Corriere21.10.17
«Così entro nella testa di Hitler e Mussolini»
Sokurov pronto a girare un film sull’incontro tra i due dittatori: voglio svelare i segreti dei loro caratteri
di Giuseppina Manin
Cosa
pensava Mussolini quando si incontrò per la prima volta con Hitler a
Venezia? E il Führer, fisicamente complessato, che sensazioni provò di
fronte a quel Benito macho e muscoloso, così diverso da lui? E Churchill
e Stalin, quanto si detestavano in segreto? «A guardare a fondo in
quegli animi, la storia forse svelerebbe altre ragioni insospettabili»
suggerisce Alexandr Sokurov, Leone d’oro a Venezia per un Faust
visionario, grande esploratore del secolo breve e dei suoi tragici eroi,
da Hitler ( Moloch ) a Lenin ( Taurus ) a Hirohito ( Il Sole ).
Un’indagine
sul potere e le sue anime morte che il regista siberiano ora porta
avanti in Italia con un nuovo film, scritto con la sua collaboratrice di
sempre, Alena Shumakova, coprodotto tra Russia e Italia, partner Rai
Cinema, l’Istituto Luce e Avventurosa.
La risata tra le lacrime
(titolo non definitivo) è un nuovo passo nell’orrore del Novecento, che
vedrà Mussolini a confronto con altre tre figure cardine, Stalin,
Hitler, Churchill. «Mi sono spesso chiesto quanto le loro decisioni,
così fatali nella Seconda guerra mondiale, fossero dettate dal loro
carattere. La mia ambizione è entrare nella “cucina dei tiranni”, capire
cosa pensavano, cosa mangiavano, cosa preparavano. Per farlo devo
penetrare le loro menti, dar voce ai pensieri più intimi, paure,
desideri nascosti».
Impresa temeraria, i morti non parlano più.
«Eppure il cinema può farli rivivere. Le loro immagini, le loro voci,
sono ancora tra noi. Imprigionate in pellicole pronte a svelare segreti
inconfessati e inconfessabili». La grande ricerca di Sokurov è così
negli archivi del cinema. Di Mosca e Pietroburgo, della Cineteca del
Friuli, del cinema amatoriale Home Movies, della Resistenza, della
Fondazione Ansaldo. «E naturalmente del Luce, fondato dallo stesso
Mussolini. Dove il Duce compare in un’infinità di materiali. Anche
inediti, dove è colto in situazioni private, di solitudine, di svago, in
vacanza, in famiglia. E così anche per gli altri protagonisti. Ciascuno
reciterà se stesso, le loro voci fuori campo permetteranno di sentire
il loro mondo interiore, i cambiamenti d’umore, i deliri di grandezza».
L’incontro
tra Hitler e Mussolini a Venezia è emblematico: il Führer esangue nel
goffo impermeabile e cappello floscio guarda con ammirazione il Duce
muscoloso, in calzoni alla zuava, fez e stivaloni. «Tanto Benito appare
disinvolto e sicuro di sé, tanto Adolf smorto e privo di carisma. Si può
immaginare la sua invidia per quell’incantatore di serpenti che era
Mussolini». Una seduzione di cui Sokurov si chiede le ragioni. «Perché è
diventato leader? Chi era quell’uomo venuto dal nulla capace di sedurre
folle povere e semianalfabete? Non era il diavolo. Piuttosto un attore,
capace di mettere in scena lo spirito del suo popolo come nessun altro
dittatore. Una figura interessante, ambigua, contraddittoria».
Per
studiarla Sokurov ha lavorato sui gesti, sul volto del Duce, dilatando
le immagini, isolando particolari. «Ma per entrare nella sua testa ho
usato anzitutto la voce, ampliandone le frequenze fino a incontrare
inquietanti aree acustiche. Lo spettro della sua voce è stato il luogo
d’accesso al cervello di un intero popolo».
Il film nascerà così.
«Senza girare una sequenza, utilizzando esclusivamente suoni e immagini
di repertorio, da trasformare con effetti digitali in racconto di
finzione. Per smascherare la sacralità dei “mostri della storia” e
rivelarne la loro natura umana, ragione e causa di ogni tragedia ».
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 21 ottobre 2017
Corriere 21.10.17
Leader globale? Xi
Il suo «Pensiero» (dal liberismo all’ambiente) apre una nuova era in Cina. E, in assenza di altri capi autorevoli, vuole dare indicazioni anche al resto del mondo
dal corrispondente a Pechino Guido Santevecchi
Un leader imperiale per un Paese di oltre 1,3 miliardi di anime attraversato da grandi differenze culturali e sociali, da tenere insieme con mano forte? O anche uno statista globale con molte risposte per le incertezze del mondo? Xi Jinping è al potere dal 2012 in Cina e il Congresso del Partito comunista sta decidendo (in realtà tutto è già stato stabilito da tempo in segreto) se sia il caso di iscrivere nella sua Costituzione «Il Pensiero di Xi». Dovrebbe essere uno dei due risultati incerti del conclave che si concluderà mercoledì, insieme con la lista dei nuovi membri del Politburo.
Ma la parola «si xiang», pensiero, associata al nome di Xi, viene ripetuta incessantemente in queste ore dai mandarini comunisti. L’ha lanciata anche l’agenzia Xinhua aggiungendo che si tratta di 14 principi fondamentali da mettere in pratica per adattare il marxismo alle esigenze cinesi ed entrare nella «nuova era». Comunque vada, lo «xiismo» è nato, dopo il maoismo, e in Cina non può essere messo in discussione.
Un segnale chiaro è venuto da una dichiarazione al Congresso di Liu Shiyu, capo della Commissione sulla sorveglianza della Borsa: «Xi Jinping ha salvato il Partito e lo Stato sventando un colpo di palazzo» da parte di alti dirigenti. «Hanno complottato per usurpare la leadership del Partito e prendere il controllo dello Stato», ha spiegato Liu e ha aggiunto il nome di uno dei colpevoli: Sun Zhengcai, fino a questa estate capo di Chongqing, megalopoli da 33 milioni di abitanti. Sun a 54 anni era in corsa per un posto nel Comitato permanente del Politburo ed era abbastanza giovane per poter sperare nella suprema promozione al posto di Xi, nel 2022. Invece è caduto ed è finito in carcere. Finora si era parlato delle solite «serie violazioni disciplinari» (sinonimo di corruzione e ruberie). La nuova accusa di usurpazione del potere sancisce che solo Xi può reclamarlo. Nonostante la forza del segretario generale e presidente della Repubblica, nonostante il suo indubbio carisma, la sua spietata campagna anticorruzione che ha decimato letteralmente il Comitato centrale, qualche ombra dunque rimane a Zhongnanhai, l’ex giardino imperiale dove ora risiedono i massimi dirigenti.
Ombre, ma al momento Xi è il nuovo imperatore cinese. La Repubblica popolare è entrata nella sua terza fase, dopo il trentennio di Mao Zedong che riscattò il Paese fondando lo Stato comunista, dopo Deng Xiaoping che soccorse l’economia, è il momento di Xi che ci fa sapere di aver salvato il Partito, anche con le purghe di corrotti che delegittimavano il sistema (e lo insidiavano personalmente). Xi, che ha tracciato progetti fino al 2050, ha nelle mani una Cina diventata grande potenza economica e reclama un ruolo di guida mondiale. Gli manca solo il titolo di statista globale.
E anche per questo obiettivo ha una strategia e una chiara visione sul futuro delle relazioni internazionali. È aiutato dalla confusione della presidenza Trump, che minaccia protezionismo commerciale, soluzioni militari con Iran e Nord Corea, non crede negli Accordi di Parigi sul contrasto al riscaldamento terrestre. E anche dai leader europei costretti a discutere di Brexit dura o morbida e immigrazione clandestina.
Quando parla di relazioni internazionali Xi dà il meglio di sé, in termini di concretezza. Ha proposto le Nuove vie della seta contro il protezionismo; nel discorso fiume al Congresso ha detto che «ogni danno all’ambiente perseguiterà l’umanità nel futuro»; ha offerto di costruire una «comunità del destino condiviso» che promette di perseguire l’interesse nazionale tenendo in conto le ragionevoli aspirazioni e preoccupazioni degli altri Paesi.
Restano i dubbi: la Cina può essere decisiva per disinnescare la minaccia nordcoreana, ma per decenni l’ha protetta e coltivata come arma di ricatto verso Usa, Sud Corea e Giappone. Sulle Vie della seta può sfogare il suo eccesso di capacità produttiva. Impone alle imprese occidentali di condividere (cedere) la loro alta tecnologia per poter entrare nel suo mercato. Ha costruito e fortificato isole artificiali nel Mar cinese meridionale. Vuole proteggere l’ambiente, ma intanto i suoi cieli sono coperti da uno smog irrespirabile per la maggior parte dell’anno.
Xi parla di un «Sogno cinese» per il proprio Paese e per il mondo. Al momento è in vantaggio, per mancanza di concorrenti. Ma per i cinesi che non lo seguono il sogno è l’incubo della repressione, come ci ha ricordato la morte terribile del Nobel Liu Xiaobo, tenuto sotto sorveglianza da malato terminale. Intanto, chi volesse farsi un’idea del Pensiero di Xi, può leggere il suo libro «Governare la Cina», stampato in 6,5 milioni di copie, appena tradotto anche in italiano e albanese. Perché Xi guarda al mondo intero.
Leader globale? Xi
Il suo «Pensiero» (dal liberismo all’ambiente) apre una nuova era in Cina. E, in assenza di altri capi autorevoli, vuole dare indicazioni anche al resto del mondo
dal corrispondente a Pechino Guido Santevecchi
Un leader imperiale per un Paese di oltre 1,3 miliardi di anime attraversato da grandi differenze culturali e sociali, da tenere insieme con mano forte? O anche uno statista globale con molte risposte per le incertezze del mondo? Xi Jinping è al potere dal 2012 in Cina e il Congresso del Partito comunista sta decidendo (in realtà tutto è già stato stabilito da tempo in segreto) se sia il caso di iscrivere nella sua Costituzione «Il Pensiero di Xi». Dovrebbe essere uno dei due risultati incerti del conclave che si concluderà mercoledì, insieme con la lista dei nuovi membri del Politburo.
Ma la parola «si xiang», pensiero, associata al nome di Xi, viene ripetuta incessantemente in queste ore dai mandarini comunisti. L’ha lanciata anche l’agenzia Xinhua aggiungendo che si tratta di 14 principi fondamentali da mettere in pratica per adattare il marxismo alle esigenze cinesi ed entrare nella «nuova era». Comunque vada, lo «xiismo» è nato, dopo il maoismo, e in Cina non può essere messo in discussione.
Un segnale chiaro è venuto da una dichiarazione al Congresso di Liu Shiyu, capo della Commissione sulla sorveglianza della Borsa: «Xi Jinping ha salvato il Partito e lo Stato sventando un colpo di palazzo» da parte di alti dirigenti. «Hanno complottato per usurpare la leadership del Partito e prendere il controllo dello Stato», ha spiegato Liu e ha aggiunto il nome di uno dei colpevoli: Sun Zhengcai, fino a questa estate capo di Chongqing, megalopoli da 33 milioni di abitanti. Sun a 54 anni era in corsa per un posto nel Comitato permanente del Politburo ed era abbastanza giovane per poter sperare nella suprema promozione al posto di Xi, nel 2022. Invece è caduto ed è finito in carcere. Finora si era parlato delle solite «serie violazioni disciplinari» (sinonimo di corruzione e ruberie). La nuova accusa di usurpazione del potere sancisce che solo Xi può reclamarlo. Nonostante la forza del segretario generale e presidente della Repubblica, nonostante il suo indubbio carisma, la sua spietata campagna anticorruzione che ha decimato letteralmente il Comitato centrale, qualche ombra dunque rimane a Zhongnanhai, l’ex giardino imperiale dove ora risiedono i massimi dirigenti.
Ombre, ma al momento Xi è il nuovo imperatore cinese. La Repubblica popolare è entrata nella sua terza fase, dopo il trentennio di Mao Zedong che riscattò il Paese fondando lo Stato comunista, dopo Deng Xiaoping che soccorse l’economia, è il momento di Xi che ci fa sapere di aver salvato il Partito, anche con le purghe di corrotti che delegittimavano il sistema (e lo insidiavano personalmente). Xi, che ha tracciato progetti fino al 2050, ha nelle mani una Cina diventata grande potenza economica e reclama un ruolo di guida mondiale. Gli manca solo il titolo di statista globale.
E anche per questo obiettivo ha una strategia e una chiara visione sul futuro delle relazioni internazionali. È aiutato dalla confusione della presidenza Trump, che minaccia protezionismo commerciale, soluzioni militari con Iran e Nord Corea, non crede negli Accordi di Parigi sul contrasto al riscaldamento terrestre. E anche dai leader europei costretti a discutere di Brexit dura o morbida e immigrazione clandestina.
Quando parla di relazioni internazionali Xi dà il meglio di sé, in termini di concretezza. Ha proposto le Nuove vie della seta contro il protezionismo; nel discorso fiume al Congresso ha detto che «ogni danno all’ambiente perseguiterà l’umanità nel futuro»; ha offerto di costruire una «comunità del destino condiviso» che promette di perseguire l’interesse nazionale tenendo in conto le ragionevoli aspirazioni e preoccupazioni degli altri Paesi.
Restano i dubbi: la Cina può essere decisiva per disinnescare la minaccia nordcoreana, ma per decenni l’ha protetta e coltivata come arma di ricatto verso Usa, Sud Corea e Giappone. Sulle Vie della seta può sfogare il suo eccesso di capacità produttiva. Impone alle imprese occidentali di condividere (cedere) la loro alta tecnologia per poter entrare nel suo mercato. Ha costruito e fortificato isole artificiali nel Mar cinese meridionale. Vuole proteggere l’ambiente, ma intanto i suoi cieli sono coperti da uno smog irrespirabile per la maggior parte dell’anno.
Xi parla di un «Sogno cinese» per il proprio Paese e per il mondo. Al momento è in vantaggio, per mancanza di concorrenti. Ma per i cinesi che non lo seguono il sogno è l’incubo della repressione, come ci ha ricordato la morte terribile del Nobel Liu Xiaobo, tenuto sotto sorveglianza da malato terminale. Intanto, chi volesse farsi un’idea del Pensiero di Xi, può leggere il suo libro «Governare la Cina», stampato in 6,5 milioni di copie, appena tradotto anche in italiano e albanese. Perché Xi guarda al mondo intero.
Repubblica 21.10.17
L’intervista. Parla il ministro dell’interno tedesco, Thomas De Maizière
“La situazione nei campi libici non è accettabile Sosteniamo l’Italia e la Spagna contro i trafficanti”
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO. La situazione nei campi profughi in Libia «non è accettabile». A denunciare l’«improponibile » situazione dei rifugiati nel Paese di Serraj è il ministro dell’Interno tedesco, Thomas De Maizière. In quest’intervista esclusiva con Repubblica in occasione del G7 in Italia sulla Cybersicurezza, il politico cristianodemocratico esplicita l’appoggio della Germania ai Paesi affacciati sul Mediterraneo come Italia e Spagna. Mentre sulla lotta al terrorismo islamico, De Maizière si dice convinto che serva una maggiore convergenza dei Paesi europei sullo scambio di informazioni e avvisa che i recenti successi militari contro l’Isis non ci debbano illudere: «L’Europa era, è e sarà nel mirino del terrorismo islamico ». Infine, sulle recenti elezioni austriache e i timori che il nuovo governo Kurz possa aggiungersi ai ‘signori no’ del Quartetto di Visegrad, il ministro taglia corto: «L’Austria resterà europeista ».
De Maizière, come giudica la situazione nei campi profughi libici?
«Dal punto di vista umanitario la situazione nei campi profughi libici non è accettabile. Secondo quanto ci viene riferito, le condizioni continuano a essere improponibili. È importante che finalmente Unhcr e Iom abbiano accesso a tutti i campi profughi. La cancelliera Merkel ha deciso che la Germania da sola metterà subito a disposizione 50 milioni di euro per l’assistenza ai profughi nei campi. In tal modo sono possibili notevoli miglioramenti delle condizioni nei centri profughi».
Che cosa propone per migliorare la situazione nel Mediterraneo? I migranti continuano a cercare nuove rotte.
«Appoggiamo i Paesi affacciati sul Mediterraneo, l’Italia e in futuro probabilmente in misura maggiore anche la Spagna, e puntiamo alla lotta contro le cause che inducono i profughi a lasciare i loro Paesi di origine e a una migliore cooperazione con gli Stati di transito. Insieme dobbiamo distruggere il modello di business dei trafficanti, rafforzare la guardia costiera libica ed effettuare i rimpatri nei Paesi di origine dai campi profughi in Libia».
Un Paese con cui l’Italia si è scontrata sui profughi e sui controlli al Brennero come l’Austria ha votato. E si è spostato a destra. Teme che il nuovo governo Kurz possa aggiungersi ai ‘signori no’ sui profughi, al Quartetto di Visegrad?
«L’Austria ha votato e ora, come del resto anche in Germania, si sta formando un governo. Bisogna attenderne la formazione. Quello che conta non è la direzione, ma la sostanza. L’Austria resterà europeista».
Alla luce degli attentati islamici degli ultimi anni non pensa che servirebbe un’accelerazione sulla maggiore convergenza dell’Europa sulla sicurezza?
«Ci stiamo impegnando in questo senso. Gli Stati dell’Ue collaborano già strettamente nel campo della sicurezza e della lotta al terrorismo. Negli ultimi due anni abbiamo fatto più progressi che in molti anni precedenti. Dobbiamo procedere su questa strada. Uno dei grandi compiti da affrontare nel prossimo futuro è l’ulteriore miglioramento dello scambio di informazioni. Questo è uno dei punti fondamentali».
Pensa che sia ancora grande il pericolo di attentati in Europa?
«L’Europa era, è e sarà anche in futuro nel mirino del terrorismo islamico. Siamo un’area geografica esposta a pericoli e ciò sottolinea l’importanza di formulare risposte comuni. In passato abbiamo visto che un attentato può essere compiuto in qualsiasi momento. Pur non accettando questa situazione, purtroppo dobbiamo conviverci ».
L’intervista. Parla il ministro dell’interno tedesco, Thomas De Maizière
“La situazione nei campi libici non è accettabile Sosteniamo l’Italia e la Spagna contro i trafficanti”
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO. La situazione nei campi profughi in Libia «non è accettabile». A denunciare l’«improponibile » situazione dei rifugiati nel Paese di Serraj è il ministro dell’Interno tedesco, Thomas De Maizière. In quest’intervista esclusiva con Repubblica in occasione del G7 in Italia sulla Cybersicurezza, il politico cristianodemocratico esplicita l’appoggio della Germania ai Paesi affacciati sul Mediterraneo come Italia e Spagna. Mentre sulla lotta al terrorismo islamico, De Maizière si dice convinto che serva una maggiore convergenza dei Paesi europei sullo scambio di informazioni e avvisa che i recenti successi militari contro l’Isis non ci debbano illudere: «L’Europa era, è e sarà nel mirino del terrorismo islamico ». Infine, sulle recenti elezioni austriache e i timori che il nuovo governo Kurz possa aggiungersi ai ‘signori no’ del Quartetto di Visegrad, il ministro taglia corto: «L’Austria resterà europeista ».
De Maizière, come giudica la situazione nei campi profughi libici?
«Dal punto di vista umanitario la situazione nei campi profughi libici non è accettabile. Secondo quanto ci viene riferito, le condizioni continuano a essere improponibili. È importante che finalmente Unhcr e Iom abbiano accesso a tutti i campi profughi. La cancelliera Merkel ha deciso che la Germania da sola metterà subito a disposizione 50 milioni di euro per l’assistenza ai profughi nei campi. In tal modo sono possibili notevoli miglioramenti delle condizioni nei centri profughi».
Che cosa propone per migliorare la situazione nel Mediterraneo? I migranti continuano a cercare nuove rotte.
«Appoggiamo i Paesi affacciati sul Mediterraneo, l’Italia e in futuro probabilmente in misura maggiore anche la Spagna, e puntiamo alla lotta contro le cause che inducono i profughi a lasciare i loro Paesi di origine e a una migliore cooperazione con gli Stati di transito. Insieme dobbiamo distruggere il modello di business dei trafficanti, rafforzare la guardia costiera libica ed effettuare i rimpatri nei Paesi di origine dai campi profughi in Libia».
Un Paese con cui l’Italia si è scontrata sui profughi e sui controlli al Brennero come l’Austria ha votato. E si è spostato a destra. Teme che il nuovo governo Kurz possa aggiungersi ai ‘signori no’ sui profughi, al Quartetto di Visegrad?
«L’Austria ha votato e ora, come del resto anche in Germania, si sta formando un governo. Bisogna attenderne la formazione. Quello che conta non è la direzione, ma la sostanza. L’Austria resterà europeista».
Alla luce degli attentati islamici degli ultimi anni non pensa che servirebbe un’accelerazione sulla maggiore convergenza dell’Europa sulla sicurezza?
«Ci stiamo impegnando in questo senso. Gli Stati dell’Ue collaborano già strettamente nel campo della sicurezza e della lotta al terrorismo. Negli ultimi due anni abbiamo fatto più progressi che in molti anni precedenti. Dobbiamo procedere su questa strada. Uno dei grandi compiti da affrontare nel prossimo futuro è l’ulteriore miglioramento dello scambio di informazioni. Questo è uno dei punti fondamentali».
Pensa che sia ancora grande il pericolo di attentati in Europa?
«L’Europa era, è e sarà anche in futuro nel mirino del terrorismo islamico. Siamo un’area geografica esposta a pericoli e ciò sottolinea l’importanza di formulare risposte comuni. In passato abbiamo visto che un attentato può essere compiuto in qualsiasi momento. Pur non accettando questa situazione, purtroppo dobbiamo conviverci ».
Corriere 21.10.17
Nelle strade di Raqqa vincitori, mine e macerie Viaggio nella «capitale del Califfato», dalla piazza delle esecuzioni allo stadio-prigione: i graffiti dei torturati, il manuale dei carcerieri
dal nostro inviato a Raqqa Lorenzo Cremonesi
Gli spogliatoi dei calciatori trasformati in celle, la piccola palestra in camera di tortura con i ganci per le impiccagioni al soffitto, i gabinetti in pertugi per l’isolamento delle punizioni prolungate. Da tempo non giocavano più a pallone i guardiani dell’Isis: avevano riconvertito lo stadio di Raqqa nel carcere centrale del «Califfato», che per almeno tre anni ha rappresentato il cuore del sistema di controllo, minaccia e castigo sulla popolazione, ma anche, e negli ultimi tempi soprattutto, contro i suoi militanti che sempre più numerosi cercavano di disertare e scappare verso le linee curde.
«Attenti alle cariche inesplose. Ci sono bombe e trappole ovunque», avvisa il miliziano curdo che ci scorta. L’accesso è sotto le tribune. Ma gli scalini sono coperti di calcinacci, l’inferriata che separava il campo da calcio dal pubblico è in parte divelta, le barre di ferro trasformate in lance arrugginite. Le bombe perforanti Usa hanno fatto scempio della struttura. Poi sono arrivate le granate e la devastazione della battaglia che strada per strada, casa per casa, negli ultimi cinque mesi ha portato all’impressionante distruzione della capitale dell’Isis.
Tutto attorno, macerie e silenzio. Una città di oltre duecentomila abitanti totalmente abbandonata. Come il cuore di Mosul, i nuclei della piana di Niniveh, parte di Aleppo, oltre a Tikrit, Falluja, Tal Afar, Amerli e centinaia tra villaggi e cittadine delle regioni sunnite al confine tra Iraq e Siria. Ma Raqqa è di più. Molto di più. A Mosul la parte orientale è sempre rimasta abitata e già oggi, meno di quattro mesi dopo la sconfitta di Isis, la città in qualche modo vede la popolazione tornare. Al contrario Raqqa è vuota, spettrale, un nucleo urbano di rovine. Con i negozi sventrati: attraverso le saracinesche divelte si vede la mercanzia abbandonata. Accanto, gli scheletri anneriti delle automobili bruciate, l’olezzo del cibo avariato, vestiti per la strada, stracci impolverati a segnare fughe precipitose, masserizie dei bivacchi dei soldati, lattine vuote. E tanti cani randagi, nervosi, spaventati.
La cerimonia
I responsabili dell’enclave curda-siriana hanno voluto organizzare ieri proprio nello stadio la cerimonia per la dichiarazione della vittoria. Non è un caso. Qui sono avvenuti gli scontri più feroci negli ultimi giorni. L’Isis aveva utilizzato le sue massicce strutture di cemento per montare l’ultima disperata resistenza. I suoi sotterranei sono ottimi rifugi da cui partono dedali di tunnel che permettono ottime vie di fuga e il lancio di imboscate dietro le linee nemiche. Ovvio che i capi del gruppo abbiano avuto tutto il tempo per allestire il carcere.
