sabato 11 maggio 2019

Il Messaggero 11.5.19
Nobel per la letteratura 2018 annullato, Soyinka: «Vicende particolari, il premio resta integro»


«Soyinka, con la sua scrittura versatile è stato capace di sintetizzare la ricchissima eredità culturale del suo Paese, miti e tradizioni antiche, insieme al patrimonio letterario e alle tradizioni della cultura europea», questa la motivazione con cui l’Accademia svedese nel 1986 assegnò a Wole Soyinka il Premio Nobel per la letteratura, che all’epoca valeva 290mila dollari. È stato il primo, e finora unico africano, a esserne insignito.
Poeta, drammaturgo e romanziere, intellettuale, classe 1934, ha sempre unito alla potente immaginazione e creatività un’ineludibile dimensione politica. Ha pubblicato testi teatrali, poesie e due romanzi (Gli interpreti e L’uomo è morto) rieditati in Italia da Jaca Book, che a fine maggio pubblicherà un altro suo lavoro, L’uomo è morto? Liberarsi dal razzismo. La prima parte contiene proprio il discorso per il Premio Nobel dedicato a Nelson Mandela.
Soyinka, nato in un villaggio vicino a Ibadan, nella parte occidentale della Nigeria, si è formato con un’esperienza fondamentale negli anni ‘50 al Royal Court Art Theatre di Londra, per poi tornare in Nigeria. Per aver invocato la tregua nella guerra civile nigeriana, fu arrestato nel 1967, accusato di cospirazione con i ribelli del Biafra, e trattenuto in carcere per 22 mesi, dove appuntava sulla carta igienica le proprie poesie di libertà.
Soyinka, crede che lo scandalo a sfondo sessuale possa intaccare la reputazione dell’Accademia e del Premio stesso?
«Non ritengo possa influenzare il valore intrinseco del Nobel, poiché non sono propriamente coinvolti né l’oggetto del premio, la scrittura, né il soggetto, lo scrittore, ai cui occhi penso manterrà la medesima reputazione. Continuerà a essere il principale riconoscimento mondiale per l’arte e per la letteratura».
Quale opinione si è fatto del Movimento #MeToo?
«Non conosco da fonti dirette l’intera dinamica di questo movimento. È necessario denunciare, però non dimenticare mai e accertare le responsabilità personali quanto le eventuali coperture, perché si corre il rischio della generalizzazione, dunque della banalizzazione».
Quanti passi in avanti occorre ancora fare?
«Il movimento femminista nelle sue diverse espressioni probabilmente è stato una, se non la, rivoluzione più riuscita nel Novecento. Ci sono state molte conquiste. È difficile descrivere o spiegare senza essere coinvolti in prima persona cosa voglia dire sentirsi violati o violate nel corpo, nello spirito. Vanno sconfitte l’idea e la cultura del possesso dell’altro».
Lei si trovava a Parigi per un incontro presso l’International Theater Institute, quando l’avvisarono che aveva vinto il premio. Ricorda cosa pensò?
«Non c’è stato un minuto in cui abbia considerato il riconoscimento come una proprietà personale. Era il simbolo di ciò che rappresentavo. Ero e sono parte dell’intera tradizione letteraria dell’Africa. Naturalmente però ne fui felice per il prestigio, nonché per il valore economico».
Il Nobel le ha creato noie?
«Ho perso il più prezioso fra i doni, l’anonimato. Conquistarlo assomiglia ad aver trovato un nuovo lavoro, complica molto la vita».
L’ha convinta il premio assegnato a Bob Dylan?
«Qualora avessi scritto abbastanza canzoni, immaginerei di essere selezionato per i Grammy».
Nel 1986 Mandela era ancora recluso a causa della lotta e ha sempre riempito il suo immaginario. Quale impatto ebbe la vittoria?
«Mandela è stato come un fratello maggiore. Dopo la sua liberazione, nel nostro incontro era esattamente l’immagine che mi aveva accompagnato negli anni: un uomo dal coraggio quieto. La sua lotta per la libertà e per la dignità umana entrarono nelle mie poesie, dunque fu parte del premio e più in generale il Nobel, il simbolo della lotta condivisa contro l’apartheid».
Che cosa ha dato la politica alla sua arte?
«Senza l’impegno politico non sarei stato lo scrittore che sono. La letteratura e il teatro mi hanno consentito di elevarmi dall’intollerabile nella società, rispondendo politicamente. Ciò mi ha tramesso la pace per potermi occupare di arte».

mercoledì 8 maggio 2019

Repubblica 8.5.19
Azzariti
“Farlo partecipare con il suo stand nega uno dei fondamenti della Carta”
Gaetano Azzariti è docente di diritto costituzionale alla Sapienza.
di Liana Milella


Per lei, professor Azzariti, sono apologia di fascismo le frasi dell’editore di Altaforte, con cui Salvini pubblica l’autobiografia?
«È una notitia criminis. C’è una disposizione del nostro ordinamento costituzionale che prevede la reclusione da sei mesi a due anni per chiunque faccia apologia di fascismo. Parlo dell’articolo 4 della legge Scelba del lontano 1952. La magistratura dirà se c’è il reato».
Le frasi sono contro la Costituzione?
«Contro la Carta sono tutte le azioni promosse ai fini di riorganizzare “sotto qualunque forma”, com’è scritto nella XII disposizione transitoria e finale, il partito fascista. La legge Scelba specifica che le forme in cui si concretizza il divieto sono sia la ricostituzione del partito, sia l’apologia, e le manifestazioni fasciste».
Ci sono già condanne per episodi simili?
«Negli anni ’70 due organizzazioni furono sciolte dopo le sentenze dei giudici che condannarono Ordine nuovo e Alleanza nazionale. Il ministro dell’Interno le sciolse e ne confiscò i beni. I dirigenti furono condannati a diverse pene».
Dopo le denunce di Appendino e Chiamparino
che succede?
«I profili sono due: da un lato la responsabilità personale per le dichiarazioni rese e dall’altro quella legata a CasaPound, la sua organizzazione di appartenenza, i cui comportamenti sono già oggetto di indagine in alcune procure».
Altaforte andava esclusa a prescindere dalla Fiera?
«La decisione di ammettere questo editore mi pare neghi il fondamento antifascista del nostro ordinamento costituzionale».
Il Museo di Auschwitz si dice incompatibile con una Fiera in cui c’è Polacchi.
«Capisco bene questa reazione.
È stata fortemente sottovalutata l’importanza della memoria storica. Mi auguro che nel centenario della morte di Primo Levi il Salone possa recuperarla».
Per l’autrice il libro non è fascista...
«Non l’ho letto. Ma l’accusa non è tanto al libro in sé, quanto ai collegamenti dell’editore con CasaPound».
Per Salvini “la cultura è sempre cultura…”.
«Sì certo, ma ciò non impedisce di far valere con estremo rigore le norme e la Costituzione.
Aggiungo che la cultura è anche fatta dalla battaglia delle idee».
È accettabile che il titolare del Viminale pubblichi con Altaforte?
«Ciascun autore si sceglie il suo editore, ma la scelta non è neutrale. Evidentemente Salvini in questo modo manifesta una sintonia con Altaforte».

Corriere della Sera 8.5.19
Emilio Gentile: il fascismo oggi non è la vera minaccia
Temo di più le urne deserte
di Antonio Carioti


È stato Berlusconi a disgregare e assorbire gran parte delle forze
provenienti dal Msi

«I tentativi di censura fanno il gioco di chi li subisce»
Lo storico Emilio Gentile trova «deprimente» la diatriba sul rischio di una riscossa delle camicie nere: «È un allarme privo di senso, che mi pare abbia l’unico effetto di distogliere l’attenzione dai veri pericoli che corre la democrazia. Il crescente astensionismo elettorale è assai più preoccupante della limitata attività neofascista, perché significa che i cittadini si sentono sempre meno rappresentati».
Gentile parlerà sabato al Salone di Torino sul tema del suo libro Chi è fascista (Laterza). E lo lascia perplesso il caso sollevato per la presenza dello stand di Altaforte: «Tutte le volte che si vuole operare una censura contro qualcuno, gli si fa un’enorme pubblicità. Io stesso fino a pochi giorni fa ignoravo l’esistenza di questo editore, che adesso è sulla bocca di tutti».
Molti ritengono inaccettabile la diffusione di idee contigue al fascismo.
«Capisco che certi libri possano suscitare disagio, ma se non sono state violate le regole di partecipazione al Salone, non vedo perché montare una polemica contro la fiera. Fra le migliaia di volumi in vendita a Torino, ce ne saranno anche altri sospettabili di veicolare tesi autoritarie o xenofobe. Del resto c’era chi considerava Renzo De Felice un apologeta del fascismo, solo perché sottolineava che il regime aveva goduto in certe fasi di un vasto consenso. Anch’io, in misura assai minore, sono stato preso di mira per i miei studi. Esiste ancora l’antifascismo intollerante di chi un tempo accusava Alcide De Gasperi di voler restaurare la dittatura e in precedenza bollava persino la socialdemocrazia come socialfascismo».
Non la preoccupa il ritorno dei fan di Mussolini?
«Quale ritorno? I nostalgici del Duce non se ne sono mai andati: si sono riorganizzati subito dopo il 1945 e hanno fondato il Msi, presente in Parlamento sin dalla prima legislatura, che ha finito per monopolizzare lo spazio della destra ed è stato a lungo il quarto partito del Paese. Poi nel 1994 si è trasformato in An ed è entrato al governo, con percentuali di voti intorno al 10-15 per cento. In realtà oggi il neofascismo è assai più debole che in passato, soprattutto per l’opera disgregatrice compiuta in quell’area da Silvio Berlusconi, che ne ha assorbito buona parte».
Resta Fratelli d’Italia. E poi CasaPound e affini.
«Il partito di Giorgia Meloni è una costola sopravvissuta al naufragio di An, ma con un peso di gran lunga inferiore. Quanto a CasaPound, è il movimento che fa più chiasso in una galassia di piccoli gruppi divisi da forti rivalità, ma accomunati dall’idealizzazione mitologica di un fascismo mai esistito e da un’ossessione dei rituali che in realtà richiama di più il nazismo».
C’è anche la Lega di Matteo Salvini, che ha pubblicato un libro con Altaforte.
«Un tempo la Lega si contrapponeva allo Stato centrale e alla stessa unità nazionale, quindi era agli antipodi del fascismo. Adesso Salvini sembra aver messo la sordina al federalismo e forse cerca di pescare consensi a destra. Ma i presidenti della Lombardia e del Veneto, con la proposta dell’autonomia differenziata, ripropongono una logica che va in direzione opposta».
Non hanno tratti fascisti la Lega e altri partiti europei sovranisti e xenofobi?
«No. Mussolini rifiutava apertamente il principio della sovranità popolare, mentre queste forze lo rivendicano, dichiarano che il potere deve basarsi sul consenso della gente. Quando vanno al governo, lo fanno grazie al voto degli elettori, il che se vogliamo è ancora più allarmante. Nell’Italia fascista, priva di immigrati stranieri, la xenofobia non era un tratto tipico del regime, che voleva assimilare slavi e sudtirolesi, e riconobbe ai musulmani libici una cittadinanza speciale. Mussolini praticò invece il razzismo, ma non lo aveva inventato: esisteva prima, spesso sancito per legge, ed è tuttora presente anche in Paesi democratici come gli Stati Uniti».
Umberto Eco parlava di «fascismo eterno».
«Definire il fascismo “eterno” significa in fondo esaltarlo; sarebbe l’unico fenomeno umano senza tempo. E comunque Eco si contraddiceva attribuendo al fascismo sia il culto della tradizione sia l’attivismo, che significa al contrario invenzione di continue novità. Di fatto Mussolini non era tradizionalista: evocava la Roma imperiale, ma non esitava a fare strame di resti antichi per celebrare la sua grandezza con i lavori pubblici».
Se il fascismo appartiene al passato, come definire le attuali spinte autoritarie?
«Io uso il termine “democrazia recitativa” per designare un atteggiamento che accetta la democrazia come metodo (cioè la pratica della competizione elettorale per l’accesso al governo), ma non come ideale, perché tende a prevaricare i diritti degli individui e delle minoranze richiamandosi alla preminenza della maggioranza popolare».




