sabato 23 settembre 2006

Repubblica 23.9.06
IN BOZZE
Freud sotto accusa
di LEOPOLDO FABIANI


AI suo apparire in Francia ha scatenato polemiche a non finire, con un'eco immediata nei giornali di tutto il mondo. A novembre Il libro nero della psicanalisi verrà pubblicato in Italia da Fazi e c'è da giurare che le discussioni si riaccenderanno. Curato dalla studiosa Catherine Meyer, con gli interventi di cinquanta fra medici, psicologi, filosofi, storici ed ex pazienti, si tratta di un atto d'accusa radicale contro la creatura di Sigmund Freud.
Tutto viene messo in discussione, dall'efficacia delle terapie psicanalitiche (vengono elencati numerosi casi in cui funzionano meglio altri trattamenti, soprattutto farmacologici), allo statuto epistemologico della psicanalisi, descritta come una pseudoscienza al limite della seduzione affabulatoria, alla denuncia delle società psicanalitiche come centri di potere impegnati in perenni lotte fratricide, fino alla descrizione dello stesso Freud come teorico disinvolto che non esitava ad alterare i risultati delle sue ricerche e delle sedute con i pazienti per farli combaciare con le proprie teorie. Le testimonianze di pazienti reduci da esperienze di vera e propria vessazione da parte degli analisti completano un quadro totalmente "nero", tanto da lasciarci con una domanda: possibile che sia tutto qui quel che c'è da dire su un pensiero che ha segnato tutta la cultura del Novecento?
Per chi invece vuole conoscere ancora più a fondo il padre della psicanalisi, Bollati Boringhieri pubblica a ottobre Freud in vita e in morte di Max Schur, il medico che lo ebbe in cura negli ultimi sedici annidi vita. Una biografia narrata da vicino, dove emerge prepotente fin dagli anni della giovinezza, il tema della morte come costante nella riflessione del grande medico viennese.

l'Unità 23.9.06
Ingrao: «Quando i giornali fratelli crocifiggevano l’Unità»
Lunga intervista radiofonica del vecchio leader del Pci che sul pacifismo polemizza anche con Rifondazione


«Con l'Unità portai in prima pagina le lotte sociali, oggi c’è solo comunicazione di vertice», è un passaggio dell’intervista realizzata da Arianna Voto per il Gr Parlamento a Pietro Ingrao che interviene sui temi dell’informazione e dell’attuale comunicazione politica, con la partecipazione di Sergio Bellucci, responsabile Comunicazione Prc. L’intervista, di cui pubblichiamo uno stralcio, andrà in onda oggi alle ore 9,30 sulle frequenze del Gr Parlamento (Giornale Radio Rai).
Ecco il testo che ricorda quegli anni: «Bisogna prima di tutto dire che quando ritornai dall’esercito di Liberazione venni mandato dal mio partito a fare il giornalista come capocronista a l’Unità, di cui poi diventerò direttore. Quindi ho a che fare con questo strumento straordinario che è il giornale, in concorrenza con i grandi giornali borghesi, che erano restati in piedi col fascismo e erano sopravvissuti al fascismo - La Stampa di Torino, il Corriere della Sera, Il Resto del Carlino, i principali insieme a qualche foglio nel Mezzogiorno, come l’Ora di Palermo. Lo ricordo nitidamente: questi giornali famosi, che dominavano il mercato e che erano l’espressione della grande borghesia, una raggiera di eventi non li riportano, le lotte sociali non comparivano mai nelle prime pagine. E una delle mutazioni che noi facciamo lì nella redazione de l’Unità è invece cominciare a mettere nelle prime pagine gli scioperi, le lotte, le insorgenze, le ribellioni contadine, come fatti centrali, accompagnandoli poi con una rinascita della riflessione storica, quindi anche la discussione su Croce, sul post-crocianesimo, eccetera.
Questo faceva anche parte di un ammodernamento del giornale, per cui io mi presi un sacco di critiche dal mondo sovietico. Ad un certo momento - nel frattempo ero diventato direttore de l’Unità da parecchi anni - fu organizzata dal Cominform, (l’organizzazione creata e messa in piedi da Mosca per controllare tutto il subbuglio che si era scatenato nel mondo sovietico, che aveva investito l'Europa portando ai conflitti che sappiamo), una riunione sui mezzi di comunicazione del mondo comunista in Europa e altrove, che si tenne nelle periferie di Bucarest.
Il Cominform agiva da struttura di controllo e lì il tema era l'esame di due giornali, il cecoslovacco Rudé Právo, e l'Unità che era il giornale italiano. E l'Unità fu crocifissa, criticata duramente, con io che invocavo e speravo nell'aiuto dei compagni francesi che non venne e che invece godettero delle botte che prendevano questi italiani troppo invadenti».
Ingrao nell’intervista polemizza anche con l’abbandono delle tematiche pacifiste cominciando dall’esigenza del disarmo, da parte della sinistra, anche quella radicale di Rifondazione, partito al quale oggi è iscritto.

l'Unità 23.9.06
Ma alla fine non ci resta che Darwin

di Cristiana Pulcinelli


A VENEZIA al convegno sul Futuro della Scienza di scena il dibattito sull’evoluzione delle specie. Il 53% degli americani è «creazionista», anche se il «disegno intelligente» appare in ribasso. E in Italia?

L’Intelligent Design è un prodotto americano, come gli hamburger e la coca cola? Forse sì, perché, secondo un sondaggio condotto un anno fa dalla Gallup per conto della Cnn, sembra che neanche i cittadini americani lo sostengano più di tanto. La maggior parte degli intervistati (53%) crede infatti ancora nel creazionismo, ovvero nell’ipotesi che Dio abbia creato gli esseri umani così come sono adesso e che non ci sia stata nessuna evoluzione. Alla teoria dell’Intelligent Design, o Progetto Intelligente, secondo cui gli esseri umani si sono sviluppati in milioni di anni a partire da forme meno avanzate, ma secondo un processo guidato da Dio, crede il 31% degli intervistati. Solo il 12% pensa invece che non ci sia stata nessuna guida dietro all’evoluzione delle specie che ha portato alla nascita dell’essere umano. Il centro di ricerche Observa, che si occupa di tenere sotto controllo gli orientamenti dell’opinione pubblica italiana nei confronti della scienza, ha condotto un sondaggio simile tra i nostri concittadini. I risultati ci danno qualche spunto di riflessione. Se infatti è vero che da noi il creazionismo proprio non va (conquista solo il 17 % delle risposte), è vero che l’ipotesi che dietro all’evoluzione ci sia la mano di una intelligenza superiore trova credito nel 38% dei casi. Il 31% degli italiani pensa invece che Darwin avesse ragione: siamo solo frutto del caso. I risultati del sondaggio sono stati presentati alla Conferenza internazionale The future of Science che è in corso a Venezia durante la giornata di ieri dedicata al tema dell’evoluzione della vita. Bisogna tener conto di questi numeri. Quello che ci dicono è che mentre nella comunità scientifica la teoria dell’evoluzione non è in discussione, nella società si fa fatica ad accettare i suoi presupposti e le sue conseguenze. Daniel Dennett, direttore del centro per gli studi cognitivi dell’Università di Tuft negli Stati Uniti. ha ricordato che nel 1868, un oppositore di Darwin sosteneva che la teoria dell’evoluzione era incredibile tanto quanto sostenere che per fare una macchina bella e funzionante non ci fosse bisogno di sapere come si deve fare. Oggi sui volantini dei creazionisti si leggono domande come: conosci un edificio che non abbia il suo costruttore? Un dipinto che non abbia il suo pittore? Questioni che rimandano alla stessa perplessità. Oggi il creazionismo è in declino, ma l’idea che l’evoluzione abbia seguito una direzione, una finalità , è ancora presente. Come ha sottolineato Edoardo Boncinelli, biologo e genetista, Darwin aveva avanzato due proposte per spiegare le sue osservazioni sugli esseri viventi: la prima è che tutte le specie odierne derivano da uno stesso gruppo primitivo di organismi, la seconda è che la differenziazione sia avvenuta per variazione (oggi diciamo mutazione) casuale e selezione naturale. Mentre la prima gode ormai di un consenso quasi generale, questo non si può dire per la seconda. Ci sono resistenze psicologiche all’idea che tutto sia opera del caso e che manchi una direzione. Quello che dobbiamo ricordare, però, è che queste perplessità non sono critiche scientifiche. Critiche scientifiche al darwinismo, o meglio al neodarwinismo che è nato dopo la scoperta dei geni, ci sono state per la verità nel corso degli anni. Boncinelli ha ricordato due posizioni in particolare. Una è il neutralismo che si basa sull’osservazione che ci sono troppe mutazioni: il genoma è zeppo di mutazioni, alcune delle quali non hanno nessun valore selettivo perché non producono nessun effetto.
L’altra è il saltazionismo, o teoria degli equilibri punteggiati così come è stata formulata da Stephen J. Gould, che si basa sull’osservazione del fatto che per lunghi periodi storici non succede nulla di rilevante dal punto di vista della differenziazione delle specie, mentre in altri periodi il fenomeno subisce un’accelerazione incredibile. Il paradosso sta nel fatto che, anche grazie a queste scoperte, l’azione del caso nell’evoluzione sembra aumentata rispetto a quanto pensasse Darwin. La teoria dell’evoluzione è comunque la migliore che abbiamo a disposizione per spiegare la vita. Su questo tutti gli scienziati sono d’accordo. Questo non vuol dire che spieghi tutto.
Una delle questioni su cui si sta lavorando, ha spiegato Denis Duboule, professore di zoologia a Ginevra, è ad esempio la questione del riciclaggio genetico. Si è visto infatti che nel corso dell’evoluzione gli stessi geni sono stati riciclati più volte per fare più cose. Oggi sappiamo che molti geni sono utilizzati come una sorta di cassetta degli attrezzi da impiegare in funzioni diverse. Inoltre, esistono dei vincoli alle variazioni, soprattutto negli organismi più complessi, dovuti al fatto che i geni sono correlati tra loro in una rete.
Un altro punto fondamentale riguarda la specificità dell’essere umano. Ci sono delle caratteristiche che sembrano appartenere solo a noi nel regno animale, questo vuol dire che l’evoluzione ha subito un salto? Tecumseh Fitch, psicologo scozzese che studia l’evoluzione cognitiva sostiene di no. Solo che per capire alcune di quelle che sembrano peculiarità umane dobbiamo allargare lo studio comparativo a tutto il regno animale, Ci sono infatti alcune cose che gli scimpanzé non sanno fare, come ad esempio guardare negli occhi l’interlocutore, ma che i cani, riescono benissimo. L’esempio più spettacolare riguarda però la capacità di riprodurre vocalizzazioni. Sappiamo che nessuna delle grandi scimmie è in grado di farlo, le foche invece sì ed è stata una grande sorpresa sentire una foca, allevata da un pescatore scozzese, pronunciare in inglese (e con accento scozzese) la frase: «Come over here: vieni qui».

l'Unità 23.9.06
CAVALLI SFORZA. Parla il genetista: «Il finalismo nell’evoluzione è stato rilanciato per aiutare Bush»
«Intelligent Design? Invenzione politica»
di c.p.


Luca Cavalli Sforza è un osservatore privilegiato di quello che avviene di qua e di là dell’Oceano sulle questioni che riguardano la teoria dell’evoluzione. Nato in Italia, vive da molti anni negli Stati Uniti dove insegna genetica umana alla Stanford University della California.
Professor Cavalli Sforza, l’ipotesi che dietro l’evoluzione ci sia una qualche entità intelligente ha dei sostenitori tra gli scienziati?
«C’è ancora oggi qualche naturalista che, prendendo in esame organi complessi come l’orecchio o l’occhio, si domanda: come possono essere così perfetti? Come è possibile che mutazioni casuali, che non vanno in una direzione precisa, possano produrre questa complessità? C’è però una risposta, questa sì intelligente, alla questione: la selezione naturale ha avuto moltissimo tempo per agire. Il biologo francese Francois Jacob usava una parola per spiegare i meccanismi biologici dell’evoluzione: bricolage. La Natura lavora come un bricoleur: correggendo qua e là, provando e riprovando. E il prodotto finale funziona. Del resto, non può non funzionare, altrimenti l’organismo morirebbe».
L’Intelligent Design è stato utilizzato anche a fini politici?
«È nato soprattutto a fini politici, durante la campagna presidenziale di George W. Bush. Alcuni industriali americani, in particolare di Seattle, crearono un gruppo per sostenerne l’elezione. Per questo avevano bisogno dei voti del Sud degli Stati Uniti, dove è particolarmente potente la Chiesa Battista. Ai suoi seguaci piace l’idea che la storia sia andata come racconta la Bibbia, molti credono addirittura che il mondo esista solo da 6000 anni. Si è pensato, così, di appoggiare l’idea che ci sia un progetto di una qualche entità intelligente dietro all’evoluzione e così raccogliere i voti necessari».
Anche tra gli scienziati però c’è chi sostiene che non bisogna contrapporre il dogma dell’evoluzionismo a quello del Disegno Intelligente. Cosa ne pensa?
«Penso che noi non opponiamo dogmi. La scienza non è mai dogmatica, perché non è mai certezza. Il che fa scartare gli errori più gravi».
Potrà inasprirsi del contrapposizione ideologica su questi temi in futuro?
« Dipende dall’ambiente. In Italia mi pare che l’Intelligent Design abbia meno presa. È vero che c’è stato un ministro che voleva eliminare l’insegnamento dell’evoluzionismo dalle scuole, ma credo che in quel caso si sia trattato di una cosa diversa: un ministro, cattolico, che non conosceva il suo mestiere si è rivolto a dei consiglieri dell’estrema destra cattolica. Nonostante ciò, io credo che oggi nessun professore italiano sia preoccupato di insegnare l’evoluzione ai suoi studenti».
La teoria dell’evoluzione trova oggi le sue conferme?
«Oggi, con il sequenziamento del genoma possiamo addirittura seguire i passi dell’evoluzione: abbiamo intere parti del codice genetico in comune con moltissime specie animali. Negare la validità di questa spiegazione vuol dire essere carenti di conoscenza. O avere determinati interessi politici».

La Stampa Tuttolibri 23.9.06
Inventò l’elettroshock ma non calcolò il prezzo
Vita e scritti di Ugo Cerletti, che per primo nel 1938 sperimentò la terapia delle scosse elettriche sui malati di mente
di Giorgio Boatti


