sabato 3 settembre 2011

MONTALE DOMANI SU RADIOTRE A PARTIRE DALLE 15

TUTTE LE MISURE DEL DECRETO TREMONTI SINTETIZZATE DAL CORSERA IN QUESTA PAGINA
http://www.scribd.com/doc/63857615/Corriere-Della-Sera-3-9-11-Il-Decreto

l'Unità 3.9.11
Intervista a Pier Luigi Bersani
«L’Italia è in pericolo, un nuovo governo o non ce la faremo»
Il segretario del Pd «Con questa manovra abbiamo la prova, l’esecutivo Berlusconi non è credibile. Allo sciopero della Cgil saremo presenti»


di Simone Collini

OGGI ALLE 16.30 L'INTERVENTO DI BERSANI CONCLUSIVO DELLA FESTA NAZIONALE DI PESARO SARÀ TRASMESSO IN DIRETTA SU YOUDEM.TV
su Internet e sul canale 808 di Sky

In queste ore siamo a un punto di svolta, purtroppo drammatico». Pier Luigi Bersani parla mentre la Borsa chiude su un brutto -3,9%, mentre l’Ue esprime perplessità sulle misure anti-evasione e mentre torna a volare lo “spread” italiano, una parola che nelle ultime settimane purtroppo tutti hanno imparato a conoscere. «Questa manovra e questo governo non sono credibili. Siamo in piena emergenza e noi siamo disponibili ad assumerci le nostre responsabilità in Parlamento per cercare di migliorare le norme nel senso della credibilità, dell’equità e della crescita. Ma serve un cambiamento del quadro politico, altrimenti tutto è vano».
Non è la prima volta che formula un simile ragionamento.
«È vero, noi diciamo ormai da oltre un anno che il problema politico è nel cuore stesso dell’emergenza economica e finanziaria, perché chi ci ha portato fin qui, sul fronte più esposto, non è in grado di dire al Paese che c’è una crisi e che c’è bisogno di uno sforzo collettivo dove chi ha di più deve dare di più. E lo abbiamo detto non da oppositori, ma da italiani consapevoli. Ci siamo rivolti già un anno fa con un appello a tutte le forze delle classi dirigenti, abbiamo detto chi sa parli, perché rischiamo il botto. Adesso però abbiamo la prova, con questa manovra, che non abbiamo un governo credibile».
Cosa pensa possa succedere nelle prossime settimane?
«Difficile dirlo, ma quel che so è che siamo sull’orlo di una situazione drammatica e abbiamo un governo e una maggioranza che non se ne rendono conto. Per questo noi siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità in un passaggio che affronti davanti ai mercati l’emergenza, ma questo dentro un percorso di cambio politico, perché altrimenti siamo da capo».
Cosa significa, concretamente?
«Che noi in Parlamento ci confrontiamo sulle nostre proposte, che siamo anche pronti a rafforzare di fronte all'aggravarsi della situazione. Ma chiediamo che si apra una prospettiva nuova. Serve un governo di transizione con figure autorevoli, credibile agli occhi del mondo, che approvi una nuova legge elettorale e che fissi un appuntamento più ravvicinato per le elezioni, nella primavera prossima. Noi siamo pronti a prenderci le nostre responsabilità».
Perché questo suo messaggio dovrebbe essere raccolto?
«Perché altrimenti tra poco non sarà più soltanto questione di attacchi
speculativi. L’Europa, la Bce, i mercati valutano che non stiamo affrontando il problema. Si aspettano che andiamo a prendere i soldi dove sono, mentre il governo pensa che si possano tagliare 20 miliardi sull'assistenza, il che pone un problema di credibilità prima ancora che di equità. E non si può pensare di prendere i soldi da chi non ne ha. Questo governo si accapiglia su minutaglie, su misure che valgono 2 o 3 miliardi quando la manovra dovrebbe essere di 55 e in realtà è piena di buchi. Vanno al ribasso perché siamo al si salvi chi può e non c'è nessuna misura che abbia il sapore di un approccio riformatore. Ma così provocano discredito e sfiducia su quello che invece possiamo fare. Se non ci sarà una svolta questo lo pagheremo». La maggioranza le darà dell'allarmista...
«Nessun allarmismo, è la realtà. Il mese di settembre è molto delicato. I compratori dei buoni del tesoro sono per il 40% stranieri. Il nostro “spread” ha superato quello della Spagna, che ha avuto il merito di aver preso atto di un problema politico e ha anticipato le elezioni per consentire una ripartenza. E a questo punto si trova in una situazione migliore della nostra».
Ma a chi è rivolto questo ragionamento, se il premier vi ha accusato di essere “criminale e anti-italiana”? «Affermazioni irresponsabili e sconsiderate di uno che è parte rilevante del problema e che dimostra con questo di non poter essere la soluzione. Io parlo a tutte le forze di opposizione ma anche, se esistono, a forze della maggioranza che non possono non vedere che siamo nell'ingovernabilità e che quindi devono promuovere atti di apertura al cambiamento. E infine mi rivolgo a chi può dare una mano nell' opinione pubblica, nel mondo dell' economia, tra le forze sociali, affinché ci si pronunci sulla necessità di affrontare l'emergenza chiamando tutti alla responsabilità, ma in un percorso di cambiamento politico che appaia credibile agli occhi del mondo».
Citava le forze sociali: il Pd sarà allo sciopero generale indetto dalla Cgil? «Noi saremo presenti, con dirigenti e militanti, in tutti i luoghi in cui si criticherà la manovra e si chiederanno più credibilità, equità e misure per la crescita, allo sciopero della Cgil come ad altre manifestazioni. Aggiungo che in
una emergenza del genere diremo sempre che una convergenza delle forze sociali, come quella dell'accordo del 28 giugno, è un bene prezioso su cui, fossimo stati al governo noi, avremmo fatto fiorire una nuova fase di concertazione. Questo governo invece ha introdotto nella manovra un articolo, l’8, che non c'entra niente col resto del decreto e che va rimosso, per ripristinare lo spirito e il valore dell'accordo tra le forze sociali».
Ha insistito molto sulla parola «credibilità»: c'è il rischio che il caso Penati abbia ripercussioni sul Pd?
«È una vicenda dolorosa, ma è anche l'occasione per fare una riflessione ulteriore non solo sul nostro diverso modo di procedere rispetto alla maggioranza, fatto di fiducia nella magistratura, passi indietro, uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, ma anche sul fatto che dobbiamo mettere ogni impegno nel migliorare l’esigibilità dei nostri codici etici e del nostro Statuto. E ci stiamo lavorando. Ma la nostra gente ci chiede anche di reagire a teorie che vanno oltre le legittime critiche, e che descrivono il Pd come un corpo malato. Abbiamo fatto partire un po’ di denunce. Né accettiamo che si faccia di tutta l'erba un fascio e che si indebolisca per questa via l'unico strumento che gli italiani hanno per il cambiamento».
Qual è la posizione del Pd sul al referendum per il ritorno al Mattarellum? «Partiamo dal fatto che abbiamo una nostra proposta di legge elettorale. Non è il Mattarellum, di cui abbiamo visto i limiti dal punto di vista della governabilità. Però siamo amichevoli verso un'operazione referendaria che ha come obiettivo essere uno stimolo a cambiare la legge elettorale».
Cosa vuol dire concretamente essere «amichevoli»?
«Che senza mettere il cappello sopra questo referendum ospitiamo nei nostri luoghi, a cominciare dalle Feste, i comitati referendari. A un partito tocca proporre soluzioni in Parlamento e stiamo chiedendo la calendarizzazione della riforma insieme al dimezzamento del numero dei parlamentari, che sono elementi distintivi della nostra operazione istituzionale».
Nelle ultime ore c'è un fiorire di candidature, da Renzi a Profumo e forse Montezemolo: cosa ne pensa?
«Di fronte ai problemi drammatici che ha l'Italia non ci sono scorciatoie. Tutti sono benvenuti, tutti possono dare un contributo alla politica, purché si scelga una prospettiva e un campo e non si conceda niente a ipotesi personalistiche e semplicistiche, che ci hanno portato un mare di guai. Siamo aperti al confronto con tutti ma non si pensi di fare a meno del Pd o di ridurlo a salmeria. Questa è una prospettiva irrealistica. Non per il Pd, ma per il Paese».

