sabato 5 aprile 2008

l’Unità 5.4.08
Se Boselli e Bertinotti...
di Giuseppe Tamburrano


Nei giorni scorsi Bertinotti ha rivolto delle avances a Boselli: facciano un incontro allo scopo di trovare un’intesa per la difesa dei valori del laicismo e dei diritti dei cittadini. Borselli ha accolto l’invito ponendo come condizione che il confronto avvenga prima delle elezioni. Ignoro il seguito. Qualche tempo fa, l’ipotesi di un accordo elettorale tra i Socialisti e la Sinistra è stato discusso nelle due case. Ma veti personali e vecchie ruggini hanno fatto naufragare quella prospettiva. La quale riemerge ora a pochi giorni dal voto. Vorrei cercare di capire il motivo di questa resipiscenza e riflettere sulle possibili conseguenze di un accordo tra i due soggetti politici. Al fondo vi è un inconscio o meglio istintivo desiderio di preservare un patrimonio di valori i quali se non sono comuni hanno in comune le radici: il socialismo, la sinistra. Le liti e le divisioni storiche non ne hanno distrutto il carattere "familiare". Questo patrimonio è a rischio scomparsa. Anche negli altri paesi europei i valori del socialismo sono sbiaditi. Ma - a parte che sono in crescita partiti e movimenti caratterizzati da idee e programmi di sinistra, come la Sinistra tedesca - in tutti i paesi europei sopravvivono i partiti della vecchia famiglia socialista, con programmi certo impalliditi, ma pur sempre con le loro strutture e i loro simboli. Soggetti che, per il fatto di esistere, possono essere rianimati e possono adottare progetti socialisti all’altezza dei tempi. Qualora se ne creino le condizioni. La crisi del capitalismo liberista e globalizzato e l’aggravarsi della questione sociale aprono nuovi terreni alla iniziativa teorica, politica e sociale dei partiti. In Italia si stanno dissolvendo i partiti del socialismo, e con essi le speranze di una rinascita. Nessuno può negare che si tratta di un problema importante. Certo non è questa la ragione fondamentale del dialogo Bertinotti-Boselli. Vi è un altro motivo più pratico: portare in Parlamento un congruo numero di rappresentanti dei due partiti.
Qual è lo scenario che si presenta a noi? In caso di vittoria di Berlusconi o di Veltroni non vi saranno problemi. Ma se la vittoria - dell’uno o dell’altro - è zoppa al Senato le cose si complicano e le soluzioni diventano tre: 1) si torna a votare; 2) si dà vita ad una "grande coalizione" tra i due partiti ed altri; 3) si trova un rincalzo omogeneo, una ingessatura o una stampella che consenta di assicurare la maggioranza anche al Senato. Nel caso che il vincitore claudicante sia il Pd, Veltroni potrebbe trovare il necessario sostegno di senatori alla sua sinistra. Ed ecco il punto. Se Boselli e Bertinotti decidono il voto disgiunto, cioè una desistenza generalizzata nelle regioni in cui la somma dei voti al Senato attribuibile ai due partiti sulla base delle previsioni elettorali supera l’otto per cento, questa pattuglia di senatori può negoziare una intesa con il Pd e consentire la nascita di un governo assistito e garantito da una solida maggioranza. Una intesa tra i due soggetti che avesse la forza di un grande messaggio quale "vogliamo la rinascita del socialismo e della sinistra" potrebbe indurre ad andare a votare un numero elevato di indecisi e cioè coloro che si sentono orfani dei loro valori socialisti e di sinistra. Sarebbero questi voti sottratti non al Pd, al quale non appartengono, ma all’astensione. Le osservazioni a questa ipotesi sono almeno due e pesanti. La prima: è difficile che a pochi giorni dal voto quel messaggio possa essere diffuso e seguito da elettorati divisi da antichi rancori: invece di una somma di voti potrebbe provocare una sottrazione. La seconda si avrebbe una soluzione non molto diversa da quella del governo Prodi, con un Veltroni costretto - dopo averne respinto l’ipotesi - a negoziare con Di Pietro, Bonino, Bertinotti e Boselli. Ma gli scherzi degli esiti elettorali sono frequenti. Nel diritto di successione francese vi è l’aforismo: le mort saisit le vif. Traduzione: la vendetta di Prodi! Con i suoi inconvenienti sarebbe meno peggio della vittoria di Berlusconi o di una grande coalizione (premier Berlusconi e vice Veltroni??!!). Queste considerazioni di umorismo nero non tolgono le speranze a chi vorrebbe un rinnovato socialismo oltre alla sconfitta di Berlusconi. Ripeto l’aforismo di Guglielmo D’Orange: «Non c’è bisogno di sperare per iniziare, né di riuscire per perseverare».

l’Unità 5.4.08
Telefono azzurro: in un anno 923 casi di abusi


ROMA È emergenza abusi in Italia nei confronti dei minori. Telefono azzurro ha presentato ieri a Roma i dati raccolti dal proprio centro nazionale di ascolto relativi al 2007: su 3.495 casi gestiti, 923, il 26,4% del totale, riguardano abusi. In tutto, sono state 1.155 le forme di abuso rilevate (alcuni minori hanno subito più abusi) tra quelle fisiche (32,5%), sessuali (12,2%), psicologiche (34,5%) e di grave trascuratezza (20,8%). Le principali vittime sono le femmine (54,6%) e, in generale, i bambini fino a 10 anni (56,6%), trascurati (72,5%) e vittime di abusi psicologici (58,6%); la maggior parte dei ragazzi tra gli 11 e i 14 anni è invece vittima di abusi fisici (33,7%), mentre la classe adolescenziale subisce abusi fisici (20,3%) e sessuali (21,8%). I principali responsabili di queste situazioni sono il padre (45,8%) o la madre (41%). Dei 3.168 casi trattati, il 17% denuncia un abuso, soprattutto fisico (39,2% dei casi) e psicologico (28,6%). In generale le chiamate arrivate l’anno scorso provenivano da Lombardia (15,3%), Lazio (13%), Sicilia (11,8%), Puglia e Campania (9,6%) e Veneto (7,2%). Per contrastare il fenomeno dell’abuso, Telefono azzurro promuove la campagna «Aprile azzurro» e ieri, tramite il suo presidente Ernesto Caffo, ha chiesto aiuto alla politica, «perché esistono carenze gravi sugli interventi nei confronti dei minori». Tra i primi a rispondere ieri, Walter Veltroni e Silvio Berlusconi.

l’Unità 5.4.08
Salari bassi, così a scuola restano solo le donne
di Marina Boscaino


Dopo 15 anni i docenti italiani della superiore prendono 32.169 dollari contro la media di 40.269 nel resto d’Europa

Un docente di scuola materna ed elementare, percepisce tra i 1130 e i 1231 euro

Uno di scuola media tra i 1210 e i 1311
Così più o meno nelle superiori. Persone laureate e superspecializzate

DILEGGIATI e frustrati, benché tutti dicano che dalla scuola dovranno uscire le future classi dirigenti. E i docenti, invece, sono tra i meno pagati d’Europa. Cosicché la professione si sta «femminilizzando»: il 100% nella scuola dell’infanzia. Con milletrecento euro al mese s’avanza una classe di nuovi poveri

«I nostri figli sono in mano ad un manipolo di frustrati che incitano all’eversione». Ricordate l’illuminata riflessione consegnata da Gianfranco Fini al «Corriere della Sera» lo scorso 11 luglio? Un’elegantissima e responsabile definizione dei docenti italiani, che sarebbe bene tenere presente il 13 e 14 aprile. Frustrati perché mal pagati e apologeti dell’eversione (perché "comunisti"). Se la seconda definizione è tipica della folkloristica campagna di insulti e delegittimazione che il centro destra ha riservato da tempo agli insegnanti italiani, la frustrazione è un sentimento reale, che meriterebbe un trattamento differente dal dileggio e dall’ironia dedicati da Fini all’argomento.
Molte più frustrate che frustrati, nella scuola italiana. Secondo i dati del Ministero della Pubblica Istruzione attualmente le insegnanti sono circa il 100% nella scuola dell’infanzia, il 95,6% nella scuola primaria, il 76.5% nella media, il 60.3% nella superiore. Dove la femminilizzazione riguarda soprattutto i licei e le materie letterarie. Distribuita un po’ più omogeneamente la docenza negli istituti tecnici e professionali. Si tratta di un fenomeno a quel che sembra inarrestabile: nell’anno scolastico 1984-85 il 69% degli insegnanti era donna, nel 1999-2000 il 75.5%. Esiste un rapporto diretto tra il fenomeno della femminilizzazione dell’insegnamento e la questione salariale. L’incremento progressivo del livello di istruzione delle donne e il loro conseguente ingresso nel mondo del lavoro ha trovato nella scuola - a partire dagli anni ’60 - un punto di convergenza. A quell’epoca gli stipendi degli insegnanti erano proporzionalmente più consistenti degli attuali: l’entrata massiccia delle donne ha coinciso con un lento abbassamento della considerazione a livello sociale della funzione docente e, contemporaneamente, con un rallentamento della progressione economica. Il patto tacito sembrò allora consistere nell’accettazione di stipendi bassi a fronte di un lavoro limitato a poche ore settimanali, compresi i vari vantaggi che ancora compaiono nell’immaginario dei detrattori della scuola; ma che - nel frattempo, almeno per chi si impegna e crede nella propria funzione - sono definitivamente scomparsi: 3 mesi di ferie, pomeriggi liberi.
L’immagine dell’insegnante donna, moglie possibilmente di un professionista, che lavora la mattina e durante il pomeriggio provvede ai figli e alle cure domestiche o ai propri interessi (parrucchiere e shopping inclusi) è stata soppiantata da quella di tante lavoratrici coinvolte a tempo pieno su fronti differenti, tutti ugualmente impegnativi. Perché, nel frattempo, la scuola è cambiata: formalmente le ore di lavoro sono 18; ma le condizioni di lavoro sono profondamente mutate. La scuola - non per tutti, certamente, ma per molti - rappresenta un impiego a tempo pieno; con l’aggiunta, non irrilevante, che tale impiego si svolge con e per bambini e ragazzi; ed è finalizzato alla formazione, all’educazione, alla creazione di cittadini consapevoli, di autonomia critica. Ridurre le pertinenze di un insegnante alle ore curriculari è sbagliato: nel 1974 - anno di nascita degli organi collegiali - e, dopo, nel 1999 con l’autonomia, si sono aperti, nel bene e nel male, ampi spazi di intervento e di partecipazione (non sempre efficaci) al funzionamento e allo sviluppo di ciascun istituto. Inoltre gli insegnanti di molte discipline dedicano tempo ed energie alla correzione di elaborati; non ultimo, c’è bisogno di tempo - per chi li pratica, dal momento che si tratta di attività non riconosciuta né incentivata - per curare aggiornamento e studio.
Qualche settimana fa l’Ocse ha collocato il nostro Paese nella classifica dei salari medi netti al 23° posto sui trenta totali. L’Italia occupa posizioni ben arretrate non solo rispetto a Francia, Germania e Gran Bretagna, ma anche a Paesi come Grecia e Spagna. Uno studio della Banca d’Italia, tratto dalla relazione annuale del 31 maggio 2007 - Le condizioni finanziarie delle famiglie e delle imprese - rivela che la crescita degli stipendi è ferma al 2000 e che il livello di impoverimento è in aumento, specie tra i lavoratori dipendenti: che incrementano le proprie retribuzioni dal 2000 al 2006 di uno 0.3% contro il 13.1% degli autonomi. Nel settembre 2007 il Ministero della Pubblica Istruzione ha presentato i dati del Quaderno Bianco: in quell’occasione vennero citate le stime Ocse 2006, secondo le quali - dopo 15 anni di attività - la retribuzione annua pro capite dei docenti italiani della scuola superiore è di 32.169 dollari contro la media di 40.269 calcolata fra Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Inghilterra, Italia, Scozia, Spagna, Stati Uniti e Svezia. Nella secondaria inferiore 31.292 dollari (contro una media di 37.489) e nella primaria di 28.732 (contro 35.100). Solo gli insegnanti greci stanno peggio di quelli italiani. Tra i quali un trattamento particolarmente penalizzante è riservato ai precari, una categoria numerosa, sottoposta a un regime che spesso prevede l’interruzione del servizio, che esclude le ferie; la mancanza di continuità didattica, con frequenti cambiamenti di scuole; sedi disagiate, lontane, con le conseguenze economiche che ne derivano. Gianfranco Pignatelli, presidente del Cip, illustra il salario dei precari di ogni ordine di scuola: un docente di scuola materna ed elementare, percepisce tra i 1130 e i 1231 euro; uno di scuola media tra i 1210 e i 1311, come uno di scuola secondaria superiore, al netto delle ritenute degli enti locali.
L’obiezione che viene normalmente fatta quando si constata il divario è che a salari europei debbano corrispondere orari europei. Come si evince dalla tabella riportata in pagina, gli orari italiani non si discostano di molto da quelli europei, la cui media si attesta a 23 ore settimanali nella primaria, 20 nella secondaria inferiore, 18 e 20 minuti nella secondaria superiore. E si tenga conto che non emerge qui il lavoro sommerso cui si faceva riferimento poc’anzi.
Insomma, quello dei salari degli insegnanti rappresenta un campo in cui sarebbe opportuno intervenire, come viene chiesto da anni. Considerate le cifre sopra indicate, tra i "nuovi poveri" figuriamo a buon diritto anche noi: gli insegnanti. Esercitare questa professione è possibile solo se non si fa parte di una famiglia monoreddito: un lusso, di questi tempi, che non tutti possono permettersi. La irrisorietà dei salari rappresenta uno degli elementi che incentiva una mentalità impiegatizia nel mondo della scuola, che pure esiste; l’afflusso di persone demotivate, talvolta poco preparate, defilate, spente, indisponibili alla partecipazione e all’impegno è incoraggiato dagli stipendi bassi. La scuola continua a camminare sulle gambe di quelli che, incapaci di far ricadere sugli alunni le conseguenze dell’inciviltà del disinvestimento culturale che si è fatto sull’istruzione, interpretano eticamente e politicamente la professione, spesso devolvendo energie, competenze, impegno, passione senza riconoscimento o con incentivi insignificanti e alcuna considerazione sociale.
La legittima frustrazione di chi opera quotidianamente con convinzione e capacità nella scuola italiana meriterebbe parole ben diverse da quelle di Fini. E una riflessione coraggiosa e capace di scardinare luoghi comuni da parte di chi potrà intervenire su questa problematica.

l’Unità 5.4.08
A occhi nudi nel parco dell’arte
di Beppe Sebaste


CAMMINARE NELL’OPERA che sia una scultura da «visitare» o un giardino artistico. Ma anche una città, una cappella, una mostra... La creazione contemporanea offre al pubblico la possibilità di interagire con tutto il corpo

