui è portatrice anche il centrosinistra.
Commentando l’editoriale dell’Osservatore romano, il vice segretario Pd, Enrico Letta, ha sottolineato come il sostegno a Monti non contenga solo un netto distacco verso Berlusconi ma anche un esplicita autocritica «per l’appoggio dato al centrodestra di Berlusconi». In realtà, tra la stagione berlusconiana e quella della simpatia per Monti, c’è stato nel mezzo un tentativo a favore di un rassemblement guidato dall’ex ministro Sacconi e dai «cattolici di Todi». Tutto però è naufragato e ora l’aria è cambiata. Sacconi sta con Berlusconi. E lo scontro frontale tra il Cavaliere e Monti ha solo anticipato la scelta delle gerarchie.

Corriere 29.12.12
I vescovi spingono il Professore
Il «riconoscimento» del cardinal Bagnasco
di G. G. V.

CITTÀ DEL VATICANO — «Sulla onestà e capacità di Monti penso che ci sia un riconoscimento comune. Ognuno può avere opinioni diverse, ma credo che su questo piano, sia in Italia sia all'estero, ci siano stati riconoscimenti». Il cardinale Angelo Bagnasco, nella sua Genova, non si sottrae alle domande dei giornalisti che gli chiedono della stima espressa dal Vaticano a Mario Monti, la nota dell'Osservatore Romano che elogiava il «salire in politica» del premier come «un appello a recuperare il senso più alto e nobile della politica».
Considerazioni condivise Oltretevere come alla Cei, Avvenire riprendeva ieri la nota politica del quotidiano della Santa Sede, a sua volta rimandata dalla Radio Vaticana. E il presidente dei vescovi italiani non ha problemi a tornarci su: «Sulla necessità di una politica nobile penso che tutti siamo più che d'accordo e noi la auspichiamo. Come auspichiamo veramente che chiunque è in politica, soprattutto nelle prossime elezioni, faccia una politica alta per il bene del Paese. Di questo c'è bisogno per la gente. Quanto ai casi particolari, poi, ognuno fa le sue considerazioni e valutazioni».
La chiosa sui «casi particolari» è importante: detto l'essenziale su Monti, nella Chiesa non si vuole entrare nei meccanismi partitici o delle alleanze per non alimentare accuse di «ingerenza»: tocca ai fedeli «laici» decidere. Anche se le reazioni polemiche non mancano. Il segretario pdl Angelino Alfano abbozza, «nessuna delusione né risentimento, solo la serena consapevolezza che ci siamo battuti e ci batteremo per i valori della dottrina sociale della Chiesa», però osserva che «il centrino nascente» rischia di «agevolare il successo della sinistra» e «divide i moderati». E se Beppe Grillo arriva a paragonare Monti a Mussolini, «uomo della Provvidenza», fino a invocare la revisione dei Patti Lateranensi, nel Pd c'è il governatore toscano Enrico Rossi che ribatte: «Le gerarchie benedicono Monti, ma tra i cattolici siamo il primo partito». Mentre Anna Paola Concia accusa: «Ora si capisce perché nell'agenda Monti non c'è una parola sui diritti civili».
Oltretevere, del resto, si attendono gli eventi e soprattutto il discorso di fine anno del presidente Napolitano. Ciò che si doveva dire, si è detto. «Tempo fa ho già detto alcune cose al Corriere della Sera e posso ribadirle», ricorda lo stesso Bagnasco. Nell'intervista del 10 dicembre — subito dopo che Monti aveva annunciato le sue dimissioni per la sfiducia di fatto del Pdl — il presidente della Cei aveva lanciato il primo, decisivo messaggio: «Non si può mandare in malora i sacrifici di un anno, che sono ricaduti spesso sulle fasce più fragili. Ciò che lascia sbigottiti è l'irresponsabilità di quanti pensano a sistemarsi mentre la casa sta ancora bruciando».
Il giudizio implicito sul ritorno di Berlusconi era evidente. E quando il Cavaliere aveva invitato la Chiesa a ricordare «tutto ciò che abbiamo fatto», la risposta era arrivata da un corsivo secco di Avvenire sulla «ottima memoria» dei cattolici: «È gente che è piuttosto difficile incantare con stentoree o suadenti propagande e che ricorda a dovere tutto — ma proprio tutto — ciò che in passato nel bene e nel male è stato (o non è stato) detto e fatto». Ieri il deputato pdl Antonio Palmieri ha scritto al quotidiano cattolico: per dire che rispetto ai temi etici, per Berlusconi, «valgono più le cose "non fatte" di quelle fatte», nel senso che ha evitato lo «zapaterismo». Dura la risposta del direttore di Avvenire, Marco Tarquinio: «Traduco: un alto tasso di inazione (o di inconcludenza) al cospetto di tentativi delle coalizioni di centrosinistra di agire, ma in senso sbagliato (zapaterista, appunto). Si chiamano omissioni. E non sono un problema per la Chiesa o, se preferisce, per il solo "mondo cattolico", ma per l'Italia intera».
Tarquinio cita un «esempio» dell'«inconcludenza» del governo Berlusconi, e in campo sociale: «Le omissioni in tema di concrete ed eque politiche fiscali e di welfare a sostegno della famiglia costituita da una mamma, un papà e dai figli. Politiche annunciate a ogni prova elettorale e mai attuate».


Nato a Napoli, classe 1949, Bruno Forte, ordinato sacerdote nel 1973, è l'arcivescovo della diocesi di Chieti-Vasto. È uno dei più importanti teologi italiani — assai apprezzato da Benedetto XVI che, ancora da cardinale Joseph Ratzinger, lo ha consacrato vescovo nel 2004 — ed è autore di numerose pubblicazioni molto note a livello internazionale in cui si confronta in modo serrato con le opere di Heidegger, Bultmann e Rahner, Jaspers, Lévinas e Mounier
Corriere 29.12.12
L’arcivescovo Bruno Forte
«Al Paese non servono imbonitori ma la convergenza di forze diverse»
di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO — «Il richiamo fatto dal presidente Monti alla frase di Alcide De Gasperi, "un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni", mi sembra abbia ispirato le scelte di quest'uomo, al quale si deve la ritrovata credibilità internazionale del Paese e la terapia d'urto per evitare il baratro, il "fiscal cliff" italiano che si stava rischiando un anno fa». L'arcivescovo Bruno Forte, 63 anni, è un grande teologo assai stimato da Benedetto XVI, fu il cardinale Ratzinger a consacrarlo vescovo nel 2004. «Personalmente nutro stima per le qualità dimostrate nei fatti dal presidente Monti. Ha dimostrato di non inseguire il consenso».
Eccellenza, nella Chiesa si moltiplicano attestati di stima al premier. Che cosa è successo?
«La politica, come diceva Paolo VI, è la più alta forma di carità, un servizio al prossimo e al bene comune. E come tale esige uno stile frutto di un insieme di qualità personali e collettive, di cui la prima e fondamentale è l'obbedienza alla verità...».
Ed è ciò che è mancato?
«Vede, in politica negli ultimi anni è sembrato prevalere il gioco delle maschere, il dire una cosa pensandone un'altra. Come ad esempio è avvenuto con l'apparente consenso sulla riforma della legge elettorale della quale nulla è stato fatto».
E quindi?
«Mi sembra ci sia urgente bisogno di un agire politico che rimetta al centro la verità dei problemi, del primato del bene comune, delle esigenze etiche che devono governare anzitutto la vita personale di chi sceglie di "salire in politica" per servire il bene di tutti. Quando si respira quest'aria — ed è ciò che abbiamo provato nell'ultimo anno grazie al governo Monti — si ravviva in tutti il desiderio che la scena politica, comunque si configurerà, sia abitata da protagonisti onesti, servitori della verità, non populisti, non imbonitori, ma capaci di indicare in maniera veritiera le mete da raggiungere, le vie da percorrere, anche quando fossero lastricate di sacrifici che, auguriamoci, siano richiesti sempre più a chi può dare di più e sempre meno a chi può dare di meno».
C'è chi legge la stima della Chiesa come l'esito di un calcolo di convenienza, Imu, finanziamenti...
«Ciò che ci sta a cuore come credenti mi sembra debba essere non un interesse di lobby ma, al di sopra di tutto, il bene comune e l'urgenza per ogni coscienza di obbedire al primato della verità. Io ritengo importante la scelta di Monti di salire in politica per servire con ulteriori possibilità la causa comune. E in questo giudizio positivo non entrano interessi di parte ma l'apprezzamento di uno stile, il riconoscimento di chi entra in gioco non a proprio vantaggio ma al servizio degli altri. Di questa aria nuova c'è tanto bisogno nello scenario politico del Paese. Sono convinto che la società civile sia molto migliore ed eticamente più ricca di quello che una certa politica dominante negli ultimi anni ha saputo o voluto esprimere e che perciò meriti politici di alta statura morale».
Cosa sono le «qualità collettive»?
«Il vero politico deve arrivare ad amare l'avversario come se stesso, perché suo compito è servire il bene di tutti, anche di chi lo avversasse. Le qualità collettive si riferiscono all'esercizio effettivo della democrazia, che non dev'essere inteso come pregiudiziale contrapposizione delle parti, ma come cooperazione di esse, ciascuna nella fedeltà alla propria identità ideale, nel comune sforzo di servire la cosa pubblica. L'ultimo anno ha dato al Paese l'esempio di forze politiche disparate che hanno accettato di far convergere i loro sforzi per sostenere un governo chiamato a salvare l'Italia chiedendo sacrifici a tutti. L'auspicio è che la virtù espressa in queste scelte, anche se purtroppo ancora troppo condizionata da interessi di parte, possa crescere e maturarsi in convergenze ampie di forze diverse per storia e tuttavia accomunate dalla fine dei mondi ideologici e dall'emergere di urgenze inedite».
Ha più volte citato l'espressione di Monti «salire in politica»...
«La apprezzo molto, perché dice che chi si impegna per il bene comune non lo fa a proprio vantaggio o a promozione dei propri interessi, ma con sacrificio e anche a rischio di perdita personale, che dev'essere credibile a partire da una testimonianza di reale distacco, che deve avere mete grandi, in grado di servire tutti e soprattutto i più deboli. Chi governerà l'Italia non potrà rinunciare al rigore richiesto da Monti, anche se, come lui stesso auspica nella sua Agenda, dovrà lavorare sodo per coniugarlo alla crescita e alla solidarietà nell'attenzione alle fasce più deboli del nostro popolo».

Corriere 29.12.12
Quando la politica nasce in convento
L’Agenda è stata scritta in un istituto religioso
I simboli hanno un significato
E nel convento delle suore di Sion Casini vince il primo duello con Passera
di Pierluigi Battista

Dunque l'Agenda è stata scritta in un istituto religioso nel cuore di Monteverde, non poi così lontano dalla sede della comunità di Sant'Egidio, «l'Onu di Trastevere» di cui è figura di spicco il ministro Andrea Riccardi. E insomma, non era poi così scontato che Mario Monti, leader di uno schieramento politico che si riconosce nell'azione del suo governo, ricevesse tanto fervido appoggio dal mondo cattolico. E che addirittura Monti potesse tessere la trama delle liste nell'abitazione di un monsignore. Non era il convento di Santa Dorotea e nemmeno l'eremo di Camaldoli dove i laureati cattolici delineavano il loro programma per l'Italia postfascista. Ma non era nemmeno un'aula universitaria, la cui frequentazione sembra molto più consona al premier tecnico per eccellenza.
Monti, nel corso della riunione in cui si sono precisate modalità di liste e di simboli, avrà avuto davanti ai suoi occhi il marchio storico dell'Udc di Casini, così simile, quasi identico, allo scudo crociato di democristiana memoria. Il giorno prima aveva incassato l'endorsement dell'«Osservatore Romano», poi quello di «Avvenire», a dimostrazione di come la Cei di Bagnasco sia tutt'altro che indifferente alla sorte del nuovo Centro. E c'era Riccardi, appunto, il più cattolico del governo Monti, molto addentro alle cose della Chiesa Apostolica Romana. E c'era l'ex presidente delle Acli, acronimo dell'Associazione che riunisce i lavoratori cattolici. E c'era una frangia importante di Comunione e liberazione. L'Udc più le Acli più la Comunità di Sant'Egidio, più Cl, il tutto con l'appoggio esplicito del Vaticano. Ma nell'Agenda Monti, oltre alla questione fiscale e a quella della patrimoniale, a quella del debito pubblico e a quella dell'Europa monetaria, c'è forse qualche accenno a quelle questioni «eticamente sensibili» che hanno diviso in questi anni partiti e schieramenti, gruppi e singoli individui?
Una connotazione così fortemente cattolica, che qualche maligno arriverebbe a definire addirittura vagamente clericale, o comunque, in modo meno maligno, molto attenta a ciò che si muove oltre Tevere, creerebbe infatti qualche problema spinoso, almeno nella prospettiva di una possibile alleanza con il Pd se i numeri al Senato non dovessero consentire l'autosufficienza del centrosinistra. Sul testamento biologico, per esempio, le forze che si riconoscono nell'Agenda Monti e nelle sigle che si sono riunite ieri addirittura in un istituto religioso sono tutte concordi in un'osservanza stretta delle indicazioni vaticane, al pari del centrodestra peraltro? E se invece l'anima laico-liberale di questo nuovo grande Centro volesse marcare una sua autonomia? E sulla questione delle coppie di fatto eterosessuali e omosessuali, l'Agenda Monti potrà dire qualcosa oppure i suoi contenuti sono strettamente confinati al ricettario economico senza nessun intervento sui temi che in questi anni hanno rappresentato un momento di grande attrito tra laici e cattolici?
Che l'area dei neomoderati dovesse essere connotata secondo schemi molto simili a una rediviva Democrazia cristiana non era poi così scontato. Certo, c'è la comune ispirazione ai valori del Partito popolare europeo, ma sulle coppie di fatto e persino sui matrimoni gay anche nel mondo dei Popolari europei c'è molta varietà di posizioni. In Italia tutto è ovviamente più complicato. Nell'universo del Vaticano su alcune questioni dette «non negoziabili» si è poco disposti a transigere. Ed è difficile che i laici del nuovo Centro non sentano in campagna elettorale e soprattutto dopo la sua conclusione il peso di un sostegno che non potrà essere gratuito. I simboli hanno un loro significato. Anche le sacrestie ce l'hanno. Il tempo dirà se questa massiccia presenza cattolica sarà una risorsa oppure un potenziale handicap politico.

