mercoledì 20 luglio 2016

Corriere 20.7.16
«Massimo Bray disponibile a rilanciare il Salone di Torino»

«Il fatto che una personalità di profilo culturale così densa, importante come Massimo Bray abbia dato la sua disponibilità a impegnarsi per rilanciare il Salone del Libro di Torino è la dimostrazione che si tratta di un evento culturale e non commerciale». Lo ha affermato il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, intervenendo in Consiglio ad una discussione sul futuro del Salone. «Bray si è impegnato non a fare il presidente di una fiera del libro — ha sottolineato Chiamparino — si è impegnato per dare un contributo a rilanciare quel prodotto e quel modello culturale nazionale che è il Salone di Torino». Mentre l’Aie (Associazione italiana editori) a Milano analizza la bozza di proposta arrivata dalla Fondazione torinese (il 27 luglio si riunirà il Consiglio generale), Chiamparino ha ribadito che Torino non svenderà il Salone anche se farà ogni sforzo per rendere competitiva la proposta all’Aie — che ha già sul piatto un progetto con Fiera Milano —, anche dal punto di vista economico. «È chiaro — ha detto ancora Chiamparino — che senza editori il Salone sarebbe a rischio, ma non confonderei gli editori con l’Aie. Gli editori sono un mondo più complesso dell’Aie e noi teniamo un dialogo aperto con tutti».
Repubblica 20.7.16
Credulità
Crolla il principio di autorevolezza e spopolano guaritori e imbonitori
Così veniamo consolati dai tanti ciarlatani della rete
di Marino Niola

Creduloni onniscienti e complottardi diffidenti. È il paradosso della civiltà dell’informazione. Sappiamo sempre di più ma capiamo sempre di meno. E la realtà ci sfugge da ogni parte per eccesso di particolari. Inondati da immagini, notizie, informazioni, agenzie, newsletter, forum, chat, blog, pop up, che il web sversa su di noi come un fiume inarrestabile. Un download debordante che impalla il nostro processore critico. E così, incapaci di selezionare e valutare,
ci beviamo tutto quel che viene portato dalle correnti di internet. Il risultato è che l’aumento delle conoscenze e i progressi tecnologici invece che potenziare le difese della ragione provocano un ritorno massiccio di voci incontrollate, credenze infondate, verità millantate. E ciarlatanerie spudorate.
Di conseguenza, l’abuso della credulità popolare, che sembrava roba d’altri tempi, da società prescolare, ormai superato dal progresso delle conoscenze, sta ridiventando un fenomeno tristemente attuale. Col favore del web, che pullula di falsi scienziati e di autentici lestofanti. Guaritori, venditori, imbonitori, persuasori, arruffapopolo, contafrottole, predicatori, mental trainer, somatopsicologi, rabdomanti digitali e altri spacciatori di bufale che assomigliano tanto ai ciurmatori che imperversavano nella società preilluminista. Quelli che vendevano nelle pubbliche piazze i loro specifici, ovvero preparati miracolosi in grado di fermare il tempo, vincere le malattie, ridare vigore all’eros, far diventare ricchi. Come il dottor Dulcamara, protagonista dell’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti, che vanta i portenti infiniti del suo specifico «simpatico, prolifico, che muove i paralitici, spedisce gli apoplettici, gli asmatici, gli asfittici, gli isterici, i diabetici».
Addirittura a fine Cinquecento si pubblicavano trattati per mettere in guardia le persone dai finti dottori. Li chiamavano con disprezzo “catedratici di nuove scienze”. Il celebre medico romano Scipione Mercuri scrive in quegli anni un libro intitolato De gli errori popolari d’Italia, in cui dedica un intero capitolo agli imbrogli «che si commettono contro gli ammalati in piazza». Perché era proprio nel luogo pubblico per eccellenza che gli acchiappagonzi mietevano vittime fra ingenui e babbei. E il suo contemporaneo Tommaso Garzoni, nel suo capolavoro La piazza universale, censisce 544 mestieri nel mondo, di cui una buona parte ha a che fare con truffe e raggiri.
Oggi la piazza universale si è delocalizzata in internet. Dove i ciarlatani, fatti fuori dalla cultura moderna, quella della scuola, della scienza e delle università, si prendono la rivincita e viralizzano il web. Perché, se è vero, come dice Edgar Morin, che la rete promuove una nuova coscienza planetaria, è anche vero che almeno per ora la quantità d’informazione disponibile online è inversamente proporzionale alla qualità. E rischia di generare un nichilismo culturale che rende difficile distinguere il vero dal falso.
Come ha mostrato il sociologo francese Gérald Bronner, la nostra sta diventando la democrazia della credulità. Perché dove la gerarchia dei saperi frana e il principio di autorevolezza si polverizza, spopolano le spiegazioni semplici e soprattutto monocausali di una realtà che è invece sempre più complessa e sfaccettata come quella contemporanea. Soluzioni consolatorie che ci danno la sensazione rassicurante di capirci qualcosa, di saperla lunga, di non farci infinocchiare dalle versioni ufficiali dei fatti. Che si tratti di Ogm, vaccini, sicurezza alimentare, biologico, coloranti, pesticidi, il minimo comune denominatore è una sindrome da complotto che provoca una sfiducia crescente verso tutte le autorità, scientifiche o politiche. Siamo sempre più bipolari. Per un verso malfidenti verso i vari esperti, ricercatori, professori, giornalisti o studiosi, e per l’altro pronti a prestar fede a tutte le voci che corrono in rete. Così il tessuto collettivo dell’attendibilità e della credibilità appare sempre più compromesso. Al punto che in Francia, dove la scienza è una fede e la ragione una religione, secondo uno studio recente, il 43% delle persone pensa che la ricerca comporti più rischi che benefici. E da un sondaggio Gallup di quest’anno emerge che la fiducia dei cittadini statunitensi nelle istituzioni è passata da un imponente 80% degli anni Sessanta a un allarmante 10% di ora.
Politica, religione, giornali, televisione, scuola, università, industria. Non si salva nessuno. Stanno peggio solo i rivenditori di auto usate. E cresce esponenzialmente il pregiudizio antiscientifico, soprattutto su temi che toccano tasti sensibili come la salute. Il caso più emblematico è quello dei vaccini che, dopo averci liberati da tanti mali, vengono additati come la causa di altrettanti mali. Una irragionevole demonizzazione che inizia nel 1998, quando viene, incautamente, pubblicato su
Lancet uno sciagurato articolo, rivelatosi poi fraudolento, dell’ex medico Andrew Wakefield, che sosteneva l’esistenza di una correlazione tra diffusione del vaccino trivalente Mmr e aumento dell’autismo. Era tutta una bufala. Ma nonostante le smentite del General Medical Council britannico e la sconfessione della stessa
Lancet, che ha ritirato lo scritto, le vaccinazioni sono crollate. In realtà pare che il vero scopo della pubblicazione fosse quello di lucrare su un vaccino alternativo brevettato dal novello Dulcamara. Oltretutto, la Court of Protection inglese ha accertato che la mamma di uno dei bambini autistici all’origine della vicenda ha mentito.
Ma l’ineffabile Wakefield è tornato di recente agli onori della cronaca con il documentario autocelebrativo «Vaccinati: dall’insabbiamento alla catastrofe», che ad aprile avrebbe dovuto inaugurare il Tribeca Film Festival di New York, diretto da Robert De Niro, comprensibilmente sensibile al tema in quanto padre di un ragazzo autistico. Ma la bufala è stata smascherata da un gruppo di scienziati e De Niro ha cancellato il film. Eppure il rischio vaccino per molti è diventato un dogma 2.0. Anche perché sono in tanti a pensare che dietro ci siano solo gli interessi delle case farmaceutiche. Così una mappazza di false evidenze e di pseudo conoscenze rischia di anabolizzare il web rendendo difficile distinguere tra verità e impostura. A tutti noi il compito di civilizzare la rete, facendola uscire dallo stato di natura digitale.
La Stampa TuttoScienze 20.7.16
“Siamo tutti africani?
Sì, ma anche più cinesi di quanto credessimo”
I fossili scoperti in Asia suggeriscono un’ipotesi alternativa sulle origini dei Sapiens
di Gabriele Beccaria

Siamo tutti africani. Sì, ma forse anche più asiatici di quanto abbiamo finora immaginato.
Quando entrano in scena le origini della nostra specie Homo sapiens, le controversie sono in agguato e i paleoantropologi adorano le discussioni e perfino i litigi (sebbene in severo stile accademico). L’ultima tempesta la racconta la rivista «Nature», spiegando - non senza ironia - che anche in fatto di fossili è ora di riconsiderare il ruolo globale della Cina. Auto e smartphone a parte, è possibile che il mondo - e l’Occidente in particolare - debba cambiare un’altra delle sue mappe mentali. Stavolta su chi siamo.
Al centro dell’attenzione tornano i resti del celebre uomo di Pechino, una sottospecie di Homo erectus, scoperto negli Anni 20 del Novecento e che, periodicamente, contribuisce a terremotare certezze ritenute più che solide. Stavolta molti altri «parenti» cinesi si sono aggiunti e il panorama si complica: invece della progressione lineare dall’Homo erectus africano di 2 milioni di anni fa agli umani moderni di 200 mila, nuove scoperte suggeriscono che tra 900 mila e 125 mila anni fa l’Asia orientale fosse popolata da un grande numero di ominidi imprevisti: avevano caratteristiche fisiche che - secondo Wu Xinzhi dell’Accademia delle Scienze Cinese - sarebbero state intermedie tra quelle degli erectus e quelle dei sapiens.
In poche parole, rappresenterebbero un mistero, visto che non rientrano facilmente in nessuna categoria nota. Ma il prof Wu ha elaborato un’interpretazione: è convinto che questi fossili siano differenti. In particolare dagli heidelbergensis che 400 mila anni fa lasciarono l’Africa e anche da quelli che colonizzarono il Medio Oriente e l’Europa. Sarebbero ulteriori «forme di transizione» rispetto agli heidelbergensis stessi, mentre l’uomo di Pechino rappresenterebbe proprio l’antenato degli asiatici di oggi.
I pezzi del puzzle evolutivo, in questo caso, si sistemano solo a patto di abbandonare il modello «Out of Africa», che enfatizza le comuni origini africane dell’umanità, e di adottarne un altro, alternativo, vale a dire il modello multiregionale (o della «continuità con ibridazione»). Gli ominidi che tolgono il sonno ai paleoantropologi europei e americani e che entusiasmano quelli cinesi diventano, di conseguenza, i discendenti degli erectus, incrociati con «migranti» diversi: alcuni provenienti dall’Africa e altri in movimento dall’Eurasia. Questi figli «misti» sarebbero i bis-bis-bis nonni delle popolazioni asiatiche del presente. «Tutto indica - conclude Wu con esibita sicurezza - un’evoluzione progressiva e continua, in Cina, dall’erectus fino agli umani moderni».
È davvero così? Naturalmente dubbi e contestazioni non mancano. A cominciare dalle analisi del Dna, le quali, smentendo Wu, suggeriscono che il 97.4% dei geni dei cinesi contemporanei sia africano. E, intanto, altre ipotesi si stanno affacciando: per esempio che le migrazioni verso l’Asia dei primi umani moderni siano da retrodatare, fino a 120 mila anni fa, oppure che i fossili della controversia siano in realtà il risultato evolutivo di un ceppo mediorientale.
Di sicuro - ragiona adesso la maggioranza degli specialisti - il continente da tenere d’occhio per le prossime ricerche è l’Asia.
Corriere 20.7.16
La caccia ai comunisti nell’America degli anni 50
risponde Seregio Romano

È uscito qualche mese fa nei cinema «L’ultima parola. La vera storia di Dalton Trumbo», film che narra la vicenda dello sceneggiatore vittima del maccartismo. Poco si conosce sul gruppo denominato «Hollywood ten» (di cui Trumbo faceva parte), le dieci persone emarginate dagli studios americani, perché dichiarate comuniste. I dieci furono riabilitati, oppure dovevano essere considerati, effettivamente, pericolosi per la sicurezza della nazione?
Andrea Sillioni