l'Unità 3.9.11
Sono due milioni i volantini stampati, 500mila i manifesti pronti
Oggi lo sbarco al Festival di Venezia per denunciare i tagli alla cultura
La Cgil prepara lo sciopero: 100 piazze contro la manovra
La Cgil scalda i motori in vista delle 100 manifestazioni di martedì: due milioni di volantini e visite su Fb. Mobilitazione e tanta fantasia. Panini: consenso crescente, nessuna rassegnazione e tanti nuovi iscritti.
di Massimo Franchi


«Un consenso crescente, una macchina che viaggia a pieni giri». Enrico Panini, che la macchina organizzativa dello sciopero generale Cgil di martedì 6 settembre la sta guidando, lavora senza pause ed è «molto soddisfatto». I numeri sono impressionanti: 2 milioni di volantini stampati, 500mila manifesti, 2,2 milioni sono anche le visualizzazioni della campagna per lo sciopero su Facebook (2 milioni per quella contro l'abolizione delle feste civili che ora può festeggiare la vittoria). D’altronde con «fabbriche ancora chiuse e molti italiani ancora in vacanza», ed uno sciopero da organizzare in tempi record, la mobilitazione della Cgil non rinuncia ai tradizionali volantinaggi ma punta sulla piazza virtuale di una protesta-web. «Il poco tempo a disposizione spiega Panini ha aumentato il livello, la frequenza e la passione con cui si portano avanti le iniziative di preparazione». Con tante sorprese: «Fino a qualche mese i volantinaggi si facevano, adesso sono le persone che chiedono i volantini tanto che in questi giorni stiamo registrando un aumento di iscrizioni e deleghe alla Cgil. Il fatto che ci dà più forza è che stiamo registrando indignazione, sdegno, anche rabbia, ma mai rassegnazione. Ed è la cosa che ci fa sperare in una grande adesione per martedì».
E per convincere il maggior numero di persone a scendere nelle 100 piazza in cui si terranno le manifestazioni lungo tutta la penisola, oggi andranno avanti anche i volantinaggi sulle spiagge di Sicilia, Campania, Emilia Romagna, Basilicata, Puglia, e altre regioni ancora. Domenica, con lo stop del traffico a Napoli, delegati Cgil in bicicletta con slogan sulle magliette.
Oggi la Cgil sbarca anche al Festival del cinema di Venezia, dove si svolgerà una conferenza stampa di attori e sindacalisti che denunciano «il capitolo dei tagli alla cultura», come si legge in una nota del sindacato. «La difesa del lavoro e della dignità delle persone scrive la Cgil passa anche per la difesa della cultura, così come la ripresa economica e lo sviluppo dell'Italia passano per la valorizzazione del suo patrimonio artistico e della sua produzione culturale. Per questo sono da respingere i tagli allo spettacolo, alla cultura e all'istruzione operati nelle manovre economiche del governo che rastrellano risorse dai settori più vitali del paese, condannandolo al declino, per lasciare indisturbate grandi ricchezze improduttive e sacche di evasione». Nella conferenza stampa l'attrice Ottavia Piccolo leggerà poi un appello del segretario generale Cgil Susanna Camusso.
TANTE ADESIONI
Come già accaduto per altri scioperi generali della Cgil, anche in questa occasione sono tantissime le associazioni che hanno garantito la loro adesione e un aiuto nell’organizzazione. In prima fila i Partigiani dell’Anpi, in comune non solo la battaglia (sembrerebbe vinta) contro lo spostamento del 25 aprile. Poi l’Arci, il Sindacato nazionale scrittori, l’Arcigay, il Forum dei movimenti per l’acqua, gli studenti universitari (Udu) e medi (Reds), il sindacato degli inquilini (Sunia).
IL PROGRAMMA DELLE 100 PIAZZE
E per martedì il programma è oramai definito. Il segretario generale Susanna Camusso sarà a Roma, dove il corteo partirà alle 9 da Piazza dei Cinquecento (stazione Termini) e il comizio conclusivo si terrà alle ore 11 in Via di San Gregorio (a lato del Circo Massimo). Gli altri segretari confederali saranno sparsi per l’Italia. A Napoli, dove il corteo partirà da piazza Mancini con in testa i familiari dei marittimi di Procida da sei mesi ostaggio dei pirati in Somalia, il comizio sarà tenuto da Vincenzo Scudiere. A Genova si parte alle 9 dal Terminal traghetti e dai giardini della stazione di Brignole con comizio conclusivo in piazza De Ferrari di Vera Lamonica. A Milano invece partenza alle 9,30 dai Bastioni di porta Venezia fino a piazza del Duomo dove parlerà Fulvio Fammoni. A Torino alle 9 a piazza Vittorio fino a piazza San Carlo dove parlerà Danilo Barbi. Presenza importante anche a Bari dove il corteo sarà aperto dagli immigrati che lavorano nei campi, mentre il comizio conclusivo sarà tenuto da Fabrizio Solari. A Cagliari dalle 9,30 da piazza Garibaldi fino a piazza del Carmine con Nicola Nicolosi. In Sicilia, infine, a Catania dalle 9 in piazza Bellini fino a piazza Manganelli con Serena Sorrentino, mentre, mentre il segretario generale della Fiom Maurizio Landini sarà a Palermo.

l'Unità 3.9.11
Cooperative
Un motore economico che nemmeno il duce riuscì a distruggere
di Nicola Cacace