NON una seconda scossa. Mortifera!»: dopo essere stato colpito da una scarica da 80 volt, per un quinto di secondo, trasmessagli da due elettrodi, inzuppati di soluzione salina, che gli erano stati applicati nella regione fronto-parietale, il primo paziente mai sottoposto a elettroshock dimostrava di avere le idee chiarissime sulla terapia che i medici della clinica psichiatrica universitaria di Roma stavano sperimentando su di lui. Sarà stato anche vero che la Pubblica Sicurezza l'aveva portato alla clinica dopo averlo trovato che vagava senza documenti e in stato confusionale presso la stazione Termini, dove era arrivato, quasi senza rendersene conto, da Milano, dove abitava con la moglie. E saranno pure state azzeccatissime le osservazioni dei medici che l'avevano ricoverato e che lo avevano trovato affetto da idee persecutorie, da allucinazioni uditive (lo tormentavano da anni, si scoprirà poi che era «spiccatamente difettoso nell'udito») e, in aggiunta, quasi presagisse il suo destino, in preda al terrore che arcane e sofisticate macchine, di cui non sapeva neppure fornire una descrizione di massima, potessero influenzare i suoi pensieri. Ma il quarantenne, che in un giorno d'aprile del 1938 era stata individuato come il soggetto ideale per la sperimentazione, dell'elettroshock proprio non ne voleva sapere. Quello che accade negli attimi seguenti lo conosciamo grazie al protagonista dell'esperimento, quel professor Ugo Cerletti, «inventore» della terapia delle scosse elettriche sui malati di mente, di cui la ricercatrice Roberta Passione ha appena pubblicato, nel volume Ugo Cerletti. Scritti sull'elettroshock, edito da FrancoAngeli, i contributi scientifici inquadrati da un accurato ritratto biografico. Conosciamo dunque le reazioni di Cerletti che, come primario della clinica romana, in quel frangente ha la responsabilità di continuare o sospendere l'esperimento: «Confesso che questo ammonimento, esplicito, inequivocabile, partito da un soggetto che fino a un momento prima non riusciva a farsi intendere attraverso il suo enigmatico gergo, scosse alquanto la mia determinazione, tanto più che qualcuno degli astanti proponeva la sospensione. Il timore di cedere a un'idea superstiziosa mi fece decidere: riapplicata la cuffia venne lanciata una scarica di 110 volt per 1/5 di secondo». Quello che accade dopo è stato sperimentato, sulla propria pelle, a partire da quell'aprile del 1938, da milioni di pazienti psichiatrici, soprattutto schizofrenici e depressi, sottoposti fino a non molti anni fa a questa violenta terapia (ci sono Paesi in cui la terapia E.S. è ancora la norma) inventata dallo scienziato nato nel 1877 a Conegliano Veneto ma vissuto prevalentemente, dalla prima giovinezza in poi, a Roma. Con l'intervallo degli incarichi scientifici e ospedalieri tenuti, prima di approdare alla cattedra romana di psichiatria, a Milano, Bari e Genova.
Dopo le scariche che provocano uno spasmo generalizzato, si scatena nel paziente trattato con E.S. il più classico attacco epilettico. Alla perdita di coscienza sono concatenate una repentina inspirazione alla quale segue l'apnea e, quindi, come dicono le relazioni con cui Cerletti riferisce della sua sperimentazione in congressi medici, «il corteo dei vari sintomi neurovegetativi». Vale a dire prima l'arresto e poi il rallentamento delle pulsazioni cardiache, il pallore, lo sguardo fisso e tutti gli altri indicatori fisiologici del terrore: dallo scostamento repentino degli arti, al grido violento, ai tentativi di fuga, al coprimento dei genitali, a salivazione e bava, al sudor freddo, all'orripilazione, alla lacrimazione, e, eccezionalmente - notano sempre i medici che applicano questa terapia - perdite di sperma, di urina, di feci. L'idea che muove Cerletti a sperimentare questa terapia è che lo shock elettrico, alla stregua di altri shock sperimentati da altri ricercatori sempre negli Anni Trenta - lo shock insulinico, che consiste nel provocare un coma ipoglicemico è del 1933, lo shock cardiazolico, crisi epilettiche scatenate con un'iniezione di cardiazol è del 1937 -, possa riattivare in modo radicale la dialettica vita/morte che la patologia mentale ha infranto. Insomma lo shock dovrebbe agire sull'individuo ammalato sollecitandone le funzioni vitali automatiche ed elementari, quelle che lo scienziato era convinto agissero nelle regioni più profonde del sistema nervoso, organizzate, a suo parere, in un succedersi di strati dove, in fondo a tutti gli altri, c'è l'istinto vitale bloccato. In questa concezione c'è buona parte della visione di Cerletti, che ha compiuto il suo tirocinio giovanile negli anni in cui trionfa l'approccio istologico e lo studio microscopico del sistema nervoso scandito dal Nobel a Camillo Golgi. Anche successivamente Cerletti continua a confrontarsi con le malattie mentali da un versante che è prevalentemente da neuropatologo più che da psichiatra. Del resto è proprio nel primo decennio del Novecento che le due discipline, neurologia e psichiatria, si separano, acquisendo autonomia e separata valenza accademica. Cerletti è da tempo approdato alla cattedra romana quando ha modo di verificare, al mattatoio comunale di Roma, gli effetti delle scariche elettriche sui maiali prossimi all'abbattimento. Da qui numerose sperimentazioni su animali, per verificare gli effetti dello shock, e quindi il passaggio alla pratica su esseri umani. Ancora negli Anni Cinquanta, quando la pratica dell'elettroshock è ormai generalizzata in tutto il mondo, Cerletti continua le ricerche per individuare tecniche meno violente di induzione dello shock ma, nel frattempo, ne difende l'impiego anche con ragioni concrete, che, nell'Italia poverissima dell'immediato dopoguerra, molti condividono. Spiega, nel discorso di apertura dell'ottobre 1946 del congresso della Società Italiana di Psichiatria, di cui è stato presidente, come siano circa ventimila i pazienti che ogni anno possono essere trattati, in Italia, con l'elettroshock. Il che significherebbe abbreviare i loro tempi di degenza da sei mesi a un mese. Con un risparmio complessivo, inserendovi voci quali i costi sulle famiglie e gli introiti di lavoro recuperati, di oltre due miliardi. Una cifra ingentissima, per quei tempi. Dove, a non comparire, è solo la voce della sofferenza patita dai pazienti trattati.

La Stampa Tuttolibri 23.9.06
Ingrao, ogni passione spenta
di Giovanni De Luna


Pietro Ingrao, Volevo la luna, Einaudi pp. 376, €18,50

UN mondo di incontaminata purezza, attraversato dagli slanci del protagonismo collettivo e della sfida progettuale al futuro: da questa antica autorappresentazione del «popolo comunista» sono scaturiti i percorsi di una memorialistica che, almeno fino alla fine degli Anni 80, era costantemente attraversata dalla consapevole fierezza di rappresentare una minoranza virtuosa, irriducibilmente contrapposta all'opacità e alla staticità dell'Italia profonda. Quel tipo di memoria, enfatica e monumentale, trovò nei libri di Giorgio Amendola la sua rappresentazione più efficace. Oggi, quasi tre decenni dopo, Pietro Ingrao, il suo rivale politico di sempre, ci propone una memoria radicalmente diversa, frutto ovviamente - oltre che di differenti storie e inclinazioni personali - anche di una nuova stagione politica. La disintegrazione del Pci all'inizio degli Anni 90 ha incrinato le certezze granitiche che segnarono i ricordi di Giorgio Amendola («Veniamo da lontano e andiamo lontano»). Come quello della Rossanda che lo ha immediatamente preceduto dallo stesso editore, il libro di Ingrao si inserisce quindi in un altro genere di memorialistica, molto disponibile all'autocritica, a un bilancio anche severo dei propri errori, senza le reticenze di un tempo. Aspri sono così i giudizi sul clima soffocante che si respirava all'interno del Pci («Purtroppo in quel partito il confronto aperto, l'esplicitazione del dissenso, erano ancora visti con allarme: giudicati pericolosi e colpiti da pesanti scomuniche»); spietata la denuncia della propria viltà in occasione dell'espulsione del gruppo del Manifesto («Fu davvero un'azione assurda, perché nulla mi costringeva a quel gesto di capitolazione e si può dire di tradimento verso quei miei antichi compagni di lotta»). Sul piano storiografico queste «confessioni» confermano quanto Ingrao aveva già più volte scritto sui nodi più intricati della vicenda politica e umana del gruppo dirigente del Pci. Anche il passaggio delicato del suo «viaggio attraverso il fascismo» (la militanza giovanile nei Guf, la partecipazione ai Littoriali, l’«ode» composta in onore di Littoria-Latina ecc.) è affrontato senza incertezze, all'interno di coordinate storiografiche ormai consolidate. Nella seconda metà degli Anni Trenta, nelle Università, nelle case editrici, nelle redazioni delle riviste, nelle stesse istituzioni culturali fasciste, nella generazione cresciuta dopo la soppressione dei partiti politici, si diffuse un prorompente desiderio di «libertà intellettuale», l'insofferenza per le angustie della «riserva indiana» in cui erano ristretti («Lo studente non frequentava che studenti, professionisti, uomini di cultura: non un operaio, un contadino, un artigiano, era per lui uomo, amico, pari», scriveva Lucio Lombardo Radice), la delusione profonda per le caratteristiche assunte dal regime (lo «staracismo», il «caporalismo» dei Guf, l'alleanza con Hitler). Dimenticate le avventure degli esordi, gerarchi e semplici gregari si erano progressivamente adagiati nella ripetitività di una stanca routine burocratica: la mortificazione della politica come libero confronto si risolveva inevitabilmente nell'impossibilità per la stessa classe dirigente che monopolizzava il potere di fare vera politica. Il fascismo bloccava, cioè, ogni dinamica interna autopropulsiva, negandosi la possibilità di un rinnovo fisiologico dei propri quadri; costringeva ai margini dei meccanismi decisionali il suo potenziale personale politico di ricambio, favorendo di fatto l'apporto di energie giovanili e fermenti attivistici all'opposizione antifascista. E' un passaggio del quale categorie come quelle dell' «opportunismo dei voltagabbana» non aiutano a capire molto e servono solo ad alimentare una bizzarra forma di revisionismo moralistico diventato di moda negli ultimi anni. Per molti giovani ci fu, dopo il 1938, una prima scoperta dell'opposizione al regime, alimentata da una fitta trama di incontri personali, riunioni, scambi di lettere e di documenti, convegni clandestini. Il loro antifascismo fu così spontaneo da apparire ingenuo. Si trattava di capovolgere tutti i termini del paradigma fascista esattamente nei loro contrari e si diventava naturalmente antifascisti. Alla gerarchia si sostituiva l'egualitarismo, al nazionalismo l'internazionalismo, alla dittatura la democrazia, al totalitarismo la libertà. In questa galassia antifascista che andava dai liberalsocialisti a comunisti, Ingrao mosse i suoi primi passi da cospiratore e oggi ne propone un ricordo dai contorni molto nitidi. Per quanto riguarda la sua militanza nel Pci, le pagine più interessanti sono quelle riferite ai motivi di fondo del suo contrasto con Togliatti. Da un lato, una concezione della politica fondata sul principio gerarchico autoritario del «ciascuno al suo posto», un modello di società pacificata, unitaria, organica. La stessa terminologia togliattiana, un'alleanza definita «blocco», un dissenso che diventava una «lacerazione», rivelava chiaramente un disegno in cui la stabilità istituzionale avrebbe dovuto rappresentare la cornice a cui adeguare la conflittualità sociale, il suo vincolo ultimo e definitivo. Dall'altro, «la convinzione che il soggetto rivoluzionario era un farsi del molteplice: l'incontro fluttuante di una pluralità oppressa che costruiva e verificava nella lotta il suo volto... L'unanimismo più che un errore era un assurdo», una visione conflittuale del confronto politico, l'elogio ingraiano del frazionismo e della pluralità, un affidamento più marcato alla capacità del partito di mettersi all'ascolto della spontaneità dei soggetti sociali.
Alla fine, però, quello che colpisce di più nel libro non è tanto il passato che racconta quanto il presente in cui è stato scritto. Spente le passioni di un tempo, mentre la polvere della storia ricopre ormai quegli eventi lontani, c'è posto oggi solo per la compiaciuta tranquillità di un uomo appagato, che attraversa la vecchiaia circondato dall'affetto di una famiglia unita, in una dimensione di serenità che rimbalza direttamente e senza mediazioni sul suo modo di raccontare, di mettere in fila i suoi ricordi. E' un tono che accompagna tutta la narrazione, anche quando si parla di eventi drammatici, quasi a rendere più lieve il peso delle macerie in cui è sepolta una «grande illusione».

La Stampa Tuttolibri 23.9.06
Arendt, un’ebrea che sa perdonare
di Elena Loewenthal


ANCHE e soprattutto le contraddizioni rendono grande la figura di Hannah Arendt. Nata ad Hannover il 14 ottobre 1906, cresciuta intellettualmente con Husserl, Jaspers e Heidegger, emigrò prima in Francia e poi definitivamente negli Stati Uniti: quest'anno compirebbe cent'anni. Tale distanza mette in moto quel metronomo che segna la Storia con la maiuscola, impone un confronto con la sua esperienza. Non che sia una comoda soluzione per risolvere i problemi dell'oggi, questo confronto: è piuttosto una lezione complessa, su cui riflettere senza lesinare le energie spirituali apportate dal futuro che lei non ha fatto in tempo a conoscere. Cominciando proprio da quelle specie di contraddizioni - o forse sono «soltanto» arditi accostamenti - che la contraddistinguono. Hannah Arendt scrisse molto - testi, saggi, critiche d'occasione - ma con un sorriso ironico spiega a Günter Gaus che «se avessi avuto in dono una memoria così prodigiosa da conservare davvero tutto ciò che penso, dubito fortemente che avrei scritto alcunché - conosco la mia pigrizia». Il suo è un pensiero essenzialmente politico, nel senso originario e alto della parola: si occupa della polis, cioè del vivere insieme. Della natura sociale dell'uomo, con il potenziale catastrofico che essa implica. Eppure, quasi tutta la produzione intellettuale di Hannah Arendt è dettata dalla sua esperienza individuale, da ciò che ha vissuto in prima persona: «Per esempio, da bambina… sapevo di avere delle fattezze ebraiche, di essere diversa dagli altri bambini. E ne ero pienamente consapevole, ma non nel senso che mi sentissi inferiore: semplicemente le cose stavano così». Anche addentrandosi nel suo pensiero spicca la coabitazione di «richiami» molto diversi, che sono proprio la chiave della sua originalità. Hannah Arendt è stata la grande esploratrice del fenomeno totalitarismo. La sua indagine nell'oggetto uomo ruota intorno al mistero politico e sociale della sopraffazione. E', per l'appunto, un'indagine radicalmente politica: dove però insieme al «comprendere» c'è sempre una misura di stupore. Di sbigottimento. E' permeata, questa ricerca, da una combinazione di «responsabilità e passione, di lucidità e partecipazione».
«Biograficamente, l'Olocausto, le notizie sulla soluzione finale e sui campi di concentramento nazista rappresentarono un vero e proprio trauma emotivo e cognitivo per Hannah Arendt, “qualcosa con cui era impossibile venire a patti”. Questo fatto può aiutarci a comprendere il pathos “essenzialista” che caratterizza l'interpretazione arendtiana del totalitarismo, l'insistenza, cioè, sul carattere di novità assoluta e unicità del fenomeno totalitario», scrive Paolo Costa in prefazione all ’ Antologia che Feltrinelli manda in libreria in questi tempi di anniversario (mentre Bruno Mondadori ripropone il saggio di Simona Forti Hannah Arendt tra filosofia e politica e Fazi annuncia gli scritti di Paolo Flores d’Arcais Hannah Arendt. Esistenza e libertà, autenticità e politica). Proprio all'indomani della guerra in Europa, mentre le notizie sulla catastrofe da vaghe ombre si tramutavano in certezze inequivocabili, risale la conoscenza fra Hannah Arendt e Hermann Broch: siamo nel 1946. Lui è uno scrittore affermato nonché formidabile tombeur de femmes, lei ha vent'anni esatti meno di lui. Ma non era ammissibile che la loro relazione restasse entro i confini dei ruoli tradizionali: diventò invece un sodalizio segnato da cauta, ironica distanza - usarono sempre il «lei» per dialogare. Ne è testimone un nutrito carteggio lungo cinque anni - fino al 1951, appena prima della morte di lui - che l'editore Marietti pubblica ora in traduzione italiana (con vari materiali in appendice), a cura di Roberto Rizzo. Iniziando il carteggio, Hannah Arendt sapeva «benissimo a cosa andava incontro»: entrava nella zona di seduzione di Broch, mera propedeutica all'abbraccio. Eppure queste lettere sono sempre prova di un magistrale equilibrio che non esclude affatto una reciproca confidenza ai limiti della complicità. Arendt giudica i libri di Broch, in particolare La morte di Virgilio, ne suscita reazioni e considerazioni, il tutto sospeso in uno spazio autonomo che sembra escludere ogni altro membro della loro vivace comunità sociale. Il senso di appartenenza - al mondo ebraico, alla comunità degli esuli, alle menti pensanti - è sempre mitigato, se non negato, da Arendt. «Non ho mai cercato appartenenza, nemmeno in Germania». E questa è la chiave per leggere i saggi raccolti da La Giuntina sotto il titolo Hannah Arendt. Percorsi di ricerca tra passato e futuro. 1975-2005.
Con una eccezione di cui la pensatrice parla spesso e volentieri a dispetto del carico di sofferenza che comporta: il suo rapporto con la lingua tedesca. Mai rinnegata, come comprensibilmente fecero molti esuli. Anzi: «Mi sono sempre deliberatamente rifiutata di perdere la mia lingua madre. Ho sempre mantenuto una certa distanza rispetto al francese, che un tempo parlavo molto bene, come pure rispetto all'inglese, la lingua in cui scrivo oggi… In tedesco mi permetto delle cose che non oserei mai fare in inglese… la lingua tedesca è la cosa essenziale che è rimasta e che ho sempre volutamente conservato», racconta a Gaus nella bella intervista che apre l'antologia di Feltrinelli. Il suo rapporto con la lingua madre risente presumibilmente dei tre cardini «metodologici» del suo pensiero: comprendere, perdonare, criticare. Queste tre azioni intese nel senso filosofico di atteggiamento mentale, rappresentano il suo approccio alla storia. Alla storia che si fa collettiva per eccellenza, o meglio per infimità, quando diventa sterminio di massa ad opera del totalitarismo nazista, e di quella personale irrimediabilmente intrecciata con essa. In questo senso L’umanità in tempi bui, scritto in occasione del conferimento del premio Lessing (1959) è una sintesi completa del percorso arendtiano. Ora è disponibile nella traduzione di Laura Boella sia entro l'antologia di Feltrinelli sia in un volume a parte, pubblicato da Raffaello Cortina. Qui, verso la fine, Hannah Arendt spiega quale misura di attinenza alla realtà s'abbia da tenere presente in un mondo sfigurato, divenuto inumano: spiega cioè la ragione di quella istanza a comprendere che tiene insieme tutto il suo pensiero. Giustifica il perché, alla domanda «chi sei?», la sola risposta adeguata - in quegli anni, prima di «emigrazione interiore» in una Germania sempre più nazificata e poi di fuga per la sopravvivenza -, l'unica risposta possibile (malgrado il ribadito rifiuto d'ogni appartenenza) fosse: «un'ebrea». Perché «solo questa risposta teneva conto della realtà della persecuzione» e qualunque altra risposta sarebbe risultata come una grottesca e rischiosa fuga dalla realtà.

