l’Unità 10.1.12
No all’egoismo sociale
Il Papa e la critica all’egoismo sociale
di Giuseppe Vacca
Nel volgere di una settimana Papa Benedetto XVI ha pronunciato due discorsi di grande valore per la promozione della cultura della pace: il messaggio Beati gli operatori di pace del 1° gennaio e il discorso all’udienza del Corpo diplomatico del 7 gennaio scorso.
Fra i molti temi da lui toccati mi limito a isolare quelli riguardanti la crisi finanziaria, le antinomie della globalizzazione e il futuro dell’Unione europea, che mi pare contengano significativi approfondimenti della Caritas in veritate.
«L’odierna crisi economica e finanziaria ha affermato avantieri il Papa si è sviluppata perché troppo spesso è stato assolutizzato il profitto, a scapito del lavoro, e ci si è avventurati senza freni sulle strade dell’economia finanziaria, piuttosto che di quella reale». Nel messaggio del 1° gennaio aveva trattato più ampiamente il tema, evocando la necessità di un nuovo modello di sviluppo globale. Il modello di sviluppo degli ultimi decenni, aveva detto, si è fondato su «un’ottica individualistica ed egoistica, intesa a valutare le persone solo per la loro capacità di rispondere alle esigenze della competitività», e perciò è stato generatore di diseguaglianze insopportabili, moltiplicatore di guerre ed era destinato prima o poi ad implodere.
Fatto ancora più importante, il Papa aveva invocato la necessità di un nuovo ordine internazionale in termini quanto mai assertivi. «Nell’ambito economico sono richieste, specialmente da parte degli Stati, politiche di sviluppo industriale ed agricolo che abbiano cura del progresso sociale e dell’universalizzazione di uno Stato di diritto e democratico», mentre i «mercati monetari, finanziari e commerciali (...) vanno stabilizzati e maggiormente coordinati e controllati, in modo da non arrecare danno ai più poveri».
In altre parole, una Bretton Woods globale che, per quanto riguarda l’Unione europea, esige di mutare la rotta dell’integrazione competitiva e asimmetrica seguita al Trattato di Maastricht: «Da soli alcuni Paesi andranno forse più veloci, ma insieme, tutti andranno certamente più lontano! Se preoccupa l’indice differenziale tra i tassi finanziari, dovrebbero destare sgomento le crescenti differenze fra pochi, sempre più ricchi, e molti, irrimediabilmente più poveri. Si tratta insomma di non rassegnarsi allo “spread del benessere sociale”, mentre si combatte quello della finanza».
Naturalmente, anche quando parla di economia il Papa non decampa dalla missione di predicare il Vangelo e invocare la conversione. Ma le fondamenta di un umanesimo condiviso, ch’egli tratteggia concretamente, interpellano anche i non credenti. «L’etica della pace scrive il Papa è etica della comunione e della condivisione. É indispensabile, allora, che le varie culture odierne superino antropologie ed etiche basate su assunti teorico-pratici meramente soggettivistici e pragmatici, in forza dei quali i rapporti della convivenza vengono ispirati a criteri di potere e di profitto, i mezzi diventano fini e viceversa, la cultura e l’educazione sono centrate soltanto sugli strumenti, sulla tecnica e sull’efficienza».
La diagnosi muove da una posizione antropologica fondata non su «verità di fede», ma sulla visione di diritti «riconoscibili con la ragione, e quindi (...) comuni a tutta l’umanità». Il Papa, dunque, evoca un principio di trascendenza condivisibile anche dai non credenti in quanto, come criterio gnoseologico, è fondativo della critica, cioè della possibilità d’indagare l’ordine di cose esistente pensando al suo superamento.
Anche in questi trent’anni di feroce globalizzazione asimmetrica l’unità del genere umano è diventata molto più palpabile sotto il profilo materiale. Sono rimaste bloccate, invece, le risorse intellettuali e morali necessarie al suo perfezionamento spirituale. La prospettiva antropologica che il Papa propone costituisce forse il punto di partenza più solido per sbloccarle.
l’Unità 10.1.12
Liste, malumori tra Psi, ecodem e montiani
Il caso socialista. Protestano gli esclusi. In Sardegna forti tensioni
di M. Ze.
ROMA Pier Luigi Bersani parla delle liste Pd come di una vera e propria rivoluzione: 40% di donne, tante new entry e soprattutto il 75% dei parlamentari scelti con le primarie. «Noi non abbiamo bisogno di Bondi, abbiamo una commissione di garanzia e abbiamo un codice etico che è più rigoroso della legge dello Stato», dice polemizzando con Mario Monti. Ma non sono tutte rose e fiori tra i democratici, di scontenti e feriti sul campo ce ne sono diversi, in Sardegna è rivolta, dalla Puglia è in arrivo il primo ricorso mentre i renziani esclusi denunciano ritorsioni. Insomma, il giorno dopo la presentazione delle liste, nel Pd le acque sono piuttosto agitate. Intanto c’è chi sottolinea che mentre i bersaniani sono la stragrande maggioranza tutte le altre correnti hanno dovuto incassare rinunce. «Se ne sentono in queste ore di tutti i colori. Noi abbiamo garantito il pluralismo e abbiamo discusso anche con Renzi...», chiude il segretario.
Restano fuori i montiani Stefano Ceccanti e Salvatore Vassallo (che dicono di aver ricevuto proposte da Monti, declinate) in aspra polemica con il partito, gli ambientalisti Roberto Della Seta e Francesco Ferrante (gli ecodem protestano per la loro esclusione), mentre è stata recuperata Paola Concia, impegnata da sempre per i diritti civili. «Il pd prova a “silenziarci” -dicono Ferrante e Della Seta -, escludendoci dalle liste per le politiche e riducendo ai minimi termini la presenza ecologista tra i futuri parlamentari. Ma ai tanti amici e compagni che in questi giorni ci hanno sostenuto con appelli e dichiarazioni pubbliche aggiungono diciamo che continueremo a fare i rompiscatole dove e come possibile».
Polemico anche il leader Psi Riccardo Nencini che viste le liste ha fatto sapere a Bersani che stando così le cose i socialisti potrebbero presentarne una propria perché i patti non erano questi. Nencini ieri ha convocato la segreteria nazionale (la riunione è andata avanti fino a tarda sera) per decidere come muoversi, «perché noi non facciamo gli ospiti in casa di nessuno». Pronta la risposta di Enrico Letta: «Non capisco il senso di questa protesta, i patti sono stati rispettati, c’è una buona alleanza con i socialisti». Quanto ai montiani Pd il vicesegretario dice: «Non bisogna scambiare singole delusioni personali per fatti politici».
In Puglia dopo le annunciate ma ritirate dimissioni del segretario regionale, ecco che parte un ricorso. A presentarlo la senatrice foggiana Colomba Mongiello, che accusa la Direzione nazionale di aver «paracadutato» Ivan Scalfarotto e Alberto Losacco, facendo scivolare lei due posti più in basso nella lista e a nulla sono valsi, per ora, i tentativi del segretario provinciale Paolo Campo di farla tornare sui suoi passi. A Catanzaro in una lettera a Bersani Salvatore Scalzo (candidato sindaco), i dirigenti regionali e provinciali Piero Amato, Antonio Scalzo e Enzo Bruno, fanno sapere di essersi autosospesi dai loro incarichi e esprimono «il più forte dissenso sui modi di operare» e sulle scelte della Commissione elettorale, mentre sono pronti ad autosospendersi i dirigenti della provincia di Cagliari, Yuri Marcialis, Thomas Castangia e Mirko Vacca, se oggi la direzione regionale non rigetterà le liste nate a Roma, perchè «non è stato rispettato l’esito delle primarie». Si è dimesso, invece, Giampaolo Diana capogruppo del Pd in Consiglio regionale, che ieri in conferenza stampa ha spiegato: «Non ci sono le condizioni minime per continuare un rapporto con un partito che fa finta che le primarie non ci siano state».
il Fatto 10.1.12
Il 21 gennaio è la data limite entro cui è possibile ripulire le liste dagli impresentabili
Liste pulite: il Pd aspetta che sia troppo tardi
di Wanda Marra
BERSANI SULLE AUTOCERTIFICAZIONI: “PROVEREMO A FARE IN TEMPO OPPURE AGIREMO SUCCESSIVAMENTE” (A SEGGIO GIÀ ASSEGNATO)
Chiederemo un’auto-certificazione ai candidati, poi la Commissione di garanzia farà una verifica”. Eccolo l’iter del Partito democratico per i candidati coinvolti a vario livello in inchieste giudiziarie (un nutrito gruppetto è già nelle liste votate martedì sera dalla direzione) ribadito da Pier Luigi Bersani ieri nell’intervista a Sky. D’altra parte l’aveva già detto lunedì negli studi di Lilli Gruber: “Esamineremo caso per caso”. Ma la parola chiave è “successivamente”. Spiega il segretario democratico: “Se emergeranno cose dissonanti ci sarà la cancellazione se siamo in tempo, o l’espulsione successivamente”.
IL TEMPO non è tantissimo, ma neanche poco: la consegna ufficiale delle liste è fissata al 21 gennaio (dopodiché essendo bloccate chi è in posizione eleggibile viene eletto, qualsiasi cosa accada). È che al solito la valutazione politica è frutto di una serie di ragionamenti, non tutti coerenti con la questione moralità. Per dire, Crisafulli, che è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio con l’accusa di aver fatto pavimentare a spese della Provincia la strada comunale che porta alla sua villa, secondo il codice etico del Pd è candidabile. E visto che per i suoi rapporti con il boss Raffaele Bevilacqua è stato archiviato, anche in questo caso è candidabile. Altre sono le ragioni dell’etica e dell’opportunità politica, tanto più per un partito che ha scelto “Italia giusta ” come slogan e che presenta come “testa di serie” Pietro Grasso (nel Lazio, però, non in Sicilia). Ma ci potrebbe voler più tempo a dirimerle, bilanciando-le con quelle dei voti e delle tessere, che spesso gli impresentabili controllano in abbondanza. E allora, potrebbe accadere che una volta eletti, alcuni personaggi sarebbero sì espulsi dal Pd, ma conserverebbero saldamente il seggio in Parlamento (visto che molte posizioni ambigue sono comunque candida-bili per legge). Onorevoli in meno per i Democratici, impresentabili in più in Parlamento.
Che il meccanismo sia alquanto farraginoso per il Pd lo dimostra il caso di Filippo Penati, imputato per concussione, corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Il partito, con una lunga pratica, l’ha sospeso e cancellato dalla lista degli iscritti. Ma non l’ha espulso.
Ieri a Sky a Bersani è stata mostrata anche la foto del suo ex portavoce, assieme a quella di Zoia Veronesi, accusata di truffa aggravata: avrebbe svolto, a Roma, un lavoro per il Partito democratico quando era ancora dipendente della Regione. “Lasciam perdere”, si inalbera lui. “L’hanno tirata in ballo solo per causa mia. Perché è la mia segretaria. Ma è una persona perbene e si vedrà come va a finire questa storia. Basta chiedere do-v’era a lavorare”. Generico nelle motivazioni, ma chiaro nei toni. Decisamente più in imbarazzo su Penati, rispetto al quale si limita a una difesa d’ufficio: “Penati è un’altra cosa ma noi abbiamo applicato subito le regole e appena è emersa l’accusa è stato cancellato dagli iscritti al Pd’.
il Fatto 10.1.12
Candidare quest’uomo?
Mirello Crisafulli “Così pilota gli appalti e minaccia gli onesti”
di Marco Lillo
NEL 2008 I CARABINIERI CHIESERO PERFINO IL SUO ARRESTO IN UN RAPPORTO CHE DESCRIVE IL SISTEMA DI POTERE E LE CONNIVENZE DEL VINCITORE DELLE PRIMARIE A ENNA
Il rapporto top secret dei Carabinieri sul senatore siciliano del Pd, di nuovo in lista dopo il trionfo alle primarie, sebbene indagato per abuso d’ufficio: “Fece pavimentare la strada per la sua villa a spese della Provincia”. Dopo l’incontro con il boss di Enna, nuovi filmati e intercettazioni su appalti pilotati e minacce a funzionari onesti. L’Arma chiedeva addirittura il suo arresto. Ma a Bersani basta l’autocertificazione di illibatezza Chissà se stavolta riuscirà a diventare sottosegretario all’economia. Il senatore Mirello Crisafulli, oggi vincitore delle primarie a Enna e candidato ormai certo del PD alle elezioni di febbraio il 30 aprile del 2006, quando era stato eletto per la prima volta in Parlamento sognava a occhi aperti quell’incarico per poter cacciare un controllore troppo occhiuto dell’azienda sanitaria locale di Enna, AUSL Enna 4: Michele Mario Branciforte.
In occasione della prossima ricandidatura di Crisafulli, senza alcuna opposizione da parte del leader del Pd, Pierluigi Bersani né del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, è molto utile rileggere con attenzione quella e altre trascrizioni delle intercettazioni contenute nel-l’informativa del Reparto operativo di Enna dei Carabinieri del 29 febbraio del 2008. In questa nota, finora inedita, destinata al pm di Enna Marcello Cozzolino, i militari pregavano il magistrato di presentare richiesta di arresto per Crisafulli e per altre 12 persone. I Carabinieri ipotizzavano reati gravi come l’associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata e alla turbativa delle gare e segnalava anche molti singoli episodi di reato. Gli arresti non sono stati richiesti poi dal pm e l’indagine principale sui fatti più gravi è stata poi archiviata. Alla fine la Procura di Enna ha chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio per Crisafulli nel settembre 2010 solo per un episodio minore. Il senatore Pd, anche grazie alle intercettazioni contenute in questa informativa, è stato rinviato a giudizio per concorso in abuso d'ufficio assieme a due dipendenti della Provincia di Enna con l’accusa di aver ottenuto la pavimentazione di una strada comunale che porta alla sua villa a spese della Provincia di Enna. Nell’informativa si legge che nell’ottobre del 2005 una strada fu ripavimentata per “accontentare”. I Carabinieri riportano un’intercettazione di una conversazione tra il geometra Nicola Di Bari, poi arrestato per altre vicende, e Marcello Catalfo, che sta seguendo il lavoro vicino alla casa del politico. Scrivono i carabinieri che “quest'ultimo a proposito della strada menzionata riferisce che ci sono voluti otto camion da 19 metri cubi, ma il lavoro è venuto troppo buono, domattina manderà i ragazzi a fare pulire la strada per togliere i detriti. Continuando dice che ha firmato lui le fatture, siglandole. A tal proposito specifica che queste ultime sono intestate all'Amministrazione Provinciale di Enna... Marcello dice 'oggi Mirello è sceso, come un boss prendendolo sotto braccio per fargli vedere cosa doveva fare, ma lui diceva che era a conoscenza di tutto in quanto altri in precedenza gli avevano fatte vedere il lavoro’”.
ANCHE IL RESTO dell’informativa però non merita l’oblio. Anche se non sono stati considerate rilevanti dal punto di vista penale gli audio e i video delle intercettazioni riportate nelle 207 pagine depositate nell’inchiesta descrivono un sistema di potere inquietante che coinvolge politici, burocrati e imprenditori privati. Un sistema che un partito come il Pd dovrebbe combattere e non favorire.
Per comprendere l’interesse di Crisafulli alla poltrona di sottosegretario e di rimbalzo a quella di presidente dei sindaci della AUSL di Enna, bisogna partire dall’antefatto della riunione del 30 aprile del 2006. “In quei giorni”, spiegano i Carabinieri, “Crisafulli e i suoi collaboratori si trovano coinvolti in un pesante braccio di ferro (a causa del mancato accordo sulla spartizione dei servizi ospedalieri), con il Dirigente Generale dell'AUSL 4 di Enna, il dottor Francesco Iudica cognato del noto esponente politico siciliano Raffaele Lombardo, e su posizioni politiche radicalmente contrapposte alla lobby di potere facente capo a Crisafulli”.
Il cognato di Lombardo ha preso il posto di Nino Bruno, di area cuffariana. Poco prima di lasciare il suo incarico però Bruno, l’8 aprile del 2005, firma una delibera per la creazione della società Enna Servizi Srl, a capitale misto con la Ausl e una cooperativa privata, selezionata attraverso un bando di gara. La cooperativa è ovviamente vicina sia a Crisafulli, ma anche all’Udc Giovanni Palermo. Iudica si oppone. Scrivono i Carabinieri: “denuncia l'illegittimità dell'affidamento di alcuni servizi alla cooperativa Piramide gestita da uomini dell'On. Crisafulli istituita ad hoc da lui e dai suoi uomini. Il 30 aprile, nel corso dell'animata discussione all'interno del suddetto studio del professor Rabbito prendono parte oltre a Crisafulli e a Gaetano Rabbito e all’avvocato Giovanni Palermo, ex candidato sindaco dell’Udc anche Angelo Salamone e Mario Tedesco (amministratori della Piramide) ;
“Durante la discussione si concorda la strategia per fare "pressione" sul Dirigente Generale Iudica al fine di indurlo a trattare sulla spartizione dei servizi Ospedalieri, il cui controllo da parte degli stessi verrebbe meno, qualora come prevedibile la società mista partecipata dalla cooperativa La Piramide dovesse venire sciolta”. Cosa che poi accadrà effettivamente nel 2006 dopo un contenzioso davanti aiu giudici amministrativi. Crisafulli e i suoi amici vogliono scongiurare questo evento o quanto meno limitarne gli effetti.
“L’amministratore della Piramide, Mario Tedesco prima, e l’avvocato dell’Udc Giovanni Palermo poi spiegano agli altri che il Dottor Iudica è fermamente determinato ad osteggiarli ed a pretendere lo scioglimento della predetta cooperativa. Dal dialogo emerge chiaramente un forte risentimento di tutti i presentiverso la controparte (Iudica). Si fanno riferimenti al fatto che pur essendo lo stesso "ben sostenuto politicamente" in quanto cognato di Raffaele Lombardo, non dovrebbe fare lo ‘spirtu’ con loro. L'Onorevole Crisafulli”, continuano i Carabinieri, “udite le versioni dei fatti dei suoi collaboratori e amici ordina al Professor Rabbito, (avente il ruolo di mediatore nel cercare di indurre il dirigente a più miti consigli) di fissarsi un appuntamento con questo e fargli capire che ‘deve obbligatoriamente assegnare a loro una parte dei servizi’.
DURANTE le sue affermazioni”, proseguono i Carabinieri sintetizzando le parole di Crisafulli, “richiama anche delle presunte irregolarità ed illeciti compiuti dal Dottore Iudica nell’assegnazione di alcuni servizi. Indica i termini che dovrà usare il suo amico Rabbito”. A questo punto c’è un esempio mirabile del concetto di legalità formale che ispira il senatore Crisafulli nel rivolgere consigli al suo amico Rabbito, presidente dell’Asi di Enna ed ex parlamentare dei DS anche lui. Spiegano i Carabinieri: “insieme all'Avvocato Palermo, lo mettono in guardia circa il rischio di essere registrati durante il dialogo e poi si raccomandano di usare spesso la parola "legalità", quasi a voler apparire ad un eventuale testimone o ascoltatore come un tutore della legalità e della correttezza”. Crisafullli e i suoi sanno che: “vi sono delle indagini da parte della Procura di Enna”. Crisafulli prima tenta con le buone: convoca il direttore in pectore e dopo aver cercato, alla presenza del direttore generale uscente della Ausl Nino Bruno di fargli cambiare idea sulla società mista Enna Servizi, secondo la testimonianza di Iudica, formula una minaccia: “se ben ricordo”, secondo Iudica Mirello Crisafulli avrebbe detto “che avrebbe attivato la conferenza dei sindaci per sfiduciarmi”. Prosegue poi Iudica: “Non meno cogente sul piano della pressione psicologica credo possa identificarsi una pubblica conferenza organizzata da un associazione culturale vicina all'Onorevole Crisafulli, tanto che l'invito a partecipare al dibattito mi è stato formulato dallo stesso, nel corso del quale ho ricevuto pesanti attacchi, in un clima che certamente era di forte pressione”. Poi Iudica premettendo “nessun elemento può determinare un nesso tra la vicenda di cui si sta parlando e due episodi” racconta “il ritrovamento all'interno della mia autovettura di un "geco " vivo che faccio fatica a capire come possa essere entrato, considerato che l'autovettura, parcheggiata in una traversa limitrofa all'Azienda, aveva i finestrini e le portiere chiuse e il ritrovamento, nel primo gradino dell'abitazione privata a Caltagirone, di un topo morto con la testa schiacciata. Di quest'ultimo episodio possono testimoniare le mie due figlie minori che hanno ritrovato l’inquietante messaggio”.
Il neo nominato direttore della AUSL Enna 4 a un certo punto sta per cedere: “Stante tali accadimento e la sensazione di solitudine nella mia posizione di contrasto alla società mista... mi ero determinato a dimettermi da Direttore Generale”. Poi ci ripensa. La creazione della società mista era stata contrastata oltre che da Iudica anche dal presidente del consiglio sindacale della AUSL Enna 4, dinominaministeriale, Michele Mario Branciforte.
Quel 30 aprile del 2006 nello studio del commercialista Gaetano Rabbito, tra una risata e l’altra dei suoi sodali, il neosenatore dell’Unione Crisafulli diceva chiaramente quello che gli sarebbe piaciuto fare se fosse stato nominato sottosegretario. “Se per tutti i casi, capito al Ministero dell' economia, telefono da li, lo stesso giorno, mi passate il direttore del tesoro di Enna, lo chiamo (e gli dico Ndr) lei è il dottore Branciforte? Io sono il Sottosegretario Onorevole Crisafulli, ha sentito parlare di me? Ho saputo che lei ha chiesto trasferimento e vero? Se è vero me lo dica e vediamo di accontentarla, se non è vero, sì prepari perché l' accontenteremo lo stesso”. A questo punto il candidato del PD sul quale né Piero Grasso né Pierluigi Bersani hanno nulla da ridire, tira giù una sonora bestemmia e aggiunge con la voce dura da boss della politica di Enna, in grado di decretare la vita e la morte pubblica di un funzionario: “se ne deve andare di notte”. I presenti alla riunione, puntualmente video-registrata dai Carabinieri del reparto investigativo di Enna, lo acclamano. Crisafulli non fu nominato seottosegretario ma riuscì comunque a pilotare le nomine della Ausl di Enna: il 28 luglio del 2006 chiama l’amico Gaetano Rabbito per comunicargli che lo ha fatto nominare sindaco della Ausl Enna4 e si compiace: “gli abbiamo fatto arrivare un segnale” al direttore Iudica, ovviamente.
il Fatto 10.1.13
Lo show da scandalo di Nichi Vendola
di Pino Corrias
DEVE ESSERE il diavolo dei super ricchi oltre a quello della cattiva narrativa leninista che spinge Nichi Vendola a fabbricare con tanto accanimento la caricatura di se stesso. Talvolta oscurato dai radar della politica-spettacolo, Vendola allestisce sinistri bagliori per gli adepti della sua koinè ai quali comunica non solo di essere vivo, palpitante, ma anche adeguatamente scandaloso. È la sua personale evoluzione politica del capriccio. Come quando indossò il suo primo orecchino di brillanti in stile bronx per estrarre gridolini d’alto stupore alle vecchie mamme di Terlizzi che con la pazienza dei millenni fanno a pezzi le cime di rapa e i tramonti, sulla soglia di casa. Nei suoi penultimi exploit – prima di inventarsi questa stupidaggine dell’inferno per i ricchi – usava la faccenda del matrimonio con il suo compagno Ed. Non c’era emergenza, dallo spread all’Afghanistan, che non gli consentisse almeno un inciso sul suo impellente desiderio di fiori d’arancio. Mai sfiorato dal dubbio che nessuno in Europa – salvo le gerarchie cattoliche titolari proprio di quell’altare tanto agognato – avesse nulla da ridire sul suo matrimonio, se non le più sincere (e definitive) felicitazioni.
il Fatto 10.1.13
Il segretario Pd e il Professore litigano sull’alleanza
Accenni di programma democratico, ma nel Pantheon resta papa Giovanni
di Wanda Marra
Assolutamente sì”. Pier Luigi Bersani conferma. Dopo il voto è pronto a un’alleanza con Monti. Che però “deve dire contro chi combatte”. Perchè “A me va bene tutto purchè queste mosse non aiutino a togliere le castagne dal fuoco a Berlusconi e alla Lega", ha scandito, "se accadesse non andrebbe bene e lo dovrebbero spiegare”. Il riferimento è alla scelta del Professore di appoggiare la candidatura di Albertini al Senato a Milano, che potrebbe aiutare i Democratici a perdere la Lombardia, e dunque a collaborare al pareggio in Senato. Messaggio chiarissimo: il Pd un’alleanza la offre, ma alle sue condizioni. E in questa fase il Professore sembra quanto mai inaffidabile visto dai Democratici: non si capisce che cosa vuole fare. Il Professore, infatti, ribadisce: “Parlare di alleanze è prematuro. Non faccio la stampella di nessuno”. O premier, o niente, l’aveva già detto. E ancora: “Vedremo. Parliamo di programma e contenuti”. Ancora una volta, insomma, mette avanti la sua Agenda, per evitare di definire una posizione politica chiara. Tattica sperimentata nelle ultime settimane, e che al Pd non va giù. Bersani sceglie un’intervista a Sky di un’ora per presentare in maniera vagamente più organica di quanto ha fatto fino a ora il suo programma. Ma al di là dei contenuti sono i toni e i modi a definire una strategia. Più gli altri digrignano i denti, più lui sorride. Più gli altri vanno all’attacco, più lui si ritaglia il ruolo del padre di famiglia responsabile, che distribuisce rimproveri. Lo dice pure in chiaro: "Non sarò mai aggressivo con Monti ma non posso nemmeno stare zitto quando dice cose che non condivido. Abbiamo diritto di rispondere alle accuse”. Una strategia consumata ed elaborata nelle guerre interne al Pd, e in ultimo nelle primarie con Renzi.
Nell’intervista a Sky, le cose le prende sempre un po’ alla larga. Basso profilo. Ma mette giù una serie di punti. Prima di tutto sul fisco: “Va fatta una riorganizzazione delle aliquote fiscali. Certamente è pensabile una riduzione delle aliquote più basse e un innalzamento di quella più alta senza arrivare a vertici elevatissimi”, come il 75% di altri Paesi. Per quel che riguarda l’Imu, rilancia l’idea che sia progressiva e che in buona parte venga devoluta ai Comuni. Su una manovra aggiuntiva nel 2013 non si sbilancia (“non posso dirlo ora”), ma non la esclude (“sarà un anno difficile”). Su Ichino dice serafico che poteva tranquillamente rimanere nel Pd, perché “se mi danno i soldi sono pronto a fare la flexsecurity sul modello danese”. Pure sul reddito-metro mantiene toni bassi: “Non penso che si tratti di polizia fiscale, ma credo di più in altre cose”. Para una domanda sull’eventuale ministro del Lavoro (“Dell’Aringa o Galli? Magari sarà qualcun altro”). Insomma, sufficientemente generico da non attirarsi critiche (e da non chiudere la porta a Monti), ma abbastanza preciso da segnare una linea. D’altra parte, la prende alla lontana pure alla domanda se lui si definisca di sinistra. “Certamente sono un progressista”. Poi si rifugia in una critica a Monti: “È curioso dire che non c'è più né destra né sinistra. Su questo punto Monti in Europa sarebbe visto come un marziano”.
Mentre gli esclusi dalle liste e gli scontenti (a cominciare da Nencini che minaccia di rompere il patto con i democratici) si fanno sentire, con proteste e dimissioni sui territori (Sardegna e Puglia i casi più eclatanti) Bersani serafico rivendica il lavoro fatto (“liste vincenti”). E non si tira indietro neanche quando gli fanno vedere la foto di Giovanni XXIII. Durante il duello con gli altri candidati alle primarie l’aveva messo nel Pantheon. Critiche a non finire: e Berlinguer? E Gramsci?. Non si scompone. “Gli uomini della sinistra ce li abbiamo nel cuore. Ribadisco invece Papa Giovanni XXIII che osò scrivere che la donna era uguale all’uomo e quando gli fu fatto notare che questo concetto era in contrasto col Sant'Uffizio lui rispose ‘pazienza’...”. Come dire, tra testardi ci si intende.
l’Unità 10.1.13
Caro Macaluso, non sono un compagno che sbaglia
di Umberto Ranieri
CONFESSO CHE LA SCELTA COMPIUTA DA MONTI DI IMPEGNARSI DIRETTAMENTE NELLA BATTAGLIA POLITICO-ELETTORALE mi colpisce. E mi fa riflettere. Non me la sento di considerarla un errore (lo fa Macaluso) o addirittura una cattiva notizia per l’Italia come sostiene Bersani (alla faccia della ricerca di un linguaggio rispettoso e senza eccessi cui ricorrere durante la campagna elettorale). Vorrei capirne di più.
Monti non è un improvvisatore o un politicante. È una personalità di rilievo della élite politica europea. Perché compie questa scelta? Non mi convince l’argomento di Emanuele Macaluso secondo il quale, con la sua decisione, Monti avrebbe compromesso le sue chance politiche. Cosa avrebbe dovuto fare Mario Monti per mantenere quelle chance? Secondo l’immagine di Emanuele, restare in panchina. E attendere. Attendere sulla base di un semplice calcolo: se i conti politico-elettorali per la coalizione di sinistra non fossero andati per il verso giusto, Monti sarebbe tornato in corsa per Palazzo Chigi. In caso contrario si sarebbero aperte le porte del Quirinale. Elementare! Mi chiedo: può ragionare in questi termini un uomo di Stato consapevole dei problemi difficili in cui si dibatte il proprio Paese? Non credo. Né è necessaria la tempra dell’eroe weberiano per sottrarsi ad un tale dilemma.
In realtà Monti si è venuto convincendo, nel corso dei mesi, che la vicenda politica evolveva in una direzione che avrebbe compromesso gli sforzi, il lavoro e i risultati del suo governo. A destra tornava Berlusconi, con la sua disperata aggressività, a straparlare di tagli delle tasse, di revisione degli accordi europei, di fuoriuscita dall’euro: un delirio! A sinistra si delineava un’intesa del Pd con una frazione della sinistra radicale fieramente all’opposizione del governo Monti. In questo contesto si spiega la scelta di Monti e si rintracciano alcune delle ragioni alla base della impresa da lui promossa. Costruire un punto di riferimento politico in grado di fornire un approdo sia a settori dell’elettorato alla ricerca, dinanzi al fallimento dell’azione di governo della destra, di una nuova offerta politica, sia ad elettori di centrosinistra, preoccupati che si stia ripetendo l’errore che condusse all’implosione i governi guidati da Prodi. Una preoccupazione non infondata considerati i caratteri della formazione di Vendola. Provo fastidio per gli atteggiamenti paternalistici verso gli orientamenti di Sel quasi fossero eccessi verbali da contenere con un richiamo all’ordine. Quella di Sel è una cultura politica alternativa al riformismo, ostile alla esperienza del governo Monti e agli impegni assunti dall’Italia in sede europea. Posizioni legittime, ma che considero sbagliate e non in grado di condurre il Paese fuori dalle difficoltà in cui si dibatte. Ma tant’è.
Qual è il senso della operazione promossa da Monti? Alimentare una iniziativa politica in funzione della continuità del processo riformatore e favorire l’avvio di un ciclo di governo in grado di affrontare le difficoltà del Paese. Ci riuscirà? Ci saranno le forze per farlo? L’impresa è ardua. Sconta gli assalti furiosi del duo Ingroia-Grillo, la diffidenza dell’establishment economico cui il rigore e la serietà di Monti non vanno a genio, l’ostilità dei due schieramenti tradizionali (gli stessi che si sono dimostrati inidonei a esprimere dal governo e dall’opposizione una capacità di fronteggiare le sfide poste dalla crisi). La questione fondamentale riguarda l’impianto programmatico proposto da Monti: va arricchito. Senza cadere nella demagogia né smarrire i risultati raggiunti occorrono idee e misure più incisive per sostenere la crescita. Infine, se la politica è passione e discernimento, deve emergere la visione complessiva dell’Italia che si vuole costruire, dovrebbe essere chiaro che l’imperativo di modernizzazione del Paese serve in primo luogo a limitare i fenomeni di esclusione e povertà, a ridurre le disuguaglianze. Lavorerà in questa direzione Mario Monti? Vedremo. Certo su queste basi, al di là delle schermaglie elettorali, le forze che si raccolgono intorno a Monti non potranno che essere strategicamente interessate al rapporto con il Partito democratico. Dove andrebbero altrimenti? Occorre che il Pd abbia la lungimiranza di guardare senza eccessive recriminazione e senza preclusioni ad una presenza in Parlamento di tali forze e disporsi alla ricerca di una convergenza.
Nel ragionamento di Macaluso, infine, la scelta di Monti appare quasi l’esito di una doppia manovra. Si sarebbero congiunte le volontà del Ppe e addirittura quelle del Vaticano. Non credo si possa ragionare in questi termini. Monti non è un esponente del Ppe. Le sue posizioni sull’Europa e sul modo di affrontare la crisi dell’Unione sono state spesso diverse da quelle della Merkel. La sua è una cultura laico-liberale orientata verso l’economia sociale di mercato. Una cultura consapevole dell’irrompere nel nostro tempo del tema dei nuovi diritti (con tutte le implicazioni che hanno con questioni eticamente sensibili) e della modernità che li esprime. In ogni caso appare un abbaglio ideologico ridurre la dialettica politica in Europa, in una fase di crisi profonda, ad una lacerante contrapposizione tra Ppe e Pse. Non è così. Se Monti fosse stato invitato a parlare ad una riunione dei leader del Pse, sarebbe stato accolto con lo stesso calore e rispetto (e condivisione) di quando ha incontrato i leader del Ppe. Si vedano del resto le posizioni del candidato alla Cancelleria della Spd e si ritroveranno orientamenti e posizioni sostenuti da Mario Monti. Emanuele,
concludendo il suo intervento, chiede se le riforme strutturali di cui ha bisogno il Paese si intende farle con il Pse o il Ppe. Sono dell’avviso che sia indispensabile una convergenza tra le due famiglie politiche per definire e realizzare le riforme necessarie perché l’Unione venga fuori dalla crisi. Mi auguro di sbagliare, ma ho molti dubbi che quelle riforme possano farsi con una azione di governo condizionata dalla sinistra radicale (e permanendo gli attuali orientamenti nel gruppo dirigente della Cgil). È di questo che sarebbe stato necessario discutere. In tempo. Oggi siamo ai comizi. Per parte mia proverò a farlo (la democrazia in un partito non si alimenta solo con le voci di consenso) all’interno del Pd, un partito essenziale per la crescita democratica del Paese, e di cui sosterrò le sorti elettorali pure avendo maturato, ed espresso sempre limpidamente, posizioni critiche su scelte e comportamenti del suo gruppo dirigente.
PS. In quanto al rischio di «rincoglionimento» che paventa per sé, stia tranquillo Emanuele: non se ne colgono tracce nel suo lucido argomentare. In ogni caso non si allarmi, i suoi amici, tra i quali Enrico ed Umberto, con l’affetto di sempre, non mancheranno di avvertirlo in tempo.
l’Unità 10.1.12
Le due anime della bioetica. Conciliabili o inconciliabili?
Laici e cattolici a confronto in un libro di Mori e Fornero
Entrambe fondate sulla ragione le due «visioni del mondo» sono diverse, asimmetriche e irriducibili
Il guaio è che non si parla di mera filosofia ma di scelte che influenzano le leggi dello Stato
di Pietro Greco
LAICI E CATTOLICI IN BIOETICA: STORIA E TEORIA DI UN CONFRONTO. È il titolo del libro (pagine 364, euro 24,00) che un bioeticista laico, Maurizio Mori, e un bioeticista cattolico, Giovanni Fornero, hanno appena pubblicato con l’editore Le Lettere nella collana «Etica Pratica e Bioetica» diretta da Eugenio Lacaldano. Basterebbe aggiungere un solo aggettivo insanabile alla fine di quel titolo, per comprendere il senso e il contenuto della nuova (e chiarissima) proposta editoriale.