il Fatto 29.12.12
Sconti e doni sacri. Il Vaticano per il bis
Tutti gli interessi vaticani nelle “nozze” con il Prof
Condono dell’Imu, soldi alle scuole private e agli ospedali:
la Chiesa ha trovato il suo guru e scaricato il disastrato Pdl
di Marco Palombi

Forse solo quel grande organizzatore del consenso cattolico che fu Luigi Gedda, che coi suoi Movimenti civici contribuì e parecchio alla vittoria della Dc nel 1948, avrebbe potuto coordinare un tale fuoco di fila di carezze vaticane alle ambizioni di Mario Monti. Dopo il solido rapporto di stima col Pontefice costruito durante il suo mandato a palazzo Chigi, il Professore ora sta ricevendo un vero e proprio giornaliero sostegno elettorale dalle istituzioni della Chiesa. Il primo atto, anche se indiretto, è la “scomunica” del Pdl: Camillo Ruini l’ha comunicata de visu ad Angelino Alfano in un incontro a casa sua il 12 dicembre, ieri è arrivata la bolla del direttore di Avvenire Marco Tarquinio, che qualifica il governo del Cavaliere di “alto tasso di inazione (o di inconcludenza) al cospetto di tentativi del centrosinistra di agire, ma in senso sbagliato (zapaterista) ”. Sistemata la pratica Pdl, la scelta è stata facile: Monti. Basti citare la irrituale telefonata per gli auguri di Natale tra il premier e Benedetto XVI, molto pubblicizzata da palazzo Chigi, poi l’endorsement dell’Osservatore Romano, organo della segreteria di Stato del potente Tarcisio Bertone, e infine ieri quello del capo dei vescovi italiani Angelo Bagnasco (“sulla sua onestà e capacità sembra esserci la ampia condivisione e ha ottenuto riconoscimento in tal senso anche in Europa”). Insomma, gerarchie unite come non si vedeva dai tempi della Dc. Il nostro ha subito ringraziato a modo suo: “Sono onorato, penso che i temi etici siano fondamentali, ma se ne occuperà il Parlamento”.
NON C’È MOTIVO di essere sorpresi: il campo da gioco della Chiesa è il voto moderato, se non reazionario, e d’altronde gli addentellati dell’ex premier col Vaticano sono noti e ve li abbiamo già descritti: i ministri o sottosegretari ben introdotti Oltretevere come Riccardi e Ornaghi, certo, ma anche i rapporti autonomi del premier stesso, del vicesegretario generale di palazzo Chigi (e suo braccio destro) Federico Toniato o del direttore di Rai Vaticano Marco Simeon. “Il mondo che si riconosce nella Chiesa vede in Monti l’inizio di una nuova stagione”, ci spiega, economista cattolico che è stato tra i principali collaboratori di Joseph Ratzinger per la sua Caritas in veritatem: “In questo senso è stato un gesto di coraggio aver preso le distanze dal Pdl: non tanto per le questioni morali di Berlusconi, ma perché quel partito si è sfaldato dal suo interno e si rischiava un vuoto di potere nel campo moderato”. L’altro campo, semplicemente, non è quello giusto: “Nel Pd ci sono tanti e stimati cattolici, però la Chiesa ha sempre indicato propri valori non negoziabili in almeno tre campi: vita, educazione e giustizia contributiva e retributiva. Anche se in quest’ultimo il Papa è molto più a sinistra di Bersani – insiste Zamagni – quando tu hai una forza politica, come il Pd, che ha come piattaforma politica la ‘liberalizzazione dei rapporti’, che nega la centralità della famiglia, che non disdegna l’eutanasia e toglie la libertà di educazione come fai a dargli supporto? Insomma uno può pensarla come crede, ma non può chiedere alla Chiesa di rinnegare se stessa”.
Tutto vero, ma il bello di questo matrimonio tra il Vaticano e l’ex preside della Bocconi è che è tanto d’amore quanto d’interesse. Prendiamo il caso Ior. Sono stati Monti e Grilli, in estate, a salvare la banca del Papa dalla bocciatura europea in tema di trasparenza e contrasto al riciclaggio: agli ispettori di Bankitalia (assai critici sullo Ior) fu sostanzialmente impedito di parlare al Consiglio d’Europa e palazzo Koch, per reazione, arrivò a ritirare la sua delegazione.
I TEMI ETICI restano alla libera coscienza degli eletti, dice Monti, ma il governo tecnico ha fatto ricorso contro una sentenza europea che consentiva la diagnosi preimpianto sugli embrioni nonostante la famigerata legge 40 sulla fecondazione assistita. Anche sull’8 per mille Monti si è rifiutato sia di attivare la commissione italo-vaticana per rivederne il gettito ben superiore alla vecchia “congrua” (come prevede il Concordato), sia di fare pubblicità sulla destinazione della quota dello Stato, e pure sull’Imu è riuscito a strappare a Bruxelles una sorta di condono: gli immobili commerciali di enti religiosi dovranno pagare dal 2013, ma l’evasione pregressa è perdonata. Basta? No, perché c’è anche la dote in contanti: 223 milioni per le scuole private (cioè cattoliche), 12,5 milioni per l’ospedale Bambin Gesù di Roma (caro a Bertone) e 5 per il Gaslini di Genova (caro a Bagnasco). Non misteri della fede.

il Fatto 29.12.12
Adinolfi via dal Pd “Scelgo Ichino e il Professore”

PRIMA renziano convinto, poi bersaniano tiepido, Mario Adinolfi alla fine sceglie il Professore. “E' mia intenzione sostenere alle prossime elezioni, in continuità con le battaglie svolte insieme nel Pd, le idee di Pietro Ichino e l'agenda Monti”, ha annunciato. “Mi batterò per il successo della lista che farà riferimento diretto al capo del governo, considero decisivo garantire continuità all'azione del presidente Monti, per la credibilità che ha garantito all'Italia in Europa”, ha spiegato. "Lo spostamento dell'asse del Pd verso le posizioni di Fassina e Vendola, l'opzione controriformista su pensioni e lavoro, mi convincono che occorre dare forza a chi intende far proseguire lo sforzo di risanamento, rigore e crescita”.

il Fatto 29.12.12
Rotondi & C. si appellano al Vaticano

“LA CHIESA non entra nell’agonepolitico e non offre indicazioni di voto. La Chiesa sa che l'unità politica dei cattolici si è conclusa, e che oggi i cattolici impegnati nei diversi partiti sono il lievito e i messaggeri dell’insegnamento della Chiesa, che i politici hanno la responsabilità di tradurre laicamente in proposte legislative”. Lo dicono in una dichiarazione congiunta gli esponenti del pdl Sandro Bondi e Gianfranco Rotondi.
“Noi crediamo inoltre - aggiungono - che la Chiesa debba ricordare la dottrina, ma al tempo stesso essere vicina alle sofferenze e alle domande angoscianti che si pongono sia i credenti che i laici a contatto con i problemi e le sfide della società moderna. In questo senso, la Chiesa ha trovato e sempre troverà nel Pdl un movimento sensibile alla tradizione cristiana della nostra civiltà e agli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa, aperto al confronto e alla comprensione dei nuovi diritti di libertà della persona”. Ecco come i cattolici del Pdl provano a frenare la Chiesa che scelto di sostenere apertamente Monti con un pezzo sull’Osservatore romano.

l’Unità 29.12.12
La riscossa clericale mette a rischio il Concilio Vaticano II
Con «Il ritorno dei chierici» Svidercoschi racconta (e denuncia) le trasformazioni Oltretevere
di Roberto Monteforte

I CHIERICI CHE TORNANO AD ESSERE CENTRALI NELLA VITA DELLA CHIESA IN UNA SOCIETÀ SEMPRE PIÙ SECOLARIZZATA. Come se fosse la cura e non anche una causa del male, o meglio della difficoltà che almeno in Occidente la stessa Chiesa registra nel suo rapporto con il mondo moderno.
È questo il paradosso che a 50 anni dall'apertura del Concilio Vaticano II e alla vigilia dell'Anno per la Fede per la evangelizzazione, voluto da Papa Benedetto XVI, denuncia Gianfranco Svidercoschi nel suo ultimo libro Il ritorno dei chierici (Edb pg 141 euro 9). L'autore, che è stato cronista dei lavori conciliari e che da vicedirettore dell'Osservatore Romano ha seguito con grande attenzione i cambiamenti vissuti dalla Chiesa cattolica, non nasconde la sua preoccupazione soprattutto per un punto: la messa in discussione della centralità del «Popolo di Dio» nella vita della Chiesa. Quella che presenta come una delle più significative novità introdotte dal Concilio Vaticano II. Perché il riconoscimento dell'apporto e della testimonianza di vita cristiana che ciascun battezzato dal Papa ai vescovi, dal clero ai laici pur nella diversità dei ruoli è chiamato a dare, cambia profondamente il modo di essere della Chiesa, il suo rapporto con la realtà.
Svidercoschi ricorda i significativi cambiamenti introdotti nella liturgia, come l'uso della lingua volgare o il ruolo attivo assegnato all'assemblea dei fedeli durante le celebrazioni, sino all'istituzione dei consigli pastorali nelle diocesi e di quelli parrocchiali: tutti tendenti a valorizzare il contributo essenziale e non più subalterno dei laici alla vita delle comunità cristiane. Per chi ha meno di cinquant'anni è difficile immaginare cosa fosse una messa negli anni '60. L'autore sottolinea pure gli eccessi che vi furono in questa «modernizzazione» che finirono per alimentare le critiche degli oppositori alla riforma che agguerriti, avevano dato battaglia durante le sessioni conciliari e anche dopo, resistendo e condizionando le applicazioni della linea conciliare.
C'è stato, infatti, chi ha voluto chiudere quelle porte e quelle finestre aperte al nuovo che Giovanni XXIII con coraggio e fiducia aveva voluto spalancate. Da qui per l'autore si è generato un contrasto così profondo da segnare come una linea di demarcazione tra due modi diversi di essere Chiesa.
Da una parte quella parte della gerarchia che si sente depositaria esclusiva della verità e che vede segnata da «un risorgente e pericoloso clericalismo, da un'autorità che degenera spesso in puro potere», che preferisce giudicare piuttosto che amare e sostenere l'uomo contemporaneo, con le sue solitudini, debolezze e contraddizioni. Un modello, fatto grave, che ha fatto proseliti anche tra il giovane clero e che non si pone in ascolto della società contemporanea e al servizio dell'uomo..
Vi è però anche l'altra la Chiesa, quella «nata» cinquant'anni fa dal Concilio Vaticano II, «portatrice di tante novità e speranze, ma bloccata nella fase evolutiva dalle paure e dalle resistenze di una parte della gerarchia ecclesiastica». È questa la denuncia che le muove l'autore, che ricorre all'espressione usata da Karl Marx nel Manifesto del Partito comunista: «C'è un fantasma che s'aggira ....per la Chiesa cattolica...» per lanciare il suo allarme contro il ritorno del potere dei chierici. La denuncia è forte ed è motivata da un grande amore per la Chiesa. Per Svidercoschi, infatti, è proprio questo potere a mettere in crisi la credibilità e la capacità della Chiesa di rapportarsi con la società contemporanea: è l'istituzione clericale che difende se stessa e la sua presunta supremazia. Che vuole il laico credente in posizione subalterna. Al più «cooptato». Ma sempre all'interno di logiche clericali. Sempre meno “autonomo” e responsabile delle sue scelte. Tra gli effetti negativi di questa deriva clericale, l'autore colloca lo scandalo dei preti pedofili, ma anche la pagina non meno devastante di «Vatileaks».
Tutto negativo? No. In Il ritorno dei chierici si dà conto anche dei fermenti positivi presenti nella comunità cristiana. Ma secondo Svidercoschi la medicina per i mali della Chiesa è tornare davvero al Concilio Vaticano II e applicare ciò che è stato fermato. Dare seguito con coraggio alla riforma incompiuta per aiutarla a dialogare con il mondo contemporaneo. Affinché sappia essere «compagna di viaggio» di una umanità in cerca di pace, di giustizia, di serenità che al fondo ha una grande nostalgia di Dio.

l’Unità 29.12.12
Ma la scelta di partito non è ciò che distingue un credente
di Emma Fattorini

NEL SUO TE DEUM DI RINGRAZIAMENTO PER IL 2012, PIPPO CORIGLIANO EX PORTAVOCE DELL’OPUS DEI E AUTORE DEL FORTUNATO LIBRO «PREFERISCO IL PARADISO» ringrazia il Signore per l’anno della fede indetto da Papa Benedetto XVI, che, come egli scrive, fu «progressista» negli anni del Concilio Vaticano II. Poi si rese conto dei danni che potevano esserci se «la religione fosse stata ridotta a pratica politica»: fu subito chiaro in lui il bisogno di preservare sempre l’essenziale della fede dalle «strumentalizzazioni» di concreti progetti politici (allora ideologici) fossero essi di destra o di sinistra. Ne fece un corso per i suoi studenti, una serie di pacate lezioni che poi vennero raccolte nel suo libro più famoso, «Introduzione al cristianesimo».
C’è in Benedetto XVI una percezione molto fine e insieme profonda delle distinzioni e di quel legame imprescindibile tra fede e ragione. Ci ha abituati a non percepire mai un rapporto rozzo tra fede e storia.
Per Papa Ratzinger tornare oggi, come a volere chiudere un ciclo, esistenziale e generazionale, sulla centralità della fede, è più che un segno. Non è una scelta scontata. È, invece, una vera ispirazione il farlo anche e proprio in un momento, come questo, di gravissime turbolenze politiche ed economiche nazionali e mondiali: la nostra non è una crisi passeggera, essa è profonda, culturale e spirituale, oltre e prima che materiale.
Che fare si chiede allora Corigliano? «La cosa più saggia e operativa è pregare e ancora pregare. Da semplice cristiano lo chiedo anche ai vescovi, ai pastori che ci guidano: invitateci alla preghiera, non parlate di economia e di politica se non per difendere i poveri e i deboli: per il resto parlate di Gesù come fa il Papa».
Queste parole mi hanno colpito molto, anche perché sono state pubblicate nel giorno in cui molti giornali titolavano sul sostegno del Vaticano all’impresa politica di Mario Monti. Non ho la minima intenzione di strumentalizzare queste parole ai fini del sommovimento politico che stiamo vivendo. Eppure questo Te Deum è qualcosa di più di un generico per quanto accorato richiamo a non «ingerire» nelle scelte politiche dei cattolici, in nome dell’importanza prioritaria che sempre deve avere la fede.
Io le ho capite come un monito autentico a non perdere di vista mai, (ancora), l’essenziale, che per i credenti è la fede. E che oggi significa una loro maggiore responsabilità e coinvolgimento civile e politico.