All’entrata sottoterra si trovano le cucine, gli archivi, gli uffici. Sul muro è appeso un cartello con le regole per gli interrogatori. «Ordini per il trattamento dei prigionieri al loro arrivo», si legge. «Verifica sempre che le informazioni siano vere. Sequestra documenti, portafogli e cellulari. Prendete le carte Sim, controllate le memorie, le immagini. Prendete le loro identità e le loro foto, che siano chiare». Attenzione agli stranieri: «Se non parlano arabo occorre un bravo traduttore, scrivete tutto e archiviatelo».
Il motivo di tanta meticolosità è evidente scorrendo i ghirigori di scritte sui muri della dozzina di grandi celle che seguono. Le inferriate sono state aggiunte solo di recente. Chiaro che qui non stavano anche tanti militanti. «Tra i prigionieri c’erano soprattutto quelli che non rispettavano le regole della legge religiosa e ovviamente i sospettati di voler disertare», racconta Hassan Ghadi, 38 anni, che tra il giugno-luglio rimase in cella 36 giorni. È lui a mostrarci la lugubre «cella 48», dalla larghezza dell’antro dove erano costretti in piedi i condannati all’isolamento. Ci sono scritte in francese, russo, ceceno, azero, inglese, turco. Sono firmate tra i tanti da Huzeyer Azeri, Abu Salman al Franci (il francese), Abu Saeed al Britani. Uno di loro scrive in arabo: «L’uomo non può ottenere tutto ciò che vuole. È come il vento che contrasta le rotte delle navi». Un altro osserva: «I muri sono i confini dei prigionieri. Ma ora non è rimasto nulla dentro di me, se non le lacrime dei mei occhi».
Avanzando per il corridoio scuro, con il pavimento coperto di calcinacci, le celle si fanno più strette. «Nelle prime erano rinchiusi anche oltre cento prigionieri alla volta. Ma in quelle più avanti venivano portati quelli destinati alla tortura. Le loro grida si sentivano soprattutto di notte», racconta un combattente curdo che è stato a sua volta chiuso qui dentro nel 2016. Nei periodi di massimo affollamento si era giunti a oltre 2.000 detenuti. Lui ci mostra la stanza delle torture. Vi si trovano due attrezzi per il sollevamento pesi. Una volta le usavano gli atleti per allenarsi. L’Isis le aveva trasformate in macchine per spezzare gradualmente la schiena ai detenuti. Una tortura lenta e letale, che lasciava alla vittima tutto il tempo per soffrire prima di spirare.
Pazienza e gps
Un jihadista di origine inglese consiglia a chi lo legge di «avere pazienza, tanta pazienza, e confidare in Allah». Spiega che uno dei motivi per le punizioni è l’impiego errato della rete e l’accesso ai «siti sbagliati». Osserva: «Se mi leggi probabilmente sei stato scoperto a utilizzare il tuo cellulare tenendo aperta la localizzazione del gps. Non lo puoi fare. È vietato, non rivelare mai la nostra posizione. Ora devi solo avere fiducia nella clemenza del Profeta e pregare». Un altro appena sotto sullo stesso muro nota in arabo che però, «qui la verità e la giustizia sono state dimenticate». Segnale che, specie negli ultimi tempi, serpeggiavano malumore e pessimismo tra i militanti jihadisti di Raqqa?
«Certamente sì», rispondono i comandanti curdi. «La situazione per loro ha iniziato a mutare quando non sono riusciti a prendere Kobane nell’autunno 2014. Sino ad allora l’Isis aveva continuato a ricevere volontari e a conquistare territorio. Poi è cominciata la loro progressiva ritirata sino alla sconfitta finale odierna», dicono festeggiando nello stadio in un tripudio di canzoni marziali e sventolio di bandiere. Una verità confermata anche da Mohammad Abdallah, un sunnita 22enne di Raqqa che adesso scrive per un sito online locale e ha scelto di affiancarsi alla causa curda e di plaudire entusiasta all’intervento Usa. «Inizialmente la grande maggioranza della popolazione sunnita si è schierata con l’Isis. Nessuno criticava i loro metodi brutali, neppure le decapitazioni o le teste mozze infilate sulla palizzata in Piazza Inferno», racconta accompagnandoci nella piazza in un viale circondato di macerie a circa 300 metri dallo stadio. A suo dire la svolta fu nel gennaio 2015, quando crescevano le liste dei caduti sotto le bombe americane: «Con le sconfitte militari sono cresciute le imposizioni contro la libertà di movimento delle donne. Gli uomini hanno dovuto far crescere lunghe barbe e accorciare i baffi. Poi ci sono state le prime crocifissioni per i cosiddetti infedeli. E la gente ha preso le distanze». Parole che sintetizzano la sfida che attende i vincitori: riusciranno ad avviare il dialogo coi sunniti? Sapranno trasformare la vittoria in successo politico? A visitare i campi profughi attorno a Raqqa i dubbi emergono. In quello di Ain Issa, i giovani sunniti di Raqqa, ma anche della vicina Deir Azzor, affermano aggressivi che non accetteranno mai di essere governati da Bashar Assad. «Quello di Damasco è un regime criminale, che è sopravvissuto grazie all’aiuto di russi, sciiti e iraniani. Non ci sarà pace sino a quando prevarrà questo stato di cose». Una posizione diversa dai curdi siriani, che comunque sono bene attenti anche adesso ad evitare lo scontro frontale con il regime e parlano di «Siria unita, democratica e federale».
Familiari
Probabilmente la prova del nove per una coesistenza pacifica sarà il trattamento delle centinaia di famigliari dei 275 combattenti Isis locali che una settimana fa hanno accettato di arrendersi (ora in una prigione curda). Assiepati in tende di fortuna alla periferia di Ain Issa, sono controllati a vista dai militari. Nessuno può uscire dal campo , gli interrogatori sono serrati. «Sono tutti filo-Isis. Si nascondono terroristi tra loro», mettono in allerta le sentinelle. Come dopo ogni evento bellico con vittime e distruzioni il sospetto regna sovrano. La polvere soffocante che domina sulle rovine di Raqqa prenderà ancora tempo prima di dissiparsi.
Nelle strade di Raqqa vincitori, mine e macerie Viaggio nella «capitale del Califfato», dalla piazza delle esecuzioni allo stadio-prigione: i graffiti dei torturati, il manuale dei carcerieri
dal nostro inviato a Raqqa Lorenzo Cremonesi
Gli spogliatoi dei calciatori trasformati in celle, la piccola palestra in camera di tortura con i ganci per le impiccagioni al soffitto, i gabinetti in pertugi per l’isolamento delle punizioni prolungate. Da tempo non giocavano più a pallone i guardiani dell’Isis: avevano riconvertito lo stadio di Raqqa nel carcere centrale del «Califfato», che per almeno tre anni ha rappresentato il cuore del sistema di controllo, minaccia e castigo sulla popolazione, ma anche, e negli ultimi tempi soprattutto, contro i suoi militanti che sempre più numerosi cercavano di disertare e scappare verso le linee curde.
«Attenti alle cariche inesplose. Ci sono bombe e trappole ovunque», avvisa il miliziano curdo che ci scorta. L’accesso è sotto le tribune. Ma gli scalini sono coperti di calcinacci, l’inferriata che separava il campo da calcio dal pubblico è in parte divelta, le barre di ferro trasformate in lance arrugginite. Le bombe perforanti Usa hanno fatto scempio della struttura. Poi sono arrivate le granate e la devastazione della battaglia che strada per strada, casa per casa, negli ultimi cinque mesi ha portato all’impressionante distruzione della capitale dell’Isis.
Tutto attorno, macerie e silenzio. Una città di oltre duecentomila abitanti totalmente abbandonata. Come il cuore di Mosul, i nuclei della piana di Niniveh, parte di Aleppo, oltre a Tikrit, Falluja, Tal Afar, Amerli e centinaia tra villaggi e cittadine delle regioni sunnite al confine tra Iraq e Siria. Ma Raqqa è di più. Molto di più. A Mosul la parte orientale è sempre rimasta abitata e già oggi, meno di quattro mesi dopo la sconfitta di Isis, la città in qualche modo vede la popolazione tornare. Al contrario Raqqa è vuota, spettrale, un nucleo urbano di rovine. Con i negozi sventrati: attraverso le saracinesche divelte si vede la mercanzia abbandonata. Accanto, gli scheletri anneriti delle automobili bruciate, l’olezzo del cibo avariato, vestiti per la strada, stracci impolverati a segnare fughe precipitose, masserizie dei bivacchi dei soldati, lattine vuote. E tanti cani randagi, nervosi, spaventati.
La cerimonia
I responsabili dell’enclave curda-siriana hanno voluto organizzare ieri proprio nello stadio la cerimonia per la dichiarazione della vittoria. Non è un caso. Qui sono avvenuti gli scontri più feroci negli ultimi giorni. L’Isis aveva utilizzato le sue massicce strutture di cemento per montare l’ultima disperata resistenza. I suoi sotterranei sono ottimi rifugi da cui partono dedali di tunnel che permettono ottime vie di fuga e il lancio di imboscate dietro le linee nemiche. Ovvio che i capi del gruppo abbiano avuto tutto il tempo per allestire il carcere.
All’entrata sottoterra si trovano le cucine, gli archivi, gli uffici. Sul muro è appeso un cartello con le regole per gli interrogatori. «Ordini per il trattamento dei prigionieri al loro arrivo», si legge. «Verifica sempre che le informazioni siano vere. Sequestra documenti, portafogli e cellulari. Prendete le carte Sim, controllate le memorie, le immagini. Prendete le loro identità e le loro foto, che siano chiare». Attenzione agli stranieri: «Se non parlano arabo occorre un bravo traduttore, scrivete tutto e archiviatelo».
Il motivo di tanta meticolosità è evidente scorrendo i ghirigori di scritte sui muri della dozzina di grandi celle che seguono. Le inferriate sono state aggiunte solo di recente. Chiaro che qui non stavano anche tanti militanti. «Tra i prigionieri c’erano soprattutto quelli che non rispettavano le regole della legge religiosa e ovviamente i sospettati di voler disertare», racconta Hassan Ghadi, 38 anni, che tra il giugno-luglio rimase in cella 36 giorni. È lui a mostrarci la lugubre «cella 48», dalla larghezza dell’antro dove erano costretti in piedi i condannati all’isolamento. Ci sono scritte in francese, russo, ceceno, azero, inglese, turco. Sono firmate tra i tanti da Huzeyer Azeri, Abu Salman al Franci (il francese), Abu Saeed al Britani. Uno di loro scrive in arabo: «L’uomo non può ottenere tutto ciò che vuole. È come il vento che contrasta le rotte delle navi». Un altro osserva: «I muri sono i confini dei prigionieri. Ma ora non è rimasto nulla dentro di me, se non le lacrime dei mei occhi».
Avanzando per il corridoio scuro, con il pavimento coperto di calcinacci, le celle si fanno più strette. «Nelle prime erano rinchiusi anche oltre cento prigionieri alla volta. Ma in quelle più avanti venivano portati quelli destinati alla tortura. Le loro grida si sentivano soprattutto di notte», racconta un combattente curdo che è stato a sua volta chiuso qui dentro nel 2016. Nei periodi di massimo affollamento si era giunti a oltre 2.000 detenuti. Lui ci mostra la stanza delle torture. Vi si trovano due attrezzi per il sollevamento pesi. Una volta le usavano gli atleti per allenarsi. L’Isis le aveva trasformate in macchine per spezzare gradualmente la schiena ai detenuti. Una tortura lenta e letale, che lasciava alla vittima tutto il tempo per soffrire prima di spirare.
Pazienza e gps
Un jihadista di origine inglese consiglia a chi lo legge di «avere pazienza, tanta pazienza, e confidare in Allah». Spiega che uno dei motivi per le punizioni è l’impiego errato della rete e l’accesso ai «siti sbagliati». Osserva: «Se mi leggi probabilmente sei stato scoperto a utilizzare il tuo cellulare tenendo aperta la localizzazione del gps. Non lo puoi fare. È vietato, non rivelare mai la nostra posizione. Ora devi solo avere fiducia nella clemenza del Profeta e pregare». Un altro appena sotto sullo stesso muro nota in arabo che però, «qui la verità e la giustizia sono state dimenticate». Segnale che, specie negli ultimi tempi, serpeggiavano malumore e pessimismo tra i militanti jihadisti di Raqqa?
«Certamente sì», rispondono i comandanti curdi. «La situazione per loro ha iniziato a mutare quando non sono riusciti a prendere Kobane nell’autunno 2014. Sino ad allora l’Isis aveva continuato a ricevere volontari e a conquistare territorio. Poi è cominciata la loro progressiva ritirata sino alla sconfitta finale odierna», dicono festeggiando nello stadio in un tripudio di canzoni marziali e sventolio di bandiere. Una verità confermata anche da Mohammad Abdallah, un sunnita 22enne di Raqqa che adesso scrive per un sito online locale e ha scelto di affiancarsi alla causa curda e di plaudire entusiasta all’intervento Usa. «Inizialmente la grande maggioranza della popolazione sunnita si è schierata con l’Isis. Nessuno criticava i loro metodi brutali, neppure le decapitazioni o le teste mozze infilate sulla palizzata in Piazza Inferno», racconta accompagnandoci nella piazza in un viale circondato di macerie a circa 300 metri dallo stadio. A suo dire la svolta fu nel gennaio 2015, quando crescevano le liste dei caduti sotto le bombe americane: «Con le sconfitte militari sono cresciute le imposizioni contro la libertà di movimento delle donne. Gli uomini hanno dovuto far crescere lunghe barbe e accorciare i baffi. Poi ci sono state le prime crocifissioni per i cosiddetti infedeli. E la gente ha preso le distanze». Parole che sintetizzano la sfida che attende i vincitori: riusciranno ad avviare il dialogo coi sunniti? Sapranno trasformare la vittoria in successo politico? A visitare i campi profughi attorno a Raqqa i dubbi emergono. In quello di Ain Issa, i giovani sunniti di Raqqa, ma anche della vicina Deir Azzor, affermano aggressivi che non accetteranno mai di essere governati da Bashar Assad. «Quello di Damasco è un regime criminale, che è sopravvissuto grazie all’aiuto di russi, sciiti e iraniani. Non ci sarà pace sino a quando prevarrà questo stato di cose». Una posizione diversa dai curdi siriani, che comunque sono bene attenti anche adesso ad evitare lo scontro frontale con il regime e parlano di «Siria unita, democratica e federale».
Familiari
Probabilmente la prova del nove per una coesistenza pacifica sarà il trattamento delle centinaia di famigliari dei 275 combattenti Isis locali che una settimana fa hanno accettato di arrendersi (ora in una prigione curda). Assiepati in tende di fortuna alla periferia di Ain Issa, sono controllati a vista dai militari. Nessuno può uscire dal campo , gli interrogatori sono serrati. «Sono tutti filo-Isis. Si nascondono terroristi tra loro», mettono in allerta le sentinelle. Come dopo ogni evento bellico con vittime e distruzioni il sospetto regna sovrano. La polvere soffocante che domina sulle rovine di Raqqa prenderà ancora tempo prima di dissiparsi.
Corriere 21.10.17
L’Italia longeva che cerca lavoro e fa meno figli
di Milena Gabanelli
L’Istat ha fatto un lavorone: ha analizzato l’Italia e l’Europa durante i 60 anni di matrimonio. Il confronto è esteso anche all’Ue a 28, ma qui ci guardiamo allo specchio fra i sei Paesi fondatori, quelli che nel ’57 diedero vita alla Cee firmando il Trattato di Roma. All’epoca Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo erano più o meno nella stessa barca.
Da allora la struttura produttiva è cambiata profondamente, ma almeno fino al 2008, le economie di questi Paesi sono andate convergendo, il potere d’acquisto procapite ha avuto una crescita impetuosa, e noi abbiamo anche beneficiato delle solidità delle economie più forti, specie quelle tedesche.
L’export
Poi la crisi ci ha trascinato al crollo della domanda interna, al blocco degli stipendi e all’arresto de consumi, a cui si aggiunge, nel 2011, il «rischio Paese». Le imprese più dinamiche, dalla manifatturiera alla meccatronica, si sono orientate verso i mercati esteri, e dal 2012 l’export ci sta salvando. Una ripresa faticosa e ancora lontana dai «soci» europei, che nel rapporto debito-pil stanno a quota 90, mentre noi siamo a 132,6.
La ricerca
Eravamo in coda negli investimenti in ricerca e sviluppo negli anni 60, e lo siamo ancora oggi: 1,3% del pil contro il 2,3%. Gli altri Paesi fondatori hanno da sempre, più o meno, investito il doppio di noi. Il dato curioso è che abbiamo un numero di dipendenti occupati nella ricerca non lontano dalla media europea: 1,12% rispetto all’1,42%.
Il tasso di disoccupazione a 2 cifre ce lo trasciniamo dalla metà degli anni 80. C’è stato un bel recupero con il passaggio all’euro, ma dal 2012 siamo tornati a numeri preoccupanti: 11,9% contro una media del 7,5%. L’Italia è in ritardo in generale sul lavoro: il numero di persone in attività è sempre stato più basso, nel 1960 lo scarto era del 5% , oggi supera il 12%. In Italia lavora il 57% della popolazione contro il 69% della media europea. Una differenza dovuta al fatto che le donne lavorano meno. Negli anni 60 erano più occupate in agricoltura, negli anni 80 si è recuperato terreno, (forse un riflesso del femminismo), per poi precipitare, ed allontanarsi sempre di più dalla media europea.
Il gap nei salari
Le donne italiane guadagnano il 5% meno degli uomini, ma la distanza rispetto all’Ue è minore. In Germania nel 2015 hanno guadagnato mediamente il 22% in meno rispetto ai loro colleghi maschi.
Siamo invece il Paese con il più alto numero di automobili: 61 ogni 100 abitanti, contro i 54 dell’Europa a 6. C’è un perché: non siamo messi bene con il trasporto pubblico.
Come in guerra
Altro dato preoccupante: tutti gli europei sono poco prolifici, però noi siamo a livelli molto bassi a partire dalla metà degli anni 60. Il dato allarmante è che negli ultimi 2 anni la popolazione italiana sta diminuendo. Di solito succede durante la guerra. Una conseguenza anche attribuibile al fatto che si sposta sempre più in là nel tempo il ciclo di vita (prima finisco di studiare, poi mi cerco un lavoro, quindi metto su famiglia e faccio figli). Oggi le donne arrivano sempre più spesso a fare il primo figlio al limite del tempo massimo. L’età media è di 32 anni contro il 30,9 dei paesi fondatori.
I laureati
L’Istat registra che le donne italiane si laureano di più rispetto al resto d’Europa, però il dato complessivo dei laureati ci vede all’ultimo posto con un 26,2%. Quindi meno laureati, ma anche meno capaci di utilizzare le nozioni imparate a scuola, perché l’università non indirizza all’applicazione concreta. La ricaduta è una minore competenza rispetto a francesi o tedeschi.
Un dato positivo: siamo passati da Paese con la più alta mortalità infantile entro il primo anno di vita, a quella più bassa: 2,8 per mille contro il 3,4. Altra notizia fantastica, siamo il Paese più longevo d’Europa e il secondo al mondo. Questo grazie alla qualità del nostro sistema sanitario, dell’attività di prevenzione e uno stile di vita più sano.
Un Paese di anziani
Il rovescio della medaglia è che stiamo diventando un Paese di anziani; noi che alla fine degli anni 50 eravamo tra i Paesi più giovani, con metà della popolazione poco più che trentenne, oggi supera i 45. Ma anche il resto d’Europa è brizzolato, e questo sarà un problema, perché bisogna produrre ogni anno un Pil che garantisca le condizioni di vita a cui ci siamo abituati.
Se le teste che lavorano sono poche, il Pil complessivo resta basso. Sarà complicato uscirne se non si rivedono le politiche della famiglia, e in modo strutturato quelle migratorie, perché dall’altra parte abbiamo la Cina: un colosso di un miliardo e mezzo di persone.
Solo un’Europa integrata (così detestata dai movimenti populisti) permette di affrontare i problemi che la dimensione di uno stato nazionale non potrebbe mai risolvere da solo.
L’Italia longeva che cerca lavoro e fa meno figli
di Milena Gabanelli
L’Istat ha fatto un lavorone: ha analizzato l’Italia e l’Europa durante i 60 anni di matrimonio. Il confronto è esteso anche all’Ue a 28, ma qui ci guardiamo allo specchio fra i sei Paesi fondatori, quelli che nel ’57 diedero vita alla Cee firmando il Trattato di Roma. All’epoca Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo erano più o meno nella stessa barca.
Da allora la struttura produttiva è cambiata profondamente, ma almeno fino al 2008, le economie di questi Paesi sono andate convergendo, il potere d’acquisto procapite ha avuto una crescita impetuosa, e noi abbiamo anche beneficiato delle solidità delle economie più forti, specie quelle tedesche.
L’export
Poi la crisi ci ha trascinato al crollo della domanda interna, al blocco degli stipendi e all’arresto de consumi, a cui si aggiunge, nel 2011, il «rischio Paese». Le imprese più dinamiche, dalla manifatturiera alla meccatronica, si sono orientate verso i mercati esteri, e dal 2012 l’export ci sta salvando. Una ripresa faticosa e ancora lontana dai «soci» europei, che nel rapporto debito-pil stanno a quota 90, mentre noi siamo a 132,6.
La ricerca
Eravamo in coda negli investimenti in ricerca e sviluppo negli anni 60, e lo siamo ancora oggi: 1,3% del pil contro il 2,3%. Gli altri Paesi fondatori hanno da sempre, più o meno, investito il doppio di noi. Il dato curioso è che abbiamo un numero di dipendenti occupati nella ricerca non lontano dalla media europea: 1,12% rispetto all’1,42%.
Il tasso di disoccupazione a 2 cifre ce lo trasciniamo dalla metà degli anni 80. C’è stato un bel recupero con il passaggio all’euro, ma dal 2012 siamo tornati a numeri preoccupanti: 11,9% contro una media del 7,5%. L’Italia è in ritardo in generale sul lavoro: il numero di persone in attività è sempre stato più basso, nel 1960 lo scarto era del 5% , oggi supera il 12%. In Italia lavora il 57% della popolazione contro il 69% della media europea. Una differenza dovuta al fatto che le donne lavorano meno. Negli anni 60 erano più occupate in agricoltura, negli anni 80 si è recuperato terreno, (forse un riflesso del femminismo), per poi precipitare, ed allontanarsi sempre di più dalla media europea.
Il gap nei salari
Le donne italiane guadagnano il 5% meno degli uomini, ma la distanza rispetto all’Ue è minore. In Germania nel 2015 hanno guadagnato mediamente il 22% in meno rispetto ai loro colleghi maschi.
Siamo invece il Paese con il più alto numero di automobili: 61 ogni 100 abitanti, contro i 54 dell’Europa a 6. C’è un perché: non siamo messi bene con il trasporto pubblico.
Come in guerra
Altro dato preoccupante: tutti gli europei sono poco prolifici, però noi siamo a livelli molto bassi a partire dalla metà degli anni 60. Il dato allarmante è che negli ultimi 2 anni la popolazione italiana sta diminuendo. Di solito succede durante la guerra. Una conseguenza anche attribuibile al fatto che si sposta sempre più in là nel tempo il ciclo di vita (prima finisco di studiare, poi mi cerco un lavoro, quindi metto su famiglia e faccio figli). Oggi le donne arrivano sempre più spesso a fare il primo figlio al limite del tempo massimo. L’età media è di 32 anni contro il 30,9 dei paesi fondatori.
I laureati
L’Istat registra che le donne italiane si laureano di più rispetto al resto d’Europa, però il dato complessivo dei laureati ci vede all’ultimo posto con un 26,2%. Quindi meno laureati, ma anche meno capaci di utilizzare le nozioni imparate a scuola, perché l’università non indirizza all’applicazione concreta. La ricaduta è una minore competenza rispetto a francesi o tedeschi.
Un dato positivo: siamo passati da Paese con la più alta mortalità infantile entro il primo anno di vita, a quella più bassa: 2,8 per mille contro il 3,4. Altra notizia fantastica, siamo il Paese più longevo d’Europa e il secondo al mondo. Questo grazie alla qualità del nostro sistema sanitario, dell’attività di prevenzione e uno stile di vita più sano.
Un Paese di anziani
Il rovescio della medaglia è che stiamo diventando un Paese di anziani; noi che alla fine degli anni 50 eravamo tra i Paesi più giovani, con metà della popolazione poco più che trentenne, oggi supera i 45. Ma anche il resto d’Europa è brizzolato, e questo sarà un problema, perché bisogna produrre ogni anno un Pil che garantisca le condizioni di vita a cui ci siamo abituati.
Se le teste che lavorano sono poche, il Pil complessivo resta basso. Sarà complicato uscirne se non si rivedono le politiche della famiglia, e in modo strutturato quelle migratorie, perché dall’altra parte abbiamo la Cina: un colosso di un miliardo e mezzo di persone.