Il Fatto 8.5.19
Pd e 5 Stelle uniti per far fuori l’editore di CasaPound
Il Lingotto è in allestimento: il Salone del libro si apre domani tra le polemiche
di Camilla Tagliabue


Dall’esposizione all’esposto, dalla fiera alla Procura: il dibattito sulla presenza al Salone di Altaforte, casa editrice squisitamente fascista, sta virando in chiave giurisprudenziale, dopo la denuncia che hanno deciso ieri di presentare la Regione Piemonte e la Città di Torino, “main sponsor” – chiamiamoli così – della kermesse culturale.
Mentre gli intellettuali ancora si dividono su chi andrà e chi boicotterà il Lingotto – Saviano ci sarà, il Museo di Auschwitz-Birkenau e la sopravvissuta Halina Birenbaum no –, la politica fa politica, e si è mossa. Sia il presidente Sergio Chiamparino sia la sindaca Chiara Appendino “ritengono il rappresentante della casa editrice Altaforte – Francesco Polacchi – e la sua attività professionale nel campo dell’editoria estranee allo spirito del Salone del libro e, inoltre, intravvedono nelle sue dichiarazioni pubbliche una possibile violazione delle leggi dello Stato”: perciò, lo denunceranno in queste ore per apologia di fascismo, “alla luce delle dichiarazioni rilasciate a mezzo stampa e attraverso emittenti radiofoniche” (un esempio su tutti: “L’antifascismo è il vero male di questo Paese”). La decisione – si legge sempre nella nota congiunta – è stata “assunta nella convinzione che anche la forma più radicale dell’intolleranza vada contrastata con le armi della democrazia e dello stato di diritto”.
Ora saranno i magistrati a “valutare se sussistano i presupposti per rilevare il reato di apologia di fascismo e la violazione di quanto disposto dalla legge Mancino 305 del 1993 e, nello specifico, l’articolo 4 che prevede venga punito chi ‘pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche’”. Venerdì, tra l’altro, Polacchi – già protagonista della guerriglia in piazza Navona a Roma nel 2008 – è convocato in tribunale a Milano perché indagato per un pestaggio del 2017: i suoi pugni, infatti, avrebbero provocato traumi, spondilosi e distorsioni ai due ragazzi aggrediti.
Come Polacchi sia riuscito a imbucarsi alla kermesse è presto detto: non ci sono filtri etici, o quantomeno una valutazione di opportunità, rispetto alle domande di partecipazione degli editori. Il Comitato d’indirizzo (di cui fanno parte Maurizia Rebola/Circolo dei lettori, Silvio Viale/Associazione Torino Città del Libro, Antonella Parigi/Regione Piemonte, Francesca Leon/Città di Torino, Marco Zapparoli/Adei, Enzo Borio/Aib, Ricardo Franco Levi/Aie, Paolo Ambrosini/Ali, Giovanni Fariello/Sil) – ci spiega una fonte interna – “ha scoperto di Altaforte solo il 1° maggio, quando è scoppiata la polemica sui giornali. Non si può fare lo screening a ogni editore. Si verifica solo che sia regolarmente iscritto alla camera di commercio, che non abbia pendenze penali, che paghi i contributi… C’è un ufficio commerciale che vaglia le domande e non può certo porsi questioni ideologiche: sarebbe preoccupante il contrario. Negli anni passati al Salone si sono iscritti altri, pochi per fortuna, editori di estrema destra: non è il primo. E questo succede in tutte le fiere librarie del mondo. Non esiste un comitato etico, altra cosa invece è la programmazione culturale”.
Anche il ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli, altro sostenitore della fiera, si è richiamato alla “legge che vieta l’apologia di fascismo… In questo momento i toni si sono alzati. La nostra è una Repubblica che ha come punto fondamentale un progetto culturale antifascista. Per me essere democratico vuole dire combattere affinché idee lontanissime dalla mia si possano esprimere. Nel caso specifico però c’è un quadro legislativo molto chiaro che protegge la nostra Repubblica dall’apologia di fascismo… Valuterà la magistratura”.
Dallo stesso Lingotto è arrivato, poi, un appello all’unità: “Questa esperienza deve unirci, non dividerci. Il Salone è un luogo di scambio, di confronto, di condivisione, di festa. Nel centenario di Primo Levi, la comunità si raccoglierà una volta ancora per discutere di democrazia, di Europa, di convivenza, di immigrazione, di letteratura, del restare umani in un mondo difficile”. Nel comunicato si chiede, infine, a tutti di “abitare con convinzione quella stessa casa (il Salone) per farla durare, e darle spazio”. Chiudeva così Italo Calvino le sue Città invisibili: una citazione forse scaramantica perché Torino non diventi, in questi giorni, invisibile, o peggio invivibile.

Il Fatto 8.5.19
Apologia, reato difficile da punire
La Costituzione e la “Scelba” rimangono spesso inapplicate. E il Parlamento è fermo
di Ferruccio Sansa


Reato a targhe alterne. Il fascismo in Italia è uno dei misteri della giurisprudenza. Per il saluto romano si trovano giudici che ti condannano e altri che ti assolvono. Chi esalta il fascismo a volte è perdonato e altre no. A dare del fascista oggi vieni punito e domani no.
Eppure le norme che dovrebbero mettere un freno ai nostalgici di nonno Benito sono tante. A cominciare dalla XII disposizione transitoria della Costituzione: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Poi arrivò la legge Scelba, tanto famosa quanto poco applicata. All’articolo 1, definendo la ‘riorganizzazione del disciolto partito fascista’, cita “associazioni, movimenti o comunque gruppi di persone” (almeno 5) che perseguono “finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica”. È punito “chiunque promuova od organizzi sotto qualsiasi forma, la costituzione di un’associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista”, ma anche chi “pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche”. La pena va dai 18 mesi ai 4 anni. Sulla carta. Ma le cronache riferiscono un fiorire di saluti romani, di dichiarazioni che giocano sull’ambiguità. Nella passata legislatura Emanuele Fiano (Pd) aveva proposto un giro di vite: il testo prevedeva perseguibilità della propaganda del regime fascista fatta con immagini e contenuti di cui sarebbero state anche vietate la produzione o la vendita. Proibito fare il saluto fascista e mostrare in pubblico i simboli del fascismo (con l’aggravante se avviene su internet). Com’è finita? “La legge era passata alla Camera, ma prima che arrivasse il ‘sì’ al Senato era terminata la legislatura”, racconta Fiano. Che però assicura: “Presto ripresenterò il testo. Sono curioso di vedere come voterà il M5S che oggi pare diventato molto più attento alle istanze antifasciste”.

Il Fatto 8.5.19
“Boicottaggi da salotto: ci rimettiamo soltanto noi”
di Silvia D’Onghia


“Pubblico le vite e le opere dei più grandi comici anglosassoni, cioè la creme della satira e dell’anti-fascismo, e autori all’80% ebrei. Che dovrei fare, allora? Si va e si va proprio per questo”. Carlo Amatetti (Sagoma editore) si fa portavoce delle esigenze di molti “piccoli” – TerraRossa, D, Kellermann, La Vita Felice, Il Ciliegio, Goodfellas, Lavieri –, che assistono “incazzati” alle defezioni d’autore. “La strumentalità di questo boicottaggio è veramente urticante – prosegue – fascisti e massoni ci sono sempre stati ed è andata bene a tutti”. I valori sono condivisi, il portafogli no: “Io spendo più di 1500 euro per andare a Torino e, se va bene, ne porto a casa 2000. È bello fare le battaglie ideologiche quando non rischi nulla. Prova a combattere quando hai una famiglia. Non ci sentiamo eroi, ma ribadiamo che la vera diversità poggia sulle centinaia di piccole case editrici che si buttano su scommesse donchisciottesche. Poi però arriva qualche benpensante salottiero e decide di boicottare per farsi bello davanti a taccuini e telecamere”.

Il Fatto 8.5.19
“Il problema sono i legami con Salvini: noi non ci stiamo”
Montanari e Settis - “Ci opponiamo allo sdoganamento della voce fascio-nazista nel dibattito politico: niente Torino”
Come tutta una serie di altri intellettuali e scrittori, anche Tomaso Montanari e Salvatore Settis hanno deciso di non presentarsi a Torino
di Tomaso Montanari e Salvatore Settis


Come il collettivo di scrittori Wu Ming e come Carlo Ginzburg, anche noi abbiamo deciso di annullare la nostra partecipazione al Salone del Libro di Torino: avremmo dovuto presentare il nostro manuale di storia dell’arte per le scuole, improntato alla Costituzione. Ma non lo faremo: per protestare contro la decisione della Fondazione del Salone del Libro – e cioè di Aie e Adei (le associazioni degli editori), del Comune di Torino e della Regione Piemonte – di assegnare uno stand a un editore collegato direttamente a CasaPound, e che ha in catalogo testi esplicitamente fascisti e nazisti.
Crediamo sia stato un grave errore imporre questa presenza alla direzione editoriale del Salone, che con il suo direttore Nicola Lagioia aveva scritto: “Per quanto riguarda me e il comitato editoriale crediamo che la comunità del Salone possa sentirsi offesa e ferita dalla presenza di espositori legati a gruppi o partiti politici dichiaratamente o velatamente fascisti, xenofobi oppure presenti nel gioco democratico allo scopo di sovvertirlo”. Parole forti e chiare, che sono state clamorosamente smentite dagli editori e dalle autorità pubbliche che, pur potendo dire no, hanno invece ritenuto di dire di sì.
Noi non comprendiamo le ragioni di questo sì: crediamo che la Costituzione, e le leggi Scelba e Mancino dessero tutti gli strumenti per dire di no.
E, in ogni caso, è una questione politica, con la ‘P’ maiuscola: noi non abbiamo alcuna intenzione di partecipare, per la nostra minuscola quota, a un oggettivo, ulteriore sdoganamento della presenza della voce fascio-nazista nel dibattito pubblico italiano.
Ci chiediamo dove stia portando la diffusa volontà di non vedere, dal vertice della Repubblica giù giù fino a Torino: rimangono senza risposta le richieste di prendere atto che CasaPound è fuori legge, e che dunque va sciolta. E ora il ministero per i Beni Culturali (per bocca della sottosegretaria leghista Paola Borgonzoni) interviene nella vicenda del Salone (di cui detiene il marchio) non per espellere l’editore fascista, ma per minacciare Christian Raimo, che l’aveva attaccato e che si è dovuto infine dimettere lui dal Salone. Ebbene, crediamo che qualcuno debba iniziare a dire di no. Per il poco che tocca a noi, sentiamo il dovere morale di opporci: per questo non saremo a Torino. Al Salone ci sono probabilmente sempre stati editori fascisti. Ma oggi è il contesto a essere diverso: ed è il contesto a conferire significato ai singoli testi. Oggi quell’editore pubblica un libro-intervista al ministro dell’Interno. Oggi la massima agenzia culturale del Paese, la Rai, è presieduta da un uomo di Salvini che suggerisce che “il vero scopo” della politica migratoria della Unione europea sia arrivare a “una destabilizzazione e a uno sradicamento identitario e culturale della civiltà europea”. Il modello che viene opposto a quello europeo è quello della Russia di Putin: “Piazza Rossa, Mosca. Città pulita. Non c’è un mendicante, non c’è un lavavetri, non c’è un Rom, non c’è un clandestino, non c’è un rompiscatole” (Matteo Salvini, 2014). Ed è dal palco di piazza del Popolo il 25 febbraio 2015 (la più grande manifestazione pubblica della Lega salviniana) che il leader romano di CasaPound Simone Di Stefano dice: “Noi condividiamo ogni singola parola del programma di Matteo Salvini”.
È tempo di aprire un dibattito serio e documentato sulla vera natura della Lega: il partito cui il cinismo del Pd e l’opportunismo complice dei 5Stelle hanno consegnato di fatto il Paese. Uno di noi (Settis) ha scritto, fin dal 2010 su Repubblica, circa le radici esplicitamente naziste dell’etnonazionalismo padano della Lega fondato sul sangue e sulla stirpe. Non è folclore: è una matrice culturale terribilmente attiva, e supportata da una folta pubblicistica (che oggi celebra se stessa al Salone di Torino) e da una rete di persone che, dall’epoca di Bossi, arriva fino al più stretto cerchio magico di Matteo Salvini (uno tra i tanti: Gianluca Savoini, ben noto all’entourage di Franco Freda e Maurizio Murelli, e poi portavoce di Salvini e tra i promotori, per dirne una, della conferenza stampa del nostro ministro dell’Interno all’agenzia Tass a Mosca, nel luglio 2018).
Sarebbe un errore aspettarsi di vedere Salvini in camicia nera, per quanto i suoi tweet con motti fascisti, la sua iconografia neo-mussoliniana e alcune esplicite rivendicazioni possano dare quella impressione. Il punto è quali forme nuove e ‘moderne’ assuma oggi la pianta velenosa che rinasce da quel ceppo storico.
In Origini del totalitarismo, Hannah Arendt sostiene che “a convincere le masse non sono i fatti – neppure quelli inventati – bensì la robustezza dello schema in cui i fatti vengono inseriti”. Lo schema del discorso pubblico della Lega è molto chiaro: crediamo che questo schema non debba trovare benevolenza, accoglienza, diritto di cittadinanza in nessun luogo o evento finanziato o sostenuto dalla Repubblica italiana. Se questo avviene, noi non ci stiamo.

La Stampa 8.5.19
La Cassazione dice no al riconoscimento dei figli delle coppie con due papà
La sentenza riguarda chi è ricorso alla maternità surrogata all’estero e ora vorrebbe la trascrizione all’anagrafe

qui

La Stampa 8.5.19
In difesa della costituzione
di Vladimiro Zgrebelsky

qui

Corriere 8.5.19
Il ristorante italiano a Berlino che dice no ai politici AfD
«Non serviamo gli xenofobi»
Il posto è frequentato da politici e star. La reazione: ridicolo
di Paolo Valentino


Berlino Chi discrimina viene discriminato. Anche al ristorante. E così cinque caporioni della AfD, il partito xenofobo di estrema destra, si sono visti rifiutare una prenotazione a Bocca di Bacco, il più celebre desco italiano di Berlino.
I due leader Alexander Gauland e Jörg Meuthen, la co-presidente dei deputati al Bundestag Alice Weidel, il segretario parlamentare Bernd Baumann e il portavoce Christian Lueth volevano cenare lunedì sera nel prestigioso ristorante sulla Friedrichstrasse, nel cuore della capitale tedesca. Ma alla richiesta di un tavolo inviata per email dalla segretaria del gruppo di AfD, il management ha risposto di no con la seguente motivazione: «Non serviamo i politici e i loro dipendenti che discriminano le persone sulla base della loro origine, opinione, religione, posizione politica e colore della pelle».
I capi sovranisti hanno reagito piccati. «Non democratico e stupido», ha definito il rifiuto Lueth. «Ridicolo», ha detto Gauland. Secondo un’altra deputata, la vice-capogruppo Beatrix von Storch, «il politicamente corretto è sciocco come un pane in scatola».
Bocca di Bacco non è un ristorante qualunque nel panorama gastronomico berlinese. Aperto nel 2001, è diventato il luogo prediletto dall’establishment tedesco e non solo: politici, ministri e leader dell’economia, stelle del cinema, dello spettacolo e dello sport, intellettuali, direttori di giornali. È stato la «mensa» preferita dei governi rosso-verdi, con Gerhard Schröder, Joschka Fischer e Otto Schily ospiti quasi fissi. Ma, con specchiata trasversalità, ha rifocillato anche Helmut Kohl (negli anni dopo la cancelleria amava portarci Michail Gorbaciov) e la stessa Angela Merkel. E poi una grande clientela internazionale, che torna volentieri: Simon Rattle, George Clooney, Matt Damon, Andrea Bocelli.
Le motivazioni
Il proprietario Mannozzi: accogliamo gente di ogni etnia, chi non approva non è benvenuto
Un luogo del potere e delle celebrità insomma, dove anche la geografia dei tavoli ha il suo significato: i più discreti e contesi sono quelli da due o da quattro affiancati alla parete sinistra nella seconda sala.
Anche questa reputazione aperta e globale, il proprietario Alessandro Mannozzi dice di voler difendere rifiutandoli a AfD: «Noi accogliamo ospiti da tutto il mondo, gente di provenienza, genere e etnia molto diverse. Parlano lingue diverse, professano religioni diverse. Ma l’AfD non condivide questa apertura, tolleranza e accettazione. Chi non approva i comportamenti di questa casa, non è bene accetto».
Non è comunque la prima volta che una prenotazione di Alternative für Deutschland viene rifiutata da Bocca di Bacco. «È già successo un paio di volte diversi mesi fa, ma nessuno aveva reagito. Questa volta alcuni esponenti di AfD hanno fatto delle dichiarazioni sui social network e così abbiamo chiarito la nostra posizione».
La scorsa estate, sempre a Berlino, la figlia di un consigliere comunale di AfD non è stata accettata in una scuola privata steineriana, perché «le idee del padre potrebbero influenzare negativamente l’ambiente scolastico».