Tra i grandi meriti dell’arte contemporanea non c’è solo l’invenzione e la combinazione di nuove forme e materiali, «idee» comprese (nel senso del rifiuto di «rappresentarle»). C’è soprattutto la sperimentazione di nuovi modi di avvicinarsi all’arte, nuovi rapporti che con l’arte (anche quella non contemporanea) possiamo intrattenere. Non è solo il superamento dei luoghi in cui l’arte si mostra dall’Ottocento, in una dimensione sempre più privata, come la galleria. È l’allargamento al contesto, la partecipazione comunitaria delle opere, con un’attenzione nuova ai temi del paesaggio, dell’abitare, dell’ambiente. Così si spiega ad esempio la fecondità della Land Art, e la nascita di luoghi alternativi al museo tradizionale, spesso all’aperto. L’arte crea una relazione col pubblico che non si limita a una fruizione visiva, ma prevede un’interazione con l’intero corpo - camminare tra le opere, se non addirittura nelle opere - come esperienza estetica. È grazie all’arte contemporanea che la politica culturale delle città può superare il concetto angusto di arredo urbano (cioè, in breve, opere trattate come fioriere). La cosiddetta Public Art, opere e installazioni il cui essere situate nel territorio è parte integrante dell’opera stessa, promuove una politica comune della bellezza.
C’è poi l’Arte ambientale, e quella cosiddetta Site specific, e anche in Italia si moltiplicano i «parchi d’arte», spesso per iniziativa di imprenditori e collezionisti - dalla Fattoria di Celle tra Pistoia e Prato a Fiumara d’arte in Sicilia, dal parco della Marrana a Montemarcello al Giardino di Daniel Spoerri (uno dei maestri dell’Arte povera) nei pressi dell’Amiata. Presto a Torino, in un’area industriale in trasformazione di oltre due ettari, sarà inaugurato il PAV, Parco Arte Vivente, che vuole essere «un’area verde aperta al pubblico, ma anche un nuovo museo interattivo e un luogo di incontro fra Biotecnologie, Arte Contemporanea, Ecologia». Altri luoghi d’arte hanno un’origine diversa, come l’immenso impressionante Grande Cretto di Alberto Burri, che dalle sue tele migrò a ricoprire e custodire la memoria di Gibellina devastata dal terremoto nel 1968, come una pudica Pompei, o il Giardino de Tarocchi di Niki de Saint-Phalle a Capalbio.
Ma questa nuova interazione con l’arte che dobbiamo agli artisti contemporanei è forse qualcosa di antico. È grazie ad essi che possiamo riscoprire che anche la Cappella Sistina richiede un’analoga partecipazione, un camminare che è parte integrante del progetto estetico dell’opera. E che dire della città medievale? E cosa sarebbero state le avanguardie storiche senza la scoperta (e il relativo pellegrinaggio nel Novecento) delle grotte di Lascaux e Altamira, che tanto contribuirono all’esaltazione di una spontaneità sorgiva e di un’abitabilità dell’arte? Tutto il romanzo Nadja di André Breton è un invito a percorrere la città come una riserva di tesori percettivi, un’immensa opera d’arte. Ciò che invita a fare, in una riscoperta soprattutto delle realtà interstiziali e periferiche, il gruppo romano Stalker, che fonde arte, architettura, politica ed ecologia, e che nel libro firmato da Francesco Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica (Einaudi), percorre il nomadismo estetico dalla preistoria - epoca in cui la scultura verticale nasce come orientamento spaziale - al Dadaismo degli anni ’20, al Situazionismo degli anni ’60, e naturalmente alla Land Art, Richard Long soprattutto.
Alcuni anni fa, in compagnia dello scultore Kan Yasuda, mi trovavo a East Hampton (Long Island, N.Y.) ospite di Ruth Guggenheim Nivola, vedova di Costantino Nivola, il grande artista sardo emigrato in America negli anni del fascismo. Toccavo con mano i modelli delle sculture maggiori di Costantino Nivola, oppure i suoi bellissimi «letti» di terracotta, grandi come micche di pane. Camminando tra la casa e lo studio, attraverso il corridoio di sabbia che era esso stesso atelier (per quel sand casting che inventò un giorno sulla spiaggia di Montauk giocando coi nipotini), tra i cedri e le querce, posavamo i piedi sui modelli di pietra dei pannelli murali di Nivola, posti lì come soglie. L’emozione di camminare sulle sculture mi fece riflettere sull’uso delle opere d’arte, e ne parlai con Ruth, amorevole custode della memoria di Costantino e artista a sua volta. Le dissi che camminare su sculture era un’esperienza insolita, ma forse un tempo, all’epoca delle città, quando tra l’idea e la pratica dell’arte vi era l’idea e la pratica della comunità, di un «essere (in) comune», e la città intera, selciato compreso, era un’ampia scultura, camminare sopra le opere fatte dall’arte doveva essere esperienza quotidiana e condivisa. Con un sorriso, la risposta soave di Ruth fu: «infatti una volta si sapeva camminare».
In quei giorni avevo visitato anche il museo voluto e costruito come un’opera dal suo maestro Isamu Noguchi (The Isamu Noguchi Garden Museum), dove le opere del grande scultore giapponese, già maestro di Kan Yasuda, sono disposte all’interno, ma anche nel giardino esterno, di una sobria palazzina periferica tra Long Island e Queen, in una compenetrazione di natura, architettura e scultura, spazio e volumi, tatto e visione. Anche percorrere quel museo è un’esperienza attiva del visitatore. Il mio apprendistato all’arte pubblica fu dato dalla frequentazione di amici scultori come Kan Yasuda, che ha recentemente esaudito il desiderio di creare un proprio parco di sculture in Giappone (e di cui si è appena conclusa una splendida mostra ai Mercati di Traiano a Roma, dove i suoi marmi e bronzi, posti tra i resti archeologici, sembravano più antichi delle pietre e capitelli romani), o come il francese Jean-Paul Philippe, che ha disseminato le sue sculture come monoliti nei terreni d’argilla a sud del Chianti. Non si tratta solo uscire dai luoghi di fruizione abituali, di stare all’aperto o comunque in un luogo che non sia un contenitore preesistente, ma di inventare un contesto che prende forma e visibilità insieme alle opere, e sia il luogo di un’esperienza estetica. Le opere d’arte così situate non stanno come merci al mercato (o appese alla parete, non importa), ma allo stesso modo di piante in un orto botanico, o meglio ancora in un lembo di natura non addomesticata. Camminare nell’arte non significa solo attraversamento di spazi, ma pratica estetica e di conoscenza, dove il sentire comprende il toccare, guardare, ascoltare, assaporare, annusare, confondersi col paesaggio, perdersi, riorientarsi, e trasforma il luogo da spazio astratto e cartesiano a dimensione vissuta e affettiva.
Evidentemente lo stesso discorso vale per la pittura e le altre arti. Vale per esempio per la Galleria l’Attico di Fabio Sargentini a Roma, che lungi dall’essere un contenitore neutro ha partecipato e ispirato ogni mostra-evento, mostrando come la cornice, il margine, sia già sempre parte dell’opera. L’atteggiamento che le opere richiedono, e non da oggi, non è una fruizione ma una contemplazione. Contemplazione, ricordavo su queste pagine a proposito dell’opera di Claudio Parmiggiani, viene da tempio, e contemplare è come recintare uno spazio come tempio, fondare un tempio nello spazio. Ci si può chiedere se nella nostra società tutto questo sia ancora possibile. L’arte si trova infatti nella stessa situazione paradossale della dialettica del sacro. Sacrare è separare - cose, gesti, o persone - dalla sfera dell’uso comune; profanare sarebbe viceversa restituire cose, gesti o persone all’uso comune. In una civiltà il cui estremismo mercantile porta a consumare oggetti inusabili perde sia la possibilità del sacro che quella della profanazione. Il filosofo Giorgio Agamben, nel suo libro Profanazioni (Nottetempo), spiega che «l’impossibilità di usare ha il suo luogo topico nel Museo. La museificazione del mondo è oggi un fatto compiuto (...)Museo non designa qui un luogo o uno spazio fisico determinato, ma la dimensione separata in cui si trasferisce ciò che un tempo era sentito come vero e decisivo, ora non più. Il Museo può coincidere, in questo senso, con un’intera città (Evora, Venezia, dichiarate per questo patrimonio dell’umanità), con una regione (dichiarata parco o oasi naturale) e perfino con un gruppo di individui (in quanto rappresentano una forma di vita scomparsa). Ma, più in generale, tutto può diventare Museo, perché questo termine nomina semplicemente l’esposizione di una impossibilità di usare, di abitare, di fare esperienza».
Mi si permetta un’altra piccola storia. Nei primi anni Settanta, quando giovanissimo mi affacciavo all’arte e alla poesia, fui invitato ad assistere a un festival d’avanguardia. A una certa ora del pomeriggio, ne pressi di un paesino dell’Emilia, ci sarebbe stato uno degli eventi clou. In tanti ci si trasferì, e il luogo risultò essere un cantiere dismesso, con montagne di sabbia e di ghiaia, una gru sullo sfondo, e tutti quegli elementi insieme naturali e artificiali del lavoro edile così difficili da descrivere, perché difficili da osservare. Tutt’intorno una specie di nulla. Nell’attesa dell’evento, i crocchi di persone socializzavano, camminavano, finché alcuni cominciarono a giocare come bambini sulle sabbia, salendo e ruzzolando giù dalle montagnole, interagendo con l’ambiente fino all’imbrunire. A poco emergeva la consapevolezza che quello stare lì fosse l’evento stesso, artisti e pubblico componevano con la loro interazione un’opera di spazio e tempo. Qualcosa come un «gioco», che ricorda la favola su L’autobus 75 di Gianni Rodari. Questo ricordo segna l’inizio della mia comprensione dell’arte, e della (sua) politica. Quando Agamben scrive che il valore d’uso, il fare uso inerente alla necessaria profanazione del sacro oggi è diventato impossibile, al culmine di un consumismo senza scopo, senza uso e senza felicità, lascia aperta la possibilità del gioco e dell’ozio (otium), che decostruisce e rende inoperoso il vecchio uso perduto. Come il camminare nelle periferie del gruppo Stalker, come la flânerie, o la passeggiata dadaista, o il nomadismo di chi rifiuta la stanzialità e la divisione del lavoro della Storia per vagare nella Preistoria. Che sia percorso sacro, danza, arte o pellegrinaggio religioso (il lavoro di Richard Long è tutto questo insieme), credo sia la ricchezza estetica dei nuovi luoghi dell’arte, nella partecipazione comunitaria alle opere.

Repubblica 5.4.08
Nei piani di Silvio un'offerta al Pd
di Claudio Tito


L´ex premier e l´incubo di incassare una vittoria "inutile": ecco da dove nasce il piano del dialogo
Il Cavaliere getta la rete per il dopo voto "Accordo con il Pd per sbloccare il paese"
Il profilo di alcuni possibili ministri come Frattini e Castellaneta è un "segnale"
Il leader del Pdl ai suoi fedelissimi: "Non voglio ritro-varmi imbrigliato come Prodi"

Gli ultimi sondaggi lo preoccupano non poco. Silvio Berlusconi continua a leggere nei numeri che gli vengono portati quotidianamente la vittoria alla Camera, ma vede anche che la «lotteria» del Senato potrebbe riservargli un biglietto non vincente. Ecco perché negli ultimi giorni è ripartita la strategia del dialogo con il Pd, con il grande mediatore Gianni Letta che si è rimesso in moto.
Passo dopo passo il Cavaliere tesse la tela, prepara il terreno per lanciare subito dopo il voto l´offensiva per irretire Walter Veltroni e costringerlo a collaborare, a condividere la responsabilità di un governo che dovrà affrontare la recessione economica e aprire «la stagione delle riforme». Una stagione che potrebbe anche creare le condizioni per portarlo al Quirinale.
Convinto che, a prescindere dal risultato, la prossima legislatura sarà una delle più difficili che il Paese abbia mai affrontato, Berlusconi ha ripreso con forza questi ragionamenti con il gruppo più ristretto dei suoi fedelissimi.
«Noi vinceremo e saremo noi a fare il governo - tranquillizza i suoi uomini - ma non possiamo pensare di cambiare il Paese avendo tutti contro». Le incognite del Senato, poi, si confermano sempre più un brutto sogno per il leader forzista. Una coalizione blindata a Palazzo Madama non è più una certezza per Berlusconi. Ma gli interrogativi riguardano pure "il Paese fuori dalle Camere". E lì, a suo giudizio, l´elenco dei potenziali "rematori contro" resta lungo: i sindacati, la pubblica amministrazione, i salotti della finanza, i cosiddetti "poteri forti", i vertici istituzionali. Compreso il capo dello Stato che il Cavaliere non riesce a considerare completamente neutrale. Tante rischiano di essere pure le spine, come l´Alitalia. Nodi che Berlusconi non vorrebbe sciogliere da solo.
«Se vogliamo davvero cambiare il Paese - è il refrain ripetuto in ogni staff meeting - bisogna costruire un clima di dialogo». Prima di tutto in Parlamento. «Senza una maggioranza ampia, non si può fare niente». E l´idea di fare i conti con la crisi economica, le liberalizzazioni e le riforme istituzionali in un´atmosfera conflittuale, non lascia affatto tranquillo Berlusconi. «Non voglio ritrovarmi imbrigliato come lo è stato Romano Prodi in questi due anni». Tutto il suo staff ancora ricorda le parole piene di comprensione pronunciate dopo aver incrociato il premier uscente ad una cerimonia militare: «In fondo lo capisco, non è stato e non è facile stare in quella posizione». Non è un caso, allora, che in una recente cena a Milano si sia sfogato meravigliando i commensali: «Se potessi io cercherei in ogni caso, visto che la mia vittoria sarà piena, un grande accordo anche sull´esecutivo. Ma non so se sarà possibile».
Negli ultimi giorni il Cavaliere non dà nemmeno per scontato che la legislatura duri effettivamente cinque anni: «Non ho lo sfera di cristallo», sospira davanti alle domande. Se poi il risultato del Pdl sarà meno brillante di quanto gli dicono i suoi sondaggisti e il pareggio si rivelasse realtà il 14 aprile, allora il percorso di un governo tecnico sostenuto insieme al Pd diventerebbe un´opzione inevitabile. «È ovvio - ha ammesso in pubblico cinque giorni fa - che in caso di pareggio non ci può essere un governo di parte».
Così, il faccia a faccia di dicembre con il segretario democratico per Berlusconi è una sorta di architrave su cui costruire i prossimi cinque anni. Lo considera un momento di «svolta» per i rapporti tra gli schieramenti. Da allora non hai mai smesso di versare miele, in privato, sul suo «avversario». Lo ha fatto persino l´altro ieri nel corso del ricevimento con gli ambasciatori dell´Unione europea organizzata a Villa Almone, sede della diplomazia tedesca. Davanti alle feluche si è scagliato contro la sinistra radicale, ma nei confronti di Veltroni e di Prodi solo commenti ovattati. Da tempo Berlusconi spiega ai suoi che «Walter è il meglio che una sinistra moderna possa offrire in Italia».
Frasi puntate, appunto, in primo luogo a «sdoganare» il rapporto con l´ex sindaco di Roma. Del resto, con lo scioglimento delle Camere il leader forzista ha decisamente virato su una campagna fatta di colpi di fioretto piuttosto che di clava. Non è più il ‘94 o il ‘96, e non è nemmeno il 2001 o il 2006. Tant´è che negli ultimi giorni si è lamentato dei toni, a suo dire, troppo hard del segretario Pd: «Perché esagera così? Perché insiste sulla mia età? Non ce n´è bisogno».
Il suo obiettivo resta comunque quello di non ritrovarsi il 14 aprile con un Parlamento in "stato di guerra". «Altrimenti le riforme non le facciamo e il Paese non lo cambiamo». Non per niente, la lista dei ministri che già si trova nella sua tasca sembra stilata proprio per non indispettire l´eventuale futura minoranza. Basti pensare che Gianni Letta - se il Pdl vincerà - sarà il vicepremier unico, un moderato come Franco Frattini andrà agli Interni e agli Esteri un "quasi-tecnico" come Gianni Castallaneta, il suo ex consigliere diplomatico quando sedeva ancora a Palazzo Chigi, poi nominato ambasciatore a Washington, ma non sostituito da Massimo D´Alema. Ogni passo, dunque, è studiato per pervenire ad «una convergenza almeno sui grandi temi». Lo ha spiegato pure ai diplomatici europei mercoledì scorso: «Lascerò da grande statista dopo aver fatto le riforme». E molti di quelli che lo ascoltavano hanno pensato che fosse il primo atto ufficiale per una candidatura al Quirinale. Che, secondo i fedelissimi della prima ora, è ormai diventata una "ossessione". Al punto che c´è chi gli rimprovera di compiere ogni mossa in quell´ottica: «Corteggia Veltroni per essere sdoganato».

Repubblica 5.4.08
Incontro difficile al circolo Mario Mieli per il candidato della Sa. Un gruppo di trans lo contesta: "Ti occupi di froci solo in campagna elettorale"
I gay a Bertinotti: dopo il 14 aprile non ci scordare
di g.c.


ROMA - Va nella tana di gay, transgender e lesbiche, Fausto Bertinotti. Ad accogliere il candidato premier della Sinistra Arcobaleno al Circolo di cultura omosessuale "Mario Mieli" di Roma, non solo applausi e apprezzamento - «Sei l´unico leader a essere venuto» - ma anche una chiassosa contestazione capitanata dalla trans Helena Velena: «Ti occupi dei froci solo in campagna elettorale ma poi durante la legislatura ti dimentichi di noi...». Quindi, distribuzione di volantini con lo slogan: «Non vi daremo il nostro voto». Bertinotti minimizza: «Un confronto tra forze politiche e movimenti non può essere privo di momenti di confronto anche forti. Se mi fossi stupito delle intemperanze non sarei uscito vivo da 35 anni di attività sindacale...», commenta sorridendo.
Sui gay, il leader della Sinistra lancia l´affondo contro il partito di Veltroni e le «tendenze omofobiche» sia del generale Del Vecchio che di Paola Binetti: «Come si poteva facilmente immaginare, il Pd piuttosto che mantenere la promessa di avere, sul tema delle unioni civili, una linea definita, in realtà è una coalizione di forze dentro le quali ci sono le posizioni più diverse, in particolare il totale rifiuto e intolleranza da parte della senatrice Binetti». La comunità gay chiede impegni concreti «senza se e senza ma». Due anni di governo Prodi - dice la presidente del circolo Rossana Praitano - sono stati «un´occasione persa». Aurelio Mancuso dell´Arcigay descrive la delusione e prevede un «preoccupante astensionismo lesbo-gay». Bertinotti s´impegna: «Bisogna procedere con gradualità, quindi si ricomincia dai Pacs, o anche dai Dico», purché si tratti di un disegno di legge per il diritti dei conviventi «fattibile» senza cioè l´escamotage della raccomandata con ricevuta di ritorno che è «un paradosso». Ma il traguardo per Bertinotti è «l´autogestione delle diverse forme di unione», cioè la possibilità in futuro di scegliere anche il matrimonio gay. Infine, rivendica con orgoglio di avere portato in Parlamento il primo trans, Vladmir Luxuria: «È stata un´innovazione che resterà nelle istituzioni, lo so che è un diritto, ma è stato faticoso persino come chiamarla, le condizioni di vivibilità alla Camera, mi riferisco alla storia se poteva andare alla toilette delle donne o doveva recarsi a quella degli uomini». E alle proteste che la comunità gay muove alla Sinistra per avere candidato Luxuria in Sicilia, Bertinotti riconosce che «le liste sono state un compromesso», che si sta passando per «le forche caudine per fare un soggetto unitario». Applausi. Anche se sul voto per il Campidoglio, il movimento gay prende le distanze dall´appoggio della Sinistra a Rutelli: «A Roma appoggiamo Grillini perché Rutelli non dà garanzie». Nota ironica: al Movimento trans è arrivato un invito elettorale da Pier Ferdinando Casini.
Da questa campagna elettorale del resto, lo stesso Bertinotti ammette di essere un po´ deluso: «Confesso che per una parte sì», dirà dopo. «Insisto su questo carattere scisso della campagna elettorale. Una è la campagna elettorale massmediatica che è davvero potente e io credo per un difetto di sistema, davvero poverissima. L´altra campagna, quella nel Paese reale, è autentica». Giudica inoltre un successo andare «oltre quello che dicono i sondaggi», ma non s´illude di raggiungere quell´11,5% che sarebbe la somma dei partiti che compongono la Sinistra secondo i numeri del 2006: «È cambiato il mondo...». È Sa, ripete, «l´antidoto contro il Veltrusconi».