Come ha detto Marino, presidente di Confcooperative, «è il quarto intervento di spoliazione delle cooperative attuato da Berlusconi in pochi anni» (Avvenire 1 sett.), malgrado il successo della cooperazione anche negli anni di crisi, quando aumentava l’occupazione del 5,5% mentre l’occupazione nazionale si riduceva del 3%. Oggi la cooperazione è un motore di sviluppo e di coesione sociale, con 1,5 milioni di occupati, il 7% dell’occupazione e 127 miliardi di fatturato, l’8% del Pil. La cooperazione è andata in controtendenza anche rispetto al nanismo industriale, essendo nel decennio il peso delle GI coop (+ di 1000 occupati) passato dal 4% all’8% del totale occupazione nazionale. Ed oggi che il paese ha estremo bisogno di rilanciare la crescita, come chiesto anche da Bruxelles, Berlusconi tenta di realizzare un obiettivo perseguito da anni, colpire quelli che, stupidamente, considera avversari di classe. E lo fa con la motivazione che le cooperative «godrebbero di vantaggi fiscali rispetto alle società di capitale».
Questi famosi vantaggi fiscali, che in sintesi si riducono ad un’aliquota del 10% sugli utili reinvestiti invece del 33% sono la contropartita della “mutualità” cioè del fatto che il socio-azionista, mentre deve ripianare le perdite e deve rinunciare ai Capital Gain, che resteranno alla Cooperativa vita natural durante o andranno allo Stato in caso di cessazione di attività. Perciò la Costituzione, all’art.45 recita: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità...e ne promuove e favorisce lo sviluppo con mezzi idonei».
I valori della cooperazione sono tre: democrazia (una testa, un voto), indivisibilità del patrimonio sociale, giusta remunerazione del capitale e del lavoro.
La mutualità che li comprende significa che il socio investe in un’impresa che considera un bene per se medesimo, per il territorio ed i suoi figli, e il profitto è un mezzo, non il fine dell’impresa. Perciò la formula «cooperativa» è quella che si sta dimostrando di maggior successo in epoca di globalizzazione e di crisi. Quanti capitalisti sono disponibili a prestare lavoro e capitali a queste condizioni, essere responsabili delle perdite ma non padroni degli utili e non delocalizzare mai?
È significativo che quando Luigi Marino e Giuliano Poletti, presidenti di Lega e Confcooperative, hanno proposto di estendere le agevolazioni fiscali delle cooperative alle SpA purchè accettassero di di reinvestire gli utili senza distribuirli, nessuna risposta sia venuta da Confindustria.
Le Coop sono sopravvissute in Europa agli attacchi del nazismo e del fascismo. Non penso che uno screditato primo ministro come Berlusconi riuscirà ad imitare Mussolini, che nella sua furia classista, trasformò la Banca della Cooperazione in Banca nazionale del lavoro.

Il Fatto 3.9.11
Evasori: nessuna pietà
di Bruno Tinti


Ci sono principi talmente ovvii che a nessuno salta in mente di declamarli; salvo che a quelli che ne traggono profitto. Così i delinquenti si fanno difensori della privacy: il corruttore se la prende con le intercettazioni e l’evasore fiscale con la pubblicità delle dichiarazioni dei redditi; e trovano anche un sacco di gente che gli sta dietro. Tre giorni fa ho partecipato a una trasmissione di Radio 24. C’erano il sindaco (leghista) di Varallo Sesia e un giornalista, Oscar Giannino. Si parlava di rendere pubblici i redditi dichiarati. Il sindaco era favorevolissimo e ha motivato la sua posizione in maniera intelligente e pertinente. Di quello che ha detto Giannino ho capito pochissimo, solo che era contrario: statalismo, giustizialismo, terrorismo, Stasi (la polizia segreta della Germania est). Di queste parole ho memoria; del senso complessivo del discorso meno. Ma una parola mi è rimasta impressa, anche per il disprezzo con cui la pronunciava: “delazione”. “In questo modo si vuole incoraggiare la delazione fiscale”, ha detto tutto arrabbiato. Ecco, qui ho capito tutto; e sono stato colpito da profonda depressione. Perché è stato evidente che, per Giannino e quelli come lui, l’evasione fiscale non è un delitto e nemmeno un comportamento immorale. Per questa gente chi denuncia l’evasione fiscale non è un cittadino onesto che fa il proprio dovere; è una spia, un “delatore”. Denunciare ai Carabinieri un ladro che ha rubato un’autoradio va bene; denunciare un evasore fiscale alla Guardia di Finanza o all’Agenzia delle Entrate è riprovevole, è una “delazione”. Naturalmente non c’è stato dibattito. Lui mi ha detto che dicevo sciocchezze e io ho spiegato come potevo la mia opinione; ma che gli dici a uno così? Resta il fatto che rendere pubblici i redditi dichiarati è proprio una buona cosa. Vediamo perché. L’art. 53 della Costituzione obbliga tutti a “concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Ma l’obbligo non è osservato da un’importante maggioranza di cittadini. Il Ministero delle Finanze stima in 160 miliardi all’anno l’evasione fiscale. Siccome i lavoratori dipendenti e i pensionati non possono evadere perché le imposte sono trattenute alla fonte, se ne deve dedurre che l’evasione è praticata dai lavoratori autonomi e dagli imprenditori, il cosiddetto popolo della partita Iva.
LA DEDUZIONE è avvalorata dal fatto che, sempre secondo i dati forniti dal Ministero delle Finanze (dichiarazioni 2010 relative al 2009), su 41.523.054 contribuenti, 20.870.919 sono lavoratori dipendenti, 15.292.361 sono pensionati e 5.359.774 sono “altri”, cioè il popolo della partita Iva. Già così si capisce che la quantità di cittadini che non presentano alcuna dichiarazione (e che non sono lavoratori dipendenti perché questi la dichiarazione la presentano per forza) è immensa. Ma il dato impressionante, che non permette dubbi quanto alla tipologia di gente che evade le imposte, è quello che riguarda il gettito Irpef, pari (per il 2010) a 146,5 miliardi di euro; pagato per il 93% dai dipendenti e dai pensionati (dipendenti 89,5 miliardi e pensionati 47,7 miliardi); e per il 7 % (9,2 miliardi) dagli “altri”. Quindi, che il popolo della partita Iva evada quasi 160 miliardi di euro all’anno, non è contestabile. Siccome questa evasione fiscale è endemica, nel senso che si ripete da anni; siccome proprio questo dimostra che il nostro sistema di accertamento e riscossione delle imposte è del tutto inefficiente; siccome siamo senza una lira e ci servono soldi; siccome più di tanto non si possono tagliare le spese sia perché dobbiamo restare un paese moderatamente civile, sia perché la spesa pubblica è (anche) un’importante leva economica e sociale; si deve trovare un sistema per recuperare l’evasione. Questo impone l’interesse pubblico. Come si fa? In tanti modi; ma qui ci occupiamo dell’ultimo: la publicizzazione dei redditi. Un’idea di Visco (correva l’anno 2008), ingiuriato e diffamato dalla destra tutta che però oggi, immersa nel guano fino al collo, la trova buona. E in effetti, buona è.
È ovvio che, se i redditi dichiarati sono resi pubblici, se l’evasione fiscale del singolo può essere percepita con facilità da chi lo conosce , testimoniata com’è dal contrasto tra reddito ufficiale ridicolo e tenore di vita elevato, per ciò solo le dichiarazioni saranno più “prudenti”.
INOLTRE GLI EVASORI si troveranno esposti alle denunce di chi, magari per pura invidia, non intende consentirgli questi illeciti privilegi; e anche questo costituirà una spinta all’onestà fiscale. E poi, come diceva il sindaco di Varallo Sesia, si metterebbe fine agli abusi: asili nido, mense, assistenza sanitaria gratuita, tutto indebitamente utilizzato; per di più sottraendolo a chi ne ha davvero diritto. Infine il Fisco potrà smetterla di sperperare le sue risorse in presunte evasioni da quattro soldi o in verifiche su grandi imprese che si concludono con una manciata di “irregolarità formali”; e potrà dedicarsi a obbiettivi “mirati”. Insomma, si recupereranno soldi e si impedirà ai cittadini disonesti di vivere alle spalle degli altri. C’è qualche dubbio sulla prevalenza dell’interesse pubblico, accertare e sanzionare l’evasione fiscale, recuperando quanto dovuto, su quello privato, la pretesa privacy del proprio reddito? Soprattutto con il paese sull’orlo della bancarotta? No, naturalmente. Ma quanti Giannino ci sono in Italia? E poi c’è sempre il problema della scadenza elettorale: gli evasori sono tanti, come si è visto; e votano.