https://spogli.blogspot.com/2019/05/repubblica-8.html

martedì 7 maggio 2019

L’Espresso 5.5.2019
Quella sinistra che vince
Sánchez in Spagna. Corbyn nel Regno Unito. Costa in Portogallo. E non solo. Ecco dove e come i socialisti e i verdi possono fermare l’onda sovranista il prossimo 26 maggio
di Gigi Riva


Sembrava peggio, fino all’altro ieri. Stando agli ultimi sondaggi nei ventotto Paesi dell’Unione europea in vista delle elezioni di fine maggio la sinistra larga, quella che va dai socialdemocratici all’ala più radicale- passando per i verdi, dà nuovi segni di vita. All’interno, s’intende, di un mosaico in cui il dettaglio dei singoli tasselli suggerisce letture assai diversificate, ma con indicazioni su una linea che potrebbe essere vincente se perseguita ovunque.
Il segnale più forte in questo senso è appena arrivato dal partito socialista di Pedro Sánchez, fresco trionfatore delle elezioni politiche in Spagna. Secondo le proiezioni demoscopiche, il 26 maggio il Psoe sarà uno dei partiti della sinistra che crescerà di più nella Ue, rispetto alle europee di cinque anni fa, grazie al netto profilo che si è dato di alternativa alla destra e di federatore di tutto il suo campo. Con un occhio particolarmente rivolto al tentativo di ridurre le disuguaglianze enormemente cresciute dall’inizio della crisi. Ancora meglio farà, dicono i sondaggi, il Labour inglese, dove in attesa della Brexit comunque si voterà per l’organismo comunitario ripudiato via referendum: il partito di Jeremy Corbyn avrebbe il gruppo nazionale maggioritario in seno al gruppo socialista con venti seggi, uno in più di cinque anni fa. Cosa se ne farà non è dato sapere, causa il per ora imperscrutabile sbocco dello snervante tira e molla tra Londra e Bruxelles. Sicuramente, tuttavia, Corbyn incassa i dividendi dei tentennamenti di Theresa May e di una politica che volge lo sguardo a sinistra nel tentativo di recuperare il suo elettorato storico, quei ceti popolari che al Labour, fino a pochi anni fa, avevano voltato le spalle.
Sánchez e Corbyn sorpasseranno così una socialdemocrazia tedesca logorata dal reiterato e infruttuoso appoggio alla grossa coalizione egemonizzata dalla cancelliera Angela Merkel (meno dieci seggi, a quota 17), per non dire del Pd che nel paragone con il 2014 sconta l’abnorme ed effimero exploit di Matteo Renzi e non supererà, secondo le ricerche, i 16 eletti contro i 31 che aveva. Mentre non conosce limiti la catastrofica caduta dei socialisti francesi, ridotti a mera testimonianza (4 anziché 12) quando sino a sette anni fa ancora esprimevano un presidente della Repubblica, François Hollande, prima di venire cannibalizzati dal loro figlio ingrato Emmanuel Macron, eversore dell’ “ancien régime” in nome di un “né-né” (né di destra né di sinistra) che ha spostato l’asse transalpino verso un duello tra centro ed estrema destra. Solo in piccola parte i voti persi dai socialisti andranno ad aumentare i seggi di La France Insoumise, il partito della sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, dato in crescita per le europee.
Germania, Francia e Italia: tre pesi massimi diventati il ventre molle quando erano stati l’architrave portante dell’idea progressista con numeri che, se ricordati, producono
solo nostalgia. E il denominatore comune del loro malessere è l’affannosa corsa al centro per essere rassicuranti con i mercati, le élite finanziarie, la borghesia, proprio nel momento in cui i cittadini si orientano verso un pensiero forte e una polarizzazione netta. Dei tedeschi abbiamo detto, la parabola di Renzi e del Pd la conosciamo, Hollande cominciò a suicidarsi con il famoso discorso in cui abbandonò i dettami del socialismo.
Ora guardano, gli ex pesi massimi, i risultati del loro fallimento, scoprono che un’altra strada era possibile non solo grazie ai casi dei Corbyn e dei Sánchez, ma anche di esperienze periferiche al cuore dell’Unione, in altri Paesi mediterranei, nel freddo Nord pur scosso da correnti sovraniste, persino nell’Est che tenne a battesimo il populismo.
Il Portogallo è l’esempio più eclatante. Da quattro anni il socialista Antonio Costa guida un governo di cui fanno parte, il Bloco de Esquerda, i verdi e il partito comunista. Ha trattato con la Troika il piano lacrime e sangue quando era sull’orlo del fallimento, riuscendo a coniugare una revisione della spesa pubblica con un welfare dignitoso. Le cifre dicono: deficit allo 0,5 per cento (nel 2011 era all’11 per cento, praticamente default), crescita stimata del Pil nel 2019 all’1,9 per cento e oltre il 2 per cento l’anno prossimo, disoccupazione al 6,3 per cento come non succedeva dal 2002. Tradotto significa, nelle intenzioni di voto, socialisti largamente in testa col 34,1 (e uno scranno in più a Bruxelles rispetto al passato) e il Bloco de Esquerda terza forza al 9,2. Un vantaggio rassicurante anche in vista delle politiche di autunno dove probabilmente ci sarà la conferma dell’esecutivo.
A oriente del Mediterraneo, la Grecia da grande malata è passata almeno nella categoria dei convalescenti. Alexis Tsipras e la sua formazione, Syriza, ha smussato alcune spigolature che potevano preludere a una Grexit per debiti, si è accollato finanziarie draconiane riuscendo tuttavia ad evitare il famoso paradosso per cui l’operazione è riuscita ma il paziente è morto. Atene è viva, ha appena annunciato che potrà restituire in anticipo al Fondo monetario 3,7 miliardi di euro, è uscita dal piano di salvataggio della Troika lo scorso agosto, torna a crescere pur segnando la disoccupazione più alta del Vecchio Continente (18,6 per cento). Nonostante i sacrifici imposti, misure che altrove avrebbero provocato uno sprofondo di consenso, Syriza resta alta al 32 per cento, aumenta la propria rappresentanza a Bruxelles (7 contro 6) e non dispera in un sorpasso sul filo di lana di Nuova Democrazia, la destra che aderisce al Ppe, ora in vantaggio di tre punti.
Il Grande Nord temeva che la crisi migratoria e le sue conseguenze potessero rappresentare la pietra tombale sugli esperimenti forse più riusciti di socialdemocrazia virtuosa. Ipotesi al momento scongiurata seppure di un soffio. La Svezia di Greta Thunberg nel settembre scorso ha riconfermato alla guida del Paese il premier Stefan Lofven, scongiurando l’assalto dei “Democratici”, nome che si sono dati i nazionalisti euroscettici e anti-migranti ora accreditati del 19,2 per cento e distanziati di quasi nove punti dai socialdemocratici. Più recentemente, a metà aprile, i finlandesi hanno riportato al primo posto i socialdemocratici di Antti Rinne, seppur di un’incollatura (0,2 per cento) rispetto ai “Veri finlandesi” alleati della galassia salviniana. Non un trionfo ma almeno un’inversione di tendenza rispetto alla débâcle subita quattro anni prima. Un segno di un risveglio che si accompagna a una tendenza continentale, seppur timida. Nell’Est Europa suffragata, questa tendenza, da quanto successo in Slovacchia, forse il Paese che più di tutti aveva accettato il liberismo selvaggio di mercato una volta archiviata l’esperienza comunista. Qui non si tratta del dualismo tra destra e sinistra, ancora largamente confuso, ma del convinto europeismo di Zuzana Caputova, 45 anni, l’avvocatessa ambientalista prima donna ad arrivare alla presidenza della Repubblica dopo le consultazioni del 31 marzo scorso. La carica è poco più che onorifica però rischia di rompere il patto euroscettico tra le nazioni del gruppo di Visegrad di cui Bratislava fa parte. Anche nei Paesi confinanti, a lungo dominati da partiti xenofobi quando non apertamente razzisti, cominciano a prendere coraggio forme di opposizione di eterogenea natura che uniscono sinistra, militanti dei diritti umani, ecologisti. Succede nella Polonia di Jaroslav Kaczynski come nell’Ungheria di Viktor Orbán.
Certo, si tratta di segnali in controtendenza rispetto a un quadro complessivo che a livello Ue vedrà comunque i socialisti perdere seggi, nel complesso, rispetto al 2014 (e i verdi guadagnarne 5 o 6). Il totale della sinistra dunque sarà un segno meno. Bisogna rallegrarsi per una “gloriosa sconfitta”? Certo che no. Ma rispetto al 2014 è cambiato il mondo. Cinque anni in una politica che muta vorticosamente sono un’era geologica. E oggi sembra rallentare la deriva a destra. E spunta qualche fiore al limite del deserto attraversato dall’universo progressista.

L’Espresso 5.5.19
Tutti a scuola da Pedro contro i fantasmi del passato
di Emanuele Felice


Il successo di Sánchez non è solo una speranza che rinasce, nel quarto paese più importante dell’Unione. Ma può e deve rappresentare un insegnamento vitale per il Pd italiano e per la sinistra europea tutta, di fronte alla sfida dei nazional-populisti. Per l’idea di società che propone, la «narrazione»: il primo fra gli ingredienti che impastano la politica, e le leadership. Ma anche per la coerenza strategica e l’abilità tattica: le due gambe senza le quali non si va da nessuna parte, e qualunque orizzonte rimane un mi-raggio. Il tutto condito da un po’ di fortuna, che non guasta mai in questi casi (aiuta gli audaci).
Sull’idea di società, inutile girarci attorno: Sánchez fa risorgere il socialismo spagnolo su un terreno felicemente progressista. La sua Spagna è europeista, ambientalista, femminista. Plurale, perché cerca il dialogo con le autonomie anziché lo scontro. E sociale. Sánchez ha proposto di aumentare il salario minimo, di alzare le tasse sui redditi più alti e sulle grandi corporation, di introdurre una patrimoniale: insomma di affrontare il grande tema delle disuguaglianze. I diritti vecchi e nuovi che si tengono insieme, si rafforzano a vicenda, proprio come nella migliore tradizione della sinistra. La destra peggiore è venuta fuori anche in Spagna, certo: ma è stata sconfitta, in modo chiaro. Perché dall’altra parte ha trovato un paese democraticamente maturo, fatto di cittadini consapevoli e forse perfino ottimisti, che hanno visto nel Partito socialista e nel suo leader l’alternativa ai fantasmi del passato.
Ora, sarebbe troppo facile dire che Sánchez ha vinto perché ha fatto tutto il contrario di quello che proponeva da noi il Pd a guida renziana: che infatti è sceso al minimo storico. In realtà nei governi Pd ci sono state diverse misure di orientamento progressista. Ma erano timide, ambigue, accompagnate da messaggi e interventi di natura opposta. Le norme contro il capolarato, assieme all’abolizione dell’articolo 18. Una buona legge sulle unioni civili (cui manca solo l’adozione), ma scarso coraggio sulla cittadinanza ai figli di immigrati. Il reddito di inclusione partito tardi e male, a fronte dell’abolizione indiscriminata delle tasse sulla prima casa, anche per i più ricchi. Più soldi in tasca per i ceti medi, gli 80 euro; ma la proposta di un salario minimo legale arrivata solo nel gennaio 2018, quando ormai si era in campagna elettorale. Il tutto condito da una narrazione e perfino da atteggiamenti, quelli del leader e dei suoi collaboratori, lontani dalla tradizione della sinistra. Difettavano perfino di europeismo, strizzando l’occhio ai populisti, ignoravano una questione tanto importante qual è l’ambiente. Guardava al centro, Matteo Renzi, in direzione opposta a quella di Sánchez. E del resto ancora oggi nel Pd alcuni preferiscono quella sponda, più che i socialisti e la sinistra europei.
Ma l’esito delle elezioni spagnole deve insegnarci qualcosa anche sul piano della coerenza strategica. E forse perfino della tattica. Pochi ricorda- no che quando Sánchez divenne per la prima volta segretario del Psoe nel 2014, veniva considerato poco più che un ingenuo belloccio: messo lì per soddisfare il grande pubblico, che tanto poi c’era la solita nomenclatura a comandare. Ebbene, da allora le cose sono molto cambiate. Sánchez ha vinto le sue battaglie proprio contro i maggiorenti del partito, che mai avrebbero voluto l’alleanza con Podemos o con i catalani (li chiamavano addirittura golpisti) e che acconsentirono alla nascita dell’ultimo governo Rajoy. Contro quella scelta Sánchez si dimise, nel 2016, anche da deputato. Sfidò apertamente la nomenclatura in nuove primarie (da notare: quella nomenclatura «centrista» aveva la sua roccaforte nell’Andalusia sussidiata e clientelare). La sconfisse, mobilitando nuove energie che pochi credevano esistessero ancora. In questo senso, la sua traiettoria è davvero la nemesi di quella di Renzi: lui era partito per rottamare, ha finito per allearsi con i cacicchi del Sud, o per candidare Casini a Bologna, mentre i giovani dirigenti più preparati (i migliori, spesso) venivano messi ai margini.
Nel giugno 2018 Sanchez diventava primo ministro, sfiduciando Rajoy, alla testa di una larga alleanza che includeva Podemos e gli indipendentisti. Lui che era stato solo secondo nelle urne, dieci punti dietro i popolari. L’asse della politica spagnola virava di 180 gradi, grazie a quello che in fondo è un classico ribaltone parlamentare. Ma la buona tattica è questo: capacità di cogliere il momento opportuno, con spregiudicatezza. E poi, in un sistema proporzionale (come il nostro, voluto dal Pd), le coalizioni si formano dopo il voto, nulla è già scritto in partenza. Adesso, meno di un anno dopo, l’azzardo di Sánchez è stato premiato dagli elettori. Ampiamente: i socialisti sono diventati primo partito e i popolari, senza più il potere e travolti dagli scandali, sono crollati.
Certo, c’è stata anche fortuna. Un’economia in crescita, peraltro in modo sbilanciato (la disoccupazione resta molto alta): cosa che reclama politiche sociali, di cui peraltro ora ci sono le risorse. Anche, paradossalmente, l’emergere di un partito di estrema destra apertamente franchista, che ha spaventato molti elettori portandoli alle urne e facendoli convergere sulla grande forza alternativa, i Socialisti. Infine il sistema elettorale di attribuzione dei seggi, che favorisce i partiti maggiori, con il centro-destra per la prima volta diviso in tre tronconi. Ma la fortuna aiuta gli audaci, come si diceva. Ha aiutato chi maggior- mente ha osato: per visione, coerenza strategica, abilità tattica. Con in più la capacità di proporre una classe dirigente nuova, giovane e preparata, contro i vecchi potentati incancreniti. Sánchez oggi è forse il più importante premier di sinistra nel mondo. E guida il primo partito socialista d’Europa. Dopo aver vinto battaglie difficili e coraggiose, in cui si è giocato tutto. Saprà imparare il nuovo Pd da questa storia?