Corriere della Sera 5.4.08
Arcobaleno Il leader contestato dal transgender Velena
Bertinotti accusa «Veltrusconi» «Per loro la sinistra rischia la vita»
di Giuliano Gallo


ROMA — Ne aveva già parlato in cento comizi, con accenti più o meno polemici, perché a Fausto Bertinotti il discorso sul «voto utile », invocato all'unisono da Walter Veltroni e Silvio Berlusconi, non è ovviamente mai andato giù. Ma finora contro lo spettro del «Veltrusconismo » non aveva mai usato toni così drammatici come quelli adoperati ieri, nel corso di una puntata di Otto e mezzo su La7: «È un rischio drammatico che esiste, la sinistra rischia di essere messa fuori gioco dall'americanizzazione della politica e di questa campagna elettorale, e dal bipartitismo».
I pressanti inviti di Veltroni e Berlusconi a votare solo i due schieramenti maggiori significa di fatto, per il leader della Sinistra Arcobaleno, «azzerare la Repubblica parlamentare ». Solitamente pacato, anche quando fa trapelare la passione, Bertinotti ieri sera ha usato anche il sarcasmo: «Attenzione a questa riduzione impressionante della democrazia: da due coalizioni si passa a due partiti, poi a due persone. E il rischio è che alla fine si pensi che può bastare una persona sola... Finiremo con lo scegliere il tiranno, così le decisioni sono garantite ». Onestamente, alla fine Bertinotti finisce però per ammettere che la frammentazione è un «vizio antico» della sinistra italiana. «La ragione nobile è l'identità, ma questa diventa devastante quando impedisce il rapporto e il dialogo fra le diverse componenti».
L'analisi che il candidato premier della Sinistra fa è la stessa fin dall'inizio della campagna elettorale: Popolo della libertà e Partito democratico «competono al centro, e quindi i loro programmi reali sono comuni. Perché prevedono il primato del mercato, mentre la sinistra mette in discussione questo sistema ». Certo, quel termine che detesta, «Veltrusconismo», è solo una «formula corsara» inventata dai giornali, ammette. «Ma con una sua verità interna». E dunque il successo della Sinistra Arcobaleno «è essenziale per spezzare l'incantesimo e sottrarsi a questa droga della grande coalizione». E se invece per il Pd ci fosse una sconfitta? «Sarebbe costretto a un ripensamento significativo della sua linea politica», ammonisce il presidente della Camera uscente.
Un allarme ripreso, anche se con toni meno forti di quelli usati da Bertinotti, da Cesare Salvi, capogruppo al Senato della Sinistra democratica e ora candidato della Sa. «Noi — dice — siamo sicuramente vicini alla quota dell'8%, ma se questa soglia non fosse raggiunta, i nostri voti verrebbero di fatto dispersi, e i nostri seggi andrebbero al partito più forte fra i "perdenti" di ciascuna regione. Siamo l'unica forza politica di sinistra in Italia — rivendica con orgoglio — avendo il Pd scelto un'altra collocazione».
Unico fra i candidati alle elezioni, Fausto Bertinotti ieri pomeriggio è andato al circolo Mario Mieli di Roma, luogo storico per gli omosessuali. Una visita non rituale, e nemmeno facile: c'era molto scetticismo, in sala. E anche qualche critica più dura. Opera di Helena Velena, transgender piuttosto nota nell'ambiente. «Ti occupi di froci solo in campagna elettorale, durante la legislatura invece ti dimentichi di noi», gli ha gridato. Cercando poi di impedire l'incontro. Bertinotti non si è scomposto più di tanto: «Come potete capire questo è un luogo libero, dove tutti sono liberi di contestare». Ma anche senza grida, la platea era rimasta comunque piuttosto scettica: l'unico applauso che aveva interrotto l'intervento del candidato era stato quando Bertinotti aveva ammesso la robusta omofobia che pervadeva il vecchio partito comunista.

Corriere della Sera 5.4.08
Scoperto nello Yucatan il luogo di riunione della nobiltà
La piramide a fumetti per l'assemblea Maya
di Viviano Domenici


Il pittore maya impostò la scena di getto; poi stese il colore su corpi e vestiti, quindi tracciò il contorno nero delle figure rendendo alla perfezione la trasparenza della veste azzurra indossata dalla robusta signora che, al centro del dipinto, afferra una grande giara poggiata sulla testa di una donna raffigurata nell'atto di accovacciarsi. La protagonista dell'azione è senz'altro lei: indossa orecchini, bracciali e cavigliere di preziosa giada e sull'abito ha segni di scrittura (glifi), che dovrebbero indicare il nome del pittore che dipinse la stoffa. Ai lati della scena, due nobili scriba, con la tipica acconciatura di "quelli dei libri sacri" e gonnellini che ricordano i kilt scozzesi, sono intenti a preparare e assaggiare una bevanda a base di mais ( aj ul), ancora oggi consumata in Messico. Il dipinto, realizzato attorno al quarto secolo dopo Cristo, è uno dei tanti "fotogrammi" che decorano i tre gradoni di una piccola piramide che gli archeologi messicani hanno dissepolto a Calakmul, la metropoli maya nascosta nella foresta dello stato di Campeche, nello Yucatan. L'intero ciclo pittorico raffigura le diverse fasi della preparazione rituale di bevande e cibi da consumarsi durante le cerimonie religiose. La metropoli di Calakmul fu una delle città più importanti del mondo maya.
Sede dell'antico Regno del Sepente, organizzò per decenni una forte opposizione all'espansione di Tikal, l'altra grande capitale maya, ma alla fine dovette soccombere. Alcuni anni fa gli archeologi scoprirono, all'interno della piramide maggiore, la tomba intatta di Artiglio di Giaguaro, il sovrano protagonista dello scontro con Tikal; ora sono impegnati a riportare alla luce la piramide dipinta e una panchina lunga parecchie decine di metri che delimita un vasto spazio pubblico. Questo singolare sedile è completamente decorato con immagini di uccelli acquatici, tartarughe, gigli d'acqua e segni di scrittura (glifi) traducibili come "Pianta di Giglio d'Acqua", un nome che ricorre spesso nelle iscrizioni maya come il luogo in cui si verificarono importanti eventi politico-religiosi. Tutto fa pensare che gli archeologi siano entrati esattamente nello spazio sacro dove nobili e sacerdoti si riunivano per decidere i destini del Regno del Serpente. Insomma, una sorta di Parlamento dell'aristocrazia maya.
Mentre il lavoro dei ricercatori messicani prosegue, dal Perù arriva la notizia della scoperta del più antico manufatto d'oro dell'America precolombiana: una collana antica di oltre 4.000 la anni composta da nove vaghi d'oro intercalati con pietre turchesi. La scoperta, annunciata dagli archeologi dell'Università dell'Arizona, a Tucson, è avvenuta a Jiskairumoko, nella regione del Lago Titicaca. Il gioiello, realizzato con materiali reperibili solo a oltre 200 chilometri di distanza, è stato rinvenuto nella tomba di un uomo appartenente a una comunità di cacciatori-raccoglitori, cioè a un gruppo umano che si trovava a uno stadio di organizzazione sociale in cui, normalmente, non sono riscontrabili ne' differenze sociali ne' accumulo di beni.

Corriere della Sera 5.4.08
La non violenza di Dolci molto più di un'utopia
di Arturo Colombo


A una decina d'anni dalla scomparsa, è facile riconoscere che Danilo Dolci (1924-1997) rimane quasi sconosciuto, anche se ha avuto momenti di polemica notorietà: per esempio, con il suo libro-inchiesta «Banditi a Partinico» (1955) o durante il suo duro, e contestatissimo, impegno antimafia. Da qui l'interesse per l'antologia, curata da Giuseppe Barone. I testi raccolti — a cominciare da una intervista del '95: «Perché i sogni diventino progetti» — danno la misura del temperamento di lottatore, che ha caratterizzato Dolci fin dalla giovanile esperienza a Nomadelfia. Un lottatore, però, mai isolato; tenacemente convinto della necessità di perseguire un'opera «corale» come condizione per tentare di sconfiggere quel «sistema clientelare-mafioso », che costituisce una piaga, anzi un cancro, là dove si intrecciano i circuiti perversi della «criminalità privata» e della «criminalità di Stato». «Se non cresce la creatività di ognuno, individuo e gruppo, quasi per gravità tende a imporsi chi ha più potere cercando di accumulare altro potere, anche il potere altrui »: ecco uno dei capisaldi della strategia di lotta, che Dolci ha cercato di perseguire, e di insegnare, convinto che la triade «Trasmettere, Informare, Comunicare » costituisce uno dei presupposti essenziali, per coinvolgere sempre più persone in un processo di conquista-diffusione di un costume democratico, senza il quale la nonviolenza rimarrà velleitaria.
DANILO DOLCI, Una rivoluzione nonviolenta, EDIZIONI ALTRECONOMIA PP. 158, e 10

Corriere della Sera 5.4.08
Garofalo, l'ambasciatore
Piotrovsky: «L'Ermitage apre all'Italia e combatterà i musei-Disneyland»
di Stefano Bucci


Intervista al direttore della prestigiosa istituzione di San Pietroburgo.
L'esposizione sul pittore emiliano del Cinquecento inaugura una nuova stagione di studi e collaborazioni

Certi edifici seducono più per la caffetteria o il bookshop. Recuperiamo lo spirito del Grand Tour
Le collezioni universalistiche hanno il dovere di valorizzare gli artisti poco conosciuti

SAN PIETROBURGO — Toccherà in qualche modo al Garofalo, «pittore della Ferrara estense», il difficile compito di far conoscere al mondo il futuro dell'Ermitage. Almeno quello immaginato dal suo attuale direttore, Mikhail Borisovich Piotrovsky: la mostra di Ferrara, la prima della neonata fondazione Ermitage- Italia, «non è che una piccola parte di un progetto ben più ampio — spiega Piotrovosky —, quello destinato alla creazione di uno museo universale, nel quale possano convivere le più differenti culture, dove lo scambio tra "piccoli" e "grandi" sia costante e continuo». Guai, dunque, a parlare di una semplice mostra, anche se dedicata a quello che viene definito il «Raffaello ferrarese »: «La mostra su Garofalo sarà la nostra «chiave di volta» per cambiare il futuro dei musei, di tutti i musei» tiene subito a precisare. A cominciare proprio dal «suo» Ermitage.
Piotrovosky, d'altra parte, conosce bene questo mondo fatto di tesori «a volte fin troppo esposti» e di altri, al contrario, «troppo a lungo dimenticati nei depositi». Nato a Yerevan (in Armenia) nel 1944, Mikhail è figlio di quel Boris Borisovich Piotrovsky che aveva diretto l'Ermitage dal 1964 al 1990.
Si laurea con lode nella Facoltà di Studi orientali dell'Università di Stato di Leningrado con specializzazione in studi arabi; frequenta l'Università del Cairo, partecipa a numerosissime spedizioni archeologiche; entra nell'Istituto di Studi orientali di Leningrado. Poi, nel 1992, il grande salto: viene nominato direttore dell'Ermitage «per decreto governativo ». Mikhail è ancora lì (sono passati ventisei anni): con la sua faccia da professore attento segnata dagli occhiali, con le rughe che sempre più numerose circondano gli occhi chiari, con i suoi (foltissimi) capelli bianchi pettinati all'indietro, con i suoi vestiti (giacca e pantaloni grigi, camicia azzurra, golfino blu, cravatta bordeaux) certo non molto à la page (piuttosto old russian style).
Tecnologia e design ultramoderno sembrano lontanissimi dal suo ufficio affacciato sulla Neva dove spicca un tavolone lunghissimo di legno scuro (è quella la sua postazione di lavoro) sommerso di carte, libri, fogli, appunti, quaderni (alle pareti ci sono però bellissimi arazzi d'Aubusson con scene di ninfe, pastori, foreste lussureggianti e animali fantastici). Da lì Piotrovsky regge un vero e proprio impero dell'arte: tre milioni di oggetti (16.783 quadri, 621.274 opere di grafica, 12.556 sculture, 298.775 manufatti archeologici, oltre un milione e 200mila monete); 374 sale aperte al pubblico; dieci palazzi; cinquantamila metri quadrati di esposizione; ventiquattro chilometri di percorso; in ordine sparso (tra l'altro) trentotto Rubens, ventiquattro Van Dyck, dieci Tiepolo, la Danse di Matisse, la Madonna dell'Annunciazione di Simone Martini. E soprattutto quasi quattro milioni di visitatori ogni anno.
I grandi numeri (quelli dei visitatori in particolare) danno ragione a Piotrovsky. Che, però, chiarisce subito i suoi intenti: «I musei devono recuperare l'antico rigore scientifico, devono tornare ad essere luoghi per studiosi e per chi vuole crescere, chi vuole approfondire, chi vuole cambiare in meglio — dice —. Non voglio, certo, che l'Ermitage sia un santuario, tetro e inaccessibile, ma nemmeno che diventi una Disneyland ». Un rischio che gli deve sembrare davvero concreto: «Oggi troppo spesso i musei, a cominciare dai più grandi, inseguono il guadagno, vogliono avere sempre più visitatori dei loro concorrenti. Per farlo, però, devono offrire qualcosa che non rientra più nella natura stessa dei musei: il divertimento, il gioco, l'allegria, l'impegno per fare in modo che il visitatore esca sempre soddisfatto, non tanto per quello che ha visto, quanto perché, ad esempio, la caffetteria era buona o il bookshop era ben fornito» (e i «servizi» dell'Ermitage sono comunque efficienti pur non avendo niente di glamour).
E sempre per questa voglia di stupire il direttore boccia anche le architetture ad effetto (dal Guggenheim di Bilbao al nuovo museo «semovente» di Zaha Hadid) che «sembrano non tanto essere concepite per contenere opere d'arte» ma quanto per attirare visitatori «disattenti ». Il sogno di Piotrosvky? «Recuperare l'antico spirito del Grand Tour». Un sogno comunque difficile: «Oggi i musei sono diventati realtà anche economiche e politiche. Questo serve certo a potenziarne il ruolo sociale ma, dietro la facciata, si nascondono molte, moltissime insidie». Ad esempio «quella di perdere la propria missione storica o quella educativa, per diventare soltanto una sorta di lunapark, una macchina infernale buona per fare soldi».
Davanti alle parole di Piotrovsky viene così da pensare che non sia un caso che nelle sale dell'Ermitage sia ancora possibile trovare un attimo di tranquillità e di riflessione (cosa che al Louvre o agli Uffizi è ormai impossibile catturare). O che la custode blocchi immediatamente la turista che, armata di flash, cerca di immortalare la Madonna di Benois di Leonardo. Sembra tutto far parte di una strategia, non casuale, ma voluta dal direttore: «I musei come l'Ermitage, il Louvre, gli Uffizi, la National Gallery — chiarisce — sono musei universalistici che hanno come compito primario quello di insegnare la diversità delle culture, che abituano alla convivenza e al rispetto». Come? «Facendo conoscere i propri tesori ma non solo. Un momento importante, in questo processo di conoscenza, è lo studio delle collezioni, l'organizzazione secondo criteri puramente scientifici, l'esposizione di un quadro ritrovato oppure restaurato oppure di una nuova acquisizione». In questo contesto, l'esposizione di Ferrara dedicata a Benvenuto Tisi detto il Garofalo appare indicativa: «Una mostra che presenta opere uniche, un buon nucleo di queste viene appunto dalla nostra collezione, e che permette di scoprire un pittore a molti ancora sconosciuti». Su questa stessa linea si collocano la mostra che l'Ermitage di appresta a dedicare al mito di Danae o quella che viene, in questi giorni, dedicata invece all'arte islamica.
Piotrovsky è un uomo sempre in movimento (oltreché carico di onori, dalla Legion d'Honneur francese all'Ordine al Servizio della Madrepatria). Ma è granitico in questa sua idea di museo del futuro dove a fare i soldi (e ad attirare i visitatori) sembrano dover esser, prima di tutto, le mostre-evento. E dove, dice ancora, «mi piacerebbe tantissimo che si stringessero legami sempre più stretti fra grandi e piccoli musei. I grandi musei potrebbero trasformarsi in vere e proprie vetrine per tesori e realtà che ben pochi conoscono, uno scambio che servirebbe a renderci tutti più forti. Sarebbe bellissimo che il museo diventasse davvero universalistico, che non conoscesse insomma confini». Ma Piotrovsky non nasconde neppure le proprie paure: «Se il museo non sarà capace di diventare un'arma di dialogo, rischierà di trasformarsi in una pericolosissima "miccia" per futuri conflitti».

Corriere della Sera 5.4.08
Il mondo del «Raffaello ferrarese»
Madonne, bambini e santi in una nuvola di sogno
Così Garofalo racconta il sacro in modo profano
di Francesca Montorfano


Ha imparato l'arte dal Panetti e dal Boccaccino, è rimasto affascinato dai paesaggi fantastici di Dürer e dalla sensibilità per il colore di Giorgione, ha conosciuto Michelangelo e colto i nuovi fermenti che venivano da Roma al punto da venir chiamato «il Raffaello ferrarese ».
Eppure lui, quel Benvenuto Tisi detto il Garofalo dal paese di origine del padre (e che talvolta firmava le sue tele con un piccolo garofano rosso), tra i più richiesti pittori del primo Cinquecento ferrarese, è stato a lungo sottovalutato dalla critica e poco conosciuto dal grande pubblico. Non così all'estero, però. Non in Germania, Francia, Inghilterra, Austria o Ungheria dove le rotte del collezionismo hanno condotto molti dei suoi capolavori dispersi già alla fine del Cinquecento. E soprattutto non in Russia: è del Garofalo, infatti, la prima opera del Rinascimento italiano giunta alla corte di Pietro il Grande, quella stupenda «Deposizione» che il cardinale Ottoboni aveva regalato all'agente commerciale dello zar a Venezia e che questi aveva avuto «l'ardire» di portare alla corte russa nel 1720, primo passo della futura collezione.
Del maestro ferrarese l'Ermitage di San Pietroburgo possiede un importante nucleo di opere, tra cui tre dipinti di grandi dimensioni realizzati dal Garofalo intorno al 1530 per il convento di San Bernardino che la giovane Lucrezia Borgia sposa di Alfonso d'Este aveva voluto acquistare e che oggi è andato distrutto: «Le nozze di Cana di Galilea », «l'Andata al Calvario e «l'Allegoria del Vecchio e del Nuovo Testamento», rimasta arrotolata per più di cinquant'anni e ora recuperata in tutta la sua bellezza.
«Garofalo, pittore della Ferrara estense» è oggi l'omaggio di San Pietroburgo all'artista che ha fatto conoscere in Russia la grande arte rinascimentale italiana e la magnificenza di una corte tra le più illuminate d'Europa. Una rassegna di ampio respiro curata da Mauro Lucco e Tatiana Kustodieva che nello scenario del Castello Estense— prestigiosa sede di Ermitage Italia — vedrà per la prima volta riuniti oltre settanta capolavori del pittore, provenienti da San Pietroburgo e da alcune delle più importanti istituzioni europee: tra di essi la celebre «Moltiplicazione dei pani e dei pesci» giunta dalla Siberia dopo un viaggio di oltre 15.000 chilometri. Saranno esposte anche opere di artisti a lui contemporanei, come la «Sibilla» di Dosso Dossi o la bellissima «Madonna in trono» e «il piccolo Compianto sul Cristo morto» di Francesco Francia, gioielli dell'Ermitage, per ricostruire non solo l'intera parabola creativa di Benvenuto Tisi, ma anche l'effervescente clima culturale che allora si respirava in città.
«Merito grande del pittore è di essersi confrontato con quanto di meglio i maestri del Rinascimento andavano elaborando a Venezia e a Roma, rimanendo sempre fedele a se stesso — precisa Mauro Lucco —. Il Garofalo è stato un artista fuori dagli schemi, che ha dipinto quasi unicamente pale d'altare e temi religiosi per le chiese e le confraternite della città, ma senza perdere di vista il mondo che lo circondava. Trattando un tema tradizionale come quello sacro in modo nuovo, profano, reinterpretandolo alla luce di quella cultura dell'intrattenimento elaborata nelle stanze del potere, inserendolo in un meraviglioso universo fantastico con gusto tipicamente narrativo».
E così Benvenuto Tisi dipinge Madonne, Bambini e Santi che sembrano personaggi di una favola avventurosa, e con soluzioni originali, con una poesia della natura intimamente sentita, li cala non in chiese o in cappelle, ma nel clima di corte, in ambientazioni fatte di paesaggi fiabeschi e inverosimili, vicino a rocce scoscese, costoni a picco e specchi d'acqua nei quali si riflette il cielo, tra luci che paiono fuochi d'artificio, vapori di nebbie e magici tramonti. Il suo è un mondo di sogno, sereno, lontano da affanni e dolori. Le sue immagini - sia le pale d'altare che i grandi cicli di affreschi realizzati per le residenze estensi - di una bellezza senza tempo, che conquistò allora i suoi concittadini entrando a far parte dell'immaginario collettivo ferrarese e che ancora oggi, cinquecento anni dopo, colpisce ed emoziona. E anche in questo risiede quella «modernità » che il Vasari tanto apprezzava nell'artista.