Firmano in 11: Stefano Ceccanti, Antonio Funiciello, Paolo Gentiloni, Paolo Giaretta, Claudia Mancina, Alessandro Maran, Enrico Morando, Magda Negri, Umberto Ranieri, Giorgio Tonini, Salvatore Vassallo
Tutti del Pd...
Corriere 29.12.12
«Su tasse, lavoro e riforme il Pd stia con Monti»

Caro direttore,
per vincere le elezioni e governare stabilmente l'Italia, il Pd deve interloquire con l'agenda Monti, inserendo nel programma di governo — a base della candidatura alla premiership di Bersani — le scelte essenziali. L'Europa, anzitutto. Se vogliamo forme di gestione comune di quote del debito sovrano (Eurobond), allora dobbiamo apertamente rivendicare, non semplicemente accettare, che ogni Paese sia soggetto al «coordinamento» da parte degli organismi comunitari. Mentre il Pdl ha già formulato un netto rifiuto di questa prospettiva, il Pd deve impegnarsi perché nuovi trattati e nuovi accordi per cooperazioni rafforzate vengano ad aggiungersi a quelli già conclusi, ma non deve proporsi di rimettere in discussione questi ultimi: mantenimento del pareggio strutturale di bilancio e riduzione del debito, anche attraverso operazioni sul patrimonio pubblico, sono scelte corrispondenti agli interessi nazionali e condizioni di ulteriore crescita della nostra credibilità in Europa, indispensabile per realizzare progressi sulla strada della politica economica e fiscale comune. Alla dimensione nazionale, le indicazioni dell'Agenda, lungi dall'essere tacciabili di thatcherismo, sono compatibili con gli orientamenti programmatici del Pd, come grande forza riformista di centrosinistra. Lo dimostra questa rassegna, volutamente concentrata sui temi più controversi. Sul fisco: riduzione della spesa e della pressione fiscale man mano che avrà successo l'azione di riduzione del debito, agendo nel frattempo per un deciso riequilibrio del carico fiscale, a favore delle donne e dei produttori (lavoro e impresa) e a carico dei patrimoni e dei consumi. E soprattutto: ogni euro da lotta all'evasione vada a ridurre la pressione fiscale sui produttori. Sulla spesa pubblica: la revisione della spesa pubblica è la madre di tutte le riforme, se è vero che oggi abbiamo livelli di spesa pubblica elevatissimi (sopra il 50% del Pil) e risultati di crescita economica e lotta alla diseguaglianza gravemente insufficienti. Sulla trasparenza della Pa: si adotti in Italia una norma identica al Freedom of Information Act degli USA e si introduca rapidamente l'approccio open data. Sul mercato del lavoro e la tutela dei lavoratori: l'obiettivo è il superamento del dualismo fra lavoratori protetti e non protetti, sviluppando la riforma Fornero — senza ritorni all'indietro: ipotizzare nuovi interventi parlamentari sull'art. 18 è appena meno destabilizzante della promozione del referendum — verso un sistema di tutele dalla disoccupazione davvero universale. Sulla contrattazione e la partecipazione dei lavoratori: gli incentivi fiscali sulla quota di salario da accordi decentrati accrescono i salari e la produttività; mentre l'attuazione della delega Fornero potrà aprire la stagione della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell'impresa (utili e/o azionariato). Sulla scuola: autonomia e responsabilità fondata sulla valutazione di tutto e di tutti, come chiavi di volta di una radicale riorganizzazione che renda nuovi investimenti pubblici in istruzione produttivi di crescita del capitale umano. Sul Mezzogiorno: promozione dell'alleanza per le riforme, alternativa alla coalizione della rendita in cui convergono gli interessi di un mondo imprenditoriale legato ai trasferimenti pubblici e di un ceto politico-burocratico, volto al mantenimento di privilegi e allo scambio economico o elettorale. Sulle riforme istituzionali ed elettorali, il Pd deve proporre soluzioni radicali per la crisi del sistema politico, incapace sia di decidere, sia di rappresentare: semipresidenzialismo alla francese, sistema elettorale uninominale maggioritario a doppio turno e superamento del bicameralismo perfetto, con una sola camera politica e la creazione del Senato delle Regioni. È in questo nuovo quadro istituzionale che — nelle autonomie regionali e locali — potrà tornare ad applicarsi il principio di responsabilità: chi decide la spesa si deve far carico di reperire, fra i cittadini e le imprese governati, le risorse necessarie per finanziarla. E il «processo di consultazione» delle parti sociali potrà prendere il posto della concertazione, che ha esaurito da tempo le sue capacità dinamiche. Noi dunque insistiamo: il Pd può e deve considerare queste scelte se non direttamente «sue» — come alcuni di noi vorrebbero — del tutto compatibili col suo orizzonte politico-programmatico. Per questo, chiediamo a Pier Luigi Bersani, segretario del nostro partito e candidato presidente del Consiglio, di considerare l'agenda Monti per quello che è: un insieme di proposte ineludibili per definire quello che potrà diventare il programma del nuovo governo del Paese.
Stefano Ceccanti, Antonio Funiciello, Paolo Gentiloni, Paolo Giaretta, Claudia Mancina, Alessandro Maran, Enrico Morando, Magda Negri, Umberto Ranieri, Giorgio Tonini, Salvatore Vassallo

l’Unità 29.12.12
Che cosa c’è dietro la crisi dei matrimoni
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta

Secondo i dati Istat del 2011 nel Nord Italia i matrimoni civili avrebbero superato quelli religiosi. Perché? Oltre alla secolarizzazione dei costumi andrebbe considerata la massiccia presenza della popolazione immigrata che porta ai matrimoni misti celebrati con rito civile. Inoltre molte nozze non religiose sono secondi matrimoni che spesso non possono essere celebrati con rito religioso.
IVAN JIRSA FERRARI

L’impossibilità di celebrare nozze religiose per i divorziati c’era anche prima. Che gli immigrati diano un contributo importante alla diminuzione dei matrimoni religiosi, d’altra parte, è discutibile se si pensa alla percentuale importante di emigrati che vengono dall’America Latina che a sposarsi in Chiesa ed a battezzare i figli generalmente tengono non poco. La tendenza degli italiani ad evitare il matrimonio religioso (ma anche quello civile), dunque, va analizzata con cura. Ragionando sui costi sempre più difficili da sostenere per le coppie giovani. Ma ragionando, soprattutto, sulla difficoltà delle nuove generazioni ad accettare l’idea di quel «per sempre» cui il rito, e soprattutto il rito religioso costringe di fatto chi ne accetta, al di là della forma, la sostanza. Morale e spirituale. Una speranza di vita sempre più alta e l’esperienza quotidiana dei drammi famigliari e di coppia hanno determinato una consapevolezza diffusa del fatto per cui «per sempre» è la fortuna di pochi ma la condanna di molti, che i genitori capaci di fare i genitori restano tali anche se c’è separazione o divorzio e che quelli che sbagliano continuano a sbagliare anche se si forzano a restare insieme. Quella che conta sempre di più per i giovani è la fiducia rinnovata ogni giorno e mai imposta dall’esterno in sé stesso e nell’altro. A chiedere il «matrimonio» oggi sono soprattutto le minoranze che cercano tutela e riconoscimento. La politica e la religione tardano a capire che il mondo cambia. Accorgersene sarebbe importante. A partire, magari, dal 2013?

l’Unità 29.12.12
Donne e uomini, fiaccole contro il femminicidio
Dopo le parole di don Corsi, credenti e non si affollano per ricordare le vittime e per «scacciare i demoni dell’ignoranza»
Viene letto il messaggio di Susanna Camusso
di Federico Ferrero

Fammi vedere: hai la minigonna? «Puoi dirlo, è sotto il giubbotto. Ma me lo tolgo là». I due chilometri scarsi di passeggiata sul mare, rosso di sole, da Lerici a San Terenzo brulicano di ragazzi che fumano in branco. Ogni trecento metri, un venditore di paccottiglia estiva di risulta: elefanti, collane, palle di vetro. Il clima è autunnale, invitante. E ci sono le donne in marcia, dai bar della piazzetta sul porticciolo al luogo convenuto, quelle che il parroco don Piero Corsi giudica corresponsabili dei femminicidi perché, detta con le parole di un pensatore del sito pontifex.it, se la vanno a cercare mostrandosi in pubblico in abiti discinti. «Uno così è un disturbato», dice all’amica anzianotta la signora che è già arrivata a destinazione e mostra con fierezza il cartello a memoria del Quinto Comandamento, appeso sul cappottone pellicciato. Il marito, con l’altro, parla di calcio. Prima dell’ultima curva è piantato il paletto della frazione: San Terenzo, città per la pace, portata in cronaca da «una vicenda grave e triste», come l’ha definita ieri il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco.
Sui fortini arroccati, su in alto, luccicano ancora i led natalizi a basso consumo e il benvenuto suona un po’ come una presa in giro, oggi che le donne liguri hanno rotto il patto di non belligeranza contro il sacerdote retrogrado e nemico dell’altro sesso. Anche le credenti come Susanna, che negano l’esistenza di una crociata ad personam: «Io in Chiesa ci vado e continuo ad andarci. Non ce l’abbiamo con nessuno, siamo qui per testimoniare la nostra condizione ancora pericolante, nonostante millenni di civiltà». In fondo ha ragione: il don maligno, quello che non si è pentito di aver ricordato alle signore che il loro compito è quello di badare al focolare e che, se indulgono in atteggiamenti vezzosi, non possono poi lamentarsi di stupri e coltellate, viene nominato appena due volte in un’ora e passa di discorsi amplificati dalle casse di un gazebo sulla sabbia. Nessuno lo addita come mostro da appendere per i piedi davanti alla sua chiesa, intitolata a Maria e beffardamente restaurata, rammenta una placca, col contributo di un filantropo in onore alla mamma.
L’appuntamento è in spiaggia, all’ombra del campanile. In mattinata hanno provveduto a strappare le fotografie appiccicate da un buontempone nella bacheca dello scandalo: chi le ha viste racconta che erano immagini artistiche del calendario Pirelli, o giù di lì.
Ne sono rimasti due, di avvisi: uno domanda al prete cosa mai abbiano fatto i bambini, pure loro, per «cercarsela». L’altro è scritto a pennarello su una T-shirt: «Il sonno della ragione genera (don)Corsi». Di sicuro, per un bel pezzo, è prudente che don Piero non metta mano a quella lavagna con le puntine, convertita per qualche giorno a zona franca e laica su parete sacra. Susanna e le sue sodali hanno attaccato un mantra, che per ritornello invita la Chiesa a scacciare «i demoni dell’ignoranza». La stessa Chiesa, scandisce una relatrice, «che avalla la lotta ai preservativi e benedice le maternità coatte».
Lorella Zanardi, leader storica del Corpo delle donne, non si è fatta la pianura Padana per prendersela col parroco di provincia; vorrebbe bandire la cultura delle riviste femminili che propongono la donna come oggetto in esposizione e, magari, in vendita. Lo dice ai microfoni di una televisione commerciale. L’accusa, che da una vita e mezza non ha colpevoli perché, si dice, è la gente a volere ciò che si vede, non era nuova neanche negli anni della censura Rai, mamma evocata come matrigna responsabile della mercificazione muliebre.
Non era una scelta comoda, quella dell’amministrazione comunale, ma il sindaco Caluri l’aveva già fatta evitando di lesinare la sua indignazione contro quell’iniziativa scellerata del parroco (di cui, in paese, alcuni raccontano i trascorsi da incursore della Marina). Ieri, in spiaggia, a leggere il comunicato di solidarietà della giunta cittadina c’era un assessore. Donna. Che ha ricordato due donne, una nonna e una bambina, uccise dieci anni fa a Lerici dal «retaggio maschilista» di una cultura che dà all’uomo potere di vita e di morte.
C’è più gente del previsto, e le signore di Se non ora quando non si aspettavano tanto successo. Verso l’abitato si forma un capannello più consistente, e mentre dal microfono risuonano parole di disgusto – mai di astio – contro il signor Volpe, autore dei testi meritevoli di elogio per don Corsi, c’è chi rilegge le parole di Giovanni Paolo II, quando stigmatizzava gli uomini di Chiesa che attizzano il fuoco dei soprusi. Mamme e figliole reggono candele e la rappresentante della Cgil di La Spezia legge un intervento della Camusso: «Come si fa a parlare di voto di castità se poi si ammette che l’uomo non può resistere agli istinti?». Applausi.
Alla fine, prima di leggere i nomi delle 122 donne uccise per mano di uomini che considerano le compagne oggetto di diritti reali, si osserva un minuto di silenzio, interrotto a neanche trenta secondi, come insegna la tradizione italiana. A distanza da imbarazzo, il sagrato della chiesa. La messa è iniziata. Il celebrante dà le spalle ai fedeli, come da liturgia classica. Ma non è don Corsi. Forse è il concelebrante, ma resta defilato. Un gruppetto si stacca dalla fiaccolata in via di scioglimento e si ferma proprio là davanti. C’è una telecamera di sorveglianza appesa sulla soglia. Nessuno urla, nessuno si agita. Un ragazzo con le mani in tasca, come davanti a un acquario, osserva la funzione: «Si scambiano un segno di pace, toh. Guardali, che carini». Un cameraman lo sente e gli chiede di ripetere la battuta col faro acceso. Dall’altra parte della stradina il barista fa spuntare fuori la testa. Prima di ritrarla, dà il tempo per far sentire anche la sua: «Bello. Ci siamo fatti prendere per il culo da mezza Italia».