Repubblica 3.9.11
L'ideologia che ci governa
di Nadia Urbinati


Continuare come se nulla fosse successo nel frattempo, come se il crollo di fiducia nella politica della destra non ci sia stato, come se la sconfitta di Milano, che prima del 15 maggio sembrava impensabile al premier, sia stata un fatto assolutamente irrilevante. Come se la grande disobbedienza del 12 e 13 giugno sia capitata in un altro paese. Tutto ciò che prima sembrava determinante, una volta avvenuto è stato rubricato in fretta nel capitolo della cronaca antica. Siccome i cittadini non hanno votato a elezioni politiche, essi non hanno espresso alcun giudizio su questa maggioranza di governo quando hanno votato a favore di coalizioni di centrosinistra e quando hanno detto NO all´insistente suggerimento di Berlusconi di non andare a votare ai referendum.
A leggere i giornali di questi giorni sembra che niente di nuovo ci sia sotto il sole italiano: il clientelismo con i quale si è cementata questa alleanza di governo mostra un altro spezzone del suo carattere sistemico, perpetrato con studiata intelligenza per distribuire incarichi proporzionalmente al nord come al sud, nelle posizioni di rilievo politiche, amministrative e aziendali. Come a riconfermare il carattere endogeno che lo contraddistingue dal primo giorno del suo insediamento, il governo ha deciso di tener conto solo delle opinioni che gli sono favorevoli, di dar segno di rispondenza solo a quella parte della società e della cittadinanza che è in sintonia con il suo fare. Gli altri, le opinioni degli altri, non esistono, non hanno peso, non contano. Indifferente all´opinione autorevole che i cittadini hanno voluto far giungere chiara e forte a Roma, il governo della Repubblica, che nella costituzione e nei manuali di dottrine della politica è definito come un potere dipendente e in questo senso servente rispetto a quello sovrano rappresentato in Parlamento e prima ancora nelle urne, persiste nella sua opera di nascondimento e indifferenza.
La P4 rispecchia l´identitá proteica dell´ideologia berlusconiana, poiché nonostante gli sforzi che facciamo per connotare onorevolmente le ideologie, interpretazioni di parte ma pur sempre politiche dei fini indicati nella costituzione, questa che ci governa da anni è un´ideologia. I cui caratteri principali e facilmente riconoscibili sono: il disrispetto per le regole poiché, si fa credere, limitano la libertà e l´intraprendenza di chi governa e al cui giudizio carismatico solo è bastante rifarsi se si vogliono conoscere le regole di ciò che conviene o non conviene; la giustificazione della necessità dell´emergenza quando l´ordinamento resiste alla volontá di potenza; la propaganda di ciò che si vuole il popolo creda e pensi; l´instancabile demolizione della dignità dell´opposizione, un intralcio al potere della maggioranza invece che un necessario controllo; la privatizzaione del bene pubblico, nel quale vanno messe prima di tutto le regole del gioco che non sono proprietà di chi le usa, oltre che le risorse dello Stato, tra le quali la legge è certamente quella più importante; il fare delle istituzioni luoghi per portare a compimento prima di tutto ciò che è nell´interesse privatissimo di chi governa, anche a costo di "mettere un velo" sulla legge (ovvero sulla libertà), per parafrasare il "divino Montesquieu"; infine e a compimento di tutto questo, la certosina e diremmo quasi perfezionistica attenzione a praticare l´arte del nascondimento.
La contraddizione tra questa pratica sistemica e le regole del gioco democratico costituzionale è stridente, insanabile. Sappiamo che la nostra democrazia è forte, perché vitalità e ragionevolezza della cittadinanza si sono mostrate con sobria e pubblica chiarezza, senza infingimenti, propagande e parole roboanti. Le due parti del dramma sulla scena politica italiana sono ben definite e fingere che una delle due non esista o sia apparsa e scomparsa come una cometa nell´attimo della conta dei voti è oltre che sbagliato, improvvido per chi finge. Come ha scritto Ezio Mauro, la memoria dei post-it è ancora fresca e riprendere la lotta contro i tentativi di oscurare la verità, di impedirci di sapere quel che succede nelle stanze dei palazzi non sarà né irrealistico né difficile. La discrepanza tra il dentro e il fuori delle istituzioni è ormai marcata. Sentire fastidio per ciò che è stato detto con il voto, fingere che non sia successo nulla, continuare a razzolare come prima e anche più caparbiamente di prima può essere improvvido. Certo é un segno di timore di perdere il potere, di debolezza quindi, non di forza.

il Riformista 3.9.11

Lo scontro è politico non giudiziario
di Emanuele Macaluso

qui

l'Unità 3.9.11
Volete capire che sono italiana anche se i miei vennero dal Marocco?
di Lamiia