Solo un’Europa integrata (così detestata dai movimenti populisti) permette di affrontare i problemi che la dimensione di uno stato nazionale non potrebbe mai risolvere da solo.
Il Fatto 21.10.17
“Le indagini a Siena su David Rossi, roba di un altro mondo”
L’ex procuratore capo di Firenze: “C’è stata tanta superficialità. Sono davvero sorpreso da tutte queste sviste”
di Davide Vecchi
Ascolta con attenzione l’elenco delle falle individuate nella prima inchiesta svolta sulla scomparsa di David Rossi, il manager di Mps e braccio destro di Giuseppe Mussari, trovato morto la sera del 6 marzo 2013. Una vicenda per ben due volte liquidata dalla Procura di Siena come suicidio, seppure in entrambe i decreti di archiviazione ci siano evidenti errori. Ascolta i dettagli. I sette fazzoletti sporchi di sangue distrutti da un magistrato senese, Aldo Natalini, senza prima analizzarli e ancora prima che la fase delle indagini si fosse conclusa. Dei telefonini di Rossi usati da qualcuno degli inquirenti entrati nell’ufficio del manager dopo la sua morte. Delle mancate acquisizioni di tabulati, video di sorveglianza. Ascolta tutto. Solo alla fine prende la parola: “Ho sentito cose strane”, francamente “mai sentite nella mia modesta esperienza”. Modesta è un eufemismo: 47 anni trascorsi in magistratura la maggior parte dei quali nella veste di procuratore capo di Firenze.
Ubaldo Nannucci, classe 1933, ha dedicato la vita alla giustizia. E di cadaveri, omicidi o presunti suicidi, ne ha visti fin troppi. Basti pensare che si è occupato da procuratore capo di tutti i duplici delitti del mostro di Firenze. Insomma: un’esperienza decisamente non modesta, la sua. Così, dopo aver assistito nel capoluogo toscano alla presentazione del libro Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto (edito da Chiarelettere), prende la parola per esprimere tutto il suo stupore. “Quando c’è una morte per causa sconosciuta si chiama la polizia scientifica, la quale fa una repertazione accurata di tutti gli elementi, viene steso un verbale, ogni elemento viene sigillato in una apposita busta, tutto l’insieme di questi elementi costituisce materiale essenziale per lo sviluppo dell’indagine. Sento dire, leggerò il libro e cercherò di capire”. Ieri il Fatto lo ha ricontattato.
Procuratore ha letto?
Sono un po’ sorpreso.
Da qualcosa in particolare? Da come sono state svolte le indagini in generale?
Effettivamente è un modo di procedere disinvolto, diciamo così.
Cominciamo dai reperti?
I fazzoletti col sangue che sono spariti, ad esempio, mi pare francamente un altro mondo.
Distrutti. Prima ancora che il gip disponesse l’archiviazione o un supplemento di indagini.
Sicuramente qualche superficialità c’è stata.
Gli inquirenti hanno risposto almeno a una telefonata dal cellulare di Rossi.
Non capisco, guardi. Solitamente la procedura è una. La polizia scientifica interviene e prima di tutto fa le foto dell’ambiente, reperta ogni oggetto e cerca le impronte. Tutto viene repertato e sequestrato, viene stilato un verbale e quel materiale viene trasmesso all’ufficio dei corpi di reato dove viene analizzato a seconda delle necessità dell’inchiesta.
E conservato?
Sono elementi indispensabili per le indagini.
Lei ha recentemente pubblicato un libro con Aracne editrice dal titolo Storia critica delle leggi di ordinamento giudiziario inerente proprio ai guai della giustizia.
Sì, nel testo suggerisco anche i possibili rimedi ma ai guai della giustizia, sullo svolgimento delle indagini, diciamo che il metodo è quello che ho enunciato poc’anzi.
Nelle carte di Siena ci sono anche degli errori evidenti. Nel secondo decreto di archiviazione, ad esempio, il gip scrive che un testimone è stato sentito e invece non è vero. A lei è capitato di trovarsi di fronte decreti con degli errori simili?
Mai. E mi sorprende, francamente è una svista notevole.
Il procuratore capo di Siena Salvatore Vitello, incalzato da Le Iene, non ha voluto rispondere nel merito dell’errore ma ha detto che se i familiari presenteranno istanza per riaprire il caso lui darà seguito.
Non l’hanno mai richiesto?
Almeno tre volte. Di cui uno alla Procura generale di Firenze che non ha avocato ma ha trasferito gli atti di nuovo a Siena. Inutilmente.
Beh, sicuramente i legali dovrebbero individuare e far emergere nuove risultanze, penso sia l’unica strada per far riaprire le indagini. Anche se…
Anche se?
Sono passati diversi anni.
I reperti sono stati distrutti, molti elementi non sono stati acquisiti, alcune persone mai individuate né sentite. Insomma: dopo ormai quattro anni e tutto questo è difficile?
Già.
“Le indagini a Siena su David Rossi, roba di un altro mondo”
L’ex procuratore capo di Firenze: “C’è stata tanta superficialità. Sono davvero sorpreso da tutte queste sviste”
di Davide Vecchi
Ascolta con attenzione l’elenco delle falle individuate nella prima inchiesta svolta sulla scomparsa di David Rossi, il manager di Mps e braccio destro di Giuseppe Mussari, trovato morto la sera del 6 marzo 2013. Una vicenda per ben due volte liquidata dalla Procura di Siena come suicidio, seppure in entrambe i decreti di archiviazione ci siano evidenti errori. Ascolta i dettagli. I sette fazzoletti sporchi di sangue distrutti da un magistrato senese, Aldo Natalini, senza prima analizzarli e ancora prima che la fase delle indagini si fosse conclusa. Dei telefonini di Rossi usati da qualcuno degli inquirenti entrati nell’ufficio del manager dopo la sua morte. Delle mancate acquisizioni di tabulati, video di sorveglianza. Ascolta tutto. Solo alla fine prende la parola: “Ho sentito cose strane”, francamente “mai sentite nella mia modesta esperienza”. Modesta è un eufemismo: 47 anni trascorsi in magistratura la maggior parte dei quali nella veste di procuratore capo di Firenze.
Ubaldo Nannucci, classe 1933, ha dedicato la vita alla giustizia. E di cadaveri, omicidi o presunti suicidi, ne ha visti fin troppi. Basti pensare che si è occupato da procuratore capo di tutti i duplici delitti del mostro di Firenze. Insomma: un’esperienza decisamente non modesta, la sua. Così, dopo aver assistito nel capoluogo toscano alla presentazione del libro Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto (edito da Chiarelettere), prende la parola per esprimere tutto il suo stupore. “Quando c’è una morte per causa sconosciuta si chiama la polizia scientifica, la quale fa una repertazione accurata di tutti gli elementi, viene steso un verbale, ogni elemento viene sigillato in una apposita busta, tutto l’insieme di questi elementi costituisce materiale essenziale per lo sviluppo dell’indagine. Sento dire, leggerò il libro e cercherò di capire”. Ieri il Fatto lo ha ricontattato.
Procuratore ha letto?
Sono un po’ sorpreso.
Da qualcosa in particolare? Da come sono state svolte le indagini in generale?
Effettivamente è un modo di procedere disinvolto, diciamo così.
Cominciamo dai reperti?
I fazzoletti col sangue che sono spariti, ad esempio, mi pare francamente un altro mondo.
Distrutti. Prima ancora che il gip disponesse l’archiviazione o un supplemento di indagini.
Sicuramente qualche superficialità c’è stata.
Gli inquirenti hanno risposto almeno a una telefonata dal cellulare di Rossi.
Non capisco, guardi. Solitamente la procedura è una. La polizia scientifica interviene e prima di tutto fa le foto dell’ambiente, reperta ogni oggetto e cerca le impronte. Tutto viene repertato e sequestrato, viene stilato un verbale e quel materiale viene trasmesso all’ufficio dei corpi di reato dove viene analizzato a seconda delle necessità dell’inchiesta.
E conservato?
Sono elementi indispensabili per le indagini.
Lei ha recentemente pubblicato un libro con Aracne editrice dal titolo Storia critica delle leggi di ordinamento giudiziario inerente proprio ai guai della giustizia.
Sì, nel testo suggerisco anche i possibili rimedi ma ai guai della giustizia, sullo svolgimento delle indagini, diciamo che il metodo è quello che ho enunciato poc’anzi.
Nelle carte di Siena ci sono anche degli errori evidenti. Nel secondo decreto di archiviazione, ad esempio, il gip scrive che un testimone è stato sentito e invece non è vero. A lei è capitato di trovarsi di fronte decreti con degli errori simili?
Mai. E mi sorprende, francamente è una svista notevole.
Il procuratore capo di Siena Salvatore Vitello, incalzato da Le Iene, non ha voluto rispondere nel merito dell’errore ma ha detto che se i familiari presenteranno istanza per riaprire il caso lui darà seguito.
Non l’hanno mai richiesto?
Almeno tre volte. Di cui uno alla Procura generale di Firenze che non ha avocato ma ha trasferito gli atti di nuovo a Siena. Inutilmente.
Beh, sicuramente i legali dovrebbero individuare e far emergere nuove risultanze, penso sia l’unica strada per far riaprire le indagini. Anche se…
Anche se?
Sono passati diversi anni.
I reperti sono stati distrutti, molti elementi non sono stati acquisiti, alcune persone mai individuate né sentite. Insomma: dopo ormai quattro anni e tutto questo è difficile?
Già.
il manifesto 21.10.17
Non solo Weinstein, come vincere la paura anche nel mondo scientifico
di Monica Zoppè
Si fa un gran parlare del caso Weinstein, che sta scuotendo il mondo del cinema, e (speriamo) non solo. E’ senz’altro molto positivo il fatto che il tema sia, per così dire, sdoganato.
Per adesso parlano solo alcune donne, le più forti, quelle che se lo possono permettere, che non sono ricattabili, né a rischio di perdere il lavoro o altro. Sarebbe naturalmente positivo se tutte potessero denunciare in sicurezza, ma più importante è che ne parlino gli uomini.
Personalmente non sono convinta che il meccanismo della punizione funzioni. Servirebbe una presa di coscienza e un cambio di mentalità.
Tra le possibili prede di questi uomini, ce ne sono che hanno saputo dire di no. Molte di queste hanno poi subito le conseguenze del loro rifiuto, in termini di avanzamento di carriera, di offese, quando non addirittura di mobbing o licenziamento.
Nel momento in cui un uomo di potere ti mette gli occhi addosso, tu hai già perso, comunque vada a finire.
Io penso che in una società civile ed evoluta nessuna persona dovrebbe poter esercitare un tale potere su un’altra, abusandone senza conseguenze. La prima cosa da fare in questi casi è di togliere a questi uomini gli strumenti per abusare del potere che hanno. La seconda è far capire perché la loro condotta è sbagliata ed inaccettabile, sperando che ci arrivino (sono spesso persone per molti versi capaci ed intelligenti).
Ma tornando alle donne che hanno subito senza accettare: come possono essere risarcite del danno? Qualcuno pagherà? E’ anche difficile dimostrare cose che non sono successe, il che rende la situazione ancora più complessa.
Anche qui, l’importante è che questi uomini siano rimossi dalla posizione di potere in cui (praticamente tutti) ancora si trovano. Forse ci vorranno anni, forse generazioni, ma noi continueremo a lavorare perché il futuro delle nostre figlie sia migliore del nostro, tanto quanto hanno fatto le nostre madri.
Il mondo del cinema non è l’unico in cui gli abusi di uomini di potere nei confronti di ragazze spesso, ma non necessariamente, giovani avvengono con regolarità. Nell’ambiente dello sport si iniziano a sentire alcune denunce, ed avviene anche nell’ambiente scientifico.
In questo caso, forse più che in altri, le denunce sono importanti, perché l’ambiente scientifico viene spesso percepito come un’isola felice, in cui tutte le persone (di supposta intelligenza e preparazione superiore) agiscono nel migliore modo possibile.
Diversi episodi sono venuti alla luce nell’ultimo periodo, in tutti i campi delle scienze
. In particolare, gli ambienti più difficili per le donne, dal punto di vista delle molestie, sono quelli delle scienze applicate sul campo: archeologia, geologia, antropologia e simili, cioè campi in cui le ricerche si svolgono almeno in parte a piccoli gruppi in missione per un periodo di diversi giorni o settimane.
Mi ha particolarmente colpito il caso di una donna che ha subito aggressioni gravi da studentessa, il cui professore l’aveva minacciata di stroncarle la carriera se avesse parlato. Ebbene, questa donna, a 20 anni di distanza, non appena raggiunta una posizione permanente presso un’università, ha denunciato. Ha dovuto aspettare 20 anni. Anche nel suo caso, una volta aperto il vaso, molte colleghe e colleghi si sono fatte avanti confermando ‘quel che tutti sapevano’.
Così come nel cinema il caso ha investito il luogo più sacro, Hollywood, anche nella scienza, lo scandalo è scoppiato in uno dei templi della ricerca: Boston.
In Italia, abbiamo solo sentito Asia Argento confermare che anche da noi le molestie sono presenti (anzi, probabilmente rampanti), ma siamo ancora lontane dal sentirci libere di denunciare i molestatori.
Quello di cui avremmo bisogno è un sistema di protezione che permetta alle donne di non dover subire ulteriori conseguenze (oltre a quelle già subite), e che le incoraggi a portare a galla la situazione, con lo scopo di cambiarla. Solo così potremo sperare che si raggiunga finalmente un atteggiamento diverso, in generale nella società.
Alcuni uomini hanno iniziato a ragionare e prendere posizione: anche loro sono da incoraggiare, perché anche loro possano denunciare, anche solo con la testimonianza, tutte le volte che il potere viene abusato.
*Associazione Donne&Scienza
Non solo Weinstein, come vincere la paura anche nel mondo scientifico
di Monica Zoppè
Si fa un gran parlare del caso Weinstein, che sta scuotendo il mondo del cinema, e (speriamo) non solo. E’ senz’altro molto positivo il fatto che il tema sia, per così dire, sdoganato.
Per adesso parlano solo alcune donne, le più forti, quelle che se lo possono permettere, che non sono ricattabili, né a rischio di perdere il lavoro o altro. Sarebbe naturalmente positivo se tutte potessero denunciare in sicurezza, ma più importante è che ne parlino gli uomini.
Personalmente non sono convinta che il meccanismo della punizione funzioni. Servirebbe una presa di coscienza e un cambio di mentalità.
Tra le possibili prede di questi uomini, ce ne sono che hanno saputo dire di no. Molte di queste hanno poi subito le conseguenze del loro rifiuto, in termini di avanzamento di carriera, di offese, quando non addirittura di mobbing o licenziamento.
Nel momento in cui un uomo di potere ti mette gli occhi addosso, tu hai già perso, comunque vada a finire.
Io penso che in una società civile ed evoluta nessuna persona dovrebbe poter esercitare un tale potere su un’altra, abusandone senza conseguenze. La prima cosa da fare in questi casi è di togliere a questi uomini gli strumenti per abusare del potere che hanno. La seconda è far capire perché la loro condotta è sbagliata ed inaccettabile, sperando che ci arrivino (sono spesso persone per molti versi capaci ed intelligenti).
Ma tornando alle donne che hanno subito senza accettare: come possono essere risarcite del danno? Qualcuno pagherà? E’ anche difficile dimostrare cose che non sono successe, il che rende la situazione ancora più complessa.
Anche qui, l’importante è che questi uomini siano rimossi dalla posizione di potere in cui (praticamente tutti) ancora si trovano. Forse ci vorranno anni, forse generazioni, ma noi continueremo a lavorare perché il futuro delle nostre figlie sia migliore del nostro, tanto quanto hanno fatto le nostre madri.
Il mondo del cinema non è l’unico in cui gli abusi di uomini di potere nei confronti di ragazze spesso, ma non necessariamente, giovani avvengono con regolarità. Nell’ambiente dello sport si iniziano a sentire alcune denunce, ed avviene anche nell’ambiente scientifico.
In questo caso, forse più che in altri, le denunce sono importanti, perché l’ambiente scientifico viene spesso percepito come un’isola felice, in cui tutte le persone (di supposta intelligenza e preparazione superiore) agiscono nel migliore modo possibile.
Diversi episodi sono venuti alla luce nell’ultimo periodo, in tutti i campi delle scienze
. In particolare, gli ambienti più difficili per le donne, dal punto di vista delle molestie, sono quelli delle scienze applicate sul campo: archeologia, geologia, antropologia e simili, cioè campi in cui le ricerche si svolgono almeno in parte a piccoli gruppi in missione per un periodo di diversi giorni o settimane.
Mi ha particolarmente colpito il caso di una donna che ha subito aggressioni gravi da studentessa, il cui professore l’aveva minacciata di stroncarle la carriera se avesse parlato. Ebbene, questa donna, a 20 anni di distanza, non appena raggiunta una posizione permanente presso un’università, ha denunciato. Ha dovuto aspettare 20 anni. Anche nel suo caso, una volta aperto il vaso, molte colleghe e colleghi si sono fatte avanti confermando ‘quel che tutti sapevano’.
Così come nel cinema il caso ha investito il luogo più sacro, Hollywood, anche nella scienza, lo scandalo è scoppiato in uno dei templi della ricerca: Boston.
In Italia, abbiamo solo sentito Asia Argento confermare che anche da noi le molestie sono presenti (anzi, probabilmente rampanti), ma siamo ancora lontane dal sentirci libere di denunciare i molestatori.
Quello di cui avremmo bisogno è un sistema di protezione che permetta alle donne di non dover subire ulteriori conseguenze (oltre a quelle già subite), e che le incoraggi a portare a galla la situazione, con lo scopo di cambiarla. Solo così potremo sperare che si raggiunga finalmente un atteggiamento diverso, in generale nella società.
Alcuni uomini hanno iniziato a ragionare e prendere posizione: anche loro sono da incoraggiare, perché anche loro possano denunciare, anche solo con la testimonianza, tutte le volte che il potere viene abusato.
*Associazione Donne&Scienza
Il Fatto 21.10.17
Camusso (Cgil): “Questo governo è uguale al precedente”
Per Susanna Camusso, “il governo Gentiloni si sta muovendo in continuità con quanto fece il governo Renzi”. La segretaria della Cgil l’ha dichiarato in un’intervista che sarà pubblicata oggi sul sito www.strisciarossa.it, fondato da un gruppo di giornalisti provenienti da l’Unità e da altre testate. Secondo la Camusso, ora nel governo “c’è un atteggiamento meno strafottente nel rapporto con le parti sociali”. Ma “questa legge di Bilancio è priva di qualunque idea sulla prospettiva…”. Un altro affondo: “Il governo, per i giovani, si era impegnato a creare una pensione di garanzia. L’hanno completamente cancellata. Allo stesso modo si sono contraddetti sulla necessità di riformare la legge Fornero”. Un passaggio anche su Bankitalia e la mozione del Pd anti Visco: “È come se si dicesse: non voglio permettere che i 5Stelle facciano la campagna elettorale sugli scandali bancari e sui legami che hanno con la politica e quindi indico un colpevole”. Poi un pensiero sulla sinistra italiana: “Avere una sponda è fondamentale per il sindacato. Non c’è dubbio che c’è un vuoto… Non è solo una questione che riguarda il posizionamento parlamentare… la sinistra non c’è, se non ci sono cittadini che partecipano”.
Camusso (Cgil): “Questo governo è uguale al precedente”
Per Susanna Camusso, “il governo Gentiloni si sta muovendo in continuità con quanto fece il governo Renzi”. La segretaria della Cgil l’ha dichiarato in un’intervista che sarà pubblicata oggi sul sito www.strisciarossa.it, fondato da un gruppo di giornalisti provenienti da l’Unità e da altre testate. Secondo la Camusso, ora nel governo “c’è un atteggiamento meno strafottente nel rapporto con le parti sociali”. Ma “questa legge di Bilancio è priva di qualunque idea sulla prospettiva…”. Un altro affondo: “Il governo, per i giovani, si era impegnato a creare una pensione di garanzia. L’hanno completamente cancellata. Allo stesso modo si sono contraddetti sulla necessità di riformare la legge Fornero”. Un passaggio anche su Bankitalia e la mozione del Pd anti Visco: “È come se si dicesse: non voglio permettere che i 5Stelle facciano la campagna elettorale sugli scandali bancari e sui legami che hanno con la politica e quindi indico un colpevole”. Poi un pensiero sulla sinistra italiana: “Avere una sponda è fondamentale per il sindacato. Non c’è dubbio che c’è un vuoto… Non è solo una questione che riguarda il posizionamento parlamentare… la sinistra non c’è, se non ci sono cittadini che partecipano”.
Il Fatto 21.10.17
Il treno di Renzi in fuga dal voto siciliano
di Pietrangelo Buttafuoco
Matteo Renzi col suo convoglio ferroviario è dappertutto fuorché in Sicilia dove pure è in corso una campagna elettorale. Cento e rotti sono le province da visitare. Non però tra i ciuri-ciuri.
Niente Sicilia. Treno per l’Italia è. Non certo un Ferribotte a uso di Cariddi. La fine corsa è a Scilla. Ed è significativo tutto ciò. Da un lato rivela quanto al capo del Partito democratico possa fottergliene di Palermo e della Trinacria tutta, dall’altro – furbo, anzi, furbastro – pensa di farla franca di fronte alle sue precise responsabilità.
Una su tutte, andare a spiegarsi con i cittadini siciliani dopo lo sciagurato governo di Rosario Crocetta, il pupillo di tutte le Leopolde, il campione dei campioni del renzismo fatto cassata, il capo branco della potentissima congrega degli illusionisti capaci – come sono stati capaci – di buggerare perfino i disabili, quelli strenuamente difesi da Pif sul piazzale del Palazzo della Regione.
Spiegarsi e spiegare, dunque, quella che per il suo partito non sarà certo una sconfitta, piuttosto una disfatta. E fa bene Fabrizio Micari, a questo punto, a sposarsi dieci giorni prima delle elezioni regionali. Il candidato di Renzi alla presidenza della Regione siciliana – il rettore dell’università di Palermo e nulla più – convola a nozze nel bel mezzo della campagna elettorale. E così, povero figlio, visto che non potrà certo chiedere ai siciliani di sottoscrivere la lista nozze presso il seggio, nella cabina elettorale, almeno un festino potrà averlo.
Renzi avrà di certo la bomboniera, intanto fa ciao ciao dal finestrino assaporando il paesaggio di un’Italia accondiscendente – quella delle sue truppe cammellate – ma non glielo porta il suo trenino, oltre lo Stretto.
Peccato, però, c’è pur sempre il suo più che proclamato Ponte di Messina ad accoglierlo. Dovrà varcarlo prima o poi e così “asfaltare” Beppe Grillo che quel braccio di mare, arretrato com’è, se lo fa a nuoto. Nella Sicilia dove non arrivano i treni, Renzi, potrebbe costeggiare la Messina-Catania. Giusto quella dove ancora non si smuove la frana che ha cancellato la carreggiata. Ancora meglio potrebbe sferragliare sulle rotaie che inseguono la Palermo-Catania. È l’arteria stradale dove s’inginocchiò il pilone – la via rotta che spezzò in due la Sicilia – giusto dove lui, dopo più di un anno, ebbe a fare la scena di riaprire al traffico la corsia superstite al crollo. Con tanto d’inaugurazione. Spacciando per aggiustata la parte che non s’era mai sfasciata.
Ci sono quindi le delicatissime e importantissime elezioni regionali e il segretario del partito attualmente al governo se la fa alla larga ravanando per distrarre – in nome di “un potere più forte”, per dirla con le parole del notista di Repubblica Stefano Folli, “di quello esercitato da Gentiloni e Mattarella” – tutto un repertorio di banalità ad alto tasso glamour.
La propaganda di sua renzità – il Treno per l’Italia – è tutta fuffa in attesa del ritorno di tutti i giochi consociativi, è tutta panna per il giornalismo corrivo, è la cosiddetta narrazione de #italiacambiaverso. Appunto, sì. Il cambia verso. Per voltare le spalle per sempre alla Sicilia.
Il treno di Renzi in fuga dal voto siciliano
di Pietrangelo Buttafuoco
Matteo Renzi col suo convoglio ferroviario è dappertutto fuorché in Sicilia dove pure è in corso una campagna elettorale. Cento e rotti sono le province da visitare. Non però tra i ciuri-ciuri.
Niente Sicilia. Treno per l’Italia è. Non certo un Ferribotte a uso di Cariddi. La fine corsa è a Scilla. Ed è significativo tutto ciò. Da un lato rivela quanto al capo del Partito democratico possa fottergliene di Palermo e della Trinacria tutta, dall’altro – furbo, anzi, furbastro – pensa di farla franca di fronte alle sue precise responsabilità.