il Fatto 29.12.12
Prigionieri dell’Hotel Africa
Tra i rifugiati politici nell’ex facoltà di lettere a Roma: “Se ne fregano di noi”
di Valerio Cattano

Prima lezione: puoi essere invisibile anche se abiti in un palazzo di 8 piani, una montagna di cemento che la vedi a distanza di chilometri. Seconda lezione: non serve accogliere i rifugiati del Corno D'Africa che fuggono dagli orrori se poi li abbandoni al loro destino. Terza lezione, per entrare si chiede permesso perchè è bene non calpestare la dignità. Benvenuti all'“Hotel Africa”, o come lo chiamano alcuni, “Salaam Palace”. Via Arrigo Cavaglieri, ex facoltà di Lettere, zona Romanina. Le aule dove si respirava cultura ora sono stanzette maleodoranti con 7-8 brandine. Dal 2006 la struttura, imponente e altrettanto inquietante, è occupata da rifugiati politici.
NON APPENA ti avvicini, gli sguardi si fanno sospettosi. C'è diffidenza verso chi non è accompagnato da persone conosciute. “Tu poliziotto! ”, dice un ragazzo eritreo alto e dinoccolato. Non cambia più di tanto la sua opinione se ti qualifichi come giornalista. Ci pensa un attimo: “Giornalisti, poliziotti, tutti uguali. Tutti se ne fregano di noi che stiamo qui”.
Il dramma che si consuma ogni giorno nella Capitale, paradossalmente ha ricevuto maggior attenzione dopo che il New York Times ha messo con le spalle al muro l'Italia: da un lato vengono approvate il trenta per cento delle richieste di asilo, però i posti letto disponibili sono solo 3000. Con la “primavera araba” si è passati dalle 10.050 richieste nel 2010 a 34.120 nel 2011. Roma per tanti rifugiati è diventata meta e trappola.
Il ragazzo racconta che dentro Hotel Africa ci sono “fra le 800 e le 900 persone”. E bambini? “Certo, anche bambini, forse 50. E non è che stanno bene perchè non sanno dove andare, qui non ci sono posti adatti per loro, per giocare”. La domanda che sorge spontanea è a chi sia adatto un posto così, dove i servizi igienici sono stati pensati per una struttura universitaria e non per un albergo con ospiti residenti da anni. Un bagno per una media di 250 persone. Le condizioni igieniche non sono l'unico problema. In pochi parlano italiano, non sanno districarsi fra i meandri della burocrazia, non appena escono si sentono persi.
SAREBBE UTILE imparare la lingua, ma il ragazzo eritreo sorride senza allegria: “Tu la fai facile ma come fai a fare lezione se devi sempre pensare a come mangiare, a come lavarti ogni giorno? ”. Allora trovare lavoro è impossibile, anche perchè spesso i rifugiati che nel loro paese erano persone con titoli di studio, in Italia non possono farseli riconoscere in quanto non hanno la documentazione, tanto meno la possono recuperare, dato che sono scappati dalla guerra o dalla persecuzione politica .
Dentro “Hotel Africa” si sono dati delle regole, uno schiaffo ai confilitti dai quali sono scappati. In quel palazzo vivono in pace eritrei e sudanesi, somali. Non esiste una mensa però è stato ricavato uno spazio per la preghiera. E poi la sorpresa, l'esistenza di una biblioteca multi-lingue, organizzata dai volontari dell'associazione Cittadini del mondo.
Ogni giovedì è attivo l'ambulatorio. “Questa è una cosa buona perchè tanti di noi stanno male. Voi italiani andate dal dottore anche per il raffreddore, noi no, non siamo abituati”. Così a far la visita si va quando magari la salute è compromessa, quando malattie e contagio si sono diffuse a macchia d'olio.
Non è cambiato molto da quando in luglio il commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, dopo una visita al “Salaam Palace”, aveva denunciato “le scioccanti condizioni in cui vivono uomini, donne e bambini”.
Desolazione c'era in estate, disperazione ora che l'anno sta per finire. “Quello che voi dovreste capire è che siamo scappati da posti dove comandano dittatori, dove ammazzano. Ma se uno qui dice Darfur, boh, ti rispondono così, non lo conosce nessuno il Darfur. Allora io penso: non lo conosce nessuno perchè in Darfur non c'è petrolio. In Libia c’è, e ci sono andati tutti: i francesi, gli americani, pure gli italiani. Del Darfur invece se ne fregano”. “Salaam Palace”. Il palazzo della pace. Quella che ancora i suoi ospiti non hanno trovato.

il Fatto 29.12.12
il commento. Magistrati in politica
I colleghi Antonio e Piero io li conosco molto bene: diverse coerenze a confronto
di Gian Carlo Caselli

Antonio Ingroia sta per decidere. Piero Grasso l’ha comunicato in una conferenza stampa orchestrata da Bersani. Nel caso di magistrati “prestati” alla politica, la cosa grave non è la contingente commistione dei ruoli (che può anzi costituire un utile scambio di esperienze), ma il pericolo che l’esercizio delle funzioni giudiziarie – prima o dopo il mandato parlamentare – possa apparire distorto per l’influenza di rapporti politici. La questione non può essere elusa. E un’analisi non edulcorata deve preoccuparsi – più che dei magistrati che vanno in parlamento – di come essi ci vadano, cioè di quali siano i percorsi che li hanno portati alla candidatura.
QUEL CONCORSO DEL CSM
Decisivo, al riguardo, è il parametro della coerenza. Ancora recentemente Grasso fece sapere che “un’eventuale esperienza politica sotto forma di schieramento con un partito è cosa estranea al mio ruolo, alla mia funzione, alla mia cultura”. Sono frequenti gli scarti tra parole e verità nel linguaggio della politica e Grasso – si potrebbe dire – si è semplicemente... portato avanti col nuovo lavoro. Ma al di là delle battute, c’è un episodio nella carriera di Grasso (ricca anche di successi) che vorrei citare e non solo perché mi ha interessato direttamente. Il concorso bandito dal Csm per nominare il nuovo procuratore nazionale antimafia dopo la fine del mandato di Pier Luigi Vigna scatenò una vera e propria “guerra” contro di me, prima con un decreto legge poi con vari emendamenti contra personam, inseriti nella legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario con lo scopo preciso – pubblicamente proclamato e mai smentito da nessuno – di farmi “pagare” il processo Andreotti. Ne risultò un concorso viziato da ripetute modifiche – in corso d’opera – delle regole stabilite.
La legge contra Caselli era con tutta evidenza un segmento dell’attacco all’indipendenza della magistratura (colpiscine uno per educare gli altri). Sarà poi dichiarata incostituzionale: ma intanto riuscirono a prevalere i centri di potere che non tollerano un controllo di legalità davvero eguale per tutti. Un magistrato del lontano Ecuador (nominato dal governo presidente di tribunale in violazione delle regole previste dall’ordinamento) ha rifiutato l’incarico e denunziato la lesione dell’indipendenza della magistratura con una lettera aperta.
In Italia non usa, salvo che si voglia equiparare ad una siffatta lettera l’uscita di Grasso in un libro/intervista di un paio d’anni dopo la nomina a Pna, che liquidava il vulnus recato all’indipendenza della magistratura con queste disinvolte parole: “Rimango fortemente critico verso la scelta governativa di una legge contro Caselli. Soprattutto perché era dichiarato l’intento di sfavorire lui e favorire me. Io ho un temperamento sportivo, mi piace l’agonismo e sapere che si vince o si perde in relazione ai propri meriti e non per interessamenti esterni”. In quel libro/intervista c’era anche un duro attacco chiaramente riferito agli interventi investigativo-giudiziari operati dalla Procura di Palermo dopo le stragi del 1992 sul versante degli imputati “eccellenti”. Si censuravano coloro che, imbastendo “processi spettacolari” e ponendosi fuori della Costituzione, pretendevano di “celebrare comunque i processi” a prescindere dalle prove e trasformavano le inchieste in una “gogna pubblica efficace perché distrugge una carriera politica”.
MAFIA E POLITICA
Un attacco pesante, in linea con la voglia diffusa di normalizzare la magistratura: tanto ingiusto quanto infondato, prima di tutto nel merito ma anche nella pretesa di rovesciare la realtà; posto che vi erano state ben poche “gogne” per i politici imputati, quasi sempre beatificati da certa tv e certi giornali, ed invece molte “gogne” per i magistrati che, in ossequio alla legge e alla Costituzione, osavano inquisirli in presenza di gravi notizie di reato, facendo il loro dovere con indipendenza, senza sconti o timidezze. Si apre così il capitolo Ingroia. Con le stragi del 1992 si verificò qualcosa di simile all’11 settembre di New York: Giovanni Falcone e PaoloBorsellino come le Torri Gemelle, simboli abbattuti da una violenzapolitica totalizzante, con obiettivi proiettati ben oltre le vittime immediatamente colpite.
Quest’immagine (che è di Andrea Camilleri) esprime bene il gravissimo pericolo che si abbatté sull’Italia: il pericolo di diventare uno Stato-mafia dominato da un’organizzazione criminale stragista. Per fortuna, con il concorso di tutti (istituzioni, società civile, forze dell’ordine e magistratura), invece di precipitare in un abisso senza fondo, siamo riusciti a resistere. La procura di Palermo di allora ha contribuito a salvare l’Italia, non solo inceppando l’ala militare della mafia, ma anche aggredendo (con pari intensità e determinazione) le complicità che di Cosa nostra sono il cuore ed il cervello. Un’azione antimafia non solo di facciata, che ha avuto in Ingroia uno dei protagonisti principali (basti citare i processi Contrada e Dell’Utri), capace di operare con indipendenza, continuità e coerenza assolute per tutti gli ultimi vent’anni, nonostante gli attacchi indecenti subiti.
IL SUCCESSO DI PALERMO
Così, anche grazie alla sua azione, sul piano investigativo-giudiziario abbiamo finito per “fare scuola”, in Europa e nel mondo. E non è un caso che la convenzione Onu contro la criminalità trans-nazionale firmata a Palermo, nel dicembre 2000, preveda tutta una serie di misure pensate con riferimento alla realtà specifica delle organizzazioni criminali, quale emersa dall’esperienza di contrasto maturata sul campo soprattutto nel nostro Paese: dalla previsione come reato della partecipazione ad un gruppo criminale organizzato, all’incentivazione dei “pentimenti”, alla confisca dei beni dell’associazione (base dell’antimafia sociale che è diventata sintesi di dignità conquistata col lavoro libero, un baluardo della democrazia contro i ricatti dei mafiosi). Senonchè, mentre esportavamo modelli vincenti, purtroppo dovevamo constatare che a cambiare–o cambiare troppo poco – era la politica, per lo meno certa politica: prodiga di proclami antimafia ma sempre pronta a mettere sul banco degli imputati i magistrati non compiacenti. Proprio riflettendo su tutto ciò, Ingroia ha maturato la convinzione che occorre contribuire ad un cambiamento degli schemi d’intervento della classe dirigente del Paese e ha assunto l’attuale impegno politico. Con una coerenza anche in questo caso degna del massimo rispetto, a prescindere dalle divergenze che possono esservi su punti specifici.

l’Unità 29.12.12
«Pubblico» è in sciopero, Telese annuncia la chiusura

ROMA Pubblico, giornale diretto da Luca Telese (che è anche uno degli editori) oggi non è in edicola per lo sciopero proclamato dai redattori, riuniti in assemblea. Il motivo è la notizia anticipata dallo stesso Telese (ai giornalisti) e dall’amministratore delegato Tommaso Tessarolo (al tavolo sindacale presso la Federazione nazionale della stampa): l’assemblea dei soci convocata per lunedì per scegliere quale strada imboccare fra la ricapitalizzazione della società oppure la messa in liquidazione e l’immediata sospensione delle pubblicazioni, ha in sostanza già deciso per la chiusura del giornale.
«A poco più di tre mesi dalla sua uscita in edicola scrivono i giornalisti e i poligrafici in un comunicato Pubblico ha le ore contate. E noi purtroppo siamo rimasti gli unici a pensare che questo sia un epilogo inaccettabile. In questo giornale abbiamo creduto, senza sospettare che coloro che lo hanno ideato e promosso, invece, lo avrebbero messo in discussione alla prima difficoltà».
Uscito in un momento di contrazione generale delle vendite, il quotidiano ha cercato il suo posto e la sua visibilità. Ma le copie vendute non hanno raggiunto il punto d’equilibrio fissato da Telese. E quello che amareggia i giornalisti è il frettoloso abbandono di un progetto che tutti credevano «duraturo». «Chiediamo ancora una volta all’amministratore delegato e al direttore-editore di tentare le strade non ancora percorse per rilanciare questa azienda. Siamo certi che un imprenditore autenticamente illuminato e capace possa ancora salvare questo giornale che, nonostante una gestione del tutto inadeguata e costellata da scelte imprenditoriali sbagliate, ha saputo trovare il suo spazio in un mercato complesso e in crisi e prova ogni giorno a offrire ai lettori un’informazione alternativa di qualità. Grazie anche ai tanti collaboratori che ogni giorno contribuiscono alla fattura del nostro quotidiano. Collaboratori che in alcuni casi non hanno ancora visto retribuiti i loro compensi e negli altri casi non hanno alcuna certezza sul pagamento degli arretrati. Che un’azienda possa iniziare e finire il suo ciclo vitale in tre mesi è impensabile. Che la stessa azienda non abbia, in un lasso di tempo così breve, nemmeno la liquidità per pagare a tutti i suoi lavoratori le spettanze maturate è francamente inaccettabile».
Ai colleghi di Pubblico va la solidarietà dei giornalisti e dei poligrafici de l’Unità.