M i chiamo Lamiaa Zilaf, ho 11anni, sono nata a Reggio Emilia e faccio la prima media. Un giorno ricevo un 10 in grammatica. Sono felice. Ma il commento della maestra mi lascia perplessa. Le sue parole mi fanno riflettere sulla mia identità . Mi dice:«Lamiaa, sei stata bravissima, hai superato gli italiani!».Cosa?, dico fra me e me, ma io sono italiana! Quando torno a casa, mia mamma nota la mia rabbia: è arrivato il momento della discussione di un argomento del quale non avevo mai parlato prima con i miei genitori. Mia mamma mi dice: «Ma non c’è niente di male se ti chiamano straniera». Perchè secondo lei non è affatto un insulto. Ma il problema è un altro: verificare se io sono straniera o meno. «Mamma, ma io non mi sento straniera, sono nata e cresciuta in Italia, io non nego le mie origini, ma casa mia è in Italia e mi sento italiana. Il Marocco lo adoro, però lo sento più il Paese dei miei genitori che il mio, non so se mi capisci? Non lo so, io non ci ho mai pensato prima, e davo per scontato che io sono italiana!» La discussione finisce con un silenzio che dice tanto. Passa un anno, vado alle medie, emozionata e un po’ spaventata dalle novità. Siccome mia mamma durante l’estate mi ha insegnato un po’ di francese con la pronuncia giusta, la mia insegnante, fin dalla prima lezione, lo nota e mi dice: «Brava, hai una bella pronuncia, da dove vieni?». In quel momento penso: «Ancora? Ma cosa vuol dire, da dove vengo? Da Reggio Emilia, no! Ah, forse vuol dire da dove vengono i miei genitori?. Cara prof, i miei genitori vengono dal Marocco e io sono nata a Reggio Emilia.»
Adesso per favore chiariamo la faccenda, non chiamatemi mai straniera o immigrata. A voi la scelta: potete chiamarmi italo araba, oppure italo marocchina, ma non sono affatto straniera. I miei genitori tanti anni fa hanno scelto di migrare sono venuti in Italia. Ma io non sono mai immigrata, sono nata in Italia, per cui mi sento italiana. Non so con quale percentuale, però lo sono. Perché lo sento dentro e lo credo. Sento come se il Marocco fosse mio papà e l’Italia mia mamma e nessuno potrebbe mai togliermi dal cuore uno dei due. Questa non è solo la mia storia, ma è la storia di tutti i bambini e i ragazzi, figli di immigrati, che sono nati in Italia e, purtroppo, hanno i miei stessi problemi. Da qua, vorrei lanciare un messaggio: concedete la cittadinanza italiana a tutti i nativi, risparmiateci tutti i problemi inutili che non finiscono mai e smettetela di farci vivere situazioni che ci fanno sentire quello che non siamo. Lasciateci studiare e costruire il nostro futuro con serenità e ricordatevi che noi sentiamo veramente dentro di noi di essere italiani .

La Stampa 3.9.11
Libia, l’odio senza futuro degli sconfitti
«Non si faranno prigionieri Solo una raffica, come quelle che hanno distribuito»
Agli sgherri di Gheddafi non resta altro che morire col mitra in mano Il processo spetta solo ai capi. Ma molti sono già passati con i vincitori
di Domenico Quirico