I due studiosi concordano, infatti, sia sul fatto che esistono almeno due approcci distinti uno laico e l’altro cattolico a quell’«etica pratica» che è la bioetica; sia sul fatto che sono due approcci così irrimediabilmente diversi, talvolta opposti, da non poter essere, in alcun modo, ricondotti a uno.
Sono due punti molti netti, su cui non tutti i loro colleghi sono d’accordo. Ma che Mori e Fornero argomentano bene, sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista filosofico, regalando al lettore una chiave di interpretazione rigorosa e comprensibile di una partita che da molti anni si gioca, in Italia e nel mondo, in maniera spesso aspra e confusa.
Fabrizio Mori offre, nella prima parte del libro, il codice storico di questa chiave. Mostrando come, dopo la seconda guerra mondiale, l’irruzione sulla scena di nuove tecnologie mediche (dalla pillola anticoncezionale, ai trapianti di organi, alla fecondazione in vitro) ha costrutto tutti e ridefinire concetti fondamentali ed eticamente sensibili, quali quelli di vita, di morte, di persona. Tra quei tutti ci sono i laici e i cattolici, i singoli stati e le Nazioni Unite.
Mori dimostra come questa esigenza emersa nel periodo della guerra fredda, in cui il mondo era diviso in due blocchi ideologicamente, ancor prima che militarmente, politicamente e persino economicamente contrapposti abbia visto emergere due autorità portatrici di un’interpretazione etica che tendeva a proporsi come universale. Una laica, espressa in sede di Nazioni Unite, che ha assunto anche forma giuridica, per esempio La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948). L’altra religiosa, che si è espressa in Vaticano, che ha assunto a sua volta una forma giuridica (canonica) in svariati documenti che costituiscono parte importante del Magistero della Chiesa Cattolica.
Per un lungo periodo questa dicotomia ha cercato una composizione così spinta in chiave teorica e pratica anche grazie all’azione di «uomini del dialogo» come John Kennedy, Nikita Krusciov e Giovanni XXIII da assumere le forme di un vero e proprio paradigma culturale: il paradigma della convergenza. L’idea che si potesse stabilire un’etica comune universale, valida per l’intera umanità: credenti e non credenti, laici, cattolici, protestanti, islamici, ebrei e così via.
Questo paradigma ha dominato per alcuni decenni: si pensi al Concilio Vaticano II. Ma poi è crollato. Lasciando il terreno al paradigma della divergenza, fondato sull’identità, che si è incarnato sostiene Maurizio Mori in personaggi politici, come Margaret Thatcher o Ronald Reagan, e religiosi, come Giovanni Paolo II.
Questo nuovo vento culturale ha portato la Chiesa Cattolica a definire, in maniera sempre più formale, il proprio Magistero nelle materie eticamente sensibili della biomedicina. A fornire definizioni di vita, di morte, di persona molto precise. A indicare una serie di «principi non negoziabili». È nata così la «bioetica cattolica» (intesa come bioetica ufficiale della Chiesa), fondata su una precisa «visione del mondo» che ha determinato, quasi naturalmente, la nascita di una «bioetica laica» che fa riferimento a un’altra «visione del mondo». La due visioni sono affatto diverse e, a tratti, si rivelano inconciliabili. E, infatti, i motivi di scontro tra queste due visioni del mondo nel corso degli anni è venuta aumentando: il divorzio, l’aborto, la procreazione assistita, il testamento biologico...
Fin qui la storia. Che è la storia di un conflitto crescente. Ma è un conflitto artificioso e sanabile, oppure ha basi teoriche solide? A questa domanda risponde, nella seconda parte del libro, Giovanni Fornero. Sostenendo, in primo luogo, che il conflitto esiste ed è reale: sbagliano coloro che lo negano o che tendono a minimizzarlo. E, in secondo luogo, che il conflitto si fonda, appunto, su visioni del mondo affatto diverse. Una, quella cattolica, che fa riferimento al trascendente, alla specialità dell’uomo e all’esistenza di «principi assoluti» di derivazione divina. L’altra, quella laica, che si riferisce solo alla natura, di cui l’uomo è parte non dotata di particolare specificità.
Giovanni Fornero sostiene che sarebbe sbagliato cogliere la differenza tra queste due bioetiche sulla base della dicotomia tra fede e ragione. Entrambe, sostiene, sono fondate sulla ragione. Anche se esprimono due diverse e, a tratti, irriducibili razionalità.
Fornero individua 12 idee-guida alla base dell’etica applicata cattolica e di 10 diverse e a tratti opposte, idee-guida dell’etica applicata laica, ma una comune epistemologia fondata sulla deduzione logica.
In realtà, anche se entrambe aderiscono a una logica tendenzialmente di tipo deduttivo, un’asimmetria fondamentale tra la «bioetica cattolica» e la «bioetica laica» esiste. La prima, quella cattolica, deduce le implicazioni logiche da idee-guida che sono «assiomi», perché fanno riferimento al trascendente e, dunque, per definizione non sono dimostrabili scientificamente. La seconda, la bioetica laica, fa riferimento alle conoscenze empiriche, oltre che teoriche, della scienza. Conoscenze che non sono assolute, ma contingenti. Non sono assiomi, ma teorie e fatti sperimentali che sono, per definizione, da tutti dimostrabili.
POSSIBILE SOLO UN COMPROMESSO
Ma al di là di questa asimmetria, è vero che le due visioni del mondo sono così diverse da rendere impossibile ogni tentativo di recuperare il paradigma della convergenza, a meno che una delle due non rinunci ai suoi principi fondanti (alle sue idee-guida). Così, anche se a tratti nobile, quella di molti concordasti risulta una «missione impossibile».
Il guaio è che la bioetica non è «mera filosofia». Ha evidenti implicazioni pratiche. Influenza, per esempio, le leggi dello stato. Cosa deve fare lo stato se di fronte ha (almeno) due bioetiche diverse e irriducibili?
Domanda di stringente attualità. Anche per il governo prossimo venturo.
Il guaio è che le risposte a questa domanda sono, a loro volta, asimmetriche e inconciliabili. I fautori della bioetica laica sosengono che gli stati devono svolgere il ruolo, neutrale, di arbitro. Lasciando libertà a tutti di aderire alla propria «visione del mondo». I fautori della bioetica cattolica sostengono, al contrario, che alcuni dei loro principi non a caso definiti «non negoziabili» hanno valore universale. E dunque devono essere assunti in forma di legge dagli stati.
Come si esce, in Parlamento e nella società, da questo inviluppo? Secondo Fornero si tratta di una classico problema indecidibile. Non ammette una soluzione in punto di logica: il paradigma della convergenza è definitivamente crollato. Le due bioetiche non possono essere conciliate. Di conseguenza non c’è altro da fare che cercare, pragmaticamente, di volta in volta un compromesso. Purché sia cercato in maniera trasparente e non sia un compromesso al ribasso.
Corriere 10.1.13
Ma solo il 6 per cento dell'elettorato ascolta le indicazioni della Chiesa per il voto
di M. A. C.
ROMA — Definiti i cattolici coloro che «vanno a messa almeno tre domeniche ogni mese», Scenaripolitici.com ha testato per la prima volta, su un campione significativo della popolazione con oltre 4.000 interviste valide, le espressioni di voto dei cattolici italiani e il loro giudizio sul cosiddetto endorsement cardinal Bagnasco e il «gradimento» nei confronti della lista Monti.
Il 7 gennaio scorso le intenzioni di voto dei cattolici (che così definiti costituiscono solo il 34,1 per cento del totale dei votanti) erano distribuite in questo modo: 27,1% centrodestra; 13,1% Lista Monti; 33,4% centrosinistra.
I cattolici sono generalmente a conoscenza delle parole di Bagnasco (79%), ma solo il 24% prende in considerazione le indicazioni della Chiesa. Il 63% dei cattolici conosce la posizione di Monti a proposito dei temi etici; di questo 63%, il 65% condivide tale posizione (solo a chi rispondeva «sì» alla domanda sui temi etici è stato chiesto se ne condivideva la posizione). In particolare il disaccordo è più alto (e maggioritario) tra i cattolici nelle file di centrodestra (sono il 63 per cento), mentre rispettivamente l'85 e l'81 per cento di coloro che intendevano votare Monti o il centrosinistra sono per la «libertà di coscienza» indicata dal premier.
Tornando ai dati nazionali (cioè di tutti i votanti e non solo degli elettori cattolici), coloro che ammettono di prendere in considerazione le indicazioni della Chiesa per il voto sono appena il 6% dell'elettorato: il 3,3% sta con Monti, il 2% sta nel centrodestra, lo 0,5% nel centrosinistra. Molti di questi voti sono però sicuramente in bilico, cioè pronti a spostarsi.
La Stampa 10.1.13
Germania, i vescovi non rinnovano contratto di ricerca ai criminologi antipedofilia
di Alessandro Speciale
qui
l’Unità 10.1.12
Razzismo: «La polizia può fermare le partite»
di Pino Stoppon
ROMA DOPO IL CASO BOATENG, CON I CORI RAZZISTI DI UNA PARTE DEI TIFOSI DELLA PRO PATRIA CHE HANNO SPINTO IL MILAN A LASCIARE IL CAMPO E SOSPENDERE L’AMICHEVOLE, IL VIMINALE RIBADISCE CHE L’UNICA AUTORITÀ PREPOSTA A DECIDERE L’INTERRUZIONE DI UNA PARTITA, SU SEGNALAZIONE DELL’ARBITRO, È «IL DIRIGENTE DEL SERVIZIO DI ORDINE PUBBLICO». La puntualizzazione, quasi una risposta al presidente federale Abete che aveva chiesto una mano più dura da parte del capo della polizia Antonio Manganelli, è arrivata ieri dall’Osservatorio sulle manifestazioni sportive al termine di una riunione (cui ha preso parte anche il direttore della Federcalcio Antonello Valentini) in cui è stato approvato all’unanimità una specifica determinazione che in pratica ricalca quanto già approvato nel 2009. «In presenza di segnali di razzismo, intolleranza o antisemitismo, l’arbitro provvederà, anche su segnalazione dei calciatori, ad investire, tramite il “quarto uomo”, il Dirigente del servizio di ordine pubblico, unico responsabile della decisione di sospendere la gara si legge nella nota diffusa dal’Osservatorio Lo stesso Dirigente del servizio valuterà in ogni caso il non avvio o sospensione dell’incontro anche a carattere temporaneo per consentire la diffusione di messaggi di ammonimento per le tifoserie, attraverso i sistemi di amplificazione sonora presente negli stadi». Non potranno ripetersi, quindi, casi come quello di Busto Arsizio quando Boateng, e poi il Milan tutto, ha deciso di lasciare il campo e non giocare più. Ma perché la procedura, già prevista da anni anche se mai applicata davvero, sia davvero efficace il dipartimento di pubblica sicurezza «diramerà una specifica circolare, nella quale, nel quadro di norme già vigenti, saranno ribadite le procedure sopra indicate e le strategie di assoluta fermezza, finalizzate alla sistematica identificazione dei responsabili ed alla conseguente adozione di provvedimenti Daspo, collegati ai provvedimenti giudiziari emessi».
Contemporaneamente, ha specificato l’Osservatorio, il coordinatore del gruppo operativo di sicurezza (presente in ogni stadio) organizzerà periodiche esercitazioni per garantire il regolare flusso di queste informazioni e l’efficienza dei piani di emergenza in caso di evacuazione dello stadio in seguito alla sospensione di una partita mentre l’Osservatorio si farà cura di organizzare e realizzare campagne informative
il Fatto 10.1.13
Denunciato Guzzanti - Don Pizarro. La 194 porta querele
I telespettatori cattolici trascinano in tribunale Paolo Guzzanti
La rete lo difende: in poche ore raccolte 25 mila
di Tommaso Rodano
Siede in abito talare su uno scranno dorato. Porta al collo una croce un po’ troppo vistosa e ha una cadenza romana decisamente marcata. A una domanda sull’uso del preservativo, risponde così: “A noi, daa vita, ce frega dal momento del concepimento fino alla nascita”.
Siede in abito talare su uno scranno dorato. Porta al collo una croce un po’ troppo vistosa e ha una cadenza romana decisamente marcata. A una domanda sull’uso del preservativo per prevenire l’Aids, risponde così: “A noi, daa vita, ce frega dal momento del concepimento fino alla nascita. Già un quarto d’ora dopo non je ne frega più niente a nessuno”. Il pubblico esplode in una risata scrosciante. Poi il prelato racconta la sua personalissima ricetta per contrastare l’aborto: “A ‘ste ragazze che abortiscono je levamo i punti della patente. Se non porti avanti la gravidanza non porti manco la macchina”. E ancora, sull’aborto: “Ma chi ve la tocca sta 194? Magaaari, ma quella ormai è una battaglia persa. Ma te poi fa’ partori’ una per forza? Che dobbiamo fa’, je commissariamo er corpo, je mandiamo i carabinieri a casa? Magaaari, ma non se pò fa’, non te lo fanno fa’”.
È mai possibile prendere sul serio un prete così? L’esilarante don Florestano Pizarro non è altro che un personaggio di Corrado Guzzanti. Uno dei più riusciti: il comico romano lo interpreta da anni a teatro e in televisione. È solo satira. Ma anche stavolta qualcuno si è offeso. E per usare un termine in voga, la vuole “silenziare”.
PER GUZZANTI e il suo don Pizarro, infatti, è arrivata niente meno che la censura dell’Aiart. L’Associazione telespettatori cattolici lo ha denunciato per “aver offeso con battute da caserma il sentimento religioso degli italiani, vomitando insulti e falsità per oltre un’ora di spettacolo”. Nel mirino dei “telespettatori cattolici” c’è anche La7, che sta trasmettendo in prima serata Recital, lo show di Guzzanti: oltre alla querela al comico romano è arrivata la richiesta di sospensione del programma. Recital, in realtà, non è uno spettacolo televisivo, ma la messa in onda di tre serate dell’omonima tournée teatrale di Guzzanti del 2009. La prima è stata trasmessa il 4 gennaio. Per le prossime si vedrà.
Eppure la comicità caustica di don Pizarro non è un nuovo pezzo nel repertorio dell’autore satirico. E lo sguaiatissimo prete non è nemmeno al suo esordio televisivo: è stato già proposto nel 2001, all’Ottavo Nano, nel 2008 a Parla con me e nel-l’ultimo show del 2011, Aniene. La carriera televisiva di Don Pizarro, insomma, ha più di dieci anni, ma prima della messa in onda di Recital nessuno se ne era mai lamentato. Secondo l'Aiart, le battute di Guzzanti offendono “i sentimenti religiosi dei cattolici” e addirittura, “più in generale, di quanti liberamente professano una confessione religiosa”. Oltre ad appellarsi direttamente a La7 per la sospensione della trasmissione, l’associazione cattolica ha intenzione di presentare un esposto all'Agcom, “perché accerti violazioni e sanzioni per questo programma, che non ha niente a che vedere con la satira e con lo spettacolo”.
Corrado Guzzanti per adesso ha preferito non commentare. Ma a difesa di don Pizarro si è già messa in movimento la rete. E lo ha fatto in massa: su change.org , la piattaforma delle petizioni online, è comparso un documento in sostegno del comico e della libertà di satira (lanciato da Stefano Corradino, blogger del fattoquotidiano.it ). In meno di due giorni, è stato già firmato da oltre 25 mila persone (i tweet sono 200 e passa, le condivisioni su Facebook più di 2 mila). La petizione definisce la denuncia a Guzzanti da “Medioevo Italia” e invita l’Aiart a ritirare la querela e la richiesta di sospensione del programma, “nel nome dell'articolo 21 della Costituzione e della libertà di espressione e di satira”. L’invito, per i telespettatori cattolici, è quello di concedersi un sorriso, ascoltando il consiglio di San Francesco di Sales: “Siate sempre gioiosi. Un cristiano triste è un triste cristiano”.
Corriere 10.1.13
Trattative Stato - mafia
Le Due Verità e quelle Domande senza Risposta
Una tacita Intesa, senza un Mandato politico
di Giovanni Bianconi
Sembra la versione «moderata» del presunto patto fra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi: la trattativa ci fu, o quantomeno fu tentata per poi lasciare il passo a una «tacita intesa», ma senza alcun mandato politico dei vertici delle istituzioni. E in ogni caso senza risultato, giacché lo Stato non fece concessioni significative e anzi scatenò una reazione senza precedenti contro gli «uomini d'onore».
È l'ultimo atto parlamentare di un politico di lungo corso come Beppe Pisanu — democristiano e post democristiano passato dal centrodestra al centro, che si appresta a lasciare le assemblee legislative dopo quarant'anni di quasi ininterrotta presenza, ma chissà che non possa aspirare a nuove importanti cariche.
Il presidente dell'Antimafia ha messo in fila gli eventi così come sono emersi dal lavoro della commissione e degli uffici giudiziari che continuano ad arrovellarsi sul biennio sanguinoso e ancora oscuro 1992-1994, per trarre un giudizio politico che resta sospeso nei confronti di chi è sottoposto a indagini e processi, ma suona come un'assoluzione per i vertici istituzionali rimasti fuori dalle aule giudiziarie. E fa intravedere, fino a farlo diventare esplicito in alcuni passaggi, un contrasto con il lavoro della Procura di Palermo di cui non a caso Antonio Ingroia — il pubblico ministero che s'è fatto politico — ha approfittato per attaccare lo stesso Pisanu, ormai avversario dello schieramento opposto.
Il rappresentante della commissione parlamentare sostiene, riferendosi ai contatti tra i carabinieri del Ros e l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, che «ci fu almeno una trattativa tra uomini dello Stato privi di un mandato politico e uomini di Cosa Nostra», a loro volta «privi di un mandato univoco e sovrano». Nell'atto d'accusa con il quale ha chiesto il processo per gli ex ufficiali dell'Arma Mori, De Donno e Subranni, al contrario, la Procura di Palermo sottolinea che i tre carabinieri cercarono Ciancimino e altri uomini collegati alle cosche «su incarico di esponenti politici e di governo». Dunque con un preciso mandato, almeno para-istituzionale, dettato da una «inconfessabile ragion di Stato». Ancora. Pisanu afferma che dell'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro morto un anno fa (il quale riferì di non avere mai saputo niente né della trattativa né degli avvicendamenti al vertice dell'amministrazione penitenziaria, da cui scaturirono le mancate proroghe di oltre trecento decreti di «carcere duro» per altrettanti detenuti) «non possiamo mettere in dubbio la parola e la fedeltà alla Costituzione e allo Stato di diritto». Fosse stato ancora vivo, invece, Scalfaro sarebbe oggi indagato per falsa testimonianza dai pm di Palermo. Bastano questi due accenni per comprendere la differenza d'impostazione tra chi crede che le istituzioni vadano sostanzialmente assolte e chi ha chiesto il giudizio penale per alcuni loro esponenti dell'epoca, ma ritiene che ci siano ulteriori livelli di responsabilità e consapevolezza da scoprire. Tra chi considera il caso politicamente chiuso, nonostante le molte domande rimaste senza risposta, e chi invece pensa che ci sia da scavare ancora. Tra chi pensa che lo Stato abbia vinto («una cosa sono gli obiettivi della mafia, un'altra i risultati») e chi che abbia perso: Pisanu da un lato, la Procura di Palermo dall'altro.
Al di là delle interpretazioni e delle divergenze d'opinioni, però, restano i fatti. E l'immagine di ciò che era lo Stato al tempo della «strategia della tensione» scatenata da Cosa Nostra dopo le condanne definitive al maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Una rappresentazione che coincide nelle carte dell'Antimafia e in quelle delle Procure (non solo Palermo, ma anche Caltanissetta e Firenze): le istituzioni e i loro apparati poco meno che in ginocchio e una classe politica incapace di trovare le risorse per reagire all'offensiva mafiosa. Rappresentanti dei partiti e dello Stato quasi increduli e impreparati di fronte a boss che avevano deciso di chiudere vecchi conti, una volta rotto il «clima di convivenza e, a tratti, perfino di collaborazione, che aveva lungamente caratterizzato il rapporto mafia-politica-istituzioni», come scrive il presidente della commissione parlamentare. A cominciare dall'omicidio del «garante» Salvo Lima, che di Pisanu fu compagno di partito.
il Fatto 10.1.13
I “laojiao” e il volto buono del compagno cinese
Quei gulag di Stato per “rieducare” i nemici di classe
di Simone Pieranni
Pechino Ci finiscono le persone che vengono colte in gesti o attività che sono in bilico tra “il crimine e l'errore”, come ebbe a dire James D. Seymour, studioso dei sistemi penali in Cina. Si tratta dei laojiao, abbreviazione di laodong jiaoyang, i campi di lavoro. Secondo la stampa locale, sarebbe ormai imminente la fine del sistema di detenzione nei campi di lavoro: un segnale importante in questo inizio del 2013, seppure nel composito e complicato magma cinese riguardo i diritti umani. Ad annunciare l'abolizione - anche se gli organi di stampa locali hanno riportato la notizia sotto l'etichetta di una potenziale “riforma” - è stato Meng Jianzhu, capo della commissione che all'interno del Partito comunista si occupa degli affari legali.
NEL GIOCO dei ruoli e dell'importanza delle parole di certi esponenti, Meng è uno che conta al riguardo: l'abolizione, ha detto il funzionario di partito, avverrà durante la prossima Assemblea Nazionale, il Parlamento cinese, che si radunerà a Pechino a marzo. Secondo le statistiche fornite dalla autorità, e ribadite ieri sera da un servizio della televisione di Stato, in Cina esisterebbero 310 campi di lavoro, con 300mila prigionieri e oltre 100mila addetti ai lavori.
Una precisazione: i laojiao non sono i laogai, ovvero i campi di lavoro forzati in cui venivano rinchiuse persone condannate penalmente. I laogai, infatti, sono stati sospesi nel 1997. I laojiao, invece, ricevono le persone condannate in via amministrativa o senza processo e sono ad oggi pieni di piccoli delinquenti, prostitute o persone che hanno la colpa di aver commesso “errori” (ad esempio postare un messaggio anti governativo su Internet, irritare il funzionario sbagliato). “Nella maggioranza dei casi - ha scritto in “Crime, punishment and policing in China” (2008) Borge Bakken, dell'università di Hong Kong - i condannati sono posti nei campi di lavoro dalla polizia, senza neanche processo. L'amministrazione detentiva può durare fino a 4 anni”.
Le richieste di una riforma del sistema, del resto, affondano negli anni ‘80 quando molti intellettuali richiesero cambiamenti delle strutture detentive, create negli anni ‘50 da Mao Zedong per soffocare i “nemici di classe”. Non pochi analisti hanno sottolineato come l'abolizione del laojiao potrebbe rappresentare un viatico a ulteriori riforme volute dal nuovo leader Xi Jinping, approfittando anche del pensionamento dell'artefice della teoria del “mantenimento della stabilità”, operato a colpi di detenzioni illegali, Zhou Yongkang. Nel caso dei laojiao, poi, l'arbitrarietà del sistema giuridico cinese si evince in tutta la sua opacità: lo scorso anno divenne celebre in Cina la vicenda di Ren Jianyu, 25 anni, un ex funzionario di villaggio che ha trascorso 15 mesi in un campo di lavoro di Chongqing per aver postato on line le critiche al governo locale sul suo microblog. Ren era stato assegnato a produrre cannucce per il sistema sanitario nazionale: “Il campo di lavoro – ha detto – elimina i diritti ai cittadini, è un semplice strumento in mano dei funzionari per sbarazzarsi di gente come me”.
FAN SIDONG ha trascorso il periodo tra il 1983 e il 1994 in un campo nel Xinjiang, la regione autonoma nel nord ovest cinese. Ha lasciato la sua testimonianza in un libro, “New Ghosts, Old Ghosts: Prisons and Labor Reform Camps in China” (1998) curato da esperti dei sistemi penitenziari cinesi: “La violazione dei diritti era quotidiana, ore di lavoro, impossibilità a chiedere colloqui, angherie e soprusi continui da parte delle guardie che spesso istigavano i prigionieri a commettere violenze tra di loro. E l’ironia della sorte è che molti dei cosiddetti criminali erano gestiti da delinquenti ben peggiori, che semplicemente avevano il potere datogli dalla loro uniforme”.
Corriere 10.1.13
Il milionario israeliano che vuole annettere la Cisgiordania. E insidia Netanyahu
di Viviana Mazza
GERUSALEMME — Naftali Bennett arriva con l'auricolare dell'iPhone nell'orecchio e sulla testa una kippah fatta all'uncinetto. Il volto è giovane e paffuto. Unico in maniche di camicia, è ospite alla Hebrew University per un dibattito con altri candidati, durante il quale si oppone duramente alla creazione di uno Stato palestinese. Ma il suo tono non è mai aspro. Cita Roosevelt: «Parla con dolcezza e portati dietro un grosso bastone».
Il quarantenne Bennett è la sorpresa delle elezioni parlamentari israeliane del 22 gennaio. Idolo dei coloni, ha portato Habayit Hayehudi (la Casa ebraica), partito della destra religiosa sionista, a una spettacolare ascesa, da 3 seggi ai 13-18 previsti dai sondaggi (sui 120 della Knesset). Diventerebbe il terzo partito dopo l'alleanza Likud-Yisrael Beiteinu guidata dal premier Netanyahu (circa 34 seggi) e i laburisti. La sua prima mossa una volta eletto? Riflette per qualche secondo. «Andrò al Muro del pianto per una preghiera di ringraziamento», dice al Corriere dopo il dibattito. Ma politicamente? «Negozierò con Netanyahu, per influenzare il nuovo governo». All'Italia, che ha votato in favore della Palestina come Stato osservatore all'Onu, chiede: «Come vi sentireste se vi dicessero di commettere un suicidio collettivo come nazione? Stabilire uno Stato palestinese nella terra di Israele — sostiene, riferendosi all'intera zona tra il fiume Giordano e il Mediterraneo — porterebbe a una guerra eterna, allo spargimento di sangue per i prossimi 200 anni». Il suo piano è di annettere il 60% della Cisgiordania (la parte attualmente sotto controllo israeliano) offrendo ai 50 mila palestinesi che vi risiedono la scelta tra la cittadinanza o andarsene.
Definito da una commentatrice del Jerusalem Post «il genero che ogni madre israeliana vorrebbe avere», il carismatico Bennett è a suo agio sia tra i coloni in Cisgiordania che nei bar di Tel Aviv. Ha guidato il potente consiglio di Yesha che rappresenta gli insediamenti, combattuto nell'unità di élite Sayeret Matkal (la stessa di Netanyahu) nella seconda guerra del Libano dove ha perso il suo migliore amico, ma è anche un imprenditore di successo, figlio di californiani emigrati in Israele per passione sionista, che ha vissuto a New York per 4 anni vendendo la sua società di cyber security per 145 milioni di dollari. Vive non nelle colonie ma nel sobborgo benestante di Ra'anana a nord di Tel Aviv, con la moglie Gilat, chef di dolci, e quattro figli tra i 10 anni e i 10 mesi. Nell'argomentare che, da un confinante Stato palestinese, Israele verrebbe bombardata come da Gaza parafrasa Bob Dylan: «Quanti missili possiamo sopportare?». E con questo mix di modernità e religione, si propone di conquistare anche i giovani laici di Tel Aviv in nome di una «primavera dei valori ebraici». Non senza successo. «Nella società israeliana gli imprenditori del settore high tech come lui sono i nuovi modelli, quello che una volta erano i militari», spiega Tal Schneider, ex corrispondente di Maariv, che cura il blog politico Plog. «Dalla sua ha il fatto d'essere un volto nuovo. Ma molti non si curano di capire che dietro quella faccia gentile c'è una soluzione dura e miserabile, che va contro le risoluzioni Onu ed è inaccettabile per il mondo».
La sua ascesa ha strappato voti a Netanyahu, che pure dovrebbe restare premier, e lo spazio dedicato dai giornali agli attacchi tra i due partiti rivaleggia con la tempesta che da giorni scuote Israele. Bennett, che è stato anni fa capo dello staff di Bibi, lo accusa di ambiguità nel difendere i coloni. Il Likud ha criticato Naftali per aver detto che da soldato rifiuterebbe di sgomberare le colonie e lo ha definito il volto presentabile di un partito estremista. Intanto, notano alcuni commentatori, l'effetto Bennett sta spostando la destra verso posizioni estreme: alcuni politici del Likud hanno suggerito l'annessione della Cisgiordania e il premier ha visitato l'altro ieri un insediamento illegale da poco autorizzato (il decimo durante il suo governo) presentandosi come il migliore amico dei coloni. Se Bennett suggerisce che «Netanyahu guiderà l'autobus, ma rifiuto di lasciarlo solo e metterò una mano sul volante per influenzare la direzione», il premier ha assicurato ai coloni: «In realtà tengo le mani ben salde sul volante».
Repubblica 10.1.13
Lo strabismo di Nietzsche
L’“emancipazione dalla verità” in due nuovi testi del filosofo
di Maurizio Ferraris
Se c’è un punto su cui sembra dominare un consenso incondizionato, tra amici e nemici, è il fatto che Nietzsche sarebbe il padre del relativismo postmoderno, attraverso la dissoluzione delle nozioni di verità e di oggettività. Per cui Nietzsche si perderebbe in una “contraddizione performativa” (cioè, in poche parole, in uno strabismo tra il dire e il fare): in nome di una verità più profonda dissolve la verità, in nome del riconoscimento della autentica struttura dell’universo, la volontà di potenza, critica l’oggettività della scienza. Trovandosi alla fine intrappolato in un labirinto da cui non riesce a venir fuori. Ma siamo sicuri che sia così? Prendiamo due testi di epoche molto differenti apparsi in questi giorni, Il crepuscolo degli idoli, nella nuova e riccamente commentata edizione a cura di Chiara Piazzesi e Pietro Gori (Carocci), e Il servizio divino dei greciuscito da Adelphi, con una illuminante postfazione del curatore, Manfred Posani Löwenstein, e con una nota di Giuliano Campioni.
Il servizio divino dei greci raccoglie gli ultimi due corsi tenuti a Basilea da Nietzsche prima di abbandonare l’insegnamento, nel 1875-1876 e nel 1877-1878. In mezzo c’è il soggiorno a Sorrento e la stesura di Umano troppo umano, ossia il passaggio dalla filologia alla filosofia, in quello che viene solitamente definito il periodo “illuministico” di Nietzsche, quando filosofare significa portare lo sguardo di una ragione disincantata su ciò che sembra sublime e magari divino mentre è, appunto, troppo umano. Ebbene, in questi corsi Nietzsche — come già nella Nascita della tragedia ma servendosi ora con abbondanza di materiali etnografici — studia i greci fuori da qualunque classicismo, e li concepisce come una tappa della cultura indoeuropea della casta. Più che gli inventori della democrazia, che è già decadenza, i greci sono i teorici dell’aristocrazia braminica.
Nietzsche rassegna le dimissioni dalla cattedra di Basilea nel 1879, e in un decennio di vagabondaggio tra la riviera francese e italiana, la Svizzera e, infine, Torino, elabora la sua filosofia.
Il crepuscolo degli idoli ne è la sintesi e il documento terminale, la scatola nera, potremmo dire, prima del crollo psichico che ha luogo tra la fine di dicembre 1888 e i primi di gennaio del 1889. Qui dunque vediamo orchestrati tutti i temi della filosofia nietzschiana, che si condensano in una pagina famosa, «come il mondo vero “finì” per diventare una favola», dove si raccontano le tappe che dal cosmo aristocratico di Platone, in cui la verità si identifica con l’autorità, conducono — sulla via di un declino travestito da progresso — al venir meno della verità. L’ultima stazione recita: «Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente! » Qui c’è qualcosa che suona strano. Nietzsche sta raccontando la storia di un errore e di una decadenza (attraverso il cristianesimo, il kantismo, il positivismo), eppure all’ultima stazione del viaggio dice che assistiamo all’“apogeo dell’umanità”. E uno si può chiedere: che razza di apogeo può esserci ad aver perso tanto il mondo vero quanto quello apparente? La contraddizione si risolve considerando che le ultime parole dell’apologo sono, in maiuscolo, INCIPIT ZARATHU-STRA. Come dire che dopo il lungo errore che consisteva nel cercare la verità come oggettività, una umanità eletta capisce che non c’è né mondo vero né mondo apparente, ma solo volontà di potenza, e l’oggettività viene sostituita dall’autorità, da Zarathustra come profeta di una nuova religione e di un nuovo ordinamento per caste. Ben lungi dal propagandare la relatività dei valori, il pensiero di Nietzsche trova il suo filo conduttore nella gerarchia, dai primi lavori filologici su Teognide, cantore dell’aristocrazia dorica, sino alla lettura appassionata del Codice di Manu, il testo sacro induista.
A questo punto, i conti tornano, e non c’è alcuna contraddizione performativa. Non abbiamo a che fare con una aporia del relativismo, visto che, in senso stretto, non c’è nulla di relativistico nella prospettiva di Nietzsche, che identifica la verità con l’autorità. L’aporia, semmai, sta nell’idea di emancipazione. Perché Nietzsche, in perfetta buona fede, ritiene di stare avanzando delle prospettive emancipatorie: in effetti, si potrebbe osservare che non c’è liberazione maggiore, non c’è emancipazione più iperbolica di quella che ci toglie di dosso il peso della verità e della oggettività. Ma il problema, ovviamente, resta aperto e si sposta. Trasformandosi in due interrogativi politicamente ben più scottanti (e drammaticamente attuali) di quanto non lo siano i dibattiti un po’ logori sul relativismo: una emancipazione dalla verità è davvero una emancipazione? E, soprattutto, è davvero emancipazione una libertà riservata soltanto al superuomo?
Repubblica 10.1.13
Paolo Ricca
Il pastore e teologo valdese: “I dieci comandamenti sono il fondamento del vivere comune, ma alcuni sono stati stravolti dalla Chiesa ”
“Non c’è bene senza legge non c’è libertà senza trasgressione”
di Franco Marcoaldi
Per un agnostico, o un ateo, affidarsi al “giudizio di Dio” e dunque alla sua Legge, può suonare come la definitiva resa di ogni possibile giudizio critico individuale. Paolo Ricca, pastore valdese, curatore delle opere di Lutero per l’editrice Claudiana, teologo finissimo e di grande apertura mentale, la pensa esattamente all’opposto: proprio la Legge di Dio offre la massima libertà all’essere umano. «Il discernimento del bene e del male è possibile là dove si sa che cosa siano il bene e il male. Nella visione biblica questa capacità l’uomo non ce l’ha. E quindi anche il suo discernimento è offuscato. Perciò è necessaria la parola di Dio».
Ma nella modernità occidentale, diciamo da Montaigne in avanti, l’uomo presume, a torto o a ragione, di disporre di quella capacità. Cosa la spinge, nel 2012, a cercarla ancora nella parola di Dio?
«Almeno due buone ragioni. La prima ha a che fare con Kant, il grande maestro critico della modernità, e con la sua idea di imperativo categorico. Ovvero con la rinuncia della singola persona a decidere che cosa può “imperare” nella sua propria coscienza. Seconda ragione: l’evidenza di ciò che accade intorno a noi, ogni giorno. Le pare che l’umanità nel suo insieme, e non parlo dell’arbitrio del singolo individuo, sia in grado di organizzare un sistema di leggi volte al bene comune?».