l’Unità 29.12.12
Usa, dopo Newtown insegnanti a lezione di armi da fuoco
Corsi in Utah per addestrare i maestri
Sei Stati studiano norme per autorizzare le pistole a scuola
di Marina Mastroluca

Seduti diligentemente a prendere appunti. Per una volta sono loro, gli insegnanti, quelli che annotano sul quaderno le cose da ricordare. Oggi lezione di armi da fuoco: tutto quello che c’è da sapere per maneggiare con sicurezza una pistola, dovesse presentarsene l’occasione: dovesse capitare quello che è successo nella scuola di Newtown, in Connecticut, appena due settimane fa. Per farci la mano, i maestri usano pistole di plastica e seguono le lezioni nella sala conferenze di uno stadio di hockey. Poi ci saranno prove pratiche e alla fine una licenza per potersi presentare armati a scuola. L’Utah è uno dei pochi Stati americani dove è già consentito gli altri sono Hawaii, New Hampshire e Oregon basta avere una regolare autorizzazione.
Di norma il corso costa 50 dollari. Stavolta è gratuito, omaggio dell’Utah Shooting Sports Council agli insegnanti di della West Valley City. Non è la prima volta che gli addestratori hanno a che fare con maestri di scuola. Mai però tanti come quest’anno. A Salt Lake City, nello stesso Stato, si sono presentati in 200. È l’effetto Newtown, quei venti bambini uccisi e l’inutile tentativo di salvarli fatto da preside e insegnanti, massacrati anche loro.
Lo Utah non è un eccezione. A offrire corsi simili c’è anche la fondazione Buckeye Shooting, in Ohio, che dopo la strage ha già ricevuto un numero di domande di iscrizione 20 volte superiore alla media, soprattutto da parte di insegnanti, autisti di autobus e bidelli. In Oregon un negozio di armi da fuoco offre corsi gratuiti per gli insegnanti. In Arizona il procuratore generale Tom Horne ha proposto di organizzare lezioni ad hoc in ogni scuola, per addestrare quanto meno il dirigente. L’idea è stata caldeggiata da tre sceriffi, ma perché diventi operativa c’è bisogno di un passaggio legislativo e del via libera del governatore. «La soluzione ideale sarebbe avere un ufficiale di polizia armato in ogni scuola», ha detto Horne, in assoluta sintonia con il suggerimento della National Rifle Association, Nra, la principale lobby dei produttori di armi che ha difeso il principio secondo il quale «per fermare un pessimo soggetto armato, ci vuole una brava persona armata».
L’ipotesi del poliziotto di scuola sembra però destinata a restare del tutto teorica, se non altro per ragioni di budget. L’alternativa assomiglia ad un far west versione scolastica, che pure trova sostenitori in giro per il Paese. Anche in Missouri si sta ragionando intorno ad un progetto analogo a quello dell’Arizona, nonostante l’opposizione del governatore democratico che la considera «un approccio sbagliato ad un problema grave». In sei Stati americani, secondo quanto riporta l’Huffington Post, sono allo studio disegni di legge per autorizzare gli insegnanti a portare delle armi a scuola. «Una follia», per Dan Gross, presidente del più importante gruppo di pressione a favore del controllo delle armi, Brady Campaign To prevent gun violence.
BUONI SPESA CONTRO FUCILI
Eppure ci sono insegnanti convinti che sia questa la strada giusta. Come Kasey Hansen, presente al corso di Salt Lake City. «Se mai dovessi affrontare un tipo come quello del Connecticut, sono del tutto preparata a rispondere al fuoco», dice, spiegando che intende comprarsi un’arma per portarsela a scuola.
È l’onda lunga della strage di Newtown. Se da una parte cresce nell’opinione pubblica la percentuale di quanti si dicono favorevoli a misure restrittive sulla vendita delle armi da fuoco dal 43% del 2011 al 58% di questi giorni, secondo Usa Today cresce anche il numero di chi crede che più pistole e fucili si trasformino in maggiore sicurezza per tutti. E non è un caso che la vendita di armi compreso il fucile d’assalto usato nella strage sia andata a gonfie vele nel periodo pre-natalizio.
In compenso a Los Angeles è stato anticipato di 5 mesi il progetto che offre un buono spesa da 100 dollari a chiunque riconsegni, senza dovere nessuna spiegazione particolare, una pistola, 200 se si tratta di un fucile automatico. È la quarta volta che Los Angeles replica l’operazione, di solito a maggio. L’ultima volta sono state recuperate 1.673 armi (mai così poche), inclusi 53 fucili d’assalto. Appena una goccia.

l’Unità 29.12.12
La rivoluzione rosa contro l’India degli stupri
Esplode la rabbia dopo l’aggressione a una ragazza ora in fin di vita
Al governo si chiedono pene severe e una politica contro la misoginia
Nella capitale denunciate quasi 600 violenze all’anno, ma sono solo la punta dell’iceberg
La guerra comincia prima di nascere: milioni di femmine eliminate con aborti selettivi
di Claudia Fusani

E che mostrano cifre da vergogna come «Delhi 2011: 568 stupri», gridano «tolleranza zero» e «non perchè sono una madre o una figlia ma perchè sono una donna». Il problema non sono neppure le migliaia di persone, soprattutto donne mature con i sari colorati e sotto pantaloni e maglioni, che per giorni hanno bloccato il cuore politico della capitale, l’India Gate, per pretendere che il governo del partito di Sonia Gandhi metta la lotta alla misoginia e il rispetto per le donne al primo punto dell’agenda politica. E il problema non sono neppure questi giovani poliziotti buttati qui giorno e notte, l’uno addosso all’altro su mezzi blindati, ragazzi che basta scuoterli e vanno giù, a obbedire a un ordine con bastoni di legno lunghi un metro e mezzo.
«Il problema siamo noi» scrive Praven Swami, editorialista di The Hindu un milione e 100 mila copie vendute sottraendo definitivamente il brutale stupro di gruppo di una ragazza di 23 anni dalle cronache indiane, dove a fatica ma scientemente era stato tenuto, per portarlo sul piano della storia. I grandi cambiamenti nascono quasi sempre da «piccoli» fatti. Quando un paese e ancor più le donne trovano il coraggio di prendere consapevolezza di quello che non va, le rivolte diventano in fretta rivoluzioni.
Il «piccolo» fatto si chiama «gangrape», stupro di gruppo. Lei ha 23 anni, allieva infermiera, figlia di quella borghesia di New Delhi che lentamente sta diventando classe dirigente. La sera del 16 dicembre, era con il fidanzato, è stata vittima di uno stupro di gruppo stile Arancia meccanica. Già operata tre volte, il 26 sera il governo ha deciso di trasferirla al Mount Elisabeth di Singapore per tentare il trapianto del fegato. Per farla sopravvivere.
Da quel momento sono state congelate le proteste in strada, a Delhi come a Bangalore. Come se uomini e donne di tutte le età fossero in attesa di un segnale. Per decidere fin dove è utile arrivare. È cessata la rivolta, è cominciata la rivoluzione. Con obiettivi espliciti: pena di morte per gli autori di stupri e violenze o comunque pene severe perché le statistiche dicono che questi sono tuttora reati di serie B.
«Dobbiamo renderci contro si legge nell’editoriale di The Indu che la cultura indiana di massa condivide il punto di vista dello stupratore ed è intrisa di misoginia». Stampa e tv indiane stanno dando una bella mano. Hanno stoppato, ad esempio, il tentativo di far passare la morte per infarto di un poliziotto in servizio d’ordine pubblico all’India Gate come la conseguenza di un’aggressione da parte di alcuni giovani. Ma i filmati trasmessi da tutte le reti hanno martellato da subito con l’altra verità: i ragazzi sospettati, Pauline e Yagenona, in effetti hanno soccorso l’agente quando l’hanno visto accasciarsi a terra.
COMMISSIONE D’INCHIESTA
I media, tutti, anche quelli in lingua hindu, più popolari, stanno massacrando Abhijit Mukherjee, deputato della Lok Sabha, la Camera bassa, e figlio del presidente indiano Pranab Mukherjee perchè mercoledì scorso, primo giorno di relativa tregua, ha pensato bene di fare la seguente affermazione: «Quanto accade a Delhi sembra la rivoluzione rosa che abbiamo visto in Egitto e però cosa c’entra con le realtà in India? Tra chi protesta vedo signore rifatte e truccate che affermano di essere studentesse, ma ho seri dubbi che lo siano».
E dire che c’era voluta più d’una settimana per sentir dire qualcosa di sensato dal primo ministro Manmahan Singh: «Quella in corso è una rivolta vera, spontanea, che abbiamo il dovere di prendere sul serio». Nelle stesse ore Sonia Gandhi, di fatto padrona del paese come capo del Partito del Congresso, e il figlio Raoul avevano incontrato una delegazione di manifestanti. Governo e parlamento insieme stavano prendendo alcune iniziative: commissione d’inchiesta permanente su stupri e violenze sessuali; tribunali dedicati e quindi processi più rapidi; pene più severe e, in certi casi efferati, anche il ricorso alla pena capitale. Quando arrivano le parole del deputato figlio di cotanto padre, subito definito «sessista con mentalità medioevale». L’India Times, due milioni e mezzo di copie ogni giorno, commenta: «Le donne che dimostrano solidarietà per una sorella sconosciuta lo fanno solo perché è di moda, non è vero signor deputato Mukjerjee? Parlando di sorelle, è toccato alla sorella di Abhijit, Sharmishtha, chiedere scusa a suo nome».
Vedremo se la rivoluzione porterà il cambiamento preteso e necessario. Sta camminando spedita in un paese dove nel 2010 (fonte Ufficio nazionale indiano) è stata uccisa una donna ogni ora per impossessassi della sua dote; il 51% degli uomini e il 54% delle donne ritiene «giustificato» picchiare una donna e negli ultimi trent’anni 30 milioni di bambine sono state vittime dell’aborto selettivo, in una società che privilegia i figli maschi.
Un volto di questa rivoluzione senza leader è quello di Sunitha Krishnan, 22 anni, stuprata quando ne aveva 15, che ora ha il coraggio di raccontare la sua storia a giornali e tv: «Non ho più vergogna e non voglio più nascondere la mia faccia, sono loro (i violentatori, ndr) che devono nascondersi».
Il problema, appunto, siamo noi. Anche in Italia, se il don Corsi di turno arriva a giustificare il femminicidio perché alla fine «siete voi che provocate».

Repubblica 29.12.12
La scrittrice indiana: non rinunciamo ora alle nostre conquiste
La mia vita in guardia nella città delle belve
di Anita Nair

DA QUANDO ho memoria ricordo mia madre che mi metteva costantemente in guardia sui rischi che si correvano là fuori: una donna doveva affrontare pericoli maggiori di quelli che un uomo deve mai anche soltanto prendere in considerazione, mi diceva. Eppure non mi diceva di smettere di fare qualsiasi cosa volessi fare, solo di guardarmi le spalle. Nell’India di adesso sembra un consiglio indispensabile. Quando mi sono trasferita per la prima volta a Bangalore, da Chennai, non sapevo bene quale fosse l’atteggiamento di quella città verso le donne. Chennai era una città sicura per le donne, secondo la mia esperienza: gli uomini di Chennai avevano una cortesia innata e una galanteria naturale e potevamo andarcene in giro tranquille, aspettandoci cortesia e galanteria come un diritto. Era abbastanza facile credere all’affermazione: sono una donna e mi aspetto di essere trattata con il rispetto dovuto al nostro sesso.
Dovunque sono andata, in India, mi sono portata dietro questa convinzione: e nella maggior parte dei casi ha trovato conferma. Perciò, ogni volta che leggevo sui giornali di crimini perpetrati contro le donne, mi chiedevo che cosa stesse succedendo: forse la mentalità indiana era cambiata come era cambiata la sua economia? Forse una donna, da qualche parte, si era presa un rischio che non avrebbe dovuto prendersi, non rendendosi conto che le tante componenti dell’India erano diventate una bestia ringhiosa che vede le donne come prede?
Improvvisamente la vita di una donna è condizionata dalle esigenze di sicurezza: non percorrere strade deserte di notte, perché non ti puoi fidare degli uomini che incontri. Non prendere taxi e automobili se non sai che è un servizio controllato. Non far entrare estranei in casa. Non attirare l’attenzione su di te, perché è meglio non mettere in movimento gli ingranaggi mentali di qualche pervertito. Agita le braccia, grida e chiama aiuto appena hai il minimo sospetto di essere in pericolo. Tieni nella borsa uno spray al pepe e quando devi andare in un posto che non conosci chiedi a tuo marito, a tuo fratello, al tuo fidanzato, di accompagnarti. Mi vengono i brividi al pensiero di cosa diventerà la vita di una donna per effetto di questa nuova insicurezza urbana. L’elenco delle cose da fare e non fare si accumula spingendoci in uno stato che rasenta la paranoia. Perché quale altra scelta abbiamo? Nasconderci in casa oppure smettere di essere noi stesse e adattarci all’immagine regolamentata di quello che le donne dovrebbero essere secondo la società.
Tutto quello per cui le donne hanno tanto lottato, ogni brandello di indipendenza che abbiamo conquistato con tanta fatica vacilla nel momento in cui una donna non si sente sicura. Quella donna tornerà a essere la creatura timida e insignificante, timorosa della propria ombra, che costituiva l’archetipo femminile di una volta. Smetterà di prendersi dei rischi o di crescere. Siamo in bilico sull’orlo del precipizio: se non renderemo l’India sicura per noi donne, sarà la nostra stessa natura a cambiare.
Vive a Bangalore Con Neri Pozza ha pubblicato in Italia Il satiro della sotterranea (2004) e Cuccette per signora (2002)