venerdì 22 settembre 2006

l’Unità 22.9.06
La sinistra dopo la sinistra
di Achille Occhetto


È indubbiamente vero - come scrive Touraine - che “socialismo” è una parola confusa, usata dalle persone più diverse per esprimere le opinioni più varie. Questa affermazione non mi colpisce particolarmente dal momento che io stesso, nei giorni della svolta della Bolognina, sostenni, non senza suscitare un certo scandalo, che bisognava andare oltre il comunismo, ma anche oltre il socialismo.
Tuttavia non posso non osservare che oggi si esagera. Andare oltre il comunismo e il socialismo del ventesimo secolo non voleva dire e non vuol dire, a mio parere, uscire dall’alveo storico e dal sistema di valori della grande tradizione del socialismo europeo. E questo per molti motivi.
Il primo è che il progetto socialista si è storicamente materializzato - è diventato costituzione materiale - nelle principali società europee. La stessa nozione di economia sociale di mercato (oggi generalmente accettata in Europa) non reca forse in sé il marchio dell’idea socialista?
Questa materializzazione, che si esprime nelle politiche sociali e solidaristiche che hanno profondamente cambiato il modo di essere delle relazioni umane, non è un fossile inerte, un lascito del passato, se non altro perché è messa continuamente in discussione dalla destra. Si presenta ancora oggi come un programma di lotta.
Dentro la parola socialismo si intravede pertanto una serie di conquiste - di elementi di socialismo, come avrebbe detto Enrico Berlinguer - che vanno continuamente rafforzati e rinnovati.
Tuttavia la mera difesa dell’acquis socialista non è più sufficiente. Ritorna non a caso la tanto sbeffeggiata esigenza di andare oltre. Ma come e in che direzione, e soprattutto in quale rapporto con l’idea socialista?
Rispondo subito in un rapporto forte, anzi fortissimo. E ciò perché andare oltre la tradizione socialista del ventesimo secolo non vuol dire non porsi il problema di che cosa debba essere il socialismo del nuovo millennio.
Mi sembrerebbe per davvero stravagante che in una fase di forte internazionalizzazione e globalizzazione di tutti i processi si accentuasse la particolarità del caso italiano.
Una nuova sinistra, comunque la si voglia chiamare, non può non avere come obiettivo principe quello di democratizzare la globalizzazione, quello di una permanente espansione della democrazia, del controllo e della partecipazione a livello mondiale. Direi che oggi questo è l'obiettivo centrale di ogni ripensamento del socialismo; anzi, dar vita ad una autentica democrazia planetaria che imbrigli gli spiriti animali e selvaggi del liberismo capitalista, dovrebbe essere il carattere peculiare del socialismo del XXI secolo.
Estendere la democrazia a tutti i processi di globalizzazione nel momento in cui il mondo è sempre più dominato da una ristretta oligarchia finanziaria trasnazionale diventa l'obiettivo centrale di un nuovo internazionalismo.
Dinnanzi ad un evidente rilancio epocale delle tematiche internazionaliste contrassegnato dalla crisi dello Stato nazionale, che senso avrebbe far nascere in Italia un partito provinciale, funzionale ad accordi e preoccupazioni elettorali di corto respiro? Al contrario, questo sarebbe il momento di dar vita ad un vero e proprio partito trasnazionale, un autentico partito del socialismo europeo.
Andare oltre la tradizione del socialismo del novecento richiederebbe un formidabile impegno intellettuale e programmatico, una vera e propria costituente delle idee, e non semplici fusioni tra stati maggiori di alcuni partiti. Abbiamo bisogno di una autentica contaminazione ideale e culturale, quella nella quale Giuliano Amato sarebbe disposto - come ha affermato recentemente - a confondere la sua identità.
Oggi nessuno può negare che è necessario un processo federativo di rifondazione della sinistra - e non già del comunismo - cercando di superare l’attuale pretora di apparati autoreferenziali che pretendono di trasformare tradizioni obsolete in semplici rendite di posizione nella distribuzione delle cariche pubbliche. Ciò richiede la costituente di una nuova formazione politica. Il problema non è il se dar vita a una nuova formazione politica, ma il come, il perché e il per che cosa.
Il come richiama l’esigenza di una vera costituente delle idee, presieduta da un comitato di saggi che siano espressione dei grandi filoni riformisti e riformatori, aperta alla società civile e ai movimenti e che trascenda - senza annullarli - gli attuali apparati partitici.
Il perché ce lo dice lo stesso Touraine - in un suo recente scritto - quando afferma che è ancora sensato parlare contro il capitalismo e che l’opinione pubblica si aspetta dai dirigenti che mettano dei limiti all’onnipotenza dei mercati e delle imprese e chiede una “sterzata a sinistra”.
Nel per che cosa si colloca a pieno titolo non già la negazione, ma la ridefinizione dell’obiettivo socialista, a partire dalla ridefinizione del rapporto tra libertà ed eguaglianza.
La separazione tra libertà ed eguaglianza è alla radice di tutti gli errori e orrori della sinistra: ha costituito il dramma del secolo breve.
Il socialismo del nuovo millennio dovrebbe porsi l’obiettivo di passare dalla libertà dei pochi alla libertà di tutti. Nella consapevolezza però che per realizzare questo obiettivo ci sono dei nemici contro cui battersi. Non ci bastano i sermoni propri del socialismo etico: occorre vedere con lucidità che lo schiavismo dei nostri tempi, su cui si fonda la libertà dei pochi, è l’espressione dello sfruttamento della stragrande maggioranza del genere umano da parte di una potente minoranza di privilegiati. A questo stato di cose va contrapposta la ricerca della libertà reale, quella che garantisce l’effettiva liberazione della persona all’interno di un contesto nel quale l'esaltazione delle prerogative dell’individuo e l’interesse sociale si fondono in un vero e proprio nuovo progetto di società.
Qui sta la vera vitalità dell’idea socialista, che non è riducibile allo statalismo, ma al contrario si richiama ad un’esigenza insopprimibile di socializzazione. I programmi di socializzazione possono essere vari e differenti, ma tutti devono avere come obbiettivi il superamento di ogni forma di oppressione dell'uomo sull'uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull'altra, del sesso maschile su quello femminile, delle nazioni ricche su quelle povere, dell'uomo sulla natura. Ma ci sono anche la fine dell’alienazione, il pacifismo senza se e senza ma, contro le cosiddette guerre giuste e le guerre cosiddette sante, il superamento del divario tra governati e governanti, e la fine di ogni forma di esclusione dal sapere e dalla cultura. Tuttavia anche nella definizione di questi che sono valori preliminari per avviare un processo di effettiva liberazione umana - che è cosa ben diversa dal liberismo, anche quello di sinistra - occorre avere ben chiaro che non si può affidare alla destra il compito dell'accumulazione e alla sinistra quello della redistribuzione. La sinistra, se è per davvero socialista, non può limitare il suo messaggio al campo della distribuzione della ricchezza all’interno di un modello di sviluppo invariato. Il problema del mutamento del modello di sviluppo rimane una questione capitale.
La sinistra del terzo millennio non può esimersi dal tentare l’impresa, sicuramente titanica, di definire, sia pure gradualisticamente e per approssimazioni successive, le linee di un nuovo modello di sviluppo, di un modo diverso di produrre e di consumare, a partire dal problema energetico, e nel contesto di una democrazia planetaria che si proponga di risolvere alle radici le grandi sfide della lotta al sottosviluppo e della difesa del pianeta dalla catastrofe ecologica.
Il movimento reale che si batte per tutto questo è il socialismo. Un simile movimento, in Italia, può porsi l’obiettivo originalissimo di unire i diversi riformismi della nostra tradizione. La sinistra italiana non è riducibile alla vecchia tradizione socialdemocratica, è più articolata e ricca di umori e filoni culturali, di cui la componente cattolica e quella democratica di sinistra di tradizione risorgimentale e azionista sono grande parte. Tuttavia per fondere tra di loro tali tradizioni collegandole al sentire delle nuove generazioni, che rimane il vero problema che sta di fronte a tutte le sinistre, si dovrebbe lavorare per un soggetto politico federato verso il basso e verso l'alto, collegato a un soggetto sopranazionale.
Le variegate forme politiche della sinistra che siedono al parlamento europeo sono, nella loro archeologica separazione, obsolete. Il partito politico del novecento nasce con lo stato nazionale e la rivoluzione industriale. E' ora di incominciare a pensare seriamente a partiti sopranazionali che accompagnino, accelerandolo, il processo di unificazione europea.
Oggi possiamo tutti nutrire l'ambizione di portare l'insieme della sinistra su un terreno diverso da quello del collettivismo autoritario senza dovere passare sotto le forche caudine dell'apologia neoliberista. Per questo io ho pensato e continuo a pensare ad una uscita da sinistra dal crollo del comunismo. Non ci sarebbe nulla di male se il centro sinistra in Italia si riorganizzasse attorno a due grandi componenti: una più moderata, e l'altra di sinistra. Ma anche ciò deve avvenire sulla base di un autentico e sincero processo di chiarificazione ideale, sia da un lato che dall'altro. Ciò di cui il paese non ha bisogno sono i pasticci di corto respiro, le manovre autoreferenziali degli apparati.
In ogni caso rimane comunque un vuoto da colmare: quello di un socialismo democratico di sinistra. È giusto che il nuovo partito sia democratico, ma è altrettanto giusto che sia di sinistra.

Repubblica 22.9.06
La discussione
Il socialismo tormento dei socialisti
di Marc Lazar


Le trasformazioni da un lato hanno rafforzato l'unità della sinistra ma al tempo stesso ne hanno accentuato le fratture
Nell'Europa dei nostri giorni i pilastri del welfare novecentesco sono sempre più scossi dalla globalizzazione

INTERROGARSI su cosa sia il socialismo è stato il tormento dei socialisti fin dalla loro apparizione, nel XIX secolo. La questione comporta essenzialmente tre dimensioni. La prima, di natura teorica, ha suscitato una gigantesca letteratura sul significato da attribuire a questo termine, resa anche più abbondante dal fatto che il socialismo si è costantemente adattato alla realtà. La seconda è politica: il socialismo orienta la strategia dei partiti che vi fanno riferimento, ne determina il programma e l'azione di governo. Ed è anche oggetto di controversie, sia tra loro che all'interno di ciascun partito socialista, sul piano ideologico ma anche per rivalità di potere. C'è infine una dimensione di tipo identitario: il socialismo è per i suoi adepti un'intelligibilità del mondo, conferisce un significato alla loro esistenza e li definisce collettivamente.
Ancora una volta, la discussione si riaccende nella sinistra europea. E in particolare in Italia, nella prospettiva della creazione del partito democratico. Ma anziché sforzarsi di stabilire se la sinistra sia ciò che sostiene di essere, di ragionare sulla sua natura, di postularne l'omogeneità o di enunciare le cose da fare, è senza dubbio più razionale esaminare la sua evoluzione a partire dagli anni 80. In effetti, da quel momento in poi è subentrata una profonda destabilizzazione di quelle che erano state le sue principali componenti durante il XX secolo. Nel 1989 il comunismo – ortodosso o riformatore – già indebolito nel periodo precedente, subisce una clamorosa sconfitta che segna il suo fallimento storico. Ed entra in crisi, sia pure per ragioni diverse, anche il socialismo, che nell'Europa occidentale aveva assunto forme diverse, con andamenti cronologici e procedimenti variabili da un paese all´altro.
I principali partiti socialdemocratici, una volta riveduto il loro progetto originario, rinunciando alla rivoluzione, alla socializzazione dei mezzi di produzione e alla centralità della classe operaia, contribuiscono in modo decisivo (ma non esclusivo) al rafforzamento della democrazia, e soprattutto alla costruzione di un potente stato sociale che cambia la fisionomia dell´Europa e degli europei dopo la seconda guerra mondiale. Quelle formidabili realizzazioni sono allora contrassegnate da un processo contraddittorio. Da un lato, il successo presso l'opinione pubblica – non esclusa una parte importante della destra – devitalizza il socialismo. Dall'altro, i pilastri del welfare sono scossi dalla globalizzazione, da un'Unione europea sempre più incline alla deregulation, dall'affermarsi del pensiero liberista e dalle trasformazioni subentrate nelle società post-industriali, sempre più individualiste. Trasformazioni che danno vita a rivendicazioni antinomiche non solo da parte degli attori classici – lavoratori dipendenti, confederazioni sindacali, professioni autonome – ma anche di nuovi soggetti approdati alla sfera pubblica: le donne, gli ecologisti, i disoccupati, i precari, gli immigrati: al tempo stesso più protezione e meno stato, più politica sociale e meno tasse, uguaglianza e libertà, riconoscimento di diritti collettivi inediti e rispetto delle scelte individuali, accettazione delle differenze e impennate autoritarie, apertura al vasto mondo e ripiegamento xenofobo, tolleranza verso l'altro e paura davanti all'insicurezza. Ne risulta che il welfare non è più appannaggio dei socialisti, e neppure può rimanere immutato.
Da un lato queste trasformazioni hanno rafforzato l'unità della sinistra in Europa, ma al tempo stesso ne hanno accentuato le fratture. La sua unità è consolidata ad esempio grazie al fatto che l'opposizione frontale tra rivoluzionari e riformisti si è notevolmente attenuata, sebbene non si sia scomparsa. D'altra parte, le sue divisioni si sono approfondite con l'emergere di quattro grandi orientamenti, espressione di diverse sensibilità per rispondere alle nuove sfide e affrontare la destra, compresa quella estrema e populista. Nella sinistra radicale, le correnti neocomuniste si intrecciano con una galassia di movimenti protestatari che aborriscono la globalizzazione, il nazionalismo, la sinistra «di gestione del sistema», l'Europa; sostengono i lavoratori e gli esclusi, e credono nella rottura, nell'alternativa, nell'utopia. La sinistra conservatrice, molto diffidente verso il mercato e sempre più critica verso l'Europa, afferma la necessità di tornare ad erigere le tavole della legge socialista: in particolare il «tutto Stato» e le nazionalizzazioni, posizione questa che però conduce spesso a una deriva social-nazionalista. La sinistra del rinnovamento cerca di aggiornarsi nel portare avanti la tradizione socialdemocratica, ad esempio con la tendenza a preconizzare livelli di tassazione elevati, partner sociali vigorosi, l'Europa sociale, uno stato modernizzato e l'introduzione di procedure di regolamentazione della globalizzazione e del mercato. Infine, la sinistra social-liberale si propone di superare i confini classici del socialismo. Nell'intento di sfruttare le potenzialità del mercato, limita gli interventi dello Stato, ridefinisce l'uguaglianza in quanto concetto chiave per la sinistra, sottolinea il ruolo essenziale della libertà e dell'individuo, accentua limportanza del problema della sicurezza, ma anche quella di organizzare la solidarietà e il sostegno ai più indigenti, ecc. Tutte le combinazioni – convergenze e divergenze, alleanze e scontri – si producono tra queste sensibilità spesso divise anche al loro interno (ad esempio sull'Europa), che si rivolgono a fasce di popolazione diverse. E nel loro insieme compongono il quadro di una sinistra estremamente frammentata. In Francia, ad esempio, i trotzkisti si collocano nell'area della sinistra radicale; il partito comunista è a metà strada tra quest'ultima e la sinistra conservatrice, mentre il Ps comprende nei suoi ranghi le quattro correnti sopra descritte, tra le quali quella social-liberale è ultraminoritaria. Sempre il Francia, un recente sondaggio dimostra che tra i simpatizzanti di sinistra si cristallizzano famiglie ben distinte, con aspirazioni e valori differenziati, tanto da essere quasi incompatibili.
In Italia, Rifondazione oscilla tra la posizione della sinistra radicale e di quella conservatrice, mentre i Ds tendono a esitare tra il rinnovamento nella continuità e il social-liberalismo - il che spiega le loro lacerazioni interne in merito al partito democratico. Per i Ds, impegnarsi in quest'operazione risponde a una preoccupazione strategica nazionale – quella di consolidare l'alleanza con i centristi – ma anche alla grande ambizione di dar vita a un nuovo partito che sintetizzi diversi riformismi, e possa servire da esempio altrove. Al di là dell'importante problema di decidere se affiliarsi o meno al Pse, dovranno indubbiamente indicare più chiaramente di quanto abbiano fatto finora i capisaldi che accomunano le sinistre rinnovatrice e social-liberale, e le differenziano dalla destra. Ad esempio, se accettare pienamente il mercato e la globalizzazione per favorire la crescita, perseguendo però al tempo stesso lo sviluppo sostenibile e la tutela dell'ambiente; essere l'espressione del grido di dolore dei più indigenti in funzione di una critica sociale del capitalismo; ridurre le disuguaglianze e le discriminazioni – sociali, sessuali, culturali, etniche - ma senza sconfinare nell'egualitarismo livellatore, in uno statalismo soffocante o in un serafico buonismo; consolidare e ampliare l'insieme dei diritti civili, sociali e culturali, facendosi carico al tempo stesso della sicurezza pubblica; consentire la piena realizzazione dell'individuo attraverso la parità delle opportunità, e favorire al tempo stesso l'associazionismo per l'azione collettiva; approfondire la democrazia e inventare nuove prassi democratiche. Un matrimonio non comporta obbligatoriamente la dissoluzione dell'identità originaria dei coniugi, né il ripudio del passato di ciascuno di essi.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