Una su tutte, andare a spiegarsi con i cittadini siciliani dopo lo sciagurato governo di Rosario Crocetta, il pupillo di tutte le Leopolde, il campione dei campioni del renzismo fatto cassata, il capo branco della potentissima congrega degli illusionisti capaci – come sono stati capaci – di buggerare perfino i disabili, quelli strenuamente difesi da Pif sul piazzale del Palazzo della Regione.
Spiegarsi e spiegare, dunque, quella che per il suo partito non sarà certo una sconfitta, piuttosto una disfatta. E fa bene Fabrizio Micari, a questo punto, a sposarsi dieci giorni prima delle elezioni regionali. Il candidato di Renzi alla presidenza della Regione siciliana – il rettore dell’università di Palermo e nulla più – convola a nozze nel bel mezzo della campagna elettorale. E così, povero figlio, visto che non potrà certo chiedere ai siciliani di sottoscrivere la lista nozze presso il seggio, nella cabina elettorale, almeno un festino potrà averlo.
Renzi avrà di certo la bomboniera, intanto fa ciao ciao dal finestrino assaporando il paesaggio di un’Italia accondiscendente – quella delle sue truppe cammellate – ma non glielo porta il suo trenino, oltre lo Stretto.
Peccato, però, c’è pur sempre il suo più che proclamato Ponte di Messina ad accoglierlo. Dovrà varcarlo prima o poi e così “asfaltare” Beppe Grillo che quel braccio di mare, arretrato com’è, se lo fa a nuoto. Nella Sicilia dove non arrivano i treni, Renzi, potrebbe costeggiare la Messina-Catania. Giusto quella dove ancora non si smuove la frana che ha cancellato la carreggiata. Ancora meglio potrebbe sferragliare sulle rotaie che inseguono la Palermo-Catania. È l’arteria stradale dove s’inginocchiò il pilone – la via rotta che spezzò in due la Sicilia – giusto dove lui, dopo più di un anno, ebbe a fare la scena di riaprire al traffico la corsia superstite al crollo. Con tanto d’inaugurazione. Spacciando per aggiustata la parte che non s’era mai sfasciata.
Ci sono quindi le delicatissime e importantissime elezioni regionali e il segretario del partito attualmente al governo se la fa alla larga ravanando per distrarre – in nome di “un potere più forte”, per dirla con le parole del notista di Repubblica Stefano Folli, “di quello esercitato da Gentiloni e Mattarella” – tutto un repertorio di banalità ad alto tasso glamour.
La propaganda di sua renzità – il Treno per l’Italia – è tutta fuffa in attesa del ritorno di tutti i giochi consociativi, è tutta panna per il giornalismo corrivo, è la cosiddetta narrazione de #italiacambiaverso. Appunto, sì. Il cambia verso. Per voltare le spalle per sempre alla Sicilia.
Repubblica 21.10.17
La falsa ribellione
di Ezio Mauro
C’È un’evidente ansia da campagna elettorale permanente, ben più che una preoccupazione per la sicurezza dei correntisti bancari e dei risparmiatori, nell’offensiva di Matteo Renzi contro il governatore della Banca d’Italia Visco. Non c’è alcun dubbio che il tema del risparmio, del credito e della solidità delle nostre banche agiti la pubblica opinione, che dopo i casi Monte Paschi, Etruria e Vicenza si sente esposta, raggirata e ben poco tutelata dai meccanismi e dagli istituti di salvaguardia del sistema. Quindi è comprensibile e persino doveroso che i leader trattino la questione in vista del voto, quando è il momento del rendiconto sul passato e degli impegni per il futuro. Ma Bankitalia non è l’Anas o la Cassa del Mezzogiorno: e delle banche si può discutere, e anzi si deve, ma senza gettare un’istituzione di garanzia nel tritacarne del vortice elettorale.
Che ci sia stato un problema di vigilanza allentata e di sorveglianza miope sulle fragilità che le banche italiane camuffavano è ormai fuori dubbio, perché tutti abbiamo sentito per troppi anni i controllori garantire sulla solidità certa dell’impianto, a partire da via Nazionale, e dallo stesso Governatore.
MA SE si considera che questa miopia viene da lontano, anche prima di Visco, nasce una domanda obbligatoria: dov’era la politica nel frattempo, che cosa capiva e che cosa faceva?
Soprattutto, l’interrogativo è se la politica era dalla parte dei cittadini e dunque dell’interesse generale o piuttosto se era coinvolta negli ingranaggi più bassi che hanno rallentato e deviato il corretto procedere del mercato bancario: con una commistione insieme provinciale e onnipotente, che considerava il credito come un prolungamento della politica con altri mezzi, impropri ma utili a creare consorterie, consolidare confraternite, insediare nomenklature locali. Comperando consenso e potere, e inseguendo il conflitto d’interessi certificato dallo slogan “abbiamo una banca”, piuttosto che la cornice di garanzia costruita con l’obiettivo di poter dire “abbiamo una regola”.
Se si apre il libro delle responsabilità — in ritardo, con tutti i buoi già scappati e nutriti da un buon pascolo abusivo nel prato dei risparmiatori — il rendiconto deve essere dunque a 360 gradi e ogni soggetto politico e istituzionale della lunga stagione della crisi deve rispondere. A partire dalla Banca centrale, certamente, ma anche da chi ha avuto in questi anni responsabilità di governo e di indirizzo. Altrimenti si trasmette l’idea di un piccolo cortocircuito elettorale, con il giglio appassito che appicca l’incendio a via Nazionale perché non riesce a spegnere il fuoco che lo perseguita ad Arezzo.
E qui nasce un’altra questione, che va al di là della campagna elettorale e della stessa vicenda bancaria. Di fronte all’isolamento di cui ha parlato qui Stefano Folli, alla “biografia” civile di Bankitalia rievocata da Scalfari, Renzi ha infatti risposto ricordando che lui nasce rottamatore, e non intende cambiare. Forse non si è accorto che in questo modo ha evocato una natura più che una cultura, addirittura una postura mimetica invece che una politica. A parte la distorsione concettuale per cui la cosiddetta rottamazione per il segretario Pd si applica agli uomini, alle persone fisiche, e non ai loro progetti e alle loro azioni politico- programmatiche, viene da domandarsi quale sia l’universo di riferimento culturale di un leader se dopo tre anni di guida del governo è ancora prigioniero del ring agonistico di un wrestling sceneggiato che non finisce mai: dove lui e coloro che eleva di volta in volta ad avversari indossano maschere di comodo, sostituendo l’azione fisica all’azione politica.
Quando passa in rassegna il drappello d’onore della Repubblica, dopo aver ricevuto dal Quirinale l’incarico di formare il governo, anche lo sfidante più outsider si deve trasformare in uomo di Stato, facendosi carico di una responsabilità complessiva, che naturalmente interpreterà secondo la sua cultura e la sua vocazione politica. Renzi sembra fermo al ground zero della sua avventura nazionale. Senza avvertire che quella sfida iniziale ha portato nel sistema una fortissima tensione per il cambiamento, ma quando il cambiamento non si è realizzato la sfida permanente ha lasciato sul campo soltanto la tensione, che Gentiloni sta stemperando a fatica.
In questo ribellismo delle élite c’è la sciagurata illusione di inseguire il grillismo sui suoi temi, impiegando il suo linguaggio e mimando la sua riduzione della politica a continua performance, in una sollecitazione perenne dell’elettorato contro nemici ogni volta diversi, ma che evocano costantemente il fantasma della casta. È la costruzione succube di un universo gregario. Anche se in realtà Renzi insegue il se stesso delle origini, senza capire che proprio l’esperienza di governo dovrebbe aver arricchito il rottamatore trasformandolo in ricostruttore.
Resta una domanda: il Pd tutto questo lo sa? Ha mai discusso di questi temi? Ha mai chiesto al segretario di illustrare politicamente la sua cultura invece di limitarsi a esibire la sua natura? Ma arrivati a questo punto, proprio qui, si dovrebbe aprire la questione decisiva della natura del Pd: che resta l’unico segreto davvero custodito in Italia.
La falsa ribellione
di Ezio Mauro
C’È un’evidente ansia da campagna elettorale permanente, ben più che una preoccupazione per la sicurezza dei correntisti bancari e dei risparmiatori, nell’offensiva di Matteo Renzi contro il governatore della Banca d’Italia Visco. Non c’è alcun dubbio che il tema del risparmio, del credito e della solidità delle nostre banche agiti la pubblica opinione, che dopo i casi Monte Paschi, Etruria e Vicenza si sente esposta, raggirata e ben poco tutelata dai meccanismi e dagli istituti di salvaguardia del sistema. Quindi è comprensibile e persino doveroso che i leader trattino la questione in vista del voto, quando è il momento del rendiconto sul passato e degli impegni per il futuro. Ma Bankitalia non è l’Anas o la Cassa del Mezzogiorno: e delle banche si può discutere, e anzi si deve, ma senza gettare un’istituzione di garanzia nel tritacarne del vortice elettorale.
Che ci sia stato un problema di vigilanza allentata e di sorveglianza miope sulle fragilità che le banche italiane camuffavano è ormai fuori dubbio, perché tutti abbiamo sentito per troppi anni i controllori garantire sulla solidità certa dell’impianto, a partire da via Nazionale, e dallo stesso Governatore.
MA SE si considera che questa miopia viene da lontano, anche prima di Visco, nasce una domanda obbligatoria: dov’era la politica nel frattempo, che cosa capiva e che cosa faceva?
Soprattutto, l’interrogativo è se la politica era dalla parte dei cittadini e dunque dell’interesse generale o piuttosto se era coinvolta negli ingranaggi più bassi che hanno rallentato e deviato il corretto procedere del mercato bancario: con una commistione insieme provinciale e onnipotente, che considerava il credito come un prolungamento della politica con altri mezzi, impropri ma utili a creare consorterie, consolidare confraternite, insediare nomenklature locali. Comperando consenso e potere, e inseguendo il conflitto d’interessi certificato dallo slogan “abbiamo una banca”, piuttosto che la cornice di garanzia costruita con l’obiettivo di poter dire “abbiamo una regola”.
Se si apre il libro delle responsabilità — in ritardo, con tutti i buoi già scappati e nutriti da un buon pascolo abusivo nel prato dei risparmiatori — il rendiconto deve essere dunque a 360 gradi e ogni soggetto politico e istituzionale della lunga stagione della crisi deve rispondere. A partire dalla Banca centrale, certamente, ma anche da chi ha avuto in questi anni responsabilità di governo e di indirizzo. Altrimenti si trasmette l’idea di un piccolo cortocircuito elettorale, con il giglio appassito che appicca l’incendio a via Nazionale perché non riesce a spegnere il fuoco che lo perseguita ad Arezzo.
E qui nasce un’altra questione, che va al di là della campagna elettorale e della stessa vicenda bancaria. Di fronte all’isolamento di cui ha parlato qui Stefano Folli, alla “biografia” civile di Bankitalia rievocata da Scalfari, Renzi ha infatti risposto ricordando che lui nasce rottamatore, e non intende cambiare. Forse non si è accorto che in questo modo ha evocato una natura più che una cultura, addirittura una postura mimetica invece che una politica. A parte la distorsione concettuale per cui la cosiddetta rottamazione per il segretario Pd si applica agli uomini, alle persone fisiche, e non ai loro progetti e alle loro azioni politico- programmatiche, viene da domandarsi quale sia l’universo di riferimento culturale di un leader se dopo tre anni di guida del governo è ancora prigioniero del ring agonistico di un wrestling sceneggiato che non finisce mai: dove lui e coloro che eleva di volta in volta ad avversari indossano maschere di comodo, sostituendo l’azione fisica all’azione politica.
Quando passa in rassegna il drappello d’onore della Repubblica, dopo aver ricevuto dal Quirinale l’incarico di formare il governo, anche lo sfidante più outsider si deve trasformare in uomo di Stato, facendosi carico di una responsabilità complessiva, che naturalmente interpreterà secondo la sua cultura e la sua vocazione politica. Renzi sembra fermo al ground zero della sua avventura nazionale. Senza avvertire che quella sfida iniziale ha portato nel sistema una fortissima tensione per il cambiamento, ma quando il cambiamento non si è realizzato la sfida permanente ha lasciato sul campo soltanto la tensione, che Gentiloni sta stemperando a fatica.
In questo ribellismo delle élite c’è la sciagurata illusione di inseguire il grillismo sui suoi temi, impiegando il suo linguaggio e mimando la sua riduzione della politica a continua performance, in una sollecitazione perenne dell’elettorato contro nemici ogni volta diversi, ma che evocano costantemente il fantasma della casta. È la costruzione succube di un universo gregario. Anche se in realtà Renzi insegue il se stesso delle origini, senza capire che proprio l’esperienza di governo dovrebbe aver arricchito il rottamatore trasformandolo in ricostruttore.
Resta una domanda: il Pd tutto questo lo sa? Ha mai discusso di questi temi? Ha mai chiesto al segretario di illustrare politicamente la sua cultura invece di limitarsi a esibire la sua natura? Ma arrivati a questo punto, proprio qui, si dovrebbe aprire la questione decisiva della natura del Pd: che resta l’unico segreto davvero custodito in Italia.
Il Fatto 21.10.17
La mozione del Pd anti-Bankitalia scritta dalla Boschi
Conflitto di interessi - Il testo, mai discusso in nessuna sede ufficiale, non è uscito dall’ufficio legislativo del gruppo, ma da Palazzo Chigi
di Marco Palombi
Secondo Banca d’Italia quella famosa mozione che ha schierato il Parlamento contro il governatore della Banca d’Italia è “una vendetta per Banca Etruria”. Non lo dicono solo le fonti di Palazzo Koch, al solito anonime, lo grida anche il pezzo uscito ieri sul Corriere della Sera che racconta di come Ignazio Visco segnalò le “molte anomalie” dell’istituto toscano a pochi mesi dalla sua nomina ai vertici della banca centrale.
È una vendetta, insomma, dell’inner circle renziano per il tracollo di Etruria e la figuraccia che ha affossato il consenso del governo Renzi e trasformato Maria Elena Boschi (il cui padre era vicepresidente della banca aretina) da madrina delle riforme costituzionali a emblema del conflitto d’interessi: le sue mosse “informali” per salvare la banca da ministro, le sue ingerenze nella gestazione e nell’iter parlamentare delle leggi riguardanti il mondo del credito, la sua pubblica difesa dell’operato di suo padre (va ricordato: multato due volte da Bankitalia e una da Consob per il suo operato come “banchiere”). “E ora è arrivata la mozione”, concludono in Banca d’Italia: “Basta vedere dove è stata scritta”.
E dove? La risposta è meno semplice di quanto sembra, anche se il capro espiatorio esiste già: la “colpa” se la prenderà Silvia Fregolent, deputata che non s’era mai occupata di Banca d’Italia, Vigilanza bancaria e affini nella sua vita (non un atto parlamentare, né una dichiarazione in quasi cinque anni) e che martedì ha apposto la sorprendente prima firma sotto la mozione anti-Visco. Particolare non secondario: Fregolent è una “boschiana”, cioè nel sottoinsieme dei renziani è membra della piccola tribù che ha legato le sue sorti a quelle della sottosegretario Boschi.
Il capro espiatorio espia, si sa, nulla di nuovo, ma resta la domanda: stante che Fregolent non ha le competenze per scrivere quella mozione, chi l’ha scritta? Non è stato, ci assicurano fonti interne, l’ufficio legislativo del Pd alla Camera, che sarebbe il luogo deputato: d’altra parte l’uomo che nell’ufficio di presidenza del gruppo dovrebbe coordinare le mozioni, Andrea Martella (corrente “orlandiana”), è caduto dal pero quando l’ha vista in aula.
E peraltro, cosa poco sottolineata, quale organismo ufficiale ha discusso se e in che modo portare in aula una posizione politica così rilevante? Non il partito, non i gruppi parlamentari, neanche a livello di vertice. La richiesta di “discontinuità” ai vertici della Banca d’Italia è arrivata dal nulla: quella parola, peraltro, poi tolta dal dispositivo finale su richiesta di Paolo Gentiloni a Matteo Renzi. Il senso di quello richiesta, comunque, è rimasto nel testo arrivato in Aula, come l’attacco durissimo (e peraltro condivisibile) su opere e omissioni dell’attività di vigilanza di via Nazionale sul settore del credito.
E qui entra in scena un altro personaggio rivelatore: Pier Paolo Baretta, il sottosegretario al Tesoro che, a nome del governo, ha chiesto nell’Aula di Montecitorio di espungere dalla mozione l’ultimo paragrafo della premessa, volgarmente le contumelie sulla vigilanza farlocca di Palazzo Koch. Ecco, il buon Baretta – raccontano fonti di governo – ha avuto il bene di vedere un testo solo attorno alle tre del pomeriggio e non è stato il capogruppo dem – regista parlamentare della manovra – il primo a fornirglielo, ma una email di Palazzo Chigi, luogo di lavoro anche di Maria Elena Boschi e del suo esperto staff giuridico. “Sono loro ad aver scritto la mozione”, giurano in Banca d’Italia. “Arriva da lì”, giurano fonti di minoranza del Pd.
È il non dettoattorno a questa operazione politica la parte più inquietante di questa vicenda. Il premier Paolo Gentiloni può, per la propria sopravvivenza, far finta che il suo rapporto di fiducia con Maria Elena Boschi sia intatto e può chiedere di farlo ai suoi ministri, come Anna Finocchiaro, che con la sottosegretario ha avuto una lite furibonda.
La fiducia, si sa, è materia impalpabile e soggetta all’arbitrio: se Gentiloni ritiene di concederla, avrà i suoi motivi. Diverso è il conflitto di interessi di una deputata e membro del governo che continua a tornare sul luogo del delitto. Etruria è un piccolo pezzo delle vicende bancarie di questi anni, nelle quali Visco ha pesanti e più complessive responsabilità rispetto all’aver messo in imbarazzo quel premier poco competente o quella ministro e i suoi familiari. Un partito dovrebbe saperlo e proporre (e scrivere) mozioni che esprimono una linea politica, non le difficoltà di un pezzo di ceto politico.
La mozione del Pd anti-Bankitalia scritta dalla Boschi
Conflitto di interessi - Il testo, mai discusso in nessuna sede ufficiale, non è uscito dall’ufficio legislativo del gruppo, ma da Palazzo Chigi
di Marco Palombi
Secondo Banca d’Italia quella famosa mozione che ha schierato il Parlamento contro il governatore della Banca d’Italia è “una vendetta per Banca Etruria”. Non lo dicono solo le fonti di Palazzo Koch, al solito anonime, lo grida anche il pezzo uscito ieri sul Corriere della Sera che racconta di come Ignazio Visco segnalò le “molte anomalie” dell’istituto toscano a pochi mesi dalla sua nomina ai vertici della banca centrale.
È una vendetta, insomma, dell’inner circle renziano per il tracollo di Etruria e la figuraccia che ha affossato il consenso del governo Renzi e trasformato Maria Elena Boschi (il cui padre era vicepresidente della banca aretina) da madrina delle riforme costituzionali a emblema del conflitto d’interessi: le sue mosse “informali” per salvare la banca da ministro, le sue ingerenze nella gestazione e nell’iter parlamentare delle leggi riguardanti il mondo del credito, la sua pubblica difesa dell’operato di suo padre (va ricordato: multato due volte da Bankitalia e una da Consob per il suo operato come “banchiere”). “E ora è arrivata la mozione”, concludono in Banca d’Italia: “Basta vedere dove è stata scritta”.
E dove? La risposta è meno semplice di quanto sembra, anche se il capro espiatorio esiste già: la “colpa” se la prenderà Silvia Fregolent, deputata che non s’era mai occupata di Banca d’Italia, Vigilanza bancaria e affini nella sua vita (non un atto parlamentare, né una dichiarazione in quasi cinque anni) e che martedì ha apposto la sorprendente prima firma sotto la mozione anti-Visco. Particolare non secondario: Fregolent è una “boschiana”, cioè nel sottoinsieme dei renziani è membra della piccola tribù che ha legato le sue sorti a quelle della sottosegretario Boschi.
Il capro espiatorio espia, si sa, nulla di nuovo, ma resta la domanda: stante che Fregolent non ha le competenze per scrivere quella mozione, chi l’ha scritta? Non è stato, ci assicurano fonti interne, l’ufficio legislativo del Pd alla Camera, che sarebbe il luogo deputato: d’altra parte l’uomo che nell’ufficio di presidenza del gruppo dovrebbe coordinare le mozioni, Andrea Martella (corrente “orlandiana”), è caduto dal pero quando l’ha vista in aula.
E peraltro, cosa poco sottolineata, quale organismo ufficiale ha discusso se e in che modo portare in aula una posizione politica così rilevante? Non il partito, non i gruppi parlamentari, neanche a livello di vertice. La richiesta di “discontinuità” ai vertici della Banca d’Italia è arrivata dal nulla: quella parola, peraltro, poi tolta dal dispositivo finale su richiesta di Paolo Gentiloni a Matteo Renzi. Il senso di quello richiesta, comunque, è rimasto nel testo arrivato in Aula, come l’attacco durissimo (e peraltro condivisibile) su opere e omissioni dell’attività di vigilanza di via Nazionale sul settore del credito.
E qui entra in scena un altro personaggio rivelatore: Pier Paolo Baretta, il sottosegretario al Tesoro che, a nome del governo, ha chiesto nell’Aula di Montecitorio di espungere dalla mozione l’ultimo paragrafo della premessa, volgarmente le contumelie sulla vigilanza farlocca di Palazzo Koch. Ecco, il buon Baretta – raccontano fonti di governo – ha avuto il bene di vedere un testo solo attorno alle tre del pomeriggio e non è stato il capogruppo dem – regista parlamentare della manovra – il primo a fornirglielo, ma una email di Palazzo Chigi, luogo di lavoro anche di Maria Elena Boschi e del suo esperto staff giuridico. “Sono loro ad aver scritto la mozione”, giurano in Banca d’Italia. “Arriva da lì”, giurano fonti di minoranza del Pd.
È il non dettoattorno a questa operazione politica la parte più inquietante di questa vicenda. Il premier Paolo Gentiloni può, per la propria sopravvivenza, far finta che il suo rapporto di fiducia con Maria Elena Boschi sia intatto e può chiedere di farlo ai suoi ministri, come Anna Finocchiaro, che con la sottosegretario ha avuto una lite furibonda.
La fiducia, si sa, è materia impalpabile e soggetta all’arbitrio: se Gentiloni ritiene di concederla, avrà i suoi motivi. Diverso è il conflitto di interessi di una deputata e membro del governo che continua a tornare sul luogo del delitto. Etruria è un piccolo pezzo delle vicende bancarie di questi anni, nelle quali Visco ha pesanti e più complessive responsabilità rispetto all’aver messo in imbarazzo quel premier poco competente o quella ministro e i suoi familiari. Un partito dovrebbe saperlo e proporre (e scrivere) mozioni che esprimono una linea politica, non le difficoltà di un pezzo di ceto politico.
Il Fatto 21.10.17
La mozione del Pd anti-Bankitalia scritta dalla Boschi
Conflitto di interessi - Il testo, mai discusso in nessuna sede ufficiale, non è uscito dall’ufficio legislativo del gruppo, ma da Palazzo Chigi
di Marco Palombi
Secondo Banca d’Italia quella famosa mozione che ha schierato il Parlamento contro il governatore della Banca d’Italia è “una vendetta per Banca Etruria”. Non lo dicono solo le fonti di Palazzo Koch, al solito anonime, lo grida anche il pezzo uscito ieri sul Corriere della Sera che racconta di come Ignazio Visco segnalò le “molte anomalie” dell’istituto toscano a pochi mesi dalla sua nomina ai vertici della banca centrale.
È una vendetta, insomma, dell’inner circle renziano per il tracollo di Etruria e la figuraccia che ha affossato il consenso del governo Renzi e trasformato Maria Elena Boschi (il cui padre era vicepresidente della banca aretina) da madrina delle riforme costituzionali a emblema del conflitto d’interessi: le sue mosse “informali” per salvare la banca da ministro, le sue ingerenze nella gestazione e nell’iter parlamentare delle leggi riguardanti il mondo del credito, la sua pubblica difesa dell’operato di suo padre (va ricordato: multato due volte da Bankitalia e una da Consob per il suo operato come “banchiere”). “E ora è arrivata la mozione”, concludono in Banca d’Italia: “Basta vedere dove è stata scritta”.
E dove? La risposta è meno semplice di quanto sembra, anche se il capro espiatorio esiste già: la “colpa” se la prenderà Silvia Fregolent, deputata che non s’era mai occupata di Banca d’Italia, Vigilanza bancaria e affini nella sua vita (non un atto parlamentare, né una dichiarazione in quasi cinque anni) e che martedì ha apposto la sorprendente prima firma sotto la mozione anti-Visco. Particolare non secondario: Fregolent è una “boschiana”, cioè nel sottoinsieme dei renziani è membra della piccola tribù che ha legato le sue sorti a quelle della sottosegretario Boschi.