Caro Sillioni,
Prima di rispondere alla sua domanda devo ricordare che i «dieci di Hollywood» erano prevalentemente sceneggiatori cinematografici (ma vi era tra loro anche un noto regista, Edward Dmytryk) che rifiutarono di rispondere alle domande di una commissione della Camera dei rappresentanti nel corso di una indagine sulla presunta presenza di una quinta colonna comunista nel mondo americano dello spettacolo. La Commissione era stata costituita negli anni Trenta, ma aveva acquistato maggiore autorità e popolarità da quando un senatore repubblicano, Joseph McCarthy, aveva pronunciato isterici discorsi in cui sosteneva che tutta la pubblica amministrazione e, in particolare, il Dipartimento di Stato, erano stati infiltrati da agenti sovietici. McCarthy era soltanto uno spregiudicato arrivista, alla caccia di un ruolo nazionale, e col passare del tempo sempre più alcolizzato. Rimase sulla scena pubblica, spesso ubriaco, sino a quando nel dicembre 1954 il Senato lo squalificò di fronte al Paese con un voto di censura.
Ma il fenomeno andava al di là della sua persona. Come nel primo dopoguerra, gli Stati Uniti, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, furono afflitti da un morbo che venne definito «red scare», la paura dei rossi. Li vedevano dappertutto: nella stampa, nelle pubbliche associazioni, nei ministeri. Un biografo di Harry Truman racconta che in una sola giornata del giugno 1950 il New York Times aveva segnalato non meno di 4 casi. L’Università della California aveva licenziato 157 impiegati che avevano rifiutato di firmare un giuramento anti-comunista. Il congresso annuale della Naacp (l’associazione nazionale per il progresso della gente di colore) aveva deliberato l’allontanamento di tutti i comunisti dai suoi ranghi. Un giudice federale aveva respinto il ricorso in appello di tre sceneggiatori del «Gruppo dei dieci». Un giornalista, durante una conferenza stampa alle Nazioni Unite, aveva chiesto al segretario generale dell’organizzazione, il laburista norvegese Trygve Lie, se fosse o fosse stato comunista. Fu quello il clima in cui Charlie Chaplin, accusato di filocomunismo, lasciò gli Stati Uniti nel settembre del 1952; e fu lo stesso clima in cui i coniugi Rosenberg furono processati per spionaggio nucleare, condannati a morte e giustiziati il 19 giugno 1953.
Vi furono certamente molti comunisti in America dopo la Seconda guerra mondiale, caro Sillioni. Ma la maggioranza apparteneva alla generazione socialisteggiante del New Deal (il grande programma riformatore del presidente Roosevelt) ed era stata sedotta dal mito dell’Urss soprattutto negli anni in cui lo Stato sovietico era l’indispensabile alleato delle democrazie occidentali contro la Germania di Hitler.
Corriere 20.7.16
Il programma di Trump: trasformare le paure in voti
di Massimo Gaggi

Donald Trump, poi il deserto. Sul palco della convention sfilano comparse che recitanoil testo che scorre su uno schermo. La conclusione è sempre la stessa: «Se vuole tornare grande, l’America deve affidarsi a Trump». Una giornata passata a discutere se alcune frasi della moglie Melania sui valori di Donald e l’impegno per consegnare ai figli un’America migliore siano state copiate dal discorso di Michelle Obama alla convention democratica del 2008 dà la misura di questo vuoto pneumatico. Che è un effetto voluto da un candidato allergico agli impegni programmatici, ma abilissimo nel trasformare insicurezze e paure in consenso .
L a prima giornata della «kermesse» è stata dedicata alla paura per la sicurezza perduta. La seconda, apparentemente più costruttiva, al «che fare» per dare lavoro agli americani. In realtà, nonostante il tasso di disoccupazione Usa sia più che dimezzato durante la presidenza Obama (ora è al 4,9 per cento), anche qui domina il catastrofismo: economia malata, lavori precari, ceto medio in rovina.
Che le cose non vadano bene nonostante le apparenze è sicuramente vero: Trump cavalca un malessere reale del ceto medio e del proletariato conservatore impoverito. Per capirlo, più che ascoltare gli oratori della “convention”, bisogna uscire fuori dal suo perimetro blindato e infilarsi nella folla variopinta di fan e avversari di Trump tra i quali spicca, oltre a quella dei «bikers», i trumpiani arrivati a cavallo delle loro Harley Davidson , la tribù dei «Truckers for Trump». È l’avanguardia arrabbiata e spaventata dei 3,5 milioni di autisti di camion e autotreni d’America, i primi professionisti del volante che rischiano di perdere il lavoro con l’avvento dei veicoli che si guidano da soli.
Cosa promette loro Trump? Il muro per bloccare gli immigrati messicani che si prendono i lavori più umili, la fine del «free trade», il ritorno in America delle fabbriche emigrate in Cina. Misure che, nella sostanza, hanno poco senso: i campionisti e molti altri perdono il lavoro per via dell’automazione, non per colpa del libero scambio o della globalizzazione. E le fabbriche che tornano negli Usa sono solo quelle che possono essere riempite di robot: di posti di lavoro ne producono pochini.
Ma il messaggio funziona comunque perché il superimbonitore Trump sa porrlo in modo seducente, sa stuzzicare i timori, giocare sulle insicurezze, magari indirizzandole su bersagli fasulli. L’economista conservatore Tyler Cowen, per dirne una, lega il malumore del ceto medio impoverito anche all’angoscia dei «baby boomers» che oggi hanno dai 55 ai 64 anni: hanno un risparmio previdenziale medio di 110 mila dollari e un’aspettativa di vita superiore ai 20 anni. Significa che dovranno vivere, in media, con 23 mila dollari l’anno (16 mila di assegni della previdenza sociale e 7 mila di pensione privata). Pensioni vicine alla soglia di povertà che provocano rabbia e malessere ma delle quali non è certo colpevole Obama: sono figlie della crisi finanziaria del 2008 (a sua volta figlia della «deregulation» reaganiana) e della parziale privatizzazione del sistema pensionistico con la responsabilizzazione del singolo lavoratore che doveva diventare l’assicuratore di sé stesso.
Insomma, se si comincia ad andare a fondo sui fenomeni le cose cambiano aspetto: allora meglio restare in superficie facendo il surf sugli slogan populisti. Si spiega così questa «convention» apparentemente sbilenca, disertata dagli esponenti repubblicani di maggior peso (sbeffeggiati senza pietà dal team Trump: i due ex presidenti Bush definiti «puerili, bambineschi», il governatore dell’Ohio John Kasich liquidato come un personaggio «petulante e imbarazzante») e zeppa di mezze figure.
Tanto che, a parte Melania, il protagonista assoluto della prima serata è stato un vecchio arnese come Rudy Giuliani, ripescato dalla soffitta della politica americana dopo i suoi falliti tentativi presidenziali di quasi dieci anni fa.
Quello che doveva essere il pezzo forte della serata, l’attacco a Hillary sulla gestione della crisi di Bengasi con le testimonianze dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime, si è risolto in una narrazione confusa, prolissa, ripetitiva alla quale nemmeno i delegati si sono appassionati. Ha scosso di più la platea lo sceriffo nero di Milwakee, David Clarke, col suo «blue lives matter» contrapposto al «black lives matter» degli attivisti afroamericani. Il richiamo alle divise blu dei poliziotti ha suscitato l’ovazione più convinta della serata in una città nella quale per tutto il giorno la folla della «convention» non ha fatto altro che ringraziare gli agenti.
Il senatore dell’Arkansas Tom Cotton, un emergente della nuova onda populista, è quasi invisibile col suo intervento incolore, subissato dalla «verve» del sindaco della «tolleranza zero» che promette un Trump capace di «fare in America quello che io ho fatto a New York». Poi Giuliani rivela: «Donald ha un cuore grande, è un benefattore generoso, ma non vuole che si sappia».
Alla fine il dato politico più significativo viene dall’intervento di Melania. Avrà pure copiato, ma in una serata di rabbia, frustrazione e America in rovina, lei è l’unica a puntare su un messaggio positivo: Donald, il miliardario che ha voltato le spalle a Wall Street, aiuterà i deboli, gli impoveriti. In realtà Trump sta per annunciare nuovi tagli fiscali di cui dovrebbero beneficiare soprattutto i benestanti, ma a lui gli elettori concedono assegni in bianco: è questa la chiave elettorale del successo del «tycoon» che prova a travestirsi da Robin Hood .
Repubblica 20.7.16
La Turchia e i miei sei colpi di stato
di Siegmund Ginzberg

DA BAMBINO avevo già visto i carri armati sferragliare minacciosi per le strade di Istanbul. Era la legge marziale proclamata dopo i pogrom anti-stranieri del settembre 1955. I golpe veri e propri erano venuti dopo. Nel 1960, nel 1971, nel 1980, nel 1993, e ancora nel 1997, e infine quest’ultimo. Sei in una generazione: un record. Si capisce che non se ne possa più. E che il pronunciamento contro Erdogan sia stato condannato anche da chi ha ragioni per avercela con lui: i curdi, i difensori dello Stato laico, i moderati, i nazionalisti, persino chi teme e già denunciava la sua deriva autoritaria.
Forse è proprio questa la ragione principale per cui questo golpe era destinato a fallire. Un colpo di Stato ha comunque bisogno di consenso, non basta la forza bruta. Se ne possono enumerare molte altre. Anzi fin troppe. Al punto che c’è chi addirittura dice che un golpe così maldestro Erdogan se lo sarebbe dovuto inventare se non glielo facevano. Lui stesso ha dichiarato che il golpe è stato «un dono di Allah», provvidenziale per «fare pulizia » (nelle forze armate, e negli apparati giudiziari, nelle istituzioni autonome che sono sempre state una spina nel suo fianco).
Un ennesimo golpe era incomparabilmente più impopolare, suscitava molta più preoccupazione e avversione della prospettiva di un Erdogan pigliatutto. «Ne ho visti cinque, di colpi di Stato. Soprattutto non vorrei vederne un altro» mi aveva detto, quando recentemente ero andato a trovarlo nella sua antica casa affacciata sul Bosforo, un anziano intellettuale laico, pure estremamente critico e preoccupato per le derive del “Sultano” e l’esacerbazione di tutte le spaccature nel Paese.
Ero stato io a sollevare sistematicamente con tutti i miei interlocutori un tema che li metteva a disagio. Quasi nessuno, nemmeno tra chi considera Erdogan una sciagura assoluta, mi aveva risposto: «Golpe? Magari». La risposta prevalente era stata: «Non si può escludere. In futuro. Se la situazione si deteriorasse, se ci fosse un collasso economico, o una guerra, se la Turchia piombasse nel caos e nella guerra civile. Ma certo non adesso. Sarebbe una follia. Nessuno può volerlo. Non la gente. Non i generali. Nessuno può volerlo all’interno, nemmeno gli oppositori più arrabbiati. Nessuno all’esterno, né gli amici né i nemici, certo non l’Europa, non l’America, ma nemmeno la Russia… ». E mi avevano fatto notare che l’esercito turco non è quello egiziano o siriano. Mantiene un prestigio assoluto, è sempre stata ed è ancora l’istituzione più rispettata. Come si è visto anche negli ultimi scabrosi frangenti.
Nel 1960 a intervenire era stato un gruppo di giovani ufficiali, che dichiarò di essersi sollevato contro ruberie e corruzione dei governanti e per “ripristinare la democrazia”. Il ministro dell’Interno si era suicidato. Poi avevano processato e condannato a morte primo ministro e presidente. Quello del 1971 fu il primo dei golpe “mediante memorandum”, contro un governo di centro-destra: era stato presentato come una risposta al caos del ’68 turco.
Il golpe del 1980 fu il più violento: 50 giustiziati, mezzo milione di arresti, centinaia di morti in carcere. Anche quello fu presentato come necessario per mettere fine agli scontri tra destra e sinistra che stavano soffocando il Paese. Finì con lo sterminio della sinistra. Il golpe del 1993 fu il più misterioso, tanto che tra strategia della tensione e servizi deviati non fu neanche annunciato.
I pronunciamenti del 1997 e 2007 furono definiti “post-moderni” perché i militari non dovettero nemmeno mettere in campo i carri armati. Cercavano di impedire l’ascesa del partito islamico. Finirono per favorirla. L’Europa faceva il tifo per i governi democraticamente eletti. Approvò quando Erdogan fece arrestare e processare i generali felloni. E poi quando epurò i servizi segreti dai seguaci del suo ex alleato islamico Gülen. Storcere il naso sarebbe sarebbe stato come prendere negli anni ’30 la parte dei seguaci di Trockij contro Stalin.
Quando lo scorso maggio il capo di Stato maggiore delle Forze armate era comparso a sorpresa come testimone alle nozze della figlia minore di Erdogan con un rampollo di magnati dell’industria della Difesa, apparve suggellata la pace tra militari e presidente islamico. Non per tutti evidentemente. Ma i golpe non si fanno se si è in minoranza nelle forze armate.
Una costante dei golpe turchi che hanno avuto successo è che i militari riuscivano a presentarsi come arbitri, interpretavano o pretendevano di interpretare in qualche modo i sentimenti di una maggioranza del Paese. C’è persino chi sostiene che abbiano svolto una sorta di funzione di bilanciamento, di composizione ponderata tra forze in rotta di collisione. I militari soppesavano, valutato con attenzione da che parte tirava il vento della maggioranza dell’opinione pubblica. Stavolta, a quanto pare, hanno fatto, o gli hanno fatto fare l’esatto opposto.
L’autore è scrittore e saggista ed è nato a Istanbul, in Turchia
Repubblica 20.7.16
Brexit, Nizza e Ankara. La fatica di capire
Un intero universo concettuale sta andando in pezzi Nessuno dei parametri validi nel Novecento funziona più
di Roberto Esposito
L’autore è professore di Filosofia teoretica alla Scuola Normale Superiore di Pisa