venerdì 4 aprile 2008

l’Unità 4.4.08
Occhetto torna alla Bolognina: «Ora il Pd vuole uscire dalla sinistra»
di Antonella Cardone


«È stato preso un abbaglio sulla svolta della Bolognina: allora era evidente che si voleva uscire da sinistra dalla crisi dei regimi totalitari, ora con il Pd si vuole uscire dalla sinistra, per costruire un partito di centro». L’ultimo segretario del Pci Achille Occhetto, tornato ieri a Bologna nella sede della Sinistra Arcobaleno, a pochi passi dal luogo, la Bolognina, dove sancì la svolta storica del maggiore partito comunista dell’Europa occidentale, bacchetta Walter Veltroni che pure lo ringrazia dicendo che «senza di lui, noi non saremmo qui».
«Io in realtà - sottolinea Occhetto - non sono lì ma qui, con la Sinistra Arcobaleno, soggetto laico, plurale, femminista, libertario della nuova sinistra. Perché non è vero che l’unica modernizzazione possibile sia uscire dalla sinistra. Il dramma di questa campagna elettorale è volerci cancellare dalla vita politica italiana, il che vuol dire anche uscire dall’Europa, visto che in tutto il Vecchio Continente c’è una sinistra, vedi la Spagna. Vorrei vedere il Pd rispondere all’offensiva dei vescovi come ha fatto Zapatero, che come primo atto ha tolto tutti i militari spagnoli dall’Iraq, ed è stato realmente modernizzatore sulle coppie di fatto».
Per il politico che per primo ha avviato il processo di modernizzazione della sinistra italiana, ormai quasi vent’anni fa, quello che propone oggi il Pd non è modernità, in quanto «sostenere che operai e padroni sono la stessa cosa è certo una novità, ma esistono anche novità un po’ sciocche», perché «Veltroni ha scoperto che non c’è più il lavoro servile del feudalesimo, e che ci sono anche imprenditori che lavorano e sudano affianco ai loro operai: la differenza tra l’uno e l’altro, che ce l’ha già abbondantemente descritta Marx, è che il lavoratore che non ha in mano gli strumenti di produzione mentre l’imprenditore ha anche il potere di licenziare ed assumere».

l’Unità 4.4.08
Donne messe al muro. Violate dalla pubblicità
di Silvia Ballestra


LA MOSTRA Ico Gasparri è un «fotografo che fotografa le foto degli altri fotografi». Al Naba, a Milano, espone gli scatti realizzati tra il 1990 e il 2008. Oggetto, la figura femminile nei cartelloni cittadini. E il risultato è sconvolgente

Ico Gasparri, il fotografo che fotografa gli altri fotografi, al Naba a Milano espone gli scatti fatti tra il 1990 e il 2008. Tante le foto. Unico il soggetto. La figura femminile come è raccontata sui cartelloni della pubblicità. Il quadro che ne esce non è confortante. Perché assieme alle merci si reclamizza anche un concetto di donna che non fa bene nè alle donne, ma neppure agli uomini. Domina l’immagine della donna finta: truccata pesantemente, ingioiellata di catena o col corpo gonfiato nelle sue convessità.
Un martellante, ma finto invito a migliaia di ragazze a non essere se stesse, a inseguire miti e modelli che le rendono tutte un po’ uguali e quindi false.
Non sappiamo chi vincerà queste elezioni ma sappiamo di sicuro chi le ha già perse: le donne. Attaccate in apertura di campagna elettorale da Giuliano Ferrara che afferma di non voler criminalizzare le donne ma ogni volta che se ne trova una in carne ed ossa, nome e cognome, fra le mani, tenta di farla a pezzi (si tratti delle povera Silvana di Napoli, di una show girl o di una normalissima ragazza intervistata per strada, tutte colpevoli di aver usufruito di una legge dello Stato). Poi, ricacciate in uno scoraggiante filmetto anni Cinquanta da Silvio Berlusconi che, nel boschetto della sua fantasia, si gingilla con sceneggiature soft porno: massaie che portano crostate agli scrutatori o si trasformano in dominatrici con la frusta fra le mura di casa o, Mariline di noantri, che si ingegnano a sposare un milionario per risolvere il problema della precarietà. Oppure, inopinatamente tirate in ballo da una Santanché per attaccare i migranti, rei di «prendersi le nostre donne» (frase già di per sé oscena: nostre di chi, scusi?, ma detto da una donna ancora più sibillina: sue della Santanché, eventualmente?).
Ecco, il quadro non è confortante. E queste sono solo le ultime amenità che si aggiungono alla visione, immagine, concezione che si dà della donna in questo Paese. Ma ci sono anche altri luoghi, a parte la politica e la cronaca, ove le donne vengono usate ogni giorno. Il mezzo che più veicola un inesausto, vergognoso, esagerato attacco alle donne in quanto, soprattutto, corpi, è l’onnipresente pubblicità. Ed ecco il punto: assieme alle merci si reclamizza un concetto di donna che non fa bene alle donne e neanche tanto agli uomini. Perché si tratta di una donna finta: fumettistica, aggressiva ma anche aggredita, gonfiata nelle convessità e scavata dal photoshop nelle concavità, truccata pesantemente, adorna di catene, abbigliata con lingerie impossibile, sempre sessualmente molto disponibile. Un modello di donna ultraomologato che riscuote molto successo e desiderio di emulazione perché vincente. Un martellamento continuo diretto alle ragazze più giovani alle quali altro non s’insegna che adeguarsi. Perché non tentare la sorte seguendo le fortunate carriere d’una Canalis, d’una Gregoraci, d’una Moric che, imboccata la ricca e desiderabile autostrada della seduzione da cartellonistica e da calendario, incassano contratti milionari, vengono ammirate in lungo e largo e si divertono pure? E alla maggior parte delle ragazze infatti tutto ciò non dispiace affatto. Perché sono queste, poi, le donne che trovano spazio e trionfano in televisione, sui giornali, in rete e financo alla radio (ve lo ricordate «Auto émocion» sussurrato lascivamente da una signorina con accento spagnolo per vendere una macchina? Basta la voce per renderti solo corpo, e corpo disponibile). Vengono considerate potenti: «Io valgo!», recitava lo strillo d’una nota marca di cosmetici e milioni di ragazze pensano che sia vero, che rendersi belle e desiderabili per gli uomini significhi autovalorizzarsi, autostimarsi, apprezzarsi come un’azione sul mercato, e non, invece, svilirsi.
Donne manipolate e manipolatrici a cui non si sfugge neanche sottraendosi alla presa dei media, perché le ritroviamo, in formato ultragigante, incombenti e minacciose sopra un take away del centro, oppure solitarie e abbandonate in periferia, sulle pareti delle nostre città. Eccole. Le donne appiccicate, affisse. Ed ecco anche qualcuno che ce la fa vedere, messe in fila, archiviate, fissate, documentate in un archivio di migliaia di scatti raccolti in quasi vent’anni di fotografia per le vie della città.
Ecco le «nostre» donne messe al muro. Sdraiate, per lo più, e non solo perché i manifesti sono prevalentemente orizzontali e, cosa ancora più inquietante, spesso sdraiate a terra (e quando una donna si ritrova sdaraiata per terra?). Se invece sono in piedi, le modelle sono riprese in scomode posizioni a «esse»: petto e sedere in fuori, testolina reclinata da un lato, oppure donne mutilate, con solo porzioni di corpo in evidenza e la parte che manca, quasi sempre, è la testa (a meno che non serva il broncio sexy delle labbra). Anche questi insulti urbani hanno una storia: dal 2004, per esempio, si cominciano a vedere gambe allargate, a volte molto allargate. Dunque eccola qua, finalmente a Milano, la città che si appresta a farsi bella per l’Expo ma che è anche la maggior imputata di questo lavoro di denuncia sociale, la mostra del fotografo Ico Gasparri che si intitola significativamente Chi è il maestro del lupo cattivo? L’immagine della donna nella pubblicità a Milano dal 1990 al 2008, aperta fino all’11 aprile al Naba, la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Il lupo cattivo sono, per Ico Gasparri, gli stupratori di tutti i generi e qualità, i molestatori, da quelli che ti sdraiano a terra, appunto, a quelli della mano morta sul tram. Tutti quelli che pensano che una donna sia qualcosa da prendersi e usare a piacimento. Il maestro del lupo, invece, è lì da vedere, in questa sequenza ossessiva (ossessione non dell’occhio che l’ha raccolta, ma delle menti che la mettono in scena continuamente) di culi, tette, scollature, labbra tumide, sguardi spersi, posizioni kamasutriche, per vendere biancheria intima, automobili, jeans, ma anche collegamenti Internet veloci, materassi, silicone sigillante, antiruggine per ringhiere di balconi (mi aiuta Giovanna/brava Giovanna, ve lo ricordate vero?, è uno dei miei preferiti), gelati e insomma tutto il ben di Dio possibile e immaginabile della nostra opulenta società dei consumi.
Ico Gasparri, oltre a essere un bravissimo fotografo con alle spalle una formazione da archeologo che gli permette di guardare i tram, i muri, le facciate dei palazzi in rifacimento e financo i monumenti pubblici infasciati da impalcature per perenni lavori di ristrutturazione (una specialità di Milano: lasciare su le impalcature non per vera necessità edile ma per sorreggere cartelloni pubblicitari mastodontici che pagano fior di quattrini) con un taglio e una sensibilità di sguardo particolari, è uno che si indigna. E che è padre di una figlia femmina, non sfugga il dettaglio: è dai tempi di Virginia Woolf che gli uomini più sensibili alle sorti delle donne sono i padri di figlie femmine. E che a un certo punto si pone questa domanda: mi piacerebbe vedere mia figlia in quelle posizioni? Di più, da uomo si chiede: cosa penserebbe un uomo se una donna vera, incontrata in un bar, in ufficio o per strada, lo guardasse in quel modo? Che domande. Così, armato di una pesantissima attrezzatura, comincia a girare per Milano con l’obiettivo di fissare questo scempio: ne escono 3mila scatti di circa 330 campagne, 72 dei quali, bellissimi, sono in mostra oggi, e 230 si trovano invece sul suo sito (www.icogasparri.net). E a guardarli così in sequenza, fanno davvero un effetto forte. Talmente forte che i commenti lasciati dai visitatori spaziano dall’incazzatura furibonda («Che tristezza e rabbia cedere le donne così, Gabriella», «Troppo orrore, Gio», «Dove sono andate afinire le femministe? Perché difendono le donne arabe? O.», «È ora di finirla... brutti bastardi!» Magda) a riflessioni più inattese («Perché non ci ha pensato una donna?» Letizia, «Hanno ucciso anche la pornografia» Antonio, «Finalmente donne. Ma quali? Grazie, uomo, di esserti accorto. C.»). Ma il lavoro di questo «fotografo che fotografa le fotografie degli altri fotografi» è davvero scomodo ed eversivo perché gli interessi in ballo sono enormi, così arrivare a fare una mostra o vedere pubblicate le foto sui giornali, non è per niente facile. Quando la propone al circuito dell’arte, delle famose gallerie di questa famosa Milano degli intellettuali e degli artisti tanto sbandierata in queste ore di Expo, la risposta è: «roba di denuncia sociale», «moralista», «bacchettone». Commenta amaro Ico: «Roba poco di moda per un mondo della fotografia che andava velocemente verso il disimpegno, verso la fotografia iperrealista, patinata, fatta di star e starlette, di ritratti e paesaggi desolati, ragazzi coi brufoli e architetture allineate nel silenzio, morti squartati e lame infilate nella pelle»...C’erano anche quei concept store (credo si dica così) che affiancano galleria d’arte a negozio, discorso identico: «lavoro bellissimo, ma troppo di denuncia, molte di queste aziende che lei fotografa sono proprio nostri fornitori». Stessa musica, è facile immaginarlo, per le testate giornalistiche: troppo forte, sconveniente, come attaccare quegli stessi inserzionisti in quelle campagne che, due pagine dopo, pagano l’esistenza stessa di tanti femminili e magazine? Idem per le amministrazioni che da quelle affissioni incassano milioni.
È uno strabiliante paradosso che sconcezze e insulti tanto visibili a tutti restino così nascosti e oscurati quando li si denuncia. E questo spiega come mai, quando le foto di Ico Gasparri trovano spazio in seminari e lezioni, suscitano pensieri, emozioni, dolori e dibattiti sulla bellezza, la felicità, l’anoressia, il corpo. Soprattutto fra le ragazze più giovani, che trasecolano, si indignano incredule, non mormorano più «Wow, che tette!» come fossero maschi, ma invece capiscono al volo, chiamano per segnalare nuove affissioni. Si vedono finalmente come realmente sono: messe al muro. E non ci stanno.

Repubblica 4.4.08
"No alla pillola del giorno dopo" Pisa, la Procura apre un´inchiesta
Asl, verso le sanzioni."Avvenire":"Legittimo rifiutare"
di Maurizio Bologni


FIRENZE - La procura di Pisa apre un´inchiesta per la pillola del giorno dopo rifiutata a due ragazze e intanto da Firenze arriva via mail a Repubblica la segnalazione di un caso analogo: «Ho telefonato alla guardia medica del mio quartiere, hanno rifiutato la prescrizione e mi hanno detto di rivolgermi altrove». Anche questa denuncia, come a Pisa, tira in ballo non un singolo medico ma un intero servizio pubblico di guardia medica. Quando è così, le cose si complicano, come ha ribadito ieri il ministro della sanità Livia Turco in una lettera alla Federazione nazionale dei medici. Occorre «che la prescrizione della contraccezione d´emergenza sia garantita, oltre che nei servizi consultoriali, anche nei pronto soccorso e nelle guardie mediche, prevedendo la presenza di almeno un medico non obiettore in ogni distretto sanitario».
Prende spunto dai casi di Pisa L´Avvenire di ieri per difendere la libertà di scelta dei medici. Sui fatti di questi giorni, in particolare, il giornale dei vescovi minimizza: li definisce «di rilievo limitato, ma occasione per alcuni laicisti per riaprire polemiche stantie, accusare i cattolici di oscurantismo, stigmatizzare i medici obiettori».
Antonio di Bugno, che svolge le funzioni di capo della procura a Pisa, ha invece aperto un´inchiesta sulla base degli articoli di stampa: l´ipotesi di reato potrebbe essere interruzione di pubblico servizio. Mentre i vertici della Asl pisana, che ieri hanno sentito i due medici indicati come autori del rifiuto, concluderanno entro la settimana l´indagine interna. Eventuali contestazioni potranno essere utilizzate in fase di processo penale, come prove per una condanna, o in fase disciplinare presso l´ordine: i medici rischiano la sospensione.
I casi risalgono alla vigilia di Pasqua e alla notte tra mercoledì e giovedì di una settimana fa. A Pasqua una ventenne, con il fidanzato, va alla guardia medica del quartiere «I Passi» e trova un cartello che dice «qui non si prescrive la pillola del giorno dopo. Rivolgersi al proprio medico, pronto soccorso, ginecologia, consultorio, qualsiasi medico privato». Nel secondo caso una ragazza denuncia di aver ricevuto dinieghi di prescrizione dal pronto soccorso dell´ospedale Santa Chiara oltre che dalla guardia medica. La Asl però assolve il pronto soccorso dove «la pillola è stata somministrata in entrambi i casi». Resta il comportamento delle due guardie mediche che ieri sono state sentite dal direttore sanitario dell´Asl 5 Rocco Damone e che hanno prodotto una relazione difensiva. Damone vuole in particolare valutare se i dottori hanno violato gli articoli 22 e 36 del codice deontologico: il primo consente al medico di non prestare la propria opera se in contrasto con le proprie convinzioni ma gli impone di informare l´utente su come godere del servizio, mentre il secondo subordina l´obiezione di coscienza all´emergenza (il farmaco va somministrato entro 12 ore e non oltre 72 ore dal rapporto e - precisa il foglietto delle istruzioni - non interrompe gravidanze in atto ndr).