Il capro espiatorio espia, si sa, nulla di nuovo, ma resta la domanda: stante che Fregolent non ha le competenze per scrivere quella mozione, chi l’ha scritta? Non è stato, ci assicurano fonti interne, l’ufficio legislativo del Pd alla Camera, che sarebbe il luogo deputato: d’altra parte l’uomo che nell’ufficio di presidenza del gruppo dovrebbe coordinare le mozioni, Andrea Martella (corrente “orlandiana”), è caduto dal pero quando l’ha vista in aula.
E peraltro, cosa poco sottolineata, quale organismo ufficiale ha discusso se e in che modo portare in aula una posizione politica così rilevante? Non il partito, non i gruppi parlamentari, neanche a livello di vertice. La richiesta di “discontinuità” ai vertici della Banca d’Italia è arrivata dal nulla: quella parola, peraltro, poi tolta dal dispositivo finale su richiesta di Paolo Gentiloni a Matteo Renzi. Il senso di quello richiesta, comunque, è rimasto nel testo arrivato in Aula, come l’attacco durissimo (e peraltro condivisibile) su opere e omissioni dell’attività di vigilanza di via Nazionale sul settore del credito.
E qui entra in scena un altro personaggio rivelatore: Pier Paolo Baretta, il sottosegretario al Tesoro che, a nome del governo, ha chiesto nell’Aula di Montecitorio di espungere dalla mozione l’ultimo paragrafo della premessa, volgarmente le contumelie sulla vigilanza farlocca di Palazzo Koch. Ecco, il buon Baretta – raccontano fonti di governo – ha avuto il bene di vedere un testo solo attorno alle tre del pomeriggio e non è stato il capogruppo dem – regista parlamentare della manovra – il primo a fornirglielo, ma una email di Palazzo Chigi, luogo di lavoro anche di Maria Elena Boschi e del suo esperto staff giuridico. “Sono loro ad aver scritto la mozione”, giurano in Banca d’Italia. “Arriva da lì”, giurano fonti di minoranza del Pd.
È il non dettoattorno a questa operazione politica la parte più inquietante di questa vicenda. Il premier Paolo Gentiloni può, per la propria sopravvivenza, far finta che il suo rapporto di fiducia con Maria Elena Boschi sia intatto e può chiedere di farlo ai suoi ministri, come Anna Finocchiaro, che con la sottosegretario ha avuto una lite furibonda.
La fiducia, si sa, è materia impalpabile e soggetta all’arbitrio: se Gentiloni ritiene di concederla, avrà i suoi motivi. Diverso è il conflitto di interessi di una deputata e membro del governo che continua a tornare sul luogo del delitto. Etruria è un piccolo pezzo delle vicende bancarie di questi anni, nelle quali Visco ha pesanti e più complessive responsabilità rispetto all’aver messo in imbarazzo quel premier poco competente o quella ministro e i suoi familiari. Un partito dovrebbe saperlo e proporre (e scrivere) mozioni che esprimono una linea politica, non le difficoltà di un pezzo di ceto politico.
Repubblica 21.10.17
La falsa ribellione
di Ezio Mauro
C’È un’evidente ansia da campagna elettorale permanente, ben più che una preoccupazione per la sicurezza dei correntisti bancari e dei risparmiatori, nell’offensiva di Matteo Renzi contro il governatore della Banca d’Italia Visco. Non c’è alcun dubbio che il tema del risparmio, del credito e della solidità delle nostre banche agiti la pubblica opinione, che dopo i casi Monte Paschi, Etruria e Vicenza si sente esposta, raggirata e ben poco tutelata dai meccanismi e dagli istituti di salvaguardia del sistema. Quindi è comprensibile e persino doveroso che i leader trattino la questione in vista del voto, quando è il momento del rendiconto sul passato e degli impegni per il futuro. Ma Bankitalia non è l’Anas o la Cassa del Mezzogiorno: e delle banche si può discutere, e anzi si deve, ma senza gettare un’istituzione di garanzia nel tritacarne del vortice elettorale.
Che ci sia stato un problema di vigilanza allentata e di sorveglianza miope sulle fragilità che le banche italiane camuffavano è ormai fuori dubbio, perché tutti abbiamo sentito per troppi anni i controllori garantire sulla solidità certa dell’impianto, a partire da via Nazionale, e dallo stesso Governatore.
MA SE si considera che questa miopia viene da lontano, anche prima di Visco, nasce una domanda obbligatoria: dov’era la politica nel frattempo, che cosa capiva e che cosa faceva?
Soprattutto, l’interrogativo è se la politica era dalla parte dei cittadini e dunque dell’interesse generale o piuttosto se era coinvolta negli ingranaggi più bassi che hanno rallentato e deviato il corretto procedere del mercato bancario: con una commistione insieme provinciale e onnipotente, che considerava il credito come un prolungamento della politica con altri mezzi, impropri ma utili a creare consorterie, consolidare confraternite, insediare nomenklature locali. Comperando consenso e potere, e inseguendo il conflitto d’interessi certificato dallo slogan “abbiamo una banca”, piuttosto che la cornice di garanzia costruita con l’obiettivo di poter dire “abbiamo una regola”.
Se si apre il libro delle responsabilità — in ritardo, con tutti i buoi già scappati e nutriti da un buon pascolo abusivo nel prato dei risparmiatori — il rendiconto deve essere dunque a 360 gradi e ogni soggetto politico e istituzionale della lunga stagione della crisi deve rispondere. A partire dalla Banca centrale, certamente, ma anche da chi ha avuto in questi anni responsabilità di governo e di indirizzo. Altrimenti si trasmette l’idea di un piccolo cortocircuito elettorale, con il giglio appassito che appicca l’incendio a via Nazionale perché non riesce a spegnere il fuoco che lo perseguita ad Arezzo.
E qui nasce un’altra questione, che va al di là della campagna elettorale e della stessa vicenda bancaria. Di fronte all’isolamento di cui ha parlato qui Stefano Folli, alla “biografia” civile di Bankitalia rievocata da Scalfari, Renzi ha infatti risposto ricordando che lui nasce rottamatore, e non intende cambiare. Forse non si è accorto che in questo modo ha evocato una natura più che una cultura, addirittura una postura mimetica invece che una politica. A parte la distorsione concettuale per cui la cosiddetta rottamazione per il segretario Pd si applica agli uomini, alle persone fisiche, e non ai loro progetti e alle loro azioni politico- programmatiche, viene da domandarsi quale sia l’universo di riferimento culturale di un leader se dopo tre anni di guida del governo è ancora prigioniero del ring agonistico di un wrestling sceneggiato che non finisce mai: dove lui e coloro che eleva di volta in volta ad avversari indossano maschere di comodo, sostituendo l’azione fisica all’azione politica.
Quando passa in rassegna il drappello d’onore della Repubblica, dopo aver ricevuto dal Quirinale l’incarico di formare il governo, anche lo sfidante più outsider si deve trasformare in uomo di Stato, facendosi carico di una responsabilità complessiva, che naturalmente interpreterà secondo la sua cultura e la sua vocazione politica. Renzi sembra fermo al ground zero della sua avventura nazionale. Senza avvertire che quella sfida iniziale ha portato nel sistema una fortissima tensione per il cambiamento, ma quando il cambiamento non si è realizzato la sfida permanente ha lasciato sul campo soltanto la tensione, che Gentiloni sta stemperando a fatica.
In questo ribellismo delle élite c’è la sciagurata illusione di inseguire il grillismo sui suoi temi, impiegando il suo linguaggio e mimando la sua riduzione della politica a continua performance, in una sollecitazione perenne dell’elettorato contro nemici ogni volta diversi, ma che evocano costantemente il fantasma della casta. È la costruzione succube di un universo gregario. Anche se in realtà Renzi insegue il se stesso delle origini, senza capire che proprio l’esperienza di governo dovrebbe aver arricchito il rottamatore trasformandolo in ricostruttore.
Resta una domanda: il Pd tutto questo lo sa? Ha mai discusso di questi temi? Ha mai chiesto al segretario di illustrare politicamente la sua cultura invece di limitarsi a esibire la sua natura? Ma arrivati a questo punto, proprio qui, si dovrebbe aprire la questione decisiva della natura del Pd: che resta l’unico segreto davvero custodito in Italia.
Il Fatto 21.10.17
Il treno di Renzi in fuga dal voto siciliano
di Pietrangelo Buttafuoco
Matteo Renzi col suo convoglio ferroviario è dappertutto fuorché in Sicilia dove pure è in corso una campagna elettorale. Cento e rotti sono le province da visitare. Non però tra i ciuri-ciuri.
Niente Sicilia. Treno per l’Italia è. Non certo un Ferribotte a uso di Cariddi. La fine corsa è a Scilla. Ed è significativo tutto ciò. Da un lato rivela quanto al capo del Partito democratico possa fottergliene di Palermo e della Trinacria tutta, dall’altro – furbo, anzi, furbastro – pensa di farla franca di fronte alle sue precise responsabilità.
Una su tutte, andare a spiegarsi con i cittadini siciliani dopo lo sciagurato governo di Rosario Crocetta, il pupillo di tutte le Leopolde, il campione dei campioni del renzismo fatto cassata, il capo branco della potentissima congrega degli illusionisti capaci – come sono stati capaci – di buggerare perfino i disabili, quelli strenuamente difesi da Pif sul piazzale del Palazzo della Regione.
Spiegarsi e spiegare, dunque, quella che per il suo partito non sarà certo una sconfitta, piuttosto una disfatta. E fa bene Fabrizio Micari, a questo punto, a sposarsi dieci giorni prima delle elezioni regionali. Il candidato di Renzi alla presidenza della Regione siciliana – il rettore dell’università di Palermo e nulla più – convola a nozze nel bel mezzo della campagna elettorale. E così, povero figlio, visto che non potrà certo chiedere ai siciliani di sottoscrivere la lista nozze presso il seggio, nella cabina elettorale, almeno un festino potrà averlo.
Renzi avrà di certo la bomboniera, intanto fa ciao ciao dal finestrino assaporando il paesaggio di un’Italia accondiscendente – quella delle sue truppe cammellate – ma non glielo porta il suo trenino, oltre lo Stretto.
Peccato, però, c’è pur sempre il suo più che proclamato Ponte di Messina ad accoglierlo. Dovrà varcarlo prima o poi e così “asfaltare” Beppe Grillo che quel braccio di mare, arretrato com’è, se lo fa a nuoto. Nella Sicilia dove non arrivano i treni, Renzi, potrebbe costeggiare la Messina-Catania. Giusto quella dove ancora non si smuove la frana che ha cancellato la carreggiata. Ancora meglio potrebbe sferragliare sulle rotaie che inseguono la Palermo-Catania. È l’arteria stradale dove s’inginocchiò il pilone – la via rotta che spezzò in due la Sicilia – giusto dove lui, dopo più di un anno, ebbe a fare la scena di riaprire al traffico la corsia superstite al crollo. Con tanto d’inaugurazione. Spacciando per aggiustata la parte che non s’era mai sfasciata.
Ci sono quindi le delicatissime e importantissime elezioni regionali e il segretario del partito attualmente al governo se la fa alla larga ravanando per distrarre – in nome di “un potere più forte”, per dirla con le parole del notista di Repubblica Stefano Folli, “di quello esercitato da Gentiloni e Mattarella” – tutto un repertorio di banalità ad alto tasso glamour.
La propaganda di sua renzità – il Treno per l’Italia – è tutta fuffa in attesa del ritorno di tutti i giochi consociativi, è tutta panna per il giornalismo corrivo, è la cosiddetta narrazione de #italiacambiaverso. Appunto, sì. Il cambia verso. Per voltare le spalle per sempre alla Sicilia.
Il Fatto 21.10.17
Camusso (Cgil): “Questo governo è uguale al precedente”
Per Susanna Camusso, “il governo Gentiloni si sta muovendo in continuità con quanto fece il governo Renzi”. La segretaria della Cgil l’ha dichiarato in un’intervista che sarà pubblicata oggi sul sito www.strisciarossa.it, fondato da un gruppo di giornalisti provenienti da l’Unità e da altre testate. Secondo la Camusso, ora nel governo “c’è un atteggiamento meno strafottente nel rapporto con le parti sociali”. Ma “questa legge di Bilancio è priva di qualunque idea sulla prospettiva…”. Un altro affondo: “Il governo, per i giovani, si era impegnato a creare una pensione di garanzia. L’hanno completamente cancellata. Allo stesso modo si sono contraddetti sulla necessità di riformare la legge Fornero”. Un passaggio anche su Bankitalia e la mozione del Pd anti Visco: “È come se si dicesse: non voglio permettere che i 5Stelle facciano la campagna elettorale sugli scandali bancari e sui legami che hanno con la politica e quindi indico un colpevole”. Poi un pensiero sulla sinistra italiana: “Avere una sponda è fondamentale per il sindacato. Non c’è dubbio che c’è un vuoto… Non è solo una questione che riguarda il posizionamento parlamentare… la sinistra non c’è, se non ci sono cittadini che partecipano”.
il manifesto 21.10.17
Non solo Weinstein, come vincere la paura anche nel mondo scientifico
di Monica Zoppè
Si fa un gran parlare del caso Weinstein, che sta scuotendo il mondo del cinema, e (speriamo) non solo. E’ senz’altro molto positivo il fatto che il tema sia, per così dire, sdoganato.
Per adesso parlano solo alcune donne, le più forti, quelle che se lo possono permettere, che non sono ricattabili, né a rischio di perdere il lavoro o altro. Sarebbe naturalmente positivo se tutte potessero denunciare in sicurezza, ma più importante è che ne parlino gli uomini.
Personalmente non sono convinta che il meccanismo della punizione funzioni. Servirebbe una presa di coscienza e un cambio di mentalità.
Tra le possibili prede di questi uomini, ce ne sono che hanno saputo dire di no. Molte di queste hanno poi subito le conseguenze del loro rifiuto, in termini di avanzamento di carriera, di offese, quando non addirittura di mobbing o licenziamento.
Nel momento in cui un uomo di potere ti mette gli occhi addosso, tu hai già perso, comunque vada a finire.
Io penso che in una società civile ed evoluta nessuna persona dovrebbe poter esercitare un tale potere su un’altra, abusandone senza conseguenze. La prima cosa da fare in questi casi è di togliere a questi uomini gli strumenti per abusare del potere che hanno. La seconda è far capire perché la loro condotta è sbagliata ed inaccettabile, sperando che ci arrivino (sono spesso persone per molti versi capaci ed intelligenti).
Ma tornando alle donne che hanno subito senza accettare: come possono essere risarcite del danno? Qualcuno pagherà? E’ anche difficile dimostrare cose che non sono successe, il che rende la situazione ancora più complessa.
Anche qui, l’importante è che questi uomini siano rimossi dalla posizione di potere in cui (praticamente tutti) ancora si trovano. Forse ci vorranno anni, forse generazioni, ma noi continueremo a lavorare perché il futuro delle nostre figlie sia migliore del nostro, tanto quanto hanno fatto le nostre madri.
Il mondo del cinema non è l’unico in cui gli abusi di uomini di potere nei confronti di ragazze spesso, ma non necessariamente, giovani avvengono con regolarità. Nell’ambiente dello sport si iniziano a sentire alcune denunce, ed avviene anche nell’ambiente scientifico.
In questo caso, forse più che in altri, le denunce sono importanti, perché l’ambiente scientifico viene spesso percepito come un’isola felice, in cui tutte le persone (di supposta intelligenza e preparazione superiore) agiscono nel migliore modo possibile.
Diversi episodi sono venuti alla luce nell’ultimo periodo, in tutti i campi delle scienze
. In particolare, gli ambienti più difficili per le donne, dal punto di vista delle molestie, sono quelli delle scienze applicate sul campo: archeologia, geologia, antropologia e simili, cioè campi in cui le ricerche si svolgono almeno in parte a piccoli gruppi in missione per un periodo di diversi giorni o settimane.
Mi ha particolarmente colpito il caso di una donna che ha subito aggressioni gravi da studentessa, il cui professore l’aveva minacciata di stroncarle la carriera se avesse parlato. Ebbene, questa donna, a 20 anni di distanza, non appena raggiunta una posizione permanente presso un’università, ha denunciato. Ha dovuto aspettare 20 anni. Anche nel suo caso, una volta aperto il vaso, molte colleghe e colleghi si sono fatte avanti confermando ‘quel che tutti sapevano’.
Così come nel cinema il caso ha investito il luogo più sacro, Hollywood, anche nella scienza, lo scandalo è scoppiato in uno dei templi della ricerca: Boston.
In Italia, abbiamo solo sentito Asia Argento confermare che anche da noi le molestie sono presenti (anzi, probabilmente rampanti), ma siamo ancora lontane dal sentirci libere di denunciare i molestatori.
Quello di cui avremmo bisogno è un sistema di protezione che permetta alle donne di non dover subire ulteriori conseguenze (oltre a quelle già subite), e che le incoraggi a portare a galla la situazione, con lo scopo di cambiarla. Solo così potremo sperare che si raggiunga finalmente un atteggiamento diverso, in generale nella società.
Alcuni uomini hanno iniziato a ragionare e prendere posizione: anche loro sono da incoraggiare, perché anche loro possano denunciare, anche solo con la testimonianza, tutte le volte che il potere viene abusato.
*Associazione Donne&Scienza
Il Fatto 21.10.17
“Le indagini a Siena su David Rossi, roba di un altro mondo”
L’ex procuratore capo di Firenze: “C’è stata tanta superficialità. Sono davvero sorpreso da tutte queste sviste”
di Davide Vecchi
Ascolta con attenzione l’elenco delle falle individuate nella prima inchiesta svolta sulla scomparsa di David Rossi, il manager di Mps e braccio destro di Giuseppe Mussari, trovato morto la sera del 6 marzo 2013. Una vicenda per ben due volte liquidata dalla Procura di Siena come suicidio, seppure in entrambe i decreti di archiviazione ci siano evidenti errori. Ascolta i dettagli. I sette fazzoletti sporchi di sangue distrutti da un magistrato senese, Aldo Natalini, senza prima analizzarli e ancora prima che la fase delle indagini si fosse conclusa. Dei telefonini di Rossi usati da qualcuno degli inquirenti entrati nell’ufficio del manager dopo la sua morte. Delle mancate acquisizioni di tabulati, video di sorveglianza. Ascolta tutto. Solo alla fine prende la parola: “Ho sentito cose strane”, francamente “mai sentite nella mia modesta esperienza”. Modesta è un eufemismo: 47 anni trascorsi in magistratura la maggior parte dei quali nella veste di procuratore capo di Firenze.
Ubaldo Nannucci, classe 1933, ha dedicato la vita alla giustizia. E di cadaveri, omicidi o presunti suicidi, ne ha visti fin troppi. Basti pensare che si è occupato da procuratore capo di tutti i duplici delitti del mostro di Firenze. Insomma: un’esperienza decisamente non modesta, la sua. Così, dopo aver assistito nel capoluogo toscano alla presentazione del libro Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto (edito da Chiarelettere), prende la parola per esprimere tutto il suo stupore. “Quando c’è una morte per causa sconosciuta si chiama la polizia scientifica, la quale fa una repertazione accurata di tutti gli elementi, viene steso un verbale, ogni elemento viene sigillato in una apposita busta, tutto l’insieme di questi elementi costituisce materiale essenziale per lo sviluppo dell’indagine. Sento dire, leggerò il libro e cercherò di capire”. Ieri il Fatto lo ha ricontattato.
Procuratore ha letto?
Sono un po’ sorpreso.
Da qualcosa in particolare? Da come sono state svolte le indagini in generale?
Effettivamente è un modo di procedere disinvolto, diciamo così.
Cominciamo dai reperti?
I fazzoletti col sangue che sono spariti, ad esempio, mi pare francamente un altro mondo.
Distrutti. Prima ancora che il gip disponesse l’archiviazione o un supplemento di indagini.
Sicuramente qualche superficialità c’è stata.
Gli inquirenti hanno risposto almeno a una telefonata dal cellulare di Rossi.
Non capisco, guardi. Solitamente la procedura è una. La polizia scientifica interviene e prima di tutto fa le foto dell’ambiente, reperta ogni oggetto e cerca le impronte. Tutto viene repertato e sequestrato, viene stilato un verbale e quel materiale viene trasmesso all’ufficio dei corpi di reato dove viene analizzato a seconda delle necessità dell’inchiesta.
E conservato?
Sono elementi indispensabili per le indagini.
Lei ha recentemente pubblicato un libro con Aracne editrice dal titolo Storia critica delle leggi di ordinamento giudiziario inerente proprio ai guai della giustizia.
Sì, nel testo suggerisco anche i possibili rimedi ma ai guai della giustizia, sullo svolgimento delle indagini, diciamo che il metodo è quello che ho enunciato poc’anzi.
Nelle carte di Siena ci sono anche degli errori evidenti. Nel secondo decreto di archiviazione, ad esempio, il gip scrive che un testimone è stato sentito e invece non è vero. A lei è capitato di trovarsi di fronte decreti con degli errori simili?
Mai. E mi sorprende, francamente è una svista notevole.
Il procuratore capo di Siena Salvatore Vitello, incalzato da Le Iene, non ha voluto rispondere nel merito dell’errore ma ha detto che se i familiari presenteranno istanza per riaprire il caso lui darà seguito.
Non l’hanno mai richiesto?
Almeno tre volte. Di cui uno alla Procura generale di Firenze che non ha avocato ma ha trasferito gli atti di nuovo a Siena. Inutilmente.
Beh, sicuramente i legali dovrebbero individuare e far emergere nuove risultanze, penso sia l’unica strada per far riaprire le indagini. Anche se…
Anche se?
Sono passati diversi anni.
I reperti sono stati distrutti, molti elementi non sono stati acquisiti, alcune persone mai individuate né sentite. Insomma: dopo ormai quattro anni e tutto questo è difficile?
Già.
Corriere 21.10.17
L’Italia longeva che cerca lavoro e fa meno figli
di Milena Gabanelli
L’Istat ha fatto un lavorone: ha analizzato l’Italia e l’Europa durante i 60 anni di matrimonio. Il confronto è esteso anche all’Ue a 28, ma qui ci guardiamo allo specchio fra i sei Paesi fondatori, quelli che nel ’57 diedero vita alla Cee firmando il Trattato di Roma. All’epoca Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo erano più o meno nella stessa barca.
Da allora la struttura produttiva è cambiata profondamente, ma almeno fino al 2008, le economie di questi Paesi sono andate convergendo, il potere d’acquisto procapite ha avuto una crescita impetuosa, e noi abbiamo anche beneficiato delle solidità delle economie più forti, specie quelle tedesche.
L’export
Poi la crisi ci ha trascinato al crollo della domanda interna, al blocco degli stipendi e all’arresto de consumi, a cui si aggiunge, nel 2011, il «rischio Paese». Le imprese più dinamiche, dalla manifatturiera alla meccatronica, si sono orientate verso i mercati esteri, e dal 2012 l’export ci sta salvando. Una ripresa faticosa e ancora lontana dai «soci» europei, che nel rapporto debito-pil stanno a quota 90, mentre noi siamo a 132,6.
La ricerca
Eravamo in coda negli investimenti in ricerca e sviluppo negli anni 60, e lo siamo ancora oggi: 1,3% del pil contro il 2,3%. Gli altri Paesi fondatori hanno da sempre, più o meno, investito il doppio di noi. Il dato curioso è che abbiamo un numero di dipendenti occupati nella ricerca non lontano dalla media europea: 1,12% rispetto all’1,42%.
Il tasso di disoccupazione a 2 cifre ce lo trasciniamo dalla metà degli anni 80. C’è stato un bel recupero con il passaggio all’euro, ma dal 2012 siamo tornati a numeri preoccupanti: 11,9% contro una media del 7,5%. L’Italia è in ritardo in generale sul lavoro: il numero di persone in attività è sempre stato più basso, nel 1960 lo scarto era del 5% , oggi supera il 12%. In Italia lavora il 57% della popolazione contro il 69% della media europea. Una differenza dovuta al fatto che le donne lavorano meno. Negli anni 60 erano più occupate in agricoltura, negli anni 80 si è recuperato terreno, (forse un riflesso del femminismo), per poi precipitare, ed allontanarsi sempre di più dalla media europea.
Il gap nei salari
Le donne italiane guadagnano il 5% meno degli uomini, ma la distanza rispetto all’Ue è minore. In Germania nel 2015 hanno guadagnato mediamente il 22% in meno rispetto ai loro colleghi maschi.
Siamo invece il Paese con il più alto numero di automobili: 61 ogni 100 abitanti, contro i 54 dell’Europa a 6. C’è un perché: non siamo messi bene con il trasporto pubblico.