Gli altri: i cattivi, i vinti. Sì, i complici del dittatore, i gheddafisti fino all’ultima ora, scampaforche e mercenari dell’affannosa e crudele nullaggine del tiranno, i gerarchi, quelli che dovevano «dare la caccia ai ratti» e ora hanno preso il loro posto, gli irriducibili, i pazzi, gli stupidi, gli assassini, i coerenti, i torturatori, gli sgherri, i fanatici, quelli che non si sono districati in tempo dai legacci (oh! quanti e quanto solidi e intricati in quarantadue anni di dittatura), che li hanno avviluppati, le Brigate nere.
Quelli che adesso devono pagare, che hanno già pagato, che pagheranno.
Gheddafi li incita a combattere, fino all’ultimo, perché «non siamo donnicciole». Le lingue dei demagoghi sono affilate come i coltelli dei macellai.
È la parte dove si manifestano, come in un modello demoniaco, tutte le forze del nostro tempo, vi convergono insieme come in un cristallo sfaccettato: quelli che non hanno più voce, le cui verità e bugie nessuno raccoglierà, la stirpe impastata di perfidia. Perché sono già nella gabbia, ogni giorno più piccola, più soffocante, più zeppa di morte e di disperazione. E in quella gabbia non si può entrare.
Sono stato in quella gabbia per alcune ore, per un giorno: come prigioniero. Nell’altra Libia, quella di prima che non esiste più, che per fortuna non esisterà più: con i ritratti della Guida Suprema, le bandiere verdi ancora ai balconi. Di questo esercito dannato ho visto le facce la rabbia la paura l’odio. Da questi «altri» ho corso il rischio di essere ucciso. Molti tra loro, ora, sono già stati giustiziati, quel quartiere di Tripoli dove erano asserragliati, dove menavano unghiate disperate, da belve, è caduto. Pochi sono riusciti a scivolar via, a galoppare verso l’ultimo ridotto, questo davvero ultimo, la Sirte immensa e nello stesso tempo troppo minuscola per contenere la loro salvezza. Per gli altri accadrà nelle prossime ore, al massimo nei prossimi giorni. Qui Dostoevskij e Svetonio avrebbero tratto ricco bottino.
Ci si chiede: ma perché non si arrendono, pazzi e dannati che sono, e lasciano solo l’osceno burattinaio farneticante? Perché non possono, sanno che è inutile, in ogni caso moriranno. Nel 25 aprile di Gheddafi non si fanno prigionieri, non c’è posto per il presentat’arm, per il gesto cavalleresco con lo sconfitto. Nel loro copione c’è solo la resa dei conti su una pista sabbiosa o all’angolo di una strada.
I processi, se ci saranno, spettano ai capi, ai notabili. Ho visto coloro che sono al di sotto di questa soglia che dà diritto a essere uccisi con stile, grazia, regole, occhieggiamenti della televisione. Il processo è un privilegio. Loro hanno diritto alla raffica di mitra, come quelle che hanno distribuito ghignando quando erano certi di vincere, con la disperazione della vendetta quando hanno capito che era finita. Su queste differenze, in fondo, i tiranni costruiscono il loro dominio.
Alcuni fotografi, a Tripoli, mi hanno mostrato le sequenze di esecuzioni di gheddafisti, frettolose e implacabili, gente contro il muro, fumo, manichini che crollano a terra, il vuoto. Immaginiamo fuori campo una folla che guarda: neutra inorridita sollevata giubilante? Il male diventa meccanico e viene sminuito. Scene degne di Caino, persecutori e perseguitati si scambiano la parte, si assomigliano.
Val la pena parlare allora di questa fanteria, di questa plebaglia della dittatura, passare al setaccio le acque della loro vita? Non si rischia di accordare pietà a chi non la merita, di smerigliare le ragioni, grandi importanti, dei ribelli, dei partigiani che, per fortuna, con il consenso del mondo, hanno vinto? Al miliziano che ha ucciso con una raffica di mitra che ci cade nell’anima come un veleno nel lago e non sbiadisce, il mio autista, innocente, con una ferocia che conduce a strati più profondi e universali della colpa? Che importa in fondo di chi sta prolungando il massacro, per malizia testardaggine stupidità? Non è meglio aspettare, anche qui, in Libia, 10, 20, 50 anni come è avvenuto per altre guerre civili per aprire le lettere le memorie degli altri, intendere le loro voci e scoprire che la stoffa di uomini era in alcuni casi (molti pochi, che importa, anche uno basta) pure da questa parte? Le guerre civili e tribali che spesso si camuffano da rivoluzioni per sembrar più pulite e comprensibili, ci ricattano: non lasciandoci uscite di sicurezza, ovvero il separare, il distinguere. Prendere o lasciare. E allora cercare anche al di là del fronte, gettare lo sguardo verso coloro che non avevano né ragione né ragioni è non solo buona norma di umanità, ma anche il miglior chiavistello per capire.
Come per le vittime: bisogna estrarle dalle statistiche e dar loro facce e parole, toccarle perché inneschino il circuito della pietà. L’immensa somma dei dolori, e delle atrocità, acquista un senso solo se ci sono persone che escono dal numero e diventano significative.
Sarà ancora vivo il giovane nero, poco più che un ragazzo, che osservava, impassibile, l’assedio ai giornalisti stranieri catturati, che fiutava l’odore del linciaggio? Non era un libico, lui, ma uno dei tanti che Gheddafi ha arruolato per rinforzare un esercito che con prudenza di satrapo aveva sempre voluto pletorico e scalcinato. Mercenario, dunque. Parola che inganna. C’erano quelli «veri», addestrati, efficienti, serbi, russi. Ma quelli sono filati via, sanno come sopravvivere per la prossima guerra, per il prossimo ingaggio. Sono rimasti i mercenari poveri, minutaglia del Sahel affamato, dove gli eserciti servono ai golpe, manovali della guerra come quelli che nella Libia di prima erano spazzini, domestici, muratori. Che aveva capito quel ragazzo delle ragioni e del torto? Perché non era con le decine di migliaia di africani che sono scappati nei primi giorni di guerra e che sono ancora nel grande campo profughi appena oltre il confine tunisino, dimenticati dai loro governi, senza mezzi per riportarli a casa?
Aveva sotto la camicia verde militare la maglia del Milan. Per distendere l’atmosfera, perché il suo sguardo così vuoto mi sembrava «buono» rispetto alla furia dei commilitoni,gli ho detto che aveva una bella maglia. E lui ha cominciato a estrarre freneticamente i caricatori cheteneva nelle tasche della camicia per togliersela e regalarmi la maglia che mi piaceva.
E dove sarà l’altro ragazzo, libico quello, ferito a una spalla, che inveiva vedendo scorrere in televisione («Al Jazeera»: l’unica cosa che lega i due campi, in cui si specchiano vincitori e vinti) i capi della nuova Libia, gli ex ministri e faccendieri di Gheddafi; e di ognuno enumerava come capi di imputazione, le poltrone occupate per anni, i miliardi sottratti, le sconcezze ora cancellate? Chissà se rimpiangeva, nella rabbia, di non averli imitati, di non aver, il giorno della rivolta di Bengasi, acciuffato l’attimo, fatto il passo verso l’altra parte? Caso, coerenza, stupidità: i punti cardinali che ingabbiano le rotte degli sconfitti
Forse era il destino, che non aveva dato scampo, ad aver scelto per il padrone della casa dove siamo stati imprigionati: nello sgabuzzino teneva una bandiera verde e il mitra sul pianerottolo, davanti al salotto buono. Per eccesso di propaganda o per prudenza? Quando ci hanno preso era uno dei più furiosi. E poi la sera è venuto a chiacchierare, impassibile come uno spartano, arguto come un ateniese.
Spero sia ancora vivo il suo dirimpettaio, di viso simpatico e di voce, di eloquio facile, sensato, con quella destra pieghevolezza che schiva la discussione ardente. Eppure il mattino in cui siamo partiti è stato uno dei pochi che non ci ha salutato: spazzava con cura, curvo, intento, la pezza di strada davanti alla sua casa, accumulando da un lato i bossoli della battaglia come foglie sparse dal vento. E mi ha confortato quel gesto quotidiano, banale più di un abbraccio o di una stretta di mano.
Non era un soldato quello che è venuto a guardare i quattro chiusi nello sgabuzzino a terra. Forse un uomo dei «comitati», la milizia della Jamahiriyya con cui Gheddafi avvolgeva anche gli interstizi più riposti della società libica; il mitra portato come un attrezzo di lavoro, l’occhio livido. E faceva il segno con le dita di prendere la mira contro ognuno di noi: «Sarkozy, Obama maledetti...». È uno che non può tornare indietro, ne conoscono i delitti e le perfidie. Può solo morire con il mitra in pugno. Semplicemente. Ma non è il macabro gusto della «bella morte». È la morte e basta. Al contrario che dall’altra parte non ho visto nessuno pregare. Per loro Dio non è morto. È andato via.

Oggi è il settimo anniversario della strage di Beslan
La Stampa 3.9.11
Beslan abita ancora sulle tombe dei suoi figli
Dopo sette anni l’inchiesta sulla strage nella scuola non ha prodotto risultati
di Mark Franchetti