Repubblica 4.4.08
Il ministro Livia Turco: "Non è un farmaco abortivo"
"I medici devono tutelare la donna e il servizio va sempre garantito"
di Mario Reggio


ROMA - «La pillola del giorno dopo non è un farmaco abortivo ma è un anticoncezionale e come tale è registrato dall´Emea, l´agenzia europea del farmaco, e dall´Aifa in Italia. Al medico che si rifiuta di prescriverla per motivi di coscienza chiedo di farsi carico della richiesta d´assistenza della donna, non lasciandola sola ed assicurandosi che possa comunque ricevere la prescrizione nell´ambito della struttura sanitaria pubblica e nei tempi opportuni. Perché nessuno deve dimenticare che siamo al cospetto di un´emergenza. E penso che questo sia un dovere professionale del medico, oltre che umano ed etico. Quindi non può tirarsi indietro rispetto alla sua responsabilità che prima di ogni altra cosa è il bene del paziente».
Risponde così alle polemiche il ministro della Salute Livia Turco.
Come mai in questi due anni di governo non siete stati in grado di evitare che si verificassero casi come quelli di Pisa e Firenze?
«Intanto dobbiamo sapere che nessuna legge può obbligare un medico a prescrivere un farmaco o una terapia di cui non è convinto. E proprio per evitare che questi fatti si ripetano abbiamo predisposto un atto di indirizzo per la piena applicazione della legge 194, condiviso da tutte le Regioni tranne la Lombardia e la Sicilia, nel quale è scritto che la prescrizione della contraccezione di emergenza sia ovunque garantita, oltre che nei consultori, anche nei pronto soccorso ospedalieri e nelle guardie mediche. E inoltre che le Regioni devono assicurare la presenza di almeno un medico non obiettore in ogni distretto sanitario».
E il medico che dichiara in "scienza e coscienza" di non voler prescrivere il farmaco d´urgenza?
«Penso abbia il dovere di dialogare con la donna, tranquillizzandola, individuando la struttura pubblica in grado di dare una risposta appropriata e tempestiva alla sua richiesta. Evitando così il rischio di peggiori conseguenze come l´aborto».
Ma lei non è intervenuta sui casi di Pisa e Firenze. Perché?
«Sono intervenute, come di competenza, la Regione e le Asl».
Lei ha scritto una lettera al presidente della Federazione degli Ordini dei medici.
«Per ribadire i concetti che ho esposto e perché abbiamo il compito di contemperare in modo laico il diritto della donna ad una prestazione sanitaria garantita dalla legge e quello del medico ad opporsi quando la richiesta contrasta con la sua coscienza, come previsto dal codice deontologico. Non può essere la magistratura a dover dirimere problemi come questo».

Corriere della Sera 4.4.08
La storia manipolata dagli storici
Polemica in Usa. Gordon Wood: meglio i divulgatori degli accademici
di Ennio Caretto


Dibattiti «Destra e sinistra rileggono il passato in modo ideologico». La replica: sei antiamericano
La storia manipolata dagli storici
Polemica in Usa. Gordon Wood: meglio i divulgatori degli accademici

Razza, sesso, classe per certi studiosi sono onnipresenti come la Santa Trinità Le origini
«La firma della Costituzione degli Stati Uniti nel 1787», dipinto di Junius Brutus Stearns del 1856. Nelle foto sotto, a partire dall'alto: lo storico Gordon Wood, autore di «The Purpose of the Past»; il suo collega David McCullough; la polemista neocon Ann Coulter; lo storico inglese Tony Judt

Pubblicando una raccolta di 21 saggi e recensioni sui più importanti libri di storia americana degli ultimi 25 anni, Gordon Wood ha riacceso un dibattito che periodicamente divide l'America: quello sulla manipolazione della storia, sul ruolo dello storico e sulla sua interpretazione dei più importanti eventi patri. Wood, di cui sono usciti in Italia Le origini degli Stati Uniti (Il Mulino, 1987), scritto con Bernard Bailyn, e i I figli della libertà: alle radici della democrazia americana (Giunti, 1996), è da molti giudicato il massimo storico statunitense. Il suo nuovo libro, Lo scopo del passato. Riflessioni sull'uso della storia, edito dalla Penguin, è una denuncia della «mancanza d'obbiettività degli storici postmoderni» del mondo accademico. Storici «esoterici», protesta, «chi strutturalista e chi relativista, chi ideologicamente schierato e chi apostolo del multiculturalismo». Wood conia per loro un termine spregiativo, «presentisti», perché, lamenta, leggono la storia non come fu, ma come vorrebbero che fosse stata secondo la odierna «Santa Trinità»: la razza, il sesso, la classe.
Per Wood, docente di storia alla prestigiosa Brown University, gli storici obiettivi, e non a caso più popolari, sono di solito quelli privi di una cattedra, divulgatori come Barbara Tuchman nella seconda metà del secolo passato, e come David McCullough oggi. Gli storici dell'Accademia, «che spesso scrivono l'uno per l'altro », sono invece propensi a manipolare la storia: «Essere uno storico significa sapere inquadrarne i protagonisti nel contesto del loro tempo e delle circostanze, e senza distorsioni anacronistiche ». A differenza della sociologia e della politica, continua Wood, «la storia è conservatrice, non nel senso attualmente attribuito a questo termine, ma nel senso che mette in evidenza quello che è possibile e quello che non lo è». E conclude: «Per la storia vale il saggio commento di Rebecca West: se la politica entra dalla porta, la verità scappa dalla finestra. Quegli storici che cercano di influenzare la politica contemporanea mancano al proprio compito, dovrebbero candidarsi al Parlamento». Un monito anche per l'Europa e l'Italia.
Richiamando gli storici al rigore della loro disciplina, Wood si è esposto a un'ondata di critiche. In America la Brown University è considerata un bastione liberal, sebbene Wood rifiuti l'etichetta, e i «neocon» gli si sono scagliati contro: la loro vestale Ann Coulter lo ha tacciato di «antiamericanismo». Ma lo hanno altresì contestato, rifacendosi alle sue opere più celebri, quelle tradotte in italiano, colleghi moderati come Steven Hayward e Mark Seidenfeld, sostenitori dell'«eccezionalità» della democrazia americana. Hayward ha ritorto le argomentazioni di Wood, rinfacciandogli in pratica di «vedere il fuscello nell'occhio altrui e non la trave nel proprio»: «Checché ne dica, Wood appartiene all'establishment liberal. Nei libri disconosce i meriti dell'individualismo e del capitalismo degli Usa, e sostiene che la rivoluzione anticoloniale fu comunitaria da un lato ed elitaria dell'altro». Seidenfeld lo ha rimproverato di promuovere «statalismo e assistenzialismo» con la tesi che l'America nacque come repubblica e solo più tardi divenne una democrazia.
Stando a Tony Judt, lo storico inglese della New York University, ha ragione Wood. In America, come in quasi tutti i Paesi, commenta Judt, la storia è stata ripetutamente strumentalizzata per inculcare patriottismo nel pubblico, per costruire un'identità nazionale e per trasformare gli immigrati in cittadini: ancora oggi, si crede che la Provvidenza abbia assegnato all'America uno speciale destino, l'«unicità» di Hayward, di Seidenfeld e altri. Non di rado, prosegue Judt, la moderna prospettiva diventa uno specchio deformante: è il caso del multiculturalismo, che tende a ingigantire la funzione dei neri e delle donne nella rivoluzione anticoloniale del Settecento.
Lo storico inglese è d'accordo con Wood sul fatto che considerare l'abolizionismo uno dei moventi dell'indipendenza americana è errato. Nella guerra, molti neri si schierarono con l'Inghilterra, perché aveva promesso di affrancarli: fu la successiva enfasi sulla libertà dei cittadini e la dignità dell'uomo a imporre l'abolizione della schiavitù alla nuova America, quasi un secolo più tardi.
Un altro storico, Walter McDougall, ritiene che quello che Wood propone sia revisionismo alla rovescia. La storia non può essere agiografia, rileva, ma nemmeno manipolazione, «che ultimamente si è fatta sempre più frequente». McDougall, che insegna all'Università della Pennsylvania, è al secondo volume di una massiccia trilogia sul XIX secolo, Throes of Democracy
(«Spasmi di democrazia»), sull'America dell'epoca della guerra civile, dal 1829 al 1877. Pensa che l'apporto del capitalismo e dell'individualismo alla democrazia americana non fu così fondamentale come proclamato da Hayward e da Seidenfeld: «È ingigantito dalla loro ideologia di destra». Come Woods scorge nella Costituzione un documento aristocratico disegnato in parte anche per contenere le spinte democratiche popolari, così McDougall vede nel «destino manifesto» dell'America un moralistico travestimento della sua politica militarista e mercantilista. Da quasi due secoli e mezzo l'America è al centro della storia, conclude. Ma non è detta l'ultima parola su come la sua storia sarà letta.

Rosso di Sera 4.4.08
Folena: “Dal 14 aprile costruiremo un soggetto politico,non un’alleanza. Anche con Boselli, se vuole"

Pietro Folena gira per la Puglia. Una regione in cui il partito socialista ha una storia importante: qui nacque Giuseppe Di Vagno
Si è aperto un dibattito dopo le aperture di Bertinotti al dialogo con i socialisti di Boselli.
E' un dialogo che va tessuto con determinazione. Bisogna unire la sinistra italiana.
Parli solo di unità d'intenti o unità organizzativa?
Non escludo nulla a priori. Non mi nascondo che vi sono differenze rilevanti sui temi economici. Senza parlare la stessa lingua sul lavoro non possiamo stare insieme. Ma va detto che noi abbiamo compiuto passi avanti sui temi della laicità che il Pci metteva più in sordina rispetto al Partito socialista. Se con i socialisti aprissimo un dialogo su cosa può significare un nuovo socialismo del XXI secolo credo che troveremmo interesse. Un socialismo del lavoro e della libertà.
Insomma porte aperte.
Se Boselli e il Ps vogliono, se c'è la volontà di aprire un dibattito culturale e politico, penso che i frutti possono essere molto interessanti.
Intanto, però, non è scontato che chi oggi è parte della Sinistra Arcobaleno si unisca, il 14 aprile.
Per me lo è. O facciamo così o spariamo. Giro per i paesi, i nostri elettori sono già avanti. Nessuno più nomina i partiti, c'è già la percezione di un soggetto unitario. “Di che partito è Bertinotti?” la risposta è sempre “Sinistra Arcobaleno”. Ho girato il quartiere San Paolo a Bari, la gente dice: “Ma voi siete dell'Arcobaleno?”. Non realizzarla sarebbe suicidarsi, non voglio credere che qualcuno lo pensi.
Diliberto?
Spero prevarrà il realismo politico, un'antica tradizione dei comunisti, rispetto alle pur legittime aspirazioni di ogni forza politica.
Veltroni è tornato a parlare di voto utile.
E' un argomento ogni giorno più debole. Farebbe presa se Veltroni attaccasse Berlusconi, se parlasse dei pericoli della destra. Ma non lo fa. Dice “votate noi o votate Berlusconi”. Questo indebolisce la sua propaganda. Zani e Pasquino si sono fatti i conti e hanno capito che è meglio votare Sinistra Arcobaleno per sconfiggere Berlusconi. Gli elettori di sinistra non sono stupidi, l'aritmetica la conoscono. La voce circola sempre più insistente: “Votiamo Sinistra per togliere seggi a Berlusconi e Casini”.

Rosso di Sera 31.3.08
Il lupo perde il pelo ma non il vizio
di Elena Canali

E’ proprio difficile inventare questo nuovo “soggetto politico”, ma, nonostante le delusioni e tutte le critiche che io stessa vado facendo, mi riesce impossibile accettare che alcuni compagni lascino la Sinistra l’Arcobaleno! Protestare, minacciare istericamente di sbattere la porta e andarsene, tutto è lecito quando vuoi salvare un grande amore, ma andartene con un' “altro”, no!!! Anche perché, qui non c’è un “altro”, l’altra “sinistra” non c’è.
Il PD non è “sinistra”. Il suo stesso leader lo proclama orgogliosamente, e lo pratica anche: per lui, infatti, “abbattere le disuguaglianze” vuol dire candidare un operaio, “ma anche” un industriale, e zac! Per magia la classe operaia non c’è più: il “ma anche” svuota di significato il conflitto sociale, e se i metalmeccanici si sono accontentati di un aumento di 127 Euro al mese dilazionati in tre anni, magari accetteranno anche di buon grado l’elevazione dell’età pensionabile a 85 anni! Tanto che ci devono fare col tempo libero… un ora per vedere l’Isola dei Famosi non gliela nega nessuno!
In compenso gli industriali sono tanto buoni e Della Valle offrirà un’altra regalia ai lavoratori della sua azienda: non diritti, dunque, ma carità. Le riforme sono ormai soppiantate da una miscellanea di buonismo cattolico inzuppato in una struttura ideologica liberal-fascista per la quale il povero rimarrà sempre povero e il ricco, caritatevole, sarà sempre ricco, perchè il destino è segnato da Dio, è la legge della natura. Ma… tutti insieme appassionatamente! Sorvoliamo, poi, sui temi dei diritti civili e la totale sottomissione ai capricci della chiesa … Insomma il PD, oggi, rappresenta una pericolosa mistificazione e vedere compagni che sterzano bruscamente a destra fa una certa impressione: pensavo che su queste posizioni ci fosse un comune irrevocabile sentire, ma nel fare “una scelta di parte” evidentemente qualcuno si confonde.
Sarà ancora più importante, allora, rimarcare che a sinistra non esistono alternative: la “sinistra” è questa! Mettiamoci dentro nuove persone, nuove idee, nuove modalità come lo sguardo sul futuro impone e allo stesso tempo poniamo un forte senso critico verso ogni pericolo di conservazione e auto-conservazione, ma la barra, senza incertezze, è verso il Socialismo del XXI secolo come ci indica Fausto Bertinotti.
Per questo, al contrario di quanto afferma Asor Rosa sul Manifesto, ritengo sia importante votare e votare Sinistra l’Arcobaleno, perché il grande amore per i valori della sinistra non può essere banalmente ceduto al primo lupo che passa vestito da nonnina. E i lupi, si sa, perdono il pelo, ma non il vizio.

giovedì 3 aprile 2008

La Repubblica 03.04.2008
Elezioni, si rischia il rinvio è battaglia sul simbolo Dc

Veltroni e Berlusconi contrari. Il Viminale ricorre
Prodi: l´Italia si metterebbe in cattiva luce Ferrara: se accade mi suicido

di Francesco Bei
«Un rinvio delle elezioni oggi metterebbe l´Italia molto, molto in cattiva luce davanti al mondo». Quella di Romano Prodi sembrerebbe una constatazione ovvia su un´ipotesi d´accademia, se non fosse che proprio il rinvio è davvero uno dei possibili esiti di una vicenda kafkiana - maturata in un vortice di ricorsi, sentenze e ordinanze - che nasce dalla riammissione alla corsa elettorale della Dc di Giuseppe Pizza (alleato di Berlusconi) da parte del Consiglio di Stato.
Così l´ipotesi rinvio, obbligatoria se si vuole dar modo a Pizza di fare campagna elettorale per tutti i trenta giorni previsti dalla legge, per il ministro dell´Interno Giuliano Amato in mattinata diventa «un´eventualità che non posso escludere». E basta solo evocarla questa «eventualità» per provocare uno shock in tutto il mondo politico, schierato questa volta senza eccezioni - da Veltroni a Berlusconi, a tutti gli altri - a difesa della data prefissata. Per il leader del Pdl il rinvio «sarebbe un dramma» e si appella quindi al suo alleato chiedendogli «un segno di responsabilità». Il Cavaliere vorrebbe che Pizza (che si presenta solo al Senato nelle circoscrizioni italiane) rinunciasse alle sue pretese in cambio di maggiori spazi in tv, ma il segretario della Dc "pocket" per tutto il giorno si mostra irremovibile. Solo in serata Pizza apre uno spiraglio, nel caso «arrivasse una sollecitazione del capo dello Stato». Anche nel Pd la questione si pone con drammatica urgenza: «E´ una cosa aperta nella destra - sostiene Veltroni - la destra la risolva. Spero non sia un tentativo per rinviare le elezioni». Giuliano Ferrara minaccia conseguenze drastiche: «Se rinviano le elezioni, mi suicido». Più serio Fausto Bertinotti, che paventa «uno smarrimento nel Paese» in caso di prolungamento della campagna elettorale, perché «verrebbe percepita da tutti come la dilatazione dell´incertezza». Pier Ferdinando Casini, contro cui Pizza ha scagliato i suoi avvocati chiedendo il sequestro del simbolo Udc, liquida le pretese della Dc come «baggianate».
A bloccare il simbolo della Dc pizzina perché troppo simile a quello dell´Udc era stato l´ufficio elettorale del Viminale, che ne aveva bocciato lo scorso 4 marzo il simbolo insieme a quello della Dc di Sandri. Entrambi hanno però presentato ricorso in Cassazione, e l´8 marzo l´ufficio centrale elettorale li ha respinti. L´indomito Pizza si è rivolto a questo punto al Tar, sostenendo l´illegittimità dell´esclusione, ricevendo un´altra bocciatura. Quindi l´ennesimo ricorso al Consiglio di Stato, e la decisione di ieri l´altro che ha ribaltato le precedenti. E tuttavia il rinvio non è l´unica strada possibile. Il governo infatti non se né è stato con le mani in mano, consultando giuristi, costituzionalisti, funzionari del Viminale, esperti del Quirinale. Forte anche dell´articolo 61 della Costituzione, che prevede in modo tassativo che le elezioni si svolgano entro 70 giorni dallo scioglimento delle Camere (scadono il 16 aprile), nel pomeriggio, Amato ha dato incarico all´Avvocatura dello Stato di proporre ricorso in Cassazione per chiedere la revoca dell´ordinanza sulla Dc. Il vice avvocato generale, Glauco Nori, sta preparando in effetti due ricorsi, che verranno presentati oggi. Uno alle sezioni unite della Cassazione, per sostenere il difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato sulla materia. E un secondo ricorso allo stesso Consiglio di Stato, perché nella sua ordinanza non avrebbe tenuto conto che all´estero le operazioni di voto sono già iniziate (il 26 marzo), con militari e diplomatici che hanno votato su schede prive del simbolo di Pizza. Peraltro, se anche non si rinviasse il voto ma semplicemente venisse riammessa la Dc e i suoi candidati, bisognerebbe ristampare milioni di schede elettorali, con i costi immaginabili. Il Tar del Lazio poi deve ancora pronunciarsi nel merito del caso e, in teoria, potrebbe dare torto a Pizza anche dopo che la Dc abbia partecipato alle elezioni. In quel caso sul risultato elettorale penderebbe la ghigliottina dell´illegittimità, sia che si voti il 13-14 aprile, sia che si rinvii. In questo pasticcio giuridico qualcuno ieri già ricordava il precedente di Messina del 2005 quando - al termine di una battaglia legale dentro al Nuovo Psi - i giudici amministrativi annullarono le elezioni comunali e ordinarono la loro ripetizione.