Però esistono tradizioni di pensiero, penso ad esempio al confucianesimo, in cui il fondamento etico-sociale della legge ha una base tutta mondana.
«Sì, ma l’aspetto più sorprendente del discorso biblico è che la Legge viene dopo l’Esodo. Ovvero, Dio prima libera il suo popolo e soltanto dopo gli dà la legge, fondata dunque sulla libertà raggiunta, che impedirà di tornare a uno stato di schiavitù. Lei porta l’esempio del confucianesimo, per dimostrare che non è necessario Dio per avere una legge. Ma Dio, che peraltro non è mai “necessario”, ci indica la strada per dare alla legge il suo vero significato: non come sottrazione di libertà, ma come suo massimo dispiegamento. Io penso che dobbiamo liberarci da questa idea secondo cui Dio deve esserci. Bonhoeffer parla di “un Dio che c’è, non c’è”, proprio per riaffermare che Dio non è necessario. Che Dio è libertà, non necessità. La rivelazione della Bibbia è tale proprio per questo. Rivelare, togliere il velo, vuol dire aiutare l’uomo a capire ciò che non vede: Israele ha creduto in un Dio liberatore, prima che in un Dio giudice e legislatore. È un messaggio formidabile. Certo, sempre se uno ci crede!».
Per chi è cresciuto tra le braccia della Chiesa cattolica la prima parola che viene in mente pensando alla religione, non è certo “liberazione”. Semmai il trittico dostoevskjiano “mistero, miracolo, autorità”.
«Lo capisco. Ma Dio non è la Chiesa. Sono due piani del discorso che vanno tenuti
accuratamente separati».
Veniamo al Dio legislatore e dunque ai dieci comandamenti. Lei li trova ancora utili per il nostro tempo?
«Assolutamente sì. Pensi al primo comandamento, che impone di distinguere tra gli idoli e Dio. Più attuale di così! Oppure, pensi al comandamento del riposo applicato a una società come la nostra, in cui il tempo libero è ancor più schiavizzato di quello del lavoro. Purtroppo, nella cultura religiosa italiana i dieci comandamenti sono poco predicati. Alcuni sono stati addirittura stravolti: per esempio, quello sul riposo è diventato “santifica le feste”, una definizione del tutto impropria. Obbedendo a una tendenza gnosticizzante del cattolicesimo romano, l’Antico Testamento è stato messo progressivamente da parte, a esclusivo vantaggio del Vangelo. Il che spiega varie cose anche sul fronte morale. Perché il discorso sulla centralità dell’amore va bene, ma quando si arriva al comandamento “non rubare”, le cose si fanno un po’ più complicate».
Ha appena accennato al nuovo comandamento di Gesù: ama il prossimo tuo come te stesso. Gesù, però, oltre a obbedire, trasgredisce la legge.
«Certo, perché non c’è libertà senza trasgressione: bisogna trasgredire alcune leggi degli uomini in nome della legge di Dio, nella quale si manifesta appieno la nostra libertà».
Mi faccia un esempio.
«Gesù viene condannato a morte per due motivi: come trasgressore della legge
sabato e come distruttore del tempio. E perché trasgredisce la legge del sabato? Perché i teologi avevano costruito attorno a quel comandamento una serie di norme assolutamente fuori luogo. Del tipo: nel giorno del riposo puoi fare al massimo dieci passi. Così, se l’uomo caduto a terra è lontano da te dodici passi, non puoi aiutarlo. Ma mille altri sono i casi in cui è giusto trasgredire le leggi umane, in nome di una superiore legge divina. Pensi all’obiezione di coscienza: non prendo in mano il fucile per ammazzare il prossimo, anche se lo Stato me lo impone».
Capisco cosa intende dire. Però intravedo anche il rischio opposto: ogni legge dello Stato laico può essere messa in forse sulla base di una legge superiore. Pensi all’aborto.
«Ma non c’è nessuna legge divina che vieta l’aborto. Quella è una legge della Chiesa, che naturalmente ha il suo peso e il suo valore. Però nella Bibbia non si parla di aborto. Di nuovo, bisogna saper distinguere tra legge divina, legge ecclesiastica e legge civile».
Qual è il luogo simbolico per eccellenza in cui si manifesta il giudizio di Dio?
«La croce di Gesù, e questo è il parados so dei paradossi: ovvero, il giudizio di Dio viene “giudicato” nell’uomo, e nell’uomo messo in croce. “Dio mio, perché mi hai abbandonato”, dice Gesù. È il momento della lacerazione completa dell’idea stessa di Dio. Paolo definisce la croce “pazzia” per i greci, i laici, e “scandalo” per i giudei, per i religiosi come me. La verità è che se si va alla radice del discorso cristiano, il giudizio di Dio ci conduce a un’afasia totale. Perché si assiste al capovolgimento completo tra un Dio giudicante e un Dio giudicato».
Il primo a portare Dio “in tribunale” è Giobbe, quando verifica sulla propria pelle che l’idea secondo cui se fai il bene ti ritorna il bene, non è così automatica.
«Il suo è il grido di disperazione dell’innocente che soffre ingiustamente. E protesta. La risposta di Dio, in verità non tanto chiara, lo metterà a tacere. Ancora non si dà quel rovesciamento in cui il Dio giudicante viene giudicato. Anche se già nell’Antico Testamento si affaccia l’idea secondo cui il giudizio di Dio si associa alla misericordia e non alla giustizia retributiva. E questo ci porta dritti al Nuovo Testamento, alla vita di Gesù, alla sua passione, quintessenza dell’ingiustizia: un processo farsa, la condanna, la flagellazione, la condanna a morte. Gesù subisce, ma non partecipa. Dice a un certo punto: potrei chiamare dodici legioni di angeli, ma non lo faccio. Non mi metto sullo stesso piano di Pilato, di Erode. Ed ecco il salto ulteriore, sul piano della fede. Non soltanto io non rispondo al tuo male con la stessa moneta, ma prendo su di me la tua colpa. E muoio non soltanto per la tua malvagità, ma perché ti perdono. Ora tutto questo è straordinario. Il paradosso è che le ragioni per cui uno crede o non crede, potrebbero essere le stesse. E rimandano sempre alla figura della croce. Ecco perché non posso prendermela con gli atei. Loro dicono: come posso credere a un Dio messo in croce? E io obietto: gli credo proprio perché è stato messo sulla croce».
Le ripropongo la domanda iniziale, rovesciata. Non c’è il rischio che affidandosi al giudizio di Dio si verifichi una de-responsabilizzazione dell’individuo?
«Se intende un atteggiamento fatalista nei confronti di tutto ciò che accade, come se tutto fosse sempre e comunque frutto della volontà di Dio, allora sì, c’è questo rischio. Ma cito ancora Bonhoeffer quando dice: non tutto quello che accade è volontà di Dio, mentre in tutto ciò che accade c’è un sentiero che porta a Dio. Siamo partiti dalla parola discernimento. Ebbene, io credo che Dio, inteso come libertà d’amare, sia innanzitutto luce. E questa luce illumina il nostro cammino, aiutando o addirittura determinando il nostro discernimento. In fin dei conti, è la luce che ci consente di vedere. E discernimento vuol dire capacità di vedere, quindi capacità di giudicare, dopo aver visto. Non alla cieca».
Repubblica 10.1.13
Una ricerca pubblicata su “Science” dimostra che a ogni età della vita siamo convinti, sbagliando, di restare sempre gli stessi per gusti e abitudini
Anime immobili
Giovani o vecchi, perché ci illudiamo di non cambiare mai
di John Tierney
Quando rievochiamo com’eravamo un tempo ci sembra di essere parecchio diversi. Siamo consapevoli di quanto siano cambiati negli anni la nostra personalità e i nostri gusti, ma quando guardiamo avanti, non si sa perché, ci aspettiamo di rimanere come siamo oggi. Lo dice un gruppo di ricercatori in psicologia, che ha presentato uno studio sulla percezione di sé che hanno le persone.
Il team di psicologi ha definito questo fenomeno «illusione da fine della storia», con le persone che hanno la tendenza a «sottovalutare quanto cambieranno in futuro». Secondo la loro ricerca, che ha coinvolto più di 19.000 persone fra i 18 e i 68 anni, questa illusione è un tratto persistente, dall’adolescenza fino all’età della pensione.
«Le persone di mezza età come me», dice uno degli autori, lo psicologo di Harvard Daniel Gilbert, «spesso guardano agli anni della propria adolescenza con un misto di divertimento e imbarazzo. Apparentemente non ci rendiamo mai conto che il nostro io futuro, guardando indietro, penserà le stesse cose rispetto a quello che siamo ora. A ogni età pensiamo di aver capito tutto, e a ogni età ci sbagliamo».
La ricerca, pubblicata sulla rivista Science, ha suscitato l’interesse di altri psicologi, che sono rimasti colpiti dalla mole di dati che gli autori hanno portato a supporto della loro tesi. I partecipanti hanno risposto a domande sui loro tratti caratteriali e sulle loro preferenze – in tema di cibo, vacanze, hobby e gruppi musicali – negli anni passati e oggi, poi è stato chiesto loro di fare previsioni per il futuro. Come immaginabile, i più giovani hanno descritto cambiamenti più significativi, nei dieci anni precedenti, rispetto ai partecipanti di età più avanzata. Ma quando si è trattato di fare previsioni su quanto cambieranno la loro personalità e i loro gusti fra dieci anni, tutti, indipendentemente dall’età, hanno detto di non aspettarsi grandi cambiamenti.
Le previsioni della ventenne media per i dieci anni successivi della sua vita sono molto meno radicali delle considerazioni della trentenne media sui cambiamenti intervenuti nei dieci anni precedenti. Questo genere di discrepanza si ripete costante fra i partecipanti di tutte le età, fino oltre i sessanta.
E la discrepanza non sembra ascrivibile all’inaffidabilità dei ricordi, perché i cambiamenti della personalità rievocati dalle persone concordano piuttosto bene con altre ricerche sulle modifiche dei tratti caratteriali che avvengono con l’avanzamento dell’età. Le persone sembrano essere molto più in grado di rievocare com’erano in passato che di immaginare quanto cambieranno in futuro.
Perché? Il dottor Gilbert e i suoi collaboratori, Jordi Quoidbach di Harvard e Timothy Wilson dell’Università della Virginia, hanno qualche ipotesi al riguardo, basata sulla documentata tendenza degli individui a sopravvalutare la propria eccellenza.
«Pensare di avere raggiunto l’apice della nostra evoluzione personale ci fa sentire bene», dice Quoidbach. «L’esperienza del “Se avessi saputo allora quello che so adesso” ci dà un senso di soddisfazione e di significato, mentre renderci conto della transitorietà delle nostre preferenze e dei nostri valori può spingerci a dubitare di ogni decisione e generare angoscia».
O forse la spiegazione ha più a che fare con le energie mentali: prevedere il futuro comporta più fatica che limitarsi a rievocare il passato. «La gente può confondere la difficoltà di immaginare cambiamenti personali con l’inverosimiglianza dei cambiamenti stessi», scrivono gli autori su Science.
Il fenomeno ha i suoi inconvenienti, dicono gli autori. Per esempio le persone da giovani prendono decisioni – farsi un tatuaggio o scegliere un coniuge – che a volte si trovano a rimpiangere.
E questa illusione di stabilità può portare ad aspettative finanziarie incerte, come hanno dimostrato i ricercatori in un esperimento in cui chiedevano alle persone quanto pagherebbero per vedere la loro band preferita.
Alla domanda su quanto fossero disposti a sborsare per vedere oggi un concerto del loro gruppo preferito di dieci anni prima, la risposta media è stata: 80 dollari. Ma alla domanda su quanto fossero risposti a spendere per un concerto del loro gruppo preferito di adesso fra dieci anni, la cifra è salita a 129 dollari. Anche se erano consapevoli che i loro gruppi preferiti di 10 anni prima, come i Creed o le Dixie Chicks, avevano perso un po’ di smalto, sembravano convinti che i Coldplay o Rihanna non li avrebbero mai delusi.
«L’effetto “fine della storia” può rappresentare un limite di immaginazione personale», dice Dan McAdams, uno psicologo della Northwestern University che ha condotto ricerche distinte sulle storie che la gente costruisce riguardo alla propria vita passata e futura. Ha sentito spesso raccontare dalle persone storie complesse e dinamiche sul passato, e poi da quelle stesse persone proiezioni vaghe e prosaiche di un futuro in cui le cose rimangono più o meno identiche.
Al dottor McAdams torna in mente una conversazione con la figlia durante la mania delle Tartarughe Ninja, negli anni Ottanta. Quando le disse che forse un giorno non sarebbero più state la sua cosa preferita, la bambina, che all’epoca aveva 4 anni, rifiutò di
prendere in considerazione quella possibilità. Ma parecchio tempo dopo, a vent’anni, gli confessò che in una parte della sua mente di bambina aveva capito che forse papà aveva ragione.
«Quando per la prima volta si confrontò con l’idea di un cambiamento, a 4 anni, la respinse perché non riusciva a immaginare che cosa avrebbe mai potuto sostituire le Tartarughe Ninja», dice McAdams. «Aveva un vago sospetto che sarebbe cambiata, ma non riusciva a immaginare come e perciò affermò con decisione la continuità. Forse la stessa cosa succede più o meno a tutti noi».
(Traduzione di Fabio Galimberti) © 2013 The New York Times
Repubblica 10.1.13
La profezia di Musil l’uomo senza qualità aveva già raccontato “l’auto-inganno”
di Paolo Legrenzi
Ulrich, l’uomo senza qualità del romanzo-saggio di Robert Musil si accorge che le persone, giunte a una certa età, credono di non cambiare più. Avevano molte possibilità, da giovani, ma poi si «trovano davanti qualcosa che pretende d’essere ormai la loro vita». A quel punto gli adulti, riflette Ulrich, «adottano la persona che è venuta loro», e giudicano le sue vicende come il risultato delle proprie qualità personali. Essi hanno in realtà influito pochissimo sugli avvenimenti. E tuttavia preferiscono credere d’aver scelto un destino che corrisponde alla loro personalità permanente e alle loro scelte di vita. Ulrich si accorge di questa illusione, e non chiede di meglio che essere un uomo senza qualità.
La ricerca di Jordi Quoidbach, e dei suoi collaboratori, mostra che la nascosta illusione di non cambiare è così potente che la sua esistenza, intuita dal genio di Musil, è stata scoperta solo ora dalla psicologia scientifica con metodi rigorosi. La sua forza si traduce in una sorta di auto-inganno molto vantaggioso. Grazie ad esso possiamo affrontare la vita con sicurezza e soddisfazione di noi stessi, stabili e affermati. Purtroppo l’illusione, soprattutto in un mondo continuamente mutevole qual è quello odierno, sui tempi lunghi può avere effetti collaterali negativi e destabilizzanti. Se facciamo scelte che hanno conseguenze durevoli, finiamo per trovarcele davanti dopo che siamo inaspettatamente cambiati. A quel punto, rimpiangiamo d’aver agito così. Troppo tardi, se il passato ha una sua inevitabile inerzia. Per esempio, pensavamo una persona come partner della nostra intera vita, e invece, dieci anni dopo, cambiamo, e la preferiamo come partner di quel pezzo di vita, di quell’io/tu rivelatosi transitorio. Jordi, il primo autore dell’articolo di Science, non conosceva l’anticipazione di Robert Musil e l’ha trovata interessante. Forse anche l’uomosenza qualità è stato transitorio, vittima dell’illusione che l’ha confinato nella sua Cacania.
La Stampa 10.1.13
Intervista choc a «Stern»
Pola Kinski: “Violentata per anni da mio padre Klaus”
di Alessandro Alviani
È l’attore tedesco che più di ogni altro ha incarnato fino all’estremo il binomio genio-sregolatezza: è entrato nell’immaginario collettivo con le sue interpretazioni di criminali e personaggi al limite della follia, è rimasto celebre per i suoi accessi di collera o per gli insulti urlati a colleghi e registi, a 24 anni è finito per tre giorni in una clinica psichiatrica per presunta psicopatia. Il lato più oscuro di Klaus Kinski, l’ enfant terrible del cinema tedesco, era rimasto però finora nascosto. È riemerso ieri, a oltre vent’anni dalla sua morte. A rivelarlo la figlia maggiore, Pola, al settimanale Stern: suo padre l’ha violentata per oltre un decennio. Ha iniziato quando lei era ancora una bambina, a 5 anni, e ha smesso quando ormai era una donna, a 19. «Non badava a niente, neanche al fatto che spesso mi sono opposta e ho detto: “non voglio”. Non gli importava nulla, si prendeva semplicemente quello che voleva», ha detto Pola, che oggi ha 60 anni.
A tre anni suo padre e sua madre, la cantante Gislinde Kühlbeck, divorziarono. Lei andò a vivere dalla madre, ma poi, quando questa conobbe un altro uomo, iniziò a sentirsi non più amata. Una situazione sfruttata dal padre: Pola si trasferì da lui e lo seguì a Berlino, Roma, Madrid. Kinski, scrive Stern, «la sgridò, la gettò contro il muro, la violentò e la ricoprì di lusso». «Si concesse un piccolo oggetto sessuale adagiato su un cuscino di seta», spiega la donna, che confessa di aver vissuto tutta l’infanzia nel terrore dell’ira di suo padre. «Quando l’ho visto nei film ho sempre pensato che fosse esattamente come a casa». In fondo, è la sua conclusione, «ha abusato di tutti, non ha mai rispettato le altre persone».
Pola Kinski, che ha lavorato con successo come attrice di teatro ma ha presto lasciato questo mestiere, ha raccontato la sua infanzia e gioventù in un libro che uscirà a breve in Germania. L’ho scritto per oppormi all’onnipresente «divinizzazione» di mio padre, ha notato: «non ce la facevo più a sentire: “Tuo padre! Fantastico! Un genio! Mi è sempre piaciuto! Da quando è morto questa divinizzazione è peggiorata». Il libro si chiama Kindermund (letteralmente: Bocca di bambino ), un titolo che sembra ricordare da lontano quello dell’autobiografia di Kinski, Ich bin so wild nach deinem Erdbeermund («Sono pazzo della tua bocca di fragola»), uscita nel 1975. Un libro in cui Kinski racconta - non si sa quanto fedelmente alla realtà - di aver avuto anche rapporti sessuali con delle quattordicenni.
In passato sono già circolate voci secondo cui Kinski avrebbe violentato anche la figlia secondogenita (nata da un altro matrimonio), l’attrice Nastassja Kinski. Nel 1999 una giornalista del Guardian le chiese se suo padre avesse abusato di lei: «No, non nel senso che intende Lei – rispose Nastassja Kinski -, ma in altri modi sì».
Voci anche su Nastassja: «Mio padre - disse lei - non ha abusato sessualmente di me, ma in altri modi sì»
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
mercoledì 9 gennaio 2013
La Stampa 9.1.13
Nell’inferno di Rosarno gli uomini sono tornati schiavi
Tre euro al caporale e poi al lavoro: 50 centesimi per ogni cassetta riempita
A tre anni dalla rivolta, tutto è come prima: oltre mille africani nei dormitori cloaca
Regione e governo non danno più soldi: ora il campo modello è tutto spaghi, cartoni ed eternit
di Giuseppe Salvaggiulo
Letti di terra Nel dormitorio abitano mille lavoratori. Le tende sono fatte con pezzi di plastica, spago, cartoni e lastre di eternit. Gli africani dormono su letti di terra pressata pronti a trasformarsi in fango alla prima pioggia. Cucinano riso e ali di pollo in bidoni di risulta. I bagni sono due fosse a cielo aperto FOTO ADRIANA SAPONE Baracche di eternit e campi abusivi In alto il campo abusivo sorto a fianco alle tende mandate dal ministero. Sotto una baracca costruita con lamiere di eternit recuperate in discarica
Sbaglia chi dice che a Rosarno, tre anni dopo la rivolta dei migranti, le devastazioni, la controrivolta degli italiani, la caccia all’uomo e infine la deportazione dei neri, tutto è come prima. È peggio.
Gli africani sono di nuovo mille, come allora: arrivati in autunno, ripartiranno in primavera dopo aver raccolto agrumi a 25 euro al giorno, anche se adesso i padroni prediligono il cottimo che aumenta la produttività: un euro a cassetta per i mandarini e 0,50 per le arance, in ogni cassetta 18-20 chili di raccolto. Nel pieno della stagione lavorano trequattro giorni a settimana, a chiamata, versando tre euro al caporale che li carica all’alba sul pullmino. Nei giorni di magra girano in bici nella piana, fanno la spesa ai discount, cucinano riso e ali di pollo in bidoncini arrugginiti, si ubriacano di birra, litigano tra loro.
I due giganteschi dormitori nei ruderi delle fabbriche dismesse non esistono più da tre anni: uno chiuso d’imperio e abbandonato, l’altro demolito. Bisognava rimuovere, non solo psicologicamente. Ma la nuova favela tra Rosarno e San Ferdinando è, se possibile, ancora più raccapricciante. Lamiere di eternit recuperate in qualche cimitero industriale, di cui la Calabria abbonda, fanno rimpiangere gli scheletri di cemento e le pareti di ferro. Ora i tetti sono di cellophane, cartone, plastica di risulta. Come calcestruzzo uno spago di fortuna. Cumuli di terra pressata alti venti centimetri sorreggono i precari giacigli, pronti a inondarli di fango alla prima pioggia. I bagni sono in fondo a destra: due fosse larghe un metro scavate per quaranta centimetri nella terra, a cielo aperto e senza riparo alcuno. Nella tenda più grande, dieci metri per cinque, si contano non meno di cento posti letto tra materassi rancidi e brandine. Un odore indicibile. Non ci sono acqua, fogna, elettricità; solo immondizia a fare da sipario.
«Una cosa incivile, vergognosa, uno schifo», urla Domenico Madafferi, sindaco di San Ferdinando che, sulla base di una relazione sui requisiti igienici «praticamente inesistenti» e sulla «situazione dannosa per la salute» di «baracche fatiscenti» e «dimore abusive senza le condizioni minime di vivibilità» che «potrebbero essere focolai di infezioni», ha scritto di suo pugno un’ordinanza di sgombero. «Un modo per mettere Regione e governo spalle al muro, dopo inutili riunioni, appelli e solleciti scritti – spiega -. Ma non è cambiato nulla, solo promesse». Così ieri ha scritto la lettera al prefetto con cui si appresta a eseguire lo sgombero. Un’eventualità drammatica, «perché il ricordo di tre anni fa sarà niente rispetto a quello che potrebbe accadere se arriviamo con le ruspe».
Eppure in questo stesso posto, solo un anno fa, le autorità inauguravano un campo modello: 280 posti, ampie tende da quattro persone, stufe a olio, tv satellitare, bagni da campeggio, lampioni nei viottoli, rifiuti raccolti ordinatamente, mensa con cucina, presidio medico. Una Svizzera nella piana di Gioia Tauro. Il materiale era arrivato dal Viminale dopo l’interessamento del ministro per la Cooperazione Andrea Riccardi. La Regione aveva messo 55 mila euro per la gestione. La Provincia pagava la corrente elettrica. I sindaci Elisabetta Tripodi di Rosarno e Domenico Madafferi di San Ferdinando facevano il resto. Le associazioni di volontariato più diverse - cattoliche, laiche, evangeliche - si prodigavano per offrire assistenza, cibo, coperte grazie all’aiuto di migliaia di persone (altro che razzismo). La tendopoli si aggiungeva ai container installati nel febbraio 2011: 120 migranti in moduli da sei con cucinino e bagno in camera. Non solo si smantellavano gli ultimi ghetti, ma l’inedito «modello Rosarno» dava vitto e alloggio a ogni immigrato con 2 euro al giorno, contro i 45 spesi generalmente dalla Protezione Civile. E dunque, pur con numeri ancora insufficienti (400 posti, un terzo del necessario), in una terra dove lo stato di eccezione è permanente (qualche tempo fa i tre Comuni principali si ritrovarono contemporaneamente sciolti per mafia), aver messo tra parentesi l’emergenza pareva un miracolo. Invece a rivelarsi una fuggevole parentesi è stata proprio la normalità. Giugno 2012: finiti i soldi della Regione, la tendopoli viene chiusa e abbandonata, in attesa della nuova stagione agricola. In agosto i sindaci si rivolgono a Regione e governo: bisogna organizzarsi per tempo o tornerà il caos. Cosa che puntualmente accade: a fine ottobre, quando parte la raccolta dei mandarini, la tendopoli priva di gestore viene occupata e saturata dai migranti.
Nelle tende si sistemano in sei, ma non basta perché altri ne arrivano. I sindaci reclamano aiuto: non hanno soldi, strutture, personale per farcela. «Regione e governo latitano, il ministro Riccardi non risponde, solo la presidenza della Repubblica dà un segnale di attenzione comprando e mandando coperte, peraltro inadeguate», dice sconsolato il sindaco. In poche settimane anche la mensa diventa un maxi dormitorio. Non c’è più spazio e gli ultimi arrivati cominciano a costruire la favela contigua all’insediamento originario. Senza manutenzione, gli scarichi fognari non reggono a una popolazione quadruplicata, i container con i bagni diventano cloache inservibili, la cucina chiude, i cassonetti dei rifiuti esplodono. Basterebbero 50-70 mila euro per ripristinare la gestione della tendopoli in modo dignitoso, efficiente e controllato fino a primavera. Solo lo 0,000006% della spesa pubblica italiana e delle promesse udite tre anni fa. Ancora troppo, per Rosarno.
l’Unità 9.1.13
Bersani: pronti a vincere
La squadra Pd: 40% donne
Varate le liste del Pd: ultime novità il giornalista Mineo e gli esponenti cattolici Patriarca, Fattorini, Preziosi e Nardelli, la sindacalista Fedeli
Restano fuori Reggi Paganelli, Ceccanti
Candidati Tronti, e in Abruzzo Concia
Il segretario: «Sfruttiamo al meglio il vantaggio»
di Simone Collini
«È una rivoluzione. Porteremo in Parlamento il 40% di donne». Pier Luigi Bersani è visibilmente soddisfatto. Le liste del Pd sono pronte, sono approvate all’unanimità dalla direzione del partito, e sono per il segretario democratico quello che ci vuole per vincere, perché sono «all’insegna della competenza, del pluralismo e della professionalità». E poi, che non guasta, perché su 38 capilista saranno 16 le candidate.
«Siamo pronti a governare il Paese», dice aprendo i lavori, «con la scelta di stasera siamo in campagna elettorale, sfruttiamo al meglio il vantaggio sui nostri competitori». L’avversario è Silvio Berlusconi, ma ormai è chiaro che per vincere il Pd dovrà fare i conti anche con l’operazione avviata da Mario Monti insieme a Pierferdinando Casini e Luca Cordero di Montezemolo. Ed è pensando alla sfida che ha di fronte che Bersani ha voluto inserire nelle liste molti esponenti chiamati dal mondo delle professioni, dell’associazionismo laico e cattolico, dell’imprenditoria e del sindacato.
Candidati con il Pd ci sono quattro esponenti cattolici come Edo Patriarca, che è presidente del centro nazionale volontariato e organizzatore delle settimane sociali, Ernesto Preziosi, che è direttore dell’Istituto Tonioli, Flavia Nardelli, che è segretaria generale dell’Istituto Luigi Sturzo, ed Emma Fattorini, che è storica dei movimenti religiosi alla Sapienza. C’è l’economista Paolo Guerrieri e la sindacalista (e tra le fondatrici di “Se non ora quando?”) Valeria Fedeli, che sarà capolista al Senato in Toscana, insieme a Maria Rosaria Carrozza, capolista alla Camera. A guidare la lista Pd in Sicilia per il Senato c’è il direttore di RaiNews24 Corradino Mineo, mentre Sergio Zavoli è candidato in Campania, dove capolista saranno la giornalista anti-camorra Rosaria Capacchione, al Senato, e, alla Camera, Enrico Letta e Guglielmo Epifani.
Per quel che riguarda gli altri capolista in Piemonte ci sono Cesare Damiano e Mario Taricco alla Camera e Ignazio Marino in Senato, in Lombardia Bersani, Carlo Dell’Aringa, Cinzia Fontana e Massimo Mucchetti (Senato), in Trentino Gianclaudio Bressa e Giorgio Tonini. Pier Paolo Baretta e Davide Zoggia saranno i capilista in Veneto per la Camera, mentre Laura Puppato sarà la numero uno per il Senato. In Liguria ci sono Andrea Orlando alla Camera e Donatella Albano al Senato. In Emilia Romagna, Dario Franceschini e Josefa Idem, in Umbria, Marina Sereni e Miguel Gotor, in Abruzzo Giovanni Legnini e Stefania Pezzopane. Nel Lazio guidano le liste Pd Bersani, Donatella Ferranti e Pietro Grasso, in Basilicata Roberto Speranza e Emma Fattorini, in Puglia Franco Cassano e Anna Finocchiaro, in Calabria Rosy Bindi e Marco Minniti, in Sardegna Silvio Lai e Alba Canu, in Sicilia Bersani, Flavia Nardelli e Mineo.
Sono rimasti fuori dalle liste i parlamentari uscenti Stefano Ceccanti, Andrea Sarubbi e Alessandro Maran, e non sono entrati (per rimanere nel fronte renziano) il coordinatore della campagna per le primarie del sindaco di Firenze, Roberto Reggi, e il responsabile Feste del Pd Lino Paganelli. Matteo Renzi ha invece chiesto di mettere in lista Yoram Gutgeld, direttore della società di consulenza McKinsey e padre della proposta lanciata dal sindaco di un taglio di 100 euro sull'Irpef per i redditi sotto i 2 mila euro. È ventitreesimo in Lombardia Giorgio Gori, il che vuol dire che può entrare in Parlamento se il Pd si aggiudica il premio di maggioranza in quella regione. Decisamente più alti in lista Anna Paola Concia (Abruzzo), Mario Tronti (Lombardia) il segretario dei Giovani democratici Fausto Raciti (Sicilia), Alessandra Moretti (Veneto), l’ex operaio Thyssen e deputato uscente Antonio Boccuzzi (Piemonte) e il direttore responsabile di “Italianieuropei” Massimo Bray (Puglia).
LA LEPRE DA INSEGUIRE
«La lepre da inseguire siamo noi e tutti faranno la gara dietro di noi», dice con una delle sue metafore Bersani parlando ai membri della direzione Pd. Il segretario democratico sa che dovrà vedersela anche con Monti, e al premier manda a dire che il suo partito «non cerca la rissa», ma «offrendo rispetto chiediamo rispetto». Con queste liste Bersani vuole dimostrare che guida un collettivo, perché «la personalizzazione dice con evidente riferimento al simbolo della lista civica “Con Monti per l’Italia” porta instabilità». Sul premier, dice, il Pd non ha «niente di cui pentirsi», ha sostenuto il governo con «assoluta lealtà, anche su scelte su cui avremmo fatto di più». Come sull’Imu. Adesso Monti dice che è da rivedere? «Se si voleva sistemare l’Imu c’era il nostro emendamento», manda a dire Bersani. E non è l’unica frecciata indirizzata a Monti, che nei giorni scorsi aveva detto che non ha più senso parlare di destra e sinistra. «In Italia si dice che non esiste il bipolarismo, ma è una singolare notizia per l’Europa, dove non è così».
Ora il leader del Pd parte subito in campagna elettorale, pronto a impegnarsi soprattutto nelle regioni che possono garantire la maggioranza certa al Senato. Poi, in caso di vittoria, comincia la sfida vera. «Il 2013 sarà l’anno più acuto della crisi sul versante sociale. L’Italia ce la farà, noi metteremo il segno più dove oggi c’è il segno meno. Troveremo la nostra forza nel civismo. Ce la faremo senza raccontare favole».
Tutti i candidati su www.unita.it
il Fatto 9.1.13
Iil filosofo e il paracadutato, il Pd ha scelto i suoi
Discussioni accese in Puglia, Sardegna e Trentino, poi i pezzi vanno a posto
Ecco chi ha vinto e chi ha perso
di Wanda Marra
La direzione del Pd ieri sera dopo solo un paio d’ore di riunione ha approvato all’unanimità le liste dei candidati alle elezioni. Senza neanche leggerle ad alta voce. Figuriamoci discuterle. Come nella migliore tradizione. Le trattative finali sono durate una settimana, con tanto di riunioni notturne tra via del Nazareno e via Tomacelli (dove si riuniva il cosiddetto comitato elettorale), nomi saltati all’ultimo momento, dimissioni di segretari regionali annunciate e poi rientrate. Comporre l’algoritmo Bersani – ovvero combinare i nomi decisi dai vertici nazionali e frutto degli accordi con le correnti con i vincitori delle primarie – non è stata cosa semplice. A lavorarci indefessamente sono stati Stumpo e Migliavacca, i fedelissimi del segretario (entrambi in lista, uno in Calabria, l’altro in Emilia Romagna): la combinazione prevedeva posti certi per il listino (il 30% se il Pd vince le elezioni, di più se le perde), e i vincitori dei gazebo dietro, meno garantiti. “Con le primarie abbiamo ammazzato il Porcellum”, dichiarava ieri Bersani in direzione. A giudicare dagli umori non sembra sia stato del tutto così.
“Sono finito sesto, una posizione molto al limite”. Emanuele Trappolino, giovane bersaniano non di fede ma d’appartenenza, discute prima dell’inizio con il gruppo degli umbri. Lì è rimasto fuori anche il segretario, Lamberto Bottini, sconfitto alle primarie, che prima ha dato le dimissioni, tuonando contro i vertici e ventilando brogli, poi le ha ritirate. Alla Camera in Umbria capolista è la Sereni (quota Franceschini), prima di Trappolino, quinto, c’è anche Verini (uno dei pochi veltroniani rimasti). Trappolino sorride, in generale le facce lunghe si sprecano. “In pieno ed assoluto dissenso col gruppo dirigente nazionale del Pd per aver tradito lo spirito delle primarie ed aver invaso le liste pugliesi di 'immigrati dal nord' mi dimetto dalla carica di Segretario regionale”, dichiarava ieri Sergio Blasi, segretario della Puglia. Il tema è quello dei “paracadutati”: candidati imposti dall’alto che tolgono posti ai vincitori dei gazebo, legati al territorio. Passano un paio d’ore e Blasi ritira le sue dimissioni. È riuscito a ottenere l’uscita di Francesca Marinaro, a favore di una pugliese. Se è per la Sardegna, Sergio Lai non accetta il posto di capolista in dissenso con il segretario.
IN SICILIA, sono solo cinque gli esterni nelle liste di Camera e Sanato, più il capolista a Palazzo Madama, Mineo (e risulta così quasi certamente salvo l'ex segretario Cisl, Sergio D’Antoni, uno dei trombati eccellenti dai gazebo). Ma poi le sorprese dell’ultima ora si sprecano. In Toscana, la capolista a Palazzo Madama doveva essere la senatrice uscente, il magistrato Della Monica. Ma nella notte tra lunedì e martedì il suo nome sparisce: entra Valeria Fedeli, vicepresidente del sindacato europeo dell’Industria. E anche moglie di Passoni, fatto fuori dalle primarie in Piemonte. Oppure in Calabria, dove doveva entrare Enzo Ciconte, docente di Roma Tre, massimo esperto italiano di ‘ndrangheta. Ma all’ultimo momento esce per far posto ad Angelo Argento, siciliano in quota Letta (e senza nessuna conoscenza della mafia calabrese). Un gruppo di esodati fuori dal Pd protesta perché è solo terza la Gnecchi in Trentino, vincitrice delle primarie.