L’Espresso 5.5.19
Digisex
I nuovi amanti
Sexbot, ovvero robot pensati per offrire piacere
e, in futuro, addirittura amore. Tra umanoidi e sex doll sta nascendo un’ inaspettata identità sessuale. Che solleva profonde questioni etiche e filosofiche
di Emanuele Coen


Fate l’amore, non la guerra». In un futuro distopico non troppo lontano potrebbe essere lo slogan pubblicitario di una casa produttrice di sex robot. A differenza degli umanoidi killer, progettati per seminare morte tra i soldati nemici, i “sexbot” sono macchine pensate per sostituire gli esseri umani sotto le lenzuola, offrire piacere sessuale e addirittura amore. Già disponibili e configurabili in base ai propri gusti, basta fare un giro sul Web, pronti a soddisfare desideri sessuali e anche qualcosa di più. “Frigid Farrah” è programmata per dire “no”, resistere alle avance sessuali del partner o addirittura mettere in pratica violenze sessuali. Il motto commerciale di un altro robot intelligente, Young Yoko, recita «così giovane, appena 18 anni, che aspetta solo te per imparare». Poi c’è “Samantha”, creata da Sergi Santos, ingegnere elettronico e responsabile della compagnia robotica Synthea Amatus, talmente verosimile che nel 2017 all’Ars Electronica Festival a Linz, in Austria, fu letteralmente presa d’assalto, “violentata” da un gruppo di uomini eccitati. Una scena raccapricciante. E così via, i robot del sesso hanno nomi ammiccanti: Roxxxy, Denyse, Solana, Isabel, ma anche Rbert o Stew. Dispositivi dotati di intelligenza artificiale, più evoluti delle sex dolls, le bambole in silicone per uso domestico o da bordello.

GALASSIA DIGISEXUAL
Se l’identità sessuale è un concetto sempre più variegato, anche l’offerta sintetica si fa più ricca e va incontro a esigenze in continua evoluzione. Persone demi-sessuali, in grado cioè di sviluppare attrazione fisica solo per persone con cui hanno una forte relazione emotiva; ases- suali, che non provano alcuna attrazione fisica, o ancora “skoliosexual”, individui attratti da persone che non si riconoscono nell’idea secondo cui esistono solo due generi, maschile e femminile. E così via. Per definire invece i pionieri dell’interazione sessuale uomo-macchina alcuni esperti hanno coniato il termine “digisexual”, che definisce una identità sessuale nuova da estendere anche a tutti coloro, ben più numerosi, che vivono immersi in un mondo dominato da pornografia digitale, “teledildonics”, vale a dire sex toy azionati a distanza con l’aiuto di computer, applicazioni per incontri sessuali. Nei prossimi anni i digisexual aumenteranno.
È suggestivo e inquietante lo scenario disegnato nel saggio “Benvenuti nel 2050. Cambiamenti, criticità e curiosità” (Egea) di Cristina Pozzi, bocconiana, imprenditrice sociale, esperta di tecnologie emergenti e visioni future. L’autrice, unica Young global leader 2019 per l’Italia di Forbes, prevede che fra trent’anni i robot umanoidi potranno assumere la personalità o l’aspetto estetico che preferiamo: una star del cinema, una ex fidanzata, un defunto, sempre che questo abbia lasciato il consenso, riportandolo in vita. Navigando on line potremmo ritrovarci a chiacchierare con robot in social network per persone scomparse, in un’epoca in cui sarà del tutto normale fare sesso con una macchina.
Già ora, del resto, la trasformazione digitale della specie è una delle grandi questioni del nostro tempo: non a caso si intitola “Society 5.0 - A human centric future” il TedX Roma che si è svolto il 4 maggio al convention center La Nuvola: 16 speaker provenienti da ogni parte del mondo tra cui Kate Devlin, per riportare l’uomo al centro di scelte e obiettivi.
«La società 5.0 non dovrà più basarsi sulla produzione fine a se stessa di beni, bensì sulla definizione delle soluzioni che realmente servano all’individuo», spiega Emilia Garito, curatrice di TedX Roma e fondatrice della società Quantum Leap Ip: «Vale per ogni settore, anche quello delle relazioni sessuali. In futuro l’offerta sarà sempre più estrema, tesa alla massimizzazione del profitto di chi mette i sexbot sul mercato. L’interazione uomo-macchina tuttavia non deve trasformarsi in compromesso, occorre mantenere spirito critico e libertà di giudizio di fronte al potere della tecnologia, che è in mano a pochi».
Al di là della curiosità, a volte morbosa, e dell’apparente frivolezza dell’argomento, l’idea che esistano robot per raggiungere l’orgasmo, o intessere una relazione più articolata, solleva una serie di questioni etiche e filosofiche: procurarsi il piacere da soli, a volte con l’aiuto di oggetti, è sesso? C’è qualcosa di immorale nel comprare e nell’avere rapporti con una macchina? Le persone che fanno sesso con un robot hanno un’inclinazione a praticare violenza sugli altri e sono incapaci di costruire relazioni affettive stabili con i propri simili? Temi di notevole portata, ai quali Maurizio Balistreri, esperto di bioetica e ricercatore di Filosofia morale dell’università di Torino, ha dedicato il libro “Sex Robot - L’amore al tempo delle macchine” (Fandango libri). «Dalla nostra analisi emerge che il sesso non è per sua natura relazionale e che, pertanto, così come possiamo avere rapporti sessuali a pagamento, con persone sconosciute, a distanza per telefono oppure facendo sesso in una realtà virtuale, allo stesso modo possiamo benissimo avere relazioni sessuali anche con i robot», dice Balistreri.
E così, dopo aver sostituito i lavoratori, i robot si apprestano a mandare in pensione anche gli amanti. Ma cosa ne sarà dell’amore se le nostre relazioni sessuali si consumeranno con una macchina? «È vero che attraverso i robot del sesso non possiamo avere gli stessi rapporti che abbiamo con altri esseri viventi: è difficile riuscire ad amare un robot e anche se fossimo in grado di farlo il robot non potrebbe ricambiare i nostri sentimenti», aggiunge il ricercatore: «Ma se l’autoerotismo è sesso, allora possiamo fare sesso anche con i robot: possono aiutarci a raggiungere il piacere e soddisfare i nostri desideri sessuali. I sex robot esistono ve- ramente ed è arrivato il momento di prenderli sul serio».

MA SI PUÒ AMARE UN ROBOT?
Chi li ha presi sul serio, già da tempo, sono il cinema, la tv, la letteratura. Film come “Lei (Her)” di Spike Jonze, che descrive una relazione sentimentale tra il protagonista e un sistema operativo dotato di intelligenza artificiale. Oppure la serie tv “Westworld - Dove tutto è concesso” con le sue scene di sesso spinto, ideata da Jonathan Nolan e Lisa Joy e basata sul film “Il mondo dei robot” (We- stworld, 1973) scritto e diretto da Michael Crichton. E più di recente la serie di animazione antologica di Netflix “Love, Death & Robots”, creata da David Fincher e Tim Miller, che mescola estetica da videogiochi, fantascienza, horror e fantasy. Tra gli episodi colpisce “La testimone”, in cui la protagonista, che lavora in un bordello in cui gli uomini si accoppiano con i robot, assiste a un omicidio e scappa dall’assassino per le strade di una città surreale. C’è poi il nuovo romanzo retrofuturista di Ian McEwan, Machines like me (J. Cape, pp. 320, £ 18,99)
Sex robot, Maurizio Balistreri (Fandango, pp. 282, € 18)
Il disagio del desiderio, Paola Marion (Donzelli, pp. 208, € 28)
“Machines like me” (edito da Jonathan Cape), la storia del triangolo amoroso tra Charlie, la giovane Miranda e il robot quasi umano Adam, bello e forte, plasmato e programmato dalla coppia. Una storia ucronica ambientata a Londra nei primi anni Ottanta, in cui la Gran Bretagna ha perso la guerra delle Falkland e il matematico inglese Alan Turing invece di essere perseguitato in quanto omosessuale è uno scienziato di successo nel campo dell’intelligenza artificiale. Un romanzo in cui McEwan mette in guardia i lettori dal potere di creare robot fuori dal nostro controllo e pone questioni universali: cosa ci rende umani? Le nostre azioni o le nostre riflessioni interiori? Una macchina può comprendere il cuore di un uomo? Si può ipotizzare l’attrazione sessuale di un essere umano per un robot? Questioni che indagano i meccanismi della mente umana, e che si po- ne anche Paola Marion, psicoanalista, direttore della Rivista di psicoanalisi e autrice del saggio “Il disagio del desiderio” (Donzelli editore): «Non so se verso un robot si possa parlare di desiderio in senso vero e proprio. Il desiderio sessuale, per come noi ancora lo intendiamo, comprende un altro a cui rivolgersi e a cui tendere. Mette in gioco, cioè, la relazione con l’altro», afferma Marion: «Nel caso della sessualità mette in gioco il corpo e i corpi in relazione tra di loro. Il robot rappresenta un oggetto inanimato, anche se dotato di intelligenza artificiale, che può soddisfare senza coinvolgere relazione e corporeità. Mi pare questa la vera rottura».
Come è facile immaginare, le risposte non sono univoche. Un’altra esperta, Georgia Zara, psicologa e criminologa, docente nelle università di Torino e di Cambridge, alla domanda se si possa avere una relazione che implichi affetto, sessualità e investimento emozionale con un sexbot, risponde così: «La risposta più semplice è “sì”. Esistono relazioni sintetiche nelle quali si investe una forte carica affettiva. Gli studi scientifici evidenziano che quanto più un robot ha sembianze umane, tanto maggiore è il legame che si potrebbe venire a creare: una sorta di “illusione antropomorfica”. L’interazione fisica con i sexbot permetterebbe di avere un amante sempre diverso, senza controversie, con il quale tutto è possibile», dice Zara, che poi affronta altri aspetti, toccati anche nel saggio a sua firma pubblicato nel libro di Balistreri. La docente, infatti, è responsabile scientifica del primo progetto in Italia sull’uso dei robot per il trattamento degli autori di reati sessuali, intitolato S.o.r.a.t. (Sex offenders risk assessment and treatment), che vede coinvolti tra gli altri il Dipartimento di Psicologia dell’ateneo torinese e il Gruppo Abele, su un campione di 71 sex offender maschi, età media 47 anni, ai quali sono state mostrate quattro immagini raffiguranti due sexbot adulti, uomo e donna, e due bambini, maschio e femmina, allo scopo di studiare le loro reazioni. Argomento controverso e difficile: al momento non ci sono sufficienti evidenze scientifiche per dire che l’utilizzo dei sexbot possa inibire il passaggio all’abuso, ma lo studio non è ancora ultimato.

IL RISCHIO DELLA VIOLENZA
Una delle critiche che vengono rivolte agli androidi riguarda il rischio della normalizzazione della violenza sessuale. «Il rischio non è solo possibile, ma anche probabile. In uno studio sul diniego nei sex offender recentemente pubblicato, si evidenzia il ruolo delle fantasie sessuali nelle dinamiche sessualmente abusanti», aggiunge l’esperta. Secondo la ricerca, se la fantasia sessuale è quella del dominio e del controllo del partner, un sexbot può incoraggiarla. Se la fantasia è di tipo feticista, coinvolgendo solo alcune parti del corpo, un sexbot può alimentare il gioco erotico. «Sebbene i sexbot possano agevolare persone in difficoltà nella sfera intima o fungere semplicemente da sex toy tecnologicamente avanzati, dal punto di vista psicosociale e clinico non è da escludere che l’utilizzo di tali dispositivi possa diventare problematico, laddove il sexbot diventa il sostituto esclusivo dell’altro», conclude Zara, che porta l’esempio di Lilly, una donna francese che dice di essere attratta solo dai robot e di volerne sposare uno, dopo le esperienze deludenti con gli uomini. Del resto qualche tempo fa, in Giappone, un uomo di 35 anni, Akihiko Kondo, ha portato all’alta- re un ologramma, la versione peluche della popstar Hatsune Miku. Il matrimonio non ha alcun valore legale, naturalmente, ma è la spia di un fenomeno in evoluzione.
Nascono alchimie misteriose, legami inediti, forti e inspiegabili.
Viene in mente la scena finale di “Io e Annie”, il celebre film di Woody Allen, con la voce fuori campo del protagonista Alvy: «Quella vecchia barzelletta, sapete... Quella dove uno va dallo psichiatra e dice: “Dottore mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina”, e il dottore gli dice: “Perché non lo interna?”, e quello risponde: “E poi a me le uova chi me le fa?”.
Beh, credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna. E cioè che sono assolutamente irrazionali, e... e pazzi. E assurdi... Ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova».
Il tempo scorre veloce, il mercato asseconda ogni richiesta con umanoidi sempre più sofisticati che rimpiazzano gli umani, si creano relazioni sempre più complesse, dai confini fluidi. E magari c’è chi, da qualche parte nel mondo, sta già costruendo il sexbot che depone le uova.