La Repubblica 03.04.2008
Insulti e lanci di uova su Ferrara "Non ho paura, a voi piace l´aborto"
di Michele Smargiassi
Alle ore 18.48 Giuliano Ferrara risponde al fuoco. Riesce ad acchiappare al volo chissà come un paio dei pomodori che gli piovono addosso, e li rispedisce al mittente con mira alzo zero. «Cosa credete, che abbia paura di voi?», ruggisce, «smettetela, è dagli anni settanta che rompete i coglioni alla democratica Bologna!». Gli altri se possibile ruggiscono ancor più di lui, del resto sono alcune centinaia, e cominciano a spingere contro il cordone di polizia, è a questo punto che le cose si fanno difficili, volano manganellate, volano bottigliette d´acqua minerale, Ferrara taglia corto dopo meno di dieci minuti di un comizio che nessuno ha potuto ascoltare, «sì, sì, vado, ma solo perché mi aspettano a Imola, venite a Imola…», sfida, «ci vediamo a Imola», no, quegli altri vogliono vederlo prima e più da vicino, s´intrufolano dietro le divise, gli arrivano a un passo mentre è già sotto i portici, uno gli strappa via il berretto, la polizia reagisce, le botte bipartisan non si contano, un paio di fotografi ci rimettono le macchine e qualche livido, poi da chissà dove piove anche una sedia pieghevole di ferro, una di quelle del bar della piazza, e atterra sul cranio del vostro cronista che da quel momento, scusate, smette per un po´ di fare il cronista per farsi dare qualche punto di sutura al pronto soccorso, proprio mentre il direttore del Foglio commenta con i cronisti superstiti: «Clima da anni Settanta… Bologna è la città più aggressiva d´Italia».
Tutto come annunciato, come ampiamente previsto, tranne il prezzemolo. Quello che i gruppi femministi avevano giurato già dal giorno prima di far piovere sul capo del candidato premier della lista "Aborto No Grazie" prima, durante e dopo il previsto comizio nel cuore antico di Bologna. «Spero che il mio amico Cofferati, se mi aggrediscono, mandi le ruspe», aveva mandato a dire, guascone, Ferrara. Niente ruspe, ma doppie transenne antisfondamento a tutti gli ingressi di Piazza Maggiore, presidiati da agenti in tenuta antisommossa, uno schieramento che Bologna non vedeva da altri tempi. Filtro anti-contestatori: ma non serve. Un gruppetto-civetta rimane buono buono fuori coi cartelli, mentre gli altri uno ad uno s´infiltrano nella piazza, dove si entra solo in fila indiana. Sono ragazzi dei centri sociali (ma l´unico striscione firmato è quello del Tpo, storica sede dei disobbedienti), dei collettivi universitari, dei comitati di occupanti delle case. Rifondazione non c´è, ha scelto di evitare la mischia di distribuire volantini duecento metri lontano. Il comitato d´accoglienza cresce pian piano fino a ingrossarsi, non sono una marea ma ben attrezzati: megafono, fischietti e verdura in tasca. Le ragazze, giovanissime, infuriatissime, si schierano davanti. I cartelli resuscitano, riscritti all´ultimo momento su fogli da taccuino, si va da citazioni di Wittgenstein a un «Ferrara mangia di meno e tr… di più». Il gazebo antiabortista invece esibisce tartine al formaggio e un ratzingeriano "amore e buonumore». Ce ne sarà poco di entrambi. La contraerea sonora comincia già quando prende la parola la candidata Matilde Leonardi, e subito si capisce che non si capirà niente, che questo non è più un comizio ma una prova di forza, del resto lo ammette il secondo degli oratori, Giovanni Salizzoni, figlio di un famoso parlamentare bolognese della Dc, «quarant´anni fa mio padre da questo palco riuscì a zittirvi e ci riusciremo anche oggi», poco importa che allora non fosse ancora nato nessuno dei contestatori qui presenti, si va per categorie ovviamente.
Giuliano Ferrara sorride, sembra divertito, vestito come Pavarotti (sciarpona rossa, berretto floscio) sta con le mani appoggiate alla ringiera di tubi innocenti e cerca perfino di dire qualcosa agli urlanti, il labiale più o meno è: «Lasciate parlare loro, fischiate me». Intanto comincia a volare già qualcosa: monetine, un paio di pomodori, non marci, belli sodi. I poliziotti mettono il casco. Dietro ai duecento scatenati ce ne sono più o meno altrettanti tranquilli, non si sa se sostenitori o spettatori dello spettacolo previsto in cartellone. Ferrara quando tocca a lui non perde tempo e va subito al sodo, «Vi piace un miliardo di aborti? La vera libertà di scelta è quella di non abortire una volta concepito il bambino», almeno è quello che riescono a capire i più vicini agli altoparlanti mentre i contestatori urlano «fascista» e «buffone», tra gli insulti riferibili, fanno gestacci, un palloncino con la scritta "questo è mio" forse vorrebbe sembrare un utero, tra i più scatenati c´è un ragazzo con un bambino di pochi anni sulle spalle, un poliziotto perde la pazienza, «ma deficiente porta via quel bambino!», Ferrara intanto dà consigli, «andate al cinema a vedere Juno, di corsa! Vedrete un´eroina moderna». Anche dopo mezz´ora la potenza sonora è intatta, adesso però arrivano anche i proiettili, c´è già uno schizzo di tuorlo giallo come una medaglia sul taschino dell´oratore, «Voi siete contro la pena di morte? Non si direbbe...», e alla fine succede quel che abbiamo già detto, l´artiglieria incrociata, i manganelli e le sedie volanti. Sul campo resta anche una ragazza di 21 anni, Marianna, studentessa, si preme le mani sul viso e urla: «Mi ha colpito un poliziotto col manico del manganello, lo voglio denunciare». Ai bordi della piazza continuano impassibili a girare i venditori di telefonini di un noto provider, con cartelli che promettono «amici gratis», non capiscono che in politica, quando servono, è molto molto più facile procurarsi nemici gratis.


La Repubblica 03.04.2008
GAROFALO
tra i colori del raffaello ferrarese
Con 70 opere, le più importanti arrivano dalla Russia, comincia l´avventura della Fondazione Ermitage Al Castello Estense si apre sabato la grande retrospettiva dell´artista
Con «Garofalo. Pittore della Ferrara Estense» comincia la grande avventura italiana della Fondazione Ermitage, costituita poco più di sei mesi fa. La mostra, che apre sabato negli affascinanti e simbolici spazi del Castello Estense, sede d´onore della stessa Fondazione, vuol essere un omaggio alla città emiliana, scelta come sede italiana del grande museo russo, e al contempo un omaggio all´età rinascimentale che vide Ferrara tra le principali capitali culturali d´Europa. Ecco perché i curatori dell´evento - Tatiana Kustodieva e Mauro Lucco - hanno scelto Benvenuto Tisi detto il Garofalo, il «Raffaello ferrarese» secondo la definizione dei suoi contemporanei, artista di spicco della corte estense, morto cieco nel 1559, all´età di 78 anni. Fino ad oggi non era mai stato al centro di una vera retrospettiva come questa, che è supportata da grandi prestiti a cominciare, ovviamente, da quelli dell´Ermitage di San Pietroburgo.
Sono settanta le opere che raccontano la sua capacità di assimilare le novità coloristiche di Giorgione, l´attrazione per il classicismo raffaellesco, la curiosità per le novità introdotte da Giulio Romano e Girolamo da Carpi. Provengono dalle istituzioni di mezzo mondo anche se appartengono proprio alle collezioni del museo russo le «meraviglie», tre eccezionali dipinti di grandi dimensioni, realizzati da Garofalo intorno al 1530 per il convento di San Bernardino, il monastero acquistato da Lucrezia Borgia per la nipote Camilla: Le nozze di Cana, la Via Crucis e un´Allegoria del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Quest´ultima tela è una variante di un analogo soggetto custodito nella Pinacoteca di Ferrara, ed è poco conosciuta: per più di cinquant´anni l´opera, accesa dai bianchi, dai rossi, dagli azzurri, è rimasta arrotolata e solo quest´anno, dopo un accurato restauro, è tornata ad essere esposta al pubblico. Ma è arrivato dopo un viaggio di migliaia di chilometri, quindicimila, anche il quarto dipinto della serie: La moltiplicazione dei pani e dei pesci che nel 1931 fu trasferito dall´Ermitage al Museo di Belle Arti dell´Estremo Oriente, in Siberia, nella città di Khabarovsk, dove si trova tuttora. E non manca La Deposizione, il primo dipinto del Rinascimento italiano giunto in Russia ancora regnante Pietro il Grande, all´epoca attribuito a Raffaello.
Dunque ci sono legami «ideali» assai stretti tra il Garofalo e la Russia. Ribadisce Mauro Lucco, il curatore: «La mostra nasce proprio da queste coincidenze: il Garofalo fu il primo artista rinascimentale ad entrare nelle collezioni reali russe. Pochi mesi fa l´Ermitage gli ha dedicato una piccola mostra perché dopo cinquant´anni sono state restaurate le tele provenienti da San Bernardino, rimaste arrotolate nei depositi. Questa era l´occasione per farle vedere in Italia».
Ma è o è stato giusto sovrapporre il Garofalo a Raffaello?
«Se in realtà sta chiedendo: Garofalo è grande come Raffaello? La risposta è no. Raffaello è una delle primissime stelle del firmamento italiano. E´ una stella polare - non la stella di una costellazione come Garofalo, che è un artista di seconda grandezza ma bello, interessante. La nomea di Raffaello ferrarese viene fuori dal clima vissuto tra il Sei e il Settecento, dalla riscoperta delle singole individualità».
Voi cosa avete scoperto di Garofalo preparando questa mostra che è la prima grande retrospettiva dedicata all´artista?
«Non è una retrospettiva completissima. Rispondo con una metafora: abbiamo un puzzle, che è la carriera di Garofalo, composto da diecimila pezzi. Noi possediamo solo 5.673 pezzi sistemati in disordine. Se riusciamo a metterli in ordine garantiamo la leggibilità del disegno. Questo è quello che abbiamo cercato di fare. Non ci sono novità eclatanti o scoperte che sconvolgono la storia dell´arte. Ma ora riusciamo a leggere il percorso del Garofalo, vediamo come si è confrontato con altri artisti. Il nostro è stato un lavoro sottile. Garofalo è stato un uomo dalla vita normalissima, che ha cercato di fare bene il suo mestiere, in maniera assai civile. Ha dipinto bene, ha soddisfatto le esigenze delle comunità religiose di Ferrara. E´ vero che ha eseguito quasi sempre pale d´altare mentre Dosso realizzava opere più fantasiose, più eccitanti per il Duca. In un certo senso Garofalo è stato il contraltare di Dosso Dossi».
Più intimistico e religioso rispetto a Dosso?
«Intimistico no, ma religioso si. I committenti richiedevano pale d´altare e Garofalo soddisfaceva questa esigenze. Nella seconda metà del Quattrocento Ercole d´Este aveva messo in opera uno dei progetti urbanistici più ambiziosi dell´epoca, aveva costruito una nuova parte di città, dove furono innalzate tante chiese, bisognose di arredi, di pale d´altare. Garofalo rispose al meglio a queste domande del mercato».
Va messo tra i pittori «bigotti»?
«Ma se un artista incontra un duca bigotto che commissiona opere a carattere sacro perché poi deve essere definito bigotto? Eppure è quanto scrisse Roberto Longhi e ben presto divennero pittori da non considerare. Ma se uno guarda con attenzione scopre, ad esempio, che Domenico Panetti, il massimo del bigotto, nel 1497 copiò delle incisioni che Dürer aveva realizzato solo un anno prima. Quanti altri pittori avevano questa sensibilità, intelligenza, queste informazioni? Garofalo fece esattamente lo stesso. Era un allievo del Panetti e aveva la stessa strumentazione della bottega del maestro. Panetti copiò in un suo quadro dei dettagli di un´incisione di Dürer, successivamente li ritroviamo anche in un dipinto del Garofalo. Ci sono riprese da Dürer in molti dei dipinti giovanili del Garofalo ma non c´è da meravigliarsi e non è una banalità. E´ un modo, un mezzo per capire, uscire dalla confusione che spesso troviamo nel mondo dell´arte».
Un inedito c´è, ben pochi hanno visto il dipinto di Khabarovsk.
«Per farlo arrivare è stato mobilitato il ministero delle catastrofi, il corrispondente della nostra protezione civile. Solo loro hanno un aereo sufficientemente grande per trasportare in sicurezza il dipinto, che è tre metri di altezza per 2,5 di lunghezza. Faceva parte della collezione di Papa Pio VI, a Palazzo Braschi, a Roma. Arrivò in Russia nel 1840 per volontà dello Zar Nicola I assieme ad altre tre tele del complesso iconografico di San Bernardino, anche queste ora esposte a Ferrara. Ma ci sono molti quadri mai visti dal grande pubblico. Questa mostra è davvero un´occasione unica».


La Repubblica 03.04.2008
L'Odissea di Kubrik
"2001", IL FILM CHE INVENTÒ IL FUTURO
I 40 anni della pietra miliare del cinema. All´epoca non ebbe il successo che il tempo gli ha decretato
di Irene Bignardi
Poteva intitolarsi "Journey beyond the stars", viaggio al di là delle stelle. Avremmo potuto sentire "Il sogno di una notte di mezza estate" di Mendelssohn al posto del "Bel Danubio Blu" e i "Carmina burana" di Carl Orff al posto di Richard Strauss. Il monolito nero avrebbe potuto avere una forma completamente diversa: un cubo trasparente, una piramide, un tetraedro. A lungo si pensò di usare il formato 1:85 anziché il sontuoso formato dei 70mm superpanavision.
Insomma, sarebbe potuto essere completamente un altro film. Certo, un altro film di Stanley Kubrick. Invece, da quattro anni di pensamenti e ripensamenti, di innamoramenti, indagini scientifiche, studi, ipotesi, scritture parallele, invenzioni tecniche, traslochi tra l´America e l´Inghilterra, scontri, lacrime (dei collaboratori), paranoie (dell´autore), gelosie (tra il regista e il suo «scrittore» Arthur C. Clarke) e di cambiamenti (a dispetto di chi pensa che una sceneggiatura cinematografia hollywoodiana sia una botte di ferro) venne alla luce 2001: Odissea nello spazio, la pietra miliare del cinema che domani compie quarant´anni: quarant´anni dalla prima a New York del 4 aprile 1968 di un film che esplose con una combustione lenta mentre l´America e il mondo vivevano in un clima di controcultura giovanile e di protesta, con la guerra del Vietnam sullo sfondo e lo sbarco americano sulla luna di lì a poco.
Se esiste qualcosa che merita di esser chiamato zeitgeist, se quello era lo spirito del tempo, il film di Kubrick s´inseriva perfettamente nel quadro. Anche se non fu accolto con il successo che il tempo gli ha poi decretato. Basti dire che l´allora regina della critica americana, Pauline Kael, lo definì spregiativamente «il massimo film amatoriale», facendosi beffe anche dell´apparizione della figlia piccolina di Kubrick in una breve scena del film. Né gli resero giustizia (ma c´era da aspettarselo?) gli Oscar, che lo premiarono solo per gli effetti speciali. Ma con grande stupore del reparto marketing della Mgm, che aveva finanziato il film, gli resero giustizia i giovani, che corsero a vivere quella che consideravano alla stregua di un´esperienza psichedelica. E il biografo di Kubrick, Vincent Lobrutto, giura che nei teatri dove si presentava 2001: Odissea nello spazio, si respirava solo marijuana.
Il resto è la storia di un successo che dura da mezzo secolo e che era nato quattro anni prima, nel febbraio del 1964, a New York, dove Kubrick si trovava in occasione dell´uscita di Stranamore con Caras, il pubblicitario della Columbia che si occupava del film. Fu Caras che, di fronte all´interesse espresso da Kubrick per la fantascienza, gli suggerì il nome di Arthur C. Clarke. Uno scambio di telegrammi portò Clarke a New York dal suo eremo a Ceylon, mentre il sempre irrequieto Kubrick divorava un libro di scienza e fantascienza dietro l´altro. Clarke aveva suggerito intanto a Kubrick di leggere il suo racconto La sentinella - dove compare per la prima volta l´idea di una sorta di monolito. Ma il progetto si tradusse in qualcosa di molto più ambizioso e rischioso: sistemato al Chelsea Hotel di Mahattan, Clarke doveva scrivere, sulla base dei suoi racconti e secondo le grandi linee concordate con Kubrick, un romanzo che sarebbe stata la base della sceneggiatura (« la forma di scrittura meno comunicativa mai immaginata», diceva Kubrick), mentre il regista procedeva nelle ricerche e nella preparazione del film...
E di ricerche Kubrick ne ha fatte non poche, come si vede anche dal volume pubblicato recentemente da Isbn Edizioni, che raccoglie le ventun interviste realizzate dal regista (in realtà da Roger Caras, con Kubrick committente), davanti alla telecamera, ad altrettanti scienziati e pensatori, da Margaret Mead a Fred Whipple, da Skinner ad Asimov, ponendo loro l´imbarazzante domanda: che cosa ci riserva il futuro? Le risposte sono a dir poco buffe, viste dalla prospettiva del 2008. Il 2001 doveva sembrare molto lontano e ricco di speranze, di illusioni scientifiche e sociali: i computer sarebbero stati intelligenti come Hal 9000 ma buoni come lui non è, saremmo arrivati alla conquista del sistema solare, e via con le magnifiche sorti e progressive.
Da questa massa di letture, illusioni, discussioni (che aspetto dovrebbero avere gli extraterrestri per non ricadere nello stereotipo della fantascienza?), di istruzioni date a Clarke circa modifiche e nuove idee per il romanzo, uscì finalmente la sceneggiatura - che Kubrick disse di non amare. Troppo dialogo. Clarke tagliò. E alla fine, su 139 minuti di film, il dialogo avrebbe coperto solo 46 minuti. La lavorazione ebbe inizio il 29 dicembre 1965 in Inghilterra, negli studios di Boreham Wood, dove fu ricostruita la «centrifuga», la grande ruota dell´astronave Discovery. Il film doveva costare 6 milioni di dollari (ma la cifra alla fine avrebbe coperto solo gli effetti speciali, e il budget finale si assestò sui 10,5 milioni, una cifra spropositata per l´epoca, anche se ampiamente ripagata dai risultati). Fu una lavorazione di dimensioni e durata titaniche. Kubrick si trasferì armi e bagagli, moglie e figliolette, nel paese che sarebbe diventato il suo. Tra sperimentazioni ed effetti speciali mai prima sperimentati la lavorazione durò diciotto mesi. La diffidenza di Kubrick per i viaggi fece sì che persino la scena fondamentale in cui Moon-Watcher, lo scimmione capo, lancia il suo osso/arma nel cielo, creando, come disse Clarke, il più lungo flash forward della storia del cinema (quattro milioni di anni), fu girata non lontano dagli studios, tagliando fuori dall´immagine «il ventesimo secolo».
È la magia del cinema. Kubrick montò fino all´ultimo minuto, anche a bordo del Queen Elizabeth che lo portava a New York per la prima. Sapeva di aver fatto il film che segnava un´epoca. Ognuno l´avrebbe letto a suo modo. Molto si sarebbe discusso. Kubrick concesse, tra le tante spiegazioni, che poteva trattarsi della ricerca di Dio. Poi cominciò a sognare di fare il suo Napoleone.