Nel risultato finale spiccano i nomi della società civile, le figurine di Bersani: c’è Piero Grasso (candidato nel Lazio e non in Sicilia, dove il capolista in Senato è Mineo, direttore di Rai News, che dovrà vedersela con il candidato di Ingroia, il figlio di Pio La Torre), c’è la Carrozza, rettore del Sant’Anna, c’è Mucchetti, ci sono gli economisti Giampaolo Galli e Dell’Aringa, i filosofi Marzano e Cassano, lo storico Galli. Ieri entrano 4 esterni di area cattolica. Sono Edoardo Patriarca, presidente del Centro Nazionale per il Volontariato ed Ernesto Preziosi, ex presidente dell’Azione Cattolica, la storica Emma Fattorini e Flavia Nardelli, in quota renziana figlia del segretario Dc Flaminio Piccoli. E c’è Gotor, storico, fedelissimo del segretario. Nessun ministro di Monti. Però, “sono molti quelli che ci piacciono”. Non è detto che alcuni di loro non arrivino poi all’esecutivo.
Il segretario lascia fuori il fido portavoce Di Traglia, la pasionaria Chiara Geloni, il capoufficio stampa Roberto Seghetti. Li porterà a Palazzo Chigi, dicono. Non entra nemmeno Giuntella. Renzi mette dentro un drappello di fedelissimi (la Bonafè, per dire, è paracadutata in Lombardia) più uno di rutelliani. Entra il direttore di McKinsey, Yoram Gutgeld. Restano fuori alcuni uomini chiave delle primarie, dal braccio destro Reggi al costituzionalista Clementi, a Paganelli. Franceschini i suoi li piazza tutti, anche senza primarie: da Martino a Garofani a Lo Sacco. Nel drappello Psi oltre al segretario Nencini c’è pure Bobo Craxi. Ma ad algoritmo compiuto Bersani già canta vittoria: “Più che favoriti ci sentiamo vincenti. Siamo noi la lepre da inseguire”
La Stampa 9.1.13
Guai giudiziari
Impresentabili, adesso spunta una autocertificazione
Li chiamano “impresentabili”. Sono quelli che a rigor di legge sono “candidabili”, ma comunque potrebbero rappresentare un’ombra per il Pd. E allora, risolto con un passo indietro della diretta interessata il caso di Bruna Brembilla, che aveva ottenuto un buon risultato alle primarie lombarde, ma è coinvolta in un’inchiesta sulle infiltrazioni della ’ndrangheta nell’hinterland di Milano, e la cosa era stata rimarcata da una lettera aperta a Bersani da alcuni big del partito, il Pd annuncia che si doterà di un codice anti-impresentabili.
Il meccanismo viene annunciato da Luigi Berlinguer, ideatore di un modulo da far sottoscrivere a tutti i candidati «in cui loro stessi - spiega - dichiarino di non trovarsi in una delle condizioni di incandidabilità previste dal codice etico del Pd e dalla recente normativa sulle liste pulite».
In tutta evidenza, se un candidato firmasse questa autocertificazione, e un domani saltasse fuori qualche magagna giudiziaria, verrebbe meno il rapporto fiduciario con il partito. «Successivamente la segreteria potrà investire la commissione di garanzia per una eventuale verifica sui casi in difetto dei requisiti», conclude Berlinguer. C’è tempo fino al 21 gennaio
Eppure Beppe Grillo non perde l’occasione per un’aspra polemica. «Bersani - scrive sul suo blog - in diretta a “Otto e mezzo” ha detto di non conoscere le persone nelle liste del pd che hanno problemi con la giustizia. Non se ne occupa. Si fida del comitato dei garanti composto da persone irreprensibili come Caterina Romeo. Condannata a 1 anno e 4 mesi per violazione alla legge elettorale».
Sarcastico come al solito, Grillo: «Vorrei facilitare l’arduo compito segnalandone alcuni. Vladimiro Crisafulli, Enna, rinviato a giudizio per concorso in abuso d’ufficio, accusato di aver ottenuto la pavimentazione di una strada comunale che porta alla sua villa a spese della Provincia di Enna. Antonino Papania, Trapani, ha patteggiato davanti al gip di Palermo una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio. Giovanni Lolli, L’Aquila, rinviato a giudizio con l’accusa di favoreggiamento, prescritto. Nicodemo Oliverio, Crotone, imputato per bancarotta fraudolenta. Francantonio Genovese, Messina, indagato per abuso d’ufficio».
il Fatto 9.1.13
L’incandidabile armata prova (ancora) a resistere
Rinuncia a correre la sola Brembilla
Per gli altri scatterà l’autocertificazione su apposito modulo
di Caterina Perniconi
Sei un candidato del Partito democratico coinvolto in qualche inchiesta giudiziaria? Puoi autocertificarti e la commissione di garanzia valuterà se la tua dichiarazione è in linea con il codice etico (ove la segreteria del partito lo richiedesse). È questo il meccanismo “anti-impresentabili” studiato da Luigi Berlinguer per ripulire le liste elettorali entro il 21 gennaio, giorno della presentazione definitiva.
“ESAMINEREMO caso per caso” aveva detto Pier Luigi Bersani. Ma la discussione in Direzione nazionale non c’è stata. Meglio rinviare i nomi più controversi al tribunale interno, sempre che tutti gli aspiranti parlamentari consegnino il modulo con la dichiarazione, e che sia veritiera. Per esempio: il candidato numero 7 in lista nella circoscrizione Sicilia 2 alla Camera, Vladimiro Crisafulli, dovrà scrivere che è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio con l’accusa di aver fatto pavimentare a spese della Provincia la strada comunale che porta alla sua villa. Inchiesta che, secondo il codice etico del Pd, non ti rende incandidabile. Potrebbe anche scrivere che è stato filmato mentre parlava di politica e affari con il boss Raffaele Bevilacqua. Posizione archiviata, sebbene la sentenza parlasse di “dimostrata disponibilità a mantenere i rapporti con il boss”. Candidabile.
Chi rischia di più è Antonio Papania, piazzato al secondo posto nella circoscrizione Sicilia al Senato, che ha patteggiato 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio. Anche se il reato non è tra quelli esplicitamente esclusi dal codice etico. Ha invece deciso di non passare dalle “forche caudine” della commissione di garanzia Bruna Brembilla. Ex assessore provinciale a Milano nella giunta di Filippo Penati è stata intercettata in un’inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta, posizione poi archiviata. Sarebbe stata candidabile. “Per senso di responsabilità, consapevole della delicatezza del momento politico che stiamo vivendo, decido di rinunciare alla candidatura – ha scritto in una lettera al segretario del Pd lombardo, Maurizio Martina – per me non è importante un posto, ma l’affermazione delle politiche del Pd, candidato a guidare il paese in una delicatissima fase di transizione”.
LA BREMBILLA aveva partecipato alle primarie e poteva ambire a un posto in lista. Ma alla fine ha rinunciato. Resta invece Francantonio Genovese, terzo in lista nella circoscrizione Sicilia 2 per la Camera, campione di conflitti d’interesse. Scriverà nell’autocertificazione che che lo chiamano
“Franzantonio” perché è diventato sindaco di Messina sebbene azionista della Caronte, società dei traghetti nello Stretto? E che molti dei suoi parenti siedono sulle poltrone di enti e società finanziati dalla Regione? Difficile. Al dodicesimo posto della circoscrizione Campania 1 per la Camera resiste Massimo Paolucci, tirato in ballo nella “trattativa” tra lo Stato e i Casalesi sui rifiuti a Napoli, mai indagato. Il suo coinvolgimento era stato denunciato in un articolo della giornalista antimafia Rosaria Capacchione, anche lei candidata con il Pd, ma al Senato. Le loro strade, per ora, restano divise.
Corriere 9.1.13
Maggioranza da Costruire se 2 Regioni-Chiave Vanno al Pdl
Lombardia, Sicilia e Campania in bilico al Senato
di M. Antonietta Calabrò
«Toss up». Per il Senato e quindi per il futuro governo, la partita è aperta, è come quando si lancia in aria una monetina, «toss up», appunto. Le due coalizioni (centrosinistra e centrodestra) sono distanti circa un dieci per cento, con in testa il centrosinistra, ma.... Ma per effetto del diverso premio attribuito dal Porcellum (su base nazionale alla Camera e su base regionale a Palazzo Madama), la maggioranza della coalizione guidata da Pier Luigi Bersani è netta a Montecitorio, mentre al Senato sarà l'esito di alcune Regioni-chiave a sancire se il centrosinistra potrà «fare da solo» o se Monti e la sua «Scelta civica» potranno essere l'ago della bilancia. Il premier, infatti, non ha alcuna possibilità di vincere alla Camera né in alcuna regione al Senato. In queste condizioni, per poter pesare nella formazione del prossimo governo, Monti deve sperare che Berlusconi vinca in alcune delle Regioni in bilico. Se questo accadesse i seggi del «partito di Monti» diventerebbero decisivi al Senato per fare il governo sulla base di una alleanza con la coalizione di centrosinistra. Paradossalmente, insomma, Monti deve «tifare» Berlusconi.
Scenari ipotizzati dal politologo Roberto D'Alimonte che sul Sole24ore ha analizzato le rilevazioni condotte da Ipsos (l'Istituto di Nando Pagnoncelli) in tre Regioni considerate decisive. Innanzitutto la Lombardia, il cosiddetto «Ohio» italiano, uno swing state che però assegna ben 49 seggi a Palazzo Madama (cioè un sesto di tutti i senatori), e quindi «pesa» come la California nelle elezioni presidenziali americane. Poi la Sicilia e terza, è questa la vera sorpresa, la Campania. Dove la lista capitanata dall'ex aggiunto della Procura di Palermo, Antonio Ingroia, «Rivoluzione civile», sostenuta dal sindaco di Napoli, De Magistris, sta «cannibalizzando» il Pd.
Per D'Alimonte in queste tre Regioni l'esito del voto è oggi assolutamente imprevedibile con una sostanziale parità tra centrodestra e centrosinistra al 32,5%. La supremazia di una coalizione sull'altra, anche di un voto soltanto, per effetto del premio di maggioranza regionale significherebbe in Lombardia 27 seggi al primo classificato e solo 12 al secondo: uno scarto notevole.
Anche in base alle analisi di Fabio Fois, European Economist presso Barclays Capital, la divisione di investment banking della Barclays Bank, basterà al Pd-Sel perdere la Lombardia e anche una qualsiasi altra Regione, per stare «sotto» — con 157 seggi — la maggioranza assoluta al Senato che è costituita da 158 senatori eletti, esclusi i senatori a vita. Se la coalizione di Bersani invece dovesse perdere Lombardia, Sicilia e Veneto avrebbe solo 149 senatori (9 in meno della maggioranza assoluta).
«Certamente, stando ai nostri calcoli, qualora la coalizione Pd-Sel non riuscisse a vincere in Lombardia e in una delle altre Battleground-regions, l'eventuale supporto delle forze centriste al Senato diventerebbe cruciale per la governabilità», dice Fois.
Per Andrea Lenci, di Scenaripolitici.com, Monti ha molte chance. Parte da una premessa generale, Lenci. «L'elettorato in questa fase è molto mobile, tipico dell'inizio delle campagne elettorali. Stiamo vedendo qualcosa di già sperimentato nel 2006 dove l'elettorato "moderato", dopo essersi rifugiato nell'astensione o nella protesta (M5s) torna ad esprimersi». Ricorda che «nel 2006 ci fu una buona rimonta di Berlusconi che convinse buona parte dei suoi ex elettori a rivotarlo». Ma subito Lenci aggiunge: «Ora gli stessi elettori stanno tornando, ma stanno andando verso Monti per la gran parte». Monti leader dei moderati? «In effetti tutto questo ha una logica, l'elettore stanco del centrodestra che non è convinto dal centrosinistra e nemmeno da Fini e Casini, trova un nuovo movimento "moderato" al centro della scena. Un'alternativa importante e che pesca anche nel Pd. Per le prossime settimane i trend potrebbero continuare, se Monti dovesse crescere ulteriormente, e noi lo diamo in forte crescita, non escludo terremoti».
Resta un fatto. Se Pd-Sel dovessero davvero perdere anche la Campania (oltre a Lombardia, Veneto e Sicilia) la loro quota di senatori scenderebbe di almeno altri dieci seggi e allora forse potrebbe non bastare neppure il «fattore Monti» per dare al Paese un governo. Potrebbe delinearsi uno scenario, evocato da Berlusconi nei giorni scorsi, da «grande coalizione».
l’Unità 9.1.13
Una sfida storica
La nuova strada della sinistra
di Massimo D’Alema
Una prospettiva, per l’Italia, c’è. L’idea di un’alleanza delle forze progressiste aperta ai moderati, con la leadership di Pier Luigi Bersani, appare come l’unica proposta politica in grado di rispondere all’esigenza di una ricostruzione democratica.
Con il confronto delle primarie, questa prospettiva ha preso corpo e si è imposta al centro del dibattito pubblico.
Un progetto che si presenta, oggi, come un ritorno della politica alla guida del Paese. Sarà all’altezza, il centrosinistra? L’interrogativo è legittimo, dopo le sconfitte e le delusioni del passato. Anche per questo, non è inutile volgere lo sguardo all’esperienza di questi ultimi venti anni. Non ho mai apprezzato in pieno l’espressione «Seconda Repubblica», che è carica di ambiguità e contiene, forse, un riconoscimento eccessivo al ventennio che si chiude oggi e che si aprì con la crisi dei primi anni Novanta.
LA STAGIONE BERLUSCONIANA
Certamente mi pare appropriato riferirsi a un periodo segnato dal ruolo e dal protagonismo di Silvio Berlusconi, dal suo stile, da un modo di fare politica, da un blocco di forze sociali e di interessi intorno a lui. Il successo di Berlusconi, il suo essere in grado di interpretare un ventennio di vita nazionale, nascono ben al di là delle sue personali capacità e della forza del suo potere mediatico e finanziario. Egli ha, in realtà, impersonato una sorta di rivincita del potere economico e degli spiriti animali della società civile contro la «Repubblica dei partiti», la rivincita di un liberismo rozzo e individualista contro i vincoli che i solidarismi di matrice cattolica e socialista hanno imposto al capitalismo italiano. Un progetto di modernizzazione, quello berlusconiano, che veniva da lontano, certamente dagli anni Ottanta. E, in definitiva, una versione italiana di quella più generale egemonia di una visione neoliberista che ha visto nell’89 non solo la fine del comunismo, ma anche la fine della storia e la definitiva resa dei conti con le ideologie e le grandi narrazioni del Novecento.
Come in altri momenti delle vicende del nostro Paese, i salti di qualità più radicali avvengono sotto l’incalzare di eventi internazionali. La crisi della «Repubblica dei partiti» nasce con l’89, la caduta del comunismo e la fine della Guerra Fredda. Così, la fine del berlusconismo precipita nella grande crisi che in questi anni investe il capitalismo finanziario globalizzato.
A questo appuntamento, l’Italia giunge fragile. Uno dei Paesi più esposti, anzitutto per debolezze profonde, accumulate nel tempo: il peso del debito pubblico, il divario tra Nord e Sud, la farraginosità dell’amministrazione, l’inefficienza della macchina della giustizia, la frammentazione della struttura produttiva. A ciò si aggiungono i problemi accumulati in questi anni per le debolezze di un centrosinistra che non è stato in grado di completare la sua opera riformatrice e per gli effetti devastanti degli anni di governo di Berlusconi e della Lega. Non solo sui conti pubblici, sull’economia e sulla società, ma sull’etica pubblica e sulla credibilità stessa delle istituzioni e del sistema politico-democratico.
Il Paese era veramente giunto sull’orlo del collasso, anche se la memoria corta degli italiani rischia di rimuovere questa realtà. Mario Monti ha interpretato davvero quel ruolo di responsabilità e di salvezza nazionale cui è stato chiamato dal capo dello Stato. Egli ha affrontato con energia l’emergenza, attraverso misure dolorose, in parte inevitabili, anche se non sempre attente a un’esigenza di equità sociale. Ma, in definitiva, il compito del governo era di evitare il disastro e il Paese ne è uscito. Credo che il merito maggiore di Monti sia stato quello di avere restituito voce e credibilità all’Italia sulla scena europea e internazionale, dopo un periodo di marginalità o di profonda umiliazione.
Basterebbe questo a motivare la gratitudine che tutti noi dobbiamo al presidente del Consiglio e anche, sia consentito, a chi lo ha voluto e sostenuto con lealtà, mettendo da parte la legittima richiesta di un voto immediato e la probabile conquista anticipata del governo. Come in altri passaggi cruciali della storia del Paese, ha prevalso a sinistra il senso del dovere verso l’Italia e credo che questa scelta legittimi ora, accanto alla forza del consenso popolare, la candidatura di Bersani alla guida del governo.
Perché ora c’è bisogno di una svolta. E non perché il ceto politico pretenda di reinsediarsi al posto dei tecnici, come si scrive con disprezzo indicando il ritorno della politica come l’alba di una nuova stagione di corruzione e di incompetenza. Non credo debba sfuggire che questa non è solo una campagna contro la politica, è una campagna contro il diritto dei cittadini a scegliere da chi vogliono essere governati, cioè contro la democrazia e contro la sinistra.
Certo, la crisi e la decadenza della politica sono sotto gli occhi di tutti, ma se si vuole imboccare la via di una rigenerazione anche morale e non di un ripiegamento tecnocratico, occorre vedere in profondità i motivi e le cause. Noi non viviamo il tempo del dominio dei partiti e della politica sulla società e sull’economia. Al contrario, ciò cui assistiamo è un declino progressivo e che parte da lontano. La decadenza del partito di massa, ideologico, ha caratterizzato tutta la storia europea degli ultimi trent’anni(...)
Sarebbe impensabile negare gli effetti devastanti di perdita di credibilità del sistema politico e istituzionale, ma il problema è che le spinte dominanti nell’opinione pubblica e nel senso comune vanno nella direzione di una ulteriore destrutturazione, privatizzazione e personalizzazione della politica. Quindi verso un aggravamento dei guasti e non verso un loro risanamento. E, ciò che è persino più grave, verso un restringimento delle basi sociali dell’agire politico. Per dirla rozzamente, la politica dei partiti personali, dominata dai media, priva di sostegno e finanziamenti pubblici, è una politica per ricchi o per lo meno dominata dai ricchi.
È possibile un’altra strada?
C’è una via per la ricostruzione democratica, per uscire dal berlusconismo, senza per ciò coltivare l’illusione di un ritorno al passa-
to? Questa è la sfida con cui si misurerà Bersani e tutto il centrosinistra. Una sfida che oggi appare particolarmente impegnativa e complessa.
In altri momenti di crisi, l’Italia ha avuto, nel riferimento al contesto internazionale e particolarmente all’Europa, un ancoraggio solido e anche l’indicazione di una via d’uscita. Oggi è l’Europa stessa a essere l’epicentro della crisi. È l’Europa la grande malata della globalizzazione, attraversata da spinte populiste e rischi tecnocratici, in diversi casi non meno pericolosi di quelli che hanno investito il nostro Paese (...) Il cittadino americano può scegliere tra un presidente che tagli le tasse riducendo la protezione dei più poveri e uno che tassi i ricchi per garantire l’assistenza sanitaria. Per quanto condizionata dai mercati finanziari e dalle agenzie di rating, la politica americana, come quella di altre potenze emergenti, sembra ancora in grado di decidere. In Europa, no. Il cittadino europeo sostanzialmente ha la percezione di non potere influire sulle scelte dell’Unione, che si presentano come un complesso neutro di vincoli e di obbligazioni, dovute a ragioni tecniche. Alla politica non resta che fare «i compiti a casa», cioè eseguire le direttive che la razionalità economica dominante impone. La politica (politics), confinata entro i limiti delle realtà nazionali, ha scarsa possibilità di incidere, si riduce a narrazione.
In questo quadro si rafforzano le spinte populiste nel nome del demos contro le élite tecnocratiche, invocando l’ethnos nazionale o localistico contro la globalizzazione e l’integrazione europea. Così, la democrazia europea rischia di essere schiacciata tra il peso di una tecnocrazia necessariamente più attenta ai vincoli posti dai mercati finanziari e dalle stringenti compatibilità che essi impongono, e un populismo sempre più antieuropeo, il quale dà voce al malessere sociale e alle identità culturali che si sentono minacciate dalla globalizzazione.
Può apparire paradossale, ma le due grandi tendenze politiche che hanno dominato la scena europea negli ultimi dieci anni sono ambedue espressione soprattutto della destra, o meglio di due diverse destre che nascono dalla storia d’Europa: una liberale e liberista, legata a poteri economici forti, tendenzialmente cosmopolita e favorevole alla globalizzazione; l’altra nazionalista, localista, populista, legata a valori tradizionali e a ceti colpiti o spaventati dall’apertura dei mercati e dalle sfide del mondo globale.
La sinistra europea è apparsa spiazzata e in difficoltà. Si è divisa tra componenti innovative e neoliberali, che hanno condiviso con le élite economiche una visione sostanzialmente ottimistica della globalizzazione, e forze più tradizionali, che hanno difeso lo storico compromesso socialdemocratico e le conquiste che lo hanno caratterizzato, nell’illusione che tutto ciò avrebbe potuto essere protetto anche nei nuovi scenari della competizione mondiale. L’esito è stato quello di una duplice, dolorosa sconfitta. Se pensiamo che la Terza via di Tony Blair ha finito per accodarsi all’avventura di George Bush e dei neocon in Iraq, e che una parte del socialismo francese si è schierata per il «no» nel referendum sulla nuova Costituzione europea, possiamo misurare su entrambi i versanti i rischi di appannamento ideale e di subalternità.
Ma questo è ciò che abbiamo alle spalle: a quella stagione politica ne è seguita un’altra, dominata dalle destre in Europa, che ora può chiudersi. E non solo in Italia. Adesso c’è una nuova stagione che si apre per i progressisti. Non si tratta solo della Francia di François Hollande, ma di un ritorno più significativo sulla scena di forze di ispirazione socialista e laburista. E non si tratta soltanto di questo, ma anche di alleanze di centrosinistra che vanno oltre la tradizione socialdemocratica. Quello che accadrà in Italia e in Germania potrà essere decisivo per modificare lo scenario politico europeo e scrivere finalmente una nuova pagina. Certo, le prove che abbiamo di fronte appaiono estremamente impegnative (...).
L’OPERA DI RICOSTRUZIONE
Il centrosinistra italiano, da Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi sino ad oggi, ha una storia di forte e coerente impegno per l’Europa. Aggiungo che la coerenza europeista è stata a lungo ed è ancora una delle discriminanti di fondo contro vecchi e nuovi populismi nella politica italiana. In questo c’è, sicuramente, la consonanza più profonda tra il Pd e Monti e l’elemento più significativo di continuità con il suo governo che il centrosinistra dovrà assicurare.
L’opera per la ricostruzione e la rinascita dell’Italia non potrà che collegarsi al processo di rilancio europeo come due aspetti della stessa sfida che sta di fronte a una nuova classe dirigente. Anche per questo è così importante che a guidare il Paese sia una forza come il Pd, che – con la sua originale identità – è parte integrante, autorevole e riconosciuta del riformismo europeo (...)
l’Unità 9.1.13
Giovani sempre più senza lavoro È il record degli ultimi 20 anni
I dati Istat evidenziano l’aggravamento della situazione
Nella fascia tra i 15 e di 24 anni il 37,1% di disoccupati
di Marco Ventimiglia
MILANO Una pioggia di numeri, relativi all’andamento della disoccupazione, provenienti da Istat ed Eurostat. Tante cifre che però hanno dei comuni denominatori. Infatti, emerge senza tema di smentita l’aggravarsi nel Continente del problema dei senza lavoro, che diventa ancor più drammatico se ci si concentra sulla fascia più giovane della popolazione europea. E se poi si restringe il campo all’interno dei confini nazionali, allora c’è da rabbrividire apprendendo del nuovo record di giovani privi di un impiego registrato nel mese di novembre, con il tasso di disoccupazione salito al 37,1%, ai massimi dal lontano 1992.
MALE ANCHE L’EUROPA
Dunque, l’Istituto nazionale di Statistica certifica che nel nostro Paese più di un giovane su tre, tra quelli attivi, è senza occupazione. In particolare, secondo i dati provvisori forniti ieri, nella fascia tra i 15 ed i 24 anni d’età le persone in cerca di lavoro sono 641mila e rappresentano il 10,6% della popolazione complessiva di questo segmento. Ed ancora, il tasso di disoccupazione dei 15-24enni (come detto pari al 37,1%) risulta essere in aumento di ben 0,7 punti percentuali rispetto al mese precedente e addirittura di 5 punti nel confronto tendenziale anno su anno. Resta invece stabile il tasso complessivo di disoccupazione in Italia all'11,1%, appunto lo stesso dato di ottobre. Ma nel raffronto con il mese di novembre del 2011 emerge un drammatico aumento di 1,8 punti percentuali. Nel dettaglio, il tasso di disoccupazione maschile, pari al 10,6%, cresce di 0,1 punti percentuali rispetto a ottobre e di 2,2 punti nei dodici mesi; quello femminile, pari al 12,0%, cala di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente e aumenta di 1,2 punti rispetto a novembre 2011.
Spostandoci sui dati continentali, Eurostat ha evidenziato il continuo peggioramento del mercato del lavoro nell’area euro, dove a novembre la disoccupazione ha toccato nuovamente un massimo storico all'11,8 per cento, contro l'11,7 per cento di ottobre. Questo significa che in un mese si sono contati 113mila disoccupati in più, portando il totale a quota 18 milioni 820mila. La dinamica di peggioramento appare ancora più marcata nel paragone su base annua: nel gennaio del 2012 la disoccupazione media nell'Unione valutaria era al 10,7 per cento e rispetto ad allora il numero totale delle persone prive di impiego è cresciuto di ben 2 milioni 15mila. In questo contesto vola la disoccupazione giovanile, seppur con valori medi ben inferiori a quelli italiani. Secondo i dati di Eurostat, a novembre 2012 il tasso ha raggiunto il 24,4%, con 3,733 milioni di under 25 senza lavoro, a fronte del 21,6% dello stesso mese dello scorso anno. Il numero dei giovani disoccupati nell'area della moneta unica è balzato così di 420mila unità in un anno. Nell'Unione europea a 27, invece, il tasso di disoccupazione per gli under 25 è stato, sempre nel mese di novembre, del 23,7% rispetto al 22,2% dello stesso mese del 2011.
Dure le reazioni dei sindacati. La Cgil, per voce della responsabile delle politiche giovanili, Ilaria Lani, sottolinea che i dati sulla disoccupazione mettono «in evidenza il fallimento delle politiche di solo rigore che hanno alimentato la recessione e le disuguaglianze e colpito prevalentemente le nuove generazioni, che ormai vedono un sostanziale blocco nell'accesso al lavoro». Per la Cisl «l'impatto della crisi e le riforme pensionistiche stanno penalizzando particolarmente l'occupazione giovanile» e «il lavoro deve essere il primo punto di qualsiasi programma elettorale». Secondo il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy, «il dato generale è implacabilmente chiaro e quello sulla stagnazione del lavoro giovanile segnala che il disagio occupazionale sta determinando un ulteriore peggioramento delle condizioni economiche e sociali del nostro Paese».
il Fatto 9.1.13
Tagliano pensioni e ospedali, ma comprano sommergibili
Per l’acquisto di due sottomarini militari U-212 lo Stato spenderà 2 miliardi (170 milioni l’anno) grazie a una norma confermata dalla legge di Stabilità voluta dal governo Monti e approvata da Pdl, Pd e Terzo Polo. Un altro spreco dopo gli F-35
di Daniele Martini
Pensioni, ospedali e scuole sì. Cacciabombardieri, sommergibili e siluri no. Chissà perché in Italia da un po’ di tempo a questa parte si può tagliare di tutto, senza esitare a mettere per strada centinaia di migliaia di esodati, per esempio, o fino al punto da indurre i direttori amministrativi degli ospedali a “suggerire” ai medici di prescrivere ai malati le cure meno care e non le più efficaci. Ma quando si arriva di fronte alle armi i governi come d’incanto smettono la faccia feroce e diventano accondiscendenti e rispettosi come indù al cospetto di vacche sacre e i quattrini gira e rigira riescono sempre a trovarli. L’ultimo caso lo ha sollevato quasi per caso lunedì sera, durante Piazzapulita su La7, l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, il quale ha ricordato che tra le spese militari pesanti dell’Italia in questo momento non ci sono solo i 900 milioni di euro per rifinanziare le missioni all’estero, a cominciare da quella in Afghanistan, o i discussi e sofisticatissimi F-35, i cacciabombardieri più costosi di tutta la storia dell’aeronautica militare. Ci sono anche due sommergibili di “ultima generazione” della classe U 212, detta anche classe Todaro. Due battelli, come dicono in gergo, che costano quasi 1 miliardo di euro, che sommato all’altro miliardo già speso per altre 2 unità già entrate in esercizio e con base a Taranto, fanno 2 miliardi. Tanto per avere un ordine di grandezza, è una somma pari a circa la metà di quanto gli italiani hanno dovuto pagare di Imu sulla prima e in moltissimi casi unica casa di proprietà. E una tranche da 168 milioni è stata inserita nella legge di stabilità, varata sotto Natale.
IL PROGRAMMA degli U 212 va avanti da quasi vent’anni e quindi tutti i governi della Seconda Repubblica, di centro-destra, centrosinistra e tecnici, ci hanno messo lo zampino, compreso quelli in cui Tre-monti era ministro e non escluso l’esecutivo di Mario Monti con l’ammiraglio Giampaolo Di Paola alla Difesa, che non hanno mosso ciglio di fronte alla conferma delle ingenti spese. Il primo sommergibile battezzato Salvatore Todaro fu consegnato alla Marina militare il 29 marzo 2006, il secondo un anno dopo, mentre nel 2009 è stato dato il via alla fase 2 del piano, cioè la costruzione di altri 2 sommergibili, frutto di una collaborazione italo-tedesca.
GLI ITALIANI partecipano con gli stabilimenti Fincantieri di Muggiano alla periferia di La Spezia e i tedeschi con il consorzio Arge in cui spiccano i produttori di acciaio Thyssen Krupp, tristemente famosi per il rogo nella fabbrica di Torino in cui morirono sette operai e per il quale è stato condannato l’amministratore dello stabilimento. Il 9 dicembre 2009 nei cantieri spezzini, alla presenza di “autorità, civili, militari e religiose” è stata celebrata la cerimonia del “taglio della prima lamiera” del battello che porterà la matricola S 528. Secondo informazioni della Difesa, fino a 6 mesi fa era stato costruito meno della metà di quel primo sommergibile (il 43 per cento, per l’esattezza), mentre non era stata avviata l’impostazione e tagliata mezza lamiera del secondo il cui termine ultimo di consegna, compreso un anno di prove in mare, è fissato addirittura per il 2017. Al ministero della Difesa sostengono che qualsiasi cambio di indirizzo in corsa sarebbe intempestivo e inopportuno perché i contratti sono siglati. Volendo, però, e ammesso che da qualche parte qualcuno abbia la volontà politica di farlo, si potrebbe anche fermare in extremis la costruzione dell’ultimo sottomarino della serie, con un risparmio di circa mezzo miliardo di euro, in considerazione del fatto che da quando fu decisa la sua realizzazione a oggi di cose ne sono cambiate parecchie, e non in meglio per quanto riguarda le condizioni dei conti pubblici e degli italiani in generale a cui continuano ad essere richiesti sacrifici feroci. In altri paesi dimostrano atteggiamenti molto più “laici” nei confronti delle spese militari, non esitando a metterle in discussione, a ridurle o a tagliarle del tutto quando lo considerano opportuno e di fronte ad altre esigenze ritenute più importanti. Caso emblematico di questo approccio pragmatico è quello del governo conservatore canadese che ha deciso di porre un freno al programma dei cacciabombardieri F-35 considerando fosse necessaria una fase di ripensamento visti i costi crescenti e molto elevati dell’operazione e constatati i difetti dell’aereo emersi in fase di realizzazione e di prova.
Il Fatto 9.1.13
Casta esercito
Armamenti e tagli mancati, il governo ha indossato l’elmetto
di Thomas Mackinson
C’è un settore della spesa pubblica che va a gonfie vele e purtroppo non è la scuola, non è la sanità. In contro-tendenza con tutti gli altri comparti, quello della Difesa nel 2012 ha subito meno tagli e ha ricevuto più fondi, forte di
un doppio trattamento di favore che è proseguito fino all’ultimo, con una serie di colpi di coda che fanno discutere. L’ultimo si è consumato il 28 dicembre scorso con la proroga - quasi in sordina e a governo ormai dimissionato - delle missioni internazionali. Un provvedimento di solito accompagnato da forti tensioni e polemiche ma passato stavolta sotto silenzio, nonostante si portasse in pancia un vero e proprio giallo sui numeri. A prima vista il decreto sembra infatti ridurre la spesa rispetto al passato. Il budget messo sul tavolo dal governo è stato infatti pari a 935 milioni, inferiore di mezzo miliardo rispetto a quello del 2012. Il testo pubblicato in Gazzetta, però, indica che la copertura finanziaria alle operazioni militari è relativa soltanto ai primi nove mesi dell'anno, cioè fino al 30 settembre 2013. Insomma, alla fine dei conti il risparmio potrebbe essere solo sulla carta, un taglio col trucco. Un epilogo molto simile a quello dei tagli generali alla spesa strutturata del comparto difesa, anch’essi oggetto di fortissime polemiche, sia in Parlamento che fuori. Quelli di Tremonti prima e la spending review poi, si sa, sono stati “congelati” temporaneamente in vista della riforma dell’intero comparto. Quella che il generale Di Paola ha scritto per un anno e la Camera ha votato (distrattamente) il 12 dicembre, mentre fuori da Montecitorio le associazioni per il disarmo e i radicali protestavano inascoltati. Contestavano al governo metodo e merito: gli eventuali risparmi che si otterranno da questa operazione, sbandierata come una rivoluzione epocale, non
torneranno affatto alle casse dello Stato, non contribuiranno per nulla al risanamento del debito pubblico o a garantire più servizi ai cittadini. Quelle risorse, a differenza dei tagli degli altri settori, resteranno a disposizione della Difesa e saranno impiegate per finanziare l’acquisto di nuovi sistemi d’arma, compresi i contestatissimi F35 che costeranno 15 miliardi di euro. La loro riduzione, urlata a gran voce e da più parti, si è fermata a 41 esemplari. Di novanta, a quanto pare, non si poteva proprio fare a meno. Dunque anche a questo servirà la riduzione di 43mila unità, il 25% del personale civile e militare attualmente impiegato nella difesa. Idem per i frutti, molto incerti, del fantomatico piano di vendita del 30% delle caserme che dovrebbe andare a compimento in cinque anni. Quello che si profila, stanti questi fondamentali, è un’escalation di investimenti nel-l’industria bellica nei prossimi 10-15 anni. Sulla cui assoluta necessità per il nostro Paese si dibatte da tempo. Qualcuno, e non è la prima volta, sta mettendo in dubbio anche le reali “performance” delle nostre industrie. Le associazioni pacifiste, ad esempio, hanno confrontato i dati sull’export dichiarati nella relazione al Parlamento e quelli contenuti nel Rapporto annuale dell’Unione Europea. E hanno scoperto una curiosa incoerenza tra i numeri: nel 2011 l’Italia avrebbe esportato armi e sistemi di difesa per 2,6 miliardi, per la Ue “appena” uno. Delle due l’una, o i dati sono ampiamente inattendibili o i ritorni degli investimenti militari non sono poi così certi, come ostentato da un governo che ha continuato a indossare l’elmetto. Materia di riflessione per la nuova legislatura. E infine ecco un altro colpo di coda, stavolta assestato dalla casta con le stellette: l’ausiliaria per generali e ammiragli in congedo, una sorta di indennità di chiamata, nel 2013 salirà del 21%, con un costo aggiuntivo per i contribuenti civili di 74 milioni di euro.