Piangenti e vestite di nero, migliaia di persone in lutto si riuniranno oggi alla scuola di Beslan per commemorare il settimo anniversario del più grave attacco terroristico mai avvenuto in Russia. Porteranno fiori e bottiglie d’acqua, un modo simbolico per ricordare la sete sopportata dai loro cari nelle ultime ore prima della morte. Un rintocco di campana segnerà il momento, poco dopo mezzogiorno, quando il 3 settembre 2004 si udirono due potenti esplosioni all’interno della palestra della scuola dove più di 1200 ostaggi – gli allievi, i loro genitori e gli insegnanti - erano da 52 ore in mano ai terroristi islamici.
Nel massacro che seguì morirono 333 persone - tra cui 186 bambini. Diciassette bambini persero entrambi i genitori e 72 sono rimasti gravemente disabili. In un solo blocco di appartamenti vicino alla scuola si sono contati 34 bambini tra le vittime. In un paese così piccolo, quasi tutti hanno perso una persona cara o conoscono qualcuno che l’ha persa.
Sette anni dopo Beslan, con i suoi 35.000 abitanti, è tranquilla, provinciale e rurale. Ma a differenza delle grandi città che hanno sofferto terribili atti terroristici su larga scala come New York e Mumbai, Beslan è ancora un luogo dove quasi tutta la popolazione è segnata da profonde cicatrici emotive collettive. Per molte delle famiglie di coloro che morirono nella scuola la ferita resta aperta: ora come sette anni fa sono arrabbiate per l’evidente mancanza di volontà delle autorità d’indagare adeguatamente sull’attacco terroristico e rivelarne tutte le verità nascoste. Incredibilmente, sette anni dopo, sono ancora in attesa della conclusione ufficiale dell’inchiesta aperta sull’accaduto. La chiusura dell’indagine è stata rinviata più di trenta volte. Un lungo rapporto del Parlamento pubblicato cinque anni fa è stato respinto dai cittadini di Beslan come un tentativo di insabbiare la vicenda perché non è riuscito in alcun modo ad attribuire una qualche responsabilità al governo russo.
Nel 2005 Nurpashi Kulayev, un falegname ceceno disoccupato, l’unico terrorista catturato vivo, è stato condannato all’argastolo. Si pensa che, contrariamente alle assicurazioni delle autorità, alcuni terroristi siano riusciti a fuggire. Un processo nei confronti di tre funzionari di polizia locali accusati di negligenza si è concluso con l’amnistia senza che gli imputati testimoniassero in pubblico. Non un solo funzionario dello Stato si è dimesso o è stato licenziato come conseguenza del peggior attacco terroristico della storia russa. Al contrario, alcuni alti ufficiali locali della sicurezza sono stati promossi. E questo nonostante il fatto che gli avvertimenti della polizia su un imminente attacco terroristico, fatti due settimane prima del sequestro della scuola, non avessero portato ad alcun rafforzamento delle misure di sicurezza.
Perché le segnalazioni sono state ignorate, si chiedono ancora senza avere risposta molte famiglie delle vittime? Perché i russi non riuscirono nemmeno a negoziare con i terroristi e quali concessioni era pronto a fare il Cremlino? E, soprattutto, chi o che cosa causò le due fatali esplosioni che hanno portato al massacro?
Per tutto il tempo dell’assedio le autorità russe hanno mentito sul numero degli ostaggi, affermando che erano solo 300. I terroristi fecero i nomi di quattro alti funzionari dello Stato con i quali volevano parlare ma alla terza mattina del dramma nessuno di loro si era presentato alla scuola. Frustrati, i membri del commando che avevano già ucciso numerosi uomini prigionieri e li avevano gettati fuori da una finestra - smisero di dare da bere agli ostaggi. I prigionieri, nel caldo soffocante, finirono per bere la propria urina.
«Di chi è la colpa per la morte di tanti bambini?», ha chiesto Susanna Dudiyeva, che ha perso suo figlio di 13 anni, Zaur, e ora è a capo del comitato Madri di Beslan, che sta facendo pressioni sulle autorità per avere risposte. «Per me diventa più difficile ogni anno perché più passa il tempo, più penso a come mio figlio morto sarebbe stato adesso», racconta. E aggiunge: «Questa è una città profondamente traumatizzata, dove molti uomini si sono dati al bere dopo la tragedia perché non potevano far fronte al senso di colpa e alla sensazione di aver tradito i propri figli morti. Questo non sarà mai più un posto normale. Io per prima non riesco a venire a patti con la morte di mio figlio. È per questo che mi batterò fino alla fine per la verità». Dudiyeva ha incontrato sia Vladimir Putin sia Dmitry Medvedev, suo successore alla presidenza, ma sente che entrambi i leader l’hanno illusa.
Sospesa nel tempo, la scuola è ancora come dopo il massacro, al tempo stesso memoriale e simbolo struggente delle divisioni della città. Gli ex ostaggi e i familiari delle vittime sono ancora divisi su cosa si debba fare dell’edificio attorno al quale quest’anno è stata costruita una struttura commemorativa. Molti pensano che avrebbe dovuto essere abbattuto, altri si piazzerebbero letteralmente di fronte al bulldozer per salvarlo.
Grandi chiazze carbonizzate sul pavimento in legno della palestra segnano ancora chiaramente il punto dove alcuni degli ostaggi sono morti bruciati nel rogo seguito all’esplosione. Tutto intorno, ordinatamente disposti in file sulle pareti annerite e crivellate di proiettili della palestra, sono appesi i ritratti delle vittime. Fiori e ghirlande, candele e peluche circondano la palestra, insieme alle bottiglie di acqua minerale e a lattine di bibite lasciate in memoria dei bambini morti assetati perché i terroristi negarono loro l’acqua. Le pareti sono coperte di messaggi scritti a mano, versi e poesie che piangono i morti. Una grande croce ortodossa di legno si erge al centro della palestra. E’ un luogo straziante e commovente.
Il senso di colpa dei sopravvissuti ha avuto un effetto velenoso sulla psiche della città. I genitori sono perseguitati dalla sensazione di aver tradito i loro figli morti, i giovani sopravvissuti devono fare i conti con la morte di fratelli e amici, così come con l’onnipotente culto della personalità che hanno lasciato in eredità. In alcuni casi i genitori, senza volerlo, dimostrano più amore per il loro bambino morto che per quelli vivi.
Nonostante le tensioni e le divisioni, la gente di Beslan ha mostrato notevole capacità di recupero, dignità e autocontrollo. I timori che il dolore della città potesse risolversi in una sanguinosa vendetta non si sono avverati. In sette anni, più di 50 nuovi bambini sono nati nelle famiglie colpite dalla tragedia. Elena e Yuri Zamesov hanno avuto tre maschietti dopo la morte dei loro figli, Natalia, di 12 anni, e Igor che ne aveva dieci. «Avere altri bambini ci ha regalato gioia e ci ha un po’ distratti, ma non ha in alcun modo diminuito il mio dolore», dice Elena. «Dicono che il tempo guarisce. La verità è che peggiora le cose. Mi pare di impazzire quando mi immagino quello che i miei figli hanno passato in quei tre giorni. Solo chi ha perso un bambino può davvero capirci».
Ma ci sono altri, come Kaspolat Ramonov che ha perso sua figlia quindicenne, Marianna, e ha dedicato la sua vita a custodirne il corpo. Alla lettera. Dopo la sua morte, Ramonov vegliò la tomba della figlia giorno e notte, in una sezione speciale del cimitero della città dove sono stati sepolti tutti i bambini uccisi nell’attacco terroristico, un luogo che ora viene chiamato «la città degli angeli» e dove praticamente ogni lapide è coperta di giocattoli. Iniziò pian piano ad occuparsidel cimitero fino a quando cinque anni fa è stato nominato ufficialmente suo custode. Conosce intimamente la storia di ciascuna vittima sepolta lì. Se una madre ha bisogno di lasciare la città per un paio di giorni, Ramonov parla alla tomba del suo bambino. «Non ti preoccupare, dico, tua madre tornerà presto e ti sta pensando», spiega. «Questo non è un lavoro», aggiunge. «Io vivo qui per badare ai bambini».