PERCHÉ facciamo così fatica a capire quel che sta accadendo? Forse perché i fatti di queste settimane, dalla Brexit alla Turchia fino al terrore di Nizza e a quello, recentissimo, in Germania, così diversi tra loro, nella portata, negli effetti e nelle cause, hanno un punto in comune: “i fatti” di queste settimane non sono più quelli di una volta. L’idea stessa di “fatto” o di avvenimento è tale perché riusciamo ad inserirla in una cornice di pensiero più o meno consolidata.
Ora quella cornice che ha retto la seconda parte del Novecento non c’è più. L’Inghilterra che ha salvato l’Europa decide di lasciarla, possiamo assistere in Turchia a quello che è stato un golpe democratico contro una democrazia autoritaria, possiamo vedere dei terroristi che non hanno più un rapporto forte con un’ideologia, folle e totalitaria, ma la prendono a prestito, in leasing, per poche settimane, mettendo in gioco il loro corpo, la loro vita.
Ad essere più sotto attacco è quello che abbiamo chiamato a lungo “vecchio mondo” — Europa e Medio Oriente, da Lisbona ad Ankara, passando per Parigi e per Londra. Certo, anche in America il nuovo potrebbe presto annunciarsi con il profilo, non proprio rassicurante, di Trump. Ma finora i sussulti che la scuotono sembrano venire da lontano, dalle viscere del secolo scorso. Dall’Alabama a Dallas, in una storia che ha visto alternarsi Ku-Klux-Klan e Black Panthers, segregazione razziale e Martin Luther King. Sono fantasmi di ritorno di un antico conflitto, apparentemente sopito, ma in realtà sempre strisciante sotto le ceneri dell’integrazione.
In Europa, invece, con la sua propaggine anatolica, il mutamento ha le sembianze di un vero cataclisma. A collassare, prima dei confini geopolitici, sono le categorie che hanno segnato in profondo l’intero orizzonte della modernità fino a ieri. Proviamo a mettere in fila gli eventi: Brexit, Nizza e Turchia sono le tre onde d’urto che, a distanza di qualche giorno, vanno sconquassando il paesaggio storico e mentale che abbiamo a lungo percepito come nostro.
Brexit. È vero che il Regno Unito non è mai stato il Paese più europeista. È vero che la sua opzione atlantica è antica quanto l’opposizione simbolica tra terra mare. È vero, insomma, che la Gran Bretagna non ha mai smesso di sentirsi Isola — fieramente autonoma rispetto al Continente. Ma è anche vero che il vascello che negli anni Quaranta del secolo scorso ha salvato l’Europa dai suoi demoni interni rompe gli ormeggi, salpando verso una destinazione ignota. Ignota per l’Europa, che perde un suo pezzo per molti versi insostituibile, insieme alla sua maggiore potenza militare. E ignota anche al suo equipaggio, che ancora guarda, smarrito, la terra da cui si stacca senza sapere a quale porto approdare.
Nizza. Certo, si è trattato dell’ultimo colpo di una deriva terroristica in atto da almeno quindici anni. Ma anche di un salto di qualità nella furia distruttiva che lascia senza parole. Non solo per la ferocia ottusa del terrorista, ma anche per l’anomalia della sua figura. Inassimilabile sia a quella, ormai scomparsa, del partigiano, sia a quella del soldato della fede. Diversa da l’una e dall’altra, la sua sagoma si perde nell’insensatezza assoluta della morte per la morte. Se si pensa che l’attentatore ha fatto un numero di vittime pari a quelle prodotte dal gruppo di fuoco organizzato al Bataclan con un camion noleggiato per poche centinaia di euro, lo scarto appare netto. L’escalation nichilistica senza paragoni. Tale da rendere ancora più spettrale il panorama che abbiamo di fronte e più indistinto il nemico da combattere.
Infine la Turchia. Nel golpe dell’altra notte — vero o falso che sia: le due cose nella società dei nuovi media si accostano sempre più — va in frantumi una categoria alla quale, almeno in Occidente, eravamo particolarmente affezionati — quella di democrazia liberale. Dobbiamo abituarci a pensare che questi due termini non vanno necessariamente insieme. Che può esistere, a est del Bosforo, una democrazia illiberale e anzi decisamente autoritaria. Non troppo diversa, del resto, da quella russa con cui da tempo è in concorrenza nella stessa area. Dobbiamo constatare che una tale democrazia può inglobare, funzionalizzandolo al potere del suo capo, perfino un putsch militare. Il quale anche, del resto, si è richiamato alla democrazia. Come democratici sono presentati dai seguaci di Erdogan i mezzi repressivi impiegati in queste ore alla luce del sole e nel buio dei sotterranei.
Ce n’è abbastanza per dire che un intero universo concettuale sta andando in pezzi. Nessuno dei parametri validi fino al secondo Novecento funziona più nella globalizzazione e nella politica della vita e della morte. Dove i corpi umani sono usati come bombe esplosive e il web appare l’unico spazio praticabile del confronto pubblico. Tutto ciò non può non allarmare. Ma, se vogliamo rispondere efficacemente alla sfida in atto, dobbiamo attrezzarci a modificare rapidamente il modo di rapportarci al nostro tempo — di affrontare le sue minacce e di adoperare le sue risorse.
La Stampa 20.7.16
Nedim Gursel
«Questi sono i metodi sovietici»
di Paolo Levi

«Se lo Stato di diritto non verrà rispettato, se i processi verranno controllati dal governo allora potremmo paragonare l’attuale situazione in Turchia alle purghe staliniane». Nedim Gursel è uno dei massimi scrittori turchi contemporanei, insieme con Orhan Pamuk e Yasar Kemal. Fuggito dal suo Paese dopo il colpo di Stato del 1980 si è trasferito a Parigi per insegnare letteratura turca alla Sorbona. Il suo ultimo libro, «L’angelo Rosso», è stato pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie.
Gursel, cosa accade in Turchia?
«Oggi nel mio Paese non c’è più una chiara separazione dei poteri, esecutivo, legislativo, giudiziario. Continuo a sperare che tutti i processi possano avvenire nel quadro della legge ma sinceramente ho poca fiducia in questa giustizia che sembra direttamente rispondere alle volontà del presidente Erdogan. In questo quadro non possiamo più parlare di stato di diritto e democrazia».
Tornerà in Turchia?
«Avevo già il biglietto per l’estate, tutto annullato, vediamo come evolve la situazione. Sono molto preoccupato».
Era per il colpo di Stato?
«Macché, il fallimento del golpe è un bene. E glielo dice uno che gli ha vissuti tutti, dal 1961, all’epoca avevo nove anni, sono sempre stato contrario, a pensarci bene tutta la mia vita è stata segnata dall’amarezza di una sorta di colpo di stato permanente, pensavo fosse finita e invece no, hanno tentato ancora. Ma quello che accade oggi è orribile. Erdogan esce più che rafforzato da questa situazione per lui ideale: ora potrà realizzare il suo grande sogno di un sistema presidenziale e un parlamento su misura».
È giusto parlare di purghe?
«Trovo che questa parola descriva benissimo la situazione drammatica in cui si trova il mio Paese. Dopo l’esercito è il turno dei magistrati, incluso della corte costituzionale».
E gli universitari?
«Se le prenderà anche con loro. Non mi sorprende ed è gravissimo. Dopo il colpo di Stato il governo può usare argomenti fortissimi per eliminare tutti gli oppositori».
Hanno chiesto l’allontanamento di centinaia di Imam legati a Fetullah Gulem.
«E pensare che quei due erano alleati, camminavano mano nella mano. Erdogan parlando di Gulen una volta disse: “Gli abbiamo dato tutto quello che ci ha chiesto”. Dopo c’è stata una lotta per la condivisione della torta e ora sono diventati fratelli nemici. Insomma, assistiamo a una sorta di guerra degli Imam, e quel 30% come me che sogna una turchia laica, europea, democratica, stiamo a guardare».
L’Europa ha sbagliato a bloccare i negoziati della Turchia?
«Sono sempre stato un fervente sostenitore dell’adesione all’Ue, purtroppo Sarkozy ha pronunciato un discorso che ha offeso i turchi e anche la Turchia non ha fatto le riforme necessarie. Che peccato».
La Stampa 20.7.16
La deriva autoritaria del leader
di Mimmo Càndito

Il vento della vendetta sta spazzando le scuole della Turchia, riportandola a un tempo arcaico assai lontano dai secoli illuminati della Sublime Porta.
Via, tutti via. Via i rettori, via i presidi, via i decani. Prima erano stati i generali, a pagare, i soldati, i servizi segreti, anche i giudici, ora va via anche la testa pensante della Turchia, lasciando intendere che Erdogan vuole avere piano controllo del pensiero, della libertà del giudizio, dell’autonomia della intelligenza. Via, fuori dalla scuola, fuori dalle università, fuori da centri di ricerca. Ogni regime autoritario vuole creare «l’uomo nuovo», tende a rimodellare con il suo afflato la mente, il cervello, il pensiero, dei cittadini.
Ma Erdogan è a tutt’oggi il capo di Stato eletto con libere elezioni, con un Parlamento e un sistema giudiziario che ne dovrebbero bilanciare il potere, e una struttura politica che punta credibilmente a essere accolta nel corpo istituzionale della Unione Europea. Ora la replica a quanto sta avvenendo in Turchia spetta alle capitali europee.
Titolari di storie che hanno costruito nei secoli la tutela della libertà della ricerca intellettuale come elemento fondante di una comune, irrinunciabile, identità.
L’editto sulle epurazioni di massa è stato emesso dallo Yok, Consiglio per l’Alta Educazione, che guida e sovrintende le università turche. Formalmente, lo Yok chiede le dimissioni di tutti i 1577 docenti che hanno la responsabilità scientifica degli atenei di Ankara, Istanbul, Smirne, Antalya, di ogni parte della Turchia, dall’Anatolia fin giù alle terre dell’Asia Minore. La richiesta di dimissioni cela il progetto di una purga totale, rafforzata dal licenziamento immediato di 15.200 funzionari della pubblica istruzione e di 21 mila docenti di scuole private. E poi vengono chiuse radio e stazioni televisive, vengono sbattuti in galera i giornalisti, licenziati in tronco cronisti e opinionisti. Quando, cento anni fa, Kemal Atatürk prese il potere, e lo esercitò con la mano autoritaria di un militare che si fa politico, i suoi editti puntarono a cancellare l’egemonia della storia religiosa del suo Paese ma ne rispettarono e ne tutelarono la storia intellettuale: abolì il fez come simbolo di una identità da cancellare e troncò l’integrazione tra potere politico e potere religioso, cancellò anche la vecchia scrittura araba e la sostituì con le lettere dell’alfabeto latino però mai arrivò a purgare le teste pensanti della scuola della nuova Turchia che abbandonava l’eredità dell’Impero Ottomano. Cambiarono certamente i testi scolastici ma l’apporto delle intelligenze fu richiesto e conservato sia pur all’interno di un disegno di rifondazione della identità nazionale. Erdogan, che pure ordina ai suoi cameramen di riprenderlo con alle spalle una enorme gigantografia severa di Atatürk, avanza sprezzante di ogni identità e si spinge in un territorio dove la devastazione delle coscienze pare essere l’unico obiettivo che lo interessi. E non per fedeltà a una utopia che realizzi una società nuova ma per consolidare il potere.
La Stampa 20.7.16
Disprezzo della modernità e ideologia della morte, questo è islamofascismo
di Massimiliano Panarari