La Stampa 9.1.13
Fassina (Pd) attacca “Sarebbero più utili accordi internazionali contro quelli grandi”
“Il redditometro è per i piccoli evasori”
di Rosaria Talarico
Sarà che la campagna elettorale alle porte, sarà che pagare le tasse non piace a nessuno, si tratti del popolo o dei politici. Fatto sta che il redditometro, il nuovo strumento per contrastare l’evasione fiscale appena diventato legge, raccoglie critiche e insulti a trecentosessanta gradi. «Può essere uno strumento importante, ma si concentra sulla piccola evasione – osserva Stefano Fassina, responsabile economico del Pd – servono accordi internazionali per la grande evasione». Incredibilmente le parole sono quasi le stesse usate dall’altra parte politica, con il presidente del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri che descrive gli italiani «tartassati oltre ogni limite e adesso anche spiati e limitati nella libertà personale» aggiungendo che con il redditometro «si instaura uno Stato di polizia fiscale, che finirà con il colpire solo i cittadini onesti che pagano le tasse ma nulla fa contro gli evasori totali, di fatto invisibili al fisco».
Il direttore dell’Agenzia delle entrate, Attilio Befera prova anche a difendere il redditometro con una lettera pubblicata ieri dal Corriere della sera, rifiutando parallelismi con gli Stati di polizia caratterizzati «dall’assoluta segretezza che ammanta le procedure con cui le autorità di quegli Stati operano». Invece il redditometro serve per individuare casi reali di «spudorata evasione fiscale», per citare un’espressione utilizzata da Giorgio Napolitano nel suo discorso di fine anno. Per Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze e grande fustigatore di evasori, il nuovo redditometro invece «rischia di essere un flop. Ho sempre detto che non mi convince perché questi strumenti statistici, al fine di controllo di massa, sono molto incerti nel loro funzionamento». L’alternativa giusta da seguire è quella di «usare le banche dati in modo selettivo e avere un rapporto costante con i singoli contribuenti». Befera respinge anche al mittente le accuse di volere colpire la ricchezza e i suoi simboli: «Il gettito è tanto più alto quanto più i cittadini guadagnano ed è assurdo quindi che il fisco intenda combattere la ricchezza. Semmai è vero il contrario». Una difesa d’ufficio, per quanto appassionata, che cade nel vuoto.
«Strumento di tortura fiscale» lo definisce senza mezzi termini il senatore Pdl Alessio Butti. Mentre il capogruppo al Senato di Fratelli d’Italia Centrodestra Nazionale, Alessandra Gallone ricorda come continuino a passare sotto silenzio «i vergognosi patteggiamenti del fisco italiano con le banche e si preferisca condannare il piccolo contribuente, magari colpevole di essersi fatto aiutare dal nonno per pagare le rette universitarie del figlio, oppure per aver effettuato donazioni alle Onlus».
Meno drastico il presidente della Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria, Maurizio Leo. Da un lato sostiene che il nuovo redditometro vada «maneggiato con cautela, per evitare che diventi uno strumento oppressivo per il contribuente». Dall’altro «coglie nel segno e va sicuramente utilizzato da parte dell’amministrazione, per contrastare l’evasione di massa». E il fatto che l’onere della prova spetti al contribuente non è «un caso di barbarie giuridica» ci tiene a spiegare Befera perché «nessuno, più del contribuente stesso, può sapere come stiano effettivamente le cose». Resta da vedere quanta voglia abbia di andarle a raccontare al fisco.
il Fatto 9.1.13
Crimini e privacy
Pubblici i documenti sui preti pedofili di Los Angeles
di Angela Vitaliano
New York. Inizio d’anno difficile per l’Arcidiocesi di Los Angeles che, a seguito della decisione presa dal giudice Emilie Elias, non potrà più cancellare i nomi dei preti e dei funzionari del Vaticano presenti nei circa trentamila documenti relativi a uno dei più grandi scandali della pedofilia finora scoperti e denunciati. Nel 2007, dopo anni di ripetuti abusi sessuali su minori, da parte di diversi preti, l’Arcidiocesi arrivò a un accordo con le vittime per un risarcimento di 660 milioni di dollari.
IN BASE A QUELL’ACCORDO fu deciso anche che tutti i nomi contenuti nei documenti relativi allo scandalo, potessero essere resi pubblici, senza nessuna possibilità di filtro o di censura. Nel 2011, tuttavia, in seguito a una richiesta presentata alla Corte da 20 dei preti coinvolti, il giudice Dickran Tevrizian, decise di concedere all’Arcidiocesi il permesso di “intervenire” sui documenti così da oscurare i nomi dei “protagonisti”. Secondo il giudice, dare pubblicità alle identità di chi era coinvolto nello scandalo, avrebbe “imbarazzato e ridicolizzato la chiesa”. Di diversa opinione, evidentemente, il giudice che, con grande soddisfazione da parte delle vittime, ha annullato la decisione del 2011 obbligando l’Arcidiocesi a non mettere in atto nessuna cancellazione o censura, se non laddove si tratti di individui che non hanno avuto un peso determinate sullo svolgimento dei fatti. Il giudice, motivando la sua decisione, ha ricordato che non tutti i nomi contenuti nei documenti sono legati al reato di pedofilia in sé stesso e che, dunque, è importante che tutti possano avere un quadro chiaro di come si siano svolti i fatti e del peso avuto da ciascuno nella loro evoluzione. I documenti includono lettere e appunti scambiati fra esponenti di alto rango del vaticano e i loro avvocati, referti medici e psicologici, lamentele stilate da parte di genitori e, in alcuni casi, corrispondenze fra i preti accusati di pedofilia e diversi destinatari in Vaticano. “L’obiettivo del nostro cliente è di risolvere questo al più presto”, ha commentato l’avvocato dell’Arcidiocesi, Michael Hennigan che ha aggiunto anche che il cardinale Roger Mahony, da poco andato in pensione, non ha posto obiezioni alla pubblicazione del suo nome.
Non sembra, tuttavia, possibile che la pubblicazione dei file possa avvenire prima di un mese perché “bisogna capire quant’è grande questa montagna”, ha aggiunto Hennigan lasciando la corte. Ray Boucher, avvocato delle vittime, spera che i tempi possano essere più brevi e, soprattutto, che vengano messe in atto il minor numero di censure
Repubblica 9.1.13
Dalla brigatista torturata ai dittatori africani le ombre nascoste nel passato di Fioriolli
di C. B.
Guidò la questura di Genova subito dopo il G8 denunciando i giornalisti per gli articoli sul massacro alla Diaz
ROMA — Al centro della vicenda napoletana balla un prefetto in pensione la cui storia, da sola, racconta la linea d’ombra di un pezzo della storia recente della polizia Italiana. E che ha il suo incipit nel gennaio 1982. Oscar Fioriolli, classe 1947, trentino di Riva del Garda, poliziotto formato nei reparti Celere, è nelle squadre speciali dell’Antiterrorismo. Le Br-Pcc hanno sequestrato il generale americano James Lee Dozier, vicecomandante delle Forze terrestri alleate per il sud Europa. E il Viminale ha deciso che nella caccia all’ostaggio sia arrivato il momento di mettere in un canto la Costituzione. Salvatore Genova, in quei giorni funzionario della Digos di Verona, è testimone dell’interrogatorio di Elisabetta Arcangeli, arrestata come sospetta fiancheggiatrice delle Br e ritenuta possibile chiave per arrivare al covo in cui è prigioniero l’alto ufficiale. Racconta Salvatore Genova nell’aprile dello scorso anno all’Espresso: «Separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia (il compagno della Arcangeli ndr.) e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna (...) Carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale».
Di quel peccato originale, Fioriolli non vorrà mai parlare. Ma su quel peccato originale costruisce una carriera. Non ha modi né bruschi, né grevi da sbirro. Piuttosto le stim- mate, la forma mentis, di quella polizia politica. Ama le belle cose e mischiarsi tra la gente che conta. Tra l’87 e il ’97, dirige la Digos di Genova, e il suo primo incarico da questore (1997) è ad Agrigento. Dove resta due anni prima della rotazione a Modena (1999-2001) e Palermo, dove resta però solo pochi mesi. Il G8 di Genova lo riporta nell’agosto 2001 nella sua città, dove è rotolata la sola testa del questore Francesco Colucci. Fioriolli è nella massima considerazione di Gianni De Gennaro, allora capo della polizia, e la sua biografia combacia come un calco con l’urgenza che, in quel momento, ha il Viminale. A Fioriolli non va spiegato quello che deve fare. E la sua prima mossa è una denuncia in Procura contro la stampa genovese accusata di “calunniare” la polizia nelle sue ricostruzioni sui fatti della Diaz. La seconda, la melina che impedisce la compiuta identificazione della “macedonia” di polizia che ha fatto irruzione nella scuola. La questura di Genova, del resto, è roba sua. A cominciare dalla Digos e dal suo dirigente Spartaco Mortola. Che come lui è nella cerchia di amici di un faccendiere siriano, tale Fouzi Hadj. Un tipo ricercato per bancarotta, da cui Fioriolli riceve un prestito di 50 mila euro e che fa balenare opachi affari in materia di sicurezza con la dittatura della Guinea Conakry.
Nel gennaio 2005, Fioriolli è a Napoli, nella questura che è stata fino a poco tempo prima di Izzo e terremotata dall’inchiesta della Procura sui fatti della caserma Raniero (prova generale del G8 genovese). Sappiamo oggi come è andata. Gli ultimi anni sono a Roma, a capo della scuola di formazione per l’ordine pubblico e alle specialità. In tempo per la pensione. E per togliere il disturbo prima che cominci a grandinare.
l’Unità 9.1.13
Carceri, condannata l’Italia
La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per il trattamento «inumano e degradante» ai detenuti Pronti altri 550 ricorsi
Napolitano ai partiti: «Mortificante conferma dell’incapacità dello Stato»
di Massimo Solani
La Corte europea dei diritti umani ha accolto il ricorso di sette detenuti di Piacenza e Busto Arsizio condannando l’Italia per la seconda volta al pagamento di un risarcimento pari a 100mila euro. Per Strasburgo l’Italia è responsabile di un trattamento «inumano e degradante» dei detenuti, costretti in celle con meno di 3 metri quadrati a disposizione. Per Napolitano è una «mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi». Il Guardasigilli Severino: «Sono avvilita ma non sorpresa».
L’emergenza carceri che in Italia non sembra trovare spazio nell’agenda politica, in Europa si vede benissimo. E costa cara al nostro Paese. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo infatti, dopo la bocciatura del luglio 2009, accogliendo il ricorso presentato da sette detenuti delle carceri di Piacenza e Busto Arsizio, ha condannato ancora una volta l’Italia per il trattamento «inumano e degradante» riservato ai reclusi imponendo un risarcimento danni complessivo pari a 100mila euro. Ma la situazione del sovraffollamento carcerario con i detenuti ammassati nelle celle con a disposizione meno di tre metri quadrati, denuncia la Corte Europea, in Italia è ormai strutturale al punto che sono già almeno 550 i ricorsi arrivati a Strasburgo. Per questo la raccomandazione al nostro governo, che somiglia ormai ad un ultimatum, è quella di mettere in atto provvedimenti deflattivi, anche attraverso lo studio di misure alternative alla reclusione, e di dotarsi entro un anno di uno strumento giuridico che permetta ai detenuti di rivolgersi ai tribunali italiani per denunciare le condizioni di vita disumane e ottenere, eventualmente, un risarcimento.
Raccomandazioni condivise dal presi-
dente della Repubblica Giorgio Napolitano che più volte, l’ultima in occasione del discorso di fine anno quando lo definì «un dato persistente di incviviltà da sradicare», ha esortato la politica per una soluzione dell’emergenza carceri. «La sentenza della Corte europea dei diritti dell' uomo di Strasburgo rappresenta un nuovo grave richiamo alla insostenibilità della condizione in cui vive gran parte dei detenuti nelle carceri italiane ha commentato ieri il presidente Si tratta di una mortificante conferma della perdurante incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena, e nello stesso tempo di una sollecitazione pressante da parte della Corte a imboccare una strada efficace per il superamento di tale ingiustificabile stato di cose». «Il Parlamento avrebbe potuto, ancora alla vigilia dello scioglimento delle Camere, assumere decisioni, e purtroppo non l'ha fatto ha concluso Napolitano La questione deve ora poter trovare primaria attenzione anche nel confronto programmatico tra le formazioni politiche che concorreranno alle elezioni del nuovo Parlamento così da essere poi rimessa alle Camere per deliberazioni rapide ed efficaci».
Un augurio condiviso anche da Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, secondo il quale l’emergenza carceraria è una «assoluta priorità» che il nuovo Parlamento dovrà affrontare. «Il guaio prosegue Sabelli è che sono mancati interventi strutturali in grado di risolvere il problema». «La situazione delle carceri italiane chiosa l’Unione delle Camere Penali è lo specchio fedele di una giustizia che non funziona e calpesta i diritti fondamentali».
SOVRAFFOLLAMENTO AL 140%
La sentenza della Corte di Strasburgo, quattro anni dopo la precedente condanna seguita al ricorso di un detenuto di Rebibbia, non è certo un fulmine a ciel sereno visto che il tasso di sovraffollamento delle nostre carceri ha ormai superato il 140% con punte, denunciate dai Radicali, del 269% nel carcere di Mistretta a Messina, del 255% a Brescia e del 251% a Busto Arsizio. Per questo il ministro della Giustizia Paola Severino, dopo la bocciatura in Parlamento del suo ddl sulle pene alternative, si dice «avvilita ma non sorpresa» dal pronunciamento di Strasburgo. «In questi tredici mesi di attività ha spiegato ho dato la priorità al problema carcerario: il decreto “salva carceri”, il primo provvedimento in materia di giustizia varato un anno fa dal Consiglio dei ministri e divenuto legge nel febbraio del 2012, ha consentito di tamponare una situazione drammatica. I primi risultati li stiamo constatando: i detenuti che nel novembre del 2011 erano 68.047 sono oggi scesi a 65.725». Poco, pochissimo però se si considera che la capienza delle carceri, al 31 dicembre 2012, era stimata in 47mila posti. «La mia amarezza, torno a ribadirlo, è grande ha concluso la Severino non è consentito a nessuno fare campagna elettorale sulla pelle dei detenuti. Continuerò a battermi, come ministro ancora per poche settimane e poi come cittadina, perché le condizioni delle persone detenute nelle nostre carceri siano degne di un Paese civile».
l’Unità 9.1.13
Suicidi dietro le sbarre, una catastrofe del diritto
di Luigi Manconi e Giovanni Torrente
Una nuova sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato il nostro sistema penitenziario per violazione l’articolo 3 della Convenzione europea, che proibisce «la tortura o i trattamenti inumani o degradanti». Non stupisce.
Una nuova sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato il nostro sistema penitenziario, condannando l’Italia a risarcire sette detenuti di Busto Arsizio e Piacenza: le condizioni della loro reclusione, secondo la Corte, violavano l’articolo 3 della Convenzione europea, che proibisce «la tortura o i trattamenti inumani o degradanti». Non stupisce. Quella che si consuma nelle carceri è una catastrofe del diritto e dell’umanità e, tra le manifestazioni più crudeli di tale tragedia, emerge il fenomeno dell’autolesionismo. Su Politica del diritto, la rivista del Mulino diretta da Stefano Rodotà, ora in libreria, pubblichiamo i primi risultati di una ricerca sul tema. In particolare, dopo aver ricostruito la dimensione del fenomeno in una prospettiva nazionale, proponiamo un approfondimento statistico dei fenomeni di autolesionismo e suicidio avvenuti negli ultimi 5 anni in tre regioni campione: Piemonte, Liguria e Campania.
1. SUICIDIO E AUTOLESIONISMO IN CARCERE: LE DIMENSIONI DEL FENOMENO
Il carcere è un luogo dove il rischio che si verifichi un suicidio è tra le 9 e le 21 volte superiore rispetto all’esterno. Quali le ragioni di uno scarto così rilevante? I dati raccolti mostrano come, a differenza di quanto si riscontra fra i cittadini liberi, le variazioni percentuali dei tassi di suicidio fra i detenuti, anche solo da un anno all’altro, siano assai significative. Il dato mostra quindi una relativa autonomia delle dinamiche che portano al suicidio in carcere rispetto alle dinamiche esterne a esso. Ne consegue che il numero dei suicidi nelle carceri pare aumentare sensibilmente in particolari momenti di crisi, per ragioni che sono intrinsecamente legate a processi interni all’istituzione penitenziaria. Quanto detto viene confermato dalla serie storica 1980-2010. In particolare, la lettura della curva dei tentativi di suicidio e dei suicidi realizzati mostra come i tentativi abbiano avuto un tendenziale aumento a partire dalla seconda metà degli anni ’80, con la punta massima raggiunta alla fine degli anni ‘90 ed eguagliata nel 2010. Al contrario, i suicidi realizzati sono aumentati numericamente dal 1993 sino ad oggi, con la punta massima toccata nel 2001 con 69 suicidi. Tuttavia, se confrontiamo numero dei suicidi e popolazione detenuta, si può osservare come la curva raggiunga il suo punto più elevato negli anni ‘80; in seguito, i tassi scendono, seppur con un andamento «schizofrenico», tale che ad anni tendenzialmente meno preoccupanti, seguono periodi di rapido incremento. All’interno di questa irregolare dinamica, un aspetto va rimarcato. Con riferimento agli ultimi 30 anni, la minor frequenza di suicidi in carcere si verifica nel corso del 1990 e del 2006. In quegli anni, come noto, sono stati approvati dal Parlamento gli ultimi provvedimenti di clemenza. Ed è possibile, quindi, ipotizzare che la speranza offerta da quei provvedimenti, sommata al miglioramento delle condizioni detentive a seguito della riduzione dell’affollamento, abbia stemperato il clima all’interno degli istituti. Abbia favorito, cioè, il contenimento dei comportamenti autolesivi.
2. IL SUICIDIO NELLE CARCERI ITALIANE: LE INDICAZIONI DI TRE STUDI DI CASO
Nelle tre regioni oggetto della ricerca i dati mostrano come, nell’arco di cinque anni, si siano verificati 12 suicidi in Piemonte, 6 in Liguria e 39 in Campania. A fronte del numero assoluto di suicidi in Campania, il dato rapportato al totale delle presenze mostra un quadro assai più complesso. Se utilizziamo il rapporto tra il numero di suicidi e, da un lato, il complesso degli eventi critici, e, dall’altro, il tasso di sovraffollamento delle singole carceri, avremo a disposizione due indicatori del clima di tensione e del grado di vivibilità di ciascun istituto, rappresentato dal sovraffollamento. Il suicidio, all’interno di tali contesti, non appare come un fenomeno isolato, bensì come l’esito estremo di un clima di tensione che si esprime anche attraverso l’elevato indice di gesti autolesivi messi in atto. Pare possibile, quindi, indicare i tratti di quelli che possiamo definire «istituti ad alto indice di tensione» (e di sofferenza). All’interno del senso comune carcerario, diffuso tra gli operatori come tra i detenuti, è immediatamente percepibile la differenza tra istituti conosciuti per la migliore vivibilità e istituti connotati da condizioni massimamente afflittive. Nel gergo carcerario, ciò porta a distinguere le carceri «aperte» da quelle «chiuse», quelle «a vocazione trattamentale» da quelle con attitudine «custodiale»; e, infine, i penitenziari «punitivi» da quelli «premiali». A nostro parere, le cause che producono un «istituto ad alto indice di tensione» sono, per un verso, di natura strutturale e, per un altro, di natura organizzativa e ambientale. Resta il fatto che i motivi profondi di quella «tensione» non possono essere dedotti dal mero dato numerico, ma devono essere analizzati attraverso l’osservazione dell’universo di relazioni, scelte organizzative e dati strutturali che contribuiscono a determinare la vita concreta all’interno di un penitenziario.
3. DA DOVE, QUANDO E PERCHÉ IN CARCERE?
I dati da noi raccolti permettono di approfondire l'indagine con riferimento a nazionalità, età e posizione giuridica delle persone che si sono tolte la vita. Relativamente alla nazionalità, il dato appare significativo soprattutto in regioni, quali il Piemonte e la Liguria, dove la presenza di stranieri detenuti è più elevata. In entrambe le regioni, in questi cinque anni si è avuta una prevalenza di suicidi tra gli italiani rispetto a quelli tra gli stranieri; e drammaticamente significativi appaiono i dati relativi all'età e alla posizione giuridica. Relativamente alla prima variabile, risulta confermato come i detenuti più giovani mostrino una maggiore tendenza al suicidio. In Piemonte e in Campania, nel corso di questo periodo, non si sono verificati suicidi tra i reclusi appartenenti alla fascia di età 18-24 anni, mentre in Liguria sono stati due su sei i minori di 24 anni che si sono tolti la vita. Oltre tale soglia, il numero di suicidi aumenta immediatamente superando la percentuale media di persone detenute nella fascia fra i 24 e i 44 anni. Appare significativo, in proposito, il fatto che in Campania e in Piemonte quasi tre quarti dei suicidi abbiano riguardato persone con un'età compresa tra i 25 e i 44 anni, mentre in Liguria la fascia d'età fra i 18 e i 44 anni comprende tutti gli episodi di suicidio registrati negli ultimi cinque anni in quella regione. Il dato più sconcertante nell'analisi dei tratti qualificanti i reclusi che hanno messo in atto il suicidio, riguarda la loro posizione giuridica: in 25 casi su 48, si tratta di persone sottoposte a misura cautelare. In oltre la metà dei casi, quindi, siamo in presenza di soggetti per i quali vale la presunzione di non colpevolezza.
4. UN ASSAGGIO DI PRIGIONE?
Dalle ricerche sul fenomeno del suicidio in carcere, un dato emerge con maggiore evidenza: i primi giorni di detenzione come la fase di maggior rischio per la realizzazione di atti di autolesionismo. In questi anni qualcosa è cambiato nelle pratiche penitenziarie: egli istituti di grande dimensione, ad esempio, è stato creato il cosiddetto Servizio nuovi giunti. Ciò nonostante, in alcune regioni, persiste il fenomeno dei suicidi nei primi giorni di carcerazione. In Piemonte, in particolare, un terzo dei suicidi è stato realizzato entro 30 giorni dall'arresto. A quanto fin qui detto, va aggiunta qualche considerazione a proposito di quella fase particolarmente delicata nella gestione della popolazione detenuta, rappresentata dai trasferimenti. È frequente che questi ultimi siano attuati a seguito di eventi critici verificatisi nell'istituto di provenienza; o riguardino, comunque, soggetti non graditi o di difficile gestione, considerati «pericolosi» per l'ambiente. La lettura dei dati relativi ai tempi del suicidio, in relazione al momento dell’ingresso nel carcere dove è avvenuto il fatto, sembrano confermare l'ipotesi del trasferimento come momento particolarmente problematico. Anche in questo caso, ovviamente, il trasferimento non è sufficiente a spiegare tutto. Eppure esso costituisce un segnale di situazioni palesemente critiche, gestite attraverso l'unica soluzione che troppo spesso l'amministrazione sembra in grado di adottare: la rimozione del problema attraverso l'invio di quello che viene considerato il responsabile del problema stesso in un luogo diverso. Non è un caso: la pratica della rimozione sembra, più in generale, dominare il governo della questione carceraria in Italia.
l’Unità 9.1.13
Chiuso tra nuovi muri Israele scivola a destra
A due settimane dal voto Netanyahu annuncia la costruzione di un’altra barriera sul confine siriano: contro gli jihadisti
di Umberto De Giovannangeli
Un Paese «murato». Un Paese che si sente circondato da entità ostili, irriducibilmente avverse. È Israele a due settimane dal voto. Le entità ostili si chiamano Fratelli Musulmani egiziani, Hamas, Hezbollah, ed ora anche i gruppi jihadisti che combattono in Siria il regime di Bashar al-Assad. Muri e barriere di difesa sostituiscono la politica, o meglio, si fanno politica. I tempi di realizzazione sono stati pressoché rispettati: con la fine del 2012 oltre mille chilometri, sono stati protetti da muri, barriere, protezioni fisiche. Filo spinato. Cemento. Acciaio. Sensori ottici. Fossati. La barriera con l’Egitto uno sbarramento di circa 253 km ha comportato l’innalzamento di reticolati sotto l’ombra di un sofisticato sistema di controllo radar lungo l'intera linea di confine che separa l’estrema propagine meridionale del deserto israeliano del Neghev dal Sinai egiziano. La Barriera un investimento da 372 milioni di dollari è formata da uno spezzone di sessanta chilometri a sud dell’area di Rafah e un altro della stessa lunghezza a nord di Eilat. Il tratto intermedio, considerato poco soggetto alle infiltrazioni a causa del terreno accidentato, è protetto da apparecchi elettronici.
Un nuovo Muro, stavolta a nord sul confine con il Libano, è stato realizzato nell’arco di tre mesi, da Israele. La barriera, che in alcuni punti è alta anche undici metri, corre sulla linea del cessate il fuoco del 2000 inizialmente per un chilometro, tra le pianure di Khiam e la cittadina libanese di al-Addaiseh, passando per l’ex valico di frontiera di Fatima Gate. Quanto al Muro in Cisgiordania, nella parte già completata, si dipana per una lunghezza di 709 chilometri e il suo tracciato corre per l’85% all’interno del territorio palestinese della Cisgiordania e solo per il 15% a ridosso della linea di frontiera. Nei punti più alti, il «Muro» in questione raggiunge l’altezza di 8 metri e si estenderà, al suo completamento, per oltre 752 chilometri.
SETTANTA CHILOMETRI
Benjamin Netanyhau promette ora di far costruire una barriera fortificata sul confine con la Siria, per proteggere lo Stato ebraico dalle forze radicali islamiche. Nella riunione di Gabinetto del 6 gennaio, il primo ministro rileva che il regime di Bashar al-Assad è «instabile» e che Israele è «fortemente preoccupato» per il destino delle armi chimiche possedute da Damasco. Oltre confine, spiega, «sono arrivate le forze della jihad globale», un termine che Israele utilizza per indicare i gruppi influenzati da al Qaeda. Intervenendo alla riunione di governo, Netanyahu ha sottolineato come la barriera in costruzione lungo il confine con l’Egitto sia quasi finita, annunciando quindi l’intenzione di «costruirne una identica, con alcune opportune modifiche a causa di condizioni diverse, lungo le Alture del Golan».
«Sappiamo che dall’altra parte del nostro confine con la Siria oggi l’esercito siriano si è ritirato e i combattenti della jihad globale hanno preso il suo posto ha detto il premier noi dobbiamo quindi proteggere questo confine da incursioni e dal terrorismo, come abbiamo già fatto con successo al confine con il Sinai». Una fonte della sicurezza rivela alla Cnn che Israele ha già completato circa 10 chilometri di muro e che «mancano circa 60 chilometri» da completare nel Golan, dicendosi fiducioso che i lavori saranno ultimati nel 2013. Le Alture del Golan sono state conquistate da Israele alla Siria durante la «Guerra dei sei giorni» del 1967 e annesse nel 1981, senza il via libera della comunità internazionale.
In questo scenario da trincea permanente, la destra israeliana di Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman, «Likud-Beitenu» continua a essere favorita nei sondaggi elettorali. E questo grazie anche all’incapacità delle opposizioni di centrosinistra di trovare unità. Si è concluso in un fallimento il tentativo dell’ex ministra degli Esteri Tzipi Livni di dare vita a una coalizione di centro-sinistra da contrapporre a quella conservatrice guidata da Netanyahu. La stessa Livni ha dichiarato alla radio pubblica che «purtroppo non è stato raggiunto alcun accordo» nel summit protrattosi, nei giorni scorsi, fino a tarda notte con i leader delle altre due formazioni progressiste. Al vertice hanno partecipato la Livni, leader del neonato partito liberale Hatnuah (il Movimento, in lingua ebraica, ndr), Shelly Yachimovich, la leader dei laburisti, e Yair Lapid, che guida i riformisti moderati di Yesh Atid. «Obiettivo della riunione era trovare il modo di sostituire il governo Netanyahu», ha spiegato. «Affinchè l’opinione pubblica comprenda che noi rappresentiamo un’alternativa seria, dobbiamo impegnarci a non prendere parte a una compagine governativa guidata da lui», ha sottolineato, alludendo alle posizioni non del tutto chiare assunte al riguardo dai potenziali interlocutori. Il governo «Biberman» ringrazia.
Corriere 9.1.13
Ungheria choc: «Zingari animali, eliminiamoli»
di Paolo Valentino
Fino a quando l'Ungheria continuerà ad abusare della pazienza (o della neghittosità) dell'Unione Europea? Chiuso il 2012 con il nauseabondo invito di un membro del Parlamento magiaro a schedare tutti gli ebrei in una lista speciale, l'anno nuovo si apre con un ennesimo e sinistro latrato xenofobo e razzista di un autorevole esponente della classe politica al potere a Budapest.
Come il braccio incontrollabile del generale nell'immortale Stranamore di Kubrick, questa volta è la penna di Zsolt Bayer, uno dei fondatori del partito al potere Fidesz e amico personale del premier Viktor Orban, a confermare quanto profondo e radicato sia il seme dell'intolleranza e dell'odio etnico in una parte degli attuali dirigenti ungheresi.
Commentando per il giornale Magyar Hirlap una rissa di Capodanno, nella quale sono rimaste gravemente ferite diverse persone e dove alcuni degli assalitori erano dei rom, Bayer ha pensato bene di definire l'intera etnia «inadatta a coesistere»: «I rom — ha scritto — non sono capaci di vivere tra le persone. Sono animali e si comportano da animali». Il giornalista se l'è presa con «il mondo occidentale politicamente corretto», colpevole ai suoi occhi di predicare tolleranza e comprensione verso gli zingari, che rappresentano il 7% della popolazione ungherese e appartengono alle fasce più povere e meno istruite della società.
Per capire di chi stiamo parlando, occorre ricordare che Bayer è stato sin dall'inizio uno dei compagni di strada di Orban e negli anni Novanta ha servito come portavoce di Fidesz. È uno dei maggiori organizzatori delle Marce della pace, le manifestazioni in sostegno del governo che lo scorso anno hanno visto la partecipazione di decine di migliaia di persone. Non è la prima volta che il nostro si rivela e i suoi commenti si sono spesso distinti per i toni antisemiti e razzisti.
Naturalmente, per bocca del ministro della Giustizia Tibor Navracsics, il governo ha emesso una rituale condanna dell'articolo. Ma in un significativo gioco delle parti, la portavoce di Fidesz, Gabriella Selmeczi, ha detto che il partito non prende posizione su un editoriale: «Bayer ha scritto l'articolo non in quanto politico ma in quanto giornalista e noi non commentiamo le opinioni dei giornalisti». In difesa del free speech, insomma. Peccato che proprio alcuni giorni fa la radio pubblica, forte della legge liberticida sui media introdotta da Orban, abbia censurato alcuni passaggi della trasmissione mensile dello scrittore Peter Esterhazy, che suonavano troppo critiche del regime.
Bayer ha cercato ieri di fare una parziale e maldestra retromarcia, spiegando in un nuovo editoriale di aver voluto soltanto «smuovere le acque, far accadere qualcosa»: «Voglio ordine — così il giornalista —, voglio che ogni zingaro onorevole continui a vivere in questo Paese, ma che ogni zingaro incapace e inadatto a stare in questa società venga cacciato via».
I partiti d'opposizione non ci stanno, sollecitano contro di lui un'incriminazione formale e chiedono a Fidesz di espellerlo immediatamente dai suoi ranghi. In caso contrario, hanno convocato una manifestazione di protesta per domenica davanti alla sede del partito di governo.
È dall'aprile 2010, da quando una clamorosa vittoria elettorale gli fruttò una maggioranza dei 2/3 in Parlamento, che Viktor Orban ha varato in Ungheria una sistematica restaurazione autoritaria e antidemocratica del potere, instaurando in un Paese membro dell'Unione Europea un clima di paura, intolleranza e sinistri echi xenofobi. Forse è giunto il tempo che l'Europa agisca con decisione.
Repubblica 9.1.13
Perché non possiamo fare a meno dei partiti
“Forza senza legittimità”, la nuova analisi politica di Piero Ignazi
di Ilvo Diamanti
Ormai l’antipolitica è dovunque. È entrata nel linguaggio corrente della vita quotidiana e nel discorso “politico”. Un argomento usato dai leader politici a fini polemici. Tuttavia, il bersaglio dell’antipolitica non è la “politica” in quanto tale. Coincide, piuttosto, con i partiti. Che, in Italia, godono — si fa per dire — di pessima reputazione. Peraltro, è largamente condivisa la convinzione che la “malapolitica” condotta dai partiti costituisca un “male” tipicamente italiano, che si è propagato con particolare intensità negli ultimi anni. Piero Ignazi smentisce questa leggenda, ricostruendo la “storia” e la “geografia” del fenomeno in un saggio dal titolo esplicito e suggestivo: Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti (Laterza, pagg. 153, euro 14). Dove l’autore descrive, con rara efficacia, il paradosso apparente espresso dai partiti. Oggi più che mai delegittimati, sfiduciati dai cittadini. Eppure, oggi più che mai, dotati di potere e di influenza, in ambito istituzionale, ma anche nel mondo sociale, nella vita quotidiana. Ignazi ridimensiona i ragionamenti di “senso comune” sull’argomento. La sfiducia verso i partiti non è un fatto recente, non riguarda il nostro tempo. E non è una specialità italiana. Dal punto di vista storico i partiti non hanno mai goduto di buona stampa. «La colpa», esordisce Ignazi, «è nel nome». Perché il partito deriva dal latino partire.
E, per questo, evoca la parzialità. Per questo sono distinti dalle “fazioni”. Ma spesso ritenuti equivalenti e altrettanto faziosi. Così, secondo Hobbes, i partiti diventano «uno Stato nello Stato». E per questo «è dovere dei governanti disperderli». I partiti, cioè, vengono considerati veicoli di interessi particolari, in contrasto con l’interesse “generale”, con il “bene comune”. Ma sono molti altri i critici autorevoli dei partiti. Ignazi ne ripercorre le posizioni. Rammenta, fra gli altri, Alexis de Tocqueville, il quale ammette che «i partiti sono un male inerente ai governi liberi». Dunque, un male inevitabile, ma comunque, un male. Bisogna attendere il passaggio tra Otto e Novecento per assistere al cambiamento del clima d’opinione verso i partiti. E di riflesso al cambiamento del loro rapporto con la società. I partiti conoscono un’età dell’oro durante la prima metà del secolo trascorso. Quando si affermano i partiti di massa. Socialisti, comunisti, popolari. Rappresentano e mobilitano le masse, appunto. Stabiliscono un legame di identificazione e di identità con i loro elettori. Anche perché sono presenti sul territorio nella società. Inoltre, sono partiti di iscritti, dotati di un’ampia rete di volontari, ma anche di funzionari. Per garantire continuità ed efficacia alla loro azione. Per questo, dispongono di consenso sociale, ma al tempo stesso, si professionalizzano sempre più. E si evolvono in senso oligarchico. Per adattarsi alla complessità sociale diventano “pigliatutti”. Partiti elettorali, che non hanno più un target specifico e definito. Ma si rivolgono, appunto, a tutti gli elettori. Per questo, perdono le loro specificità ideologiche. «Degli iscritti, così come delle sezioni territoriali», appunta Ignazi, «non c’è più bisogno». I partiti, quindi si rifugiano nelle istituzioni e sui media. Diventano, cioè, partiti di cartello. «Agenzie pubbliche regolamentate e ufficializzate che - sottolinea l’autoredallo Stato traggono le loro risorse legalmente con il finanziamento pubblico e in maniera opaca attraverso il patronage ». Investono, cioè, nel controllo clientelare dell’opinione pubblica. Per questo, conclude Ignazi, «i partiti sono oggi in Europa molto più forti di un tempo».In Europa,
si badi bene. Perché queste tendenze non riguardano solo l’Italia. Ma coinvolgono tutti i principali paesi europei. Dalla Francia alla Germania. Dal Belgio all’Austria. Per non parlare delle nuove democrazie. Il partito è, dunque, divenuto “stato-centrico”. Ma si è indebolito sul territorio e nella società. Per questo la stima nei loro confronti è precipitata. Ciò li ha spinti a correre ai ripari. Allargando il richiamo alla volontà popolare, il ritorno agli iscritti. E agli elettori. In modo diretto. Attraverso le primarie. Ma anche, in alcuni casi, attraverso lo scambio diretto tra leader e popolo. In modo carismatico e populista.