Corriere 29.12.12
La Cina scheda 500 milioni di internauti
Giro di vite sulla Rete: obbligo di denunciare «chi viola la legge»
di Marco Del Corona

La Cina ha varato nuove norme per regolamentare Internet: l'Assemblea del Popolo ha stabilito di inasprire i controlli sugli utenti. Sarà obbligatorio registrarsi con il proprio nome per accedere ai vari servizi online (anche se si può poi comparire con un nickname) e i provider dovranno segnalare i contributi contrari alla legge e cancellarli. Le misure approvate dal vertice del potere legislativo riguardano mezzo miliardo di internauti.
Se Xi Jinping durante il suo primo mese e mezzo di potere ha puntato — con successo — sull'immagine di leader capace di parlare la lingua di tutti, le nuove norme che la Cina ha varato per regolamentare Internet rischiano di smorzare i moti di simpatia. Il comitato permanente del Parlamento (Assemblea del Popolo) ha infatti approvato regole per inasprire i controlli sugli utenti, con 145 sì, un no e 5 astenuti. Sarà obbligatorio registrarsi con il proprio nome per accedere ai vari servizi online (anche se si può poi comparire con un nickname): questo vale soprattutto per i microblog, modellati su Twitter (censurato). Con mossa delatoria, i provider dovranno segnalare i contributi contrari alla legge e cancellarli. Minuziosa la preparazione. Mesi di rallentamenti sul web, attacchi per rendere inefficaci le vpn (i software che aggirano i filtri della Rete cinese), articoli ed editoriali che giustificano un maggior controllo in nome della privacy, della sicurezza, della lotta ai «pettegolezzi» e dunque, in ultima istanza, dell'ordine sociale: e non è un caso che un'altra, distinta legge ora imponga ai figli di genitori anziani di «visitarli spesso». Praticamente, Confucio obbligatorio.
Le misure approvate dal vertice del potere legislativo riguardano virtualmente il mezzo miliardo di netizen cinesi e formalizzano indicazioni sparse che già esistevano, specie a livello amministrativo. Ad esempio, quest'anno al colosso Sina era stato ordinato di pretendere che gli utenti del suo weibo (il servizio simil-Twiter) si registrassero con il vero nome, ma la messa in pratica si era di fatto impantanata. Esiste già anche la cancellazione dei testi «inappropriati». Ma come per l'acquisizione delle schede telefoniche sarebbe d'obbligo il documento di identità, l'applicazione delle disposizioni relative alla Rete è spesso disattesa o aggirata.
L'annuncio di ieri ha però un peso politico. Segnala la volontà della nuova leadership comunista di presidiare attivamente gli spazi lasciati liberi alla frequentazione dell'opinione pubblica. Il neosegretario Xi Jinping ha dichiarato la necessità di combattere la corruzione nel Partito. E poiché proprio i microblog si sono rivelati strumenti formidabili per denunciare abusi e comportamenti sconsiderati di funzionari e dirigenti, la stretta di adesso conta di riportare tutto sotto la supervisione dei vertici. Denunciare sì, dunque: ma chi, come, dove e quando, si decida a Pechino.
Gli utenti non ne saranno felici. Neppure le aziende — sia quelle straniere, comunque danneggiate dagli attacchi alle vpn, sia quelle cinesi — accoglieranno bene obblighi che frenano un'area vasta e vitalissima della Rete, dai social network all'e-commerce fino alla fiorentissima industria dei giochi online. «Aspettatevi un'intensa attività di lobbying da parte delle grandi società cinesi del web per annacquare il tutto», avverte Bill Bishop, consulente aziendale e rispettato analista a Pechino: «Comunque già adesso l'essere anonimi online in Cina non esiste, soprattutto se per fare microblogging si usano apparecchi mobili. Le autorità ti possono comunque beccare». La partita ora si sposta su modalità e tempi dell'attuazione delle nuove prescrizioni. Da qui alla formazione del nuovo governo e alla nomina di Xi a capo dello Stato (in marzo, a Parlamento riunito) si vedrà il grado di fermezza nell'applicare la legge. Pechino ha imparato a non trascurare le reazioni dell'opinione pubblica. E anche se un Internet «in ordine» e ubbidiente val bene il malumore popolare, c'è sempre tempo per dosare la formula.

La Stampa 29.12.12
La vera partita per il futuro di Israele
di Abraham B. Yehoshua

Ora che è iniziata la sarabanda elettorale in Israele sarebbe bene cercare di definire il nocciolo della controversia tra «colombe» e «falchi». Di proposito mi attengo a questa definizione anziché a quella di «destra» e «sinistra» perché nel dibattito politico israeliano queste due fazioni non corrispondono alla definizione ideologica del termine accettata in tutto il mondo.
Il punto focale dell’attuale dibattito non verte infatti intorno alla questione della pace. Anche in chi è disposto ad accettare gli accordi formulati a Ginevra nel 2006 si insinua il dubbio che i palestinesi e i loro sostenitori arabi non intendano accontentarsi di uno stato smilitarizzato entro i confini del 1967 con una presenza giuridicamente riconosciuta a Gerusalemme ma senza la possibilità di un ritorno dei profughi in Israele.
Gran parte della fazione delle «colombe», rappresentata nelle prossime elezioni dai partiti della sinistra e del centro, non è infatti composta da ingenui visionari con sogni e utopie irrealizzabili. E neppure da chi è convinto che anche se venissero firmati accordi di pace e lo stato ebraico si ritirasse dalla Cisgiordania le ostilità cesseranno.
La fazione delle colombe, in tutte le sue sfumature e varianti, deve battersi per un unico obiettivo: arrestare il pericoloso processo di lenta trasformazione di Israele in uno stato bi-nazionale, un’eventualità disastrosa per entrambi i popoli.
È questo è il nocciolo della controversia tra i due campi. Dinanzi alla dura realtà di una costante espansione degli insediamenti, della mancata evacuazione di avamposti ma soprattutto della costruzione di nuovi quartieri ebraici in zone mai appartenute geograficamente e storicamente alla città di Gerusalemme, dinanzi a un processo di cecità storica e di abbaglio demografico nel corso del quale negli ultimi anni due popoli così diversi fra loro si stanno legando in un profondo intreccio, la fazione delle colombe dovrebbe presentarsi alle prossime elezioni con una posizione inequivocabile che dice: fin qui.
È infatti molto probabile che i palestinesi, che con una testardaggine all’apparenza incomprensibile rifiutano di condurre trattative con gli israeliani, intendano trascinare Israele nella trappola di uno stato bi-nazionale esteso dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo con la paziente illusione che questo stato, col tempo, si trasformi in palestinese.
E nonostante l’attuale governo israeliano abbia designato ai palestinesi il ruolo di «fodera» nell’indumento che si sta tessendo, è bene che sappia che anche la fodera un giorno potrebbe causare la lacerazione dell’intero abito. Abbiamo visto in questi ultimi anni come dall’oggi al domani popoli apparentemente tranquilli abbiano strappato e distrutto amministrazioni governative.
In linea di principio gli ebrei osservanti non hanno un particolare timore di uno stato bi-nazionale. L’identità religiosa ebraica è infatti «errante», consolidata in se stessa, ha un’esperienza storica secolare di resistenza in civiltà e popolazioni di religioni diverse e di certo chi si riconosce in essa non si scompone per una condizione di bi-nazionalità, soprattutto quando sa di essere protetto dall’esercito israeliano.
Il dibattito deve quindi svolgersi fra le «colombe» e i leader laici della fazione di destra. Costoro, sostenitori dell’ideologia di Jabotinsky, dimenticano che quando il loro maestro parlava negli anni trenta del secolo scorso di uno stato ebraico su entrambe le rive del Giordano c’erano al mondo 18 milioni di ebrei, molti dei quali avevano un disperato bisogno di una patria, mentre il numero di arabi palestinesi era meno di un milione. Per questo Jabotinsky poteva immaginare un Paese a maggioranza ebraica con all’interno una minoranza araba con pieni diritti.
Ma oggi ci troviamo sull’orlo di uno stato bi-nazionale e molti esperti, consapevoli di ciò che sta accadendo, sostengono che sia ormai impossibile fermare questo processo. Sebbene tali esperti possano anche avere ragione, ritengo che ci sia ancora modo di porre rimedio alla situazione grazie a una divisione in cantoni e a una soluzione di doppia cittadinanza.
Il nocciolo del dibattito tra falchi e colombe in vista delle prossime elezioni non dovrebbe perciò vertere sulla questione della pace, dell’isolamento internazionale, o della separazione tra Stato e religione, argomenti sui quali potremo continuare a discutere all’infinito. Dovrebbe invece vertere sulla chiara pretesa di cessare immediatamente l’ampliamento degli insediamenti come prima e imprescindibile condizione di una possibile partecipazione della fazione delle colombe, in tutte le sue componenti, al terzo governo Netanyahu.

Repubblica 29.12.12
Usate per anni all’Est medicine non approvate
Pazienti della Ddr usati come cavie dai big dei farmaci di Big Pharma
di Vanna Vannuccini

I test segreti avvenuti negli ospedali Coinvolte almeno cinquanta aziende
“Cavie umane nella Ddr” decine di morti sospette per i test segreti di Big Pharma

BERLINO — Nei confronti delle industrie farmaceutiche molte organizzazioni di pazienti avevano protestato di recente perché quando testano un nuovo prodotto tengono nascosti la metà dei dati. Ma ora uno scandalo ben più grande colpisce le più famose ditte farmaceutiche mondiali: Bayer e Schering, Hoechst (oggi Sanofi), Boehringer Ingelheim e Goedecke (Pfizer), Sandoz (Novartis) e altre. Secondo quanto hanno scoperto il Tagesspiegel di Berlino e la radio-tv Mitteldeutscher Rundfunk, negli anni 80 una cinquantina di queste società dettero in appalto a ospedali dell’allora Ddr più di 150 nuovi medicinali da testare su pazienti della Germania dell’Est: a loro insaputa. Ogni studio veniva pagato 860.000 marchi occidentali (circa 430mila euro). La Ddr affamata di valuta occidentale divenne un vero e proprio laboratorio per le sperimentazioni dell’industria farmaceutica, scrive il Tagesspiegel.
Anche perché invece nella Germania ovest dagli anni Settanta le regole per le sperimentazioni erano diventate molto severe dopo lo scandalo del Contergan, il farmaco somministrato alle donne in gravidanza che provocò malformazioni gravissime in migliaia di bambini.
I test nella Ddr coinvolsero qualche migliaio di pazienti, un centinaio per ogni studio su un nuovo medicamento. Dai rapporti medici, scrive il Tagesspiegel, si vede chiaramente che i pazienti erano completamente all’oscuro di venir curati con farmaci in via di sperimentazione, non ancora approvati per la vendita nella Germania Ovest o addirittura dei placebo, come è venuto alla luce nei casi più tragici. Uno di questi, raccontato dal giornale di Berlino, fu quello di un sessantenne colpito da infarto e ricoverato nel 1989 in un ospedale di Dresda, Gerhard Lehrer. Il medico gli disse che sarebbe stato curato con farmaci molto speciali, che non si trovavano in farmacia, ricorda la moglie Anneliese. Gerhard morì due anni dopo la cura e la moglie ebbe fin dall’inizio la sensazione che le pillole fossero state la causa del suo continuo peggioramento. In effetti la redazione della Mitteldeutscher Rundfunk ha fatto analizzare delle pillole che erano ancora in possesso della signora Anneliese e ha scoperto che si trattava di placebo (lo studio era stato fatto dall’ospedale di Dresda per conto della Hoechst). Altri casi di decessi in seguito alla sperimentazione si ebbero nel Madgeburgo dove la Sandoz (Novartis) testò un nuovo farmaco contro l’ipertensione, il cui principio attivo era denominato spirapril. Morirono sei pazienti su 17, dall’inchiesta emerge che lo spirapril provocò fin dall’inizio un peggioramento nei malati, tanto che alcuni si rifiutarono dopo qualche settimana di proseguire la cura.
Dai documenti dell’ex ministero della Sanità della Ddr, non risulta che fosse stato richiesto ai pazienti nessun “consenso informato”. Ma le ditte farmaceutiche e i responsabili della Sanità dell’allora Ddr negano. Juergen Kleditzsch, ministro della Sanità al tempo della caduta del Muro fino alla riunificazione nel 1990, sostiene che i malati venivano informati. Alcune ditte farmaceutiche hanno detto che i test avvenivano secondo gli standard allora vigenti (che anche nella Ddr prevedevano il consenso informato). Che cosa sapessero delle sperimentazioni le autorità della Germania Federale non è chiaro. L’allora ministro della Sanità tedescooccidentale Rita Sussmuth ha affermato di non averne saputo nulla.