Islamofascismo. È davvero giunto il momento di impiegare questa parola. Senza reticenze, e a ragion veduta perché, alla luce dell’azione e della visione dell’Isis, non si tratta più di un’intuizione o di un’etichetta impressionistica, ma di una categoria dotata di validità «gnoseologica» e in linea con la metodologia delle scienze sociali che si pongono l’obiettivo di precisare la natura dei fenomeni, cogliendone analogie e differenze.
E, giustappunto, nel caso dell’ideologia dell’Isis (e, più in generale, dell’arcipelago in franchising che si richiama al suo «marchio») le similarità con i dispositivi simbolici del nazifascismo si rivelano estremamente numerose. A partire dal rigetto totale della modernità in termini di valori (l’avversione per i principi dell’Illuminismo e per l’Occidente tollerante e pluralistico), mentre se ne utilizzano i risultati tecnologici (dai media per la propaganda al dark web per i traffici criminali). Precisamente quel mix di tecnica e dottrina che si richiamava all’eternità della Tradizione praticato dal «modernismo reazionario», brodo di coltura, nella Germania di inizio Novecento, del nazionalsocialismo.
Molti degli elementi del jihadismo dell’Isis paiono provenire direttamente dal cuore di tenebra del Secolo breve, nero come il cromatismo politico di cui si fregiavano allora i nazifascisti e ora gli islamisti (e, del resto, sono storia le relazioni tra vari settori dell’Islam radicale e il regime hitleriano cementati dall’antisemitismo e dal nazionalismo).
Il Califfato che cerca di espandere i propri confini mobili applica di fatto la dottrina geopolitica - sviluppata dalla destra estrema tedesca, e presente anche nel fascismo italiano - del Lebensraum (lo «spazio vitale»). L’islamofascismo (che si fa islamo-totalitarismo rispetto alle condizioni di vita imposte nei territori soggiogati) si fonda in ultima istanza sull’ideologia della morte (al centro dei discorsi di Al Baghdadi) e sul nichilismo, ed esalta il martirio con parole in cui si avvertono gli echi dell’apologia della «bella morte» e di quell’estetizzazione della violenza che erano state elaborate dalla cultura fiancheggiatrice del fascismo. La glorificazione del gesto individuale che semina la morte tra gli occidentali è intrisa di quel vitalismo irrazionalistico che costituiva uno dei pilastri della Weltanschauung nazifascista, dove la comunità organicista si ricomponeva nell’odio per il diverso, da sterminare. Innanzitutto, in nome di una concezione biopolitica nella quale l’adesione a un’interpretazione oscurantista e disumana della religione musulmana prende il posto dell’unità della «razza», contemplando, come nel nazifascismo, il controllo totale del corpo (ovvero il potere di vita o di morte) di chi viene sottomesso. E il medesimo disprezzo nei riguardi della cosiddetta «arte degenerata» portava ieri le camicie nere a fare i roghi di quadri e libri, e oggi i jihadisti a trapanare statue e a far saltare per aria vestigia archeologiche.
Tutto questo è, esattamente, islamofascismo.
Corriere 20.7.16
Il doppio volto del terrore
di Stefano Montefiori

In coda all’aeroporto o seduti in metropolitana, per gioco macabro o vera ansia, molti si saranno chiesti almeno una volta: chi ha il volto dell’attentatore? Chi potrebbe farsi esplodere, o tirare fuori un coltello? Il pregiudizio indurrebbe a fissare lo sguardo sul devoto in djellaba e barba sul mento, segni visibili di lunga e convinta appartenenza religiosa islamica. Ma sul treno in Germania a colpire è un 17enne autoradicalizzato di recente, e a Nizza il tir lo ha guidato «il George Clooney del quartiere», come i vicini chiamavano l’assassino: sorriso da attore, fisico scolpito in palestra, dedito all’alcol, al sesso con uomini e donne, mai andato in moschea. Sull’orlo della follia, ma reclutato in extremis da uno jihadista algerino dell’Isis. Terrorista islamico, quindi, anche lui.
Gli orrori di questi giorni mostrano che esiste il terrorismo dell’Isis, ma non un unico profilo religioso, etnico, culturale, e poi operativo dei suoi adepti. La minaccia quindi è ancora più grave. Per affrontarla, due posizioni — ugualmente ideologiche — si sono ormai cristallizzate da anni: un campo tende a sminuire il ruolo dell’Islam, connotato in modo sbrigativo come «religione di pace»; l’altro individua nel Corano i germi di una inevitabile violenza, e accusa di cecità e sottomissione chiunque provi a distinguere tra musulmani e fondamentalisti predestinati al terrorismo. «Benpensanti» contro «islamofobi», secondo il lessico delle accuse reciproche.
G li eventi sembrano dimostrare che entrambe le griglie non funzionano. Se l’obiettivo è capire il rapporto tra religione islamica e radicalismo islamista, bisogna provare a mettere insieme i fatti, senza processi alle intenzioni. La storia personale di Mohamed Bouhlel, l’attentatore di Nizza, è importante e va raccontata non perché qualcuno potrebbe usarla per assolvere l’Islam incolpando la malattia mentale (poveri malati mentali, tra l’altro), ma perché mostra chi sono i nemici che abbiamo di fronte.
L’Isis si avvale — lo ha sempre fatto ma adesso appare più chiaro — di chiunque sia utile ai suoi scopi. Esseri umani lucidi e determinati, così come personalità disturbate e ingestibili. Ubriaconi e delinquenti, magari rapper amanti della musica tanto odiata dai predicatori salafiti, così come fedeli ligi ai precetti delle cinque preghiere e del Ramadan. E bisessuali, che l’organizzazione accoglie come suoi «soldati» a Orlando e Nizza con solennità postuma mentre a Raqqa, capitale del Califfato, verrebbero fatti volare giù da un palazzo per punizione.
È terrorismo islamico quello del 13 novembre a Parigi: un’azione coordinata e complessa, ideata in Siria e portata a termine da combattenti addestrati. Ed è terrorismo islamico pure quello del 14 luglio, un camion di 19 tonnellate che piomba sul lungomare di Nizza. Il fatto che l’attentatore fosse un 31enne con problemi psichici che si è radicalizzato — o meglio convertito — all’improvviso non toglie nulla al carattere terroristico, ideologico e politico del suo gesto: ha compiuto un’azione invocata già dal settembre 2014, e rivendicata adesso, dallo Stato islamico.
Mohamed Bouhlel può non essere mai andato in moschea in vita sua, ma l’Isis è stato comunque in grado di orientare la sua conversione e dargli la copertura morale per la carneficina della Promenade des Anglais. E non importa se sia «artigianale», dipinta a mano, la bandiera dello Stato islamico trovata a casa del ragazzo afghano autore due sere fa dell’assalto sul treno in Germania. Quel simbolo gli ha fornito comunque la forza per calare l’accetta sui passeggeri.
Il punto è che la propaganda dell’Isis è efficace quale che sia il percorso religioso e culturale dei suoi seguaci. Anzi, prolifera soprattutto tra quanti, nelle giovani generazioni, hanno abbandonato l’Islam dei padri. L’Isis arriva a colmare un vuoto, e fa presa persino su tanti europei che si sono formati lontano dall’Islam. I famosi convertiti rappresenterebbero circa il 20 per cento dei combattenti stranieri nel Califfato. Tra loro c’è Maxime Hauchard, un ragazzo dai lineamenti delicati e gli occhi azzurri, nato e cresciuto non nelle «banlieue degradate», come si è soliti dire, ma in una famiglia cattolica del piccolo villaggio di Bosc Roger en Roumois, tra le mucche e i cavalli della Normandia, e finito poi a tagliare teste in Siria con il nome di Al Faransi («il francese»).
Certe volte i predicatori islamici preparano il terreno per il passaggio alla jihad. Più spesso la stessa religione — l’Islam — serve da argine, riesce a trattenere giovani che altrimenti sarebbero tentati dall’Isis come da una setta. Per questo lo Stato islamico tende a disprezzare i musulmani che continuano a vivere in Europa (nella terra dei «miscredenti»): spesso sono di cultura islamica ma ormai secolarizzati, quindi — nell’ottica del Califfato — vicini all’apostasia meritevole della morte. Oppure, se religiosi praticanti, i musulmani europei restano in maggioranza fedeli a un Islam tradizionale che non ha la portata rivoluzionaria auspicata dallo Stato islamico. L’Isis sospetta i musulmani europei di connivenza con il nemico, teorizza che siano vittime collaterali sacrificabili, e a Nizza lo ha messo in pratica.
Attribuire al terrorismo islamico gli attentati compiuti da individui con scarsi legami organici con l’Isis non significa essere «islamofobi». Segnalare il rapporto spesso conflittuale tra religione islamica e radicalismo islamista non è una tesi da «benpensanti» che non vogliono aprire gli occhi. Le due realtà convivono. Lo dimostra l’attentato del 14 luglio a Nizza: sulle 84 vittime del terrorismo islamico dell’Isis, oltre trenta sono musulmane .
La Stampa 20.7.16
L’identità comune di lupi solitari e assassini feroci
di Gavriel Levi

Due notizie, come prima impressione, slegate.
A Roma un giovane viene condannato per aver indotto, lentamente, la sua compagna al suicidio. Maltrattandola ed assuefacendola ad avere disprezzo di sé. A Nizza un giovane, ispirandosi alla ideologia del terrorismo, uccide almeno 84 persone. Comunque, sapendo e ignorando di trovare la propria morte.
I commenti psicoanalitici, psicologici e psichiatrici convergono. Nel primo caso: personalità dominanti e manipolatrici scaricano le loro problematiche su personalità dipendenti e pronte al collasso. Dentro queste relazioni, il suicidio diventa l’unica soluzione, quando l’omicidio per difesa non è pensabile. Ma esiste un induttore. Nel secondo caso: personalità marginali che già vivono ai confini del loro stesso mondo, vengono raccolte da un messaggio fortissimo. Trovando una identificazione magnetica, nel Paradiso, di una doppia morte omicida e suicida. Ma esiste un mandante.
Sono due situazioni umane lontanissime fra di loro. Una sembra del tutto privata. L’altra irrompe subito come pubblica. Ma sono ambedue testimonianze della nostra attualità. Una realtà di nuove solitudini dentro una rete di immagini globalizzate. Ma l’inevitabile selfie è fatto per guardarsi, tante volte, da soli. Forse possiamo pensare ad un punto di contatto, dove scatta un corto circuito in qualche modo similare.
La contrapposizione tra omicidio e suicidio non è sempre vera; qualche volta è assoluta; qualche volta è oggettivamente confusa; molto spesso esiste una saldatura profonda tra spinta omicida e spinta suicida. Nell’omicida esiste una qualche consapevolezza suicida. Nel suicida esiste anche una fantasia omicida. Ognuno di noi è legato alla propria ombra. Ognuno di noi cerca di mettere l’immagine di sé nell’altro. Ma per riuscirci dovrebbe anche assumere le emozioni dell’altro dentro di sé.
Con una antica scena paradigmatica: lo scontro fra Caino ed Abele racconta, anche, questa storia. Caino ed Abele oltre che fratelli sono anche la stessa persona. Abele dalla nascita è in attesa della propria morte. Con il suo stesso nome che vuol dire soffio o vuotezza. In qualche modo provoca Caino imitandolo e determinando così la sua perdita di esclusività, la sua esclusione e la sua implosione. Caino sente di non essere una vera persona, perché sente di aver perso la capacità di donare e di scambiare doni. Nel momento in cui cerca di superare la propria umiliazione, uccide il suo Doppio e, diventando il primo omicida, sa di fuggire verso la propria morte.
Credo che queste considerazioni debbano essere ripensate, per avere un risvolto pratico, educativo e preventivo.
Le proposte di intervento politico nelle diverse aree e dimensioni conservano la loro necessaria validità. Ma debbono essere inserite in una strategia culturale adeguata ed innovativa. Dobbiamo iniziare prendendo atto che da quasi un quarto di secolo stiamo assistendo a due fenomeni: l’aumento degli omicidi/suicidi nel privato; l’esplosione di un nuovo spettacolare suicidio/omicidio ideologico. Ambedue i fenomeni hanno una nuovissima capacità di contagio reciproco, che dobbiamo considerare con maggiore attenzione. Ambedue i fenomeni trovano la loro forza in un selfie immaginario e globalizzato. Ma pur sempre anestetizzante e solitario.
Ci sono altre due differenze fra questi nuovi suicidi e quelli delle persone melanconiche. Primo: il dolore. I suicidi/omicidi non hanno alcuna consapevolezza del dolore altrui perché non hanno una vera consapevolezza del proprio dolore. Secondo: il rispetto. I suicidi/omicidi non hanno alcun rispetto della vita altrui perché non hanno alcun rispetto della vita propria. In particolare: il suicida spettacolare non ha rispetto perché vive soltanto nella propria ombra. E cerca un sole accecante e mortale.
Abbiamo individuato due diversi tipi di omicida/suicida. Il lupo solitario spettacolare che accetta di suicidarsi per poter uccidere qualcuno che non conosce. Il borderline implosivo che per potersi suicidare pretende di portare con sé qualcuno che crede di conoscere.
Esaminarli uno di fronte all’altro può aiutarci a capire come una rappresentazione ideale, e/o l’assoluta non rappresentazione della morte, possono nell’attualità favorire in alcune persone una fuga distruttiva da una vita vuota. Dobbiamo imparare a lavorare su questi temi. Il buio non è al di là della siepe. Il buio è dentro la siepe.
Professore Emerito,Università La Sapienza di Roma
Repubblica 20.7.16
Il sangue degli indifesi
di Esmahan Aykol
Per le strade di Istanbul c’è più gente, ma la situazione non si è ancora normalizzata. Oggi ho preso il bus. Mentre mi avvicinavo alla fermata ho sentito delle grida. Mi sono fermata: un giovane veniva sgridato da un robusto autista. Il ragazzo guardava davanti a sé in silenzio mentre l’autista alzava sempre più la voce fino a quando non lo ha colpito sul viso. Il giovane era impietrito. Una scena che ha subito risvegliato in me le immagini dei soldati picchiati a morte venerdì. Subito dopo un altro autista più robusto si è avvicinato a picchiare il ragazzo. E solo dopo ha chiesto cosa fosse successo. La risposta è stata «Ha protestato». Il secondo autista ha perso le staffe. «Sai chi siamo noi? Sai chi c’era in strada l’altra sera? Noi! Noi». Urlavano sempre più forte. Poi l’autista più grasso ha preso un tirapugni: io l’ho visto, il giovane no. Ho cominciato a urlare: «Scappa!». Mi ha guardato con occhi vuoti per un secondo. Io continuavo a urlare: «Corri!» A quel punto ha cominciato a correre. Un proverbio turco recita: «Il dente del lupo ha assaggiato il sangue». Vuol dire che è impossibile fermare un lupo che ha conosciuto il sapore del sangue.
Repubblica 20.7.16
L’Islam senza Lumi
risponde Corrado Augias