Da ciò il problema di questa fase. Perché, scrive Ignazi, «non c’è scampo: senza i partiti non c’è democrazia. Se vogliamo un sistema democratico e pluralista dobbiamo tenerci dei partiti». Ma «questi » partiti, «hanno scambiato il potere con la fiducia ». Per reagire, conclude l’autore, i partiti dovrebbero «spossessarsi di tante delle risorse accumulate ». Una condizione necessaria ma non sufficiente. E, purtroppo, difficile da realizzare, con “questi” partiti. Così, il saggio di Ignazi appare utile, interessante. Ma anche amaro. Perché in fondo al tunnel, oltre il paradosso che produce forza senza legittimità, non si vede la luce.
Repubblica 9.1.13
La musica delle tenebre
La colonna sonora infame voluta da Adolf Hitler
Già prima della presa del potere, il Führer ordinò che orchestre e compositori fossero “arianizzati”
di Natalia Aspesi
Hitler amava la musica, purché fosse pura, cioè germanica, e non contaminata, cioè ariana: il problema era, agli inizi degli anni Trenta, che tra i più celebri compositori, i sovrintendenti più stimati, i direttori d’orchestra più grandi, i solisti più noti al mondo, i cantanti più amati dal pubblico, le orchestre più gloriose, c’erano molti, troppi ebrei. Una vergogna che andava cancellata col massimo rigore, del resto come tutti e tutto ciò che fosse «giudaico, bolscevico, negroide», cioè degenerato e subumano. L’imperativo « eliminare l’elemento ebraico dalla musica tedesca» cominciò a essere messo in pratica anni prima della salita al potere di Hitler nel marzo del ’33, e trovò subito una folla di musicisti e musicologi, giornalisti e accademici, pronti alla delazione, all’insulto, alla violenza, con un’efficienza patriottica, funebre e demente, che accompagnò l’antisemitismo di Stato sancito poi nel 1935 dalle leggi di Norimberga, sino all’orrore della “soluzione finale”, pianificata alla Conferenza di Wannsee nel 1942, tra i cui ideologi c’era l’acclamato violinista Reinhard Heydrich. Già all’inizio del Terzo Reich era diventato un problema anche il grande settecentesco Händel, di pura stirpe sassone, poi naturalizzato inglese: i suoi possenti oratori esaltavano l’immaginario onirico del regime, ma i testi erano «pura immondizia» e furono mondati da ogni accenno biblico.
E Mozart? Bisognava arianizzare i suoi «capolavori dello spirito germanico », liberando opere come Le nozze di Figaro dal libretto scritto dall’ebreo convertito Lorenzo da Ponte, la cui traduzione tedesca era stata curata da Hermann Levi, il direttore d’orchestra del primo Parsifal di Bayreuth, imposto da re Ludwig di Baviera a un furibondo Wagner che lo aborriva in quanto non ariano. Molti anni dopo Joseph Goebbels avrebbe detto: «È stato Wagner a insegnarci cosa è un ebreo».
Ogni nuova storia che ci ricorda l’Olocausto, riesce a essere necessaria, e lo è anche L’armonia delle tenebre (Archinto) di Nicola Montenz, che a 36 anni è un lungo elegante giovanotto abbigliato di nero, docente di cultura e comunicazione nel mondo antico; vive a Piacenza, è diplomato in organo (suo fratello gemello in arpa) ed è anche autore di quell’affascinante Parsifal e l’Incantatore, sul rapporto tra Ludwig II di Baviera e Wagner, pubblicato due anni fa sempre da Archinto, e adesso in Francia con critiche appassionate. Il nuovo libro ha la struttura di un tragico libretto d’opera: si apre con un prologo, che sprofonda subito il lettore nel feroce scontro tra ambiziosi nazisti, Goebbels, Göring e Rosenberg, acerrimi nemici tra loro, per accaparrarsi il monopolio di ogni forma di cultura, compresa la musica; e si chiude col quinto e ultimo atto, a Terezìn, il ghetto lager in Cecoslovacchia dove venivano ammassati gli ebrei illustri, tra cui una folla di musicisti.
Lo scontro per sottomettere la cultura lo vinse Goebbels, diventato ministro della Propaganda, organizzando una monumentale struttura burocratica, gerarchica, capillare e pazza, divisa in sette ferree sezioni, una delle quali era la Reichmusikkammer, a cui facevano capo sette dipartimenti, ognuno dedicato a un ambito musicale: compositori, esecutori, organizzazione di concerti, gruppi corali e di musica popolare,
editori, costruttori di strumenti musicali. In questo modo il governo nazionalsocialista già alla fine del 1933 aveva ottenuto il controllo assoluto della vita intellettuale tedesca e di chiunque volesse lavorare in ambito culturale e soprattutto musicale. Dodici anni dopo, a Terezìn, prima che partisse l’ultimo e definitivo convoglio per i forni crematori di Auschwitz nell’ottobre del ’44, (su 139.861 internati, ne sopravvissero meno di 20mila) fu concesso di organizzare concerti e opere, tra cui ben 55 in prima assoluta, composte nel lager stesso, per esempio, da Gideon Klein e da Pavel Haas.
Spesso però le prove risultavano inutili, come avvenne nel caso dell’esecuzione del Requiem di Verdi, diretto da Raphael Schachter: per ben due volte i cori di 150 elementi furono deportati in massa ad Auschwitz dopo la prima esecuzione, e a Schachter fu concesso un terzo tentativo, in omaggio alla visita nel lager di Eichmann e per ingannare gli ingannabili inviati della Croce Rossa. Si sa chi furono i grandi della musica che per opportunismo, per paura, per la carriera, collaborarono, o per lo meno, non si opposero a un regime che decideva persino quali compositori dovevano essere cancellati, per esempio Mahler, Hindemith, Schoenberg, Weill, Krenek, Berg, Webern, quale tipo di musica poteva costare la perdita del lavoro e peggio, l’atonale, la dodecafonica, il jazz, le canzoni da cabaret, i ritmi a percussione, tutta la musica “degenerata” cui fu dedicata come all’arte, una grande mostra.
Montenz ritiene ingiusto ergersi oggi a giudice di quei musicisti che, lo volessero o meno, divennero i portavoce ufficiali del regime, senza tener conto delle sfumature. Richard Strauss, che aveva accettato la presidenza della nazista Camera della musica, non condivise mai l’antisemitismo hitleriano, Wilhem Furtwängler aveva rifiutato di “arianizzare” il Berliner Philharmoniker e di rinunciare alla sua segretaria ebrea: si riteneva intoccabile ma cadde in disgrazia quando volle contro ogni veto dirigere
Mathis il pittore, del “degenerato” e marito di una mezza ebrea Hindemith. Per ritornare nelle grazie del partito, accettò di dirigere Wagner a quel congresso di Norimberga che avrebbe promulgato le leggi razziali. Altre celebrità furono più allineate allo spirito del regime: il giovane Herbert von Karajan, iscritto al partito nazionalsocialista, ne diresse l’inno nella Parigi occupata, il soprano Elisabeth Schwarzkopf era membro del partito e cantava nei paesi invasi dall’esercito tedesco, l’allora celebre pianista Elly Ney scriveva a Goebbels di non voler dormire in alberghi che in passato avevano ospitato ebrei, il pianista Wilhelm Backhaus, considerato il massimo interprete di Beethoven, nel ’36 fece dichiarazione di voto a favore di Hitler, come il direttore d’orchestra Karl Bohm. D’altra parte non c’era bisogno di essere eroi per essere condannati: uno dei più grandi talenti musicali del Terzo Reich, il pianista Karlrobert Kreiten, nel maggio del ’43 dopo una discussione con un’amica sulla guerra forse perduta, fu arrestato, processato, impiccato. Aveva 27 anni.
Nell’Italia fascista fu Arturo Toscanini a esporsi più di altre celebrità contro il nazismo. Nel 1933, con altri direttori d’orchestra, inviò a Hitler un telegramma aperto invitandolo a «porre fine alla persecuzione dei nostri colleghi in Germania per ragioni politiche o religiose». Furibondo, il Führer proibì che la radio trasmettesse le loro registrazioni. Poi si lasciò convincere dalla sua amica, seguace e ammiratrice Winifred Wagner,
a invitare Toscanini a dirigere il Parsifal a Bayreuth, ma inamovibile fu Toscanini, che rifiutò ogni blandizia. Al suo posto arrivò il sempre servizievole Strauss. Ci fu anche chi, travolto dall’orrore, si pentì del suo appoggio iniziale al nazismo, come il musicologo Kurt Huber, che si unì alla Rosa Bianca e fu ghigliottinato nel 1943, o il compositore e organista Hugo Distler che travolto dai sensi di colpa si suicidò con il gas nel 1942.
Nell’inferno di Rosarno gli uomini sono tornati schiavi
Tre euro al caporale e poi al lavoro: 50 centesimi per ogni cassetta riempita
A tre anni dalla rivolta, tutto è come prima: oltre mille africani nei dormitori cloaca
Regione e governo non danno più soldi: ora il campo modello è tutto spaghi, cartoni ed eternit
di Giuseppe Salvaggiulo
Letti di terra Nel dormitorio abitano mille lavoratori. Le tende sono fatte con pezzi di plastica, spago, cartoni e lastre di eternit. Gli africani dormono su letti di terra pressata pronti a trasformarsi in fango alla prima pioggia. Cucinano riso e ali di pollo in bidoni di risulta. I bagni sono due fosse a cielo aperto FOTO ADRIANA SAPONE Baracche di eternit e campi abusivi In alto il campo abusivo sorto a fianco alle tende mandate dal ministero. Sotto una baracca costruita con lamiere di eternit recuperate in discarica
Sbaglia chi dice che a Rosarno, tre anni dopo la rivolta dei migranti, le devastazioni, la controrivolta degli italiani, la caccia all’uomo e infine la deportazione dei neri, tutto è come prima. È peggio.
Gli africani sono di nuovo mille, come allora: arrivati in autunno, ripartiranno in primavera dopo aver raccolto agrumi a 25 euro al giorno, anche se adesso i padroni prediligono il cottimo che aumenta la produttività: un euro a cassetta per i mandarini e 0,50 per le arance, in ogni cassetta 18-20 chili di raccolto. Nel pieno della stagione lavorano trequattro giorni a settimana, a chiamata, versando tre euro al caporale che li carica all’alba sul pullmino. Nei giorni di magra girano in bici nella piana, fanno la spesa ai discount, cucinano riso e ali di pollo in bidoncini arrugginiti, si ubriacano di birra, litigano tra loro.
I due giganteschi dormitori nei ruderi delle fabbriche dismesse non esistono più da tre anni: uno chiuso d’imperio e abbandonato, l’altro demolito. Bisognava rimuovere, non solo psicologicamente. Ma la nuova favela tra Rosarno e San Ferdinando è, se possibile, ancora più raccapricciante. Lamiere di eternit recuperate in qualche cimitero industriale, di cui la Calabria abbonda, fanno rimpiangere gli scheletri di cemento e le pareti di ferro. Ora i tetti sono di cellophane, cartone, plastica di risulta. Come calcestruzzo uno spago di fortuna. Cumuli di terra pressata alti venti centimetri sorreggono i precari giacigli, pronti a inondarli di fango alla prima pioggia. I bagni sono in fondo a destra: due fosse larghe un metro scavate per quaranta centimetri nella terra, a cielo aperto e senza riparo alcuno. Nella tenda più grande, dieci metri per cinque, si contano non meno di cento posti letto tra materassi rancidi e brandine. Un odore indicibile. Non ci sono acqua, fogna, elettricità; solo immondizia a fare da sipario.
«Una cosa incivile, vergognosa, uno schifo», urla Domenico Madafferi, sindaco di San Ferdinando che, sulla base di una relazione sui requisiti igienici «praticamente inesistenti» e sulla «situazione dannosa per la salute» di «baracche fatiscenti» e «dimore abusive senza le condizioni minime di vivibilità» che «potrebbero essere focolai di infezioni», ha scritto di suo pugno un’ordinanza di sgombero. «Un modo per mettere Regione e governo spalle al muro, dopo inutili riunioni, appelli e solleciti scritti – spiega -. Ma non è cambiato nulla, solo promesse». Così ieri ha scritto la lettera al prefetto con cui si appresta a eseguire lo sgombero. Un’eventualità drammatica, «perché il ricordo di tre anni fa sarà niente rispetto a quello che potrebbe accadere se arriviamo con le ruspe».
Eppure in questo stesso posto, solo un anno fa, le autorità inauguravano un campo modello: 280 posti, ampie tende da quattro persone, stufe a olio, tv satellitare, bagni da campeggio, lampioni nei viottoli, rifiuti raccolti ordinatamente, mensa con cucina, presidio medico. Una Svizzera nella piana di Gioia Tauro. Il materiale era arrivato dal Viminale dopo l’interessamento del ministro per la Cooperazione Andrea Riccardi. La Regione aveva messo 55 mila euro per la gestione. La Provincia pagava la corrente elettrica. I sindaci Elisabetta Tripodi di Rosarno e Domenico Madafferi di San Ferdinando facevano il resto. Le associazioni di volontariato più diverse - cattoliche, laiche, evangeliche - si prodigavano per offrire assistenza, cibo, coperte grazie all’aiuto di migliaia di persone (altro che razzismo). La tendopoli si aggiungeva ai container installati nel febbraio 2011: 120 migranti in moduli da sei con cucinino e bagno in camera. Non solo si smantellavano gli ultimi ghetti, ma l’inedito «modello Rosarno» dava vitto e alloggio a ogni immigrato con 2 euro al giorno, contro i 45 spesi generalmente dalla Protezione Civile. E dunque, pur con numeri ancora insufficienti (400 posti, un terzo del necessario), in una terra dove lo stato di eccezione è permanente (qualche tempo fa i tre Comuni principali si ritrovarono contemporaneamente sciolti per mafia), aver messo tra parentesi l’emergenza pareva un miracolo. Invece a rivelarsi una fuggevole parentesi è stata proprio la normalità. Giugno 2012: finiti i soldi della Regione, la tendopoli viene chiusa e abbandonata, in attesa della nuova stagione agricola. In agosto i sindaci si rivolgono a Regione e governo: bisogna organizzarsi per tempo o tornerà il caos. Cosa che puntualmente accade: a fine ottobre, quando parte la raccolta dei mandarini, la tendopoli priva di gestore viene occupata e saturata dai migranti.
Nelle tende si sistemano in sei, ma non basta perché altri ne arrivano. I sindaci reclamano aiuto: non hanno soldi, strutture, personale per farcela. «Regione e governo latitano, il ministro Riccardi non risponde, solo la presidenza della Repubblica dà un segnale di attenzione comprando e mandando coperte, peraltro inadeguate», dice sconsolato il sindaco. In poche settimane anche la mensa diventa un maxi dormitorio. Non c’è più spazio e gli ultimi arrivati cominciano a costruire la favela contigua all’insediamento originario. Senza manutenzione, gli scarichi fognari non reggono a una popolazione quadruplicata, i container con i bagni diventano cloache inservibili, la cucina chiude, i cassonetti dei rifiuti esplodono. Basterebbero 50-70 mila euro per ripristinare la gestione della tendopoli in modo dignitoso, efficiente e controllato fino a primavera. Solo lo 0,000006% della spesa pubblica italiana e delle promesse udite tre anni fa. Ancora troppo, per Rosarno.
l’Unità 9.1.13
Bersani: pronti a vincere
La squadra Pd: 40% donne
Varate le liste del Pd: ultime novità il giornalista Mineo e gli esponenti cattolici Patriarca, Fattorini, Preziosi e Nardelli, la sindacalista Fedeli
Restano fuori Reggi Paganelli, Ceccanti
Candidati Tronti, e in Abruzzo Concia
Il segretario: «Sfruttiamo al meglio il vantaggio»
di Simone Collini
«È una rivoluzione. Porteremo in Parlamento il 40% di donne». Pier Luigi Bersani è visibilmente soddisfatto. Le liste del Pd sono pronte, sono approvate all’unanimità dalla direzione del partito, e sono per il segretario democratico quello che ci vuole per vincere, perché sono «all’insegna della competenza, del pluralismo e della professionalità». E poi, che non guasta, perché su 38 capilista saranno 16 le candidate.
«Siamo pronti a governare il Paese», dice aprendo i lavori, «con la scelta di stasera siamo in campagna elettorale, sfruttiamo al meglio il vantaggio sui nostri competitori». L’avversario è Silvio Berlusconi, ma ormai è chiaro che per vincere il Pd dovrà fare i conti anche con l’operazione avviata da Mario Monti insieme a Pierferdinando Casini e Luca Cordero di Montezemolo. Ed è pensando alla sfida che ha di fronte che Bersani ha voluto inserire nelle liste molti esponenti chiamati dal mondo delle professioni, dell’associazionismo laico e cattolico, dell’imprenditoria e del sindacato.
Candidati con il Pd ci sono quattro esponenti cattolici come Edo Patriarca, che è presidente del centro nazionale volontariato e organizzatore delle settimane sociali, Ernesto Preziosi, che è direttore dell’Istituto Tonioli, Flavia Nardelli, che è segretaria generale dell’Istituto Luigi Sturzo, ed Emma Fattorini, che è storica dei movimenti religiosi alla Sapienza. C’è l’economista Paolo Guerrieri e la sindacalista (e tra le fondatrici di “Se non ora quando?”) Valeria Fedeli, che sarà capolista al Senato in Toscana, insieme a Maria Rosaria Carrozza, capolista alla Camera. A guidare la lista Pd in Sicilia per il Senato c’è il direttore di RaiNews24 Corradino Mineo, mentre Sergio Zavoli è candidato in Campania, dove capolista saranno la giornalista anti-camorra Rosaria Capacchione, al Senato, e, alla Camera, Enrico Letta e Guglielmo Epifani.
Per quel che riguarda gli altri capolista in Piemonte ci sono Cesare Damiano e Mario Taricco alla Camera e Ignazio Marino in Senato, in Lombardia Bersani, Carlo Dell’Aringa, Cinzia Fontana e Massimo Mucchetti (Senato), in Trentino Gianclaudio Bressa e Giorgio Tonini. Pier Paolo Baretta e Davide Zoggia saranno i capilista in Veneto per la Camera, mentre Laura Puppato sarà la numero uno per il Senato. In Liguria ci sono Andrea Orlando alla Camera e Donatella Albano al Senato. In Emilia Romagna, Dario Franceschini e Josefa Idem, in Umbria, Marina Sereni e Miguel Gotor, in Abruzzo Giovanni Legnini e Stefania Pezzopane. Nel Lazio guidano le liste Pd Bersani, Donatella Ferranti e Pietro Grasso, in Basilicata Roberto Speranza e Emma Fattorini, in Puglia Franco Cassano e Anna Finocchiaro, in Calabria Rosy Bindi e Marco Minniti, in Sardegna Silvio Lai e Alba Canu, in Sicilia Bersani, Flavia Nardelli e Mineo.
Sono rimasti fuori dalle liste i parlamentari uscenti Stefano Ceccanti, Andrea Sarubbi e Alessandro Maran, e non sono entrati (per rimanere nel fronte renziano) il coordinatore della campagna per le primarie del sindaco di Firenze, Roberto Reggi, e il responsabile Feste del Pd Lino Paganelli. Matteo Renzi ha invece chiesto di mettere in lista Yoram Gutgeld, direttore della società di consulenza McKinsey e padre della proposta lanciata dal sindaco di un taglio di 100 euro sull'Irpef per i redditi sotto i 2 mila euro. È ventitreesimo in Lombardia Giorgio Gori, il che vuol dire che può entrare in Parlamento se il Pd si aggiudica il premio di maggioranza in quella regione. Decisamente più alti in lista Anna Paola Concia (Abruzzo), Mario Tronti (Lombardia) il segretario dei Giovani democratici Fausto Raciti (Sicilia), Alessandra Moretti (Veneto), l’ex operaio Thyssen e deputato uscente Antonio Boccuzzi (Piemonte) e il direttore responsabile di “Italianieuropei” Massimo Bray (Puglia).
LA LEPRE DA INSEGUIRE
«La lepre da inseguire siamo noi e tutti faranno la gara dietro di noi», dice con una delle sue metafore Bersani parlando ai membri della direzione Pd. Il segretario democratico sa che dovrà vedersela anche con Monti, e al premier manda a dire che il suo partito «non cerca la rissa», ma «offrendo rispetto chiediamo rispetto». Con queste liste Bersani vuole dimostrare che guida un collettivo, perché «la personalizzazione dice con evidente riferimento al simbolo della lista civica “Con Monti per l’Italia” porta instabilità». Sul premier, dice, il Pd non ha «niente di cui pentirsi», ha sostenuto il governo con «assoluta lealtà, anche su scelte su cui avremmo fatto di più». Come sull’Imu. Adesso Monti dice che è da rivedere? «Se si voleva sistemare l’Imu c’era il nostro emendamento», manda a dire Bersani. E non è l’unica frecciata indirizzata a Monti, che nei giorni scorsi aveva detto che non ha più senso parlare di destra e sinistra. «In Italia si dice che non esiste il bipolarismo, ma è una singolare notizia per l’Europa, dove non è così».
Ora il leader del Pd parte subito in campagna elettorale, pronto a impegnarsi soprattutto nelle regioni che possono garantire la maggioranza certa al Senato. Poi, in caso di vittoria, comincia la sfida vera. «Il 2013 sarà l’anno più acuto della crisi sul versante sociale. L’Italia ce la farà, noi metteremo il segno più dove oggi c’è il segno meno. Troveremo la nostra forza nel civismo. Ce la faremo senza raccontare favole».
Tutti i candidati su www.unita.it
il Fatto 9.1.13
Iil filosofo e il paracadutato, il Pd ha scelto i suoi
Discussioni accese in Puglia, Sardegna e Trentino, poi i pezzi vanno a posto
Ecco chi ha vinto e chi ha perso
di Wanda Marra
La direzione del Pd ieri sera dopo solo un paio d’ore di riunione ha approvato all’unanimità le liste dei candidati alle elezioni. Senza neanche leggerle ad alta voce. Figuriamoci discuterle. Come nella migliore tradizione. Le trattative finali sono durate una settimana, con tanto di riunioni notturne tra via del Nazareno e via Tomacelli (dove si riuniva il cosiddetto comitato elettorale), nomi saltati all’ultimo momento, dimissioni di segretari regionali annunciate e poi rientrate. Comporre l’algoritmo Bersani – ovvero combinare i nomi decisi dai vertici nazionali e frutto degli accordi con le correnti con i vincitori delle primarie – non è stata cosa semplice. A lavorarci indefessamente sono stati Stumpo e Migliavacca, i fedelissimi del segretario (entrambi in lista, uno in Calabria, l’altro in Emilia Romagna): la combinazione prevedeva posti certi per il listino (il 30% se il Pd vince le elezioni, di più se le perde), e i vincitori dei gazebo dietro, meno garantiti. “Con le primarie abbiamo ammazzato il Porcellum”, dichiarava ieri Bersani in direzione. A giudicare dagli umori non sembra sia stato del tutto così.
“Sono finito sesto, una posizione molto al limite”. Emanuele Trappolino, giovane bersaniano non di fede ma d’appartenenza, discute prima dell’inizio con il gruppo degli umbri. Lì è rimasto fuori anche il segretario, Lamberto Bottini, sconfitto alle primarie, che prima ha dato le dimissioni, tuonando contro i vertici e ventilando brogli, poi le ha ritirate. Alla Camera in Umbria capolista è la Sereni (quota Franceschini), prima di Trappolino, quinto, c’è anche Verini (uno dei pochi veltroniani rimasti). Trappolino sorride, in generale le facce lunghe si sprecano. “In pieno ed assoluto dissenso col gruppo dirigente nazionale del Pd per aver tradito lo spirito delle primarie ed aver invaso le liste pugliesi di 'immigrati dal nord' mi dimetto dalla carica di Segretario regionale”, dichiarava ieri Sergio Blasi, segretario della Puglia. Il tema è quello dei “paracadutati”: candidati imposti dall’alto che tolgono posti ai vincitori dei gazebo, legati al territorio. Passano un paio d’ore e Blasi ritira le sue dimissioni. È riuscito a ottenere l’uscita di Francesca Marinaro, a favore di una pugliese. Se è per la Sardegna, Sergio Lai non accetta il posto di capolista in dissenso con il segretario.
IN SICILIA, sono solo cinque gli esterni nelle liste di Camera e Sanato, più il capolista a Palazzo Madama, Mineo (e risulta così quasi certamente salvo l'ex segretario Cisl, Sergio D’Antoni, uno dei trombati eccellenti dai gazebo). Ma poi le sorprese dell’ultima ora si sprecano. In Toscana, la capolista a Palazzo Madama doveva essere la senatrice uscente, il magistrato Della Monica. Ma nella notte tra lunedì e martedì il suo nome sparisce: entra Valeria Fedeli, vicepresidente del sindacato europeo dell’Industria. E anche moglie di Passoni, fatto fuori dalle primarie in Piemonte. Oppure in Calabria, dove doveva entrare Enzo Ciconte, docente di Roma Tre, massimo esperto italiano di ‘ndrangheta. Ma all’ultimo momento esce per far posto ad Angelo Argento, siciliano in quota Letta (e senza nessuna conoscenza della mafia calabrese). Un gruppo di esodati fuori dal Pd protesta perché è solo terza la Gnecchi in Trentino, vincitrice delle primarie.
Nel risultato finale spiccano i nomi della società civile, le figurine di Bersani: c’è Piero Grasso (candidato nel Lazio e non in Sicilia, dove il capolista in Senato è Mineo, direttore di Rai News, che dovrà vedersela con il candidato di Ingroia, il figlio di Pio La Torre), c’è la Carrozza, rettore del Sant’Anna, c’è Mucchetti, ci sono gli economisti Giampaolo Galli e Dell’Aringa, i filosofi Marzano e Cassano, lo storico Galli. Ieri entrano 4 esterni di area cattolica. Sono Edoardo Patriarca, presidente del Centro Nazionale per il Volontariato ed Ernesto Preziosi, ex presidente dell’Azione Cattolica, la storica Emma Fattorini e Flavia Nardelli, in quota renziana figlia del segretario Dc Flaminio Piccoli. E c’è Gotor, storico, fedelissimo del segretario. Nessun ministro di Monti. Però, “sono molti quelli che ci piacciono”. Non è detto che alcuni di loro non arrivino poi all’esecutivo.
Il segretario lascia fuori il fido portavoce Di Traglia, la pasionaria Chiara Geloni, il capoufficio stampa Roberto Seghetti. Li porterà a Palazzo Chigi, dicono. Non entra nemmeno Giuntella. Renzi mette dentro un drappello di fedelissimi (la Bonafè, per dire, è paracadutata in Lombardia) più uno di rutelliani. Entra il direttore di McKinsey, Yoram Gutgeld. Restano fuori alcuni uomini chiave delle primarie, dal braccio destro Reggi al costituzionalista Clementi, a Paganelli. Franceschini i suoi li piazza tutti, anche senza primarie: da Martino a Garofani a Lo Sacco. Nel drappello Psi oltre al segretario Nencini c’è pure Bobo Craxi. Ma ad algoritmo compiuto Bersani già canta vittoria: “Più che favoriti ci sentiamo vincenti. Siamo noi la lepre da inseguire”
La Stampa 9.1.13
Guai giudiziari
Impresentabili, adesso spunta una autocertificazione
Li chiamano “impresentabili”. Sono quelli che a rigor di legge sono “candidabili”, ma comunque potrebbero rappresentare un’ombra per il Pd. E allora, risolto con un passo indietro della diretta interessata il caso di Bruna Brembilla, che aveva ottenuto un buon risultato alle primarie lombarde, ma è coinvolta in un’inchiesta sulle infiltrazioni della ’ndrangheta nell’hinterland di Milano, e la cosa era stata rimarcata da una lettera aperta a Bersani da alcuni big del partito, il Pd annuncia che si doterà di un codice anti-impresentabili.
Il meccanismo viene annunciato da Luigi Berlinguer, ideatore di un modulo da far sottoscrivere a tutti i candidati «in cui loro stessi - spiega - dichiarino di non trovarsi in una delle condizioni di incandidabilità previste dal codice etico del Pd e dalla recente normativa sulle liste pulite».
In tutta evidenza, se un candidato firmasse questa autocertificazione, e un domani saltasse fuori qualche magagna giudiziaria, verrebbe meno il rapporto fiduciario con il partito. «Successivamente la segreteria potrà investire la commissione di garanzia per una eventuale verifica sui casi in difetto dei requisiti», conclude Berlinguer. C’è tempo fino al 21 gennaio
Eppure Beppe Grillo non perde l’occasione per un’aspra polemica. «Bersani - scrive sul suo blog - in diretta a “Otto e mezzo” ha detto di non conoscere le persone nelle liste del pd che hanno problemi con la giustizia. Non se ne occupa. Si fida del comitato dei garanti composto da persone irreprensibili come Caterina Romeo. Condannata a 1 anno e 4 mesi per violazione alla legge elettorale».
Sarcastico come al solito, Grillo: «Vorrei facilitare l’arduo compito segnalandone alcuni. Vladimiro Crisafulli, Enna, rinviato a giudizio per concorso in abuso d’ufficio, accusato di aver ottenuto la pavimentazione di una strada comunale che porta alla sua villa a spese della Provincia di Enna. Antonino Papania, Trapani, ha patteggiato davanti al gip di Palermo una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio. Giovanni Lolli, L’Aquila, rinviato a giudizio con l’accusa di favoreggiamento, prescritto. Nicodemo Oliverio, Crotone, imputato per bancarotta fraudolenta. Francantonio Genovese, Messina, indagato per abuso d’ufficio».
il Fatto 9.1.13
L’incandidabile armata prova (ancora) a resistere
Rinuncia a correre la sola Brembilla
Per gli altri scatterà l’autocertificazione su apposito modulo
di Caterina Perniconi
Sei un candidato del Partito democratico coinvolto in qualche inchiesta giudiziaria? Puoi autocertificarti e la commissione di garanzia valuterà se la tua dichiarazione è in linea con il codice etico (ove la segreteria del partito lo richiedesse). È questo il meccanismo “anti-impresentabili” studiato da Luigi Berlinguer per ripulire le liste elettorali entro il 21 gennaio, giorno della presentazione definitiva.
“ESAMINEREMO caso per caso” aveva detto Pier Luigi Bersani. Ma la discussione in Direzione nazionale non c’è stata. Meglio rinviare i nomi più controversi al tribunale interno, sempre che tutti gli aspiranti parlamentari consegnino il modulo con la dichiarazione, e che sia veritiera. Per esempio: il candidato numero 7 in lista nella circoscrizione Sicilia 2 alla Camera, Vladimiro Crisafulli, dovrà scrivere che è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio con l’accusa di aver fatto pavimentare a spese della Provincia la strada comunale che porta alla sua villa. Inchiesta che, secondo il codice etico del Pd, non ti rende incandidabile. Potrebbe anche scrivere che è stato filmato mentre parlava di politica e affari con il boss Raffaele Bevilacqua. Posizione archiviata, sebbene la sentenza parlasse di “dimostrata disponibilità a mantenere i rapporti con il boss”. Candidabile.
Chi rischia di più è Antonio Papania, piazzato al secondo posto nella circoscrizione Sicilia al Senato, che ha patteggiato 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio. Anche se il reato non è tra quelli esplicitamente esclusi dal codice etico. Ha invece deciso di non passare dalle “forche caudine” della commissione di garanzia Bruna Brembilla. Ex assessore provinciale a Milano nella giunta di Filippo Penati è stata intercettata in un’inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta, posizione poi archiviata. Sarebbe stata candidabile. “Per senso di responsabilità, consapevole della delicatezza del momento politico che stiamo vivendo, decido di rinunciare alla candidatura – ha scritto in una lettera al segretario del Pd lombardo, Maurizio Martina – per me non è importante un posto, ma l’affermazione delle politiche del Pd, candidato a guidare il paese in una delicatissima fase di transizione”.
LA BREMBILLA aveva partecipato alle primarie e poteva ambire a un posto in lista. Ma alla fine ha rinunciato. Resta invece Francantonio Genovese, terzo in lista nella circoscrizione Sicilia 2 per la Camera, campione di conflitti d’interesse. Scriverà nell’autocertificazione che che lo chiamano
“Franzantonio” perché è diventato sindaco di Messina sebbene azionista della Caronte, società dei traghetti nello Stretto? E che molti dei suoi parenti siedono sulle poltrone di enti e società finanziati dalla Regione? Difficile. Al dodicesimo posto della circoscrizione Campania 1 per la Camera resiste Massimo Paolucci, tirato in ballo nella “trattativa” tra lo Stato e i Casalesi sui rifiuti a Napoli, mai indagato. Il suo coinvolgimento era stato denunciato in un articolo della giornalista antimafia Rosaria Capacchione, anche lei candidata con il Pd, ma al Senato. Le loro strade, per ora, restano divise.
Corriere 9.1.13
Maggioranza da Costruire se 2 Regioni-Chiave Vanno al Pdl
Lombardia, Sicilia e Campania in bilico al Senato
di M. Antonietta Calabrò
«Toss up». Per il Senato e quindi per il futuro governo, la partita è aperta, è come quando si lancia in aria una monetina, «toss up», appunto. Le due coalizioni (centrosinistra e centrodestra) sono distanti circa un dieci per cento, con in testa il centrosinistra, ma.... Ma per effetto del diverso premio attribuito dal Porcellum (su base nazionale alla Camera e su base regionale a Palazzo Madama), la maggioranza della coalizione guidata da Pier Luigi Bersani è netta a Montecitorio, mentre al Senato sarà l'esito di alcune Regioni-chiave a sancire se il centrosinistra potrà «fare da solo» o se Monti e la sua «Scelta civica» potranno essere l'ago della bilancia. Il premier, infatti, non ha alcuna possibilità di vincere alla Camera né in alcuna regione al Senato. In queste condizioni, per poter pesare nella formazione del prossimo governo, Monti deve sperare che Berlusconi vinca in alcune delle Regioni in bilico. Se questo accadesse i seggi del «partito di Monti» diventerebbero decisivi al Senato per fare il governo sulla base di una alleanza con la coalizione di centrosinistra. Paradossalmente, insomma, Monti deve «tifare» Berlusconi.
Scenari ipotizzati dal politologo Roberto D'Alimonte che sul Sole24ore ha analizzato le rilevazioni condotte da Ipsos (l'Istituto di Nando Pagnoncelli) in tre Regioni considerate decisive. Innanzitutto la Lombardia, il cosiddetto «Ohio» italiano, uno swing state che però assegna ben 49 seggi a Palazzo Madama (cioè un sesto di tutti i senatori), e quindi «pesa» come la California nelle elezioni presidenziali americane. Poi la Sicilia e terza, è questa la vera sorpresa, la Campania. Dove la lista capitanata dall'ex aggiunto della Procura di Palermo, Antonio Ingroia, «Rivoluzione civile», sostenuta dal sindaco di Napoli, De Magistris, sta «cannibalizzando» il Pd.