Corriere 29.12.12
«Le donne devono filosofare come gli uomini»
Una voce contro la misoginia degli antichi
di DEva Cantarella

Possono le donne filosofare? Se lo chiedeva, nel I secolo dopo Cristo, Musonio Rufo, eponente del neostoicismo romano, nato in Etruria e presto trasferitosi a Roma, dove acquistò una notevole fama, diventando consigliere di molti nobili antineroniani. Condannato per questo all'esilio nel 65, dopo la morte di Nerone rientrò a Roma, dove restò fino all'80, quando fu costretto ad allontanarsene di nuovo, per tornarvi, finalmente, per volontà di Tito. E con questo finiscono le scarse notizie su di lui. Ma delle sue lezioni (raccolte da un allievo di nome Lucio) rimane il ricordo nelle «Diatribe», in una delle quali si legge: «Poiché uno gli chiese se anche le donne devono filosofare, così cominciò a dimostrare che anch'esse devono farlo: "Le donne, disse, ricevono dagli dei lo stesso logos degli uomini, che noi usiamo l'uno con l'altro, e per mezzo del quale intendiamo se una cosa è buona o cattiva, bella o brutta. Allo stesso modo, la donna ha sensazioni uguali all'uomo, la vista, l'udito, l'olfatto e le altre... Inoltre il desiderio e la inclinazione naturale per la virtù non esistono solo nei maschi, ma anche nelle femmine. Stando così le cose, perché mai gli uomini dovrebbero cercare e studiare come vivere bene, nel che consiste la filosofia, e le donne no?"». Nel lungo elenco delle espressioni di misoginia degli antichi, una piacevole eccezione, che vale la pena ricordare.

Corriere 29.12.12
La favola del cannone di cristallo che mandò in crisi la Serenissima
Con la scoperta del cannocchiale finì il tempo delle certezze
di Giulio Giorello

L'antefatto della nostra storia tratta di una nobildonna di Venezia e del «suo infinito amore per un maestro vetraio, il quale, discendendo dagli dei, aveva imparato a fondere le stelle del firmamento e a portarle in terra, per illuminare le notti senza luna e un giorno aveva illuminato la sua vita, dandole un figlio».
Poi la vicenda del protagonista di Vetro, romanzo di Giuseppe Furno che Longanesi manda in libreria il 2 gennaio, si snoda tra mille colpi di scena nella Venezia della seconda metà del Cinquecento, quando la marea della potenza della Serenissima ha passato il culmine della fortuna, mentre il fasto dei dogi ancora nasconde il declino della «città malata», come la chiama sprezzantemente il pontefice romano. Andrea Loredan è il figlio della gran dama, conteso tra la pratica della legge, che applica con intransigenza contro la prepotenza dei corrotti, e il fascino delle «metamorfosi del vetro», modellato in infinite forme bellissime dagli artefici di Murano. Assiste all'incendio dell'Arsenale (a suo tempo cantato da Dante e che sarà ancora celebrato da Galileo all'esordio dei suoi Discorsi), appiccato non da agenti turchi ma da uno sprovveduto veneziano. Traditore suo malgrado, viene degradato lui stesso da patrizio a galeotto (un po' come il grande Dago del fumetto di Robin Wood) e fa l'eroe nel caos ribollente del «macello» delle Curzolari, evento più noto come battaglia di Lepanto (1571). Vi trova la salvezza, e viene premiato dall'amore della donna per cui si è giocato la carriera, strappandola agli artigli dell'Inquisizione.
L'istituzione non si limita a straziare i corpi. Colpisce le anime, perché mira a distruggere qualunque libro che porti in sé i germi del dissenso. Loredan abbandona la sua fede in legge e ordine mentre si batte per difendere la biblioteca segreta della madre, che contiene non solo i volumi proibiti degli «eretici», da Erasmo a Calvino, ma persino una copia del Corano e, soprattutto, le esoteriche ricette per domare il «drago delle fornaci», ovvero il fuoco da cui sorge il vetro.
Come racconta Furno, alla fornace, strumento dell'arte antica, si affianca il torchio dello stampatore, congegno principe della modernità: «Nei libri non abbiamo mai cercato la verità — dichiara uno dei personaggi chiave del libro —, ma la libertà». Anzi, qualsiasi libro va difeso, non foss'altro «per dare al falso pari dignità del vero». Prima che qualcuno oggi, e non nel 1570 o giù di lì, dia a Furno o a certi personaggi del suo Vetro la patente di «relativista», è bene ricordare che è il diritto all'errore che ha consentito insieme la ricerca scientifica e la sperimentazione artistica. Come diceva un quasi contemporaneo di Andrea Loredan, il grande Francesco Bacone, è meglio cominciare da una teoria falsa che dalla mera confusione mentale. Ma ciò comporta la curiosità tutta mondana per i corpi — terrestri o celesti che siano — che è anatema per gli inquisitori di ieri come per i fondamentalisti di oggi.
E qui c'entra anche il vetro: «Avete visto Venere e Giove, ma con la stessa facilità si possono osservare le cose sulla Terra. Proprio qui, dal campanile, scorgemmo le vele nel golfo di Venezia, a trentacinque miglia di distanza e anche il riflesso dorato dell'arcangelo sulla guglia di San Marco». In alcune pagine Furno si concede il lusso di un po' di fantatecnologia, attribuendo ai suoi inquieti eretici veneziani l'impiego di un «occhiale sidereo», quello che poi sarà il cannocchiale con cui Galileo scoprirà qualche decennio dopo i satelliti di Giove e le fasi di Venere! Nella finzione, però, il percorso dello strumento va dall'impiego nello studio del cielo alle possibili applicazioni militari su questa terra: i turchi vogliono impadronirsi dei libri segreti per disporre anch'essi di quella meravigliosa tecnologia. Salvo che a Lepanto il capo della flotta ottomana si spazientirà nel vedere solo «macchie», appoggiando l'occhio al nuovo «cannone ottico», preferendo alla fine servirsi della propria vista, come avrebbe fatto qualche tradizionalista rifiutando le osservazioni di Galileo, ma non gli accorti gesuiti, i quali dovevano dichiarare «veridico» lo strumento!
Siamo di fronte a un paradosso creativo della modernità: il cristallo dei tecnici e degli scienziati manda in pezzi le sfere cristalline in cui erano incapsulati gli astri della cosmologia aristotelica, porta acqua al mulino dell'eresia scientifica di Copernico, rivela un universo senza confini. Chiede uno sconcertato ragazzino al sentire quei discorsi: «Ma se tutto si muove, e anche la Terra, perché noi non cadiamo?». La risposta dei nuovi filosofi è che solo «la pesantezza» (cioè l'attrazione terrestre, come dirà Newton) ci impedisce di fluttuare come fantasmi nello spazio. Che dire allora degli uccelli che si librano nell'aria? «Perché non riescono ad andare sulla Luna?», chiede il giovane. La risposta è: «Sì, ci andranno». Nel nostro secolo, e si chiameranno astronauti.
I personaggi di Vetro fanno la stessa esperienza di cosmico spaesamento che proveranno realmente, non molto tempo dopo Lepanto, i contemporanei di Galilei e Keplero. Nel romanzo le menti più sottili di quella Venezia affacciata sull'Adriatico come un «labirinto di Minosse» cominciano a percepire che anche la gloria dell'Arsenale — pur nell'apparente trionfo di Lepanto — sta cominciando a tramontare; e sentono quel «vasto palazzo celeste» che è il mar Mediterraneo. Gli astronomi hanno insegnato che non c'è più qualcosa come una volta celeste che racchiuda il cosmo intero, e che questa non è che un'illusione dei sensi; già da prima gli esploratori hanno mostrato che il mondo abitato non finisce alle colonne d'Ercole: al di là del «Mare Grande», cioè dell'oceano Atlantico, c'è il mondo nuovo delle Americhe, dove alla fine approderanno tutti i «buoni» del romanzo di Furno. Forse con qualche rimpianto.
Insieme con la fortuna di Venezia, finisce pure quel «tempo dei maghi», degli alchimisti e dei cabalisti che aveva ispirato le più belle realizzazioni delle fornaci di Murano. Come nota Yves Hersant (grande studioso di storia delle idee), la malinconia dei moderni nasce dallo scarto «meravigliosamente perverso» tra il nuovo che si scorge e il vecchio che si è sottratto alla nostra vista (vedi il suo bel saggio nel volume Diafano. Vedere attraverso, a cura di Chiara Casarin ed Eva Ogliotti, pubblicato dalle edizioni ZeL). Ma anche per questa malinconia ci vuole coraggio.

Repubblica 29.12.12
L’arte del giudizio /1. Jean Starobinski
“In un mondo aggressivo e prevedibile fate come Montaigne: diventate curiosi”
I criteri per valutare le cose sono sempre più confusi Abbiamo chiesto a diversi studiosi di proporci i loro modelli. Partendo dal celebre critico
di Franco Marcoaldi

GINEVRA Più passa il tempo e più scolorano e si confondono le differenze tra vero e falso, bello e brutto, morale e immorale, necessario e superfluo. Eppure rimane intatta la necessità di orientarsi rispetto a giudizi comunque indispensabili per chi intenda vivere in modo cosciente. Da qui l’inevitabile domanda: quali sono le vie attraverso cui si forma il giudizio? Quali le sue basi? Come si giudica un libro, un’opera d’arte, un film, una mostra? Secondo quali criteri un professore giudica un allievo? E un giudice, un reato? Infine, chi è credente, come si rapporta al giudizio di Dio e riesce a farlo proprio?
È talmente ampio e delicato il fronte delle questioni legate alla necessità di una rinnovata “arte del giudizio”, che è bene procedere con cautela. Passo dopo passo. E scegliendo i migliori interlocutori possibili. A cominciare da colui che ci aiuterà ad introdurre il tema: Jean Starobinski.
Il ginevrino - 92 anni molto ben portati - è uno degli ultimi rappresentanti della grande tradizione umanistica. Ha attraversato i campi della scienza medicopsichiatrica e della poesia, della filosofia e dell’arte, con il passo sicuro di chi ha a cuore l’integrità dell’essere umano. Leggere le pagine dei suoi libri, o ascoltare la sua voce calma e profonda, infonde sicurezza. Perché si combinano in lui due doti sempre più rare: una appassionata lucidità critica e una profonda gentilezza d’animo. E non è certo un caso se tra i tanti pensatori e scrittori di cui il grande critico si è occupato (Rousseau, Diderot, Racine, Montesquieu, Stendhal), un posto privilegiato sia occupato da Michel de Montaigne. Che è stato anche il primo a trasferire integralmente sull’individuo la responsabilità di giudizio rispetto alla realtà circostante. Così, sarà proprio lui a farci da viatico nella prima tappa di questo itinerario.
«Il problema del giudizio si è fatto oggi impellente e va ridiscusso in profondità. Perché da un lato abbiamo bisogno di tornare con la memoria a certi principi tuttora validi, dall’altro dobbiamo procedere a stretto contatto con i nuovi problemi che abbiamo di fronte. Ogni giudizio muove dalla necessità di soppesare le diverse possibilità e di scegliere tra le diverse opzioni in campo. E questa scelta comporta delle conseguenze, imponendoci di tenere fede all’impegno preso. Nella consapevolezza che il nostro giudizio può essere sottoposto a revisione, sulla base di nuove esperienze o grazie al confronto con altre visioni del mondo. Esiste poi, aggiungo, quella che potremmo chiamare la “vita spontanea”, ovvero lo spazio in cui si esprimono invece dei giudizi impliciti, che dimorano inconsciamente dentro di noi e sono in qualche misura preliminari a un’arte del giudizio adeguatamente argomentata».
È sempre più difficile giudicare anche perché non si sa bene a quale autorità, interna o esterna, sia possibile affidarsi.
«Ecco la vera questione: chi e cosa rappresenta l’autorità? L’autorità ci offre forse un accesso alla verità pratica? Ci indica la direzione di una crescita spirituale nella nostra esistenza? Un miglior rapporto con l’altra vita? È un principio che senza dubbio potremmo adottare. Così come potremmo dire che l’autorità concerne l’etica, il problema del bene e del male. E in questo frangente formula dei doveri morali. Ma l’autorità nel campo estetico compie dei tragitti completamente diversi. L’etica e l’estetica, sovente, coabitano con difficoltà: non si possono mescolare tra loro. La valutazione di un’opera d’arte non può essere sottoposta a un giudizio strettamente morale».
Anche sul piano estetico, però, ci sarebbe bisogno di uno standard condiviso. Ed è proprio questo che sembra sia venuto a mancare.
«Il giudizio estetico è sempre stato condizionato dallo spirito del tempo, da gruppi e sottogruppi sociali, dalle mode, dalle diverse culture. Insomma, da una comunità che via via si sente investita dall’autorità necessaria per esprimere un giudizio sull’eccellenza o il fallimento di una determinata opera. E dunque per stabilire se quell’opera sia portatrice o meno di senso e di valore. Nella società contemporanea, in effetti, si è imposto uno standard estetico di ordine mediatico, hanno prevalso posizioni puramente mercantili e comunque poco motivate razionalmente, la necessità di scandalizzare a tutti i costi, l’acclamazione della celebrità in quanto tale. Il tutto secondo modalità tecniche piuttosto aggressive e tutto sommato prevedibili. Da qui il desiderio, più che comprensibile, di proteggersi da questa marea montante. Dalla quale ci si può difendere in due modi: o ignorandola, o ribellandosi. Ma ignorare non sempre è il miglior modo per esprimere la propria libertà, mentre può esserlo il rifiuto».
Veniamo a Montaigne, che abbiamo scelto come maestro ideale dell’arte del giudizio. Pensa che il suo insegnamento sia valido ancor oggi?
«Assolutamente sì, anche se con i dovuti distinguo. Non foss’altro perché la sua curiosità, per quanto straordinaria, non deve rapportarsi alle infinite sollecitazioni sotto le quali, oggi, corriamo il rischio di rimanere schiacciati. Se nei suoi confronti provo così tanta simpatia, è perché è un uomo che non rifiuta nulla e tutto accoglie. Ha ricevuto una educazione classica, conosce il mondo antico, e sa distinguere perfettamente tra antichi e moderni. Apprezza la diversità come massima ricchezza della vita, ma ciò non gli impedisce di cercare con tenacia una coerenza interiore. Il rapporto con gli altri è sempre improntato all’amichevolezza e al rigetto dell’ostilità. Così come va ricercato il senso, pur sapendo che questa ricerca conduce inevitabilmente alla contraddizione. I suoi valori sono molto semplici, essenziali: la nostra condizione di esseri viventi è legata alla presenza di altri esseri viventi, con i quali è necessario stabilire una relazione quanto più possibile armoniosa».
Compresi gli animali...
«Compresi gli animali».
Dunque Montaigne carica l’essere umano di tutta la responsabilità del giudizio. Ma la separazione da una verità trascendente non lascia quell’individuo in balia dell’arbitrio.
«Esattamente. Perché questo accada, però, bisogna che gli uomini siano motivati da un rapporto di riconoscimento reciproco. Montaigne è innanzitutto un nemico del fanatismo, molto forte nella sua epoca, perché sa che porta con sé un inevitabile carico di morte. La sua opzione, al contrario, si fonda sull’uso dell’intelligenza come volano e garanzia della vita».
Dunque, per Montaigne su cosa poggia l’autorità interiore?
«Parlerei di un doppio movimento: una continua apertura verso l’altro, senza che questa minacci la propria personalità. Perché ciò accada bisogna mantenere i sensi in uno stato di continua vigilanza, cogliendo la meraviglia dell’ignoto, di tutto ciò che supera la nostra conoscenza immediata. La curiosità che mosse i primi esploratori era la stessa che animava Montaigne».
Alla fine del suo viaggio interiore, però, rimette comunque al centro la coscienza personale, la vera bussola a cui affidarci... Quali sono i principali “antagonisti della coscienza”, per dirla con il titolo di un suo saggio?
«Innanzitutto la violenza, come sosteneva il mio amico Eric Weil. Ovvero tutto ciò che impedisce alla coscienza di vivere in uno spazio illimitato, ben superiore a quello del mero bisogno, della salvaguardia dell’integrità fisica dell’io. Perché la coscienza non si accontenta di garantire la sussistenza dell’individuo, si deve nutrire di un ulteriore insieme di piaceri, mentali e sensuali. Il suo orizzonte è diverso, più ampio, rispetto a quello del semplice combattimento per l’esistenza. Ecco perché il giudizio secondo Montaigne può tornare utile anche oggi. Perché la sua saggezza consiste nel riconoscere i propri limiti di essere mortale, senza per questo rinunciare ad attingere all’inesauribile diversità del mondo, necessaria a perseverare nella nostra ricerca di senso e di pensiero. Questa conciliazione tra l’immediatezza della vita sensibile e la conoscenza mediata del mondo, attraverso la tradizione classica, le scoperte scientifiche, la letteratura, mi sembra una delle sue massime virtù».
Proviamo ad applicare quanto detto alla sua idea di critica.
«Per farlo, è necessario tornare all’idea di relazione. L’arte della critica si fonda
sul discernimento di quei sistemi di rapporto che le opere estetiche e le creazioni umane in generale sottopongono al nostro sguardo. Ciascun critico, come ciascun individuo, ha ovviamente una relazione particolare e personale con il mondo, ma quando legge deve essere capace di mettersi in posizione di ascolto rispetto a mondi diversi dal suo. E’ quanto cerco di fare da una vita, anche se non sono affatto sicuro che il mio sguardo e il mio grado di ascolto siano sufficientemente ampi…».
(1-continua)