GENTILE Augias, lei ha scritto di recente sul “blocco culturale” che indubbiamente, quanto meno dal 16° o 17° secolo, ha fermato il mondo islamico e la sua pur avanzata civiltà su posizioni “integraliste”. Anche i popoli europei “Per molto tempo...hanno impugnato le armi e ucciso al grido Dio lo vuole”. Ma, lei ha aggiunto: “Poi è successo da noi qualcosa che ha spento quel grido blasfemo”. Forse qui è il nodo cruciale, la mancanza nella cultura islamica di un movimento laico, fondato sull’uomo che nella ragione può trovare le risposte alle grandi domande che lo sovrastano, un movimento che invece “da noi è successo” e che chiamiamo Illuminismo. Ma questa constatazione apre ad un’altra domanda: perché il mondo islamico non ha ancora avvertito e maturato una spinta laica che ponga al centro gli esseri umani senza intermediari trascendenti?
Giorgio Castriota — castriota.giorgio@gmail.com
ALLA domanda finale della lettera si risponde in genere con ipotesi che tirano in ballo l’organizzazione tribale di quel mondo ovvero la mancanza di uno Stato centrale, la persistenza di un’economia largamente agro-pastorale che ha impedito quel potente motore di sviluppo che è stata la rivoluzione industriale (poi è arrivato il petrolio che non ha certo aiutato). Oltre a questa frammentazione arcaica, un’organizzazione fortemente gerarchica con conseguente assenza di una significativa rete sociale di base. Per il mondo occidentale invece, l’esempio dal quale generalmente si parte è la civiltà comunale sviluppatasi largamente in Europa fin dall’alto Medio Evo. In Italia i Comuni erano soggetti all’autorità suprema dell’imperatore che però cominciò presto ad essere contestata come sancisce l’antico brocardo: “Rex in regno suo est imperator”. I comuni portarono all’affermazione sociale di nuovi ceti e alla nascita di nuove esperienze di governo. A partire dalla fine del XVIII secolo, insieme alla civiltà del Lumi, intervenne la rivoluzione industriale con tutto ciò che ha comportato nello sviluppo politico e sociale; una fase durata un paio di secoli (da poco ne stiamo uscendo) dalla quale il nostro mondo è stato radicalmente trasformato nel bene e nel male. Cenni sommari ovviamente, esistono intere biblioteche sull’argomento; nella loro sommarietà però aiutano a capire perché nel mondo musulmano il peso della religione sia rimasto quello che fino a cinque o sei secoli fa è stato anche qui. Il signor Marco Conti (marco.conti. to@gmail.com) mi scrive dissentendo da quanto da me scritto: «Dovremmo essere sufficientemente informati e ragionevoli, tenere a mente che qualche migliaio di individui che compiono crimini contro l’umanità non devono essere confusi con il miliardo e mezzo circa di musulmani che professano la loro fede senza alcun tipo di manifestazione terroristica». Infatti solo alcuni fanatici omologhi dei fanatici musulmani confondono l’intero mondo musulmano con le sue frange terroristiche. Il tema ha una diversa sottigliezza storica: persiste in quella parte del mondo un’identità culturale che consente ad alcuni esaltati di sfruttare il pretesto religioso per soddisfare i loro incubi — quali che siano. Da noi questo non è più possibile.
Repubblica 20.7.16
L’ultimo schiaffo del Cairo “No a estradizioni e tabulati”
L’Egitto definisce “incostituzionali” le richieste delle autorità italiane che indagano sulla morte del ricercatore: “L’ennesimo depistaggio”
di Giuliano Foschini

Questa volta la mossa è doppia: un depistaggio, con una falsa richiesta di estradizione da parte dell’Italia. E il rifiuto di consegnare tabulati telefonici e immagini delle telecamere, a conferma che il paese di Al Sisi non ha alcuna intenzione di collaborare con la procura di Roma. L’Egitto torna a parlare del caso Regeni e lo fa in maniera ufficiale: ieri il deputato Tarek al Kholi, segretario della commissione Esteri della Camera egiziana, ha chiuso tutte le porte alla collaborazione con le autorità giudiziarie italiane, definendo «incostituzionali » le richieste avanzate dalla procura di Roma nell’ambito del fascicolo sul ricercatore italiano ucciso al Cario. Al Kholi non parlava a titolo personale ma al termine «della riunione della commissione parlamentare trilaterale egiziana (Esteri, Difesa e Diritti umani) con i rappresentanti del ministero dell’Interno, della Giustizia e della Sicurezza nazionale ». In un comunicato, Al Kholi ha detto che i rappresentanti dei ministeri «hanno informato le tre commissioni del loro rapporto con gli investigatori italiani e della loro piena collaborazione con la parte italiana», spiegando però che «la riunione ha svelato quelle che sono le vere richieste italiane: i tabulati telefonici, l’estradizione di tre persone e l’acquisizione delle immagini di alcune telecamere a circuito chiuso». Tre richieste, secondo al Kholi, che non possono però essere esaudite: «Le tre commissioni - ha scritto nella nota - hanno confermato il rifiuto delle autorità egiziane a rispondere alle domande italiane, in quanto ciò è vietato dalla Costituzione ». Ma è proprio attorno a queste parole che nasce il giallo. Perché, se i tabulati e le immagini delle telecamere facevano parte delle richieste italiane, mai da Roma hanno chiesto l’estradizione di alcuno. Da dove nasce quindi questa dichiarazione? «Probabilmente si tratta dell’ennesimo depistaggio politico come ce ne sono stati tanti dall’inizio di questa inchiesta» spiega una fonte vicina alle indagini. Che non è affatto sorpresa del diniego dei tabulati. Mentre infatti le autorità egiziane hanno inviato senza troppi problemi i primi registri telefonici, stanno facendo grossa resistenza su quelli che potrebbero svelare il grande falso: la messinscena della Polizia con l’assassinio di cinque pregiudicati locali accusati di aver sequestrato e ucciso Giulio. E a casa dei quali sono stati trovati poi i documenti dell’italiano. È proprio su quel passaporto che l’Egitto rischia tutto: chi li ha portati a casa dei banditi? La Polizia come ha raccontato la moglie di uno di loro?
Non a caso né sulle dichiarazioni dei parenti dei cinque né sull’anonimo giunto all’ambasciata di Berna di cui ha dato conto Repubblica nelle scorse settimane, gli egiziani hanno intenzione di offrire alcuna risposta agli investigatori italiani. Che non si arrendono e cercano altre strade per arrivare alla verità. Purtroppo però, nonostante la collaborazione dell’Fbi e delle autorità americane, non sono arrivate buone risposte dagli Stati uniti ai quali avevano chiesto aiuto per individuare chi, un mese dopo l’omicidio di Regeni, aveva avuto accesso al suo account Gmail. Il dato indicava un ingresso da un dispositivo mobile in Egitto ma, stranamente, non è possibile risalire all’esatta collocazione. O almeno fino al momento non si è riusciti arrivare a una reale codifica.
Accanto alla vicenda giudiziaria c’è poi quella politica: alcune associazioni di imprese che lavorano in Egitto hanno chiesto al nostro paese di raffreddare la crisi e inviare l’ambasciatore. Che, almeno per il momento, resta però a Roma.
Repubblica 20.7.16
Scaduti i divieti tutela-turisti
Tornano i centurioni ultima beffa a Roma
La categoria si difende: “Siamo pronti anche a pagare le tasse e metterci in regola”
Si rivedono anche ambulanti abusivi e risciò che sfrecciano sui sampietrini
di Valentina Lupia Laura Serloni