Per D'Alimonte in queste tre Regioni l'esito del voto è oggi assolutamente imprevedibile con una sostanziale parità tra centrodestra e centrosinistra al 32,5%. La supremazia di una coalizione sull'altra, anche di un voto soltanto, per effetto del premio di maggioranza regionale significherebbe in Lombardia 27 seggi al primo classificato e solo 12 al secondo: uno scarto notevole.
Anche in base alle analisi di Fabio Fois, European Economist presso Barclays Capital, la divisione di investment banking della Barclays Bank, basterà al Pd-Sel perdere la Lombardia e anche una qualsiasi altra Regione, per stare «sotto» — con 157 seggi — la maggioranza assoluta al Senato che è costituita da 158 senatori eletti, esclusi i senatori a vita. Se la coalizione di Bersani invece dovesse perdere Lombardia, Sicilia e Veneto avrebbe solo 149 senatori (9 in meno della maggioranza assoluta).
«Certamente, stando ai nostri calcoli, qualora la coalizione Pd-Sel non riuscisse a vincere in Lombardia e in una delle altre Battleground-regions, l'eventuale supporto delle forze centriste al Senato diventerebbe cruciale per la governabilità», dice Fois.
Per Andrea Lenci, di Scenaripolitici.com, Monti ha molte chance. Parte da una premessa generale, Lenci. «L'elettorato in questa fase è molto mobile, tipico dell'inizio delle campagne elettorali. Stiamo vedendo qualcosa di già sperimentato nel 2006 dove l'elettorato "moderato", dopo essersi rifugiato nell'astensione o nella protesta (M5s) torna ad esprimersi». Ricorda che «nel 2006 ci fu una buona rimonta di Berlusconi che convinse buona parte dei suoi ex elettori a rivotarlo». Ma subito Lenci aggiunge: «Ora gli stessi elettori stanno tornando, ma stanno andando verso Monti per la gran parte». Monti leader dei moderati? «In effetti tutto questo ha una logica, l'elettore stanco del centrodestra che non è convinto dal centrosinistra e nemmeno da Fini e Casini, trova un nuovo movimento "moderato" al centro della scena. Un'alternativa importante e che pesca anche nel Pd. Per le prossime settimane i trend potrebbero continuare, se Monti dovesse crescere ulteriormente, e noi lo diamo in forte crescita, non escludo terremoti».
Resta un fatto. Se Pd-Sel dovessero davvero perdere anche la Campania (oltre a Lombardia, Veneto e Sicilia) la loro quota di senatori scenderebbe di almeno altri dieci seggi e allora forse potrebbe non bastare neppure il «fattore Monti» per dare al Paese un governo. Potrebbe delinearsi uno scenario, evocato da Berlusconi nei giorni scorsi, da «grande coalizione».
l’Unità 9.1.13
Una sfida storica
La nuova strada della sinistra
di Massimo D’Alema
Una prospettiva, per l’Italia, c’è. L’idea di un’alleanza delle forze progressiste aperta ai moderati, con la leadership di Pier Luigi Bersani, appare come l’unica proposta politica in grado di rispondere all’esigenza di una ricostruzione democratica.
Con il confronto delle primarie, questa prospettiva ha preso corpo e si è imposta al centro del dibattito pubblico.
Un progetto che si presenta, oggi, come un ritorno della politica alla guida del Paese. Sarà all’altezza, il centrosinistra? L’interrogativo è legittimo, dopo le sconfitte e le delusioni del passato. Anche per questo, non è inutile volgere lo sguardo all’esperienza di questi ultimi venti anni. Non ho mai apprezzato in pieno l’espressione «Seconda Repubblica», che è carica di ambiguità e contiene, forse, un riconoscimento eccessivo al ventennio che si chiude oggi e che si aprì con la crisi dei primi anni Novanta.
LA STAGIONE BERLUSCONIANA
Certamente mi pare appropriato riferirsi a un periodo segnato dal ruolo e dal protagonismo di Silvio Berlusconi, dal suo stile, da un modo di fare politica, da un blocco di forze sociali e di interessi intorno a lui. Il successo di Berlusconi, il suo essere in grado di interpretare un ventennio di vita nazionale, nascono ben al di là delle sue personali capacità e della forza del suo potere mediatico e finanziario. Egli ha, in realtà, impersonato una sorta di rivincita del potere economico e degli spiriti animali della società civile contro la «Repubblica dei partiti», la rivincita di un liberismo rozzo e individualista contro i vincoli che i solidarismi di matrice cattolica e socialista hanno imposto al capitalismo italiano. Un progetto di modernizzazione, quello berlusconiano, che veniva da lontano, certamente dagli anni Ottanta. E, in definitiva, una versione italiana di quella più generale egemonia di una visione neoliberista che ha visto nell’89 non solo la fine del comunismo, ma anche la fine della storia e la definitiva resa dei conti con le ideologie e le grandi narrazioni del Novecento.
Come in altri momenti delle vicende del nostro Paese, i salti di qualità più radicali avvengono sotto l’incalzare di eventi internazionali. La crisi della «Repubblica dei partiti» nasce con l’89, la caduta del comunismo e la fine della Guerra Fredda. Così, la fine del berlusconismo precipita nella grande crisi che in questi anni investe il capitalismo finanziario globalizzato.
A questo appuntamento, l’Italia giunge fragile. Uno dei Paesi più esposti, anzitutto per debolezze profonde, accumulate nel tempo: il peso del debito pubblico, il divario tra Nord e Sud, la farraginosità dell’amministrazione, l’inefficienza della macchina della giustizia, la frammentazione della struttura produttiva. A ciò si aggiungono i problemi accumulati in questi anni per le debolezze di un centrosinistra che non è stato in grado di completare la sua opera riformatrice e per gli effetti devastanti degli anni di governo di Berlusconi e della Lega. Non solo sui conti pubblici, sull’economia e sulla società, ma sull’etica pubblica e sulla credibilità stessa delle istituzioni e del sistema politico-democratico.
Il Paese era veramente giunto sull’orlo del collasso, anche se la memoria corta degli italiani rischia di rimuovere questa realtà. Mario Monti ha interpretato davvero quel ruolo di responsabilità e di salvezza nazionale cui è stato chiamato dal capo dello Stato. Egli ha affrontato con energia l’emergenza, attraverso misure dolorose, in parte inevitabili, anche se non sempre attente a un’esigenza di equità sociale. Ma, in definitiva, il compito del governo era di evitare il disastro e il Paese ne è uscito. Credo che il merito maggiore di Monti sia stato quello di avere restituito voce e credibilità all’Italia sulla scena europea e internazionale, dopo un periodo di marginalità o di profonda umiliazione.
Basterebbe questo a motivare la gratitudine che tutti noi dobbiamo al presidente del Consiglio e anche, sia consentito, a chi lo ha voluto e sostenuto con lealtà, mettendo da parte la legittima richiesta di un voto immediato e la probabile conquista anticipata del governo. Come in altri passaggi cruciali della storia del Paese, ha prevalso a sinistra il senso del dovere verso l’Italia e credo che questa scelta legittimi ora, accanto alla forza del consenso popolare, la candidatura di Bersani alla guida del governo.
Perché ora c’è bisogno di una svolta. E non perché il ceto politico pretenda di reinsediarsi al posto dei tecnici, come si scrive con disprezzo indicando il ritorno della politica come l’alba di una nuova stagione di corruzione e di incompetenza. Non credo debba sfuggire che questa non è solo una campagna contro la politica, è una campagna contro il diritto dei cittadini a scegliere da chi vogliono essere governati, cioè contro la democrazia e contro la sinistra.
Certo, la crisi e la decadenza della politica sono sotto gli occhi di tutti, ma se si vuole imboccare la via di una rigenerazione anche morale e non di un ripiegamento tecnocratico, occorre vedere in profondità i motivi e le cause. Noi non viviamo il tempo del dominio dei partiti e della politica sulla società e sull’economia. Al contrario, ciò cui assistiamo è un declino progressivo e che parte da lontano. La decadenza del partito di massa, ideologico, ha caratterizzato tutta la storia europea degli ultimi trent’anni(...)
Sarebbe impensabile negare gli effetti devastanti di perdita di credibilità del sistema politico e istituzionale, ma il problema è che le spinte dominanti nell’opinione pubblica e nel senso comune vanno nella direzione di una ulteriore destrutturazione, privatizzazione e personalizzazione della politica. Quindi verso un aggravamento dei guasti e non verso un loro risanamento. E, ciò che è persino più grave, verso un restringimento delle basi sociali dell’agire politico. Per dirla rozzamente, la politica dei partiti personali, dominata dai media, priva di sostegno e finanziamenti pubblici, è una politica per ricchi o per lo meno dominata dai ricchi.
È possibile un’altra strada?
C’è una via per la ricostruzione democratica, per uscire dal berlusconismo, senza per ciò coltivare l’illusione di un ritorno al passa-
to? Questa è la sfida con cui si misurerà Bersani e tutto il centrosinistra. Una sfida che oggi appare particolarmente impegnativa e complessa.
In altri momenti di crisi, l’Italia ha avuto, nel riferimento al contesto internazionale e particolarmente all’Europa, un ancoraggio solido e anche l’indicazione di una via d’uscita. Oggi è l’Europa stessa a essere l’epicentro della crisi. È l’Europa la grande malata della globalizzazione, attraversata da spinte populiste e rischi tecnocratici, in diversi casi non meno pericolosi di quelli che hanno investito il nostro Paese (...) Il cittadino americano può scegliere tra un presidente che tagli le tasse riducendo la protezione dei più poveri e uno che tassi i ricchi per garantire l’assistenza sanitaria. Per quanto condizionata dai mercati finanziari e dalle agenzie di rating, la politica americana, come quella di altre potenze emergenti, sembra ancora in grado di decidere. In Europa, no. Il cittadino europeo sostanzialmente ha la percezione di non potere influire sulle scelte dell’Unione, che si presentano come un complesso neutro di vincoli e di obbligazioni, dovute a ragioni tecniche. Alla politica non resta che fare «i compiti a casa», cioè eseguire le direttive che la razionalità economica dominante impone. La politica (politics), confinata entro i limiti delle realtà nazionali, ha scarsa possibilità di incidere, si riduce a narrazione.
In questo quadro si rafforzano le spinte populiste nel nome del demos contro le élite tecnocratiche, invocando l’ethnos nazionale o localistico contro la globalizzazione e l’integrazione europea. Così, la democrazia europea rischia di essere schiacciata tra il peso di una tecnocrazia necessariamente più attenta ai vincoli posti dai mercati finanziari e dalle stringenti compatibilità che essi impongono, e un populismo sempre più antieuropeo, il quale dà voce al malessere sociale e alle identità culturali che si sentono minacciate dalla globalizzazione.
Può apparire paradossale, ma le due grandi tendenze politiche che hanno dominato la scena europea negli ultimi dieci anni sono ambedue espressione soprattutto della destra, o meglio di due diverse destre che nascono dalla storia d’Europa: una liberale e liberista, legata a poteri economici forti, tendenzialmente cosmopolita e favorevole alla globalizzazione; l’altra nazionalista, localista, populista, legata a valori tradizionali e a ceti colpiti o spaventati dall’apertura dei mercati e dalle sfide del mondo globale.
La sinistra europea è apparsa spiazzata e in difficoltà. Si è divisa tra componenti innovative e neoliberali, che hanno condiviso con le élite economiche una visione sostanzialmente ottimistica della globalizzazione, e forze più tradizionali, che hanno difeso lo storico compromesso socialdemocratico e le conquiste che lo hanno caratterizzato, nell’illusione che tutto ciò avrebbe potuto essere protetto anche nei nuovi scenari della competizione mondiale. L’esito è stato quello di una duplice, dolorosa sconfitta. Se pensiamo che la Terza via di Tony Blair ha finito per accodarsi all’avventura di George Bush e dei neocon in Iraq, e che una parte del socialismo francese si è schierata per il «no» nel referendum sulla nuova Costituzione europea, possiamo misurare su entrambi i versanti i rischi di appannamento ideale e di subalternità.
Ma questo è ciò che abbiamo alle spalle: a quella stagione politica ne è seguita un’altra, dominata dalle destre in Europa, che ora può chiudersi. E non solo in Italia. Adesso c’è una nuova stagione che si apre per i progressisti. Non si tratta solo della Francia di François Hollande, ma di un ritorno più significativo sulla scena di forze di ispirazione socialista e laburista. E non si tratta soltanto di questo, ma anche di alleanze di centrosinistra che vanno oltre la tradizione socialdemocratica. Quello che accadrà in Italia e in Germania potrà essere decisivo per modificare lo scenario politico europeo e scrivere finalmente una nuova pagina. Certo, le prove che abbiamo di fronte appaiono estremamente impegnative (...).
L’OPERA DI RICOSTRUZIONE
Il centrosinistra italiano, da Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi sino ad oggi, ha una storia di forte e coerente impegno per l’Europa. Aggiungo che la coerenza europeista è stata a lungo ed è ancora una delle discriminanti di fondo contro vecchi e nuovi populismi nella politica italiana. In questo c’è, sicuramente, la consonanza più profonda tra il Pd e Monti e l’elemento più significativo di continuità con il suo governo che il centrosinistra dovrà assicurare.
L’opera per la ricostruzione e la rinascita dell’Italia non potrà che collegarsi al processo di rilancio europeo come due aspetti della stessa sfida che sta di fronte a una nuova classe dirigente. Anche per questo è così importante che a guidare il Paese sia una forza come il Pd, che – con la sua originale identità – è parte integrante, autorevole e riconosciuta del riformismo europeo (...)
l’Unità 9.1.13
Giovani sempre più senza lavoro È il record degli ultimi 20 anni
I dati Istat evidenziano l’aggravamento della situazione
Nella fascia tra i 15 e di 24 anni il 37,1% di disoccupati
di Marco Ventimiglia
MILANO Una pioggia di numeri, relativi all’andamento della disoccupazione, provenienti da Istat ed Eurostat. Tante cifre che però hanno dei comuni denominatori. Infatti, emerge senza tema di smentita l’aggravarsi nel Continente del problema dei senza lavoro, che diventa ancor più drammatico se ci si concentra sulla fascia più giovane della popolazione europea. E se poi si restringe il campo all’interno dei confini nazionali, allora c’è da rabbrividire apprendendo del nuovo record di giovani privi di un impiego registrato nel mese di novembre, con il tasso di disoccupazione salito al 37,1%, ai massimi dal lontano 1992.
MALE ANCHE L’EUROPA
Dunque, l’Istituto nazionale di Statistica certifica che nel nostro Paese più di un giovane su tre, tra quelli attivi, è senza occupazione. In particolare, secondo i dati provvisori forniti ieri, nella fascia tra i 15 ed i 24 anni d’età le persone in cerca di lavoro sono 641mila e rappresentano il 10,6% della popolazione complessiva di questo segmento. Ed ancora, il tasso di disoccupazione dei 15-24enni (come detto pari al 37,1%) risulta essere in aumento di ben 0,7 punti percentuali rispetto al mese precedente e addirittura di 5 punti nel confronto tendenziale anno su anno. Resta invece stabile il tasso complessivo di disoccupazione in Italia all'11,1%, appunto lo stesso dato di ottobre. Ma nel raffronto con il mese di novembre del 2011 emerge un drammatico aumento di 1,8 punti percentuali. Nel dettaglio, il tasso di disoccupazione maschile, pari al 10,6%, cresce di 0,1 punti percentuali rispetto a ottobre e di 2,2 punti nei dodici mesi; quello femminile, pari al 12,0%, cala di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente e aumenta di 1,2 punti rispetto a novembre 2011.
Spostandoci sui dati continentali, Eurostat ha evidenziato il continuo peggioramento del mercato del lavoro nell’area euro, dove a novembre la disoccupazione ha toccato nuovamente un massimo storico all'11,8 per cento, contro l'11,7 per cento di ottobre. Questo significa che in un mese si sono contati 113mila disoccupati in più, portando il totale a quota 18 milioni 820mila. La dinamica di peggioramento appare ancora più marcata nel paragone su base annua: nel gennaio del 2012 la disoccupazione media nell'Unione valutaria era al 10,7 per cento e rispetto ad allora il numero totale delle persone prive di impiego è cresciuto di ben 2 milioni 15mila. In questo contesto vola la disoccupazione giovanile, seppur con valori medi ben inferiori a quelli italiani. Secondo i dati di Eurostat, a novembre 2012 il tasso ha raggiunto il 24,4%, con 3,733 milioni di under 25 senza lavoro, a fronte del 21,6% dello stesso mese dello scorso anno. Il numero dei giovani disoccupati nell'area della moneta unica è balzato così di 420mila unità in un anno. Nell'Unione europea a 27, invece, il tasso di disoccupazione per gli under 25 è stato, sempre nel mese di novembre, del 23,7% rispetto al 22,2% dello stesso mese del 2011.
Dure le reazioni dei sindacati. La Cgil, per voce della responsabile delle politiche giovanili, Ilaria Lani, sottolinea che i dati sulla disoccupazione mettono «in evidenza il fallimento delle politiche di solo rigore che hanno alimentato la recessione e le disuguaglianze e colpito prevalentemente le nuove generazioni, che ormai vedono un sostanziale blocco nell'accesso al lavoro». Per la Cisl «l'impatto della crisi e le riforme pensionistiche stanno penalizzando particolarmente l'occupazione giovanile» e «il lavoro deve essere il primo punto di qualsiasi programma elettorale». Secondo il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy, «il dato generale è implacabilmente chiaro e quello sulla stagnazione del lavoro giovanile segnala che il disagio occupazionale sta determinando un ulteriore peggioramento delle condizioni economiche e sociali del nostro Paese».
il Fatto 9.1.13
Tagliano pensioni e ospedali, ma comprano sommergibili
Per l’acquisto di due sottomarini militari U-212 lo Stato spenderà 2 miliardi (170 milioni l’anno) grazie a una norma confermata dalla legge di Stabilità voluta dal governo Monti e approvata da Pdl, Pd e Terzo Polo. Un altro spreco dopo gli F-35
di Daniele Martini
Pensioni, ospedali e scuole sì. Cacciabombardieri, sommergibili e siluri no. Chissà perché in Italia da un po’ di tempo a questa parte si può tagliare di tutto, senza esitare a mettere per strada centinaia di migliaia di esodati, per esempio, o fino al punto da indurre i direttori amministrativi degli ospedali a “suggerire” ai medici di prescrivere ai malati le cure meno care e non le più efficaci. Ma quando si arriva di fronte alle armi i governi come d’incanto smettono la faccia feroce e diventano accondiscendenti e rispettosi come indù al cospetto di vacche sacre e i quattrini gira e rigira riescono sempre a trovarli. L’ultimo caso lo ha sollevato quasi per caso lunedì sera, durante Piazzapulita su La7, l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, il quale ha ricordato che tra le spese militari pesanti dell’Italia in questo momento non ci sono solo i 900 milioni di euro per rifinanziare le missioni all’estero, a cominciare da quella in Afghanistan, o i discussi e sofisticatissimi F-35, i cacciabombardieri più costosi di tutta la storia dell’aeronautica militare. Ci sono anche due sommergibili di “ultima generazione” della classe U 212, detta anche classe Todaro. Due battelli, come dicono in gergo, che costano quasi 1 miliardo di euro, che sommato all’altro miliardo già speso per altre 2 unità già entrate in esercizio e con base a Taranto, fanno 2 miliardi. Tanto per avere un ordine di grandezza, è una somma pari a circa la metà di quanto gli italiani hanno dovuto pagare di Imu sulla prima e in moltissimi casi unica casa di proprietà. E una tranche da 168 milioni è stata inserita nella legge di stabilità, varata sotto Natale.
IL PROGRAMMA degli U 212 va avanti da quasi vent’anni e quindi tutti i governi della Seconda Repubblica, di centro-destra, centrosinistra e tecnici, ci hanno messo lo zampino, compreso quelli in cui Tre-monti era ministro e non escluso l’esecutivo di Mario Monti con l’ammiraglio Giampaolo Di Paola alla Difesa, che non hanno mosso ciglio di fronte alla conferma delle ingenti spese. Il primo sommergibile battezzato Salvatore Todaro fu consegnato alla Marina militare il 29 marzo 2006, il secondo un anno dopo, mentre nel 2009 è stato dato il via alla fase 2 del piano, cioè la costruzione di altri 2 sommergibili, frutto di una collaborazione italo-tedesca.
GLI ITALIANI partecipano con gli stabilimenti Fincantieri di Muggiano alla periferia di La Spezia e i tedeschi con il consorzio Arge in cui spiccano i produttori di acciaio Thyssen Krupp, tristemente famosi per il rogo nella fabbrica di Torino in cui morirono sette operai e per il quale è stato condannato l’amministratore dello stabilimento. Il 9 dicembre 2009 nei cantieri spezzini, alla presenza di “autorità, civili, militari e religiose” è stata celebrata la cerimonia del “taglio della prima lamiera” del battello che porterà la matricola S 528. Secondo informazioni della Difesa, fino a 6 mesi fa era stato costruito meno della metà di quel primo sommergibile (il 43 per cento, per l’esattezza), mentre non era stata avviata l’impostazione e tagliata mezza lamiera del secondo il cui termine ultimo di consegna, compreso un anno di prove in mare, è fissato addirittura per il 2017. Al ministero della Difesa sostengono che qualsiasi cambio di indirizzo in corsa sarebbe intempestivo e inopportuno perché i contratti sono siglati. Volendo, però, e ammesso che da qualche parte qualcuno abbia la volontà politica di farlo, si potrebbe anche fermare in extremis la costruzione dell’ultimo sottomarino della serie, con un risparmio di circa mezzo miliardo di euro, in considerazione del fatto che da quando fu decisa la sua realizzazione a oggi di cose ne sono cambiate parecchie, e non in meglio per quanto riguarda le condizioni dei conti pubblici e degli italiani in generale a cui continuano ad essere richiesti sacrifici feroci. In altri paesi dimostrano atteggiamenti molto più “laici” nei confronti delle spese militari, non esitando a metterle in discussione, a ridurle o a tagliarle del tutto quando lo considerano opportuno e di fronte ad altre esigenze ritenute più importanti. Caso emblematico di questo approccio pragmatico è quello del governo conservatore canadese che ha deciso di porre un freno al programma dei cacciabombardieri F-35 considerando fosse necessaria una fase di ripensamento visti i costi crescenti e molto elevati dell’operazione e constatati i difetti dell’aereo emersi in fase di realizzazione e di prova.
Il Fatto 9.1.13
Casta esercito
Armamenti e tagli mancati, il governo ha indossato l’elmetto
di Thomas Mackinson
C’è un settore della spesa pubblica che va a gonfie vele e purtroppo non è la scuola, non è la sanità. In contro-tendenza con tutti gli altri comparti, quello della Difesa nel 2012 ha subito meno tagli e ha ricevuto più fondi, forte di
un doppio trattamento di favore che è proseguito fino all’ultimo, con una serie di colpi di coda che fanno discutere. L’ultimo si è consumato il 28 dicembre scorso con la proroga - quasi in sordina e a governo ormai dimissionato - delle missioni internazionali. Un provvedimento di solito accompagnato da forti tensioni e polemiche ma passato stavolta sotto silenzio, nonostante si portasse in pancia un vero e proprio giallo sui numeri. A prima vista il decreto sembra infatti ridurre la spesa rispetto al passato. Il budget messo sul tavolo dal governo è stato infatti pari a 935 milioni, inferiore di mezzo miliardo rispetto a quello del 2012. Il testo pubblicato in Gazzetta, però, indica che la copertura finanziaria alle operazioni militari è relativa soltanto ai primi nove mesi dell'anno, cioè fino al 30 settembre 2013. Insomma, alla fine dei conti il risparmio potrebbe essere solo sulla carta, un taglio col trucco. Un epilogo molto simile a quello dei tagli generali alla spesa strutturata del comparto difesa, anch’essi oggetto di fortissime polemiche, sia in Parlamento che fuori. Quelli di Tremonti prima e la spending review poi, si sa, sono stati “congelati” temporaneamente in vista della riforma dell’intero comparto. Quella che il generale Di Paola ha scritto per un anno e la Camera ha votato (distrattamente) il 12 dicembre, mentre fuori da Montecitorio le associazioni per il disarmo e i radicali protestavano inascoltati. Contestavano al governo metodo e merito: gli eventuali risparmi che si otterranno da questa operazione, sbandierata come una rivoluzione epocale, non
torneranno affatto alle casse dello Stato, non contribuiranno per nulla al risanamento del debito pubblico o a garantire più servizi ai cittadini. Quelle risorse, a differenza dei tagli degli altri settori, resteranno a disposizione della Difesa e saranno impiegate per finanziare l’acquisto di nuovi sistemi d’arma, compresi i contestatissimi F35 che costeranno 15 miliardi di euro. La loro riduzione, urlata a gran voce e da più parti, si è fermata a 41 esemplari. Di novanta, a quanto pare, non si poteva proprio fare a meno. Dunque anche a questo servirà la riduzione di 43mila unità, il 25% del personale civile e militare attualmente impiegato nella difesa. Idem per i frutti, molto incerti, del fantomatico piano di vendita del 30% delle caserme che dovrebbe andare a compimento in cinque anni. Quello che si profila, stanti questi fondamentali, è un’escalation di investimenti nel-l’industria bellica nei prossimi 10-15 anni. Sulla cui assoluta necessità per il nostro Paese si dibatte da tempo. Qualcuno, e non è la prima volta, sta mettendo in dubbio anche le reali “performance” delle nostre industrie. Le associazioni pacifiste, ad esempio, hanno confrontato i dati sull’export dichiarati nella relazione al Parlamento e quelli contenuti nel Rapporto annuale dell’Unione Europea. E hanno scoperto una curiosa incoerenza tra i numeri: nel 2011 l’Italia avrebbe esportato armi e sistemi di difesa per 2,6 miliardi, per la Ue “appena” uno. Delle due l’una, o i dati sono ampiamente inattendibili o i ritorni degli investimenti militari non sono poi così certi, come ostentato da un governo che ha continuato a indossare l’elmetto. Materia di riflessione per la nuova legislatura. E infine ecco un altro colpo di coda, stavolta assestato dalla casta con le stellette: l’ausiliaria per generali e ammiragli in congedo, una sorta di indennità di chiamata, nel 2013 salirà del 21%, con un costo aggiuntivo per i contribuenti civili di 74 milioni di euro.
La Stampa 9.1.13
Fassina (Pd) attacca “Sarebbero più utili accordi internazionali contro quelli grandi”
“Il redditometro è per i piccoli evasori”
di Rosaria Talarico
Sarà che la campagna elettorale alle porte, sarà che pagare le tasse non piace a nessuno, si tratti del popolo o dei politici. Fatto sta che il redditometro, il nuovo strumento per contrastare l’evasione fiscale appena diventato legge, raccoglie critiche e insulti a trecentosessanta gradi. «Può essere uno strumento importante, ma si concentra sulla piccola evasione – osserva Stefano Fassina, responsabile economico del Pd – servono accordi internazionali per la grande evasione». Incredibilmente le parole sono quasi le stesse usate dall’altra parte politica, con il presidente del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri che descrive gli italiani «tartassati oltre ogni limite e adesso anche spiati e limitati nella libertà personale» aggiungendo che con il redditometro «si instaura uno Stato di polizia fiscale, che finirà con il colpire solo i cittadini onesti che pagano le tasse ma nulla fa contro gli evasori totali, di fatto invisibili al fisco».
Il direttore dell’Agenzia delle entrate, Attilio Befera prova anche a difendere il redditometro con una lettera pubblicata ieri dal Corriere della sera, rifiutando parallelismi con gli Stati di polizia caratterizzati «dall’assoluta segretezza che ammanta le procedure con cui le autorità di quegli Stati operano». Invece il redditometro serve per individuare casi reali di «spudorata evasione fiscale», per citare un’espressione utilizzata da Giorgio Napolitano nel suo discorso di fine anno. Per Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze e grande fustigatore di evasori, il nuovo redditometro invece «rischia di essere un flop. Ho sempre detto che non mi convince perché questi strumenti statistici, al fine di controllo di massa, sono molto incerti nel loro funzionamento». L’alternativa giusta da seguire è quella di «usare le banche dati in modo selettivo e avere un rapporto costante con i singoli contribuenti». Befera respinge anche al mittente le accuse di volere colpire la ricchezza e i suoi simboli: «Il gettito è tanto più alto quanto più i cittadini guadagnano ed è assurdo quindi che il fisco intenda combattere la ricchezza. Semmai è vero il contrario». Una difesa d’ufficio, per quanto appassionata, che cade nel vuoto.
«Strumento di tortura fiscale» lo definisce senza mezzi termini il senatore Pdl Alessio Butti. Mentre il capogruppo al Senato di Fratelli d’Italia Centrodestra Nazionale, Alessandra Gallone ricorda come continuino a passare sotto silenzio «i vergognosi patteggiamenti del fisco italiano con le banche e si preferisca condannare il piccolo contribuente, magari colpevole di essersi fatto aiutare dal nonno per pagare le rette universitarie del figlio, oppure per aver effettuato donazioni alle Onlus».
Meno drastico il presidente della Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria, Maurizio Leo. Da un lato sostiene che il nuovo redditometro vada «maneggiato con cautela, per evitare che diventi uno strumento oppressivo per il contribuente». Dall’altro «coglie nel segno e va sicuramente utilizzato da parte dell’amministrazione, per contrastare l’evasione di massa». E il fatto che l’onere della prova spetti al contribuente non è «un caso di barbarie giuridica» ci tiene a spiegare Befera perché «nessuno, più del contribuente stesso, può sapere come stiano effettivamente le cose». Resta da vedere quanta voglia abbia di andarle a raccontare al fisco.
il Fatto 9.1.13
Crimini e privacy
Pubblici i documenti sui preti pedofili di Los Angeles
di Angela Vitaliano
New York. Inizio d’anno difficile per l’Arcidiocesi di Los Angeles che, a seguito della decisione presa dal giudice Emilie Elias, non potrà più cancellare i nomi dei preti e dei funzionari del Vaticano presenti nei circa trentamila documenti relativi a uno dei più grandi scandali della pedofilia finora scoperti e denunciati. Nel 2007, dopo anni di ripetuti abusi sessuali su minori, da parte di diversi preti, l’Arcidiocesi arrivò a un accordo con le vittime per un risarcimento di 660 milioni di dollari.
IN BASE A QUELL’ACCORDO fu deciso anche che tutti i nomi contenuti nei documenti relativi allo scandalo, potessero essere resi pubblici, senza nessuna possibilità di filtro o di censura. Nel 2011, tuttavia, in seguito a una richiesta presentata alla Corte da 20 dei preti coinvolti, il giudice Dickran Tevrizian, decise di concedere all’Arcidiocesi il permesso di “intervenire” sui documenti così da oscurare i nomi dei “protagonisti”. Secondo il giudice, dare pubblicità alle identità di chi era coinvolto nello scandalo, avrebbe “imbarazzato e ridicolizzato la chiesa”. Di diversa opinione, evidentemente, il giudice che, con grande soddisfazione da parte delle vittime, ha annullato la decisione del 2011 obbligando l’Arcidiocesi a non mettere in atto nessuna cancellazione o censura, se non laddove si tratti di individui che non hanno avuto un peso determinate sullo svolgimento dei fatti. Il giudice, motivando la sua decisione, ha ricordato che non tutti i nomi contenuti nei documenti sono legati al reato di pedofilia in sé stesso e che, dunque, è importante che tutti possano avere un quadro chiaro di come si siano svolti i fatti e del peso avuto da ciascuno nella loro evoluzione. I documenti includono lettere e appunti scambiati fra esponenti di alto rango del vaticano e i loro avvocati, referti medici e psicologici, lamentele stilate da parte di genitori e, in alcuni casi, corrispondenze fra i preti accusati di pedofilia e diversi destinatari in Vaticano. “L’obiettivo del nostro cliente è di risolvere questo al più presto”, ha commentato l’avvocato dell’Arcidiocesi, Michael Hennigan che ha aggiunto anche che il cardinale Roger Mahony, da poco andato in pensione, non ha posto obiezioni alla pubblicazione del suo nome.
Non sembra, tuttavia, possibile che la pubblicazione dei file possa avvenire prima di un mese perché “bisogna capire quant’è grande questa montagna”, ha aggiunto Hennigan lasciando la corte. Ray Boucher, avvocato delle vittime, spera che i tempi possano essere più brevi e, soprattutto, che vengano messe in atto il minor numero di censure
Repubblica 9.1.13
Dalla brigatista torturata ai dittatori africani le ombre nascoste nel passato di Fioriolli
di C. B.
Guidò la questura di Genova subito dopo il G8 denunciando i giornalisti per gli articoli sul massacro alla Diaz
ROMA — Al centro della vicenda napoletana balla un prefetto in pensione la cui storia, da sola, racconta la linea d’ombra di un pezzo della storia recente della polizia Italiana. E che ha il suo incipit nel gennaio 1982. Oscar Fioriolli, classe 1947, trentino di Riva del Garda, poliziotto formato nei reparti Celere, è nelle squadre speciali dell’Antiterrorismo. Le Br-Pcc hanno sequestrato il generale americano James Lee Dozier, vicecomandante delle Forze terrestri alleate per il sud Europa. E il Viminale ha deciso che nella caccia all’ostaggio sia arrivato il momento di mettere in un canto la Costituzione. Salvatore Genova, in quei giorni funzionario della Digos di Verona, è testimone dell’interrogatorio di Elisabetta Arcangeli, arrestata come sospetta fiancheggiatrice delle Br e ritenuta possibile chiave per arrivare al covo in cui è prigioniero l’alto ufficiale. Racconta Salvatore Genova nell’aprile dello scorso anno all’Espresso: «Separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia (il compagno della Arcangeli ndr.) e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna (...) Carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale».
Di quel peccato originale, Fioriolli non vorrà mai parlare. Ma su quel peccato originale costruisce una carriera. Non ha modi né bruschi, né grevi da sbirro. Piuttosto le stim- mate, la forma mentis, di quella polizia politica. Ama le belle cose e mischiarsi tra la gente che conta. Tra l’87 e il ’97, dirige la Digos di Genova, e il suo primo incarico da questore (1997) è ad Agrigento. Dove resta due anni prima della rotazione a Modena (1999-2001) e Palermo, dove resta però solo pochi mesi. Il G8 di Genova lo riporta nell’agosto 2001 nella sua città, dove è rotolata la sola testa del questore Francesco Colucci. Fioriolli è nella massima considerazione di Gianni De Gennaro, allora capo della polizia, e la sua biografia combacia come un calco con l’urgenza che, in quel momento, ha il Viminale. A Fioriolli non va spiegato quello che deve fare. E la sua prima mossa è una denuncia in Procura contro la stampa genovese accusata di “calunniare” la polizia nelle sue ricostruzioni sui fatti della Diaz. La seconda, la melina che impedisce la compiuta identificazione della “macedonia” di polizia che ha fatto irruzione nella scuola. La questura di Genova, del resto, è roba sua. A cominciare dalla Digos e dal suo dirigente Spartaco Mortola. Che come lui è nella cerchia di amici di un faccendiere siriano, tale Fouzi Hadj. Un tipo ricercato per bancarotta, da cui Fioriolli riceve un prestito di 50 mila euro e che fa balenare opachi affari in materia di sicurezza con la dittatura della Guinea Conakry.