l’Unità 22.9.06
Processo alle donne
di Carlo Flamigni


Il Consiglio Regionale del Veneto sta per approvare una legge che si propone di regolamentare le iniziative mirate all’informazione sulle possibili alternative all’aborto. Nella relazione che precede i tre articoli si legge che «il dato più sconvolgente che emerge, sentendo l’esperienza di molte donne è la mancata informazione sia sui dati biologici dell’embrione o del feto sia sui possibili aiuti che essa può ottenere». Da chi? Da «moltissimi movimenti e associazioni che hanno come finalità l’aiuto alle mamme che (...) sono orientate verso l’interruzione della gravidanza».
A questi «moltissimi» movimenti e associazioni, l’articolo 2 della legge concede «di espletare il loro servizio di divulgazione e di informazione nei consultori familiari, nei reparti di ostetricia e ginecologia, nelle sale di aspetto e altre degli ospedali».
Se si trattasse in realtà di «moltissimi movimenti e associazioni» poveri noi, dovremmo immaginare resse tremende soprattutto nei reparti di ginecologia. In realtà si tratta del «Movimento per la vita», e solo di questo, una associazione della quale, sul piano dei risultati, non si può dire che bene, visto che afferma di aver risolto i problemi di un grande numero di donne, inducendole a cambiare idea e a decidere di non interrompere la gravidanza.
Brave persone, dunque. E per capire meglio quanto sono brave, sono andato sui loro siti, a leggere quanto il loro presidente, Carlo Casini, e i suoi collaboratori hanno scritto su questo argomento, come salvare tante vite e tante anime. Mi interessava naturalmente conoscere le loro motivazioni più sottili e capire cosa in realtà queste brave persone pensino delle donne che vogliono aiutare.
Sono capitato così in un sito che riporta, dopo un articolo di Casini, uno studio/proposta di uno psicologo che porta un titolo invitante e sommesso: «La sindrome del boia». E questo è in realtà quello che il Movimento per la vita pensa delle donne che hanno abortito: carnefici, boia, oltretutto consapevoli di esserlo. Valutazione forse non generosa e gentile, ma, ahimé, quanto concreta.
Dunque sono queste le persone che la Regione Veneto vuol collocare all’interno delle strutture ospedaliere, alla faccia della “privacy” (a proposito, cosa ne dirà il garante?), per costituire una sorta di tribunale ecclesiastico di fronte al quale le donne che hanno deciso di abortire (sempre utilizzando un loro pieno diritto) dovranno sfilare.
È stato dunque fatto un processo al personale sanitario che si occupa dell’applicazione della legge 194 e lo si è trovato colpevole a) di non fare propaganda al Movimento per la vita e b) di non spiegare alle donne come è fatto un feto e come si può trovare una soluzione alternativa all’aborto.
Anche ammettendo che si tratti di colpe reali, mi sembra strano che non siano stati puniti gli operatori, ma le donne, che a me sembrano piuttosto innocenti. Ma esistono queste colpe? Ebbene, quanto alla prima, posso solo dire che non farei propaganda a gente che definisce «boia» le donne che abortiscono neanche con una pistola puntata alla tempia. Quanto al lavoro che svolgono, non ritengo di conoscere, nel nostro Paese, medici e psicologi, ostetriche e infermieri altrettanto motivati e consapevoli del proprio ruolo, insieme delicato e insostituibile, quanto quelli che lavorano nei consultori. Parlano per loro le cifre, che testimoniano per un importante e significativo decremento annuo del numero di aborti, un dato che neppure il grande numero di richieste da parte delle nuove cittadine riesce a inquinare.
Non posso dunque dare, della legge veneta, un giudizio positivo: la trovo ingiusta e ritengo che sia un ennesimo modo di ferire la coscienza laica di questo Paese, che non può accettare in silenzio la trasformazione in norme giuridiche di ideologie religiose. Temo che il mondo cattolico dovrebbe fermarsi un attimo a ragionare sulla propria arroganza, valutando i conflitti che sta promuovendo e chiedendosi se è veramente giusto continuare così.
Le donne non sono comunque né una categoria “con limitato potere” che si può sottoporre a qualsiasi tipo di prevaricazione, né un genere fragile e predisposto all’errore che è necessario prendere per mano e guidare alla salvezza. Se gli amministratori veneti vogliono veramente aiutarle (anche ad accettare gravidanze non pianificate), facilitino l’insegnamento delle tecniche contraccettive, aprano le scuole all’educazione sessuale, finanzino in modo adeguato i consultori, migliorino le condizioni di vita e di lavoro loro e dei loro compagni. Leggi come queste ridanno spazio agli aborti clandestini e allontanano molte donne dai centri ospedalieri, due conseguenze che non verranno accettate passivamente da molte compagne che, a quanto mi consta, si stanno già mobilitando.
Mi piacerebbe molto che gli uomini capissero che questa è una lotta per difendere la dignità e la libertà di tutti e che non lasciassero le donne ancora una volta sole a combatterla.

il manifesto 22.9.06
Il sottosegretario con delega alle carceri Luigi Manconi
critica i mezzi di informazione e lancia strali a sinistra
«Indulto, allarmi ingiustificati»
«I media hanno galvanizzato e mobilitato i sentimenti di allarme dell'opinione pubblica senza tener conto della realtà». Presto una commissione sul regolamento penitenziario. Il reality di Costanzo? «Sono contrario»
di Matteo Bartocci


Sottosegretario Manconi, inizierei con una provocazione. Dopo l'indulto l'«emergenza carcere» può dirsi finita?
Nell'immediato e per un breve periodo si è molto ridotta. Perché quell'emergenza non era dovuta semplicemente alla sofferenza dei detenuti per il sovraffollamento. Un carcere sovraffollato significa un'assistenza sanitaria gravemente deficitaria, le possibilità di lavoro, formazione, istruzione e trattamento ridotte al lumicino, condizioni igieniche spesso spaventose e in generale condizioni di vita difficilissime per tutto il personale che opera negli istituti. Il sovraffollamento però rendeva impossibile qualunque progetto di riforma del sistema penitenziario e della giustizia nel suo insieme: per questo l'indulto era ineludibile e indifferibile. Con le carceri finalmente più agibili, per esempio, intendo promuovere una commissione sull'applicazione del regolamento penitenziario, ovvero come è stato realizzata, o meglio, disattesa la riforma del 2000.
Sui giornali però è scattata subito l'«emergenza sicurezza». E' un dato reale?
I mezzi di informazione pressoché all'unanimità hanno descritto il mese di agosto come un periodo ad altissima densità criminale. E' completamente falso. Il numero degli arrestati è inferiore a quello dello scorso anno. E la recidiva dei beneficiari di indulto è pari all'1,8%. E' certamente destinata ad aumentare ma non va dimenticato che il tasso «fisiologico» supera ordinariamente il 70%. L'«emergenza sicurezza», se esiste, non si deve di certo all'indulto. I media invece fin dall'inizio hanno galvanizzato e mobilitato i sentimenti di allarme presenti nell'opinione pubblica. Scrivere che Pietro Maso beneficerà dell'indulto senza dire che uscirà nel 2015 e non nel 2018 fa di certo notizia ma è estremamente poco serio.
Perché è accaduto?
Abbiamo assistito a un caso straordinario di conformismo. Con la sola eccezione di Liberazione e di qualche organo di stampa cattolico tutti si sono adeguati a un'idea della pena e del carcere sostanzialmente reazionaria. La questione era elementare: su un piatto della bilancia c'erano 15mila «poveri cristi», sull'altro qualche decina di corruttori e malversatori. Bisognava scegliere: non si potevano salvare i 15mila senza salvare anche gli altri. Una parte molto significativa della sinistra ha deciso che non voleva farlo e preferiva affondare entrambi, così quello che è stato un atto politico «di sinistra» come pochi altri nella recente storia d'Italia è stato rifiutato, malamente sopportato o, nel migliore dei casi, subito. Si è persa insomma una grande occasione per riflettere tutti sul senso della pena.
Quali sono le leggi più urgenti da riformare per non ritrovarci daccapo?
Nel programma ci sono almeno quattro punti precisi che sarebbero già una mano santa: il superamento della legge Cirielli, che è una legge liberticida che va respinta innanzitutto sul versante della recidiva. La Bossi-Fini, che nel 2005 ha portato in carcere 11mila stranieri solo per violazione delle norme sull'ingresso e sul soggiorno. Una violazione che in origine è un puro illecito amministrativo e non un reato. E poi va ripensata la legge sulle droghe perché è del tutto irrazionale. In pochi mesi alcune migliaia di persone trovate con una quantità di stupefacenti «ritenuta» eccedente le tabelle sono rimaste in carcere mediamente 15 giorni perché il magistrato non conferma l'arresto. Quelle due settimane di galera sono un puro intasamento delle carceri, un'afflizione immotivata e non convalidata dalla magistratura. Infine c'è la grande questione della depenalizzazione e decarcerizzazione. Dalla «commissione Pisapia» ci attendiamo che riduca le fattispecie penali in generale e soprattutto che proponga la cella come un'extrema ratio riservata alle persone socialmente più pericolose.
Questa maggioranza le sembra in grado di portare avanti un programma del genere?
Ci sono certamente componenti di tipo autoritario che hanno difficoltà ad accogliere queste idee ma credo che gran parte dei parlamentari le condivida. Sull'indulto del resto ci sono stati molti dissensi anche nel Pdci e nell'Italia dei valori.
Mediaset intende girare un «reality» in carcere. Che ne pensa?
La mia personale posizione è che sono contrario.
In una recente interpellanza lei ha confermato l'esistenza di un anomalo sistema di «acquisizione e trattamento di informazioni» in carcere da parte di strutture del Dap. In un'interpellanza parlamentare si era riservato ulteriori approfondimenti. Sono stati compiuti?
E' una questione molto complessa. Posso dire che sono ancora in corso.
Non crede che senza un cambiamento al vertice del Dap è difficile portare avanti le riforme che intendete promuovere?
L'attuale capo del dipartimento è già stato designato dal Csm ad altro incarico. Un cambiamento dunque ci sarà e dovrà essere scelta una personalità davvero capace di scelte innovative.
E' ipotizzabile una riorganizzazione del Dap, diventato nel corso degli anni una struttura elefantiaca e iper-centralizzata?
Se ne parla da più parti. Alcuni sindacati l'hanno anche sollecitata. Io penso che vada attentamente studiato un progetto di riforma complessiva anche decentralizzando alcune sue funzioni.

giovedì 21 settembre 2006

l’Unità 21.9.06
Da Bush al Papa, il fantasma di Darwin
Le tre ragioni e più dell’evoluzionismo
di Pietro Greco


APRE OGGI la Conferenza Mondiale convocata da Umberto Veronesi e dedicata alle diverse forme evolutive della materia, della vita e della mente. Proprio a ridosso dei nuovi attacchi di Benedetto XVI all’idea di evoluzione

Ma l’attuale pontefice come se Galileo non fosse mai esistito propone una teoria che non ha bisogno di una verifica empirica

La tesi l’aveva proposta, oltre duemila anni fa, Aristotele: non è possibile - non è razionale pensare - che il kosmos, il tutto armoniosamente ordinato, sia nato dal chaos, il vuoto privo di ogni ordinamento. E lo ha riproposto Papa Benedetto XVI, in occasione della grande messa che ha tenuto la settimana scorsa a Recensburg, in Germania: non è accettabile l’idea che all’origine dell’universo e della vita ci sia «un’irrazionalità che, priva di ogni causa, stranamente produce un cosmo ordinato» e «persino l’uomo e la sua ragione». La frase è stata interpretata come un appoggio, neppure troppo velato, all’ipotesi del intelligent design e di attacco al darwinismo.
Anzi, all’evoluzionismo. Ovvero all’idea, appunto, che nasce e si modifica nel tempo senza un progetto.
È, dunque, con grande tempismo che Umberto Veronesi ha convocato a Venezia la Seconda Conferenza Mondiale sul Futuro della Scienza per parlare appunto di «Evoluzione». La Conferenza, inaugurata ieri sera dallo stesso Umberto Veronesi, alla presenza del ministro della sanità, Livia Turco, e del ministro della ricerca, Fabio Mussi, inizia questa mattina con una relazione di Lisa Randall sull’Evoluzione dell’universo.
Non esiste, nella storia dell’universo, un solo processo evolutivo. La storia cosmica, diceva il biologo Theodosius Dobzhanski, ha conosciuto almeno due grandi trascendimenti evolutivi: il primo, circa 4 miliardi di anni fa almeno sul pianeta Terra, dal non biologico al biologico; il secondo, qualche milione di anni fa, dal biologico al culturale. In realtà i fisici dicono che l’universo è andato incontro ad almeno un altro trascendimento evolutivo quando, con un Big Bang iniziale, dal vuoto (quantistico) è nato il tutto, ovvero la materia e l’energia che costituiscono il nostro universo. Insomma, nell’universo noi assistiamo ad almeno tre tipi diversi di processi evolutivi. Ed è a queste tre diverse modalità evolutive - l’evoluzione della materia, l’evoluzione della vita e l’evoluzione della mente - che la conferenza di Venezia dedica la sua attenzione.
La materia non vivente è costituita, almeno a livello elementare, da classi di oggetti indistinguibili gli uni dagli altri (gli elettroni, i protoni). Nell’evoluzione della materia non biologica prevale la necessità. E anche il più alto livello di complessità è decisamente inferiore alla «complessità organizzata» dei sistemi viventi.
La materia biologica è costituita anche nei suoi elementi fondamentali, le cellule, da insiemi di oggetti ciascuno diverso dall’altro (non c’è un solo batterio identico a un altro). La complessità è, appunto, altamente organizzata. Nell’evoluzione biologica prevale la storia.
C’è, ancora, l’evoluzione culturale. Che, per mera semplicità, possiamo ridurre all’evoluzione della cultura umana. Ebbene, questo tipo di evoluzione rappresenta un autentico trascendimento, perché si svolge in maniera decisamente diversa dagli altri due processi evolutivi ed è profondamente segnata dalla coscienza degli organismi che vi partecipano, ivi inclusa la capacità di trasmettersi vicendevolmente e rapidamente i caratteri culturali acquisiti.
A ciascuna di queste modalità evolutive la Conferenza di Venezia dedica una giornata. Ne uscirà, ne siamo certi, un grande affresco delle conoscenze scientifiche attuali sulle «evoluzioni» perché i relatori, provenienti da tutto il mondo, sono tutti di altissimo livello. Ma la peculiarità di questa Conferenza è che c’è, in ogni giornata, una grande finestra aperta al rapporto tra evoluzione e società. O, se volete, a come oggi il concetto di evoluzione attraversa non solo la nostra visione scientifica del mondo, ma entra nella nostra visione filosofica, religiosa e persino politica. Toccando, molto spesso, nervi scoperti.
Il concetto di evoluzione, infatti, non è un concetto comodo. Persino nelle scienze è stato acquisito tardi e con difficoltà. È solo alla fine del ’700, infatti, che abbiamo compreso con James Hutton che viviamo in un pianeta che si modifica nel tempo, anzi «nel tempo profondo». È solo nel XIX secolo, con Charles Darwin, che abbiamo trovato una spiegazione all’evoluzione biologica: spiegazione confermata dalle nuove conoscenze genetiche acquisite nel XX secolo. Ed è solo all’inizio del ’900, grazie alle equazioni cosmologiche di Albert Einstein e alla soluzione che ne ha trovato il matematico Alexander Friedman, che abbiamo compreso di non vivere in un universo statico e immutabile, ma in un universo storico: che ha avuto un inizio, che si sta modificando e che, probabilmente avrà una fine.
A maggior ragione il concetto, profondo, di evoluzione così come è emerso dalla ricerca scientifica trova difficoltà ad affermarsi nel senso comune. Non solo perché sottrae centralità alla presenza dell’uomo nel cosmo. Ma soprattutto perché sottrae «senso» al mondo. L’evoluzione della materia e l’evoluzione biologica, infatti, procedono - questo è almeno quanto sappiamo allo stato dei fatti - senza un progetto. Senza un fine. L’uomo si ritrova solo, diceva il biologo francese Jacques Monod, nell’immensità indifferente del cosmo. E ciò risulta inaccettabile a molti. Tanto che la reazione al concetto di evoluzione è diventato uno strumento di polemica filosofica e, persino, di azione politica.
Sui testi scolastici delle nostre scuole elementari e media ancora c’è traccia del tentativo, esperito dal governo Berlusconi, di cacciare via Darwin dai banchi e dagli edifici scolastici. Negli Stati Uniti d’America l’antievoluzionismo è diventato il collante culturale della altrimenti variegata maggioranza che ha riconfermato George W. Bush alla presidenza. Il punto più alto della polemica filosofica e politica riguarda l’intelligent design. Ovvero l’idea che l’evoluzione dell’universo e degli organismi viventi non sia un fatto storico, frutto del caso e della necessità delle leggi fisiche, chimiche e biologiche conosciute, ma di un progetto. Di un fine. Questa idea che i filosofi della biologia chiamano teleologica si oppone tanto alle teorie evolutive della materia fisica quanto alla teoria darwiniana dell’evoluzione biologica. Propugnata da alcuni gruppi evangelici negli Stati Uniti (un’evoluzione, ironia della sorte, delle loro ipotesi creazioniste più spinte) sta lentamente penetrando anche nel mondo cattolico. Fatta propria, per esempio, dal cardinale di Vienna Cristoph Schönborg. Con Giovanni Paolo II la chiesa di Roma aveva assunto una posizione diversa sul darwinismo. Se non di totale accettazione, certo di non avversione. E questo grazie, anche, al consigliere scientifico di papa Woytila, l’astrofisico padre George Coyne, darwinista convinto e direttore della Specola vaticana.
Nelle ultime settimane c’è stata una redifinizione di quella posizione. In primo luogo di darwinismo e di intelligent design si è parlato in un importante seminario a porte chiuse cui ha partecipato Benedetto XVI (i lavori verranno pubblicati presto). Poi padre Coyne è stato allontanato dalla direzione della Specola. Una parte della grande stampa internazionale ha attribuito l’allontanamento alle posizioni darwiniane di Padre Coyne. Infine l’omelia papale di Regensburg abbinata al discorso su scienza e fede che Benedetto XVI ha tenuto nell’università della città tedesca. Un discorso che sembra riproporre un ritorno ad Aristotele e al principio di impossibilità di creazione del kosmos dal chaos.
Il papa ha infatti sostenuto che la fede cattolica si regge sulla ragione. Che il Dio dei cristiani è il Dio che si mostra come logos, come ragione, e come logos agisce. Che, pertanto, non c’è contrapposizione tra scienza e fede. La scienza, ha detto il papa teologo, si fonda su due presupposti. La razionalità matematica dell’universo e la sperimentazione, dove è solo la verifica empirica che consente di stabilire la certezza, distinguendo tra il vero e il falso. Ebbene questa scienza, ha sostenuto papa Ratzinger, con questi due presupposto ha dei limiti. Perché «soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria permette di parlare di scientificità». Se la scienza è questo - se la scienza è solo questo, ha sottolineato il Papa - allora è l’uomo stesso che subisce una riduzione. Perché gli interrogativi propriamente umani del «da dove» e del «verso dove» non trovano spazio nella ragione scientifica.
Quelli del «da dove» e del «verso dove» non sono solo gli interrogativi della religione e dell’ethos, sono anche gli interrogativi della visione teleologica del mondo. Gli interrogativi cui l’evoluzionismo - allo stato delle prove empiriche - risponde in due modi. Da dove? Da null’altro che dal mondo fisico stesso e dalle sue leggi. Verso dove? Verso nessuna causa finale, verso dove il gioco evolutivo stesso conduce in maniera storica, segnata dal caso e dalla contingenza. Quello che il papa propone, dunque, è questo. Salvare la teleologia del cosmo non proponendo un’ipotesi scientifica alternativa alle teorie evoluzioniste, ma allargando la sfera della razionalità scientifica a una ragione che non ha bisogno della verifica empirica. In pratica il ritorno a quel «mondo di carte» - a quella filosofia che non ha bisogno della verifica nei fatti - mandato all’aria da Galileo con un gesto, culturale, che ha segnato la nascita della scienza moderna.