ROMA RISPOLVERATI gli elmi e lucidate le armature, infilati i calzari e riavvolte le spade di plastica nel Cuki, il rotolo di alluminio: i (finti) centurioni sono tornati al Colosseo. Operativi con daga sguainata a procacciarsi l’attenzione dei turisti per una foto-ricordo da cinque euro a persona, che salgono a trenta se si è in gruppo. L’ordinanza, che vietava a questa legione in versione “ ancient Rome” di piazzarsi sotto il Colosseo, è scaduta venti giorni fa.
IL DIVIETO, firmato dal commissario Francesco Paolo Tronca, il 30 giugno è arrivato al capolinea poco dopo la fine del suo mandato. Ed ecco che il suk al Colosseo è tornato agli antichi fasti tra centurioni, urtisti e risciò, i velocipedi elettrici abusivi che sfrecciano fieri sui sampietrini del rettifilo del Ventennio.
Il vuoto normativo è stato riempito a suon di ordinanze, anche la sindaca Virginia Raggi ha promesso il rinnovo dei provvedimenti e nella prima seduta della giunta comunale ha approvato due delibere per fermare l’invasione dei figuranti. La grillina, in extremis, assicura che le ordinanze saranno firmate già oggi. Sono le stesse dell’era Tronca che prevedevano multe da 400 euro e il sequestro di tutta l’attrezzatura. Nell’attesa, però, la caccia al turista è ripartita in ogni angolo dell’ansa barocca dal Vittoriano alla fontana di Trevi. «Come one, just one picture», ripete Luca Sonnino in un inglese un po’ sgangherato. «Siamo padri di famiglia — continua il collega Franco Sforza, centurione per necessità più che per passione — in questi sette mesi d’ordinanza qualcuno di noi è andato a chiedere l’elemosina per strada. A giorni conosceremo il nostro destino, ma speriamo che la Raggi capisca che anche noi abbiamo una famiglia da mantenere». Sono pronti a tutto, anche a pagare le tasse e a essere regolarizzati in un apposito albo, proposta reiterata più volte negli ultimi due lustri ma sempre naufragata tra le proteste. «Siamo socialmente utili — si difendono — abbiamo aiutato la polizia ad acciuffare un ladro, un’altra volta abbiamo bloccato un arabo col coltello. Vogliamo dare una mano anche nel controllo dei turisti, per garantire la loro sicurezza e incolumità ».
Li riconosci da lontano con quella cresta posticcia sull’elmo. Si dividono le aree più redditizie della città e il Colosseo è il più ambito dal business dei centurioni. Fino a che la crisi non colpì anche questa categoria arrivavano a guadagnare fino a duemila euro al mese, esentasse. «In una giornata ora facciamo 40-50 euro — precisa Sonnino mentre fa ruotare il rosso mantello intorno al collo — l’offerta è libera, a volte i turisti danno anche solo un euro, altre 5. Non siamo mica come i risciò che hanno un listino vero e proprio. Quando si parla di degrado e di decoro noi non vogliamo essere accostati a loro, perché noi siamo un’attrazione». Anche i risciò sono tornati, erano stati banditi dalla stessa ordinanza dei centurioni. E tra sei mesi sono pronti a rientrare nell’area archeologica i camion bar, rimasti affastellati per anni davanti all’Anfiteatro Flavio, poi emarginati sul lungotevere. Il tavolo tecnico sul decoro di Roma, fortemente voluto dall’ex assessore della giunta Marino, Marta Leonori, riuscì li dove tutti fallirono: cacciò i 22 ambulanti su quattro ruote dall’area archeologica. Restarono quelli al Circo Massimo e alla Bocca della Verità, gli altri vennero spazzati via. Non per sempre però. La dislocazione è temporanea, dura 18 mesi e terminerà il 10 gennaio 2017. I camion bar, capitanati da Alfiero Tredicine, il presidente di Apre Confesercenti si sono già lanciati all’arrembaggio del centro storico: «Siamo pronti a trasformare i furgoni in chioschi stile ottocento o in apette vintage. Possiamo vendere a prezzi calmierati alcuni prodotti, ma ridateci le 7 postazioni nella zona rossa». Tradotto: vogliono tornare a piazza Venezia, Fori Imperiali e Colosseo.
La vera sfida si aprirà il prossimo luglio quando scadranno le concessioni degli oltre 12mila ambulanti romani. A quel punto non resterà che applicare la direttiva Bolkestein: tutte le licenze dovranno essere messe a bando, ma il punteggio d’anzianità (molto) alto rischia di assegnarle ai soliti noti.

Corriere 20.7.16
con la riforma istituzionale meno potere ai cittadini
di Giuseppe Gargani

Caro Direttore, l e perplessità sulla riforma costituzionale oggetto del referendum sulle modalità di votazione, sulla difficoltà di votare con un sì o un no a domande non omogenee, dipendono da due fattori. Primo: non si è proceduto ad una «modifica» costituzionale come l’art. 138 prescrive, ma si è scritta, e male, una nuova Costituzione senza un’idea guida, senza l'indicazione di un modello istituzionale, e si sono modificate norme senza la necessaria coerenza e senza organicità. Di questo si rendono conto il giurista e l’uomo di buon senso. L’art. 138 non consente modifiche così ampie, altrimenti si sarebbe potuto cambiare tutta la Costituzione con un Parlamento pur sempre considerato illegittimo dalla Corte costituzionale. Secondo: nessuno dei sostenitori del «sì» ha spiegato il significato delle norme, la ragione delle modifiche, ma tutti, a cominciare dal presidente del Consiglio, non dicono una parola nel merito e ripetono che c’è esigenza di cambiamento, che con il «sì» si dà più potere ai cittadini. Quest’ultima motivazione ovviamente fa sorridere, perché se il cittadino non vota per il nuovo Senato, se non può dare la preferenza per le liste alla Camera dei deputati perché con il trucco dei capilista multipli viene ancor più offeso per la preferenza data inutilmente, come può avere più potere?! Resta dunque forte la perplessità per una «nuova Costituzione» scritta senza tensione culturale e sostenuta in maniera ossessiva dal governo. Queste le ragioni del rifiuto da parte dei cittadini. L’on Casini, insieme a Pera (illustre umanista ma non un giurista), sulle pagine del Corriere della Sera ha ripetuto le stesse ragioni generiche, aggiungendo che se vincessero i no «significherebbe che l’Italia si riconosce incapace di riformarsi, che si avvierebbe ad un inarrestabile declino»: affermazione apodittica e pretestuosa. Questa generica invocazione alimenta un populismo pericoloso: bisogna cambiare perché dopo tanti anni dobbiamo pur far qualcosa!
Ma Casini dice che «bisogna superare il bicameralismo perfetto» perché questa è la ragione principale della riforma. Ormai è noto a tutti che questo non è vero: non si elimina il bipolarismo, ma si crea un monocameralismo imperfetto, perché tante leggi possono essere discusse in tutte e due le Assemblee e inutilmente quando la Camera decidesse di non tener conto del lavoro del Senato. L’unica cosa certa è che il nuovo Senato non deve dare la fiducia al nuovo governo. E su questo va detta finalmente una parola chiara. Non è vero che in Assemblea costituente si trovò un compromesso, (per il significato che la parola ha), sull’assetto delle istituzioni repubblicane: si discusse a lungo e approfonditamente e si trovarono soluzioni condivise armoniche e organiche; l’unico compromesso vero vi fu per i problemi della magistratura dei quali parliamo da 50 anni ed inutilmente. I costituenti organizzarono un sistema democratico che si doveva reggere su due Camere elette con sistemi elettorali diversi, come è stato per il Senato, nel suo riferimento regionale, con classi di età diverse e con scadenze diverse. Un sistema così fatto non è un bicameralismo ripetitivo, ma corrisponde ad un assetto istituzionale complesso proprio di una Costituzione che deve garantire il pluralismo. La Costituzione doveva garantire la democrazia da improvvisi mutamenti ed è per questo che in dottrina sono definite «rigide» le norme che hanno finora garantito le prerogative democratiche e i diritti fondamentali.
Un’ultima annotazione: si dice spesso che i compromessi all’Assemblea costituente furono necessari perché da poco tempo era stato sconfitto il regime fascista ed era forte la preoccupazione che ci potesse essere un ritorno a forme non democratiche. Ebbene, questa preoccupazione era viva nei costituenti e deve essere sempre presente in noi, perché la democrazia non si conquista una volta per tutte ma si invera ogni giorno: in questo periodo deve essere più forte che in passato per la crisi della rappresentanza democratica che registriamo e per il vulnus che le democrazie stanno subendo nel mondo. Non si scherza con le istituzioni!
Presidente del Comitato popolare per il No al Referendum
La Stampa 20.7.16
“Sul reddito di cittadinanza una nuova lotta di classe”
La capogruppo Castelli: vogliamo tassare le lobby
di Ilario Lombardo

Complotti, tanta economia, pochi diritti civili e un mondo da sogno complicato da realizzare. Questa la radiografia del M5S firmata Alberto Mingardi e uscita sulla Stampa di ieri. Un lavoro basato sull’analisi dell’attività legislativa dei 5 Stelle in cui però la capogruppo alla Camera, Laura Castelli non si rispecchia
Partiamo dai diritti civili: poco più del 7% di media delle proposte di legge riguarda questi temi. Un po’ pochino...
«Non è così, tanto che le prime tre proposte di legge presentate dal M5S erano sui diritti civili. E tra queste ricordo il matrimonio egualitario».
Però di voi si ricorda il fatto che, nel giro di un pomeriggio avete fatto saltare la stepchild adoption in Senato.
«Il M5S ha una posizione chiara. E ci siamo sempre confrontati con le categorie. Se fosse come dice lei, perché allora all’ultimo Pride di Torino, dove eravamo presenti, nessuno si è lamentato?»
Non è che la trasversalità del Movimento a volte diventa opportunismo, e vi buttate a destra quando serve?
«I diritti civili per noi sono sempre stati una priorità. Però consideriamo un diritto civile anche il reddito di cittadinanza».
Per molti analisti, alle condizioni date, non è attuabile.
«E allora perché l’Ue ci ha dato ragione e ha detto che serve una misura contro la povertà?».
Perché non avete votato a favore delle misure contro la povertà introdotte dal governo Renzi?
«Ci siamo astenuti, perché non basta. Sono pochi i soldi e la platea di gente che ne può godere è troppo piccola. Certo, è un inizio ma la nostra proposta è più completa e credibile».
E le famose coperture per i 17 miliardi necessari secondo voi?
«Le coperture sono un argomento politico, cioè presuppongono una scelta politica forte. Vuol dire che le troviamo tassando le piattaforme petrolifere, combattendo il gioco d’azzardo e la speculazione finanziaria. Si tratta di decidere se dare i soldi alle lobby o ai cittadini. Siamo di fronte a una nuova lotta di classe».
L’impressione è che molte delle vostre proposte fanno poco i conti con la realtà.
«Sembrano irrealizzabili perché i politici non si rassegnano ad ampliare la forbice tra ricchi e poveri. E gli economisti che ci attaccano non hanno il dominio della verità. La nostra proposta sul reddito nasce dal confronto con chi lo ha già attuato».
E tutte le commissioni d’inchiesta proposte? È il complottismo la malattia infantile del M5S?
«Macché complottismo. Nascono dal fatto che in questo Parlamento non si parla con onestà intellettuale. Di Mps, Uranio impoverito, Tav. Esistono i fatti, ma non ce li fanno conoscere».
Quale sarebbe l’altra misura che prendereste se foste al governo, oltre al reddito di cittadinanza?
«Lotta alla corruzione. C’è una legge sul whistleblowing approvata alla Camera e ferma al Senato. Idem per la class action. Faremo una legge sul voto di scambio politico mafioso e per il daspo ai corrotti. Insomma, tutto quel che è contenuto nella nostra Carta dell’onestà».
il manifesto 20.7.16
Ansia e paura del futuro. Il disagio psichico nei centri di accoglienza
Migranti. Una ricerca di medici senza frontiere
di Flore Murard-Yovanovitch

ROMA Insieme ai traumi pregressi e alle violenze subite durante il viaggio, il disagio psichico dei migranti nasce anche nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) una volta “ospiti” di un sistema emergenziale. Il fenomeno del disagio mentale dei richiedenti asilo è gravemente sottovalutato, avverte Medici senza frontiere nel rapporto «Traumi ignorati» e frutto di una ricerca quali-quantitativa condotta nei Cas di Roma, Trapani e Milano e dei dati raccolti durante le consultazioni nei Cas di Ragusa dai team di Msf.
«Il 60% dei soggetti intervistati nell’ambito delle attività di supporto psicologico di Msf tra il 2014 e il 2015 presentava sintomi di disagio mentale connesso a eventi traumatici subìti prima o durante il percorso migratorio», spiega Silvia Mancini, esperta di salute pubblica per Msf e curatrice dello studio.
Sequestri, lavoro forzato, violenza sessuale, detenzione, tortura, come emergono ricorrenti dai colloqui, sono tutti fattori di rischio per la salute mentale. La probabilità di sviluppare disturbi psicopatologici è 3,7 volte superiore tra gli individui che hanno subito eventi traumatici rispetto a chi non ne ha subiti. Ma il dato che più fa riflettere è quell’87% dei pazienti che dichiara di soffrire per le difficoltà incontrate nel vivere nei centri. Dove isolamento, paura del futuro, vuoto occupazionale, attesa infinita dei documenti e i mesi trascorsi senza svolgere alcuna attività sono fenomeni aggravanti del disagio mentale. Tra i 199 pazienti presi in esame da Msf nella provincia di Ragusa, il 42,2% presentava infatti disturbi compatibili con il disordine da stress post traumatico (PTSD), seguito da un 27% affetto da disturbi dovuti all’ansia.
Una popolazione migrante, sempre più vulnerabile, che ha subito numerose violenze durante il viaggio, è ancora oggi oggetto di un’accoglienza ferma ai bisogni primari: materassi, pasti e Tv in strutture poco preparate a identificare un disagio psichico. Nei centri sono assenti le figure professionali specializzate nella psicologia dei traumi e capaci di fare fronte a ragazzi che presentano rabbia o fobie, così come sono assenti i mediatori culturali e specifici protocolli d’intesa tra Asl, opedali e questure per la presa in carico organica dei pazienti.
La patologia mentale viene diagnosticata solo quando si trova ormai in un fase acuta, con un eccessivo ricorso a Spdc, pronto soccorso e Tso. E questo anche in assenza di specifiche patologie psichiatriche, di fronte a disagi contingenti, nati magri da richieste rimaste inattese, o dal respingimento della domanda d’asilo. Occorre, chiede Msf, uscire dall’approccio emergenziale, rafforzare i servizi interni alle strutture e quelli esistenti sul territorio; monitorare i centri e la qualità dei servizi erogati; formare il personale. Per uscire dal limbo psichico dove sono costretti i migranti.
Repubblica 20.7.16
La crescita globale frenata da Brexit Fmi: “Banche italiane un problema irrisolto”
Quest’anno il nostro Paese dovrebbe fermarsi a più 0,9%, il più lento tra i grandi d’Europa Diventa più difficile per il governo puntare su una manovra di bilancio espansiva
Il Fondo monetario lima le stime sul Pil mondiale 2016 e 2017 Nuovi rischi al ribasso se falliscono le trattative tra Londra e Bruxelles
di Ferdinando Giugliano