L’Espresso 5.5.19
Con la macchina non è tradimento
colloquio con Kate Devlin


I miti greci e i robot del sesso. Ha unito mondi lontani Kate Devlin, accademica e scrittrice britannica, archeologa di formazione, docente di Intelligenza artificiale sociale e culturale al King’s College di Londra. E ha mostrato che questi universi sono molto più vicini
di quanto si creda. Si narra infatti che Protesilao, in partenza per la guerra
di Troia nel giorno delle nozze, si fece modellare una statua a immagine della moglie, Laodamia, per poterla tenere ogni notte accanto a sé nel letto. Un oggetto inanimato in grado di sostituire l’essere vivente più amato. E risulta da studi archeologici che, sempre nell’antica Grecia, facessero uso di oggetti di forma fallica per procurarsi piacere sessuale. Sex toys, insomma. Nel suo saggio “Turned On: Science, Sex and Robots” (Bloomsbury), Devlin analizza le reazioni della società al cambiamento tecnologico, in particolare le implicazioni sessuali della relazione uomo-macchina. Temi complessi, di cui la studiosa ha parlato il 4 maggio nella conferenza annuale TedX Roma “Society 5.0”.

Cosa c’entra l’archeologia con i sexbot?
«I robot del sesso, la loro capacità di sedurre, fanno parte del mito, della leggenda, della fantascienza. Dai tempi antichi di Laodamia fino alle serie tv del nostro secolo come “Westworld”, le macchine dalle sembianze umane hanno conquistato il nostro immaginario, le nostre speranze e paure. Come risulta da pitture murali, scritti e tragedie, sappiamo con certezza che nell’antica Grecia venivano utilizzati sex toys, vibratori in particolare, facevano parte del comportamento sessuale normale. E nelle epoche successive hanno continuato a utilizzarli. L’interazione con oggetti e tecnologie per raggiungere il piacere sessuale, dunque, fa parte della storia dell’uomo».

Il suo è un libro sul sesso?
«Non parla solo di sesso. O di robot. Parla di intimità, tecnologia, computer, psicologia. Storia e archeologia, amore e biologia. Di futuro, vicino e lontano: utopie e distopie della fantascienza, solitudine e amicizia, legge e etica, privacy. Soprattutto, racconta cosa significa essere umani in un mondo di macchine».

Cosa vuol dire in concreto?
«Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia diventa sempre più importante. Da qui nasce il problema di come condividere le nostre vite con robot e dispositivi dell’intelligenza artificiale, non ancora senzienti ma sempre più simili a esseri umani.
Basti pensare agli assistenti vocali: un software consente ad alcuni dispositivi di riconoscere e rispondere ai comandi vocali. Possono ricordarti la lista della spesa o regolare il riscaldamento e l’aria condizionata. Fornire previsioni del tempo, ricette, risultati sportivi. Siamo sicuri che nessuno rivolga domande oscene agli assistenti vocali? O che con loro dia libero sfogo a parole sporche?  O che addirittura si innamori di loro?
Ci siamo adattati in fretta a queste trasformazioni: ora entriamo in una fase nuova, molto interessante, in cui gli individui sono consapevoli che queste macchine non possono pensare al loro posto ma non sanno quale direzione prenderà il cambiamento».

Perché in molti hanno paura dei sexbot?
«Temono la tecnologia, poi le paure si sommano perché il sesso riguarda la sfera personale. Hanno paura di perdere il controllo, che il partner li sostituisca con una macchina, di restare soli».

Accoppiarsi con una macchina può essere considerato tradimento?
«Dal punto di vista tecnico non direi. E neanche legale: non si può chiedere
il divorzio, equiparare il rapporto con un robot all’adulterio, perché non è una persona. Tuttavia non esiste una regola generale, ogni coppia fa storia a sé, i due partner dovrebbero parlarne. Del resto alcune coppie non vogliono usare sex toys nei loro rapporti e altre ne sono entusiaste».

Quasi tutti i robot del sesso hanno sembianze femminili. Perché?
«I sexbot rappresentano un’evoluzione delle sex dolls, le bambole di silicone. Inoltre, gli sviluppatori sono in gran parte uomini, così come gli utenti. Credo che l’unico prototipo maschile sia Henry, inventato da Abyss Creations’, finito sulla copertina del New York Magazine».

Un gruppo di attivisti porta avanti una campagna per la messa al bando delle bambole e dei robot sessuali, perché la loro diffusione incoraggerebbe l’isolamento e la cultura della mercificazione delle donne. Cosa ne pensa?
«Gli attivisti mettono sullo stesso piano le relazioni uomo-robot e cliente- prostituta. E dunque sostengono che la diffusione dei sexbot potrebbe incentivare la violenza sessuale. Non condivido questa visione, ma su un punto sono d’accordo: i sexbot, così come sono concepiti oggi, rappresentano il corpo femminile come un oggetto.
E questo danneggia le donne, che già devono far fronte al “body shaming” quotidiano nei media, nei film, nella pubblicità e nella musica. Ma chiedere la messa al bando dei sexbot mi sembra davvero esagerato».

L’Espresso 5.5.19
Lettere
Aspettando l’educazione civica
risponde Stefania Rossini


Cara Rossini, di educazione civica nelle scuole si parla da decenni senza fare nulla. Eppure è una materia importante. Certamente la più formativa. Purtroppo nella scuola italiana l’educazione civica è la cenerentola delle materie. Il perché è semplice: per insegnarla bene ci vorrebbero degli insegnanti specializzati che insegnino soltanto “educazione civica”. Inoltre ci dovrebbe essere un esame finale e il voto di rendimento, che avrà un peso sulla promozione. Si dirà subito che il costo, per lo Stato, sarebbe altissimo. Io credo, e sono certo che moltissimi italiani, anche cattolici, sarebbero d’accordo, di sostituire finalmente l’insegna- mento dell’ora di religione (in contrasto con la Costituzione) con l’ora di educazione civica. Naturalmente gli attuali insegnanti di religione dovrebbero fare un corso e specializzarsi nella nuova materia. Ovviamente si dovrà rivedere il Concordato. Gli articoli 3 e 20 della nostra Costituzione daranno ai politici e ai legislatori l’appiglio legale per modificare il Concordato e sopprimere l’ora di religione cattolica. Non sarebbe la prima volta che si modifica il Concordato con la Santa Sede. Venne modificato nel 1984 durante il Governo di Bettino Craxi. Questa modifica, se realizzata, sarebbe un notevole successo storico del Parlamento e del nuovo Governo che usciranno dopo il voto sull’Europa.
Franco Vicentini, Treviso

Anche chi non è sostenitore dell’ora di religione cattolica (che sarebbe ormai saggio trasformare in un insegnamento di Storia della religioni), difficilmente sarà d’accordo
con la sua proposta, tanto radicale da voler scardinare un patto quasi secolare tra Stato e Chiesa per fare spazio a un’educazione alla cittadinanza, come se le due cose non potessero convivere. Tanto più che un’ennesima legge per introdurre l’educazione civica nelle scuole va proprio in questi giorni in Parlamento, portandosi dietro la solita scia di polemiche. C’è chi, come lei, vorrebbe una materia isolata con docenti specializzati e voti di profitto, chi ne introdurrebbe elementi in ogni materia di insegnamento, chi la ritiene pleonastica, chi addirittura dannosa perché toglierebbe tempo e impegno all’apprendimento. Qualcuno si chiederà: ma come, la materia non c’è già, non la volle Aldo Moro come ministro dell’Istruzione nel lontano 1958? In effetti Moro l’aveva istituita, ma nei decenni è stata dimenticata, resa marginale, affidata alla sensibilità di qualche docente volenteroso, riproposta da ogni ministro che “riformava” la scuola a modo suo, magari solo cambiandole il nome, come per esempio in Cittadinanza e Costituzione. Ma ora c’è fretta di tornare sull’argomento perché l’imbarbarimento delle giovani generazioni è sotto gli occhi di tutti e la violenza è arrivata anche nelle aule. Così il governo muscolare ha fatto una sintesi di 15 proposte di legge parlamentari e di una di iniziativa popolare (che ha raccolto 100 mila firme) e farà presto, prestissimo, come è sua abitudine. Anche perché il progetto fa scena e non costa niente: 33 ore di civismo e legalità spalmate qua e là sulle altre materie, senza un’ora di più di scuola, senza un euro di più per gli insegnanti.

L’Espresso 5.5.19
Eugenio Scalfari
Il vetro soffiato
Tolstoj, il violino e il pianoforte


Nei giorni scorsi ho letto attentamente un libro di Tolstoj intitolato “Sonata a Kreutzer”. Sono rimasto sbalordito non soltanto dal racconto ma anche dal titolo, importante per diverse ragioni.
Il racconto è fatto da un signore di mezza età (naturalmente siamo in Russia dove Tolstoj vive e scrive) che ha commesso un delitto: ha ucciso la propria moglie per una serie di incomprensioni non soltanto psicologiche, ma anche di fatti realmente avvenuti, privi però dei significati che il personaggio invece gli attribuisce. La prigione è durata otto anni e poi il suo comportamento e i dubbi insorti nei giudici che l’hanno condannato hanno abbreviato la pena e il risultato è stato la messa in libertà di quella persona. Il racconto, molto diffuso nei particolari, viene fatto dal protagonista del libro a un altro viaggiatore del tutto a lui ignoto che però è il solo che possa ascoltare in quel lungo viaggio in treno nello scompartimento che i due occupano. Quello che racconta non si ferma un attimo, quello che ascolta interviene di tanto in tanto e soltanto per la richiesta di qualche chiarimento. È una vita assai singolare quella raccontata dal protagonista del libro, durante la quale lui e sua moglie vivono per parecchi anni amandosi intensamente e anche fisicamente in certi momenti della giornata, mentre in altri l’amore è sostituito dall’odio, motivato da sciocchezze che l’uomo considera gravissime e la moglie egualmente. Insomma è un alternarsi continuo, nel racconto che costituisce il nerbo del libro, tra amore e odio. La conclusione è che il treno arriva al termine della corsa e i due interlocutori si salutano e il libro finisce lì. La lettura è affascinante per il lettore, del resto Tolstoj scrive come uno dei più grandi autori della storia letteraria dell’Ottocento e quindi non c’è da stupirsi del fascino che quel racconto suscita.
Resta da tornare sul titolo. Che cos’è Kreutzer? È una sonata di Beethoven per violino e pianoforte. E perché mai Tolstoj usa per la vicenda proprio quel brano musicale? La ragione è la seguente: la sonata di Beethoven si compone di quattro tempi, musicalmente parlando: nel primo tempo pianoforte e violino alternano o congiungono i loro suoni con piena armonia. Nel secondo tempo predomina la parte assegnata al pianoforte e il violino si limita ad un accompagnamento assai modesto. Nel tempo successivo le parti si invertono: quella assegnata al violino è dominante e il piano l’accompagna con un significato marginale. Il tempo finale vede i due strumenti che suonano con pieno vigore e quasi in lotta l’uno con l’altro. Il risultato è questo alternarsi di potenza musicale tra l’uno e l’altro strumento fino al punto in cui entrambi danno il massimo della propria parte facendo scaturire una conclusione musicale di formidabile significato e impressione sugli ascoltatori.
A questo punto il titolo del libro del quale abbiamo accennato il contenuto acquista un significato ulteriore: la sonata di Beethoven realizza tra i due strumenti un comportamento analogo a quello tra moglie e marito raccontato dal protagonista del libro stesso.
Questo modo di abbinare titolo e racconto è molto singolare ma rispecchia l’arte di Tolstoj: ha sempre raccontato nelle sue molteplici opere il bianco e nero, il bene e il male, la buona e la cattiva sorte, la tirannide e la libertà, la pace e la guerra, ma non sempre i titoli hanno affrontato direttamente il tema trattato. Questa è stata la grande arte di uno degli scrittori più importanti di tutta Europa; del resto lo si vede benissimo in “Anna Karenina”, in “Guerra e Pace” e in tutta l’opera di questo grandissimo artista e dei significati profondi che ciascuno dei suoi romanzi porta con sé. Qui naturalmente bisognerebbe che il lettore mentre legge ascoltasse la musica di Beethoven, questa sarebbe la pienezza e il maggior godimento e non è un caso che nella stessa epoca Tolstoj e Beethoven furono al vertice, l’uno nella letteratura e l’altro nella musica.
Naturalmente nella stessa epoca dominata letterariamente da Tolstoj ci furono altri artisti assai diversi ma di analoga importanza letteraria. Il più eminente è Proust e la sua “Recherche”, scrisse anche libri di assai minore importanza e la ragione è questa: la “Recherche” in apparenza è un unico libro ma nella sostanza sono almeno tre: tre diverse fasi della vita dell’autore perché la “Recherche” è un’autobiografia che però varia continuamente poiché riflette analoghe variazioni di Proust e delle persone da lui frequentate. Proust è Proust ma non è mai lo stesso e contemporaneamente registra nel suo racconto i mutamenti che avvengono intorno a lui; mutamenti reali e non fantasticati dall’autore del libro.
Nella stessa epoca e in modi completamente diversi della tecnica letteraria ma sostanzialmente analoghi nei contenuti c’è Kafka nell’Europa germanica, Joyce in Inghilterra. Questi nomi sono i più importanti ma ovviamente non i soli. Se per esempio prendiamo i grandi letterati del nostro Paese oltre a Manzoni potremmo indicare Alfieri e Foscolo. Limitarsi a questi nomi tuttavia non riflette la ricchezza della letteratura europea che a partire dall’Ottocento raggiunge probabilmente il massimo fino ai primi del Novecento, ci vorrebbe un libro ma qui ci limitiamo ad un articolo.