Scienziati da tutto il mondo per il «Futuro della Scienza»
L’evoluzione (Evoluzione della Materia, Evoluzione della Vita, Evoluzione del Pensiero) è il tema (uno e trino) della seconda Conferenza Mondiale sul Futuro della Scienza, organizzata dalla Fondazione Umberto Veronesi, che si terrà da oggi fino a sabato presso la Fondazione Giorgio Cini a Venezia. L’evoluzione è un principio fondamentale in diverse aree del pensiero scientifico, dall’astrofisica e la genetica, alla filosofia e la psicologia. Riflettere sull’evoluzione significa riflettere su noi stessi, sul nostro futuro e sul nostro posto nell’universo. La Conferenza riunirà a Venezia personalità di fama internazionale di varie discipline, per confrontare visioni diverse e dibatterle apertamente con i partecipanti. Tra i numerosi scienziati di tutto il mondo che interverranno, segnaliamo gli a noi noti italiani Margherita Hack, Franco Pacini, Edoardo Boncinelli e, tra le personalità internazionali. Michael Gazzaniga, direttore del Centro Studi della Mente dell’Università di California.

l’Unità 21.9.06
LA LEZIONE DI RATISBONA
Quel che l’imperatore bizantino e il suo antagonista islamico si sono veramente detti nel Dialogo del 1391 citato dal Papa in Germania
Ma il «Logos greco» non è affatto monopolio dei cristiani. Parola di teologo persiano
di Bruno Gravagnuolo


Che la lectio magistralis di Benedetto XVI a Ratisbona sia stata un infortunio dal punto di vista conclamato del «dialogo», è cosa ormai pacifica. Lo attestano non solo le reazioni sorprese o aggressive del mondo islamico, ma lo stesso «rammarico» espresso dal Pontefice giorni fa. Nonché i distinguo e le puntualizzazioni preoccupate di prelati e personalità del mondo cattolico, che a stento hanno sedato il caso.
«Pericolosa» è stata definita dal New York Times la scelta del Papa di celebrare teologicamente la superiorità del cristianesimo, nel vivo di un conflitto geopolitico con l’Islam. E ineccepibili ci sono parse anche le osservazioni di Furio Colombo su l’Unità: il Papa ha un carisma planetario. E non può rischiare di apparire parte in causa. In una disputa che di fatto non è solo teologica, e per ovvi motivi. Dunque, diciamo così, imprudenza pastorale, errore di metodo. Ma c’è un aspetto poco notato nella disputa e che conviene affrontare. Relativo al merito, al contenuto. Che tocca la materia filologica del testo utilizzato dal Papa a Ratisbona: l’ormai celebre Dialogo tra il Basileus Bizantino Manuele II Paleologo e il Mudarris, il teologo persiano. Dialogo uscito nel 1966 nel volume 115 delle Sources Chrétienne a cura di Tehodor Khourry, ampi stralci del quale sono stati opportunamente pubblicati dal Corsera di martedì 14 settembre con una nota di Alberto Melloni.
Ebbene, come già rilevato da Barbara Spinelli su La Stampa, Benedetto XVI ha fatto un uso parziale di quel dialogo, citando solo una frase insultante di Manuele II contro l’Islam. E al punto che il dialogo stesso nel suo insieme è «completamente assente». Cosa che riceve piena conferma da un’attenta lettura di quelle pagine. Il che non è limite da poco, dal momento che a nessuno è lecito (neanche al Papa!) stravolgere nell’opposto la verità dei testi, estrapolando ciò che fa comodo a fini apologetici. Stravolgimento tanto più grave se si considera che la posta in gioco in quel colloquio è esattamente la possibilità di un dialogo paritetico, razionale, che non si conclude con un verdetto finale malgrado le dissonanze. E che anzi finisce salomonicamente e ironicamente. Con l’invito reciproco alla «moderazione» e al raziocinio, per non sottoporre il corpo a eccessive fatiche.
Questo quanto allo spirito generale di quell’incontro del 1391. Ma il punto è un altro, ed è la posta in palio del contendere. E qual è? È Il rapporto tra Ragione e Rivelazione, tra fede e razionalità. Un cimento e un problema che sbrigativamente il Papa ascrive solo al Paleologo cristiano, cancellando integralmente l’altro dialogante con le sue repliche. Infatti, laddove il primo accusa l’Islam di trascendenza assoluta e obbedienza cieca, il secondo replica che al contrario è proprio il cristianesimo ad esser irrazionale in quanto «dismisura» che forza la natura terrestre. Il musulmano insomma rivendica a pieno titolo la razionalità greca e platonico- aristotelica, e afferma che la Legge di Maometto è fondata su misura e giusto mezzo: «métron e mesòtes» (più ellenismo di così!). Ed è argomento di merito quello del Mudarris, che supera in breccia la schermaglia del Paleologo, tutta incentrata sul Maometto «impostore» che avrebbe saccheggiato ad libitum la legge mosaica e il Vangelo, come un ladro disinvolto che arraffa ciò che vuole. La mossa del Persiano cambia i giochi. Basta con la ricerca di chi ha rubato e a chi: se Gesù a Mosè o se Maometto a entrambi. Conta la razionalità della Legge - métron e mesòtes - la sua applicabilità all’umano, la sua intrinseca coerenza, di là del fatto che entrambe le religioni venerino la Trascendenza. Fanatismo dell’Islam? Sangue e spada? Ma - dice il Persiano - è proprio il messaggio cristologico, nel forzare oltremisura l’umano, a negare mitezza e moderazione, e a schiudere la via dell’orgoglio e del fanatismo (quante volte!). Sia pur per paradosso Cristo intima in nome dell’amore di avversare «padre e madre, moglie, figli, fratelli e sorelli, persino la propria psyche» (Luca, 14, 26). Sicché, a sentire il musulmano, c’è eccome la ragione nell’Islam, di là delle evoluzioni storiche molteplici. E la ragione (e il dialeghestai) non è appannaggio cristiano-occidentale. Ma il Papa, almeno in questo caso, ce lo ha nascosto. In nome del primato cristiano.

Aprileonline 21.9.06
''Volevo la luna''
Le vicende principali della nostra repubblica viste attraverso il vissuto di uno dei grandi protagonisti della sinistra italiana, Pietro Ingrao
di Mirko Grasso


Con Volevo la luna (Einaudi, p. 376, € 18) Pietro Ingrao ha confezionato un regalo per tutta una serie di generazioni di lettori, militanti politici e cittadini democratici, che hanno vissuto le vicende principali della nostra repubblica. Importante dono anche per chi non ha assistito o partecipato, per privilegio d’anagrafe, alle vicende dell’opposizione al fascismo, della guerra di liberazione e del ruolo dei partiti di massa nella società. Ingrao scrive la propria biografia attraversando tutti gli eventi principali del novecento italiano, con uno sguardo verso le vicende internazionali che lo hanno determinato e condizionato.

Non poteva essere scritta se non in questo modo l’esperienza di vita, di politica e di passione, di uno dei principali, e singolari, esponenti della sinistra comunista in Italia. Il primo comunista a salire sullo scranno più alto di Montecitorio, che ha seguito tutta parabola di quel che fu il partito comunista italiano. Ingrao è bravo a rievocare, nelle trame di un unico racconto, come suggestioni e passioni personali abbiano subito una forte canalizzazione all’interno di quel particolare, e per tanti versi inedito, cammino del comunismo italiano.

Scopriamo un giovane appassionato di politica che negli anni trenta, quando la lotta clandestina al fascismo infiamma gli animi di giovani e intellettuali, subire il fascino del cinema, della letteratura europea, della nuova poesia italiana. Con una articolata e disordinata formazione intellettuale, Ingrao arriva all’antifascismo dalle strade della cultura e quando la lotta al regime non è più fatta da minute riunioni carbonare, l’aspirante letterario intraprende la strada dell’impegno e della militanza a tempo pieno. Così, nel turbine degli anni della guerra, Ingrao conduce battaglia anche dalle pagine de l’Unità. Il giornale di Gramsci, prima clandestinamente e poi finalmente alla luce del sole, svolge l’importante funzione di mobilitare tutte le leve antifasciste della società e Ingrao, tramite quelle pagine, inizia una vera e propria odissea nell’Italia dilaniata e affamata dalla guerra.

Con la personale rievocazione della lotta di liberazione, la crisi della sinistra del ‘56, il centro sinistra, il compromesso storico, Ingrao offre uno spaccato di vita italiana e di storia politica. E’ un libro onesto. Onesto perché non scade nel compiacimento della propria esperienza o della storia del suo partito. L’autore è duro con sé stesso, nell’analizzare e valutare gli errori commessi, ed è altrettanto severo con i limiti politici e le impostazioni dogmatiche di quel partito che ha amato per sempre. Un’autobiografia in cui ci si può ritrovare. In queste pagine cogliamo poi un aspetto caratterizzante e peculiare dei grandi fenomeni di massa del novecento in cui la sinistra ha giocato un ruolo di primaria importanza. Ingrao sente viva la propria esistenza solo se messa in continuo rapporto con la realtà circostante e con i tentativi di cambiarla: “Come se altrimenti la vita mancasse di ragione”.

Notizie Radicali 20.9.06
Questo Venti Settembre
di Francesco Pullia


Oggi è il 20 settembre, non una data qualsiasi ma la ricorrenza di una giornata storica che i laici, cioè coloro che ritengono non debba esserci alcuna interferenza tra istituzione religiosa e stato, non possono per nessun motivo dimenticare. La situazione politica e sociale è, certamente, molto cambiata dal tempo della presa di Porta Pia.
Eppure, a pensarci bene, quel 1870 è più vicino di quanto si possa immaginare. Anche oggi c’è necessità di una breccia e, per giunta, di più ampie proporzioni. I confessionalismi, nella loro declinazione peggiore, avanzano, minacciano, fanno paura.
Stiamo assistendo ad una lotta senza quartiere per l’imposizione e il predominio di una verità assoluta, con tutto ciò che di negativo ne consegue come diretto e inevitabile riflesso nella vita civile, nella nostra quotidianità.
Le nostre libertà, quelle liberali, per intenderci, sono fortemente a rischio. Da un lato, la continua ingerenza della Chiesa cattolica, apostolica, romana, in versione ratzingeriana e, quindi, anticonciliare, comprime e limita pesantemente lo spazio per quell’azione riformatrice di cui il paese necessita come dell’ossigeno, dall’altro, si avverte come altrettanto asfissiante la pressione coercitiva proveniente da quella parte d’islam divenuta sempre di più integralista, fanatica, barbaramente ottusa.
Lo vediamo ormai, purtroppo, tutti i giorni. Come un bubbone pestifero, l’incomunicabilità si sta diffondendo a macchia d’olio. Emblematica è la paura riscontrabile nei nostri migliori intellettuali. C’è come una sorta di autocensura, di arrendevolezza dovuta al terrore di eventuali ritorsioni per vignette, battute, opinioni che potrebbero risultare sgradite ad orde deliranti pronte ad incendiare animi e piazze.
Non si possono esprimere liberamente giudizi. Bisogna andare con i piedi di piombo, timorosi di non scalfire altrui suscettibilità. In compenso, si accetta passivamente un bavaglio che di fatto viene così messo alle nostre coscienze. Si tratta di un ennesimo, e stavolta più palese e drammatico, episodio della lotta tra democrazia e totalitarismo.
Fa riflettere amaramente che un goffo imitatore hitleriano come l’attuale presidente iraniano, che senza mezzi termini ha sbandierato ai quattro venti il proposito di distruggere lo stato israeliano, possa trovare credito presso i nostri governanti e trovi una sponda sicura nel presidente della repubblica francese. Viene spontaneo chiedersi che ruolo svolga realmente la Francia nella vicenda del nucleare iraniano e, più in generale, nel traffico internazionale di armi.
Siamo ad un bivio e non possiamo restare in mezzo al guado, a meno che si voglia accettare con indifferenza e acquiescenza l’imposizione di burqa e chador per tutte le donne e magari le recite coraniche negli istituti scolastici oppure, dall’altra parte, il ripristino del Sillabo. Non possiamo consentirlo anche per rispetto del sangue versato da chi, nel 1870 come nella resistenza, ha consegnato la propria vita, se stesso, ad una battaglia di libertà per tutti, non per pochi.
Ecco perché oggi, con commozione e insieme con fierezza, guardiamo a Porta Pia con l’auspicio che il muro dell’odio possa crollare una volta per tutte e si affermino dialogo, nonviolenza, apertura, libera religiosità, in una parola che il liberalismo prevalga su ogni tentazione autoritaria, coercitiva.

mercoledì 20 settembre 2006

Notizie Radicali 20.9.06
“Belle toujours- Bella sempre” di Manoel De Oliveira: una perversione sessuale vista da un colto epicureo
di Gianfranco Cercone De Lucia


La storia del film “Belle toujours” ha la misura di un aneddoto.
Un anziano signore benestante reincontra per caso a Parigi un’amica dall’avventuroso passato: malgrado fosse sposata e amasse suo marito, provava piacere a tradirlo di continuo con degli sconosciuti; e l’amico, favorendo questa tendenza ossessiva, l’aveva introdotta come prostituta in una casa di appuntamenti. (E’ la stessa Sévérine, protagonista di un celebre film di Buñuel, “Bella di giorno”).
Passati quasi quarant’anni, dopo averla inseguita e aver vinto la sua ritrosia, l’uomo riesce a farle accettare un invito a cena nel suo appartamento; dove i due si scambieranno poche e imbarazzate parole su quei loro trascorsi.
Tutto qui. Non ci sono flashback; e il rapporto fra i due personaggi non avrà seguito.
Ma se lo spettatore accantona per una volta il gusto per gli sviluppi romanzeschi, se concentra la sua attenzione sulla cura della messa in scena, avrà modo di apprezzare un’incantevole opera minore, che può ricordare certi minuti oggetti di oreficeria finemente cesellati.
(Un’informazione: l’autore del film, il portoghese Manoel De Oliveira, ha compiuto 97 anni; e ogni anno realizza un film, raccogliendo l’interesse appassionato di un fedele drappello di spettatori, ristretto ma internazionale).
Si potrà notare, ad esempio, come è resa bene la sequenza del primo riconoscimento dell’amica: a partire dall’espressione dell’uomo commossa e colma di nostalgia (sul volto di quel grande attore che è Michel Piccoli), quando egli la vede seduta in una poltrona distante in una sala da concerto. E poi, quando, all’uscita del teatro, diviso dalla folla degli spettatori, non riesce a raggiungerla, il senso improvviso di solitudine che gli pesa addosso: suggerito dall’atrio del teatro che si svuota intorno a lui, e poi da lui stesso che si ritrova a vagare per le strade notturne e deserte di Parigi; come se il ricordo di un’avventura erotica passata, accentuasse per contrasto il vuoto attuale.
O, per quanto riguarda Sévérine (nel film di Buñuel, interpretata da Catherine Deneuve; qui, comunque benissimo, da Bulle Ogier), si veda, sempre a titolo di esempio, con che posa appare sulla soglia dell’appartamento dell’amico, quando vi si reca per l’invito a cena: un atteggiamento che manifesta efficacemente la perdurante incertezza se entrare o andarsene.
Non c’è patetismo in questo incontro di due vecchiaie. Circola piuttosto nel film un grande spirito di epicureo illuminato: si esaltano i piaceri della buona tavola, della conversazione sapida e del libertinaggio. Non c’è ombra di moralismo verso il passato di Sévérine.
Ci sono anche alcuni elementi surrealistici (in omaggio a Buñuel); e nel finale, moderato dalla discrezione dell’insieme, un tocco di crudeltà.
Ma questi li lascio scoprire allo spettatore.