Come in guerra
Altro dato preoccupante: tutti gli europei sono poco prolifici, però noi siamo a livelli molto bassi a partire dalla metà degli anni 60. Il dato allarmante è che negli ultimi 2 anni la popolazione italiana sta diminuendo. Di solito succede durante la guerra. Una conseguenza anche attribuibile al fatto che si sposta sempre più in là nel tempo il ciclo di vita (prima finisco di studiare, poi mi cerco un lavoro, quindi metto su famiglia e faccio figli). Oggi le donne arrivano sempre più spesso a fare il primo figlio al limite del tempo massimo. L’età media è di 32 anni contro il 30,9 dei paesi fondatori.
I laureati
L’Istat registra che le donne italiane si laureano di più rispetto al resto d’Europa, però il dato complessivo dei laureati ci vede all’ultimo posto con un 26,2%. Quindi meno laureati, ma anche meno capaci di utilizzare le nozioni imparate a scuola, perché l’università non indirizza all’applicazione concreta. La ricaduta è una minore competenza rispetto a francesi o tedeschi.
Un dato positivo: siamo passati da Paese con la più alta mortalità infantile entro il primo anno di vita, a quella più bassa: 2,8 per mille contro il 3,4. Altra notizia fantastica, siamo il Paese più longevo d’Europa e il secondo al mondo. Questo grazie alla qualità del nostro sistema sanitario, dell’attività di prevenzione e uno stile di vita più sano.
Un Paese di anziani
Il rovescio della medaglia è che stiamo diventando un Paese di anziani; noi che alla fine degli anni 50 eravamo tra i Paesi più giovani, con metà della popolazione poco più che trentenne, oggi supera i 45. Ma anche il resto d’Europa è brizzolato, e questo sarà un problema, perché bisogna produrre ogni anno un Pil che garantisca le condizioni di vita a cui ci siamo abituati.
Se le teste che lavorano sono poche, il Pil complessivo resta basso. Sarà complicato uscirne se non si rivedono le politiche della famiglia, e in modo strutturato quelle migratorie, perché dall’altra parte abbiamo la Cina: un colosso di un miliardo e mezzo di persone.
Solo un’Europa integrata (così detestata dai movimenti populisti) permette di affrontare i problemi che la dimensione di uno stato nazionale non potrebbe mai risolvere da solo.
Corriere 21.10.17
Nelle strade di Raqqa vincitori, mine e macerie Viaggio nella «capitale del Califfato», dalla piazza delle esecuzioni allo stadio-prigione: i graffiti dei torturati, il manuale dei carcerieri
dal nostro inviato a Raqqa Lorenzo Cremonesi
Gli spogliatoi dei calciatori trasformati in celle, la piccola palestra in camera di tortura con i ganci per le impiccagioni al soffitto, i gabinetti in pertugi per l’isolamento delle punizioni prolungate. Da tempo non giocavano più a pallone i guardiani dell’Isis: avevano riconvertito lo stadio di Raqqa nel carcere centrale del «Califfato», che per almeno tre anni ha rappresentato il cuore del sistema di controllo, minaccia e castigo sulla popolazione, ma anche, e negli ultimi tempi soprattutto, contro i suoi militanti che sempre più numerosi cercavano di disertare e scappare verso le linee curde.
«Attenti alle cariche inesplose. Ci sono bombe e trappole ovunque», avvisa il miliziano curdo che ci scorta. L’accesso è sotto le tribune. Ma gli scalini sono coperti di calcinacci, l’inferriata che separava il campo da calcio dal pubblico è in parte divelta, le barre di ferro trasformate in lance arrugginite. Le bombe perforanti Usa hanno fatto scempio della struttura. Poi sono arrivate le granate e la devastazione della battaglia che strada per strada, casa per casa, negli ultimi cinque mesi ha portato all’impressionante distruzione della capitale dell’Isis.
Tutto attorno, macerie e silenzio. Una città di oltre duecentomila abitanti totalmente abbandonata. Come il cuore di Mosul, i nuclei della piana di Niniveh, parte di Aleppo, oltre a Tikrit, Falluja, Tal Afar, Amerli e centinaia tra villaggi e cittadine delle regioni sunnite al confine tra Iraq e Siria. Ma Raqqa è di più. Molto di più. A Mosul la parte orientale è sempre rimasta abitata e già oggi, meno di quattro mesi dopo la sconfitta di Isis, la città in qualche modo vede la popolazione tornare. Al contrario Raqqa è vuota, spettrale, un nucleo urbano di rovine. Con i negozi sventrati: attraverso le saracinesche divelte si vede la mercanzia abbandonata. Accanto, gli scheletri anneriti delle automobili bruciate, l’olezzo del cibo avariato, vestiti per la strada, stracci impolverati a segnare fughe precipitose, masserizie dei bivacchi dei soldati, lattine vuote. E tanti cani randagi, nervosi, spaventati.
La cerimonia
I responsabili dell’enclave curda-siriana hanno voluto organizzare ieri proprio nello stadio la cerimonia per la dichiarazione della vittoria. Non è un caso. Qui sono avvenuti gli scontri più feroci negli ultimi giorni. L’Isis aveva utilizzato le sue massicce strutture di cemento per montare l’ultima disperata resistenza. I suoi sotterranei sono ottimi rifugi da cui partono dedali di tunnel che permettono ottime vie di fuga e il lancio di imboscate dietro le linee nemiche. Ovvio che i capi del gruppo abbiano avuto tutto il tempo per allestire il carcere.
All’entrata sottoterra si trovano le cucine, gli archivi, gli uffici. Sul muro è appeso un cartello con le regole per gli interrogatori. «Ordini per il trattamento dei prigionieri al loro arrivo», si legge. «Verifica sempre che le informazioni siano vere. Sequestra documenti, portafogli e cellulari. Prendete le carte Sim, controllate le memorie, le immagini. Prendete le loro identità e le loro foto, che siano chiare». Attenzione agli stranieri: «Se non parlano arabo occorre un bravo traduttore, scrivete tutto e archiviatelo».
Il motivo di tanta meticolosità è evidente scorrendo i ghirigori di scritte sui muri della dozzina di grandi celle che seguono. Le inferriate sono state aggiunte solo di recente. Chiaro che qui non stavano anche tanti militanti. «Tra i prigionieri c’erano soprattutto quelli che non rispettavano le regole della legge religiosa e ovviamente i sospettati di voler disertare», racconta Hassan Ghadi, 38 anni, che tra il giugno-luglio rimase in cella 36 giorni. È lui a mostrarci la lugubre «cella 48», dalla larghezza dell’antro dove erano costretti in piedi i condannati all’isolamento. Ci sono scritte in francese, russo, ceceno, azero, inglese, turco. Sono firmate tra i tanti da Huzeyer Azeri, Abu Salman al Franci (il francese), Abu Saeed al Britani. Uno di loro scrive in arabo: «L’uomo non può ottenere tutto ciò che vuole. È come il vento che contrasta le rotte delle navi». Un altro osserva: «I muri sono i confini dei prigionieri. Ma ora non è rimasto nulla dentro di me, se non le lacrime dei mei occhi».
Avanzando per il corridoio scuro, con il pavimento coperto di calcinacci, le celle si fanno più strette. «Nelle prime erano rinchiusi anche oltre cento prigionieri alla volta. Ma in quelle più avanti venivano portati quelli destinati alla tortura. Le loro grida si sentivano soprattutto di notte», racconta un combattente curdo che è stato a sua volta chiuso qui dentro nel 2016. Nei periodi di massimo affollamento si era giunti a oltre 2.000 detenuti. Lui ci mostra la stanza delle torture. Vi si trovano due attrezzi per il sollevamento pesi. Una volta le usavano gli atleti per allenarsi. L’Isis le aveva trasformate in macchine per spezzare gradualmente la schiena ai detenuti. Una tortura lenta e letale, che lasciava alla vittima tutto il tempo per soffrire prima di spirare.
Pazienza e gps
Un jihadista di origine inglese consiglia a chi lo legge di «avere pazienza, tanta pazienza, e confidare in Allah». Spiega che uno dei motivi per le punizioni è l’impiego errato della rete e l’accesso ai «siti sbagliati». Osserva: «Se mi leggi probabilmente sei stato scoperto a utilizzare il tuo cellulare tenendo aperta la localizzazione del gps. Non lo puoi fare. È vietato, non rivelare mai la nostra posizione. Ora devi solo avere fiducia nella clemenza del Profeta e pregare». Un altro appena sotto sullo stesso muro nota in arabo che però, «qui la verità e la giustizia sono state dimenticate». Segnale che, specie negli ultimi tempi, serpeggiavano malumore e pessimismo tra i militanti jihadisti di Raqqa?
«Certamente sì», rispondono i comandanti curdi. «La situazione per loro ha iniziato a mutare quando non sono riusciti a prendere Kobane nell’autunno 2014. Sino ad allora l’Isis aveva continuato a ricevere volontari e a conquistare territorio. Poi è cominciata la loro progressiva ritirata sino alla sconfitta finale odierna», dicono festeggiando nello stadio in un tripudio di canzoni marziali e sventolio di bandiere. Una verità confermata anche da Mohammad Abdallah, un sunnita 22enne di Raqqa che adesso scrive per un sito online locale e ha scelto di affiancarsi alla causa curda e di plaudire entusiasta all’intervento Usa. «Inizialmente la grande maggioranza della popolazione sunnita si è schierata con l’Isis. Nessuno criticava i loro metodi brutali, neppure le decapitazioni o le teste mozze infilate sulla palizzata in Piazza Inferno», racconta accompagnandoci nella piazza in un viale circondato di macerie a circa 300 metri dallo stadio. A suo dire la svolta fu nel gennaio 2015, quando crescevano le liste dei caduti sotto le bombe americane: «Con le sconfitte militari sono cresciute le imposizioni contro la libertà di movimento delle donne. Gli uomini hanno dovuto far crescere lunghe barbe e accorciare i baffi. Poi ci sono state le prime crocifissioni per i cosiddetti infedeli. E la gente ha preso le distanze». Parole che sintetizzano la sfida che attende i vincitori: riusciranno ad avviare il dialogo coi sunniti? Sapranno trasformare la vittoria in successo politico? A visitare i campi profughi attorno a Raqqa i dubbi emergono. In quello di Ain Issa, i giovani sunniti di Raqqa, ma anche della vicina Deir Azzor, affermano aggressivi che non accetteranno mai di essere governati da Bashar Assad. «Quello di Damasco è un regime criminale, che è sopravvissuto grazie all’aiuto di russi, sciiti e iraniani. Non ci sarà pace sino a quando prevarrà questo stato di cose». Una posizione diversa dai curdi siriani, che comunque sono bene attenti anche adesso ad evitare lo scontro frontale con il regime e parlano di «Siria unita, democratica e federale».
Familiari
Probabilmente la prova del nove per una coesistenza pacifica sarà il trattamento delle centinaia di famigliari dei 275 combattenti Isis locali che una settimana fa hanno accettato di arrendersi (ora in una prigione curda). Assiepati in tende di fortuna alla periferia di Ain Issa, sono controllati a vista dai militari. Nessuno può uscire dal campo , gli interrogatori sono serrati. «Sono tutti filo-Isis. Si nascondono terroristi tra loro», mettono in allerta le sentinelle. Come dopo ogni evento bellico con vittime e distruzioni il sospetto regna sovrano. La polvere soffocante che domina sulle rovine di Raqqa prenderà ancora tempo prima di dissiparsi.
Repubblica 21.10.17
L’intervista. Parla il ministro dell’interno tedesco, Thomas De Maizière
“La situazione nei campi libici non è accettabile Sosteniamo l’Italia e la Spagna contro i trafficanti”
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO. La situazione nei campi profughi in Libia «non è accettabile». A denunciare l’«improponibile » situazione dei rifugiati nel Paese di Serraj è il ministro dell’Interno tedesco, Thomas De Maizière. In quest’intervista esclusiva con Repubblica in occasione del G7 in Italia sulla Cybersicurezza, il politico cristianodemocratico esplicita l’appoggio della Germania ai Paesi affacciati sul Mediterraneo come Italia e Spagna. Mentre sulla lotta al terrorismo islamico, De Maizière si dice convinto che serva una maggiore convergenza dei Paesi europei sullo scambio di informazioni e avvisa che i recenti successi militari contro l’Isis non ci debbano illudere: «L’Europa era, è e sarà nel mirino del terrorismo islamico ». Infine, sulle recenti elezioni austriache e i timori che il nuovo governo Kurz possa aggiungersi ai ‘signori no’ del Quartetto di Visegrad, il ministro taglia corto: «L’Austria resterà europeista ».
De Maizière, come giudica la situazione nei campi profughi libici?
«Dal punto di vista umanitario la situazione nei campi profughi libici non è accettabile. Secondo quanto ci viene riferito, le condizioni continuano a essere improponibili. È importante che finalmente Unhcr e Iom abbiano accesso a tutti i campi profughi. La cancelliera Merkel ha deciso che la Germania da sola metterà subito a disposizione 50 milioni di euro per l’assistenza ai profughi nei campi. In tal modo sono possibili notevoli miglioramenti delle condizioni nei centri profughi».
Che cosa propone per migliorare la situazione nel Mediterraneo? I migranti continuano a cercare nuove rotte.
«Appoggiamo i Paesi affacciati sul Mediterraneo, l’Italia e in futuro probabilmente in misura maggiore anche la Spagna, e puntiamo alla lotta contro le cause che inducono i profughi a lasciare i loro Paesi di origine e a una migliore cooperazione con gli Stati di transito. Insieme dobbiamo distruggere il modello di business dei trafficanti, rafforzare la guardia costiera libica ed effettuare i rimpatri nei Paesi di origine dai campi profughi in Libia».
Un Paese con cui l’Italia si è scontrata sui profughi e sui controlli al Brennero come l’Austria ha votato. E si è spostato a destra. Teme che il nuovo governo Kurz possa aggiungersi ai ‘signori no’ sui profughi, al Quartetto di Visegrad?
«L’Austria ha votato e ora, come del resto anche in Germania, si sta formando un governo. Bisogna attenderne la formazione. Quello che conta non è la direzione, ma la sostanza. L’Austria resterà europeista».
Alla luce degli attentati islamici degli ultimi anni non pensa che servirebbe un’accelerazione sulla maggiore convergenza dell’Europa sulla sicurezza?
«Ci stiamo impegnando in questo senso. Gli Stati dell’Ue collaborano già strettamente nel campo della sicurezza e della lotta al terrorismo. Negli ultimi due anni abbiamo fatto più progressi che in molti anni precedenti. Dobbiamo procedere su questa strada. Uno dei grandi compiti da affrontare nel prossimo futuro è l’ulteriore miglioramento dello scambio di informazioni. Questo è uno dei punti fondamentali».
Pensa che sia ancora grande il pericolo di attentati in Europa?
«L’Europa era, è e sarà anche in futuro nel mirino del terrorismo islamico. Siamo un’area geografica esposta a pericoli e ciò sottolinea l’importanza di formulare risposte comuni. In passato abbiamo visto che un attentato può essere compiuto in qualsiasi momento. Pur non accettando questa situazione, purtroppo dobbiamo conviverci ».
Corriere 21.10.17
Leader globale? Xi
Il suo «Pensiero» (dal liberismo all’ambiente) apre una nuova era in Cina. E, in assenza di altri capi autorevoli, vuole dare indicazioni anche al resto del mondo
dal corrispondente a Pechino Guido Santevecchi
Un leader imperiale per un Paese di oltre 1,3 miliardi di anime attraversato da grandi differenze culturali e sociali, da tenere insieme con mano forte? O anche uno statista globale con molte risposte per le incertezze del mondo? Xi Jinping è al potere dal 2012 in Cina e il Congresso del Partito comunista sta decidendo (in realtà tutto è già stato stabilito da tempo in segreto) se sia il caso di iscrivere nella sua Costituzione «Il Pensiero di Xi». Dovrebbe essere uno dei due risultati incerti del conclave che si concluderà mercoledì, insieme con la lista dei nuovi membri del Politburo.
Ma la parola «si xiang», pensiero, associata al nome di Xi, viene ripetuta incessantemente in queste ore dai mandarini comunisti. L’ha lanciata anche l’agenzia Xinhua aggiungendo che si tratta di 14 principi fondamentali da mettere in pratica per adattare il marxismo alle esigenze cinesi ed entrare nella «nuova era». Comunque vada, lo «xiismo» è nato, dopo il maoismo, e in Cina non può essere messo in discussione.
Un segnale chiaro è venuto da una dichiarazione al Congresso di Liu Shiyu, capo della Commissione sulla sorveglianza della Borsa: «Xi Jinping ha salvato il Partito e lo Stato sventando un colpo di palazzo» da parte di alti dirigenti. «Hanno complottato per usurpare la leadership del Partito e prendere il controllo dello Stato», ha spiegato Liu e ha aggiunto il nome di uno dei colpevoli: Sun Zhengcai, fino a questa estate capo di Chongqing, megalopoli da 33 milioni di abitanti. Sun a 54 anni era in corsa per un posto nel Comitato permanente del Politburo ed era abbastanza giovane per poter sperare nella suprema promozione al posto di Xi, nel 2022. Invece è caduto ed è finito in carcere. Finora si era parlato delle solite «serie violazioni disciplinari» (sinonimo di corruzione e ruberie). La nuova accusa di usurpazione del potere sancisce che solo Xi può reclamarlo. Nonostante la forza del segretario generale e presidente della Repubblica, nonostante il suo indubbio carisma, la sua spietata campagna anticorruzione che ha decimato letteralmente il Comitato centrale, qualche ombra dunque rimane a Zhongnanhai, l’ex giardino imperiale dove ora risiedono i massimi dirigenti.
Ombre, ma al momento Xi è il nuovo imperatore cinese. La Repubblica popolare è entrata nella sua terza fase, dopo il trentennio di Mao Zedong che riscattò il Paese fondando lo Stato comunista, dopo Deng Xiaoping che soccorse l’economia, è il momento di Xi che ci fa sapere di aver salvato il Partito, anche con le purghe di corrotti che delegittimavano il sistema (e lo insidiavano personalmente). Xi, che ha tracciato progetti fino al 2050, ha nelle mani una Cina diventata grande potenza economica e reclama un ruolo di guida mondiale. Gli manca solo il titolo di statista globale.
E anche per questo obiettivo ha una strategia e una chiara visione sul futuro delle relazioni internazionali. È aiutato dalla confusione della presidenza Trump, che minaccia protezionismo commerciale, soluzioni militari con Iran e Nord Corea, non crede negli Accordi di Parigi sul contrasto al riscaldamento terrestre. E anche dai leader europei costretti a discutere di Brexit dura o morbida e immigrazione clandestina.
Quando parla di relazioni internazionali Xi dà il meglio di sé, in termini di concretezza. Ha proposto le Nuove vie della seta contro il protezionismo; nel discorso fiume al Congresso ha detto che «ogni danno all’ambiente perseguiterà l’umanità nel futuro»; ha offerto di costruire una «comunità del destino condiviso» che promette di perseguire l’interesse nazionale tenendo in conto le ragionevoli aspirazioni e preoccupazioni degli altri Paesi.
Restano i dubbi: la Cina può essere decisiva per disinnescare la minaccia nordcoreana, ma per decenni l’ha protetta e coltivata come arma di ricatto verso Usa, Sud Corea e Giappone. Sulle Vie della seta può sfogare il suo eccesso di capacità produttiva. Impone alle imprese occidentali di condividere (cedere) la loro alta tecnologia per poter entrare nel suo mercato. Ha costruito e fortificato isole artificiali nel Mar cinese meridionale. Vuole proteggere l’ambiente, ma intanto i suoi cieli sono coperti da uno smog irrespirabile per la maggior parte dell’anno.
Xi parla di un «Sogno cinese» per il proprio Paese e per il mondo. Al momento è in vantaggio, per mancanza di concorrenti. Ma per i cinesi che non lo seguono il sogno è l’incubo della repressione, come ci ha ricordato la morte terribile del Nobel Liu Xiaobo, tenuto sotto sorveglianza da malato terminale. Intanto, chi volesse farsi un’idea del Pensiero di Xi, può leggere il suo libro «Governare la Cina», stampato in 6,5 milioni di copie, appena tradotto anche in italiano e albanese. Perché Xi guarda al mondo intero.
Corriere21.10.17
«Così entro nella testa di Hitler e Mussolini»
Sokurov pronto a girare un film sull’incontro tra i due dittatori: voglio svelare i segreti dei loro caratteri
di Giuseppina Manin
Cosa pensava Mussolini quando si incontrò per la prima volta con Hitler a Venezia? E il Führer, fisicamente complessato, che sensazioni provò di fronte a quel Benito macho e muscoloso, così diverso da lui? E Churchill e Stalin, quanto si detestavano in segreto? «A guardare a fondo in quegli animi, la storia forse svelerebbe altre ragioni insospettabili» suggerisce Alexandr Sokurov, Leone d’oro a Venezia per un Faust visionario, grande esploratore del secolo breve e dei suoi tragici eroi, da Hitler ( Moloch ) a Lenin ( Taurus ) a Hirohito ( Il Sole ).
Un’indagine sul potere e le sue anime morte che il regista siberiano ora porta avanti in Italia con un nuovo film, scritto con la sua collaboratrice di sempre, Alena Shumakova, coprodotto tra Russia e Italia, partner Rai Cinema, l’Istituto Luce e Avventurosa.
La risata tra le lacrime (titolo non definitivo) è un nuovo passo nell’orrore del Novecento, che vedrà Mussolini a confronto con altre tre figure cardine, Stalin, Hitler, Churchill. «Mi sono spesso chiesto quanto le loro decisioni, così fatali nella Seconda guerra mondiale, fossero dettate dal loro carattere. La mia ambizione è entrare nella “cucina dei tiranni”, capire cosa pensavano, cosa mangiavano, cosa preparavano. Per farlo devo penetrare le loro menti, dar voce ai pensieri più intimi, paure, desideri nascosti».
Impresa temeraria, i morti non parlano più. «Eppure il cinema può farli rivivere. Le loro immagini, le loro voci, sono ancora tra noi. Imprigionate in pellicole pronte a svelare segreti inconfessati e inconfessabili». La grande ricerca di Sokurov è così negli archivi del cinema. Di Mosca e Pietroburgo, della Cineteca del Friuli, del cinema amatoriale Home Movies, della Resistenza, della Fondazione Ansaldo. «E naturalmente del Luce, fondato dallo stesso Mussolini. Dove il Duce compare in un’infinità di materiali. Anche inediti, dove è colto in situazioni private, di solitudine, di svago, in vacanza, in famiglia. E così anche per gli altri protagonisti. Ciascuno reciterà se stesso, le loro voci fuori campo permetteranno di sentire il loro mondo interiore, i cambiamenti d’umore, i deliri di grandezza».
L’incontro tra Hitler e Mussolini a Venezia è emblematico: il Führer esangue nel goffo impermeabile e cappello floscio guarda con ammirazione il Duce muscoloso, in calzoni alla zuava, fez e stivaloni. «Tanto Benito appare disinvolto e sicuro di sé, tanto Adolf smorto e privo di carisma. Si può immaginare la sua invidia per quell’incantatore di serpenti che era Mussolini». Una seduzione di cui Sokurov si chiede le ragioni. «Perché è diventato leader? Chi era quell’uomo venuto dal nulla capace di sedurre folle povere e semianalfabete? Non era il diavolo. Piuttosto un attore, capace di mettere in scena lo spirito del suo popolo come nessun altro dittatore. Una figura interessante, ambigua, contraddittoria».
Per studiarla Sokurov ha lavorato sui gesti, sul volto del Duce, dilatando le immagini, isolando particolari. «Ma per entrare nella sua testa ho usato anzitutto la voce, ampliandone le frequenze fino a incontrare inquietanti aree acustiche. Lo spettro della sua voce è stato il luogo d’accesso al cervello di un intero popolo».
Il film nascerà così. «Senza girare una sequenza, utilizzando esclusivamente suoni e immagini di repertorio, da trasformare con effetti digitali in racconto di finzione. Per smascherare la sacralità dei “mostri della storia” e rivelarne la loro natura umana, ragione e causa di ogni tragedia ».
La mozione del Pd anti-Bankitalia scritta dalla Boschi
Conflitto di interessi - Il testo, mai discusso in nessuna sede ufficiale, non è uscito dall’ufficio legislativo del gruppo, ma da Palazzo Chigi
di Marco Palombi
Secondo Banca d’Italia quella famosa mozione che ha schierato il Parlamento contro il governatore della Banca d’Italia è “una vendetta per Banca Etruria”. Non lo dicono solo le fonti di Palazzo Koch, al solito anonime, lo grida anche il pezzo uscito ieri sul Corriere della Sera che racconta di come Ignazio Visco segnalò le “molte anomalie” dell’istituto toscano a pochi mesi dalla sua nomina ai vertici della banca centrale.