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L’Espresso 5.5.2019
Quella sinistra che vince
Sánchez in Spagna. Corbyn nel Regno Unito. Costa in Portogallo. E non solo. Ecco dove e come i socialisti e i verdi possono fermare l’onda sovranista il prossimo 26 maggio
di Gigi Riva


Sembrava peggio, fino all’altro ieri. Stando agli ultimi sondaggi nei ventotto Paesi dell’Unione europea in vista delle elezioni di fine maggio la sinistra larga, quella che va dai socialdemocratici all’ala più radicale- passando per i verdi, dà nuovi segni di vita. All’interno, s’intende, di un mosaico in cui il dettaglio dei singoli tasselli suggerisce letture assai diversificate, ma con indicazioni su una linea che potrebbe essere vincente se perseguita ovunque.
Il segnale più forte in questo senso è appena arrivato dal partito socialista di Pedro Sánchez, fresco trionfatore delle elezioni politiche in Spagna. Secondo le proiezioni demoscopiche, il 26 maggio il Psoe sarà uno dei partiti della sinistra che crescerà di più nella Ue, rispetto alle europee di cinque anni fa, grazie al netto profilo che si è dato di alternativa alla destra e di federatore di tutto il suo campo. Con un occhio particolarmente rivolto al tentativo di ridurre le disuguaglianze enormemente cresciute dall’inizio della crisi. Ancora meglio farà, dicono i sondaggi, il Labour inglese, dove in attesa della Brexit comunque si voterà per l’organismo comunitario ripudiato via referendum: il partito di Jeremy Corbyn avrebbe il gruppo nazionale maggioritario in seno al gruppo socialista con venti seggi, uno in più di cinque anni fa. Cosa se ne farà non è dato sapere, causa il per ora imperscrutabile sbocco dello snervante tira e molla tra Londra e Bruxelles. Sicuramente, tuttavia, Corbyn incassa i dividendi dei tentennamenti di Theresa May e di una politica che volge lo sguardo a sinistra nel tentativo di recuperare il suo elettorato storico, quei ceti popolari che al Labour, fino a pochi anni fa, avevano voltato le spalle.
Sánchez e Corbyn sorpasseranno così una socialdemocrazia tedesca logorata dal reiterato e infruttuoso appoggio alla grossa coalizione egemonizzata dalla cancelliera Angela Merkel (meno dieci seggi, a quota 17), per non dire del Pd che nel paragone con il 2014 sconta l’abnorme ed effimero exploit di Matteo Renzi e non supererà, secondo le ricerche, i 16 eletti contro i 31 che aveva. Mentre non conosce limiti la catastrofica caduta dei socialisti francesi, ridotti a mera testimonianza (4 anziché 12) quando sino a sette anni fa ancora esprimevano un presidente della Repubblica, François Hollande, prima di venire cannibalizzati dal loro figlio ingrato Emmanuel Macron, eversore dell’ “ancien régime” in nome di un “né-né” (né di destra né di sinistra) che ha spostato l’asse transalpino verso un duello tra centro ed estrema destra. Solo in piccola parte i voti persi dai socialisti andranno ad aumentare i seggi di La France Insoumise, il partito della sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, dato in crescita per le europee.
Germania, Francia e Italia: tre pesi massimi diventati il ventre molle quando erano stati l’architrave portante dell’idea progressista con numeri che, se ricordati, producono
solo nostalgia. E il denominatore comune del loro malessere è l’affannosa corsa al centro per essere rassicuranti con i mercati, le élite finanziarie, la borghesia, proprio nel momento in cui i cittadini si orientano verso un pensiero forte e una polarizzazione netta. Dei tedeschi abbiamo detto, la parabola di Renzi e del Pd la conosciamo, Hollande cominciò a suicidarsi con il famoso discorso in cui abbandonò i dettami del socialismo.
Ora guardano, gli ex pesi massimi, i risultati del loro fallimento, scoprono che un’altra strada era possibile non solo grazie ai casi dei Corbyn e dei Sánchez, ma anche di esperienze periferiche al cuore dell’Unione, in altri Paesi mediterranei, nel freddo Nord pur scosso da correnti sovraniste, persino nell’Est che tenne a battesimo il populismo.
Il Portogallo è l’esempio più eclatante. Da quattro anni il socialista Antonio Costa guida un governo di cui fanno parte, il Bloco de Esquerda, i verdi e il partito comunista. Ha trattato con la Troika il piano lacrime e sangue quando era sull’orlo del fallimento, riuscendo a coniugare una revisione della spesa pubblica con un welfare dignitoso. Le cifre dicono: deficit allo 0,5 per cento (nel 2011 era all’11 per cento, praticamente default), crescita stimata del Pil nel 2019 all’1,9 per cento e oltre il 2 per cento l’anno prossimo, disoccupazione al 6,3 per cento come non succedeva dal 2002. Tradotto significa, nelle intenzioni di voto, socialisti largamente in testa col 34,1 (e uno scranno in più a Bruxelles rispetto al passato) e il Bloco de Esquerda terza forza al 9,2. Un vantaggio rassicurante anche in vista delle politiche di autunno dove probabilmente ci sarà la conferma dell’esecutivo.
A oriente del Mediterraneo, la Grecia da grande malata è passata almeno nella categoria dei convalescenti. Alexis Tsipras e la sua formazione, Syriza, ha smussato alcune spigolature che potevano preludere a una Grexit per debiti, si è accollato finanziarie draconiane riuscendo tuttavia ad evitare il famoso paradosso per cui l’operazione è riuscita ma il paziente è morto. Atene è viva, ha appena annunciato che potrà restituire in anticipo al Fondo monetario 3,7 miliardi di euro, è uscita dal piano di salvataggio della Troika lo scorso agosto, torna a crescere pur segnando la disoccupazione più alta del Vecchio Continente (18,6 per cento). Nonostante i sacrifici imposti, misure che altrove avrebbero provocato uno sprofondo di consenso, Syriza resta alta al 32 per cento, aumenta la propria rappresentanza a Bruxelles (7 contro 6) e non dispera in un sorpasso sul filo di lana di Nuova Democrazia, la destra che aderisce al Ppe, ora in vantaggio di tre punti.
Il Grande Nord temeva che la crisi migratoria e le sue conseguenze potessero rappresentare la pietra tombale sugli esperimenti forse più riusciti di socialdemocrazia virtuosa. Ipotesi al momento scongiurata seppure di un soffio. La Svezia di Greta Thunberg nel settembre scorso ha riconfermato alla guida del Paese il premier Stefan Lofven, scongiurando l’assalto dei “Democratici”, nome che si sono dati i nazionalisti euroscettici e anti-migranti ora accreditati del 19,2 per cento e distanziati di quasi nove punti dai socialdemocratici. Più recentemente, a metà aprile, i finlandesi hanno riportato al primo posto i socialdemocratici di Antti Rinne, seppur di un’incollatura (0,2 per cento) rispetto ai “Veri finlandesi” alleati della galassia salviniana. Non un trionfo ma almeno un’inversione di tendenza rispetto alla débâcle subita quattro anni prima. Un segno di un risveglio che si accompagna a una tendenza continentale, seppur timida. Nell’Est Europa suffragata, questa tendenza, da quanto successo in Slovacchia, forse il Paese che più di tutti aveva accettato il liberismo selvaggio di mercato una volta archiviata l’esperienza comunista. Qui non si tratta del dualismo tra destra e sinistra, ancora largamente confuso, ma del convinto europeismo di Zuzana Caputova, 45 anni, l’avvocatessa ambientalista prima donna ad arrivare alla presidenza della Repubblica dopo le consultazioni del 31 marzo scorso. La carica è poco più che onorifica però rischia di rompere il patto euroscettico tra le nazioni del gruppo di Visegrad di cui Bratislava fa parte. Anche nei Paesi confinanti, a lungo dominati da partiti xenofobi quando non apertamente razzisti, cominciano a prendere coraggio forme di opposizione di eterogenea natura che uniscono sinistra, militanti dei diritti umani, ecologisti. Succede nella Polonia di Jaroslav Kaczynski come nell’Ungheria di Viktor Orbán.
Certo, si tratta di segnali in controtendenza rispetto a un quadro complessivo che a livello Ue vedrà comunque i socialisti perdere seggi, nel complesso, rispetto al 2014 (e i verdi guadagnarne 5 o 6). Il totale della sinistra dunque sarà un segno meno. Bisogna rallegrarsi per una “gloriosa sconfitta”? Certo che no. Ma rispetto al 2014 è cambiato il mondo. Cinque anni in una politica che muta vorticosamente sono un’era geologica. E oggi sembra rallentare la deriva a destra. E spunta qualche fiore al limite del deserto attraversato dall’universo progressista.

L’Espresso 5.5.19
Tutti a scuola da Pedro contro i fantasmi del passato
di Emanuele Felice


Il successo di Sánchez non è solo una speranza che rinasce, nel quarto paese più importante dell’Unione. Ma può e deve rappresentare un insegnamento vitale per il Pd italiano e per la sinistra europea tutta, di fronte alla sfida dei nazional-populisti. Per l’idea di società che propone, la «narrazione»: il primo fra gli ingredienti che impastano la politica, e le leadership. Ma anche per la coerenza strategica e l’abilità tattica: le due gambe senza le quali non si va da nessuna parte, e qualunque orizzonte rimane un mi-raggio. Il tutto condito da un po’ di fortuna, che non guasta mai in questi casi (aiuta gli audaci).
Sull’idea di società, inutile girarci attorno: Sánchez fa risorgere il socialismo spagnolo su un terreno felicemente progressista. La sua Spagna è europeista, ambientalista, femminista. Plurale, perché cerca il dialogo con le autonomie anziché lo scontro. E sociale. Sánchez ha proposto di aumentare il salario minimo, di alzare le tasse sui redditi più alti e sulle grandi corporation, di introdurre una patrimoniale: insomma di affrontare il grande tema delle disuguaglianze. I diritti vecchi e nuovi che si tengono insieme, si rafforzano a vicenda, proprio come nella migliore tradizione della sinistra. La destra peggiore è venuta fuori anche in Spagna, certo: ma è stata sconfitta, in modo chiaro. Perché dall’altra parte ha trovato un paese democraticamente maturo, fatto di cittadini consapevoli e forse perfino ottimisti, che hanno visto nel Partito socialista e nel suo leader l’alternativa ai fantasmi del passato.
Ora, sarebbe troppo facile dire che Sánchez ha vinto perché ha fatto tutto il contrario di quello che proponeva da noi il Pd a guida renziana: che infatti è sceso al minimo storico. In realtà nei governi Pd ci sono state diverse misure di orientamento progressista. Ma erano timide, ambigue, accompagnate da messaggi e interventi di natura opposta. Le norme contro il capolarato, assieme all’abolizione dell’articolo 18. Una buona legge sulle unioni civili (cui manca solo l’adozione), ma scarso coraggio sulla cittadinanza ai figli di immigrati. Il reddito di inclusione partito tardi e male, a fronte dell’abolizione indiscriminata delle tasse sulla prima casa, anche per i più ricchi. Più soldi in tasca per i ceti medi, gli 80 euro; ma la proposta di un salario minimo legale arrivata solo nel gennaio 2018, quando ormai si era in campagna elettorale. Il tutto condito da una narrazione e perfino da atteggiamenti, quelli del leader e dei suoi collaboratori, lontani dalla tradizione della sinistra. Difettavano perfino di europeismo, strizzando l’occhio ai populisti, ignoravano una questione tanto importante qual è l’ambiente. Guardava al centro, Matteo Renzi, in direzione opposta a quella di Sánchez. E del resto ancora oggi nel Pd alcuni preferiscono quella sponda, più che i socialisti e la sinistra europei.
Ma l’esito delle elezioni spagnole deve insegnarci qualcosa anche sul piano della coerenza strategica. E forse perfino della tattica. Pochi ricorda- no che quando Sánchez divenne per la prima volta segretario del Psoe nel 2014, veniva considerato poco più che un ingenuo belloccio: messo lì per soddisfare il grande pubblico, che tanto poi c’era la solita nomenclatura a comandare. Ebbene, da allora le cose sono molto cambiate. Sánchez ha vinto le sue battaglie proprio contro i maggiorenti del partito, che mai avrebbero voluto l’alleanza con Podemos o con i catalani (li chiamavano addirittura golpisti) e che acconsentirono alla nascita dell’ultimo governo Rajoy. Contro quella scelta Sánchez si dimise, nel 2016, anche da deputato. Sfidò apertamente la nomenclatura in nuove primarie (da notare: quella nomenclatura «centrista» aveva la sua roccaforte nell’Andalusia sussidiata e clientelare). La sconfisse, mobilitando nuove energie che pochi credevano esistessero ancora. In questo senso, la sua traiettoria è davvero la nemesi di quella di Renzi: lui era partito per rottamare, ha finito per allearsi con i cacicchi del Sud, o per candidare Casini a Bologna, mentre i giovani dirigenti più preparati (i migliori, spesso) venivano messi ai margini.
Nel giugno 2018 Sanchez diventava primo ministro, sfiduciando Rajoy, alla testa di una larga alleanza che includeva Podemos e gli indipendentisti. Lui che era stato solo secondo nelle urne, dieci punti dietro i popolari. L’asse della politica spagnola virava di 180 gradi, grazie a quello che in fondo è un classico ribaltone parlamentare. Ma la buona tattica è questo: capacità di cogliere il momento opportuno, con spregiudicatezza. E poi, in un sistema proporzionale (come il nostro, voluto dal Pd), le coalizioni si formano dopo il voto, nulla è già scritto in partenza. Adesso, meno di un anno dopo, l’azzardo di Sánchez è stato premiato dagli elettori. Ampiamente: i socialisti sono diventati primo partito e i popolari, senza più il potere e travolti dagli scandali, sono crollati.
Certo, c’è stata anche fortuna. Un’economia in crescita, peraltro in modo sbilanciato (la disoccupazione resta molto alta): cosa che reclama politiche sociali, di cui peraltro ora ci sono le risorse. Anche, paradossalmente, l’emergere di un partito di estrema destra apertamente franchista, che ha spaventato molti elettori portandoli alle urne e facendoli convergere sulla grande forza alternativa, i Socialisti. Infine il sistema elettorale di attribuzione dei seggi, che favorisce i partiti maggiori, con il centro-destra per la prima volta diviso in tre tronconi. Ma la fortuna aiuta gli audaci, come si diceva. Ha aiutato chi maggior- mente ha osato: per visione, coerenza strategica, abilità tattica. Con in più la capacità di proporre una classe dirigente nuova, giovane e preparata, contro i vecchi potentati incancreniti. Sánchez oggi è forse il più importante premier di sinistra nel mondo. E guida il primo partito socialista d’Europa. Dopo aver vinto battaglie difficili e coraggiose, in cui si è giocato tutto. Saprà imparare il nuovo Pd da questa storia?