l'Unità 20.9.06
La rivoluzione del '56 contro Mosca


La rivoluzione del 1956 costituisce un riferimento decisivo per la coscienza magiara. Tutto comincia il 23 ottobre di 50 anni fa. A una manifestazione di studenti che nella capitale chiedono democrazia partecipano 200mila persone. È una prima assoluta in un Paese da quasi 20 anni inquadrato da una democrazia popolare sottoposta all'egemonia dell'Unione Sovietica. La reazione di Mosca segue a pochi giorni di distanza. Il 30 ottobre arrivano a Budapest i primi carri armati sovietici. Inizia la rivolta. L'Armata rossa riuscirà a domare la sollevazione solo dopo settimane. Secondo stime ufficiali, nel mese di scontri e guerriglia muoiono fino a 3 mila ungheresi e 700 militari sovietici.


l'Unità 20.9.06
«Liberamente comunista
e non mi pento del ’56»
di Bruno Gravagnuolo

Se nasce il Partito Democratico è inevitabile creare un soggetto di massa di sinistra per colmare il vuoto che ne deriva


GLI 80 ANNI DI COSSUTTA
Parla il dirigente del Pci che accusò Berlinguer di aver consumato lo «strappo» con l’Urss e che dette vita nel 1991 alla scissione del Pds da cui nacque Rifondazione. Le idee, le scelte, i ricordi e le polemiche di oggi

«Cossutta chiudi i cassetti, c’è Riva!». Era qualche decennio fa e a gridarlo dalle scale, nel salire a casa di Armando Cossutta al Gianicolo, era lo storico Paolo Spriano, pungente come al solito. Riva invece era Valerio Riva, «imbucato» a quella festa, famoso giornalista. Poi passato a destra e autore in seguito de l’Oro di Mosca, dove si parlava di rubli al Pci e segreti vari. Ecco, cominciamo da questo dettaglio ripescato dalla memoria, l’intervista sugli 80 anni di Cossutta (lo festeggiano quelli dell’Anpi domani a Roma alle 19 alla casa del Jazz in Viale di Porta Ardeatina).
Lui, l’Armando, ascolta divertito l’aneddoto, mentre lo intervistiamo su un divano del Senato. Accetta il «tormentone»: Cossutta uomo dell’Urss, uomo del «lavorio», etc. E puntualizza: «Il mio era un rapporto politico alla luce del sole. Erano i tempi... Ma ieri come oggi sono sempre stato liberamente comunista e il dissenso l’ho praticato a viso aperto. Sebbene poi, sbagliando, l’abbia contrastato negli altri». E il «lavorio» di cui l’accusava Berlinguer? «Fu una battaglia trasparente. Inclusa la vicenda di Paese Sera. Sai chi mi chiese di occuparmene? Franco Tatò! Lui sapeva come la pensavo sull’Urss. E non ho mai capito se Berlinguer fosse al corrente o meno di quella richiesta». Insomma, salvo sfumature, Cossutta non si pente di nulla. Nemmeno sull’Ungheria 1956... Sentiamo.
Partiamo dalla leggenda nera: Cossutta filosovietico di ferro e plenipotenziario dell’Urss. La respingi oppura è vera?
«Una leggenda, ma mi auguro non solo nera. Cominciata nel 1966, quando ebbi il compito di occuparmi dei rapporti con l’Urss da coordinatore della segreteria del Pci. Un rapporto politico, legato anche alla questione dei finanziamenti, prima demandato a Longo che trasferì a me l’incarico. Nessun mistero, e anche Andrew, autore del libro su Mitrokhin, ha negato che fossi un “agente”. Dentro il fondo internazionale per tutti i Pc, c’era una quota per i partiti occidentali non al governo».
C’erano anche l’interscambio fra imprese e l’Italturist, di cui ti occupavi direttamente...
«Fui nominato presidente della Italturist, e in un paio d’anni divenne la più grande impresa del mondo per i viaggi in Urss. Esperienza di grande interesse, anche culturale. Ricordo quando realizzammo un accordo tra Bolscioj e Scala per l’opera russa a Milano. Ebbi la possibilità di avvicinare tante aziende italiane a cui fu schiuso l’accesso sul mercato sovietico. Per non dire dell’accordo tra Eni e Urss, per il gas metano in Italia. I russi volevano il terminal in Germania, e io li convinsi a farlo in Italia. Andai a Taranto e annunciai l’accordo in un comizio: gas sovietico in cambio di lavoro italiano e non dollari. Tubi dell’Italsider e macchine della Nuovo Pignone per il pompaggio...».
Rivendichi il tuo ruolo di mediatore dentro i blocchi e la coesistenza. Mai pensato che l’Urss fosse un mondo oppressivo e zavorra per le ambizioni del Pci?
«La critica all’Urss il Pci l’ha fatta, e non credere che quelli come me fossero poi ciechi dinanzi a quella realtà. Però quando incontravo scienziati e imprenditori sovietici, ne traevo anche un senso di speranza, di possibili riforme... Ho riconosciuto pure che le critiche di Berlinguer nel 1981 erano giuste. E tuttavia la polemica mia di allora che ancora mi amareggia - lo “strappo”- conteneva una verità che non rinnego affatto: la mutazione genetica del Pci in atto. I fatti mi hanno dato ragione. Dieci anni dopo siamo arrivati alla liquidazione del Pci».
«Siamo e resteremo comunisti», diceva Berlinguer, e lo strappo non inficiava l’ottobre 1917...
«La mutazione era già all’opera e divenne via via galoppante».
Non sarà stata anche colpa del ritardo troppo protratto nella critica a un mondo indifendibile?
«Conosco l’obiezione, ma il nostro rapporto con l’Urss era inciso nella realtà del mondo diviso di allora. Reciderlo era inimmaginabile e Togliatti lo sapeva bene. Ricordo quello che mi diceva Franco Rodano, ostile allo strappo. Diceva: “sono cattolico e non condivido nulla dell’Urss. Ma va sostenuta come unico deterrente contro il dominio unipolare Usa”».
Sostenuta anche quando alterava la coesistenza con gli SS20, il Corno d’Africa e l’Afghanistan? La criticò al Cc anche Bufalini!
«Un conto è criticare, come fece giustamente quel Cc. Altro volere una rottura tra Pci e Pcus, così come si andava profilando nel 1981...».
Ne deduco che anche sulla questione ungherese non recedi né ti penti come Ingrao, Napolitano e Bertinotti? Giusti i carri armati?
«Dibattito che non mi appassiona. Allora ero giovane e da dirigente milanese condivisi la linea del partito. Un errore l’intervento sovietico? Certo. Ma a sbagliare furono per primi i comunisti ungheresi. Errori drammatici, ben illustrati dalla famosa Intervista di Togliatti a Nuovi Argomenti: una concezione burocratica, personalistica e autoritaria del potere. Ma una volta degenerate le cose, l’epilogo fu inevitabile. E il Pci non poté che prendere quella posizione, in quel mondo di allora, e fatto a quel modo».
Il Pci poteva scegliere almeno una linea titoista, di comunismo nazionale...
«Esempio sbagliato. Tito si guardò bene dal condannare l’invasione ungherese...».
Diplomatizzava nel 1956 per ovvii motivi, ma restava una variante eretica. Mentre il Pci solo nel 1968 cominciò ad esserlo. Non si poteva fare nel 1956 ciò che fu fatto per Praga?
«No, non ce n’erano le condizioni e il Pci si sarebbe spaccato. Perciò non mi sento di dire quel che - oggi- dicono Ingrao e Napolitano, inclusa la rivalutazione di quel Nenni...».
Torniamo al compleanno. In tanti ti festeggiano ma Bertinotti non ti fa gli auguri. Così insanabile e personale il vostro dissidio?
«Lui dice: non sono ipocrita, sono le durezze della politica. Anche io non sono ipocrita. Ma al di là dei rancori bisognerebbe concorrere a dar vita a una nuova e grande sinistra in Italia. Mi rammarico che il rancore abbia oscurato in lui questo problema, al quale mi pare lui stesso sia divenuto più sensibile. Ci vuole subito un aggregazione popolare, pluralista e unitaria alla sinistra dei “riformisti” dell’Unione. È un’esigenza condivisa e oggettiva, proprio nel momento in cui si profila il Partito Democratico»
Quale forza, con quale identità e vocazione strategica?
«Sinistra, oltre le etichette. Quelli della ex Sed in Germania hanno dato vita con Lafointaine a una nuova formazione che sfiora il 9%. Dentro ci può essere un’articolazione ampia, fatta anche di non comunisti o nonsocialisti. Il Pci era già questo grande partito. Ci vuole qualcosa di analogo, in nuove forme. La vocazione? Lavoro, diritti, liberazione umana. La sinistra, una sinistra vera, ci serve. E tanto più oggi, con questa destra e con questo governo, che ha il grande merito di aver liberato l’Italia da Berlusconi, ma che resta un governo democratico, e che più di tanto non può fare con gli attuali rapporti di forza».
Su questo vai d’accordo con Diliberto. E invece anche lì...
«Mi sono dimesso da Presidente del Pdci poiché non potevo avallare scelte sbagliate. Cioè l’incoraggiamento dell’estremismo, la ricerca del “più uno”, la rincorsa a Rifondazione. È una critica politica la mia, non personalistica. Ho sempre ragionato così. Anche quando ho fatto Rifondazione, giunta nel 1992 al 5% (al 15% a Milano!), e nel 1996 all’8,7%, con potenzialità al 10%. Poi il 1998, con la caduta tragica di Prodi. Si ferì una grande speranza, si colpì un cammino, anche per la sinistra di cui parlo. Perciò ai compagni di Rifondazione e agli altri dico: riflettete. Perché allargando Rifondazione non si va da nessuna parte, e nemmeno facendole concorrenza. Il punto è: la sinistra! E invece alla Camera oggi Rifondazione è al 5,7%, come 15 anni fa. E il Pdci è al 2% e passa. E siamo sempre lì. La somma non arriva al dato del 1996. Apprezzo l’intuizione della “sinistra europea” voluta da Rc, ma occorre allargare il discorso, fare politica. Coi fatti e gli atti. Come con la “Svolta di Salerno”, che sparigliò i giochi e non fu idea da seminario accademico. Bene, prima delle ultime elezioni si profilava una possibilità: l’arcobaleno. Con un pezzo di sindacato, gli intellettuali, i verdi, il Manifesto. Liquidata senza un perché, a cominciare da Rifondazione. Addirittura nel Pdci si decise che non si poteva fare nessuna alleanza elettorale senza la falce e martello. Ma io non volevo affatto abolire il simbolo del partito. Nel 1948 si andò con la faccia di Garibaldi alle elezioni. E Scoccimarro, Togliatti, Amendola non erano comunisti doc? Suvvia! E ancora: che senso ha per il Pdci non essere al governo in prima persona? I nostri sono ottime persone e senza tessera: Bianchi, Patta, Scotti. Bene. Ma perché questa presa di distanza? Per tenersi le mani libere e tirare la corda? Lo so, il Pdci non farà mai cadere il governo Prodi. Ma quel governo lo si deve sostenere in prima persona, e non solo quando c’è il voto di fiducia. Bisogna sostenerlo attivamente e con le proprie idee, senza riserve malcelate».
In conclusione, un compleanno da comunista togliattiano non pentito, nel segno del pragmatismo e della «responsabilità». È così?
«Proprio così. Il cossuttismo, di cui ha parlato Liberazione, non esiste, ma se esiste è solo togliattismo. Vuol dire un passo dopo l’altro, inverando in ogni passo le aspirazioni ideali più avanzate. E senza inutile propaganda. In una parola, il Pci. Una realtà grande e irripetibile, da ripensare ovviamente in altre forme».

Aprileonline 20.9.06
Una nuova forza, tutta da costruire
Dibattito. Un fantasma si aggira per l’Europa (ovvero il lungo e faticoso cammino della Sinistra Europea)
di Moreno Biagioni *


Ad oltre centocinquant’anni dal “Manifesto” di Marx ed Engels - Un fantasma si aggira per l’Europa, a distanza di oltre centocinquant’anni da quello che agitava, a metà ottocento, i sonni dei borghesi e dei benpensanti del vecchio continente (e di cui è rimasta traccia nel “Manifesto del Partito Comunista” di Marx ed Engels). Ma non ha lo stesso aspetto minaccioso, non agita falci e martelli, non preannuncia una futura internazionale umanità che si affermerà dopo la presa del potere.
Ha piuttosto l’obiettivo, il fantasma del secolo ventunesimo:
-di essere punto di riferimento e di aggregazione delle molteplici energie che, dal basso, attraverso esperienze e pratiche quotidiane alternative, cercano di avviare processi di trasformazione;
-di riproporre l’utopia del cambiamento come asse intorno a cui rifondare la politica;
-di contrastare il dominio del mercato in nome di quei valori di libertà, uguaglianza, fraternità, lasciati troppo spesso cadere perché considerati obsoleti e di ostacolo alla modernizzazione.

Alla contraddizione individuata nel “Manifesto” come fondamentale, quella cioè fra capitale e lavoro salariato, se ne sono aggiunte altre – di genere, ambientali, derivanti dagli squilibri fra il Nord ed il Sud del pianeta, tanto per citare le maggiori -. Intorno a ciascuna di esse si sono sviluppati analisi, movimenti, iniziative; si sono organizzati nuovi soggetti; si sono messe in campo inedite progettualità e capacità di lotta.
Al tradizionale affidarsi alla forza ed alla violenza, in quanto strumenti ritenuti indispensabili per la trasformazione radicale della società, si è sostituita la fiducia nella nonviolenza come matrice essenziale di un altro mondo possibile.

Il movimento dei movimenti (che ha rimesso in moto le forze del cambiamento) – E’ stato sul finire del secolo scorso – una fine di secolo oscurata dalle nubi minacciose della guerra, rilegittimata a dirimere i contrasti fra le nazioni – che i movimenti, sorti in varie parti del mondo per porre un limite al dilagare del pensiero unico ed alla sovranità illimitata del mercato, hanno cominciato ad incontrarsi; a mettere in discussione, tutti insieme, la globalizzazione imposta dai poteri forti; a riproporre l’esigenza, e la possibilità, di cambiare le regole del gioco.

Seattle, Porto Alegre, Genova, Firenze, Parigi, Londra, Mumbai, Bamako, Atene (fino al prossimo appuntamento di Nairobi) sono le tappe principali del cammino di quello che è stato nominato “il movimento dei movimenti”, un cammino fatto di alti e di bassi, ma che è riuscito a dare voce ai “senza voce” - e cioè ai paria indiani, ai popoli indigeni dell’America Latina, alle organizzazioni delle donne dell’Africa e dell’Asia, accanto a forze sociali più organizzate, a rappresentanze sindacali, a politici impegnati nelle istituzioni, a intellettuali – e, più che altro, ha infuso nuovamente vigore e speranza nelle energie che si propongono cambiamenti profondi, radicali, incisivi dell’attuale assetto del mondo (dopo che per anni era stato dato quasi per scontato che si fosse giunti alla fine della storia e che niente potesse più mutare, se non superficialmente).

Ebbene, è da questa spinta, sviluppatasi con grande impetuosità insieme al secolo nascente, che ha avuto avvio, a sinistra, a livello italiano ed europeo, il processo costitutivo di una forza politica originale, in grado di mantenere alta la vocazione a “mutare in profondità l’ordine esistente delle cose” (in fondo, la ragione sociale originaria del comunismo) e ad andare nel contempo “oltre il Novecento”, oltre le analisi, i modi di organizzarsi, le forme di lotta che lo hanno caratterizzato – che hanno caratterizzato l’azione politica del movimento operaio (come afferma Marco Revelli, nel suo libro intitolato, appunto, “Oltre il Novecento”).
E’ a questa forza, tutta da costruire, tutta da “inventare”, che mi riferivo all’inizio, quando ho accennato ad un fantasma che si aggira di nuovo per l’Europa.