LA DECISIONE del Regno Unito di uscire dalla Ue ha portato il Fondo monetario internazionale a tagliare le sue stime di crescita per l’economia mondiale e a avvertire che l’instabilità finanziaria potrebbe causare un ulteriore rallentamento. Nelle sue previsioni trimestrali, il Fondo ha anche abbassato le previsioni di crescita per l’Italia, identificando le difficoltà delle nostre banche e di quelle portoghesi come un possibile rischio per la ripresa mondiale.
L’AVVERTIMENTO arriva dopo che il referendum sulla Brexit ha causato settimane di forti turbolenze. Un’ondata di vendite ha colpito in particolare i titoli bancari italiani, obbligando il governo a ragionare sulla possibilità di ricapitalizzare con soldi pubblici istituti come il Monte dei Paschi di Siena. Il Fondo si aspetta che l’economia mondiale cresca quest’anno e il prossimo, rispettivamente, del 3,1% e del 3,4%, appena sotto quanto previsto ad aprile. Il Fondo era pronto ad alzare leggermente le previsioni per il 2017, ma «Brexit ha messo un bastone fra le ruote [della ripresa mondiale]» ha detto Maurice Obstfeld, capo economista dell’ Fmi. Le economie avanzate dovrebbero crescere dell’1,8% nei prossimi due anni, meno di quanto previsto tre mesi fa. Gli Stati Uniti si espanderanno a un ritmo superiore al 2% annuo, mentre l’area euro si fermerà all’1,6% nel 2016 e all’1,4% nel 2017. Per la Gran Bretagna il tasso di crescita nell’anno prossimo dovrebbe essere dell’1,3%.
Tra le grandi economie europee, l’Italia rimane quella che cresce meno. Il Pil dovrebbe aumentare di appena lo 0,9% quest’anno, a fronte di una previsione del governo dell’1,2%. Per l’anno prossimo, l’Fmi prevede un tasso di crescita dell’1%, di quattro decimi di punto inferiore a quello che il ministero dell’Economia aveva previsto ad aprile. Nelle scorse settimane il ministro Pier Carlo Padoan aveva espresso le sue preoccupazioni: «Un indebolimento generalizzato delle aspettative sul futuro della Ue rischia di frenare le decisioni degli operatori economici», ha scritto in un articolo per il quotidiano Il Foglio.
Un rallentamento dell’economia creerebbe problemi per il governo, visto il coincidere della legge di stabilità per il 2017 con il referendum sulla riforma della Costituzione, e il premier Matteo Renzi ha già dichiarato che si dimetterà in caso di sconfitta. Il governo potrebbe ora essere costretto a rivedere i propri saldi di spesa, nonostante la decisione da parte della Commissione europea di accettare un percorso di riduzione del deficit pubblico più lento rispetto a quello concordato in passato.
Renzi non ha ancora annunciato la data del referendum, ma nel suo entourage si dice sia ora molto difficile puntare su una manovra espansiva per lanciare la volata per il voto. Il Fondo monetario sottolinea come le sue previsioni di crescita siano soggette a importanti rischi al ribasso. Gli economisti di Washington presuppongono che il Regno Unito e la Ue raggiungano un accordo che non preveda barriere commerciali importanti, e che non ci siano grandi turbolenze sui mercati. In caso di scenario più negativo, invece, il tasso di crescita per le economie avanzate nel 2017 scenderebbe dall’1,8% all’1%. Tra gli altri rischi per l’economia mondiale ci sono le tensioni geopolitiche, il terrorismo e le difficoltà delle banche italiane. «Lo shock di Brexit avviene nel mezzo di problemi passati non risolti nel sistema bancario europeo, in particolare nelle banche italiane e portoghesi - dice il rapporto - una turbolenza protratta sui mercati finanziari e una crescente avversione al rischio a livello globale potrebbero avere ripercussioni macroeconomiche severe, tra cui l’intensificarsi delle difficoltà bancarie ». Il Fondo ha lodato le banche centrali per la loro reazione allo shock del referendum britannico, che ha aiutato a rasserenare gli investitori. Ma resta convinto che la politica monetaria non basti a rilanciare la crescita e che ci voglia una combinazione di politiche a sostegno della domanda e di riforme strutturali, oltre che una serena risoluzione della separazione fra Gran Bretagna e Ue.
«D’importanza primaria è una transizione tranquilla e prevedibile a una nuova relazione commerciale e finanziaria che preservi il più possibile i vantaggi degli scambi tra Regno Unito e Unione europea», dice il rapporto.
Corriere 20.7.16
George Soros
«Italia punto debole dell’euro A Renzi serve un compromesso»
intervista di Federico Fubini

A 85 anni, George Soros trova il tempo per almeno tre mestieri diversi. Scrive saggi come quello che pubblichiamo oggi sul “Corriere.it” sulla crisi dell’Unione Europea; investe ogni anno centinaia di milioni di dollari in progetti umanitari che lui stesso seleziona, negli ultimi tempi soprattutto per alleviare le difficoltà dei migranti nel Mediterraneo. Di recente però è tornato anche a occuparsi del suo primo lavoro originario, quello di investitore sui mercati internazionali con le proprie risorse stimate in circa 30 miliardi di dollari. Non l’aveva messo in conto, Soros. Ma quello che vede come il «pericolo di morte» dell’Unione Europea l’ha convinto che il sistema finanziario globale sta andando incontro a nuove turbolenze.
Ha l’impressione che la crisi migratoria sia meno grave quest’anno, o entrata in una fase di calma solo apparente?
«C’è un rallentamento temporaneo, perché la rotta balcanica è stata sostanzialmente chiusa. Ma adesso vediamo nuovi arrivi in Italia da vari Paesi. Non solo la Libia, anche l’Egitto o la Turchia. Non sono numeri straordinariamente grandi e le autorità italiane non sembrano particolarmente allarmate, in parte perché l’opinione pubblica è fondamentalmente ben disposta verso i migranti. Ma sarebbe un errore pensare che la situazione resterà tranquilla».
Perché?
«Perché quando i numeri cresceranno, anche gli atteggiamenti cambieranno e diventeranno negativi. Le autorità in Italia e in Europa devono dimostrarsi molto più attive nel risolvere i problemi che restano aperti nell’attuale politica della Ue sui rifugiati».
Risolvere questi problemi richiede risorse enormi. Sarebbero davvero troppe o è la volontà che manca?
«È completamente una questione di volontà politica. Risorse inutilizzate ci sono anche nel bilancio Ue, e vanno usate. Se non lo si fa ora che l’esistenza stessa della Ue è in pericolo mortale, quando lo si fa?».
Il golpe fallito in Turchia aumenta l’incertezza. Potrebbe avere ricadute anche sull’accordo fra Ankara e l’Unione Europea sui rifugiati?
«Che aumenti l’incertezza è sicuro. Una cosa è chiara ed è che Recep Erdogan, il presidente turco, cerca una sorta di riconciliazione con la Russia di Vladimir Putin. Non so quali siano le sue motivazioni. Probabilmente vuole diventare un fattore di equilibrio fra l’Europa e la Russia. In ogni caso, l’accordo fra la Ue e la Turchia è una base molto debole su cui costruire una politica europea sui rifugiati».
Nel frattempo le istituzioni e i governi della Ue reagiscono al rallentatore alla Brexit. Non si è vista alcuna spinta per rendere l’Europa più integrata, o più credibile. Saggio o miope?
«Davvero molto miope, perché l’Unione europea è in pericolo mortale e ha bisogno di trasformarsi in un’associazione in cui Regno Unito e altri vogliano entrare; a quel punto avrebbe una chance di sopravvivere. Ma questo richiederebbe misure eccezionali».
Di che tipo?
«Sono necessarie almeno quattro decisioni. Primo, va fatta una chiara differenza fra la partecipazione all’Unione europea e quella all’area euro. Coloro che non sono nella zona monetaria andrebbero trattati come membri di seconda categoria dell’Unione. Quindi, la Ue dovrebbe mettere a frutto il suo merito di credito – la sua solidità come emittente di titoli debito per finanziarsi – che resta pochissimo sfruttata ed è eccellente. Terzo, la Ue si deve proteggere dai nemici esterni e deve riconoscere che l’Ucraina è la più grande risorsa che abbia per la propria sicurezza. Difendendosi, l’Ucraina difende anche l’Europa. Quarto, la Ue deve rivedere completamente i suoi piani per gestire la crisi dei rifugiati».
Intanto però l’Isis appare determinato a destabilizzare l’Europa attraverso la Francia, rendendo sempre più attraenti per molti gli slogan xenofobi di Marine Le Pen. L’Isis vuole aiutare la leader del Front National alle presidenziali?
«L’Isis ha rivendicato il massacro di Nizza e il suo obiettivo è indurre il governo a prorogare lo stato di emergenza che stava per far scadere. Vuole anche aiutare Marine Le Pen a diventare presidente. Mi faccia dire cosa vogliono quelli: vogliono far sì che i musulmani in Francia e in Europa siano trattati come cittadini di seconda classe dalle autorità e dalla popolazione, cosicché i giovani musulmani si convincano che non hanno possibilità né diritti in Europa, e diventino così facili reclute dell’Isis».
Se in questo la Francia è l’anello debole dell’Unione europea, molti oggi vedono nell’Italia l’anello debole dell’area euro. Ritiene che sia a causa delle banche, o della forza del Movimento 5 Stelle?
«Sono d’accordo sul fatto che l’Italia rappresenti un punto di domanda per l’euro in questo momento. In particolare, lo è per la debolezza del suo sistema bancario. È qualcosa che Matteo Renzi deve trovare il modo di risolvere. Credo che ci sia volontà, certamente da parte della Germania, di essere collaborativi. La Germania sostiene gli sforzi dell’Italia e questo è importante per arrivare a una soluzione».
Eppure un accordo con la Commissione europea non sembra facile.
«Ci sono difficoltà burocratiche, perché la burocrazia sta insistendo per garantirsi che le regole dell’Unione Bancaria siano rispettate. Se violi quelle regole alla prima occasione, allora è probabile che l’insieme delle norme dell’Unione bancaria – coinvolgere nelle perdite degli istituti i detentori privati del debito, per esempio – saranno difficili da far rispettare. Sono difficoltà tecniche che prendono molto tempo. Di certo, ora bisogna aspettare l’esito degli stress test dell’Autorità bancaria europea sugli istituti alla fine di luglio, per affrontare queste questioni. Ma ci vuole tempo, e questo è il problema».
Pensa che il bail-in — le regole che colpiscono creditori e depositanti delle banche — vada sospeso in modo che l’Italia possa sistemare il suo sistema del credito?
«Credo che vada trovato un qualche punto di compromesso in base al quale il bail-in si applica agli investitori istituzionali che hanno quei titoli di debito, ma il pubblico verrebbe compensato perché non era stato informato adeguatamente dei rischi».
Cosa pensa dell’ascesa di M5S?
«Sono meno preoccupato di questo. Credo che Renzi sia abbastanza abile – è un politico molto abile – da non permettere che si arrivi a un referendum che lui rischia di perdere. Immagino che modificherà il piano che sottopone al voto dei cittadini, in modo da raccogliere abbastanza sostegno da farlo passare. E questo sarebbe positivo perché il piano attuale ha delle serie carenze e ora Renzi ha un’occasione per modificarlo».
Corriere 20.7.16
Quei segnali degli alleati che preparano la via di fuga
di Massimo Franco