L’Espresso 5.5.19
Digisex
I nuovi amanti
Sexbot, ovvero robot pensati per offrire piacere
e, in futuro, addirittura amore. Tra umanoidi e sex doll sta nascendo un’ inaspettata identità sessuale. Che solleva profonde questioni etiche e filosofiche
di Emanuele Coen


Fate l’amore, non la guerra». In un futuro distopico non troppo lontano potrebbe essere lo slogan pubblicitario di una casa produttrice di sex robot. A differenza degli umanoidi killer, progettati per seminare morte tra i soldati nemici, i “sexbot” sono macchine pensate per sostituire gli esseri umani sotto le lenzuola, offrire piacere sessuale e addirittura amore. Già disponibili e configurabili in base ai propri gusti, basta fare un giro sul Web, pronti a soddisfare desideri sessuali e anche qualcosa di più. “Frigid Farrah” è programmata per dire “no”, resistere alle avance sessuali del partner o addirittura mettere in pratica violenze sessuali. Il motto commerciale di un altro robot intelligente, Young Yoko, recita «così giovane, appena 18 anni, che aspetta solo te per imparare». Poi c’è “Samantha”, creata da Sergi Santos, ingegnere elettronico e responsabile della compagnia robotica Synthea Amatus, talmente verosimile che nel 2017 all’Ars Electronica Festival a Linz, in Austria, fu letteralmente presa d’assalto, “violentata” da un gruppo di uomini eccitati. Una scena raccapricciante. E così via, i robot del sesso hanno nomi ammiccanti: Roxxxy, Denyse, Solana, Isabel, ma anche Rbert o Stew. Dispositivi dotati di intelligenza artificiale, più evoluti delle sex dolls, le bambole in silicone per uso domestico o da bordello.

GALASSIA DIGISEXUAL
Se l’identità sessuale è un concetto sempre più variegato, anche l’offerta sintetica si fa più ricca e va incontro a esigenze in continua evoluzione. Persone demi-sessuali, in grado cioè di sviluppare attrazione fisica solo per persone con cui hanno una forte relazione emotiva; ases- suali, che non provano alcuna attrazione fisica, o ancora “skoliosexual”, individui attratti da persone che non si riconoscono nell’idea secondo cui esistono solo due generi, maschile e femminile. E così via. Per definire invece i pionieri dell’interazione sessuale uomo-macchina alcuni esperti hanno coniato il termine “digisexual”, che definisce una identità sessuale nuova da estendere anche a tutti coloro, ben più numerosi, che vivono immersi in un mondo dominato da pornografia digitale, “teledildonics”, vale a dire sex toy azionati a distanza con l’aiuto di computer, applicazioni per incontri sessuali. Nei prossimi anni i digisexual aumenteranno.
È suggestivo e inquietante lo scenario disegnato nel saggio “Benvenuti nel 2050. Cambiamenti, criticità e curiosità” (Egea) di Cristina Pozzi, bocconiana, imprenditrice sociale, esperta di tecnologie emergenti e visioni future. L’autrice, unica Young global leader 2019 per l’Italia di Forbes, prevede che fra trent’anni i robot umanoidi potranno assumere la personalità o l’aspetto estetico che preferiamo: una star del cinema, una ex fidanzata, un defunto, sempre che questo abbia lasciato il consenso, riportandolo in vita. Navigando on line potremmo ritrovarci a chiacchierare con robot in social network per persone scomparse, in un’epoca in cui sarà del tutto normale fare sesso con una macchina.
Già ora, del resto, la trasformazione digitale della specie è una delle grandi questioni del nostro tempo: non a caso si intitola “Society 5.0 - A human centric future” il TedX Roma che si è svolto il 4 maggio al convention center La Nuvola: 16 speaker provenienti da ogni parte del mondo tra cui Kate Devlin, per riportare l’uomo al centro di scelte e obiettivi.
«La società 5.0 non dovrà più basarsi sulla produzione fine a se stessa di beni, bensì sulla definizione delle soluzioni che realmente servano all’individuo», spiega Emilia Garito, curatrice di TedX Roma e fondatrice della società Quantum Leap Ip: «Vale per ogni settore, anche quello delle relazioni sessuali. In futuro l’offerta sarà sempre più estrema, tesa alla massimizzazione del profitto di chi mette i sexbot sul mercato. L’interazione uomo-macchina tuttavia non deve trasformarsi in compromesso, occorre mantenere spirito critico e libertà di giudizio di fronte al potere della tecnologia, che è in mano a pochi».
Al di là della curiosità, a volte morbosa, e dell’apparente frivolezza dell’argomento, l’idea che esistano robot per raggiungere l’orgasmo, o intessere una relazione più articolata, solleva una serie di questioni etiche e filosofiche: procurarsi il piacere da soli, a volte con l’aiuto di oggetti, è sesso? C’è qualcosa di immorale nel comprare e nell’avere rapporti con una macchina? Le persone che fanno sesso con un robot hanno un’inclinazione a praticare violenza sugli altri e sono incapaci di costruire relazioni affettive stabili con i propri simili? Temi di notevole portata, ai quali Maurizio Balistreri, esperto di bioetica e ricercatore di Filosofia morale dell’università di Torino, ha dedicato il libro “Sex Robot - L’amore al tempo delle macchine” (Fandango libri). «Dalla nostra analisi emerge che il sesso non è per sua natura relazionale e che, pertanto, così come possiamo avere rapporti sessuali a pagamento, con persone sconosciute, a distanza per telefono oppure facendo sesso in una realtà virtuale, allo stesso modo possiamo benissimo avere relazioni sessuali anche con i robot», dice Balistreri.
E così, dopo aver sostituito i lavoratori, i robot si apprestano a mandare in pensione anche gli amanti. Ma cosa ne sarà dell’amore se le nostre relazioni sessuali si consumeranno con una macchina? «È vero che attraverso i robot del sesso non possiamo avere gli stessi rapporti che abbiamo con altri esseri viventi: è difficile riuscire ad amare un robot e anche se fossimo in grado di farlo il robot non potrebbe ricambiare i nostri sentimenti», aggiunge il ricercatore: «Ma se l’autoerotismo è sesso, allora possiamo fare sesso anche con i robot: possono aiutarci a raggiungere il piacere e soddisfare i nostri desideri sessuali. I sex robot esistono ve- ramente ed è arrivato il momento di prenderli sul serio».

MA SI PUÒ AMARE UN ROBOT?
Chi li ha presi sul serio, già da tempo, sono il cinema, la tv, la letteratura. Film come “Lei (Her)” di Spike Jonze, che descrive una relazione sentimentale tra il protagonista e un sistema operativo dotato di intelligenza artificiale. Oppure la serie tv “Westworld - Dove tutto è concesso” con le sue scene di sesso spinto, ideata da Jonathan Nolan e Lisa Joy e basata sul film “Il mondo dei robot” (We- stworld, 1973) scritto e diretto da Michael Crichton. E più di recente la serie di animazione antologica di Netflix “Love, Death & Robots”, creata da David Fincher e Tim Miller, che mescola estetica da videogiochi, fantascienza, horror e fantasy. Tra gli episodi colpisce “La testimone”, in cui la protagonista, che lavora in un bordello in cui gli uomini si accoppiano con i robot, assiste a un omicidio e scappa dall’assassino per le strade di una città surreale. C’è poi il nuovo romanzo retrofuturista di Ian McEwan, Machines like me (J. Cape, pp. 320, £ 18,99)
Sex robot, Maurizio Balistreri (Fandango, pp. 282, € 18)
Il disagio del desiderio, Paola Marion (Donzelli, pp. 208, € 28)
“Machines like me” (edito da Jonathan Cape), la storia del triangolo amoroso tra Charlie, la giovane Miranda e il robot quasi umano Adam, bello e forte, plasmato e programmato dalla coppia. Una storia ucronica ambientata a Londra nei primi anni Ottanta, in cui la Gran Bretagna ha perso la guerra delle Falkland e il matematico inglese Alan Turing invece di essere perseguitato in quanto omosessuale è uno scienziato di successo nel campo dell’intelligenza artificiale. Un romanzo in cui McEwan mette in guardia i lettori dal potere di creare robot fuori dal nostro controllo e pone questioni universali: cosa ci rende umani? Le nostre azioni o le nostre riflessioni interiori? Una macchina può comprendere il cuore di un uomo? Si può ipotizzare l’attrazione sessuale di un essere umano per un robot? Questioni che indagano i meccanismi della mente umana, e che si po- ne anche Paola Marion, psicoanalista, direttore della Rivista di psicoanalisi e autrice del saggio “Il disagio del desiderio” (Donzelli editore): «Non so se verso un robot si possa parlare di desiderio in senso vero e proprio. Il desiderio sessuale, per come noi ancora lo intendiamo, comprende un altro a cui rivolgersi e a cui tendere. Mette in gioco, cioè, la relazione con l’altro», afferma Marion: «Nel caso della sessualità mette in gioco il corpo e i corpi in relazione tra di loro. Il robot rappresenta un oggetto inanimato, anche se dotato di intelligenza artificiale, che può soddisfare senza coinvolgere relazione e corporeità. Mi pare questa la vera rottura».
Come è facile immaginare, le risposte non sono univoche. Un’altra esperta, Georgia Zara, psicologa e criminologa, docente nelle università di Torino e di Cambridge, alla domanda se si possa avere una relazione che implichi affetto, sessualità e investimento emozionale con un sexbot, risponde così: «La risposta più semplice è “sì”. Esistono relazioni sintetiche nelle quali si investe una forte carica affettiva. Gli studi scientifici evidenziano che quanto più un robot ha sembianze umane, tanto maggiore è il legame che si potrebbe venire a creare: una sorta di “illusione antropomorfica”. L’interazione fisica con i sexbot permetterebbe di avere un amante sempre diverso, senza controversie, con il quale tutto è possibile», dice Zara, che poi affronta altri aspetti, toccati anche nel saggio a sua firma pubblicato nel libro di Balistreri. La docente, infatti, è responsabile scientifica del primo progetto in Italia sull’uso dei robot per il trattamento degli autori di reati sessuali, intitolato S.o.r.a.t. (Sex offenders risk assessment and treatment), che vede coinvolti tra gli altri il Dipartimento di Psicologia dell’ateneo torinese e il Gruppo Abele, su un campione di 71 sex offender maschi, età media 47 anni, ai quali sono state mostrate quattro immagini raffiguranti due sexbot adulti, uomo e donna, e due bambini, maschio e femmina, allo scopo di studiare le loro reazioni. Argomento controverso e difficile: al momento non ci sono sufficienti evidenze scientifiche per dire che l’utilizzo dei sexbot possa inibire il passaggio all’abuso, ma lo studio non è ancora ultimato.

IL RISCHIO DELLA VIOLENZA
Una delle critiche che vengono rivolte agli androidi riguarda il rischio della normalizzazione della violenza sessuale. «Il rischio non è solo possibile, ma anche probabile. In uno studio sul diniego nei sex offender recentemente pubblicato, si evidenzia il ruolo delle fantasie sessuali nelle dinamiche sessualmente abusanti», aggiunge l’esperta. Secondo la ricerca, se la fantasia sessuale è quella del dominio e del controllo del partner, un sexbot può incoraggiarla. Se la fantasia è di tipo feticista, coinvolgendo solo alcune parti del corpo, un sexbot può alimentare il gioco erotico. «Sebbene i sexbot possano agevolare persone in difficoltà nella sfera intima o fungere semplicemente da sex toy tecnologicamente avanzati, dal punto di vista psicosociale e clinico non è da escludere che l’utilizzo di tali dispositivi possa diventare problematico, laddove il sexbot diventa il sostituto esclusivo dell’altro», conclude Zara, che porta l’esempio di Lilly, una donna francese che dice di essere attratta solo dai robot e di volerne sposare uno, dopo le esperienze deludenti con gli uomini. Del resto qualche tempo fa, in Giappone, un uomo di 35 anni, Akihiko Kondo, ha portato all’alta- re un ologramma, la versione peluche della popstar Hatsune Miku. Il matrimonio non ha alcun valore legale, naturalmente, ma è la spia di un fenomeno in evoluzione.
Nascono alchimie misteriose, legami inediti, forti e inspiegabili.
Viene in mente la scena finale di “Io e Annie”, il celebre film di Woody Allen, con la voce fuori campo del protagonista Alvy: «Quella vecchia barzelletta, sapete... Quella dove uno va dallo psichiatra e dice: “Dottore mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina”, e il dottore gli dice: “Perché non lo interna?”, e quello risponde: “E poi a me le uova chi me le fa?”.
Beh, credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna. E cioè che sono assolutamente irrazionali, e... e pazzi. E assurdi... Ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova».
Il tempo scorre veloce, il mercato asseconda ogni richiesta con umanoidi sempre più sofisticati che rimpiazzano gli umani, si creano relazioni sempre più complesse, dai confini fluidi. E magari c’è chi, da qualche parte nel mondo, sta già costruendo il sexbot che depone le uova.