La Repubblica 03.04.2008
Se la modernità fa male al diritto
A proposito delle tesi contenute in un saggio dello storico Paolo Grossi
di Stefano Rodotà

ll´Europa si addice la riflessione giuridica. Che è, insieme, capacità di penetrare una complessa vicenda culturale e consapevolezza dei molteplici modi attraverso i quali il diritto contribuisce a conformare l´organizzazione sociale. Lo fa, in modo nient´affatto compiacente, uno storico di gran rango, Paolo Grossi, al quale si deve un´impresa impegnativa, quella di ricostruire la vicenda giuridica europea dalla metà del primo millennio fino alle soglie del terzo (L´Europa del diritto, Laterza, pagg. 277, euro 20).
L´«intelligibilità di discorso» e la «prevalente attenzione» per il diritto privato, che l´autore proclama fin dalle prime pagine, non sono in alcun momento una limitazione o un impoverimento della trattazione. Se il libro è scritto per i non iniziati, in nessun momento questo significa un appiattirsi della narrazione: il linguaggio è forte, i giudizi taglienti. Vicende e problemi sono indicati in modo nitidissimo, sì che il libro diviene un´ineludibile pietra di paragone. Non appartiene ai soli giuristi o ai curiosi del diritto, ma è quasi una sfida lanciata a tutti quelli che riflettono su passato, presente e futuro dell´Europa.
Neppure la dichiarata intenzione di seguire prevalentemente il diritto «che ordina la vita quotidiana dei privati» induce a distogliere lo sguardo da una realtà più larga, a chiudersi in una gabbia. Se quello è il punto d´osservazione, da lì si contempla un orizzonte amplissimo, dove compaiono le logiche del potere e le durezze delle relazioni sociali.
Questa capacità di immergere il diritto nel fluire della realtà discende dal modo in cui Paolo Grossi considera il diritto e la sua storia: come esperienza giuridica che, nelle diverse civiltà, si manifesta attraverso diverse visioni e realizzazioni. Il diritto soffre quando lo si fa prigioniero di una logica che contraddice questa sua intima natura. «Il diritto - scrive Grossi - è vita, è esperienza mobilissima, ed è compresso - più che espresso - da un monopolio legislativo». Quando al pluralismo si sostituisce «il potere politico supremo come unica fonte del diritto», il risultato è quell´assolutismo giuridico che da anni costituisce l´oggetto polemico della ricerca di Paolo Grossi.
Non siamo di fronte ad affermazioni apodittiche, ma a conclusioni tratte da una ricca analisi che segue nei secoli le vicende del diritto nei vari luoghi dell´Europa, nelle sue diverse manifestazioni tecniche, nel suo incarnarsi nell´opera dei giuristi, il cui essenziale protagonismo Grossi sottolinea con attenzione partecipe e convinta. Da qui nasce una rappresentazione della vicenda giuridica europea quasi come lotta tra chi vuole salvaguardarne la molteplice ricchezza e chi vuole chiuderla, anche con una mossa autoritaria, entro schemi astratti e unificanti. Da qui una critica decisa alla modernità giuridica, che costituisce uno dei tratti forti dell´opera.
Nulla è risparmiato ai simboli per eccellenza di quella modernità, il soggetto giuridico astratto e la codificazione. Il linguaggio si accende, le parole sono rivelatrici. Grossi riconosce quelle che sono «autentiche conquiste della modernità», come l´abbattimento dei vincoli di ceto, il riconoscimento al soggetto dell´esercizio dei diritti che presidiano la sua personalità. Ma il prezzo? A Grossi appare troppo elevato: non più uomini in carne ed ossa, ma modelli astratti che si muovono in uno «scenario irreale», che non fa più i conti con la realtà e con la storia.
«È ovvio che da un simile presupposto venga fuori solo un catalogo, che è teoricamente suadente nel suo parlar sonoro di libertà, di uguaglianza, di diritti e - perché no? - di felicità (termine ingenuo che ricorre spesso nelle "carte" settecentesche), ma che non può consolare il nullatenente del quarto stato, che non è neppure sfiorato nella miseria della sua vita quotidiana, da uno scialo di dichiarazioni irrilevanti - se non schernitrici - per chi fa i conti con la fame. Dallo stato di natura discende una raffigurazione statica, come si conviene all´aria rarefatta della meta-storia; ma la vita - quella realmente vissuta - è consegnata tutta alla dinamica delle forze in lotta».
Così argomentando, Paolo Grossi non mette soltanto in evidenza limiti del diritto. Denuncia un vero e proprio suo scacco quando assume la forma alla quale la modernità ha voluto consegnarlo attraverso il giusnaturalismo e l´Illuminismo - la «strombazzata uguaglianza» del 1789, «museale» al pari di quel codice civile che «presuppone le mitologie legalistiche e legolatriche dell´illuminismo continentale»; la «foglia di fico» della volontà generale; l´individuo astratto dalle relazioni sociali e consegnato alla solitudine. La critica, conseguente, investe il soggetto storico di questa operazione, la borghesia, e il suo strumento essenziale, la proprietà, ai quali viene contrapposta la condizione di «poveri» e «sfruttati». Ancora parole forti, non usuali per il lessico giuridico (e ormai quasi assenti nello stesso linguaggio politico), alle quali Grossi si affida proprio per recuperare i dati di realtà, oscurati o cancellati dalla progressiva supremazia delle categorie giuridiche astratte.
Naturalmente qui le opinioni possono divergere, e si pone subito il problema se la critica sociale di questo modo d´essere del diritto moderno debba necessariamente portare con sé una ripulsa così totale dell´intera modernità giuridica (come Paolo Grossi sa, ho orientato diversamente la mia ricerca e, pur nella comune critica alla categoria della proprietà, continuo a ritenere che le acquisizioni in particolare dell´Illuminismo rimangano riferimento essenziale anche nell´attuale temperie di attacco alla persona e ai suoi diritti).
Vi è dunque un pensiero forte, fortissimo, che ispira e muove questo libro che così diviene politico nel senso più alto e pieno della parola. L´aver proposto, in un´opera dedicata al largo pubblico, tesi così impegnative è buona cosa, il punto di partenza per una rinnovata discussione, di cui qui possono essere solo accennati i motivi essenziali, che vanno dall´interrogarsi intorno ad una così radicale svalutazione dell´eguaglianza formale e dei diritti fondamentali fino all´essenziale riapertura della questione della costruzione di una soggettività non astratta.
Entrando nel secolo passato, nella ricostruzione di Grossi si scorgono precise indicazioni che sottolineano pure come la parentesi della modernità si sia, almeno in parte, chiusa, con il recupero del pluralismo, con l´articolazione delle fonti che sfida l´assolutismo giuridico, dunque con una marcata discontinuità rispetto allo schema prevalso nei due secoli precedenti. Di nuovo, Paolo Grossi intreccia con maestria i fili di una trama complessa, costituita dal convergere e divergere di tradizioni diverse (basta ricordare l´esperienza del diritto continentale e quella di common law) e di diversi ordinamenti giuridici, come quello della Chiesa.
A questo sono dedicate pagine assai belle, dove tra l´altro emerge il divaricarsi del suo diritto da quello statuale, permeato dagli spiriti dell´Illuminismo e della Rivoluzione, che della Chiesa divengono «feroci antagonisti» (tanto che, forse con qualche malizia, questa constatazione consente di dubitare che le radici dell´Europa possano essere ritrovate solo in quelle cristiane).

Corriere della Sera 03.04.2008
Addio al comunista, eroe da romanzo
Da Vittorini a Morselli: la parabola di un personaggio che per tanti incarnò le virtù del popolo

di Sergio Luzzatto
Quella cui stiamo assistendo è una campagna elettorale molto particolare, anzi unica nella storia dell'Italia repubblicana: è la prima senza la figura del «comunista». Beninteso, sul terreno concreto della lotta politica e sociale i comunisti erano spariti già da tempo, né un Oliviero Diliberto era mai bastato a risuscitarli. Ma per sessant'anni dopo la nascita della Repubblica, fino alle elezioni legislative del 2006, il comunista non era sparito dall'immaginario collettivo: era rimasto vivo, quanto meno, nella leggenda nera alimentata dagli avversari, in primis da Silvio Berlusconi. La campagna elettorale del 2008 segna invece la sua scomparsa dal nostro firmamento mentale. La sua eclissi totale e probabilmente definitiva, l'inappellabile morte di una stella.
Buona ragione per guardarsi indietro un'ultima volta, ragionando su che cosa il comunista (e la comunista) abbiano rappresentato lungo vari decenni della storia italiana: non tanto come presenze reali, elettori o eletti, militanti di base o dirigenti di partito, quanto piuttosto — per l'appunto — come presenze virtuali, figure dell'immaginario. E vale da guida un volume uscito proprio in questi giorni, intitolato
Il comunista e firmato da una giovane critica, Anna Baldini (Utet libreria, pp. 222, e 17,50). Dove l'astro oggi scomparso viene ritrovato come una stella fissa nel nostro universo letterario, e insieme viene scrutato nella molteplicità delle sue facce visibili o nascoste.
Partigiano, operaio, intellettuale, funzionario, sindacalista, (se donna) femminista…: dietro verifica, il comunista risulta figura diffusa nella letteratura italiana dalla Liberazione al Sessantotto. Ma se pure le incarnazioni del personaggio furono tante, fondativa e fondamentale riuscì quella del comunista come resistente. Da un racconto all'altro pubblicato su Rinascita
nei tardi anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta, da un romanzo all'altro pubblicato da Einaudi nel medesimo decennio, raffigurare il comunista significò anzitutto questo: raffigurare l'eroe della banda partigiana. Generalmente un operaio, meno spesso un contadino, comunque un proletario, che l'alter ego del narratore — generalmente un intellettuale, comunque un borghese — aveva incontrato sulle montagne durante la guerra civile del 1943-45, e dal quale aveva imparato le meravigliose virtù del popolo. Tutto un patrimonio di sanità e di bontà con cui correggere il degrado fisico e morale della borghesia; il viatico della Resistenza da portarsi dietro nell'Italia nuova.
Diseguale per qualità dei risultati (modesti in una Renata Viganò, notevoli in Vittorini o in Pavese), la letteratura che ruotava intorno al personaggio del partigiano comunista è stata per lo più rubricata sotto l'etichetta edificante del «neorealismo ». Allo sguardo tagliente di Anna Baldini, quella letteratura sembra partecipare però di qualcos'altro: di un «realismo socialista» all'italiana. E non soltanto nell'immagine oleografica dell'intellettuale degenerato che rinasce grazie all'incontro con il compagno proletario. Anche in altre strutture tipiche di tale narrativa, come la rappresentazione della donna borghese quale Eva tentatrice, o come lo stereotipo dell'adesione al comunismo quale provvidenziale superamento dell'immaturità fascista oppure attendista, quale vera e sola entrata nell'età adulta.
Tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta, le scritture di due ex partigiani estranei al mondo comunista, Beppe Fenoglio e Luigi Meneghello, dimostrarono all'incontrario i limiti di una visione retorica della Resistenza. Ma la cultura stessa del comunismo italiano era allora più libera e più autocritica di quanto non vogliano dirne i denigratori d'oggidì, quelli secondo cui tutti i mali d'Italia deriverebbero dalla famigerata egemonia di Togliatti sul famigerato editore Einaudi. Dopo l'«indimenticabile» 1956, dai torchi einaudiani uscirono libri destinati a modificare significativamente l'immagine letteraria del comunista: Fausto e Anna eL a ragazza di Bube di Cassola,
Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani. Soprattutto, uscì dai torchi di Einaudi un libro decisivo sul comunista che scopre l'insufficienza del comunismo; e che scopre, in generale, l'insufficienza delle ideologie di fronte ai dilemmi della biologia, l'inanità della storia e del progresso nel risolvere le questioni ultime della natura e del destino. Quel libro era La giornata d'uno scrutatore, pubblicato nel 1963 da Italo Calvino.
Raccontava l'esperienza di un intellettuale comunista, Amerigo Ormea, scrutatore in una sezione elettorale posta all'interno del Cottolengo di Torino. Ne diceva lo sdegno per la mobilitazione politica dei disabili (i dementi oltre che gli storpi) ad opera della Democrazia cristiana e della Chiesa. Ma esplorava anche i dubbi di Amerigo intorno al fondo delle cose, al segreto della persona umana: dubbi rafforzati — in quella medesima, fatidica giornata — dalla scoperta che la sua partner occasionale, Lia, era incinta. E che forse Lia non avrebbe rinunciato alla creatura che portava in grembo. E che forse avrebbe fatto bene a non rinunciarvi. «Per lo spazio d'un secondo (cioè per sempre) gli sembrò d'aver capito come nello stesso significato della parola amore potessero stare insieme una cosa del genere di quella sua con Lia e la muta visita domenicale al "Cottolengo" del contadino al figlio».
Due anni più tardi, nel 1965, Calvino respinse per conto di Einaudi il dattiloscritto di un romanzo culturalmente affine al suo racconto lungo del '63: volume pubblicato postumo da Adelphi oltre dieci anni dopo, Il comunista di Guido Morselli. E tuttavia Calvino per primo misurò quanto il racconto su Amerigo Ormea, sui malati del Cottolengo e sulla gravidanza di Lia avesse modificato in maniera decisiva non soltanto il suo modo di essere scrittore engagé, ma l'intero orizzonte del rapporto fra letteratura e politica nell'Italia contemporanea. «I temi che tocco con La giornata d'uno scrutatore,
quello della infelicità di natura, del dolore, la responsabilità della procreazione, non avevo mai osato sfiorarli prima d'ora. Non dico d'aver fatto più che sfiorarli; ma già l'ammettere la loro esistenza, il sapere che si deve tenerne conto, cambia molte cose».
La riflessione della Giornata d'uno scrutatore anticipava di mezzo secolo quella di un altro ex comunista determinato a interrogarsi sul travaglio della politica davanti alle cose ultime, la vita e la morte, l'amore e il dolore, l'aborto e l'eutanasia: anticipava la riflessione odierna di Giuliano Ferrara. Chissà se Italo Calvino ne sarebbe stato orgoglioso, o se — al contrario — se ne sarebbe vergognato.