È una vendetta, insomma, dell’inner circle renziano per il tracollo di Etruria e la figuraccia che ha affossato il consenso del governo Renzi e trasformato Maria Elena Boschi (il cui padre era vicepresidente della banca aretina) da madrina delle riforme costituzionali a emblema del conflitto d’interessi: le sue mosse “informali” per salvare la banca da ministro, le sue ingerenze nella gestazione e nell’iter parlamentare delle leggi riguardanti il mondo del credito, la sua pubblica difesa dell’operato di suo padre (va ricordato: multato due volte da Bankitalia e una da Consob per il suo operato come “banchiere”). “E ora è arrivata la mozione”, concludono in Banca d’Italia: “Basta vedere dove è stata scritta”.
E dove? La risposta è meno semplice di quanto sembra, anche se il capro espiatorio esiste già: la “colpa” se la prenderà Silvia Fregolent, deputata che non s’era mai occupata di Banca d’Italia, Vigilanza bancaria e affini nella sua vita (non un atto parlamentare, né una dichiarazione in quasi cinque anni) e che martedì ha apposto la sorprendente prima firma sotto la mozione anti-Visco. Particolare non secondario: Fregolent è una “boschiana”, cioè nel sottoinsieme dei renziani è membra della piccola tribù che ha legato le sue sorti a quelle della sottosegretario Boschi.
Il capro espiatorio espia, si sa, nulla di nuovo, ma resta la domanda: stante che Fregolent non ha le competenze per scrivere quella mozione, chi l’ha scritta? Non è stato, ci assicurano fonti interne, l’ufficio legislativo del Pd alla Camera, che sarebbe il luogo deputato: d’altra parte l’uomo che nell’ufficio di presidenza del gruppo dovrebbe coordinare le mozioni, Andrea Martella (corrente “orlandiana”), è caduto dal pero quando l’ha vista in aula.
E peraltro, cosa poco sottolineata, quale organismo ufficiale ha discusso se e in che modo portare in aula una posizione politica così rilevante? Non il partito, non i gruppi parlamentari, neanche a livello di vertice. La richiesta di “discontinuità” ai vertici della Banca d’Italia è arrivata dal nulla: quella parola, peraltro, poi tolta dal dispositivo finale su richiesta di Paolo Gentiloni a Matteo Renzi. Il senso di quello richiesta, comunque, è rimasto nel testo arrivato in Aula, come l’attacco durissimo (e peraltro condivisibile) su opere e omissioni dell’attività di vigilanza di via Nazionale sul settore del credito.
E qui entra in scena un altro personaggio rivelatore: Pier Paolo Baretta, il sottosegretario al Tesoro che, a nome del governo, ha chiesto nell’Aula di Montecitorio di espungere dalla mozione l’ultimo paragrafo della premessa, volgarmente le contumelie sulla vigilanza farlocca di Palazzo Koch. Ecco, il buon Baretta – raccontano fonti di governo – ha avuto il bene di vedere un testo solo attorno alle tre del pomeriggio e non è stato il capogruppo dem – regista parlamentare della manovra – il primo a fornirglielo, ma una email di Palazzo Chigi, luogo di lavoro anche di Maria Elena Boschi e del suo esperto staff giuridico. “Sono loro ad aver scritto la mozione”, giurano in Banca d’Italia. “Arriva da lì”, giurano fonti di minoranza del Pd.
È il non dettoattorno a questa operazione politica la parte più inquietante di questa vicenda. Il premier Paolo Gentiloni può, per la propria sopravvivenza, far finta che il suo rapporto di fiducia con Maria Elena Boschi sia intatto e può chiedere di farlo ai suoi ministri, come Anna Finocchiaro, che con la sottosegretario ha avuto una lite furibonda.
La fiducia, si sa, è materia impalpabile e soggetta all’arbitrio: se Gentiloni ritiene di concederla, avrà i suoi motivi. Diverso è il conflitto di interessi di una deputata e membro del governo che continua a tornare sul luogo del delitto. Etruria è un piccolo pezzo delle vicende bancarie di questi anni, nelle quali Visco ha pesanti e più complessive responsabilità rispetto all’aver messo in imbarazzo quel premier poco competente o quella ministro e i suoi familiari. Un partito dovrebbe saperlo e proporre (e scrivere) mozioni che esprimono una linea politica, non le difficoltà di un pezzo di ceto politico.
Repubblica 21.10.17
La falsa ribellione
di Ezio Mauro
C’È un’evidente ansia da campagna elettorale permanente, ben più che una preoccupazione per la sicurezza dei correntisti bancari e dei risparmiatori, nell’offensiva di Matteo Renzi contro il governatore della Banca d’Italia Visco. Non c’è alcun dubbio che il tema del risparmio, del credito e della solidità delle nostre banche agiti la pubblica opinione, che dopo i casi Monte Paschi, Etruria e Vicenza si sente esposta, raggirata e ben poco tutelata dai meccanismi e dagli istituti di salvaguardia del sistema. Quindi è comprensibile e persino doveroso che i leader trattino la questione in vista del voto, quando è il momento del rendiconto sul passato e degli impegni per il futuro. Ma Bankitalia non è l’Anas o la Cassa del Mezzogiorno: e delle banche si può discutere, e anzi si deve, ma senza gettare un’istituzione di garanzia nel tritacarne del vortice elettorale.
Che ci sia stato un problema di vigilanza allentata e di sorveglianza miope sulle fragilità che le banche italiane camuffavano è ormai fuori dubbio, perché tutti abbiamo sentito per troppi anni i controllori garantire sulla solidità certa dell’impianto, a partire da via Nazionale, e dallo stesso Governatore.
MA SE si considera che questa miopia viene da lontano, anche prima di Visco, nasce una domanda obbligatoria: dov’era la politica nel frattempo, che cosa capiva e che cosa faceva?
Soprattutto, l’interrogativo è se la politica era dalla parte dei cittadini e dunque dell’interesse generale o piuttosto se era coinvolta negli ingranaggi più bassi che hanno rallentato e deviato il corretto procedere del mercato bancario: con una commistione insieme provinciale e onnipotente, che considerava il credito come un prolungamento della politica con altri mezzi, impropri ma utili a creare consorterie, consolidare confraternite, insediare nomenklature locali. Comperando consenso e potere, e inseguendo il conflitto d’interessi certificato dallo slogan “abbiamo una banca”, piuttosto che la cornice di garanzia costruita con l’obiettivo di poter dire “abbiamo una regola”.
Se si apre il libro delle responsabilità — in ritardo, con tutti i buoi già scappati e nutriti da un buon pascolo abusivo nel prato dei risparmiatori — il rendiconto deve essere dunque a 360 gradi e ogni soggetto politico e istituzionale della lunga stagione della crisi deve rispondere. A partire dalla Banca centrale, certamente, ma anche da chi ha avuto in questi anni responsabilità di governo e di indirizzo. Altrimenti si trasmette l’idea di un piccolo cortocircuito elettorale, con il giglio appassito che appicca l’incendio a via Nazionale perché non riesce a spegnere il fuoco che lo perseguita ad Arezzo.
E qui nasce un’altra questione, che va al di là della campagna elettorale e della stessa vicenda bancaria. Di fronte all’isolamento di cui ha parlato qui Stefano Folli, alla “biografia” civile di Bankitalia rievocata da Scalfari, Renzi ha infatti risposto ricordando che lui nasce rottamatore, e non intende cambiare. Forse non si è accorto che in questo modo ha evocato una natura più che una cultura, addirittura una postura mimetica invece che una politica. A parte la distorsione concettuale per cui la cosiddetta rottamazione per il segretario Pd si applica agli uomini, alle persone fisiche, e non ai loro progetti e alle loro azioni politico- programmatiche, viene da domandarsi quale sia l’universo di riferimento culturale di un leader se dopo tre anni di guida del governo è ancora prigioniero del ring agonistico di un wrestling sceneggiato che non finisce mai: dove lui e coloro che eleva di volta in volta ad avversari indossano maschere di comodo, sostituendo l’azione fisica all’azione politica.
Quando passa in rassegna il drappello d’onore della Repubblica, dopo aver ricevuto dal Quirinale l’incarico di formare il governo, anche lo sfidante più outsider si deve trasformare in uomo di Stato, facendosi carico di una responsabilità complessiva, che naturalmente interpreterà secondo la sua cultura e la sua vocazione politica. Renzi sembra fermo al ground zero della sua avventura nazionale. Senza avvertire che quella sfida iniziale ha portato nel sistema una fortissima tensione per il cambiamento, ma quando il cambiamento non si è realizzato la sfida permanente ha lasciato sul campo soltanto la tensione, che Gentiloni sta stemperando a fatica.
In questo ribellismo delle élite c’è la sciagurata illusione di inseguire il grillismo sui suoi temi, impiegando il suo linguaggio e mimando la sua riduzione della politica a continua performance, in una sollecitazione perenne dell’elettorato contro nemici ogni volta diversi, ma che evocano costantemente il fantasma della casta. È la costruzione succube di un universo gregario. Anche se in realtà Renzi insegue il se stesso delle origini, senza capire che proprio l’esperienza di governo dovrebbe aver arricchito il rottamatore trasformandolo in ricostruttore.
Resta una domanda: il Pd tutto questo lo sa? Ha mai discusso di questi temi? Ha mai chiesto al segretario di illustrare politicamente la sua cultura invece di limitarsi a esibire la sua natura? Ma arrivati a questo punto, proprio qui, si dovrebbe aprire la questione decisiva della natura del Pd: che resta l’unico segreto davvero custodito in Italia.
Il Fatto 21.10.17
Il treno di Renzi in fuga dal voto siciliano
di Pietrangelo Buttafuoco
Matteo Renzi col suo convoglio ferroviario è dappertutto fuorché in Sicilia dove pure è in corso una campagna elettorale. Cento e rotti sono le province da visitare. Non però tra i ciuri-ciuri.
Niente Sicilia. Treno per l’Italia è. Non certo un Ferribotte a uso di Cariddi. La fine corsa è a Scilla. Ed è significativo tutto ciò. Da un lato rivela quanto al capo del Partito democratico possa fottergliene di Palermo e della Trinacria tutta, dall’altro – furbo, anzi, furbastro – pensa di farla franca di fronte alle sue precise responsabilità.
Una su tutte, andare a spiegarsi con i cittadini siciliani dopo lo sciagurato governo di Rosario Crocetta, il pupillo di tutte le Leopolde, il campione dei campioni del renzismo fatto cassata, il capo branco della potentissima congrega degli illusionisti capaci – come sono stati capaci – di buggerare perfino i disabili, quelli strenuamente difesi da Pif sul piazzale del Palazzo della Regione.
Spiegarsi e spiegare, dunque, quella che per il suo partito non sarà certo una sconfitta, piuttosto una disfatta. E fa bene Fabrizio Micari, a questo punto, a sposarsi dieci giorni prima delle elezioni regionali. Il candidato di Renzi alla presidenza della Regione siciliana – il rettore dell’università di Palermo e nulla più – convola a nozze nel bel mezzo della campagna elettorale. E così, povero figlio, visto che non potrà certo chiedere ai siciliani di sottoscrivere la lista nozze presso il seggio, nella cabina elettorale, almeno un festino potrà averlo.
Renzi avrà di certo la bomboniera, intanto fa ciao ciao dal finestrino assaporando il paesaggio di un’Italia accondiscendente – quella delle sue truppe cammellate – ma non glielo porta il suo trenino, oltre lo Stretto.
Peccato, però, c’è pur sempre il suo più che proclamato Ponte di Messina ad accoglierlo. Dovrà varcarlo prima o poi e così “asfaltare” Beppe Grillo che quel braccio di mare, arretrato com’è, se lo fa a nuoto. Nella Sicilia dove non arrivano i treni, Renzi, potrebbe costeggiare la Messina-Catania. Giusto quella dove ancora non si smuove la frana che ha cancellato la carreggiata. Ancora meglio potrebbe sferragliare sulle rotaie che inseguono la Palermo-Catania. È l’arteria stradale dove s’inginocchiò il pilone – la via rotta che spezzò in due la Sicilia – giusto dove lui, dopo più di un anno, ebbe a fare la scena di riaprire al traffico la corsia superstite al crollo. Con tanto d’inaugurazione. Spacciando per aggiustata la parte che non s’era mai sfasciata.
Ci sono quindi le delicatissime e importantissime elezioni regionali e il segretario del partito attualmente al governo se la fa alla larga ravanando per distrarre – in nome di “un potere più forte”, per dirla con le parole del notista di Repubblica Stefano Folli, “di quello esercitato da Gentiloni e Mattarella” – tutto un repertorio di banalità ad alto tasso glamour.
La propaganda di sua renzità – il Treno per l’Italia – è tutta fuffa in attesa del ritorno di tutti i giochi consociativi, è tutta panna per il giornalismo corrivo, è la cosiddetta narrazione de #italiacambiaverso. Appunto, sì. Il cambia verso. Per voltare le spalle per sempre alla Sicilia.
Il Fatto 21.10.17
Camusso (Cgil): “Questo governo è uguale al precedente”
Per Susanna Camusso, “il governo Gentiloni si sta muovendo in continuità con quanto fece il governo Renzi”. La segretaria della Cgil l’ha dichiarato in un’intervista che sarà pubblicata oggi sul sito www.strisciarossa.it, fondato da un gruppo di giornalisti provenienti da l’Unità e da altre testate. Secondo la Camusso, ora nel governo “c’è un atteggiamento meno strafottente nel rapporto con le parti sociali”. Ma “questa legge di Bilancio è priva di qualunque idea sulla prospettiva…”. Un altro affondo: “Il governo, per i giovani, si era impegnato a creare una pensione di garanzia. L’hanno completamente cancellata. Allo stesso modo si sono contraddetti sulla necessità di riformare la legge Fornero”. Un passaggio anche su Bankitalia e la mozione del Pd anti Visco: “È come se si dicesse: non voglio permettere che i 5Stelle facciano la campagna elettorale sugli scandali bancari e sui legami che hanno con la politica e quindi indico un colpevole”. Poi un pensiero sulla sinistra italiana: “Avere una sponda è fondamentale per il sindacato. Non c’è dubbio che c’è un vuoto… Non è solo una questione che riguarda il posizionamento parlamentare… la sinistra non c’è, se non ci sono cittadini che partecipano”.
il manifesto 21.10.17
Non solo Weinstein, come vincere la paura anche nel mondo scientifico
di Monica Zoppè
Si fa un gran parlare del caso Weinstein, che sta scuotendo il mondo del cinema, e (speriamo) non solo. E’ senz’altro molto positivo il fatto che il tema sia, per così dire, sdoganato.
Per adesso parlano solo alcune donne, le più forti, quelle che se lo possono permettere, che non sono ricattabili, né a rischio di perdere il lavoro o altro. Sarebbe naturalmente positivo se tutte potessero denunciare in sicurezza, ma più importante è che ne parlino gli uomini.
Personalmente non sono convinta che il meccanismo della punizione funzioni. Servirebbe una presa di coscienza e un cambio di mentalità.
Tra le possibili prede di questi uomini, ce ne sono che hanno saputo dire di no. Molte di queste hanno poi subito le conseguenze del loro rifiuto, in termini di avanzamento di carriera, di offese, quando non addirittura di mobbing o licenziamento.
Nel momento in cui un uomo di potere ti mette gli occhi addosso, tu hai già perso, comunque vada a finire.
Io penso che in una società civile ed evoluta nessuna persona dovrebbe poter esercitare un tale potere su un’altra, abusandone senza conseguenze. La prima cosa da fare in questi casi è di togliere a questi uomini gli strumenti per abusare del potere che hanno. La seconda è far capire perché la loro condotta è sbagliata ed inaccettabile, sperando che ci arrivino (sono spesso persone per molti versi capaci ed intelligenti).
Ma tornando alle donne che hanno subito senza accettare: come possono essere risarcite del danno? Qualcuno pagherà? E’ anche difficile dimostrare cose che non sono successe, il che rende la situazione ancora più complessa.
Anche qui, l’importante è che questi uomini siano rimossi dalla posizione di potere in cui (praticamente tutti) ancora si trovano. Forse ci vorranno anni, forse generazioni, ma noi continueremo a lavorare perché il futuro delle nostre figlie sia migliore del nostro, tanto quanto hanno fatto le nostre madri.
Il mondo del cinema non è l’unico in cui gli abusi di uomini di potere nei confronti di ragazze spesso, ma non necessariamente, giovani avvengono con regolarità. Nell’ambiente dello sport si iniziano a sentire alcune denunce, ed avviene anche nell’ambiente scientifico.
In questo caso, forse più che in altri, le denunce sono importanti, perché l’ambiente scientifico viene spesso percepito come un’isola felice, in cui tutte le persone (di supposta intelligenza e preparazione superiore) agiscono nel migliore modo possibile.
Diversi episodi sono venuti alla luce nell’ultimo periodo, in tutti i campi delle scienze
. In particolare, gli ambienti più difficili per le donne, dal punto di vista delle molestie, sono quelli delle scienze applicate sul campo: archeologia, geologia, antropologia e simili, cioè campi in cui le ricerche si svolgono almeno in parte a piccoli gruppi in missione per un periodo di diversi giorni o settimane.
Mi ha particolarmente colpito il caso di una donna che ha subito aggressioni gravi da studentessa, il cui professore l’aveva minacciata di stroncarle la carriera se avesse parlato. Ebbene, questa donna, a 20 anni di distanza, non appena raggiunta una posizione permanente presso un’università, ha denunciato. Ha dovuto aspettare 20 anni. Anche nel suo caso, una volta aperto il vaso, molte colleghe e colleghi si sono fatte avanti confermando ‘quel che tutti sapevano’.
Così come nel cinema il caso ha investito il luogo più sacro, Hollywood, anche nella scienza, lo scandalo è scoppiato in uno dei templi della ricerca: Boston.
In Italia, abbiamo solo sentito Asia Argento confermare che anche da noi le molestie sono presenti (anzi, probabilmente rampanti), ma siamo ancora lontane dal sentirci libere di denunciare i molestatori.
Quello di cui avremmo bisogno è un sistema di protezione che permetta alle donne di non dover subire ulteriori conseguenze (oltre a quelle già subite), e che le incoraggi a portare a galla la situazione, con lo scopo di cambiarla. Solo così potremo sperare che si raggiunga finalmente un atteggiamento diverso, in generale nella società.
Alcuni uomini hanno iniziato a ragionare e prendere posizione: anche loro sono da incoraggiare, perché anche loro possano denunciare, anche solo con la testimonianza, tutte le volte che il potere viene abusato.
*Associazione Donne&Scienza
Il Fatto 21.10.17
“Le indagini a Siena su David Rossi, roba di un altro mondo”
L’ex procuratore capo di Firenze: “C’è stata tanta superficialità. Sono davvero sorpreso da tutte queste sviste”
di Davide Vecchi
Ascolta con attenzione l’elenco delle falle individuate nella prima inchiesta svolta sulla scomparsa di David Rossi, il manager di Mps e braccio destro di Giuseppe Mussari, trovato morto la sera del 6 marzo 2013. Una vicenda per ben due volte liquidata dalla Procura di Siena come suicidio, seppure in entrambe i decreti di archiviazione ci siano evidenti errori. Ascolta i dettagli. I sette fazzoletti sporchi di sangue distrutti da un magistrato senese, Aldo Natalini, senza prima analizzarli e ancora prima che la fase delle indagini si fosse conclusa. Dei telefonini di Rossi usati da qualcuno degli inquirenti entrati nell’ufficio del manager dopo la sua morte. Delle mancate acquisizioni di tabulati, video di sorveglianza. Ascolta tutto. Solo alla fine prende la parola: “Ho sentito cose strane”, francamente “mai sentite nella mia modesta esperienza”. Modesta è un eufemismo: 47 anni trascorsi in magistratura la maggior parte dei quali nella veste di procuratore capo di Firenze.
Ubaldo Nannucci, classe 1933, ha dedicato la vita alla giustizia. E di cadaveri, omicidi o presunti suicidi, ne ha visti fin troppi. Basti pensare che si è occupato da procuratore capo di tutti i duplici delitti del mostro di Firenze. Insomma: un’esperienza decisamente non modesta, la sua. Così, dopo aver assistito nel capoluogo toscano alla presentazione del libro Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto (edito da Chiarelettere), prende la parola per esprimere tutto il suo stupore. “Quando c’è una morte per causa sconosciuta si chiama la polizia scientifica, la quale fa una repertazione accurata di tutti gli elementi, viene steso un verbale, ogni elemento viene sigillato in una apposita busta, tutto l’insieme di questi elementi costituisce materiale essenziale per lo sviluppo dell’indagine. Sento dire, leggerò il libro e cercherò di capire”. Ieri il Fatto lo ha ricontattato.
Procuratore ha letto?
Sono un po’ sorpreso.
Da qualcosa in particolare? Da come sono state svolte le indagini in generale?
Effettivamente è un modo di procedere disinvolto, diciamo così.
Cominciamo dai reperti?
I fazzoletti col sangue che sono spariti, ad esempio, mi pare francamente un altro mondo.
Distrutti. Prima ancora che il gip disponesse l’archiviazione o un supplemento di indagini.
Sicuramente qualche superficialità c’è stata.
Gli inquirenti hanno risposto almeno a una telefonata dal cellulare di Rossi.
Non capisco, guardi. Solitamente la procedura è una. La polizia scientifica interviene e prima di tutto fa le foto dell’ambiente, reperta ogni oggetto e cerca le impronte. Tutto viene repertato e sequestrato, viene stilato un verbale e quel materiale viene trasmesso all’ufficio dei corpi di reato dove viene analizzato a seconda delle necessità dell’inchiesta.
E conservato?
Sono elementi indispensabili per le indagini.
Lei ha recentemente pubblicato un libro con Aracne editrice dal titolo Storia critica delle leggi di ordinamento giudiziario inerente proprio ai guai della giustizia.
Sì, nel testo suggerisco anche i possibili rimedi ma ai guai della giustizia, sullo svolgimento delle indagini, diciamo che il metodo è quello che ho enunciato poc’anzi.
Nelle carte di Siena ci sono anche degli errori evidenti. Nel secondo decreto di archiviazione, ad esempio, il gip scrive che un testimone è stato sentito e invece non è vero. A lei è capitato di trovarsi di fronte decreti con degli errori simili?
Mai. E mi sorprende, francamente è una svista notevole.
Il procuratore capo di Siena Salvatore Vitello, incalzato da Le Iene, non ha voluto rispondere nel merito dell’errore ma ha detto che se i familiari presenteranno istanza per riaprire il caso lui darà seguito.
Non l’hanno mai richiesto?
Almeno tre volte. Di cui uno alla Procura generale di Firenze che non ha avocato ma ha trasferito gli atti di nuovo a Siena. Inutilmente.
Beh, sicuramente i legali dovrebbero individuare e far emergere nuove risultanze, penso sia l’unica strada per far riaprire le indagini. Anche se…
Anche se?
Sono passati diversi anni.
I reperti sono stati distrutti, molti elementi non sono stati acquisiti, alcune persone mai individuate né sentite. Insomma: dopo ormai quattro anni e tutto questo è difficile?
Già.
Corriere 21.10.17
L’Italia longeva che cerca lavoro e fa meno figli
di Milena Gabanelli
L’Istat ha fatto un lavorone: ha analizzato l’Italia e l’Europa durante i 60 anni di matrimonio. Il confronto è esteso anche all’Ue a 28, ma qui ci guardiamo allo specchio fra i sei Paesi fondatori, quelli che nel ’57 diedero vita alla Cee firmando il Trattato di Roma. All’epoca Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo erano più o meno nella stessa barca.
Da allora la struttura produttiva è cambiata profondamente, ma almeno fino al 2008, le economie di questi Paesi sono andate convergendo, il potere d’acquisto procapite ha avuto una crescita impetuosa, e noi abbiamo anche beneficiato delle solidità delle economie più forti, specie quelle tedesche.
L’export
Poi la crisi ci ha trascinato al crollo della domanda interna, al blocco degli stipendi e all’arresto de consumi, a cui si aggiunge, nel 2011, il «rischio Paese». Le imprese più dinamiche, dalla manifatturiera alla meccatronica, si sono orientate verso i mercati esteri, e dal 2012 l’export ci sta salvando. Una ripresa faticosa e ancora lontana dai «soci» europei, che nel rapporto debito-pil stanno a quota 90, mentre noi siamo a 132,6.
La ricerca
Eravamo in coda negli investimenti in ricerca e sviluppo negli anni 60, e lo siamo ancora oggi: 1,3% del pil contro il 2,3%. Gli altri Paesi fondatori hanno da sempre, più o meno, investito il doppio di noi. Il dato curioso è che abbiamo un numero di dipendenti occupati nella ricerca non lontano dalla media europea: 1,12% rispetto all’1,42%.
Il tasso di disoccupazione a 2 cifre ce lo trasciniamo dalla metà degli anni 80. C’è stato un bel recupero con il passaggio all’euro, ma dal 2012 siamo tornati a numeri preoccupanti: 11,9% contro una media del 7,5%. L’Italia è in ritardo in generale sul lavoro: il numero di persone in attività è sempre stato più basso, nel 1960 lo scarto era del 5% , oggi supera il 12%. In Italia lavora il 57% della popolazione contro il 69% della media europea. Una differenza dovuta al fatto che le donne lavorano meno. Negli anni 60 erano più occupate in agricoltura, negli anni 80 si è recuperato terreno, (forse un riflesso del femminismo), per poi precipitare, ed allontanarsi sempre di più dalla media europea.