Repubblica 29.12.12
Un giornale “manifesto” tra politica sfide e liti
Il racconto della storia del quotidiano fatto da Parlato prima della rottura
di Nello Ajello

A suo modo, un libro di attualità. Perché ci racconta il lunghissimo backstage di una storia che si sta consumando. Infatti proprio mentre il dramma del manifesto sembra arrivato alle ultime scene con una serie di strappi crudeli, ecco che l’ottantunenne Valentino Parlato, poco prima di lasciare anche lui il gruppo storico dopo Rossanda, firma un volume-intervista dal titolo La rivoluzione non russa celebrando - con un po’ di ritardo, ma è un peccato veniale - “quarant’anni di storia” del quotidiano. L’ha pubblicato l’editore Manni, a cura di Giancarlo Greco (pagg. 183, euro 14) ed è curioso leggerlo ora, sapendo quel che è successo poi, in queste ultime settimane di separazioni e rotture. Riavvolgiamo il nastro, allora, insieme a lui. Nato nell’aprile del 1971, ereditando il titolo di testata da una rivista comparsa tre anni prima sotto la direzione di Rossana Rossanda e Lucio Magri, il manifesto è stato non soltanto la voce di una sinistra aspramente critica all’interno del Pci - il che, dati i tempi, già segnava una dissonanza suggestiva – ma, all’indomani della radiazione dal partito di molti fra i promotori, ha funzionato da termo-È metro per le speranze e le traversie incontrate dalla sinistra, non solo italiana, nella seconda metà del secolo scorso. Sono queste le vicende che Parlato ispeziona. Il suo contegno partecipe e tenero sparge nel racconto un sentore di nostalgia. Il ruolo del narratore fa tutt’uno con quello del protagonista. All’interno di quel gruppo, i destini (si fa un po’ fatica a dire le fortune) di quello che si è fregiato lungo i decenni del sottotitolo “quotidiano comunista” e che minaccia di crollare, vennero affidati a un trio: Pintor, Rossanda e, appunto, Parlato. Non si trattava di un collettivo unanime. Non deve trarre in inganno il fatto che l’autore del libro continui a ripetere «Luigi, Rossana ed io», quasi alludesse a una solida falange. Nei fatti, il testo di questa sua confessione in volume rigurgita di «sfide, liti e malumori infernali». I tre amici non potevano essere più diversi fra loro. Un tratto, tuttavia, li accomunava: l’antidogmatismo che aveva sorretto la loro rivolta gli imprimeva (sono parole dell’autore) «non solo il coraggio ma anche il gusto di dire di no». Le molte strategie della tensione che attraversavano la cronaca italiana si riflettevano senza posa nel gruppo.
È stato Massimo Caprara, nel suo volume Ritratti in rosso, ad effigiare i sodali più anziani della triade. Trovava Rossana (sette anni più di Valentino), «lucidamente egemone». Giudicava Pintor (che superava Parlato di sei anni) «imprevedibile». Quanto a lui, Parlato, conviene attenersi a un’autodefinizione: si considera «il più modesto e moderato del gruppo». Non sembrerà una “diminutio” se si immagina quanto, in un simile consesso, servissero modestia e moderazione. Era lui a subentrare nei vertici del giornale quando uno degli altri – la cosa accadeva spesso con Pintor – si assentava dal comando non riconoscendosi nel lavoro comune. Quell’autorevole compagno sardo difendeva con le unghie le esigenze professionali del manifesto“ di carta”, quando gli pareva che questa o quella strategia o tattica politica stesse prevalendo sugli obblighi del mestiere. Presidiava questa posizione ripetendo senza sosta una sua elegante parafrasi letteraria: «un giornale è un giornale, un giornale, un giornale».
La nevrosi dell’onestà non nasceva, in quel «gruppo di avventurieri» da un partito preso. Al vaglio del loro organo di stampa, la cronaca italiana risultava quanto mai severa. Sono innumerevoli le “novità” e gli “incidenti” grandi o piccoli cui il manifesto ha dovuto far fronte. Si può solo tentare di elencarli: dall’edificazione del muro di Berlino alla rivolta dei paesi satelliti, dall’eresia cinese (cui gli eretici nostrani aderirono con una passione che parve doverosa) allo smantellamento dell’Urss, dal dilemma “giornale o partito? ” alla fine del Pci e ai frastornanti conati organizzativi della sinistra extraparlamentare. Eventi che Parlato rievoca mostrandosene talvolta trasecolato. Abbagli, sbandamenti, illusioni passeggere, fasi di un ottimismo incongruo con relativi disinganni, conflitti generazionali fra i “padri fondatori” e i giovani sessantottini che li aiutavano a fare il giornale, il terrorismo, i tormenti e le estasi del sindacato, gli scontri diuturni con la “cavalleria del Pci”, un partito che brandiva contro gli apostati un’arma consueta e micidiale: “Chi li paga? ”.
Non li pagava nessuno. Nella lunga vita del manifesto, non si contano le sottoscrizioni fra lettori e simpatizzanti; e quando il giornale si vide costretto a fare spazio agli annunci pubblicitari, la decisione apparve ai fondatori un tradimento “di classe”. Accade assai spesso che si affacci alla memoria di Parlato uno spettro: l’inconciliabilità fra i disegni o le decisioni versati nel quotidiano e il reale susseguirsi degli eventi, che non gli dava ragione. «Non fu così», «così non andò», le cose si svolsero «molto diversamente ». Sono le riserve postume di cui l’autore si fa carico di continuo. L’onestà di queste pagine e la buona fede del narratore sono sorprendenti e a tratti emotivamente efficaci. Com’è che si consuma un’utopia? A chi vada in cerca di una risposta può essere preziosa la lettura della Rivoluzione non russa.
Di questi tempi, la parola e il concetto stesso di rivoluzione appaiono assopiti. Naturalmente, senza un sussulto. In questo senso, la testimonianza di cui abbiamo parlato assume l’aspetto di un promemoria generoso, ma anche un po’ patetico. È così. Qualche lettore non più fresco di anni potrà scorgervi le tracce di un personale “come eravamo”. E qualche indizio per capire quel che succede oggi.

D. La Repubblica delle donne 29.12.12
La religione è preziosa perché conosce la follia
Scrive G. Bataille: "Il sacro è l'agitazione prodiga di vita che l'ordine delle cose incatena e che l'incatenamento tramuta in scatenamento, in altri termini in violenza"
Risponde Umberto Galimberti

Ho iniziato a vedere la scienza e la tecnologia in successione alla religione, e non in contrapposizione come comunemente si ritiene. Credo sia molto diffusa l'idea che il sacro sia qualcosa che appartiene a uno scarso uso della ragione e che identifichi solamente credenti o popolazioni primitive, persone superstiziose o stravaganti. Grazie a lei ho iniziato a considerare sacro quella che lei chiama confusione di codici che precede l'uso della ragione, che gli uomini hanno inaugurato per salvarsi da tutto ciò che non riuscivano a controllare. Quindi la religione nella sua funzione di recinzione dell'area del sacro, che la tiene separata dalla comunità, attraverso miti, riti e culti che codificano e permettono un rapporto con gli istinti umani e l'assurdo. Mi piacerebbe analizzare l'avvento della ragione e della tecnologia in linea con la funzione che ha avuto la religione (e che forse dovrebbe avere ancora), cioè permettere un rapporto con l'indifferenziato, con ciò che ci pare poco comprensibile e controllabile.
Maria Elena Rossi
rossi.mariaelena@gmail.com

Gli uomini hanno sempre proiettato nel cielo i loro timori, le loro aspettative, le loro speranze, le loro angosce e soprattutto la follia che dimora nel fondo della nostra anima, dove non valgono le regole della ragione e dove tutto si con-fonde nella notte buia dell'indifferenziato. Come dice Eraclito, infatti: "Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame, e si mescola a tutte le cose prendendo di volta in volta il loro aroma".
Se lei è d'accordo con questa equiparazione tra il sacro e la follia, possiamo leggere la religione come ciò che recinge, tendendola in sé raccolta (re-legere) l'area del sacro, mantenendola separata dalla comunità umana ("sacro" è la parola indoeuropea che significa "separato") perché la sua invasione la dissolverebbe, come ben ci racconta Euripide nelle Baccanti, dove l'ingresso del dio determina lo sconvolgimento della città.
La religione infatti separa gli spazi sacri (sorgenti, alberi, monti, templi, sinagoghe, moschee, chiese) da quelli profani, i tempi sacri (le feste) da quelli quotidiani (giorni feriali) e prepone i "sacer-doti", persone consacrate e separate dalla comunità, alla gestione del sacro.
Con riti, precetti e comandamenti, la religione ha consentito all'umanità di uscire dall'indifferenziato, che il sacro rappresenta come proiezione della follia che ci abita e che in qualsiasi momento può esplodere e sconvolgere la nostra anima. Dopo la religione è subentrata la ragione che, con le sue regole generate dal principio di non contraddizione, vieta di pensare che il giorno sia la notte, l'inverno sia l'estate, la guerra sia la pace, la sazietà sia la fame. E infatti Eraclito ci dice che, a differenza del dio: "L'uomo ritiene giusta una cosa e ingiusta l'altra, mentre per il dio tutto è bello, buono e giusto".
La tecnica è la forma più alta di razionalità e quindi in perfetta linea con la funzione svolta un tempo dalla religione, che ha segnato la prima fuoriuscita dal sacro, e poi dalla ragione, che ha proseguito l'opera con un criterio più rigoroso. Senonchè il sacro, per quanto rimosso e tenuto separato, ci abita come follia dell'anima, la cui esplosione non è mai scongiurata. Ma mentre la religione, oltre a garantire la separazione dal sacro, non ne preclude il contatto, che è utile perché il rimosso, come ci ricorda Freud, se del tutto trascurato, ritorna in forma devastante, la tecnica non ha alcuno strumento e tanto meno si propone un via d'accesso al sacro e quindi alla nostra follia che sotto sotto tutti avvertiamo.
Per questo io sono molto favorevole a tutte le ritualità religiose che garantiscono a un tempo la separazione e il contatto con la sacralità. Ma sembra che anche la religione cristiana abbia rinunciato alla solennità dei suoi riti, alle sue preghiere in una lingua altra, al limite incomprensibile, rispetto a quella in uso nella comunità, dal momento che il sacro non parla il linguaggio della ragione. E più ci si allontana dalla sua enigmaticità minacciosa, più si lasciano i singoli a vedersela da soli con la potenza del sacro che le forze della sola ragione e ancor meno della razionalità tecnica sono in grado di contenere. Di qui il ricorso sempre più massiccio ai rimedi farmacologici, perché del sacro, che per quanto rimosso comunque ci abita, abbiamo perso non solo l'origine, ma anche la traccia.