Unità 03.04.2008
King, il Lutero nero dei diritti umani
di Massimo Aprile
L’Unità, a buona ragione, ha deciso di ristampare la biografia di Lerone Bennett, pubblicata per la prima volta in Italia nel 1969, a cura della Claudiana, e di farlo in occasione del 40° anniversario del tragico assassinio di Martin Luther King Jr. occorso il 4 aprile 1968.
Molti, nelle chiese, nei gruppi nonviolenti, nelle organizzazioni di volontariato e di solidarietà con gli immigrati, nelle associazioni contro il razzismo, non si lasceranno sfuggire l’occasione per riaprire, nel confronto con questo straordinario personaggio, un dossier che ha molti fascicoli e che non è stato mai del tutto chiuso. Un dossier che non riguarda solamente una pagina critica della democrazia statunitense di questo secolo, ma che tocca problematiche tuttora in discussione anche in Europa: pace e sicurezza, militarismo ed economia, soluzione nonviolenta dei conflitti, povertà, multiculturalismo, razzismo. Solo per citare i nomi di alcuni di questi fascicoli.
In questo sta certamente l’interesse sempre vivo per il movimento per i diritti civili e la vita di questo profeta di pace, e quindi la fondata motivazione di consentire al grande pubblico una rilettura della vita di Martin Luther King chiara, sintetica ma anche ben documentata come quella offerta da L. Bennett.
Dal 1969 a oggi l’interesse per il personaggio King non è andato mai scemando, testimonianza ne è la ristampa delle oltre quaranta edizioni de La forza di amare, famosa raccolta di alcuni suoi sermoni utilizzati da tempo tanto nelle catechesi ecclesiastiche quanto nelle scuole. Il «sogno» di King di una società riconciliata e pacifica, pur nelle sue differenze etniche e culturali, non è mai tramontato. Al contrario, direi che oggi, dinanzi alla crisi delle ideologie, soprattutto quelle di sinistra, alcune delle quali troppo frettolosamente liquidarono King come un borghese al servizio della società capitalistica, unitamente al sogno si riscopre e valorizza la capacità strategica del suo movimento e la profondità della sua analisi politica che, partendo dalla grave situazione di razzismo negli Usa degli anni Cinquanta e Sessanta, si allarga poi a riflessioni più complesse sul militarismo e imperialismo Usa e sulle condizioni di povertà strutturale di tante fasce della stessa popolazione americana.
A questo proposito ritengo che vadano segnalati ai lettori interessati a un approfondimento, alcuni testi scelti tra i tanti. Il primo è la pubblicazione da parte di James Cone, un famoso teologo afroamericano che insegna allo Union Theological Seminary di New York, di una biografia intrecciata di Martin Luther King e Malcolm X. Il titolo del testo è: Martin, Malcolm and America: A Dream or a Nightmare (Maryknoll, Orbiss, 1991). L’opera è importante perché esprime la rivendicazione da parte della maggioranza della comunità afroamericana di entrambi i personaggi.
A un primo sguardo i due hanno in comune, oltre che il colore della pelle e la loro lotta appassionata contro il razzismo, solamente la loro morte violenta. Per il resto, nella metodologia come nelle finalità, appaiono a tratti addirittura speculari. Martin coltiva il sogno di una società riconciliata in cui i neri siano del tutto integrati nella società americana. Egli, assieme alla comunità nera d’America e ai liberal bianchi, persegue il suo obiettivo con una strategia rigorosamente nonviolenta mutuata in larga misura da uno dei suoi maestri, Gandhi. Per Malcolm, invece, non c’è alcun sogno americano, c’è solo un incubo. Per dirla con le sue stesse parole, «No, io non sono un americano. Io sono uno dei 22 milioni di neri vittime dell’americanismo, una delle vittime della democrazia americana che è nient’altro che una deprecabile ipocrisia. E quindi io non sto qui a parlarvi come un americano, come un patriota, o come uno che onora e saluta la bandiera. No, io no! Io vi parlo piuttosto come una vittima del sistema americano, io vedo questa nazione con gli occhi della vittima. Io non vedo nessun sogno americano; io vedo solo un incubo americano!».
Malcolm non si fida per nulla dei bianchi, neppure di quelli più «illuminati». Per lui, non l’integrazione è l’unica via d’uscita, ma la separazione, dapprima parlando di un possibile ritorno in Africa, poi della costituzione di una nazione indipendente in America. E infine ritiene che la strategia nonviolenta non sia né necessaria, né efficace.
Martin si presenta come il profeta di pace dei neri degli Stati del Sud, Malcolm come il leader trascinatore dei neri che vivono nelle grandi metropoli americane del Nord. Il primo è cristiano, il secondo musulmano.
L’approccio originale della biografia comparata di Cone sta nel fatto che i due personaggi siano colti diacronicamente nello sviluppo delle loro idee e posizioni politiche e religiose. E la scoperta maggiore sta nel rilevare il processo di avvicinamento dei due grandi leader alla luce delle proprie esperienze. King negli ultimi anni della sua vita rivolge sempre più spesso la sua attenzione a questioni come la povertà strutturale del Terzo mondo, il militarismo americano e la guerra del Vietnam. Il sogno non svanisce, ma più profonda diviene la sua consapevolezza rispetto al sistema politico-economico-militare che tiene sotto scacco non solo i neri d’America, ma anche tanti altri poveri dentro e fuori la nazione. Malcolm, per converso, è costretto a rivedere l’impostazione religiosa e ideologica della Nazione dell’Islam cui aveva dato il suo entusiastico contributo di leader carismatico.
È proprio in questa linea, attenta a cogliere lo sviluppo e la maturazione del pensiero politico e religioso di King, che si aggiunge nel 1993 un’importante iniziativa editoriale della Claudiana, rappresentata dalla traduzione e pubblicazione a cura di Paolo Naso di diversi scritti di King selezionati dall’antologia A Testament of Hope: The Essential Writings and Spechees of Martin Luther King, jr. Il libro, emblematicamente intitolato L’«altro» Martin Luther King, presenta una ragionata introduzione dello stesso curatore. Con il crescere della consapevolezza da parte di King del filo rosso che unisce razzismo, povertà e militarismo, cresce anche, è questa la tesi di Naso, un certo isolamento del leader che lo renderà più vulnerabile alla vigilia del suo assassinio, occorso il 4 aprile 1968.
È del 1994 la pubblicazione di Gabriella Lavina Serpente e colomba: la ricerca religiosa di Martin Luther King, volume edito a Napoli da La Città del Sole. Si tratta di un’opera di 650 pagine che descrive, con rigore scientifico e dovizia di fonti, il pensiero di King e l’ambiente politico e culturale nel quale il suo genio è maturato. La prima parte del titolo del libro prende spunto da uno dei sermoni di King raccolti in La Forza di amare, quello sul testo di Matteo 10,16 «Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe». Lavina indica nella dialettica tra «mente acuta e cuore tenero» la sintesi antropologica di King. Ma la metafora del serpente e della colomba bene esprime anche un aspetto fondamentale della sua spiritualità. La «mente robusta» sta nel suo rigore scientifico e nell’appello, spesso reiterato nei suoi sermoni, alla autorealizzazione. Il nero deve uscire dalla sua condizione di subalternità sociale anche attraverso un processo di emancipazione culturale e psicologica che gli consenta di acquisire fiducia nei propri mezzi e nelle proprie potenzialità. L’emancipazione passa per la cruna d’ago della formazione del carattere e della disciplina. «Secondo me, uno degli scopi principali dell’educazione - scrive infatti King allora ancora diciannovenne - consiste nel salvare l’uomo dalla palude della propaganda. L’educazione deve mettere in grado ognuno di vagliare, soppesare i fatti per metterli in evidenza, di distinguere il vero dal falso, il reale dall’illusorio e i fatti dalle finzioni (…). Dobbiamo ricordare che l’intelligenza non basta. Intelligenza più carattere: ecco lo scopo della vera educazione» (p. 49).
La fertilità della mente deve esprimersi in lucide strategie per smascherare il conflitto senza mai edulcorarlo o nasconderlo. Il confronto con la società razzista viene inseguito e messo a nudo con puntualità e pignoleria da King. Forse l’insistenza sulla mente acuta e penetrante è anche legata alla riconosciuta emotività del nero. Non di rado, ci riferisce infatti Bennett, King era irritato dalla predicazione di certi pastori neri, i quali tendevano a ridurre tutto il messaggio evangelico a mera emotività, risolvendosi il più delle volte in azione sterile proprio perché difettosa di robustezza, approfondimento, rigore. «Egli pensava che vi fosse eccedenza di pastori “scarsamente dotati intellettualmente, e poco preparati” nella chiesa nera» (p. 47).
Ma King era anche cosciente che questa emotività della comunità nera rappresentasse una sua forza dirompente e una riserva di energia pressoché inesauribile per la lotta. D’altra parte, nelle parole stesse di King «avere le qualità del serpente senza quelle della colomba, significa essere freddi, meschini ed egoisti; così come avere le qualità della colomba senza quelle del serpente significa essere sentimentali, anemici e inconsistenti» (La forza di amare).
Infine segnalo la recente pubblicazione, ancora da parte della Claudiana del testo curato da Paolo Naso, Il sogno e la storia. Il pensiero e l’attualità di Martin Luther King (Torino, 2007). Il testo, presentato in occasione di un importante convegno internazionale organizzato dall’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia e dalla Lott Carey Convention degli Usa, propone diversi saggi di autori italiani e americani sulla legacy del messaggio di King oggi.
Si tratta di un testo agevole, con saggi brevi, decisamente interessante, perché vi si intrecciano voci di uomini e donne, battisti italiani e afroamericani, persone credenti e non, che concorrono a ricomporre la personalità di King, inserendola nel contesto del movimento della Sclc (Southern Christian Leadership Conference), organizzazione che King stesso fondò nel febbraio del 1957, e della storia di quegli anni negli Usa e nel mondo.
La raccolta di saggi si interroga sull’attualità del messaggio di King a partire dalle questioni odierne della globalizzazione, della povertà e del dialogo interreligioso.


DOMANI CON L’UNITÀ a quarant’anni dalla sua uccisione la biografia del leader nero scritta da Lerone Bennett, suo amico e compagno di college. La storia e le battaglie dell’«uomo di Atlanta» ricostruita sul filo degli eventi dagli esordi alla morte



Unità 03.04.2008
Quella sera in casa di Martin Luther King
di Furio Colombo

Ero ad Atlanta, quel giorno, 4 aprile 1968. Ero in casa di Martin Luther King, all’ora di cena, che nel Sud degli Stati Uniti è molto presto. Coretta King era a capotavola, nella sala da pranzo un po’ pretenziosa della loro casa di borghesia colta e nera. Io sedevo di fronte a lei, i due bambini maschi da un lato, la bambina dall’altro, accanto al reverendo Martin Luther King senior, il padre del predicatore, predicatore lui stesso, e anzi fondatore della piccola chiesa di Auburn Avenue, che era ancora il centro di tutta l’attività del leader del Movimento per i Diritti Civili.
Mancava la figlia più grande, Yolanda. C’era una giovane donna, parente di Coretta King, che si curava dei piccoli, girava intorno a noi, correggendoli e un po’sgridandoli, ma senza sedersi a tavola, perché andava e veniva dal telefono che era in una stanzetta detta «lo studio del dottor King».
Quando non è tornata (erano le sette di sera) e ad uno ad uno gli adulti si sono radunati in quella stanza, davanti al televisore acceso, è toccato a me restare con i bambini.
Sapevano che il padre era a Memphis «a predicare a tanti uomini e donne che facevano una marcia». Il più grande, Martin, sapeva anche perché. Erano coloro che tenevano pulite le città e per tutto quel lavoro «non li pagavano niente». E allora facevano una grande protesta e suo padre era lì, con loro.
La parte privata del racconto finisce qui. Qui cominciano le immagini della televisione, la più difficile da dimenticare è quella di Andrew Young e di Raph Abernathy inginocchiati accanto al corpo di Martin Luther King, sul ballatoio del Lorraine Hotel di Memphis. Young cerca di sollevare con la mano la testa insanguinata di King, appena colpito. Obiettivo facile, più facile di un film. Nei motel poveri d’America per raggiungere le stanze si passa da una terrazza esterna, come nelle case italiane «a ringhiera». Basta sapere il numero della stanza e aspettare con l’arma di precisione puntata alla porta, dopo avere calcolato l’altezza, e dunque la testa della persona da uccidere.Ma il film, più vero e più drammatico e sorprendente di un thriller, continua. In un’altra inquadratura del celebre filmato di quella sera, Andrew Young indica di fronte a sé. Non si vede dove indica, nell’inquadratura. Ma al di là da un ampio spazio desolato, c’è una vecchia casa rossa con scale antincendio esterne, e una grande terrazza in alto, più o meno all’altezza del secondo piano del Lorraine e proprio di fronte alla stanza di King, l’ultima sul ballatoio (a sinistra, guardando da fuori). Dunque a quella casa di fronte, di là dallo spazio desolato (erba, terriccio, auto abbandonate) si può arrivare da dentro, attraverso scricchiolanti e malconce scale di legno, oppure arrampicandosi sulla scala di ferro, da fuori.
L’importante è arrivare prima e appostarsi.
Il perché l’ho capito arrivando, con il cameraman della Rai, dalle scale di legno. Il primo e il secondo piano sono vuoti. Il terzo è un immenso stanzone con brande e sedie. Ci sono una cinquantina di uomini quasi tutti anziani, alcuni incapaci di muoversi o per il tremore o per il disorientamento, perché guardano assenti. Non si vedono infermieri. C’è stato un putiferio di grida al nostro arrivo. Poi è cessato, quasi di colpo, e un grande silenzio, o parole dette a voce molto bassa e senza alcuna coerenza, seguivano il nostro lavoro di montare la telecamera.
Abbiamo chiesto dove si era piazzato l’uomo con l’arma di precisione. Uno che poteva camminare, con un sorriso dolce ci ha indicato un punto, poi un altro. Ha puntato in basso, dove non ci sono finestre, poi in alto, forse per dire dove vanno le anime dopo gli spari. Rideva in modo dolce, come se si rendesse conto della sua impotenza. E della nostra.
C’erano tracce di piedi e di scarponi, ma di chi, ma da quando? C’era già stata la polizia? Molti hanno battuto le mani, altri si sono voltati verso il muro.
Ci hanno avvertito della rivolta di Washington, diceva la radio: «La capitale degli Stati Uniti è in fiamme».
Siamo partiti subito. A quel tempo, in America, c’erano voli anche di notte. Si chiamavano red eyes (occhi rossi) e costavano meno. Era prima, molto prima della mitica de-regulation di Reagan, che ha tagliato a metà l’aviazione civile americana e moltiplicato i costi, perché tutto è stato lasciato alla discrezione di un cartello detto «concorrenza».
A Washington era difficile entrare in città, a causa dei posti di blocco di Guardia Nazionale e paracadutisti, i soldati che avevano sostituito la polizia metropolitana nel tentativo di riprendere il controllo della città. Ma a quel tempo le credenziali di giornalista erano sacre.
All’aeroporto abbiamo fatto la cosa più rischiosa ma anche più utile: abbiamo noleggiato una di quelle enormi auto scoperte che si vedono nelle parate dei film anni Cinquanta.
In quel modo potevamo filmare intorno senza i limiti dei finestrini. Con quell’auto, alla sera del primo giorno, e dopo avere filmato la distruzione (interi isolati di case in fiamme, incendi provocati dai rivoltosi neri nei quartieri e nelle case dei neri, il resto della città era sbarrato da cingolati messi per traverso, filo spinato e soldati) siamo andati nel piccolo edificio a due piani in cui Robert Kenney aveva organizzato il suo ufficio per la sua campagna elettorale. Era candidato democratico contro il presidente democratico Johnson, era il candidato contro la guerra nel Vietnam, votata da senatori e deputati del suo partito. Stava vincendo, ad una ad una, con i suoi indimenticabili discorsi, tutte le elezioni primarie.
Gli ho proposto l’idea pazzesca di venire sulla nostra auto scoperta. Saremmo andati alla Quattordicesima strada, angolo F street dove era cominciata la rivolta, una o due ore dopo la notizia dell’assassinio di Martin Luther King.
Robert Kennedy mi ha chiesto un quarto d’ora per riflettere. Si è ritirato in uno stanzino diviso da una porta a vetri. Potevamo filmarlo, mentre, muovendo un po’ le labbra, stava «pensandoci» come aveva detto, e lo abbiamo fatto, senza tagli o montaggi, Kennedy non ha consultato nessuno. Ha deciso da solo, neppure Ted Sorensen, comune amico e che si vede accanto a me e a lui nel documentario di quel momento. È venuto da solo.
Era notte e non c’erano luci perché l’energia elettrica era stata tolta in città. Siamo entrati in un’area che sembrava vuota e spenta. Ma quando abbiamo acceso l’unico riflettore, puntandolo su Robert Kennedy, che si era alzato e stava dritto sulla parte posteriore dell’auto, alcuni ragazzi si sono avvicinati. Sembravano dieci o venti, e invece erano molti di più, così è accaduto in pochi minuti. C’era una di quelle reti metalliche dei campi da gioco urbani. La rete consentiva a Bob Kennedy di appoggiarsi e di lasciarsi spingere più in alto. Non da noi, dalle mani dei giovani neri.
È in quel modo, in quella condizione, in quella notte, che il giovane senatore Robert Kennedy ha parlato ai neri di Washington in rivolta. Ha parlato di «mio fratello» e di «vostro padre» che sono stati assassinati nella stessa maniera.
«Noi ci siamo conquistati il diritto e la forza di rispondere alla violenza senza violenza. Noi ci siamo conquistati il diritto e la forza di non spargere sangue. Perché noi siamo la prossima America».
Mancavano solo due mesi, stesso giorno, quasi la stessa ora, all’assassinio di Robert Kennedy (ricordate?, Ambassador Hotel di Los Angeles, la notte tra il 4 e il 5 giugno di quello stesso 1968, dopo che Robert Kennedy aveva vinto anche le ultime elezioni primarie in California, e dunque era certo della sua designazione a candidato del partito democratico e certo della sua vittoria alle elezioni presidenziali).
Dunque «la prossima America», senza violenza di cui Kennedy ha parlato quella notte, dopo l’uccisione di Martin Luther King a Memphis e prima della sua uccisione a Los Angeles, quella volta non è venuta. Non ancora. Per questo ha mosso e sconvolto e appassionato gli americani il discorso di Barack Obama, appena due settimane fa a Filadelfia. «La prossima America» è di nuovo in cammino. Di nuovo cerca giustizia per coloro che sono stati lasciati indietro, di nuovo sta dicendo agli americani giovani che il loro destino è molto più grande e importante del morire e combattere. Di nuovo la parola «speranza» ha un senso più vasto e risonante della parola «potenza».
Per questo è giusto ricordarsi di Martin Luther King - e del suo fratello bianco Robert Kennedy - il 4 aprile di un anno in cui potrebbe accadere ciò che non è accaduto, qualcosa di grande e di preannunciato dal senso delle loro vite.


Unità 03.04.2008
Arsinoe, regina guerriera
Ai capitolini la testa in bronzo proveniente da palazzo Te a Mantova
di Flavia Matitti

Ai capitolini la testa in bronzo proveniente da palazzo Te a Mantova
di Flavia Matitti
REGINE Rispetto al resto del mondo antico, in Egitto le regine avevano un grande potere e qualcuna riuscì perfino a governare il paese assumendo il titolo di faraone. Ma la sovrana tolemaica Arsinoe III era diversa. Incarnava, piuttosto, il tipo dell’eroina, che non
esita a recarsi sul campo di battaglia alla testa dei suoi uomini, incoraggiandoli ed esortandoli fino alla vittoria. Soccomberà invece agli intrighi di corte, assassinata in circostanze misteriose nel 204 a.C. E Polibio tramanda che alla notizia della sua morte la città di Alessandria: «si riempì di gemiti, lacrime, lamenti incessanti».
L’occasione di incontrare questa straordinaria figura femminile è offerta in questi giorni dall’arrivo a Roma, ospitata nella Sala degli Arazzi del Palazzo dei Conservatori, di una magnifica testa in bronzo raffigurante la regina tolemaica. L’opera proviene dal Museo Civico del Palazzo Te di Mantova, dove si è appena inaugurata la mostra “La Forza del Bello. L’arte greca conquista l’Italia”, curata da Salvator Settis. Siccome i Musei Capitolini hanno concesso in prestito all’esposizione mantovana alcuni importanti capolavori delle loro collezioni di antichità, tra cui lo “Spinario”, il Museo Civico di Palazzo Te ha inviato a Roma, per tutto il periodo di durata della mostra, questo prezioso frammento di testa femminile in bronzo, di dimensioni leggermente più grandi del vero, raffigurante Arsinoe III, figlia di Tolemeo III e di Berenice II, sposa del debole e inetto fratello Tolemeo IV, con il quale regnò per sedici anni.
La scultura rappresenta una rara testimonianza di ritratto femminile in bronzo di età ellenistica, ancora più rara se si pensa che è stata realizzata in Egitto, un paese in cui nella statuaria era assai più diffuso l’uso del marmo rispetto a quello del bronzo. L’opera venne donata a Mantova dal diplomatico e collezionista di antichità egiziane Giuseppe Acerbi, che fu console generale austriaco ad Alessandria d’Egitto dal 1826 al 1834. Lo stato di conservazione della testa è eccezionale, se si eccettua la perdita degli occhi, tuttavia resta il rammarico che non si sia conservato il corpo. La statua, infatti, eseguita per commemorare la regina dopo la sua morte, doveva essere vestita di un chitone drappeggiato intorno al corpo. Il ritratto mostra un realismo di fondo, tuttavia l’acconciatura, semplice ma raffinata, che richiama quella delle divinità greche, sottolinea la natura divina della sovrana.
Fino al 06/07; Musei Capitolini
martedì -domenica 9.00-20.00 Tel. 060608