Il gap nei salari
Le donne italiane guadagnano il 5% meno degli uomini, ma la distanza rispetto all’Ue è minore. In Germania nel 2015 hanno guadagnato mediamente il 22% in meno rispetto ai loro colleghi maschi.
Siamo invece il Paese con il più alto numero di automobili: 61 ogni 100 abitanti, contro i 54 dell’Europa a 6. C’è un perché: non siamo messi bene con il trasporto pubblico.
Come in guerra
Altro dato preoccupante: tutti gli europei sono poco prolifici, però noi siamo a livelli molto bassi a partire dalla metà degli anni 60. Il dato allarmante è che negli ultimi 2 anni la popolazione italiana sta diminuendo. Di solito succede durante la guerra. Una conseguenza anche attribuibile al fatto che si sposta sempre più in là nel tempo il ciclo di vita (prima finisco di studiare, poi mi cerco un lavoro, quindi metto su famiglia e faccio figli). Oggi le donne arrivano sempre più spesso a fare il primo figlio al limite del tempo massimo. L’età media è di 32 anni contro il 30,9 dei paesi fondatori.
I laureati
L’Istat registra che le donne italiane si laureano di più rispetto al resto d’Europa, però il dato complessivo dei laureati ci vede all’ultimo posto con un 26,2%. Quindi meno laureati, ma anche meno capaci di utilizzare le nozioni imparate a scuola, perché l’università non indirizza all’applicazione concreta. La ricaduta è una minore competenza rispetto a francesi o tedeschi.
Un dato positivo: siamo passati da Paese con la più alta mortalità infantile entro il primo anno di vita, a quella più bassa: 2,8 per mille contro il 3,4. Altra notizia fantastica, siamo il Paese più longevo d’Europa e il secondo al mondo. Questo grazie alla qualità del nostro sistema sanitario, dell’attività di prevenzione e uno stile di vita più sano.
Un Paese di anziani
Il rovescio della medaglia è che stiamo diventando un Paese di anziani; noi che alla fine degli anni 50 eravamo tra i Paesi più giovani, con metà della popolazione poco più che trentenne, oggi supera i 45. Ma anche il resto d’Europa è brizzolato, e questo sarà un problema, perché bisogna produrre ogni anno un Pil che garantisca le condizioni di vita a cui ci siamo abituati.
Se le teste che lavorano sono poche, il Pil complessivo resta basso. Sarà complicato uscirne se non si rivedono le politiche della famiglia, e in modo strutturato quelle migratorie, perché dall’altra parte abbiamo la Cina: un colosso di un miliardo e mezzo di persone.
Solo un’Europa integrata (così detestata dai movimenti populisti) permette di affrontare i problemi che la dimensione di uno stato nazionale non potrebbe mai risolvere da solo.
Corriere 21.10.17
Nelle strade di Raqqa vincitori, mine e macerie Viaggio nella «capitale del Califfato», dalla piazza delle esecuzioni allo stadio-prigione: i graffiti dei torturati, il manuale dei carcerieri
dal nostro inviato a Raqqa Lorenzo Cremonesi
Gli spogliatoi dei calciatori trasformati in celle, la piccola palestra in camera di tortura con i ganci per le impiccagioni al soffitto, i gabinetti in pertugi per l’isolamento delle punizioni prolungate. Da tempo non giocavano più a pallone i guardiani dell’Isis: avevano riconvertito lo stadio di Raqqa nel carcere centrale del «Califfato», che per almeno tre anni ha rappresentato il cuore del sistema di controllo, minaccia e castigo sulla popolazione, ma anche, e negli ultimi tempi soprattutto, contro i suoi militanti che sempre più numerosi cercavano di disertare e scappare verso le linee curde.
«Attenti alle cariche inesplose. Ci sono bombe e trappole ovunque», avvisa il miliziano curdo che ci scorta. L’accesso è sotto le tribune. Ma gli scalini sono coperti di calcinacci, l’inferriata che separava il campo da calcio dal pubblico è in parte divelta, le barre di ferro trasformate in lance arrugginite. Le bombe perforanti Usa hanno fatto scempio della struttura. Poi sono arrivate le granate e la devastazione della battaglia che strada per strada, casa per casa, negli ultimi cinque mesi ha portato all’impressionante distruzione della capitale dell’Isis.
Tutto attorno, macerie e silenzio. Una città di oltre duecentomila abitanti totalmente abbandonata. Come il cuore di Mosul, i nuclei della piana di Niniveh, parte di Aleppo, oltre a Tikrit, Falluja, Tal Afar, Amerli e centinaia tra villaggi e cittadine delle regioni sunnite al confine tra Iraq e Siria. Ma Raqqa è di più. Molto di più. A Mosul la parte orientale è sempre rimasta abitata e già oggi, meno di quattro mesi dopo la sconfitta di Isis, la città in qualche modo vede la popolazione tornare. Al contrario Raqqa è vuota, spettrale, un nucleo urbano di rovine. Con i negozi sventrati: attraverso le saracinesche divelte si vede la mercanzia abbandonata. Accanto, gli scheletri anneriti delle automobili bruciate, l’olezzo del cibo avariato, vestiti per la strada, stracci impolverati a segnare fughe precipitose, masserizie dei bivacchi dei soldati, lattine vuote. E tanti cani randagi, nervosi, spaventati.
La cerimonia
I responsabili dell’enclave curda-siriana hanno voluto organizzare ieri proprio nello stadio la cerimonia per la dichiarazione della vittoria. Non è un caso. Qui sono avvenuti gli scontri più feroci negli ultimi giorni. L’Isis aveva utilizzato le sue massicce strutture di cemento per montare l’ultima disperata resistenza. I suoi sotterranei sono ottimi rifugi da cui partono dedali di tunnel che permettono ottime vie di fuga e il lancio di imboscate dietro le linee nemiche. Ovvio che i capi del gruppo abbiano avuto tutto il tempo per allestire il carcere.
All’entrata sottoterra si trovano le cucine, gli archivi, gli uffici. Sul muro è appeso un cartello con le regole per gli interrogatori. «Ordini per il trattamento dei prigionieri al loro arrivo», si legge. «Verifica sempre che le informazioni siano vere. Sequestra documenti, portafogli e cellulari. Prendete le carte Sim, controllate le memorie, le immagini. Prendete le loro identità e le loro foto, che siano chiare». Attenzione agli stranieri: «Se non parlano arabo occorre un bravo traduttore, scrivete tutto e archiviatelo».
Il motivo di tanta meticolosità è evidente scorrendo i ghirigori di scritte sui muri della dozzina di grandi celle che seguono. Le inferriate sono state aggiunte solo di recente. Chiaro che qui non stavano anche tanti militanti. «Tra i prigionieri c’erano soprattutto quelli che non rispettavano le regole della legge religiosa e ovviamente i sospettati di voler disertare», racconta Hassan Ghadi, 38 anni, che tra il giugno-luglio rimase in cella 36 giorni. È lui a mostrarci la lugubre «cella 48», dalla larghezza dell’antro dove erano costretti in piedi i condannati all’isolamento. Ci sono scritte in francese, russo, ceceno, azero, inglese, turco. Sono firmate tra i tanti da Huzeyer Azeri, Abu Salman al Franci (il francese), Abu Saeed al Britani. Uno di loro scrive in arabo: «L’uomo non può ottenere tutto ciò che vuole. È come il vento che contrasta le rotte delle navi». Un altro osserva: «I muri sono i confini dei prigionieri. Ma ora non è rimasto nulla dentro di me, se non le lacrime dei mei occhi».
Avanzando per il corridoio scuro, con il pavimento coperto di calcinacci, le celle si fanno più strette. «Nelle prime erano rinchiusi anche oltre cento prigionieri alla volta. Ma in quelle più avanti venivano portati quelli destinati alla tortura. Le loro grida si sentivano soprattutto di notte», racconta un combattente curdo che è stato a sua volta chiuso qui dentro nel 2016. Nei periodi di massimo affollamento si era giunti a oltre 2.000 detenuti. Lui ci mostra la stanza delle torture. Vi si trovano due attrezzi per il sollevamento pesi. Una volta le usavano gli atleti per allenarsi. L’Isis le aveva trasformate in macchine per spezzare gradualmente la schiena ai detenuti. Una tortura lenta e letale, che lasciava alla vittima tutto il tempo per soffrire prima di spirare.
Pazienza e gps
Un jihadista di origine inglese consiglia a chi lo legge di «avere pazienza, tanta pazienza, e confidare in Allah». Spiega che uno dei motivi per le punizioni è l’impiego errato della rete e l’accesso ai «siti sbagliati». Osserva: «Se mi leggi probabilmente sei stato scoperto a utilizzare il tuo cellulare tenendo aperta la localizzazione del gps. Non lo puoi fare. È vietato, non rivelare mai la nostra posizione. Ora devi solo avere fiducia nella clemenza del Profeta e pregare». Un altro appena sotto sullo stesso muro nota in arabo che però, «qui la verità e la giustizia sono state dimenticate». Segnale che, specie negli ultimi tempi, serpeggiavano malumore e pessimismo tra i militanti jihadisti di Raqqa?
«Certamente sì», rispondono i comandanti curdi. «La situazione per loro ha iniziato a mutare quando non sono riusciti a prendere Kobane nell’autunno 2014. Sino ad allora l’Isis aveva continuato a ricevere volontari e a conquistare territorio. Poi è cominciata la loro progressiva ritirata sino alla sconfitta finale odierna», dicono festeggiando nello stadio in un tripudio di canzoni marziali e sventolio di bandiere. Una verità confermata anche da Mohammad Abdallah, un sunnita 22enne di Raqqa che adesso scrive per un sito online locale e ha scelto di affiancarsi alla causa curda e di plaudire entusiasta all’intervento Usa. «Inizialmente la grande maggioranza della popolazione sunnita si è schierata con l’Isis. Nessuno criticava i loro metodi brutali, neppure le decapitazioni o le teste mozze infilate sulla palizzata in Piazza Inferno», racconta accompagnandoci nella piazza in un viale circondato di macerie a circa 300 metri dallo stadio. A suo dire la svolta fu nel gennaio 2015, quando crescevano le liste dei caduti sotto le bombe americane: «Con le sconfitte militari sono cresciute le imposizioni contro la libertà di movimento delle donne. Gli uomini hanno dovuto far crescere lunghe barbe e accorciare i baffi. Poi ci sono state le prime crocifissioni per i cosiddetti infedeli. E la gente ha preso le distanze». Parole che sintetizzano la sfida che attende i vincitori: riusciranno ad avviare il dialogo coi sunniti? Sapranno trasformare la vittoria in successo politico? A visitare i campi profughi attorno a Raqqa i dubbi emergono. In quello di Ain Issa, i giovani sunniti di Raqqa, ma anche della vicina Deir Azzor, affermano aggressivi che non accetteranno mai di essere governati da Bashar Assad. «Quello di Damasco è un regime criminale, che è sopravvissuto grazie all’aiuto di russi, sciiti e iraniani. Non ci sarà pace sino a quando prevarrà questo stato di cose». Una posizione diversa dai curdi siriani, che comunque sono bene attenti anche adesso ad evitare lo scontro frontale con il regime e parlano di «Siria unita, democratica e federale».
Familiari
Probabilmente la prova del nove per una coesistenza pacifica sarà il trattamento delle centinaia di famigliari dei 275 combattenti Isis locali che una settimana fa hanno accettato di arrendersi (ora in una prigione curda). Assiepati in tende di fortuna alla periferia di Ain Issa, sono controllati a vista dai militari. Nessuno può uscire dal campo , gli interrogatori sono serrati. «Sono tutti filo-Isis. Si nascondono terroristi tra loro», mettono in allerta le sentinelle. Come dopo ogni evento bellico con vittime e distruzioni il sospetto regna sovrano. La polvere soffocante che domina sulle rovine di Raqqa prenderà ancora tempo prima di dissiparsi.
Repubblica 21.10.17
L’intervista. Parla il ministro dell’interno tedesco, Thomas De Maizière
“La situazione nei campi libici non è accettabile Sosteniamo l’Italia e la Spagna contro i trafficanti”
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO. La situazione nei campi profughi in Libia «non è accettabile». A denunciare l’«improponibile » situazione dei rifugiati nel Paese di Serraj è il ministro dell’Interno tedesco, Thomas De Maizière. In quest’intervista esclusiva con Repubblica in occasione del G7 in Italia sulla Cybersicurezza, il politico cristianodemocratico esplicita l’appoggio della Germania ai Paesi affacciati sul Mediterraneo come Italia e Spagna. Mentre sulla lotta al terrorismo islamico, De Maizière si dice convinto che serva una maggiore convergenza dei Paesi europei sullo scambio di informazioni e avvisa che i recenti successi militari contro l’Isis non ci debbano illudere: «L’Europa era, è e sarà nel mirino del terrorismo islamico ». Infine, sulle recenti elezioni austriache e i timori che il nuovo governo Kurz possa aggiungersi ai ‘signori no’ del Quartetto di Visegrad, il ministro taglia corto: «L’Austria resterà europeista ».
De Maizière, come giudica la situazione nei campi profughi libici?
«Dal punto di vista umanitario la situazione nei campi profughi libici non è accettabile. Secondo quanto ci viene riferito, le condizioni continuano a essere improponibili. È importante che finalmente Unhcr e Iom abbiano accesso a tutti i campi profughi. La cancelliera Merkel ha deciso che la Germania da sola metterà subito a disposizione 50 milioni di euro per l’assistenza ai profughi nei campi. In tal modo sono possibili notevoli miglioramenti delle condizioni nei centri profughi».
Che cosa propone per migliorare la situazione nel Mediterraneo? I migranti continuano a cercare nuove rotte.
«Appoggiamo i Paesi affacciati sul Mediterraneo, l’Italia e in futuro probabilmente in misura maggiore anche la Spagna, e puntiamo alla lotta contro le cause che inducono i profughi a lasciare i loro Paesi di origine e a una migliore cooperazione con gli Stati di transito. Insieme dobbiamo distruggere il modello di business dei trafficanti, rafforzare la guardia costiera libica ed effettuare i rimpatri nei Paesi di origine dai campi profughi in Libia».
Un Paese con cui l’Italia si è scontrata sui profughi e sui controlli al Brennero come l’Austria ha votato. E si è spostato a destra. Teme che il nuovo governo Kurz possa aggiungersi ai ‘signori no’ sui profughi, al Quartetto di Visegrad?
«L’Austria ha votato e ora, come del resto anche in Germania, si sta formando un governo. Bisogna attenderne la formazione. Quello che conta non è la direzione, ma la sostanza. L’Austria resterà europeista».
Alla luce degli attentati islamici degli ultimi anni non pensa che servirebbe un’accelerazione sulla maggiore convergenza dell’Europa sulla sicurezza?
«Ci stiamo impegnando in questo senso. Gli Stati dell’Ue collaborano già strettamente nel campo della sicurezza e della lotta al terrorismo. Negli ultimi due anni abbiamo fatto più progressi che in molti anni precedenti. Dobbiamo procedere su questa strada. Uno dei grandi compiti da affrontare nel prossimo futuro è l’ulteriore miglioramento dello scambio di informazioni. Questo è uno dei punti fondamentali».
Pensa che sia ancora grande il pericolo di attentati in Europa?
«L’Europa era, è e sarà anche in futuro nel mirino del terrorismo islamico. Siamo un’area geografica esposta a pericoli e ciò sottolinea l’importanza di formulare risposte comuni. In passato abbiamo visto che un attentato può essere compiuto in qualsiasi momento. Pur non accettando questa situazione, purtroppo dobbiamo conviverci ».
Corriere 21.10.17
Leader globale? Xi
Il suo «Pensiero» (dal liberismo all’ambiente) apre una nuova era in Cina. E, in assenza di altri capi autorevoli, vuole dare indicazioni anche al resto del mondo
dal corrispondente a Pechino Guido Santevecchi
Un leader imperiale per un Paese di oltre 1,3 miliardi di anime attraversato da grandi differenze culturali e sociali, da tenere insieme con mano forte? O anche uno statista globale con molte risposte per le incertezze del mondo? Xi Jinping è al potere dal 2012 in Cina e il Congresso del Partito comunista sta decidendo (in realtà tutto è già stato stabilito da tempo in segreto) se sia il caso di iscrivere nella sua Costituzione «Il Pensiero di Xi». Dovrebbe essere uno dei due risultati incerti del conclave che si concluderà mercoledì, insieme con la lista dei nuovi membri del Politburo.
Ma la parola «si xiang», pensiero, associata al nome di Xi, viene ripetuta incessantemente in queste ore dai mandarini comunisti. L’ha lanciata anche l’agenzia Xinhua aggiungendo che si tratta di 14 principi fondamentali da mettere in pratica per adattare il marxismo alle esigenze cinesi ed entrare nella «nuova era». Comunque vada, lo «xiismo» è nato, dopo il maoismo, e in Cina non può essere messo in discussione.
Un segnale chiaro è venuto da una dichiarazione al Congresso di Liu Shiyu, capo della Commissione sulla sorveglianza della Borsa: «Xi Jinping ha salvato il Partito e lo Stato sventando un colpo di palazzo» da parte di alti dirigenti. «Hanno complottato per usurpare la leadership del Partito e prendere il controllo dello Stato», ha spiegato Liu e ha aggiunto il nome di uno dei colpevoli: Sun Zhengcai, fino a questa estate capo di Chongqing, megalopoli da 33 milioni di abitanti. Sun a 54 anni era in corsa per un posto nel Comitato permanente del Politburo ed era abbastanza giovane per poter sperare nella suprema promozione al posto di Xi, nel 2022. Invece è caduto ed è finito in carcere. Finora si era parlato delle solite «serie violazioni disciplinari» (sinonimo di corruzione e ruberie). La nuova accusa di usurpazione del potere sancisce che solo Xi può reclamarlo. Nonostante la forza del segretario generale e presidente della Repubblica, nonostante il suo indubbio carisma, la sua spietata campagna anticorruzione che ha decimato letteralmente il Comitato centrale, qualche ombra dunque rimane a Zhongnanhai, l’ex giardino imperiale dove ora risiedono i massimi dirigenti.
Ombre, ma al momento Xi è il nuovo imperatore cinese. La Repubblica popolare è entrata nella sua terza fase, dopo il trentennio di Mao Zedong che riscattò il Paese fondando lo Stato comunista, dopo Deng Xiaoping che soccorse l’economia, è il momento di Xi che ci fa sapere di aver salvato il Partito, anche con le purghe di corrotti che delegittimavano il sistema (e lo insidiavano personalmente). Xi, che ha tracciato progetti fino al 2050, ha nelle mani una Cina diventata grande potenza economica e reclama un ruolo di guida mondiale. Gli manca solo il titolo di statista globale.
E anche per questo obiettivo ha una strategia e una chiara visione sul futuro delle relazioni internazionali. È aiutato dalla confusione della presidenza Trump, che minaccia protezionismo commerciale, soluzioni militari con Iran e Nord Corea, non crede negli Accordi di Parigi sul contrasto al riscaldamento terrestre. E anche dai leader europei costretti a discutere di Brexit dura o morbida e immigrazione clandestina.
Quando parla di relazioni internazionali Xi dà il meglio di sé, in termini di concretezza. Ha proposto le Nuove vie della seta contro il protezionismo; nel discorso fiume al Congresso ha detto che «ogni danno all’ambiente perseguiterà l’umanità nel futuro»; ha offerto di costruire una «comunità del destino condiviso» che promette di perseguire l’interesse nazionale tenendo in conto le ragionevoli aspirazioni e preoccupazioni degli altri Paesi.
Restano i dubbi: la Cina può essere decisiva per disinnescare la minaccia nordcoreana, ma per decenni l’ha protetta e coltivata come arma di ricatto verso Usa, Sud Corea e Giappone. Sulle Vie della seta può sfogare il suo eccesso di capacità produttiva. Impone alle imprese occidentali di condividere (cedere) la loro alta tecnologia per poter entrare nel suo mercato. Ha costruito e fortificato isole artificiali nel Mar cinese meridionale. Vuole proteggere l’ambiente, ma intanto i suoi cieli sono coperti da uno smog irrespirabile per la maggior parte dell’anno.
Xi parla di un «Sogno cinese» per il proprio Paese e per il mondo. Al momento è in vantaggio, per mancanza di concorrenti. Ma per i cinesi che non lo seguono il sogno è l’incubo della repressione, come ci ha ricordato la morte terribile del Nobel Liu Xiaobo, tenuto sotto sorveglianza da malato terminale. Intanto, chi volesse farsi un’idea del Pensiero di Xi, può leggere il suo libro «Governare la Cina», stampato in 6,5 milioni di copie, appena tradotto anche in italiano e albanese. Perché Xi guarda al mondo intero.
Corriere21.10.17
«Così entro nella testa di Hitler e Mussolini»
Sokurov pronto a girare un film sull’incontro tra i due dittatori: voglio svelare i segreti dei loro caratteri
di Giuseppina Manin
Cosa pensava Mussolini quando si incontrò per la prima volta con Hitler a Venezia? E il Führer, fisicamente complessato, che sensazioni provò di fronte a quel Benito macho e muscoloso, così diverso da lui? E Churchill e Stalin, quanto si detestavano in segreto? «A guardare a fondo in quegli animi, la storia forse svelerebbe altre ragioni insospettabili» suggerisce Alexandr Sokurov, Leone d’oro a Venezia per un Faust visionario, grande esploratore del secolo breve e dei suoi tragici eroi, da Hitler ( Moloch ) a Lenin ( Taurus ) a Hirohito ( Il Sole ).
Un’indagine sul potere e le sue anime morte che il regista siberiano ora porta avanti in Italia con un nuovo film, scritto con la sua collaboratrice di sempre, Alena Shumakova, coprodotto tra Russia e Italia, partner Rai Cinema, l’Istituto Luce e Avventurosa.
La risata tra le lacrime (titolo non definitivo) è un nuovo passo nell’orrore del Novecento, che vedrà Mussolini a confronto con altre tre figure cardine, Stalin, Hitler, Churchill. «Mi sono spesso chiesto quanto le loro decisioni, così fatali nella Seconda guerra mondiale, fossero dettate dal loro carattere. La mia ambizione è entrare nella “cucina dei tiranni”, capire cosa pensavano, cosa mangiavano, cosa preparavano. Per farlo devo penetrare le loro menti, dar voce ai pensieri più intimi, paure, desideri nascosti».
Impresa temeraria, i morti non parlano più. «Eppure il cinema può farli rivivere. Le loro immagini, le loro voci, sono ancora tra noi. Imprigionate in pellicole pronte a svelare segreti inconfessati e inconfessabili». La grande ricerca di Sokurov è così negli archivi del cinema. Di Mosca e Pietroburgo, della Cineteca del Friuli, del cinema amatoriale Home Movies, della Resistenza, della Fondazione Ansaldo. «E naturalmente del Luce, fondato dallo stesso Mussolini. Dove il Duce compare in un’infinità di materiali. Anche inediti, dove è colto in situazioni private, di solitudine, di svago, in vacanza, in famiglia. E così anche per gli altri protagonisti. Ciascuno reciterà se stesso, le loro voci fuori campo permetteranno di sentire il loro mondo interiore, i cambiamenti d’umore, i deliri di grandezza».
L’incontro tra Hitler e Mussolini a Venezia è emblematico: il Führer esangue nel goffo impermeabile e cappello floscio guarda con ammirazione il Duce muscoloso, in calzoni alla zuava, fez e stivaloni. «Tanto Benito appare disinvolto e sicuro di sé, tanto Adolf smorto e privo di carisma. Si può immaginare la sua invidia per quell’incantatore di serpenti che era Mussolini». Una seduzione di cui Sokurov si chiede le ragioni. «Perché è diventato leader? Chi era quell’uomo venuto dal nulla capace di sedurre folle povere e semianalfabete? Non era il diavolo. Piuttosto un attore, capace di mettere in scena lo spirito del suo popolo come nessun altro dittatore. Una figura interessante, ambigua, contraddittoria».
Per studiarla Sokurov ha lavorato sui gesti, sul volto del Duce, dilatando le immagini, isolando particolari. «Ma per entrare nella sua testa ho usato anzitutto la voce, ampliandone le frequenze fino a incontrare inquietanti aree acustiche. Lo spettro della sua voce è stato il luogo d’accesso al cervello di un intero popolo».
Il film nascerà così. «Senza girare una sequenza, utilizzando esclusivamente suoni e immagini di repertorio, da trasformare con effetti digitali in racconto di finzione. Per smascherare la sacralità dei “mostri della storia” e rivelarne la loro natura umana, ragione e causa di ogni tragedia ».