A incuriosire non è tanto il contrasto in sé. Osservato dall’esterno, lo scontro nella già piccola area centrista ha un’eco minima. È condito da personalismi e opportunismi. E finisce solo per confermare lo sgretolamento di un centrismo che non ha più né strategia né leadership. Ma se quanto avviene è osservato dal versante del governo, lo smottamento assume contorni diversi. Diventa la metafora di una molecola del potere che non sa più se e quanto l’alleanza con Matteo Renzi durerà. E dunque si scinde per preparare la via di fuga di qui a un referendum istituzionale incerto.
Sotto questo aspetto, i tormenti di Udc e Ncd, divisi tra «Sì» e «No», tra lealtà e defezione, diventano il termometro della salute dell’esecutivo. Sono una sorta di avanguardia parlamentare della disaffezione che una parte del Paese comincia a mostrare verso la politica di Palazzo Chigi. È come se alcuni esponenti del ceto politico alleato avessero interiorizzato i dati deludenti dell’Istat sulla ripresa; quelli dell’Inps sulla disoccupazione; le resistenze trasversali sulla riforma elettorale; e la parabola discendente dei sondaggi referendari. D’istinto, si sono cominciati a defilare in anticipo, non sapendo più come andrà a finire.
Renzi rivendica di avere «tolto di mezzo l’agenda del passato. Ora», annuncia, «c’è il passaggio chiave del referendum che sancisce tutte le riforme. Poi potremo affrontare il punto: come sarà l’Italia dei prossimi 30 anni». È un’enfasi comprensibile e obbligata. Serve a rilanciare un «Sì» indebolito, anche se è presto per definirlo perdente. Ma certo, il racconto dell’Italia di Renzi avviene tra perplessità crescenti. Lo contestano Beppe Grillo col M5S, e Silvio Berlusconi che prepara «il manuale per il No» al referendum.
Entrambi contano di utilizzare un’eventuale sconfitta governativa per avere maggiore voce sulla modifica del cosiddetto Italicum : un sistema elettorale che sembra destinato a non entrare mai in vigore. E il M5S comincia a puntare sul bersaglio grosso di Palazzo Chigi, perché le truppe grilline crescono tra le difficoltà renziane. Il premier non riesce a riprendersi dai ballottaggi di un mese fa: un’umiliazione per il Pd. Lo stesso terrorismo di matrice islamica, che dovrebbe unire, rischia di dividere. Renzi ha convocato a Palazzo Chigi i gruppi parlamentari per parlarne.
Ma ha collezionato critiche per avere violato, è l’accusa, il galateo istituzionale: in primo luogo da una Lega che pure rispetta le regole caso per caso. Il Carroccio gli attribuisce una vena autoritaria, che le riforme rifletterebbero. Il problema è che la adombra implicitamente anche Roberto Speranza del Pd. «L’architettura istituzionale e l’equilibrio tra i poteri restano fondamentali. Lo dimostrano le drammatiche vicende turche», dice. Le riforme di Renzi come apripista di un Erdogan italiano: un’iperbole polemica, e l’indizio di un clima.
il manifesto 20.7.16
Italicum
Caos Pd, le proposte di modifica ora sono quattro
di A. C.

ROMA Ci si aspettava la proposta di una nuova legge elettorale prospettata da un pezzo di Pd, la minoranza bersaniana, per correggere quella messa a punto da un altro pezzo di Pd, anzi dal suo onnipotente capo in persona. Si è abbondato in grazia e di proposte ne sono arrivate due: anche la terza proviene, chi l’avrebbe mai detto, da un pezzo del Pd, quello che fa capo al presidente del partito e oggi strettissimo alleato di Renzi Matteo Orfini.
Un certo stupore è lecito anzi inevitabile: nell’ultima direzione, infatti, era stato proprio Orfini a blindare l’Italicum mitragliando quell’altro pezzo di Pd, guidato da Dario Franceschini, che voleva modificare la legge elettorale, però con una versione che non corrisponde a nessuna delle due squadernate ieri e che pertanto costituisce la quarta ipotesi partorita dal Pd nelle ultime settimane. Babele, al confronto, era un modello di comune e universale linguaggio.
Al sodo, il modello presentato ieri in conferenza stampa dalla minoranza ripristina il Mattarellum, in vigore tra il 1994 e il 2005 ma restaurato con un premio di maggioranza di 90 seggi, pari al 14% del totale, alla lista o alla coalizione che conquista col maggioritario più collegi.
A differenza dell’Italicum il premio non garantisce qui la maggioranza dei seggi, e in ogni caso sarebbe fissata per legge l’impossibilità di superare i 350 seggi. Ci sarebbe poi un “premietto” di minoranza di 30 seggi per i secondi arrivati e 23 seggi sarebbero riservati, come diritto di tribuna, alle liste che comunque superano 2%.
«Anche Renzi – afferma Speranza – ha detto che decide il parlamento. Non voglio far cadere queste parole, lo spirito di questa proposta non è maggioranza contro minoranza». E’ certamente vero, ma è anche vero che la proposta spezza la linearità del disegno renziano in due punti chiave. Non offre certezza di «sapere chi ha vinto la sera delle elezioni» e soprattutto riapre, anzi spalanca le porte alle coalizioni, dal momento che il maggioritario di collegio se non rende obbligatorie le alleanze poco ci manca.
L’idea di Matteo Orfini è molto più rozza e discutibile. L’Italicum resterebbe immutato, con tanto di abnorme premio di maggioranza: che però andrebbe assegnato a turno unico, cioè al meglio piazzato senza ballottaggio. Il principale limite della legge elettorale di Renzi, già approvata dal parlamento, è che assegna un potere del tutto sproporzionato a liste che al primo turno possono anche ottenere un consenso molto limitato.
La risposta è sempre stata che poco importa, dal momento che a far fede del consenso democratico ci sarebbe il ballottaggio. E’ una foglia di fico, ma per quel geniaccio del peggior allievo di D’Alema è già troppo. Turno unico, che in un sistema tripolare rende praticamente certa l’assegnazione di poteri quasi assoluti a forze intorno al 30% dei consensi nella migliore delle ipotesi, e non se ne parli più. Brillante.
La logica di Orfini è sfacciata, modificare la legge in modo da ostacolare l’M5S. Ma anche la proposta della minoranza Pd, decisamente più articolata, punta su questo elemento per raccogliere consensi. C’è peraltro un elemento apparentemente assurdo in tutta la vicenda. Nessuno pensa di modificare l’Italicum prima del referendum. Ma se Renzi vincerà quella prova, toccare la legge sarà fuori discussione.
il manifesto 20.7.16
Il ministro disarmante
Reato di tortura. La discussione sul disegno di legge che attende dal 1988 rinviata a chissà quando
di Luigi Manconi

Come prevedibile, un Senato inqualificabile e infingardo ha preso una decisione inqualificabile e infingarda: ha stabilito che fosse troppo presto approvare un provvedimento che attende di essere accolto nel nostro ordinamento dal 1988. Eh già, troppo presto. E, così, la discussione sul disegno di legge relativo al delitto di tortura è stata sospesa e rinviata a chissà quando. Non poteva essere che così.
A questo esito, hanno alacremente lavorato un ineffabile ministro dell’Interno che tenta di riscattare i propri fallimenti politici e di governo attraverso una successione di blandizie non nei confronti delle forze di polizia, bensì dei suoi segmenti più antidemocratici e arretrati.
E, poi, i giureconsulti della domenica (ma dell’ora della pennica, mi raccomando) i garantisti ca pummarola ’n copp’ e i tutori dei diritti purché di appannaggio dei soli potenti.
Per motivare tutto ciò, alcuni senatori hanno argomentato, si fa per dire, sull’attentato di Nizza, collegandolo al rischio – nel caso di approvazione della legge sulla tortura – di «disarmare» polizia e carabinieri davanti alla minaccia jihadista. Che Dio li perdoni. Inutile cercare una logica in tutto ciò. C’è solo sudditanza psicologica e spirito gregario. Sotto il profilo normativo, tutto ciò significa una cosa sola: il delitto di tortura entrerà a far parte del nostro ordinamento, a voler essere ottimisti, tra due – tre – trent’anni anni.
il manifesto 20.7.16
Alfano seppellisce il reato di tortura
Governo. Il Pd cede all’alleato e rimanda all’infinito il ddl. Maggioranza sempre più in bilico
di Andrea Colombo

ROMA La legge che introduce il reato di tortura è stata sepolta ieri. Rinviata sine die. Che una legge già in aula venga congelata sino a data da destinarsi è cosa tanto rara da rivelare in pieno la logica della scelta del Senato, appoggiata con tacito assenso dal governo: fare piazza pulita del reato di tortura. Del resto, la piena soddisfazione di tutti i capigruppo di destra, dopo la decisione della conferenza dei capigruppo del Senato, non lascia spazio a dubbi. E’ una sconfitta secca anche per il Pd, che certo non voleva vedere affondare la legge, ed è anche il passaggio che rende quello di Matteo Renzi un governo di fatto balneare. Si è certificato ieri che il governo ha sì una maggioranza per il voto di fiducia, ma è poi ostaggio della destra interna alla maggioranza su tutti i voti non coperti dalla questione di fiducia.
Era stato tutto il centrodestra, con l’Ncd in prima linea, a reclamare la conferenza dei capigruppo, subito dopo la commemorazione delle vittime di Nizza e usando strumentalmente proprio quella strage come alibi per chiedere di rimettere mano al testo, riportandolo in commissione. A quel punto, la voce su uno slittamento del voto a settembre circolava già largamente, smentita però sia dal ministro della Giustizia Orlando («Macchè. Ci stiamo lavorando proprio in questo momento») che dal capogruppo Pd Zanda («Auspico l’approvazione in tempi celeri»).
In effetti l’esito del consesso dei capigruppo non è stato quello previsto. Il ddl non è stata rimandato a settembre ma sine die: così si può avere la certezza assoluta che non vedrà mai la luce. «E’ gravissimo – commenta la presidente del Misto Loredana De Petris – ed è vergognoso usare Nizza come alibi. Così si dà partita vinta ai terroristi». Sul fronte opposto il presidente dei senatori leghisti Centinaio non la manda a dire e rintuzza di brutto il tentativo di Zanda di salvare il salvabile inventando un’inesistente possibilità di varare comunque il ddl prima della pausa: «Noi abbiamo fatto e faremo il possibile perché di questa legge se ne parli il più tardi possibile». Sarà proprio così.
A determinare la rotta del Pd sono stati prima lo schieramento di Alfano contro la legge di lunedì e poi, ancora di più, le dimissioni da capogruppo dell’Ncd rassegnate a sorpresa ieri mattina da Renato Schifani. Parole chiare: «L’oggetto sociale del nuovo centrodestra è stato disatteso. Il patto politico non è stato onorato. E’ venuto meno il pilastro. Ho votato le riforme solo per disciplina di partito». A certificare la fine del miraggio centrista, arriva subito dopo il comunicato di Cesa che schiera l’altra metà di Area popolare, l’Udc, a favore del No al referendum.
Per ora, però, Schifani resta come semplice senatore nell’Ncd, e altrettanto fanno gli 8 o 9 senatori che sono pronti a seguirlo nel ritorno all’ovile azzurro. E’ una perfetta mossa da guastatori, non a caso proprio quella che aveva suggerito Berlusconi quando Schifani lo aveva incontrato ad Arcore. D’ora in poi il governo non potrà essere sicuro su nessun voto, a parte quelli di fiducia. Anche perché nella disgregazione del mini polo centrista nulla impedisce che altri voti si accodino a quelli della pattuglia di Schifani. Senza contare che il peso specifico di Verdini è nel giro di 24 ore aumentato a dismisura.
In soldoni, il Pd si è arreso perché per far passare il ddl sul reato di tortura si sarebbe dovuto appoggiare ai voti determinanti dei 5S e della sinistra, cosa che voleva a ogni costo evitare. Per lo stesso motivo, dovrà ora congelare la riforma della prescrizione, osteggiata dalla destra come dai centristi interni alla maggioranza.
Di qui alla pausa estiva, di conseguenza, governo e maggioranza dovranno sforzarsi per fare il meno possibile, evitando ogni terreno scivoloso. Poi, finita la stagione dei bagni, arriverà il momento della resa dei conti. Si tratterà però di un appuntamento al buio. Nessuno può prevedere oggi quanto rapidamente procederà la decomposizione dei centristi, e quali effetti avrà sugli equilibri parlamentari. Si può in compenso dire che il governo e la maggioranza per come sono stati sinora non esistono più, e che Renzi si avvia ad affrontare il referendum nel peggiore dei modi.