La fiaba della grande nave che si trasforma in tanti piccoli navigli – Per chi, come me, aveva creduto che un soggetto del genere potesse nascere nel 1990-91 (quando era stato fatto colare a picco il glorioso, anche se privo ormai di spinta propulsiva, Partito Comunista Italiano) e che, in quel momento di appassionato dibattito, aveva scritto al riguardo, insieme a Franco Quercioli, una fiaba intitolata “La favola del partito che, per riuscire a cambiare il mondo, prima di tutto cambiò se stesso – ovvero come trasformare una grande nave in una flotta di piccoli navigli –”, il processo di oggi ripropone, in forme aggiornate, le speranze, rimaste nel cassetto, di quindici anni fa.
Le agili imbarcazioni di quella flottiglia innalzavano infatti bandiere e insegne di movimenti ed esperienze che si sarebbero ulteriormente sviluppate successivamente, collegate ai temi ed ai valori del pacifismo, dell’ambientalismo, del femminismo, dell’anti-razzismo, della nonviolenza, intrecciate a quelle, certamente da non ammainare, delle organizzazioni dei lavoratori ed ai pensieri del “giovane” Marx (avendo al fianco, nell’immaginazione degli autori della favola, il vecchio Humprey – Bogart - reduce da Casablanca, il mitico Corto imbarcatosi in un’ultima esaltante avventura - già allora ci eravamo messi, Franco ed io, “sulla rotta di Corto Maltese”, o, piuttosto, era il simpatico marinaio che aveva preso il mare con noi e con i “piccoli navigli” -, la meravigliosa Valentina uscita dal suo mondo di sogni ed incubi).

Ritorna quindi il sogno e tornano a riproporsi con forza le ragioni dell’utopia, quell’utopia che Eduardo Galeano ha indicato come il motore principale del procedere degli esseri umani verso obiettivi di cambiamento (certo, è vero che l’utopia, come l’orizzonte, continua ad allontanarsi mentre cerchiamo di avvicinarla, ma è pur questo il suo valore, che ci fa proseguire sempre nel nostro cammino).

La prospettiva della Sinistra Europea – E’ la Sinistra Europea il fantasma in questione, o meglio la flottiglia che sta faticosamente cercando di prendere il largo.
Il processo costitutivo da cui dovrà scaturire la nuova formazione interessa vari Paesi - o meglio partiti e gruppi, di consistenza diversa, ed anche di matrice differente, presenti in vari Paesi (più precisamente, l’Austria, il Belgio, la Boemia e la Moravia, la Catalogna e la Spagna, Cipro, la Danimarca, l’Estonia, la Finlandia, la Francia, la Germania, la Grecia, il Lussemburgo, il Portogallo, la Repubblica Ceca, la Romania, San Marino, la Slovacchia, la Svizzera, l’Ungheria, la Turchia e, naturalmente, l’Italia).
Va aggiunto che quella europea è comunque una prima tappa ed il progetto si proietta – dovrà necessariamente proiettarsi - su scala mondiale.
Qui da noi lo stanno portando avanti Rifondazione Comunista, realtà locali di “unità a sinistra”, aggregazioni associative e singole persone impegnate nel mondo del lavoro e nella società, sui temi della pace, dell’ambiente, dell’uguaglianza di genere, della lotta per i diritti e contro le discriminazioni: il cammino si concluderà, con un Congresso, nel 2007.

Riusciranno i nostri eroi, parafrasando il titolo di un film di Ettore Scola, a rintracciare – a rendere vitali, concreti, operanti a livello sociale e nelle istituzioni – quei contenuti politici di sinistra misteriosamente scomparsi, o, meglio, messi nell’angolo, sul finire del secolo scorso?
La scommessa è alta, i risultati non sono garantiti.
Ma vale la pena di tentare, continuando, per dirla con Pietro Ingrao, a “volere la luna”, senza pretendere di avere ricette già confezionate, esercitando in ogni caso l’arte del dubbio, non rinchiudendosi nei vecchi schemi della lotta per il potere (che già tanti danni hanno procurato al movimento dei lavoratori).

La Sinistra Europea, l’Unione, le altre forze riformatrici presenti in Europa – Non è sicuramente da esigere, come Sinistra Europea, l’esclusiva delle istanze di rinnovamento della politica – altri stanno lavorando ad altri progetti, di sinistra e di centro/sinistra (vedi il percorso, anch’esso indubbiamente non facile, verso il Partito Democratico) –: essenziale risulta che si mantengano, anzi si sviluppino, canali di collegamento e di confronto continui fra i diversi processi in atto, avendo coscienza che essi hanno effettiva possibilità di crescere soltanto se viene mantenuto l’attuale contesto, e cioè il governo dell’Unione ed una conseguente azione, di rapporto positivo fra forze politiche radicali e riformatrici, a livello dell’Europa.
La necessaria collaborazione nell’ambito delle istituzioni non esclude che vi sia competizione sul piano culturale e nella società e non comporta certo l’eliminazione del conflitto.
Anzi, competizione, conflitto (naturalmente nonviolento), partecipazione rendono viva e vitale la democrazia.
Ed è attraverso di essa che passa quell’idea di trasformazione di cui si fa punto di riferimento la Sinistra Europea. Per un'altra Europa, ed un altro mondo, possibili, da costruire insieme a tutti coloro che non si rassegnano ad accettare la realtà così com’è.
* Consulta immigrazione Anci Toscana, Rete Nuovo municipio


Repubblica 20.9.06
Cosa ha veramente detto Ratzinger a Ratisbona
di Pietro Scoppola


I MUSULMANI non hanno motivo di offendersi per la lezione del Papa a Ratisbona, sono piuttosto i cristiani e in particolare i cattolici che hanno motivi per riflettere su quella lezione e per discuterla. Non i musulmani perché Ratzinger in un discorso che non ha nulla di una pronuncia del magistero, ma è la lezione di un vecchio e grande professore che si ritrova con gioia in un´aula universitaria, ha offerto all´Islam il riconoscimento del senso più alto, più intenso e drammatico della trascendenza di Dio.
Ha detto: «Per la dottrina musulmana [....] Dio è assolutamente trascendente». Rispetto a questa affermazione dominante il riconoscimento che nel Corano vi è un principio di tolleranza e insieme un principio di intolleranza è scontato e marginale: anche nella Bibbia vi è questa contraddizione caratteristica di tutte le religioni monoteistiche. Solo nel politeismo la tolleranza è immediata e spontanea perché fondata sul relativismo. Nel monoteismo la tolleranza tra i credenti e il rispetto della religione altrui è sempre necessariamente una conquista. E´ stata una faticosa conquista anche per i cristiani. Oggi il confronto fra islamici e cristiani può certamente favorire questa conquista: perché dunque offendersi di una ovvia constatazione storica che può diventare premessa di fecondo dialogo?
Sono i cattolici invece che hanno motivo di riflettere e di discutere la lezione del Papa perché partendo dal raffinato richiamo alla polemica fra l´imperatore bizantino Manuele II Paleologo e un dotto persiano, il professor Ratzinger conferma in sostanza il nesso indissolubile fra il cristianesimo e il pensiero greco, la necessaria "ellenizzazione" del cristianesimo: il motivo fondamentale nella argomentazione dell´imperatore bizantino contro la violenza è infatti nella affermazione che "il non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio". Affermazione evidente, fa dire Ratzinger all´editore di quella antica e raffinata polemica Theodore Khoury, per un imperatore cresciuto nella filosofia greca.
Così dietro il fragile schermo di una polemica medievale il Papa ripropone il suo tema dominante del rapporto fede-ragione sul quale il pensiero cristiano si arrovella da duemila anni. Di fatto nella seconda parte della lezione il tema diventa esplicito: quel lontano e colto imperatore bizantino poteva fare quella affermazione "partendo veramente dall´intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero ellenistico fuso oramai con la fede". Di qui il radicamento del cristianesimo in Europa: "Questo incontro, al quale si aggiunge successivamente anche il patrimonio di Roma, ha creato l´Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa".
Ma Papa Ratzinger è troppo colto per non sapere che quella fusione del cristianesimo con l´ellenismo è stata oggetto di molte contestazioni, da quella di Duns Scoto "in contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista", a quella più nota della Riforma del XVI secolo alla quale la fede, così come proposta dal magistero del tempo, non appariva più "come vivente parola storica ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il Sola Scriptura [di Lutero] invece – aggiunge Ratzinger dimostrando acuta sensibilità alle ragioni della Riforma – cerca la vera forma primordiale della fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa". E poi Ratzinger cita Pascal, che al Dio dei filosofi e dei sapienti oppone il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e continua evocando gli ulteriori tentativi, come egli li chiama, di dis-ellenizzazione del cristianesimo fino a Kant (finalmente escluso nelle parole di una Papa dalla categoria dei nemici della fede). E dopo Kant e Harnack molti altri nomi si potrebbero aggiungere: da Laberthonnière, a Barth, a Bonhoeffer per citare solo qualche nome.
L´esito possibile di questi successivi tentativi di dis-ellenizzazione del cristianesimo da Ratzinger descritti, sarebbe quello, ai suoi occhi, di ridurre gli spazi della scienza e della ragione, di far diventare il problema di Dio un problema ascientifico o prescientifico. L´uomo stesso subirebbe una "riduzione" perché allora i problemi fondamentali del "da dove" e "verso dove" sarebbero spostati nell´ambito della soggettività non razionale.
Ma – si chiede un credente non teologo e non filosofo quale io sono – dove altro se non nella soggettività dovrebbero porsi quei problemi? Non vi è qui quel timore della soggettività che caratterizza il magistero della Chiesa in epoca moderna e al quale il Vaticano II ha tentato una risposta fiduciosa? La soggettività non è quel soggettivismo individualistico in cui male e bene, vero e falso si confondono e si equivalgono, ma è principio di libertà di coscienza consapevole della responsabilità della persona verso una verità che lo trascende e verso una comunità di cui è membro. Allo stesso modo in cui la Chiesa ha saputo distinguere fra secolarismo e secolarizzazione perché non distinguere fra soggettivismo e soggettività?
La dis-ellenizzazione del cristianesimo non porta necessariamente agli esiti distruttivi giustamente temuti dal Papa ma apre anche orizzonti che meritano si essere esplorati.
E non è un caso che la lezione di Ratzinger si concluda con il rifiuto delle tesi proposte da autorevoli studiosi cattolici secondo cui altre culture incontrando il cristianesimo "dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti". Questo appare al Papa impossibile perché "le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi conformi alla sua natura".
E´ una affermazione fortissima questa del Papa ed è una sfida profonda a tutta la cultura moderna anche di ispirazione cristiana. Non fa parte della fede cristiana anche la sua costante tensione critica verso ogni legame con una filosofia e una cultura definita? Il metodo storico critico non esige di essere applicato in tutte le direzioni?
La definizione del nesso fra fede e ragione condiziona il rapporto con le altre religioni e perciò il dialogo interreligioso. Varrebbe la pena di andare oltre la polemica sulla presunta offesa all´Islam e riflettere sulla sostanza più profonda del pensiero espresso dal Papa a Ratisbona.

Repubblica 19.9.06
L'importanza dei sogni
La parola chiave è partecipazione anziché interpretazione, da ciò che accade nel sonno bisogna lasciarsi coinvolgere
C'è la mancanza di immaginazione dietro ai peggiori crimini del nostro tempo: la guerra e il degrado
Il formidabile edificio costruito da Freud è ormai ridotto in macerie
Gli psicoterapeuti oggi non tengono più conto dell'attività onirica


JAMES HILLMAN
Partiamo dalle macerie. In piedi non è rimasto nulla. Il formidabile edificio costruito da Freud nel 1900 – il più voluminoso dei suoi scritti – non ha resistito nemmeno un secolo.
Gli etnologi hanno invalidato la sua pretesa di universalità; le femministe hanno denunciato le faglie misogine che attraversavano la sua roccia; i marxisti ne hanno demolito il taglio borghese, mentre gli storici sociali hanno collocato l´intera costruzione nell´ambito del colonialismo ottocentesco, cosicché gli ambientalisti contemporanei hanno potuto risotterrare frammenti di Freud e ripartire da una nuova prospettiva "naturale" che vede nel sogno il riflesso psichico del mondo.
Ma c´è di più: il sogno, un tempo via regia per accedere alla realtà dell´anima, risulta oggi solitamente ignorato dagli psicoterapeuti, al di là delle specifiche teorie al riguardo. Per tutti ormai il sogno fa riferimento, dipende o è riducibile a qualcosa di più concreto, qualcosa che ha a che fare con la linguistica, l´attività cerebrale, la biogenetica. In fondo, il sogno è una difesa dalla realtà, una fuga da essa. (...)
Dunque, che ce ne facciamo di un sogno nella vita di tutti i giorni? Mi permettete di offrire qualche suggerimento pratico?
Prima di tutto, non cercate di sfuggirlo. Lasciate che vi stia attorno, che vi confonda, vi affligga, che infesti di immagini i vostri sentimenti. Viveteci, con quel cane giallo, con quella serpe. Non perdete mai d´occhio l´erba.
Secondo: resistete al bisogno di sapere. Dominate il vostro impulso alla conoscenza, l´urgenza apollinea di leggere il sogno per trarne un chiarimento, una profezia. "Sogni premonitori", "sogni buoni o cattivi". Non sapete che cosa li ha prodotti, perché sono venuti, che cosa significano. Evitate le formulazioni concettuali. Date retta al grande maestro francese, Gaston Bachelard, il quale scrisse: «Immagini e concetti si formano ai poli opposti dell´attività mentale: immaginazione e ragione. Tra loro agisce una polarità di esclusione. Non può esistere sintesi, tra il concetto e l´immagine». «L´immagine può essere studiata solo attraverso l´immagine, attraverso immagini oniriche, in uno stato di rêverie». Oppure a Vico: «La fantasia è tanto più robusta quanto più debole è il raziocinio».
Terzo: non vi sforzate di collegare il sogno alla veglia e alle sue ansie. È vero, può capitare che un sogno offra la soluzione a un problema. Quante volte romanzieri, inventori e matematici, sfiniti dalla fatica, si sono coricati sconfitti e hanno trovato nella notte le risposte che cercavano, sotto forma di dono ricevuto in sogno. Ma si tratta di casi per i quali al mattino ringraziano gli dèi intervenuti in loro soccorso. Casi fortuiti e, a volte, sciagurati: ostinandoci a leggere il sogno direttamente nei termini del problema, possiamo perderci altri spunti impigliati nel groviglio di immagini.
Ricordate: strumentalizzare un sogno alla soluzione di un problema della quotidianità significa utilizzarlo a scopi personali, cadendo nell´errore fondamentale del pensiero di Artemidoro, vale a dire che il sogno ci appartenga di diritto, come un servo con il compito di compiacere la nostra individualità.
Se proprio non riuscite a evitare la sensazione che il sogno parli per voi, accoglietelo come un ospite. Apritegli la porta di casa, dategli il benvenuto. Insegnate ai vostri figli a essere felici di avere sognato; fatevi raccontare i loro sogni a colazione, lasciando che i fantasmi della notte dividano con voi la tazza di caffè, il buon succo d´arancia. Il sogno diventa così parte della vita familiare. In effetti sono spesso i più piccoli a partecipare più intensamente ai sogni raccontati a tavola. La phantasia puerile risulta più sensibile perché più attiva, come è attiva, secondo Vico, Herder e i Romantici, nelle favole e nei racconti fiabeschi, nei "primitivi" e nei visionari, nei deliri del posseduto, e nel bambino appunto. (...)
Quinto, considerate che il sogno è un intero e che ogni sua parte va ricondotta al resto. Il vecchio albero sradicato davanti alla casa di quando eravate bambini, la diva del cinema che vi dice qualcosa che al risveglio non riuscite a ricordare, la sensazione che vostra madre morta o una donna che le somiglia vi stesse accanto a bordo di una piccola imbarcazione... Tutti questi frammenti stanno insieme perché il sogno li ha uniti in un mosaico, un collage e, alla presenza di uno, si accompagna quella di tutti gli altri. È da seguace di Apollo praticare rigide distinzioni, selezionare, scomporre, per conoscere meglio il frammento.
Sesto: lasciate che il sogno si sposti. Se non lo fa, trasformatelo in una fantasticheria. Come un autore, permettete ai personaggi del vostro teatro notturno di esprimersi. Non imbeccateli. Accertatevi che ciò che dicono arrivi da loro stessi e non da voi. (...)
Il che ci conduce al mio settimo suggerimento, il più importante di tutti. Lasciatevi travolgere dal sogno. Ecco la parola chiave: partecipazione, anziché interpretazione. Immersione, come un tuffo nella musica, un senso di coinvolgimento. «Travolti in questa musica dei sensi/Non curano la gloria d´altri tempi», scriveva W. B. Yeats contrastando così, con l´immagine dionisiaca, gli sforzi apollinei di ottenere una forma statica e identificabile. (...)
Mi piace pensare che ci stiamo anche occupando di politica dell´immaginazione. I due peggiori crimini del nostro tempo sono di ordine politico. Mi riferisco alla guerra impetuosa e al disinteresse per l´ambiente. Entrambi tradiscono un impoverimento dell´immaginazione nel pensiero politico, nelle teste dei potenti che governano gli stati. Soprattutto gli Stati Uniti. Robert McNamara, segretario della Difesa durante gran parte della guerra in Vietnam, ripensando a quegli anni, scrive: «Possiamo ora intendere quelle catastrofi per ciò che sono state: essenzialmente il frutto di una mancanza di immaginazione». Un altro segretario della Difesa, Donald Rumsfeld, afferma che sorpresa, panico e terrore sono dovuti a «scarse aspettative e... mancanza d´immaginazione". Michael Hayden, direttore della National Security Agency, paragonando il disastro di Pearl Harbor a quello delle Twin Towers ha dichiarato che «forse si è trattato di una mancanza di immaginazione, più quest´ultima volta che la scorsa».
E John Lehman, ex segretario della Marina e membro della Commissione 11/9 ha definito l´evento «la più grande mancanza di immaginazione della nostra storia».
Proviamo a essere più precisi: qual è esattamente la natura di questa mancanza? In fondo, organizzare un´invasione militare dall´altra parte del pianeta richiede un´immaginazione formidabile, come pure le dichiarazioni deliranti sul possibile rinnovamento di tutto il Medio Oriente. Il fatto è che Wolfowitz, Rumsfeld, Cheney e Rice sono stati accecati dalla realtà apollinea: la loro ammirazione per lo strapotere americano si è confrontata con la nozione di straordinario fanatismo del pensiero musulmano che, a loro dire, non ha conosciuto né la Riforma né l´Illuminismo. Per loro il Medio Oriente non ha mai scoperto Apollo: è la luna, non il sole a sventolare sulle loro bandiere.
L´attenzione alla logistica, al comando gerarchico e alle forze aeronautiche, l´importanza attribuita alla visione notturna, al controllo satellitare e ai missili a lunga gittata sono altrettanti rimandi ad Apollo che spesso gli antichi chiamavano l´arciere "che da lungi saetta" o "il dio che uccide a distanza".
Wolfowitz, Rumsfeld, Cheney e Rice non sono entrati in contrasto con la realtà immaginabile. Non hanno saputo immaginare il reale: gli spettri ancestrali, le forze ctonie della xenofobia, l´amore per la propria casa, il territorio, il paese; il degrado della povertà; la poesia ispiratrice della lingua araba (in contrasto con il "pentagonese" militare computerizzato); l´importanza di storia e cultura. Il comando americano non ha pensato di proteggere il museo di antichità iracheno. Come sorprendersi che le pesanti macchine da guerra possano avere spianato fragili siti di civiltà mesopotamica? Le profezie di Wolfowitz, Rumsfeld, Cheney e Rice si sono rivelate troppo razionali e troppo poco fantasiose per riuscire a prevedere gli orrori della guerra e le sue conseguenze incontrollabili. In poche parole, la visione di un futuro radioso per una società purificata dal male non ha nulla a che fare con le fantasie irrazionali che affiorano dai sogni. Non è escluso che la repressione della fantasia nella psicologia dei giovani possa essere filtrata nell´intera popolazione americana causando una mancanza di immaginazione anche ad alti livelli.
Traduzione di Susanna Basso
Copyright 2006 by Published by Arrangement
with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria


il manifesto 20.9.06
La ragione unica di papa Ratzinger. Che uccide il dialogo
di Filippo Gentiloni