L’Espresso 5.5.19
Con la macchina non è tradimento
colloquio con Kate Devlin


I miti greci e i robot del sesso. Ha unito mondi lontani Kate Devlin, accademica e scrittrice britannica, archeologa di formazione, docente di Intelligenza artificiale sociale e culturale al King’s College di Londra. E ha mostrato che questi universi sono molto più vicini
di quanto si creda. Si narra infatti che Protesilao, in partenza per la guerra
di Troia nel giorno delle nozze, si fece modellare una statua a immagine della moglie, Laodamia, per poterla tenere ogni notte accanto a sé nel letto. Un oggetto inanimato in grado di sostituire l’essere vivente più amato. E risulta da studi archeologici che, sempre nell’antica Grecia, facessero uso di oggetti di forma fallica per procurarsi piacere sessuale. Sex toys, insomma. Nel suo saggio “Turned On: Science, Sex and Robots” (Bloomsbury), Devlin analizza le reazioni della società al cambiamento tecnologico, in particolare le implicazioni sessuali della relazione uomo-macchina. Temi complessi, di cui la studiosa ha parlato il 4 maggio nella conferenza annuale TedX Roma “Society 5.0”.

Cosa c’entra l’archeologia con i sexbot?
«I robot del sesso, la loro capacità di sedurre, fanno parte del mito, della leggenda, della fantascienza. Dai tempi antichi di Laodamia fino alle serie tv del nostro secolo come “Westworld”, le macchine dalle sembianze umane hanno conquistato il nostro immaginario, le nostre speranze e paure. Come risulta da pitture murali, scritti e tragedie, sappiamo con certezza che nell’antica Grecia venivano utilizzati sex toys, vibratori in particolare, facevano parte del comportamento sessuale normale. E nelle epoche successive hanno continuato a utilizzarli. L’interazione con oggetti e tecnologie per raggiungere il piacere sessuale, dunque, fa parte della storia dell’uomo».

Il suo è un libro sul sesso?
«Non parla solo di sesso. O di robot. Parla di intimità, tecnologia, computer, psicologia. Storia e archeologia, amore e biologia. Di futuro, vicino e lontano: utopie e distopie della fantascienza, solitudine e amicizia, legge e etica, privacy. Soprattutto, racconta cosa significa essere umani in un mondo di macchine».

Cosa vuol dire in concreto?
«Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia diventa sempre più importante. Da qui nasce il problema di come condividere le nostre vite con robot e dispositivi dell’intelligenza artificiale, non ancora senzienti ma sempre più simili a esseri umani.
Basti pensare agli assistenti vocali: un software consente ad alcuni dispositivi di riconoscere e rispondere ai comandi vocali. Possono ricordarti la lista della spesa o regolare il riscaldamento e l’aria condizionata. Fornire previsioni del tempo, ricette, risultati sportivi. Siamo sicuri che nessuno rivolga domande oscene agli assistenti vocali? O che con loro dia libero sfogo a parole sporche?  O che addirittura si innamori di loro?
Ci siamo adattati in fretta a queste trasformazioni: ora entriamo in una fase nuova, molto interessante, in cui gli individui sono consapevoli che queste macchine non possono pensare al loro posto ma non sanno quale direzione prenderà il cambiamento».

Perché in molti hanno paura dei sexbot?
«Temono la tecnologia, poi le paure si sommano perché il sesso riguarda la sfera personale. Hanno paura di perdere il controllo, che il partner li sostituisca con una macchina, di restare soli».

Accoppiarsi con una macchina può essere considerato tradimento?
«Dal punto di vista tecnico non direi. E neanche legale: non si può chiedere
il divorzio, equiparare il rapporto con un robot all’adulterio, perché non è una persona. Tuttavia non esiste una regola generale, ogni coppia fa storia a sé, i due partner dovrebbero parlarne. Del resto alcune coppie non vogliono usare sex toys nei loro rapporti e altre ne sono entusiaste».

Quasi tutti i robot del sesso hanno sembianze femminili. Perché?
«I sexbot rappresentano un’evoluzione delle sex dolls, le bambole di silicone. Inoltre, gli sviluppatori sono in gran parte uomini, così come gli utenti. Credo che l’unico prototipo maschile sia Henry, inventato da Abyss Creations’, finito sulla copertina del New York Magazine».

Un gruppo di attivisti porta avanti una campagna per la messa al bando delle bambole e dei robot sessuali, perché la loro diffusione incoraggerebbe l’isolamento e la cultura della mercificazione delle donne. Cosa ne pensa?
«Gli attivisti mettono sullo stesso piano le relazioni uomo-robot e cliente- prostituta. E dunque sostengono che la diffusione dei sexbot potrebbe incentivare la violenza sessuale. Non condivido questa visione, ma su un punto sono d’accordo: i sexbot, così come sono concepiti oggi, rappresentano il corpo femminile come un oggetto.
E questo danneggia le donne, che già devono far fronte al “body shaming” quotidiano nei media, nei film, nella pubblicità e nella musica. Ma chiedere la messa al bando dei sexbot mi sembra davvero esagerato».

L’Espresso 5.5.19
Lettere
Aspettando l’educazione civica
risponde Stefania Rossini


Cara Rossini, di educazione civica nelle scuole si parla da decenni senza fare nulla. Eppure è una materia importante. Certamente la più formativa. Purtroppo nella scuola italiana l’educazione civica è la cenerentola delle materie. Il perché è semplice: per insegnarla bene ci vorrebbero degli insegnanti specializzati che insegnino soltanto “educazione civica”. Inoltre ci dovrebbe essere un esame finale e il voto di rendimento, che avrà un peso sulla promozione. Si dirà subito che il costo, per lo Stato, sarebbe altissimo. Io credo, e sono certo che moltissimi italiani, anche cattolici, sarebbero d’accordo, di sostituire finalmente l’insegna- mento dell’ora di religione (in contrasto con la Costituzione) con l’ora di educazione civica. Naturalmente gli attuali insegnanti di religione dovrebbero fare un corso e specializzarsi nella nuova materia. Ovviamente si dovrà rivedere il Concordato. Gli articoli 3 e 20 della nostra Costituzione daranno ai politici e ai legislatori l’appiglio legale per modificare il Concordato e sopprimere l’ora di religione cattolica. Non sarebbe la prima volta che si modifica il Concordato con la Santa Sede. Venne modificato nel 1984 durante il Governo di Bettino Craxi. Questa modifica, se realizzata, sarebbe un notevole successo storico del Parlamento e del nuovo Governo che usciranno dopo il voto sull’Europa.
Franco Vicentini, Treviso

Anche chi non è sostenitore dell’ora di religione cattolica (che sarebbe ormai saggio trasformare in un insegnamento di Storia della religioni), difficilmente sarà d’accordo
con la sua proposta, tanto radicale da voler scardinare un patto quasi secolare tra Stato e Chiesa per fare spazio a un’educazione alla cittadinanza, come se le due cose non potessero convivere. Tanto più che un’ennesima legge per introdurre l’educazione civica nelle scuole va proprio in questi giorni in Parlamento, portandosi dietro la solita scia di polemiche. C’è chi, come lei, vorrebbe una materia isolata con docenti specializzati e voti di profitto, chi ne introdurrebbe elementi in ogni materia di insegnamento, chi la ritiene pleonastica, chi addirittura dannosa perché toglierebbe tempo e impegno all’apprendimento. Qualcuno si chiederà: ma come, la materia non c’è già, non la volle Aldo Moro come ministro dell’Istruzione nel lontano 1958? In effetti Moro l’aveva istituita, ma nei decenni è stata dimenticata, resa marginale, affidata alla sensibilità di qualche docente volenteroso, riproposta da ogni ministro che “riformava” la scuola a modo suo, magari solo cambiandole il nome, come per esempio in Cittadinanza e Costituzione. Ma ora c’è fretta di tornare sull’argomento perché l’imbarbarimento delle giovani generazioni è sotto gli occhi di tutti e la violenza è arrivata anche nelle aule. Così il governo muscolare ha fatto una sintesi di 15 proposte di legge parlamentari e di una di iniziativa popolare (che ha raccolto 100 mila firme) e farà presto, prestissimo, come è sua abitudine. Anche perché il progetto fa scena e non costa niente: 33 ore di civismo e legalità spalmate qua e là sulle altre materie, senza un’ora di più di scuola, senza un euro di più per gli insegnanti.

L’Espresso 5.5.19
Eugenio Scalfari
Il vetro soffiato
Tolstoj, il violino e il pianoforte


Nei giorni scorsi ho letto attentamente un libro di Tolstoj intitolato “Sonata a Kreutzer”. Sono rimasto sbalordito non soltanto dal racconto ma anche dal titolo, importante per diverse ragioni.
Il racconto è fatto da un signore di mezza età (naturalmente siamo in Russia dove Tolstoj vive e scrive) che ha commesso un delitto: ha ucciso la propria moglie per una serie di incomprensioni non soltanto psicologiche, ma anche di fatti realmente avvenuti, privi però dei significati che il personaggio invece gli attribuisce. La prigione è durata otto anni e poi il suo comportamento e i dubbi insorti nei giudici che l’hanno condannato hanno abbreviato la pena e il risultato è stato la messa in libertà di quella persona. Il racconto, molto diffuso nei particolari, viene fatto dal protagonista del libro a un altro viaggiatore del tutto a lui ignoto che però è il solo che possa ascoltare in quel lungo viaggio in treno nello scompartimento che i due occupano. Quello che racconta non si ferma un attimo, quello che ascolta interviene di tanto in tanto e soltanto per la richiesta di qualche chiarimento. È una vita assai singolare quella raccontata dal protagonista del libro, durante la quale lui e sua moglie vivono per parecchi anni amandosi intensamente e anche fisicamente in certi momenti della giornata, mentre in altri l’amore è sostituito dall’odio, motivato da sciocchezze che l’uomo considera gravissime e la moglie egualmente. Insomma è un alternarsi continuo, nel racconto che costituisce il nerbo del libro, tra amore e odio. La conclusione è che il treno arriva al termine della corsa e i due interlocutori si salutano e il libro finisce lì. La lettura è affascinante per il lettore, del resto Tolstoj scrive come uno dei più grandi autori della storia letteraria dell’Ottocento e quindi non c’è da stupirsi del fascino che quel racconto suscita.
Resta da tornare sul titolo. Che cos’è Kreutzer? È una sonata di Beethoven per violino e pianoforte. E perché mai Tolstoj usa per la vicenda proprio quel brano musicale? La ragione è la seguente: la sonata di Beethoven si compone di quattro tempi, musicalmente parlando: nel primo tempo pianoforte e violino alternano o congiungono i loro suoni con piena armonia. Nel secondo tempo predomina la parte assegnata al pianoforte e il violino si limita ad un accompagnamento assai modesto. Nel tempo successivo le parti si invertono: quella assegnata al violino è dominante e il piano l’accompagna con un significato marginale. Il tempo finale vede i due strumenti che suonano con pieno vigore e quasi in lotta l’uno con l’altro. Il risultato è questo alternarsi di potenza musicale tra l’uno e l’altro strumento fino al punto in cui entrambi danno il massimo della propria parte facendo scaturire una conclusione musicale di formidabile significato e impressione sugli ascoltatori.
A questo punto il titolo del libro del quale abbiamo accennato il contenuto acquista un significato ulteriore: la sonata di Beethoven realizza tra i due strumenti un comportamento analogo a quello tra moglie e marito raccontato dal protagonista del libro stesso.
Questo modo di abbinare titolo e racconto è molto singolare ma rispecchia l’arte di Tolstoj: ha sempre raccontato nelle sue molteplici opere il bianco e nero, il bene e il male, la buona e la cattiva sorte, la tirannide e la libertà, la pace e la guerra, ma non sempre i titoli hanno affrontato direttamente il tema trattato. Questa è stata la grande arte di uno degli scrittori più importanti di tutta Europa; del resto lo si vede benissimo in “Anna Karenina”, in “Guerra e Pace” e in tutta l’opera di questo grandissimo artista e dei significati profondi che ciascuno dei suoi romanzi porta con sé. Qui naturalmente bisognerebbe che il lettore mentre legge ascoltasse la musica di Beethoven, questa sarebbe la pienezza e il maggior godimento e non è un caso che nella stessa epoca Tolstoj e Beethoven furono al vertice, l’uno nella letteratura e l’altro nella musica.
Naturalmente nella stessa epoca dominata letterariamente da Tolstoj ci furono altri artisti assai diversi ma di analoga importanza letteraria. Il più eminente è Proust e la sua “Recherche”, scrisse anche libri di assai minore importanza e la ragione è questa: la “Recherche” in apparenza è un unico libro ma nella sostanza sono almeno tre: tre diverse fasi della vita dell’autore perché la “Recherche” è un’autobiografia che però varia continuamente poiché riflette analoghe variazioni di Proust e delle persone da lui frequentate. Proust è Proust ma non è mai lo stesso e contemporaneamente registra nel suo racconto i mutamenti che avvengono intorno a lui; mutamenti reali e non fantasticati dall’autore del libro.
Nella stessa epoca e in modi completamente diversi della tecnica letteraria ma sostanzialmente analoghi nei contenuti c’è Kafka nell’Europa germanica, Joyce in Inghilterra. Questi nomi sono i più importanti ma ovviamente non i soli. Se per esempio prendiamo i grandi letterati del nostro Paese oltre a Manzoni potremmo indicare Alfieri e Foscolo. Limitarsi a questi nomi tuttavia non riflette la ricchezza della letteratura europea che a partire dall’Ottocento raggiunge probabilmente il massimo fino ai primi del Novecento, ci vorrebbe un libro ma qui ci limitiamo ad un articolo.

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