Nel gennaio 2005, Fioriolli è a Napoli, nella questura che è stata fino a poco tempo prima di Izzo e terremotata dall’inchiesta della Procura sui fatti della caserma Raniero (prova generale del G8 genovese). Sappiamo oggi come è andata. Gli ultimi anni sono a Roma, a capo della scuola di formazione per l’ordine pubblico e alle specialità. In tempo per la pensione. E per togliere il disturbo prima che cominci a grandinare.
l’Unità 9.1.13
Carceri, condannata l’Italia
La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per il trattamento «inumano e degradante» ai detenuti Pronti altri 550 ricorsi
Napolitano ai partiti: «Mortificante conferma dell’incapacità dello Stato»
di Massimo Solani
La Corte europea dei diritti umani ha accolto il ricorso di sette detenuti di Piacenza e Busto Arsizio condannando l’Italia per la seconda volta al pagamento di un risarcimento pari a 100mila euro. Per Strasburgo l’Italia è responsabile di un trattamento «inumano e degradante» dei detenuti, costretti in celle con meno di 3 metri quadrati a disposizione. Per Napolitano è una «mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi». Il Guardasigilli Severino: «Sono avvilita ma non sorpresa».
L’emergenza carceri che in Italia non sembra trovare spazio nell’agenda politica, in Europa si vede benissimo. E costa cara al nostro Paese. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo infatti, dopo la bocciatura del luglio 2009, accogliendo il ricorso presentato da sette detenuti delle carceri di Piacenza e Busto Arsizio, ha condannato ancora una volta l’Italia per il trattamento «inumano e degradante» riservato ai reclusi imponendo un risarcimento danni complessivo pari a 100mila euro. Ma la situazione del sovraffollamento carcerario con i detenuti ammassati nelle celle con a disposizione meno di tre metri quadrati, denuncia la Corte Europea, in Italia è ormai strutturale al punto che sono già almeno 550 i ricorsi arrivati a Strasburgo. Per questo la raccomandazione al nostro governo, che somiglia ormai ad un ultimatum, è quella di mettere in atto provvedimenti deflattivi, anche attraverso lo studio di misure alternative alla reclusione, e di dotarsi entro un anno di uno strumento giuridico che permetta ai detenuti di rivolgersi ai tribunali italiani per denunciare le condizioni di vita disumane e ottenere, eventualmente, un risarcimento.
Raccomandazioni condivise dal presi-
dente della Repubblica Giorgio Napolitano che più volte, l’ultima in occasione del discorso di fine anno quando lo definì «un dato persistente di incviviltà da sradicare», ha esortato la politica per una soluzione dell’emergenza carceri. «La sentenza della Corte europea dei diritti dell' uomo di Strasburgo rappresenta un nuovo grave richiamo alla insostenibilità della condizione in cui vive gran parte dei detenuti nelle carceri italiane ha commentato ieri il presidente Si tratta di una mortificante conferma della perdurante incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena, e nello stesso tempo di una sollecitazione pressante da parte della Corte a imboccare una strada efficace per il superamento di tale ingiustificabile stato di cose». «Il Parlamento avrebbe potuto, ancora alla vigilia dello scioglimento delle Camere, assumere decisioni, e purtroppo non l'ha fatto ha concluso Napolitano La questione deve ora poter trovare primaria attenzione anche nel confronto programmatico tra le formazioni politiche che concorreranno alle elezioni del nuovo Parlamento così da essere poi rimessa alle Camere per deliberazioni rapide ed efficaci».
Un augurio condiviso anche da Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, secondo il quale l’emergenza carceraria è una «assoluta priorità» che il nuovo Parlamento dovrà affrontare. «Il guaio prosegue Sabelli è che sono mancati interventi strutturali in grado di risolvere il problema». «La situazione delle carceri italiane chiosa l’Unione delle Camere Penali è lo specchio fedele di una giustizia che non funziona e calpesta i diritti fondamentali».
SOVRAFFOLLAMENTO AL 140%
La sentenza della Corte di Strasburgo, quattro anni dopo la precedente condanna seguita al ricorso di un detenuto di Rebibbia, non è certo un fulmine a ciel sereno visto che il tasso di sovraffollamento delle nostre carceri ha ormai superato il 140% con punte, denunciate dai Radicali, del 269% nel carcere di Mistretta a Messina, del 255% a Brescia e del 251% a Busto Arsizio. Per questo il ministro della Giustizia Paola Severino, dopo la bocciatura in Parlamento del suo ddl sulle pene alternative, si dice «avvilita ma non sorpresa» dal pronunciamento di Strasburgo. «In questi tredici mesi di attività ha spiegato ho dato la priorità al problema carcerario: il decreto “salva carceri”, il primo provvedimento in materia di giustizia varato un anno fa dal Consiglio dei ministri e divenuto legge nel febbraio del 2012, ha consentito di tamponare una situazione drammatica. I primi risultati li stiamo constatando: i detenuti che nel novembre del 2011 erano 68.047 sono oggi scesi a 65.725». Poco, pochissimo però se si considera che la capienza delle carceri, al 31 dicembre 2012, era stimata in 47mila posti. «La mia amarezza, torno a ribadirlo, è grande ha concluso la Severino non è consentito a nessuno fare campagna elettorale sulla pelle dei detenuti. Continuerò a battermi, come ministro ancora per poche settimane e poi come cittadina, perché le condizioni delle persone detenute nelle nostre carceri siano degne di un Paese civile».
l’Unità 9.1.13
Suicidi dietro le sbarre, una catastrofe del diritto
di Luigi Manconi e Giovanni Torrente
Una nuova sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato il nostro sistema penitenziario per violazione l’articolo 3 della Convenzione europea, che proibisce «la tortura o i trattamenti inumani o degradanti». Non stupisce.
Una nuova sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato il nostro sistema penitenziario, condannando l’Italia a risarcire sette detenuti di Busto Arsizio e Piacenza: le condizioni della loro reclusione, secondo la Corte, violavano l’articolo 3 della Convenzione europea, che proibisce «la tortura o i trattamenti inumani o degradanti». Non stupisce. Quella che si consuma nelle carceri è una catastrofe del diritto e dell’umanità e, tra le manifestazioni più crudeli di tale tragedia, emerge il fenomeno dell’autolesionismo. Su Politica del diritto, la rivista del Mulino diretta da Stefano Rodotà, ora in libreria, pubblichiamo i primi risultati di una ricerca sul tema. In particolare, dopo aver ricostruito la dimensione del fenomeno in una prospettiva nazionale, proponiamo un approfondimento statistico dei fenomeni di autolesionismo e suicidio avvenuti negli ultimi 5 anni in tre regioni campione: Piemonte, Liguria e Campania.
1. SUICIDIO E AUTOLESIONISMO IN CARCERE: LE DIMENSIONI DEL FENOMENO
Il carcere è un luogo dove il rischio che si verifichi un suicidio è tra le 9 e le 21 volte superiore rispetto all’esterno. Quali le ragioni di uno scarto così rilevante? I dati raccolti mostrano come, a differenza di quanto si riscontra fra i cittadini liberi, le variazioni percentuali dei tassi di suicidio fra i detenuti, anche solo da un anno all’altro, siano assai significative. Il dato mostra quindi una relativa autonomia delle dinamiche che portano al suicidio in carcere rispetto alle dinamiche esterne a esso. Ne consegue che il numero dei suicidi nelle carceri pare aumentare sensibilmente in particolari momenti di crisi, per ragioni che sono intrinsecamente legate a processi interni all’istituzione penitenziaria. Quanto detto viene confermato dalla serie storica 1980-2010. In particolare, la lettura della curva dei tentativi di suicidio e dei suicidi realizzati mostra come i tentativi abbiano avuto un tendenziale aumento a partire dalla seconda metà degli anni ’80, con la punta massima raggiunta alla fine degli anni ‘90 ed eguagliata nel 2010. Al contrario, i suicidi realizzati sono aumentati numericamente dal 1993 sino ad oggi, con la punta massima toccata nel 2001 con 69 suicidi. Tuttavia, se confrontiamo numero dei suicidi e popolazione detenuta, si può osservare come la curva raggiunga il suo punto più elevato negli anni ‘80; in seguito, i tassi scendono, seppur con un andamento «schizofrenico», tale che ad anni tendenzialmente meno preoccupanti, seguono periodi di rapido incremento. All’interno di questa irregolare dinamica, un aspetto va rimarcato. Con riferimento agli ultimi 30 anni, la minor frequenza di suicidi in carcere si verifica nel corso del 1990 e del 2006. In quegli anni, come noto, sono stati approvati dal Parlamento gli ultimi provvedimenti di clemenza. Ed è possibile, quindi, ipotizzare che la speranza offerta da quei provvedimenti, sommata al miglioramento delle condizioni detentive a seguito della riduzione dell’affollamento, abbia stemperato il clima all’interno degli istituti. Abbia favorito, cioè, il contenimento dei comportamenti autolesivi.
2. IL SUICIDIO NELLE CARCERI ITALIANE: LE INDICAZIONI DI TRE STUDI DI CASO
Nelle tre regioni oggetto della ricerca i dati mostrano come, nell’arco di cinque anni, si siano verificati 12 suicidi in Piemonte, 6 in Liguria e 39 in Campania. A fronte del numero assoluto di suicidi in Campania, il dato rapportato al totale delle presenze mostra un quadro assai più complesso. Se utilizziamo il rapporto tra il numero di suicidi e, da un lato, il complesso degli eventi critici, e, dall’altro, il tasso di sovraffollamento delle singole carceri, avremo a disposizione due indicatori del clima di tensione e del grado di vivibilità di ciascun istituto, rappresentato dal sovraffollamento. Il suicidio, all’interno di tali contesti, non appare come un fenomeno isolato, bensì come l’esito estremo di un clima di tensione che si esprime anche attraverso l’elevato indice di gesti autolesivi messi in atto. Pare possibile, quindi, indicare i tratti di quelli che possiamo definire «istituti ad alto indice di tensione» (e di sofferenza). All’interno del senso comune carcerario, diffuso tra gli operatori come tra i detenuti, è immediatamente percepibile la differenza tra istituti conosciuti per la migliore vivibilità e istituti connotati da condizioni massimamente afflittive. Nel gergo carcerario, ciò porta a distinguere le carceri «aperte» da quelle «chiuse», quelle «a vocazione trattamentale» da quelle con attitudine «custodiale»; e, infine, i penitenziari «punitivi» da quelli «premiali». A nostro parere, le cause che producono un «istituto ad alto indice di tensione» sono, per un verso, di natura strutturale e, per un altro, di natura organizzativa e ambientale. Resta il fatto che i motivi profondi di quella «tensione» non possono essere dedotti dal mero dato numerico, ma devono essere analizzati attraverso l’osservazione dell’universo di relazioni, scelte organizzative e dati strutturali che contribuiscono a determinare la vita concreta all’interno di un penitenziario.
3. DA DOVE, QUANDO E PERCHÉ IN CARCERE?
I dati da noi raccolti permettono di approfondire l'indagine con riferimento a nazionalità, età e posizione giuridica delle persone che si sono tolte la vita. Relativamente alla nazionalità, il dato appare significativo soprattutto in regioni, quali il Piemonte e la Liguria, dove la presenza di stranieri detenuti è più elevata. In entrambe le regioni, in questi cinque anni si è avuta una prevalenza di suicidi tra gli italiani rispetto a quelli tra gli stranieri; e drammaticamente significativi appaiono i dati relativi all'età e alla posizione giuridica. Relativamente alla prima variabile, risulta confermato come i detenuti più giovani mostrino una maggiore tendenza al suicidio. In Piemonte e in Campania, nel corso di questo periodo, non si sono verificati suicidi tra i reclusi appartenenti alla fascia di età 18-24 anni, mentre in Liguria sono stati due su sei i minori di 24 anni che si sono tolti la vita. Oltre tale soglia, il numero di suicidi aumenta immediatamente superando la percentuale media di persone detenute nella fascia fra i 24 e i 44 anni. Appare significativo, in proposito, il fatto che in Campania e in Piemonte quasi tre quarti dei suicidi abbiano riguardato persone con un'età compresa tra i 25 e i 44 anni, mentre in Liguria la fascia d'età fra i 18 e i 44 anni comprende tutti gli episodi di suicidio registrati negli ultimi cinque anni in quella regione. Il dato più sconcertante nell'analisi dei tratti qualificanti i reclusi che hanno messo in atto il suicidio, riguarda la loro posizione giuridica: in 25 casi su 48, si tratta di persone sottoposte a misura cautelare. In oltre la metà dei casi, quindi, siamo in presenza di soggetti per i quali vale la presunzione di non colpevolezza.
4. UN ASSAGGIO DI PRIGIONE?
Dalle ricerche sul fenomeno del suicidio in carcere, un dato emerge con maggiore evidenza: i primi giorni di detenzione come la fase di maggior rischio per la realizzazione di atti di autolesionismo. In questi anni qualcosa è cambiato nelle pratiche penitenziarie: egli istituti di grande dimensione, ad esempio, è stato creato il cosiddetto Servizio nuovi giunti. Ciò nonostante, in alcune regioni, persiste il fenomeno dei suicidi nei primi giorni di carcerazione. In Piemonte, in particolare, un terzo dei suicidi è stato realizzato entro 30 giorni dall'arresto. A quanto fin qui detto, va aggiunta qualche considerazione a proposito di quella fase particolarmente delicata nella gestione della popolazione detenuta, rappresentata dai trasferimenti. È frequente che questi ultimi siano attuati a seguito di eventi critici verificatisi nell'istituto di provenienza; o riguardino, comunque, soggetti non graditi o di difficile gestione, considerati «pericolosi» per l'ambiente. La lettura dei dati relativi ai tempi del suicidio, in relazione al momento dell’ingresso nel carcere dove è avvenuto il fatto, sembrano confermare l'ipotesi del trasferimento come momento particolarmente problematico. Anche in questo caso, ovviamente, il trasferimento non è sufficiente a spiegare tutto. Eppure esso costituisce un segnale di situazioni palesemente critiche, gestite attraverso l'unica soluzione che troppo spesso l'amministrazione sembra in grado di adottare: la rimozione del problema attraverso l'invio di quello che viene considerato il responsabile del problema stesso in un luogo diverso. Non è un caso: la pratica della rimozione sembra, più in generale, dominare il governo della questione carceraria in Italia.
l’Unità 9.1.13
Chiuso tra nuovi muri Israele scivola a destra
A due settimane dal voto Netanyahu annuncia la costruzione di un’altra barriera sul confine siriano: contro gli jihadisti
di Umberto De Giovannangeli
Un Paese «murato». Un Paese che si sente circondato da entità ostili, irriducibilmente avverse. È Israele a due settimane dal voto. Le entità ostili si chiamano Fratelli Musulmani egiziani, Hamas, Hezbollah, ed ora anche i gruppi jihadisti che combattono in Siria il regime di Bashar al-Assad. Muri e barriere di difesa sostituiscono la politica, o meglio, si fanno politica. I tempi di realizzazione sono stati pressoché rispettati: con la fine del 2012 oltre mille chilometri, sono stati protetti da muri, barriere, protezioni fisiche. Filo spinato. Cemento. Acciaio. Sensori ottici. Fossati. La barriera con l’Egitto uno sbarramento di circa 253 km ha comportato l’innalzamento di reticolati sotto l’ombra di un sofisticato sistema di controllo radar lungo l'intera linea di confine che separa l’estrema propagine meridionale del deserto israeliano del Neghev dal Sinai egiziano. La Barriera un investimento da 372 milioni di dollari è formata da uno spezzone di sessanta chilometri a sud dell’area di Rafah e un altro della stessa lunghezza a nord di Eilat. Il tratto intermedio, considerato poco soggetto alle infiltrazioni a causa del terreno accidentato, è protetto da apparecchi elettronici.
Un nuovo Muro, stavolta a nord sul confine con il Libano, è stato realizzato nell’arco di tre mesi, da Israele. La barriera, che in alcuni punti è alta anche undici metri, corre sulla linea del cessate il fuoco del 2000 inizialmente per un chilometro, tra le pianure di Khiam e la cittadina libanese di al-Addaiseh, passando per l’ex valico di frontiera di Fatima Gate. Quanto al Muro in Cisgiordania, nella parte già completata, si dipana per una lunghezza di 709 chilometri e il suo tracciato corre per l’85% all’interno del territorio palestinese della Cisgiordania e solo per il 15% a ridosso della linea di frontiera. Nei punti più alti, il «Muro» in questione raggiunge l’altezza di 8 metri e si estenderà, al suo completamento, per oltre 752 chilometri.
SETTANTA CHILOMETRI
Benjamin Netanyhau promette ora di far costruire una barriera fortificata sul confine con la Siria, per proteggere lo Stato ebraico dalle forze radicali islamiche. Nella riunione di Gabinetto del 6 gennaio, il primo ministro rileva che il regime di Bashar al-Assad è «instabile» e che Israele è «fortemente preoccupato» per il destino delle armi chimiche possedute da Damasco. Oltre confine, spiega, «sono arrivate le forze della jihad globale», un termine che Israele utilizza per indicare i gruppi influenzati da al Qaeda. Intervenendo alla riunione di governo, Netanyahu ha sottolineato come la barriera in costruzione lungo il confine con l’Egitto sia quasi finita, annunciando quindi l’intenzione di «costruirne una identica, con alcune opportune modifiche a causa di condizioni diverse, lungo le Alture del Golan».
«Sappiamo che dall’altra parte del nostro confine con la Siria oggi l’esercito siriano si è ritirato e i combattenti della jihad globale hanno preso il suo posto ha detto il premier noi dobbiamo quindi proteggere questo confine da incursioni e dal terrorismo, come abbiamo già fatto con successo al confine con il Sinai». Una fonte della sicurezza rivela alla Cnn che Israele ha già completato circa 10 chilometri di muro e che «mancano circa 60 chilometri» da completare nel Golan, dicendosi fiducioso che i lavori saranno ultimati nel 2013. Le Alture del Golan sono state conquistate da Israele alla Siria durante la «Guerra dei sei giorni» del 1967 e annesse nel 1981, senza il via libera della comunità internazionale.
In questo scenario da trincea permanente, la destra israeliana di Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman, «Likud-Beitenu» continua a essere favorita nei sondaggi elettorali. E questo grazie anche all’incapacità delle opposizioni di centrosinistra di trovare unità. Si è concluso in un fallimento il tentativo dell’ex ministra degli Esteri Tzipi Livni di dare vita a una coalizione di centro-sinistra da contrapporre a quella conservatrice guidata da Netanyahu. La stessa Livni ha dichiarato alla radio pubblica che «purtroppo non è stato raggiunto alcun accordo» nel summit protrattosi, nei giorni scorsi, fino a tarda notte con i leader delle altre due formazioni progressiste. Al vertice hanno partecipato la Livni, leader del neonato partito liberale Hatnuah (il Movimento, in lingua ebraica, ndr), Shelly Yachimovich, la leader dei laburisti, e Yair Lapid, che guida i riformisti moderati di Yesh Atid. «Obiettivo della riunione era trovare il modo di sostituire il governo Netanyahu», ha spiegato. «Affinchè l’opinione pubblica comprenda che noi rappresentiamo un’alternativa seria, dobbiamo impegnarci a non prendere parte a una compagine governativa guidata da lui», ha sottolineato, alludendo alle posizioni non del tutto chiare assunte al riguardo dai potenziali interlocutori. Il governo «Biberman» ringrazia.
Corriere 9.1.13
Ungheria choc: «Zingari animali, eliminiamoli»
di Paolo Valentino
Fino a quando l'Ungheria continuerà ad abusare della pazienza (o della neghittosità) dell'Unione Europea? Chiuso il 2012 con il nauseabondo invito di un membro del Parlamento magiaro a schedare tutti gli ebrei in una lista speciale, l'anno nuovo si apre con un ennesimo e sinistro latrato xenofobo e razzista di un autorevole esponente della classe politica al potere a Budapest.
Come il braccio incontrollabile del generale nell'immortale Stranamore di Kubrick, questa volta è la penna di Zsolt Bayer, uno dei fondatori del partito al potere Fidesz e amico personale del premier Viktor Orban, a confermare quanto profondo e radicato sia il seme dell'intolleranza e dell'odio etnico in una parte degli attuali dirigenti ungheresi.
Commentando per il giornale Magyar Hirlap una rissa di Capodanno, nella quale sono rimaste gravemente ferite diverse persone e dove alcuni degli assalitori erano dei rom, Bayer ha pensato bene di definire l'intera etnia «inadatta a coesistere»: «I rom — ha scritto — non sono capaci di vivere tra le persone. Sono animali e si comportano da animali». Il giornalista se l'è presa con «il mondo occidentale politicamente corretto», colpevole ai suoi occhi di predicare tolleranza e comprensione verso gli zingari, che rappresentano il 7% della popolazione ungherese e appartengono alle fasce più povere e meno istruite della società.
Per capire di chi stiamo parlando, occorre ricordare che Bayer è stato sin dall'inizio uno dei compagni di strada di Orban e negli anni Novanta ha servito come portavoce di Fidesz. È uno dei maggiori organizzatori delle Marce della pace, le manifestazioni in sostegno del governo che lo scorso anno hanno visto la partecipazione di decine di migliaia di persone. Non è la prima volta che il nostro si rivela e i suoi commenti si sono spesso distinti per i toni antisemiti e razzisti.
Naturalmente, per bocca del ministro della Giustizia Tibor Navracsics, il governo ha emesso una rituale condanna dell'articolo. Ma in un significativo gioco delle parti, la portavoce di Fidesz, Gabriella Selmeczi, ha detto che il partito non prende posizione su un editoriale: «Bayer ha scritto l'articolo non in quanto politico ma in quanto giornalista e noi non commentiamo le opinioni dei giornalisti». In difesa del free speech, insomma. Peccato che proprio alcuni giorni fa la radio pubblica, forte della legge liberticida sui media introdotta da Orban, abbia censurato alcuni passaggi della trasmissione mensile dello scrittore Peter Esterhazy, che suonavano troppo critiche del regime.
Bayer ha cercato ieri di fare una parziale e maldestra retromarcia, spiegando in un nuovo editoriale di aver voluto soltanto «smuovere le acque, far accadere qualcosa»: «Voglio ordine — così il giornalista —, voglio che ogni zingaro onorevole continui a vivere in questo Paese, ma che ogni zingaro incapace e inadatto a stare in questa società venga cacciato via».
I partiti d'opposizione non ci stanno, sollecitano contro di lui un'incriminazione formale e chiedono a Fidesz di espellerlo immediatamente dai suoi ranghi. In caso contrario, hanno convocato una manifestazione di protesta per domenica davanti alla sede del partito di governo.
È dall'aprile 2010, da quando una clamorosa vittoria elettorale gli fruttò una maggioranza dei 2/3 in Parlamento, che Viktor Orban ha varato in Ungheria una sistematica restaurazione autoritaria e antidemocratica del potere, instaurando in un Paese membro dell'Unione Europea un clima di paura, intolleranza e sinistri echi xenofobi. Forse è giunto il tempo che l'Europa agisca con decisione.
Repubblica 9.1.13
Perché non possiamo fare a meno dei partiti
“Forza senza legittimità”, la nuova analisi politica di Piero Ignazi
di Ilvo Diamanti
Ormai l’antipolitica è dovunque. È entrata nel linguaggio corrente della vita quotidiana e nel discorso “politico”. Un argomento usato dai leader politici a fini polemici. Tuttavia, il bersaglio dell’antipolitica non è la “politica” in quanto tale. Coincide, piuttosto, con i partiti. Che, in Italia, godono — si fa per dire — di pessima reputazione. Peraltro, è largamente condivisa la convinzione che la “malapolitica” condotta dai partiti costituisca un “male” tipicamente italiano, che si è propagato con particolare intensità negli ultimi anni. Piero Ignazi smentisce questa leggenda, ricostruendo la “storia” e la “geografia” del fenomeno in un saggio dal titolo esplicito e suggestivo: Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti (Laterza, pagg. 153, euro 14). Dove l’autore descrive, con rara efficacia, il paradosso apparente espresso dai partiti. Oggi più che mai delegittimati, sfiduciati dai cittadini. Eppure, oggi più che mai, dotati di potere e di influenza, in ambito istituzionale, ma anche nel mondo sociale, nella vita quotidiana. Ignazi ridimensiona i ragionamenti di “senso comune” sull’argomento. La sfiducia verso i partiti non è un fatto recente, non riguarda il nostro tempo. E non è una specialità italiana. Dal punto di vista storico i partiti non hanno mai goduto di buona stampa. «La colpa», esordisce Ignazi, «è nel nome». Perché il partito deriva dal latino partire.
E, per questo, evoca la parzialità. Per questo sono distinti dalle “fazioni”. Ma spesso ritenuti equivalenti e altrettanto faziosi. Così, secondo Hobbes, i partiti diventano «uno Stato nello Stato». E per questo «è dovere dei governanti disperderli». I partiti, cioè, vengono considerati veicoli di interessi particolari, in contrasto con l’interesse “generale”, con il “bene comune”. Ma sono molti altri i critici autorevoli dei partiti. Ignazi ne ripercorre le posizioni. Rammenta, fra gli altri, Alexis de Tocqueville, il quale ammette che «i partiti sono un male inerente ai governi liberi». Dunque, un male inevitabile, ma comunque, un male. Bisogna attendere il passaggio tra Otto e Novecento per assistere al cambiamento del clima d’opinione verso i partiti. E di riflesso al cambiamento del loro rapporto con la società. I partiti conoscono un’età dell’oro durante la prima metà del secolo trascorso. Quando si affermano i partiti di massa. Socialisti, comunisti, popolari. Rappresentano e mobilitano le masse, appunto. Stabiliscono un legame di identificazione e di identità con i loro elettori. Anche perché sono presenti sul territorio nella società. Inoltre, sono partiti di iscritti, dotati di un’ampia rete di volontari, ma anche di funzionari. Per garantire continuità ed efficacia alla loro azione. Per questo, dispongono di consenso sociale, ma al tempo stesso, si professionalizzano sempre più. E si evolvono in senso oligarchico. Per adattarsi alla complessità sociale diventano “pigliatutti”. Partiti elettorali, che non hanno più un target specifico e definito. Ma si rivolgono, appunto, a tutti gli elettori. Per questo, perdono le loro specificità ideologiche. «Degli iscritti, così come delle sezioni territoriali», appunta Ignazi, «non c’è più bisogno». I partiti, quindi si rifugiano nelle istituzioni e sui media. Diventano, cioè, partiti di cartello. «Agenzie pubbliche regolamentate e ufficializzate che - sottolinea l’autoredallo Stato traggono le loro risorse legalmente con il finanziamento pubblico e in maniera opaca attraverso il patronage ». Investono, cioè, nel controllo clientelare dell’opinione pubblica. Per questo, conclude Ignazi, «i partiti sono oggi in Europa molto più forti di un tempo».In Europa,
si badi bene. Perché queste tendenze non riguardano solo l’Italia. Ma coinvolgono tutti i principali paesi europei. Dalla Francia alla Germania. Dal Belgio all’Austria. Per non parlare delle nuove democrazie. Il partito è, dunque, divenuto “stato-centrico”. Ma si è indebolito sul territorio e nella società. Per questo la stima nei loro confronti è precipitata. Ciò li ha spinti a correre ai ripari. Allargando il richiamo alla volontà popolare, il ritorno agli iscritti. E agli elettori. In modo diretto. Attraverso le primarie. Ma anche, in alcuni casi, attraverso lo scambio diretto tra leader e popolo. In modo carismatico e populista.
Da ciò il problema di questa fase. Perché, scrive Ignazi, «non c’è scampo: senza i partiti non c’è democrazia. Se vogliamo un sistema democratico e pluralista dobbiamo tenerci dei partiti». Ma «questi » partiti, «hanno scambiato il potere con la fiducia ». Per reagire, conclude l’autore, i partiti dovrebbero «spossessarsi di tante delle risorse accumulate ». Una condizione necessaria ma non sufficiente. E, purtroppo, difficile da realizzare, con “questi” partiti. Così, il saggio di Ignazi appare utile, interessante. Ma anche amaro. Perché in fondo al tunnel, oltre il paradosso che produce forza senza legittimità, non si vede la luce.
Repubblica 9.1.13
La musica delle tenebre
La colonna sonora infame voluta da Adolf Hitler
Già prima della presa del potere, il Führer ordinò che orchestre e compositori fossero “arianizzati”
di Natalia Aspesi
Hitler amava la musica, purché fosse pura, cioè germanica, e non contaminata, cioè ariana: il problema era, agli inizi degli anni Trenta, che tra i più celebri compositori, i sovrintendenti più stimati, i direttori d’orchestra più grandi, i solisti più noti al mondo, i cantanti più amati dal pubblico, le orchestre più gloriose, c’erano molti, troppi ebrei. Una vergogna che andava cancellata col massimo rigore, del resto come tutti e tutto ciò che fosse «giudaico, bolscevico, negroide», cioè degenerato e subumano. L’imperativo « eliminare l’elemento ebraico dalla musica tedesca» cominciò a essere messo in pratica anni prima della salita al potere di Hitler nel marzo del ’33, e trovò subito una folla di musicisti e musicologi, giornalisti e accademici, pronti alla delazione, all’insulto, alla violenza, con un’efficienza patriottica, funebre e demente, che accompagnò l’antisemitismo di Stato sancito poi nel 1935 dalle leggi di Norimberga, sino all’orrore della “soluzione finale”, pianificata alla Conferenza di Wannsee nel 1942, tra i cui ideologi c’era l’acclamato violinista Reinhard Heydrich. Già all’inizio del Terzo Reich era diventato un problema anche il grande settecentesco Händel, di pura stirpe sassone, poi naturalizzato inglese: i suoi possenti oratori esaltavano l’immaginario onirico del regime, ma i testi erano «pura immondizia» e furono mondati da ogni accenno biblico.
E Mozart? Bisognava arianizzare i suoi «capolavori dello spirito germanico », liberando opere come Le nozze di Figaro dal libretto scritto dall’ebreo convertito Lorenzo da Ponte, la cui traduzione tedesca era stata curata da Hermann Levi, il direttore d’orchestra del primo Parsifal di Bayreuth, imposto da re Ludwig di Baviera a un furibondo Wagner che lo aborriva in quanto non ariano. Molti anni dopo Joseph Goebbels avrebbe detto: «È stato Wagner a insegnarci cosa è un ebreo».
Ogni nuova storia che ci ricorda l’Olocausto, riesce a essere necessaria, e lo è anche L’armonia delle tenebre (Archinto) di Nicola Montenz, che a 36 anni è un lungo elegante giovanotto abbigliato di nero, docente di cultura e comunicazione nel mondo antico; vive a Piacenza, è diplomato in organo (suo fratello gemello in arpa) ed è anche autore di quell’affascinante Parsifal e l’Incantatore, sul rapporto tra Ludwig II di Baviera e Wagner, pubblicato due anni fa sempre da Archinto, e adesso in Francia con critiche appassionate. Il nuovo libro ha la struttura di un tragico libretto d’opera: si apre con un prologo, che sprofonda subito il lettore nel feroce scontro tra ambiziosi nazisti, Goebbels, Göring e Rosenberg, acerrimi nemici tra loro, per accaparrarsi il monopolio di ogni forma di cultura, compresa la musica; e si chiude col quinto e ultimo atto, a Terezìn, il ghetto lager in Cecoslovacchia dove venivano ammassati gli ebrei illustri, tra cui una folla di musicisti.
Lo scontro per sottomettere la cultura lo vinse Goebbels, diventato ministro della Propaganda, organizzando una monumentale struttura burocratica, gerarchica, capillare e pazza, divisa in sette ferree sezioni, una delle quali era la Reichmusikkammer, a cui facevano capo sette dipartimenti, ognuno dedicato a un ambito musicale: compositori, esecutori, organizzazione di concerti, gruppi corali e di musica popolare,
editori, costruttori di strumenti musicali. In questo modo il governo nazionalsocialista già alla fine del 1933 aveva ottenuto il controllo assoluto della vita intellettuale tedesca e di chiunque volesse lavorare in ambito culturale e soprattutto musicale. Dodici anni dopo, a Terezìn, prima che partisse l’ultimo e definitivo convoglio per i forni crematori di Auschwitz nell’ottobre del ’44, (su 139.861 internati, ne sopravvissero meno di 20mila) fu concesso di organizzare concerti e opere, tra cui ben 55 in prima assoluta, composte nel lager stesso, per esempio, da Gideon Klein e da Pavel Haas.
Spesso però le prove risultavano inutili, come avvenne nel caso dell’esecuzione del Requiem di Verdi, diretto da Raphael Schachter: per ben due volte i cori di 150 elementi furono deportati in massa ad Auschwitz dopo la prima esecuzione, e a Schachter fu concesso un terzo tentativo, in omaggio alla visita nel lager di Eichmann e per ingannare gli ingannabili inviati della Croce Rossa. Si sa chi furono i grandi della musica che per opportunismo, per paura, per la carriera, collaborarono, o per lo meno, non si opposero a un regime che decideva persino quali compositori dovevano essere cancellati, per esempio Mahler, Hindemith, Schoenberg, Weill, Krenek, Berg, Webern, quale tipo di musica poteva costare la perdita del lavoro e peggio, l’atonale, la dodecafonica, il jazz, le canzoni da cabaret, i ritmi a percussione, tutta la musica “degenerata” cui fu dedicata come all’arte, una grande mostra.
Montenz ritiene ingiusto ergersi oggi a giudice di quei musicisti che, lo volessero o meno, divennero i portavoce ufficiali del regime, senza tener conto delle sfumature. Richard Strauss, che aveva accettato la presidenza della nazista Camera della musica, non condivise mai l’antisemitismo hitleriano, Wilhem Furtwängler aveva rifiutato di “arianizzare” il Berliner Philharmoniker e di rinunciare alla sua segretaria ebrea: si riteneva intoccabile ma cadde in disgrazia quando volle contro ogni veto dirigere
Mathis il pittore, del “degenerato” e marito di una mezza ebrea Hindemith. Per ritornare nelle grazie del partito, accettò di dirigere Wagner a quel congresso di Norimberga che avrebbe promulgato le leggi razziali. Altre celebrità furono più allineate allo spirito del regime: il giovane Herbert von Karajan, iscritto al partito nazionalsocialista, ne diresse l’inno nella Parigi occupata, il soprano Elisabeth Schwarzkopf era membro del partito e cantava nei paesi invasi dall’esercito tedesco, l’allora celebre pianista Elly Ney scriveva a Goebbels di non voler dormire in alberghi che in passato avevano ospitato ebrei, il pianista Wilhelm Backhaus, considerato il massimo interprete di Beethoven, nel ’36 fece dichiarazione di voto a favore di Hitler, come il direttore d’orchestra Karl Bohm. D’altra parte non c’era bisogno di essere eroi per essere condannati: uno dei più grandi talenti musicali del Terzo Reich, il pianista Karlrobert Kreiten, nel maggio del ’43 dopo una discussione con un’amica sulla guerra forse perduta, fu arrestato, processato, impiccato. Aveva 27 anni.
Nell’Italia fascista fu Arturo Toscanini a esporsi più di altre celebrità contro il nazismo. Nel 1933, con altri direttori d’orchestra, inviò a Hitler un telegramma aperto invitandolo a «porre fine alla persecuzione dei nostri colleghi in Germania per ragioni politiche o religiose». Furibondo, il Führer proibì che la radio trasmettesse le loro registrazioni. Poi si lasciò convincere dalla sua amica, seguace e ammiratrice Winifred Wagner,
a invitare Toscanini a dirigere il Parsifal a Bayreuth, ma inamovibile fu Toscanini, che rifiutò ogni blandizia. Al suo posto arrivò il sempre servizievole Strauss. Ci fu anche chi, travolto dall’orrore, si pentì del suo appoggio iniziale al nazismo, come il musicologo Kurt Huber, che si unì alla Rosa Bianca e fu ghigliottinato nel 1943, o il compositore e organista Hugo Distler che travolto dai sensi di colpa si suicidò con il gas nel 1942.