Il clamore suscitato dalle parole del papa sull'islam non sembra placato, nonostante le dichiarazioni distensive di Roma e anche di non poche autorità islamiche. Il papa, in realtà non si è scusato: è stato frainteso, il dialogo può e deve continuare.
Un episodio increscioso, utile, comunque, a comprendere meglio il pensiero di Benedetto XVI: due i suoi principali caposaldi, già emersi nel primo anno del pontificato, rinnovati e chiariti nel corso della discussa settimana bavarese: il ruolo della ragione e quello del dialogo.
La ragione giudice e arbitro
La ragione per il papa è il grande e solenne tribunale di fronte al quale tutto e tutti vengono giudicati. Cristianesimo e islam compresi. Anche al di là e al di sopra sia della Bibbia che del Corano. Quest'ultimo, in particolare, è chiamato a rispondere di fronte alla ragione delle parole sulla guerra e sulla pace. La ragione, dunque, giudice e arbitro.
Né irrazionalità, dunque, né relativismo, quel pericolo che il papa più volte ha indicato come il massimo rischio del tempo moderno. La ragione salva e dal relativismo e dall'errore. La ragione giudica. E della ragione è custode proprio Roma, anche se non sempre il papa lo ripete e lo ricorda.
Ma sempre la ragione al singolare: ecco il punto su cui vacilla il pensiero ratzingeriano. Sembra che i secoli della cultura moderna siano ignorati: tutti i secoli, infatti, che ci hanno insegnato a parlare delle ragioni al plurale.
La ragione al singolare, unica, eguale per tutti, sembra dimenticata da tempo. Da tutti, meno che dal Vaticano, erede più o meno unico di quella ragione al singolare che la cultura greca aveva trasmesso, ma soltanto per qualche tempo, al mondo moderno. La ragione al singolare univa tutto e tutti, poteva insegnare a tutti e giudicare. Così è stato - forse - fino al nostro Medioevo. Poi le scoperte geografiche hanno mostrato a tutti, con la pluralità dei mondi e delle culture, la pluralità delle ragioni.
Nel mondo cristiano, i primi a rendersene conto sono stati i protestanti; dal tempo della Riforma non più la ragione universale. Basti dare un'occhiata a come le ragioni moderne parlino proprio di Dio e anche dell'etica (il matrimonio). Come si può invocare la presunta ragione al singolare per parlare di verità e falsità, di guerra e di pace? A questo punto il discorso del papa non regge: non si può citare il Corano davanti a un tribunale inesistente, che avrebbe sede dentro le mura vaticane. Altra la verità, altri i criteri.
Un dialogo tra verità e errore?
Altre, molteplici, le ragioni. La loro molteplicità intacca anche l'altro caposaldo del discorso del papa, il dialogo. E' questo lo strumento che il Vaticano invoca continuamente per favorire il rapporto fra le religioni, in pace e tranquillità. Anche questa volta, per evitare equivoci e fraintendimenti, il papa invoca il dialogo.
Ma come intenderlo? All'interno di un'unica ragione universale o ad un livello eguale per tutti, là dove le ragioni si incontrano? Soltanto se così inteso, come dialogo fra eguali, il dialogo può favorire veramente la pace. Non un dialogo fra dialoganti in posizioni diseguali, uno di serie A e gli altri di serie B. Purtroppo il dialogo invocato da Roma è sempre proprio di questo secondo tipo. Per Roma la verità e l'errore possono dialogare ma non sullo stesso piano. Una posizione che anche il recente episodio sembra confermare. Inutile ripetere la necessità del dialogo se uno dei presunti dialoganti si mette su un livello superiore, sale in cattedra. Più che di dialogo, è allora più corretto parlare di insegnamento o di «evangelizzazione», come ha fatto per secoli la tradizione cattolica. In paradiso, comunque, potevano entrare tutti, anche se da porte secondarie. Concessioni, cortesia più che parità. Logica la scontenta irritazione, a dir poco, dell'islam.

il manifesto 20.9.06
TEOPOLITICA
Il Pontefice europeo nello specchio dello Straniero
Papa Ratzinger dalla critica della ragione moderna alla teologia dello scontro di civiltà. Ovvero come una polemica contro i valori interni all'Occidente post-illuminista si trasformò in un manifesto dell'Occidente contro il nemico esterno islamico. Combattendo il fantasma non della differenza ma della somiglianza fra i due monoteismi
di Caterina Bori e Samuela Pagani*


«Un tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dall'interno»: così Benedetto XVI ha definito la sua lectio all'università di Regensburg del 12 settembre scorso. Nella storia della ragione occidentale, argomenta il papa, «l'ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità personale», per colpa in primo luogo della scienza sperimentale, una «autolimitazione» della ragione che esclude il divino dal proprio dominio, e dunque dal dominio dell'universalità e pubblicità della conoscenza. Soluzione: tornare alla metafisica razionalista della filosofia scolastica, che ci può dire ex cathedra - a noi, «comunità europea» - «da dove» veniamo e «verso dove» andiamo, e soprattutto e in primo luogo «chi siamo»: la perfetta e universale sintesi del logos greco e della fede biblica, operata dal Verbo incarnato.
Per affermare pienamente questa identità europea in pericolo occorre escludere: la ragione critica e il pensiero delle scienze naturali su cui si basa il «concetto moderno della ragione»; le manifestazioni imperfette del cristianesimo, come le chiese orientali («Non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa»: e Bisanzio dov'era, in Asia o in Europa?); le tendenze «deellenizzanti» (antimetafisiche) nate nel cristianesimo europeo.
Ma perché lo spunto di questa «purificazione» dell'identità europea dall'interno viene proprio da una presa di posizione perentoria (l'Imperatore Manuele II Paleologo è «brusco» e «pesante», dice il papa) contro l'islam? Perché proprio l'islam è scelto nell'ouverture come esempio per eccellenza di ciò che è «altro» da noi?
Forse perché un'identità assediata da ogni parte da nemici «interni», come quella appena descritta, ha bisogno, per definirsi, di specchiarsi in un «altro» assoluto. Ma anche perché il papa sa bene che l'islam è attualmente più capace del cristianesimo di creare una comunità, o una identità. E in questo senso è un potente rivale dell'universalismo identitario da lui proposto. Manuele Paleologo è un exemplum perché simboleggia un'identità minacciata (Bisanzio assediata dagli Ottomani; come l'Europa dalla Turchia?), e da questo punto di vista rinvia a una rivalità islamo-cristiana di natura essenzialmente politica. Ma la scelta di veicolare il messaggio attraverso un frammento di controversia teologica medievale serve anche a ribadire che le radici della contrapposizione con l'islam sono, prima che politiche, teologiche, ossia essenziali e non occasionali. Al tentativo di «critica della ragione moderna» si affianca così l'abbozzo di una «teologia dello scontro di civiltà». Questa «cerniera teologica» fra l'obiettivo politico e l'obiettivo filosofico del papa è un aspetto centrale della sua argomentazione, come ha spiegato Ida Dominijanni nella sua analisi sul manifesto del 15 settembre.
Data la gravità di una simile presa di posizione dottrinale, il papa si circonda di cautele, giocando abilmente con le citazioni. Innanzitutto, lui stesso ci avverte che il frammento prescelto «è piuttosto marginale nella struttura dell'intero dialogo» fra l'imperatore e «il persiano). Si potrebbe essere più precisi: la frase isolata dal papa non solo contrasta, per la sua aggressività, con il tono generale molto più pacato del dialogo, ma è in realtà a sua volta una citazione indiretta della Confutazione della Legge dei Saraceni scritta alla fine del Duecento dal domenicano Ricoldo di Montecroce (Silvia Ronchey ha spiegato sulla Stampa del 13 settembre come questo testo si sia trasmesso dall'Occidente latino a Bisanzio). La tesi per cui la religione islamica sarebbe «irragionevole» e «violenta» è un caposaldo della polemica di Ricoldo, a cui sono dedicati due interi capitoli della Confutazione. Insomma: rinviando nella forma a un testo che appartiene alla ricca e raffinata tradizione della controversia teologica fra le chiese d'Oriente e l'islam, il papa recupera nella sostanza la libellistica anti-islamica del cristianesimo latino, funzionale alla legittimazione delle Crociate.
In questo contesto polemico militante, il rimprovero rivolto all'islam di affermare la fede con la forza è una parte irrinunciabile dell'argomentazione: serve infatti a confutare la pretesa di «logicità» della religione rivale, la sua ambizione di rappresentare «l'universalità della ragione», contesa fra i due monoteismi universalisti. Quello che veramente disturba il polemista cristiano non è la radicale differenza dell'islam, ma la sua somiglianza emulatrice (e la coscienza di questa somiglianza affiora nella frase: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava»: il nuovo è solo la violenza, il potere, la politica, e dunque il resto è solo una variante deviata del cristianesimo). Perché posto che l'autentica ragione universale è quella teologica, questa può essere una sola. Il fatto che «le culture profondamente religiose del mondo» (cioè le religioni extra-europee non cristiane) aspirino a essere incluse nella «universalità della ragione» non significa che tutte possano allo stesso titolo rappresentarla: le loro aspirazioni confermano semmai che tutti gli uomini hanno bisogno della verità, ma non che la possiedono, poiché la loro «teologia», non essendo greco-cristiana, ignora la vera natura del logos, non è veramente universale (dunque parliamoci per convertirli, e, se sono cattivi, difendiamoci).
Escludere l'islam dalla salvezza del logos greco è tanto più necessario, per affermare la «differenza» occidentale, in quanto le somiglianze sono più evidenti e fastidiose. La sintesi greco-biblica è infatti il fondamento della cultura politico-religiosa medievale tanto nel cristianesimo quanto nell'islam: il califfo abbaside al-Ma'mun (m. 833) afferma la sua immagine di legittimo erede della tradizione imperiale romana, contro l'imperatore di Bisanzio, sognando Aristotele. Per rendere plausibile questa esclusione, il papa ricorre all'astuzia dialettica di scegliere, come portavoce della teologia musulmana, un autore molto originale: Ibn Hazm di Cordova, che rappresenta, nella scolastica musulmana, una corrente critica altrettanto minoritaria di quel volontarismo cristiano che il discorso del papa non manca di condannare. Gli esegeti più concilianti potranno dire che il papa, concentrandosi su un caso di letteralismo estremo, vuole rivolgersi contro gli «estremisti». Ma il ragionamento è un po' tortuoso. L'intenzione più evidente del suo discorso è piuttosto quella di inchiodare la teologia musulmana alla sua corrente più radicalmente «deellenizzante», per mostrarne la marginalità culturale, ed eludere al tempo stesso il discorso apologetico razionalista della corrente maggioritaria, di fronte al quale è molto più difficile sostenere una differenza radicale di atteggiamenti fra islam e cristianesimo.
L'idea che la religione «vera» e autenticamente universale sia quella più conforme alla ragione e dunque alla natura umana è infatti condivisa dai teologi ufficiali di entrambi i fronti. La teologia musulmana si chiama 'ilm al-kalam («scienza del discorso») proprio perché si basa sull'idea che il trionfo della fede debba essere effettuato attraverso la persuasione. Per i teologi musulmani (come per i loro colleghi avversari), non è certo la «violenza» che assicura il trionfo della fede, ma piuttosto il suo intrinseco valore di verità, che, nel caso dell'islam, si traduce nella più perfetta corrispondenza di questa religione con la «disposizione naturale» dell'uomo - anche se naturalmente il successo nelle armi non fa che confermare il sostegno divino. Lo testimonia nel modo migliore un'interpretazione tradizionale del versetto coranico citato dal papa, secondo la quale le parole «non c'è costrizione nella religione» (2:256) non esprimono un divieto, ma un'impossibilità: la fede, in quanto «atto del cuore», non può essere imposta con la forza. Secondo la tradizione musulmana, questo versetto, sia detto per inciso, risale al quarto anno dell'Egira, o emigrazione, del Profeta a Medina (625 d. C.). Esso appartiene cioè al periodo in cui il Profeta si afferma anche come capo di una nuova comunità, e non al «periodo iniziale», quando «era ancora senza potere e minacciato».
Ma non è un caso che l'Imperatore - e poi il papa - non si siano attardati sui particolari. Il metodo delle controversie teologiche è dialettico e non dimostrativo, direbbe un vero interprete della ragione greca come Averroè. Quel che conta è assestare un colpo efficace, anche a costo di omissioni e approssimazioni, se non di vere e proprie mistificazioni, al destinatario fittizio dell'apologia. Il desiderio di comprensione storica dell'Islam è ovviamente del tutto estraneo a questa impostazione, a-scientifica per definizione. Dire che il papa esprime «la verità storica» (Magdi Allam sul Corriere della Sera) è un po' come dire che la teoria del «disegno intelligente» rappresenta la «verità scientifica» nella storia naturale. Del resto, il fatto stesso di brandire «la verità storica» come un manganello è il segno della completa estraneità alla mentalità scientifica degli epigoni «laici» del papa. Nelle scienze storiche, come nelle scienze naturali e matematiche, non c'è «verità» che non possa essere messa in discussione da nuovi dati e nuove interpretazioni. Gli atei devoti teocon di oggi confermano, se fosse necessario, che il dogmatismo e il fanatismo non hanno bisogno, per prosperare, di essere illuminati dalla fede.
Nella citazione del papa, «il colto interlocutore persiano» dell'Imperatore non ha la parola. «I suoi ragionamenti» non hanno posto nella lectio, perché la sua figura serve soltanto a evocare un'immagine di alterità a cui contrapporsi per riconoscersi. Ne è prova eloquente la sua anonimia, e la stessa vaghezza con cui è definito. E' vero quindi che il papa, come hanno detto i rappresentanti del Vaticano rispondendo alle reazioni di sdegno del mondo islamico, non si è voluto impegnare in una discussione sull'islam, o il jihad, e ha evitato di pronunciare un giudizio diretto su questa religione. Si è limitato a farne il limite, il confine, della nostra identità. Un territorio straniero che dovrebbe restare tale.
L'equivalente contemporaneo del mutismo del «persiano», il destinatario fittizio dell'apologia bizantina, è lo sdegno di massa spettacolarizzato. Largamente prevedibili, le reazioni di un mondo islamico veramente (militarmente) in stato di assedio, servono magnificamente a dare corpo al fantasma di una moltitudine «irragionevole» (senza logos), pronta a cancellare ciò che siamo. Così, un breve accenno in apertura contro «l'intolleranza» islamica è riuscito a trasformare una polemica contro i valori «interni» all'Occidente post-illuminista in un manifesto dell'Occidente contro il nemico esterno, una bandiera dietro la quale anche gli europei più riottosi sono invitati a schierarsi.
* Samuela Pagani è ricercatrice di lingua e letteratura araba all'Università di Lecce, Caterina Bori è teaching fellow di storia dell'islam alla School of Oriental and African Studies dell'Università di Londra