l'Unità 3.9.11
Espulso l’ambasciatore di Gerusalemme, stop a tutti gli accordi militari con lo Stato ebraico
Niente scuse ma «rammarico»: così Benjamin Netanyahu replica alle richieste di Erdogan
Freedom Flotilla
Tra Turchia e Israele è guerra diplomatica
Espulsione dell’ambasciatore israeliano, sospensione degli accordi militari e appello alla Corte internazionale di Giustizia. È «guerra diplomatica» tra Ankara e Gerusalemme. Al centro il caso della Mavi Marmara
di Umberto De Giovannangeli


È «guerra diplomatica» tra Ankara e Gerusalemme. Guerra a tutto campo. Espulsione dell’ambasciatore israeliano; stop a tutti gli accordi di cooperazione militare; ricorso alla Corte di giustizia internazionale contro «l’assedio di Gaza». Sono queste le ritorsioni messe in atto dalla Turchia in seguito alle mancate scuse di Israele per l'attacco alla nave umanitaria turca «Mavi Marmara» la notte del 31 maggio 2010, costato la vita a nove cittadini turchi. «Arrivati a questo punto annuncia il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu, eminenza grigia del partito islamico moderato Ak del premier Recep Tayyp Erdogan prendiamo le seguenti misure: i rapporti fra Turchia e Israele vengono ridotti al livello di secondo consigliere di ambasciata. Tutti i responsabili di rango superiore al secondo segretario, come l’ambasciatore, torneranno al loro Paese entro mercoledì». In totale sono cinque le misure prese dalla Turchia per protestare contro il rifiuto di Israele di accogliere le sue richieste.
SCONTRO FRONTALE
«In qualità di Paese con la più lunga costa mediterranea in Europa, la Turchia prenderà ogni precauzione per la sicurezza della navigazione marittima nel Mediterraneo orientale», rimarca Davutoglu, senza fornire ulteriori spiegazioni. Il capo della diplomazia turca ha anche annunciato che ricorrerà alla Corte dell’Aia «per esaminare la legalità del blocco messo in atto da Israele su Gaza dal 31 maggio 2010». Un terremoto non inatteso dopo l’ultimatum rivolto l’altro ieri dallo stesso Davutoglu. Ma che comunque certifica il congelamento sine die di decenni di partnership strettissima fra i due Paesi. Ad evitarlo non è bastato il rapporto commissionato sulla vicenda dal segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, a un team di «saggi» guidato dall'ex premier neozelandese Geoffrey Palmer e anticipato l’altro ieri dal New York Times. Un esercizio di alta diplomazia che censura come «eccessivo e irragionevole» l’uso della forza impiegato il 31 maggio 2010 dai commandos israeliani contro la flottiglia, ma riconosce al contempo come frutto di legittima difesa il blocco imposto da Israele alla Striscia di Gaza dopo l’ascesa degli integralisti di Hamas. E che tuttavia, a dispetto del dosaggio di colpi al cerchio e alla botte, non è stato in grado di allentare le tensioni.
Il governo israeliano, dal canto suo, ha evitato repliche a caldo e ha preferito affidare una reazione misurata a fonti governative ufficiose dopo la convocazione d’urgenza di consultazioni ristrettissime fra il premier Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa, Ehud Barak e un paio d’alti funzionari. Resta in ogni caso confermato il «no» alle scuse, sebbene accompagnato dall’espressione (finora avversata da non pochi ministri) di quel «rammarico» che il rapporto Palmer in ultima analisi raccomanda. Rapporto che le fonti israeliane accolgono come «serio e professionale», sia pur con «alcune riserve». «Israele esprime rammarico (per i morti della Marmara), ma non si scuserà per un' operazione di autodifesa», si legge quindi nella dichiarazione fatta filtrare a Gerusalemme in cui si sostiene che l’abbordaggio fu condotto senza la volontà di colpire nessuno. Ma che i militari «dovettero difendersi» dopo essere stati «attaccati con coltelli, mazze e tubi di ferro da attivisti violenti dell'organizzazione (islamica turca) Ihh». Quanto infine all’espulsione dell’ambasciatore da Ankara, le fonti considerano che in realtà l’alto diplomatico Gaby Levi abbia «già concluso la sua missione, congedandosi di recente dai colleghi turchi», e notano che egli sarebbe comunque «dovuto rientrare in patria in questi giorni». Puntualizzazioni che non impediscono di notare «l’importanza delle relazioni passate e presenti fra popolo turco e popolo ebraico». Né di promettere «nuovi sforzi» per superare l’impasse. Sempre che l'espulsione dell'ambasciatore non sia come ha ammonito ieri il presidente turco Abdullah Gul «solo un primo passo». Un plauso per l’iniziativa turca viene da Gaza. «È una risposta naturale al crimine commesso da Israele contro la Freedom Flotilla» e contro il blocco navale su Gaza, commenta il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri.

La Stampa 3.9.11
Librerie e biblioteche gli stumenti chiave per aiutare la lettura
di Rocco Pinto


Caro direttore, è entrata in vigore la legge Levi approvata in via definitiva al Senato sabato 20 luglio. La legge disciplina il prezzo dei libri e pone un tetto massimo di sconto del 15% sul prezzo del libro sia al dettaglio che per il commercio elettronico. Stabilisce alcune regole sulle promozioni. Si possono effettuare campagne promozionali stabilite solo dall’editore non superiori ad un mese, non ripetibili sulle stesse collane e ad esclusione del mese di dicembre. Lo sconto massimo sulle campagne è del 25%. Per le biblioteche e le scuole è possibile uno sconto massimo del 20%.
Questa legge che ha creato scontri e lacerazioni all’interno del mondo editoriale è finalmente stata approvata ed è un punto di partenza su cui librai, editori e altri operatori del mondo del libro, bibliotecari, insegnanti e quanti a vario titolo si occupano di libri e di lettura possono ripartire per arrivare a una legge più organica sul libro e la lettura di cui il nostro Paese ha bisogno. L’approvazione di questa legge ha scatenato polemiche che si sono levate da più parti e a cui bisogna provare a rispondere chiarendo alcuni passaggi non chiari a chi non è addentro.
Stefano Mauri (amministratore del Gruppo Gems) proprio a questo proposito sul Il Fatto del 26 agosto dice: «Confesso che se non mi occupassi da trent’anni di studiare il mercato del libro mi unirei con leggerezza al coro di voci che gridano allo scandalo di fronte a una legge, la legge Levi, che dal primo settembre restringe la libertà di sconto per i librai al 15%, proprio in tempi di crisi. Leggendo i giornali e i blog mi sarei fatto un’idea molto superficiale del problema». Quasi tutti i giornali hanno dato spazio alla polemica e non all’approfondimento.
La prima cosa da evidenziare è che in tutti i Paesi europei, ad eccezione del Regno Unito, il prezzo dei libri è regolamentato; in Francia e in Spagna lo sconto regolamentato è del 5%, in Germania non esiste sconto. Nonostante la flessibilità di sconti il nostro Paese è molto indietro rispetto a Francia e Germania come percentuali di lettori. Non sono gli sconti che fanno crescere i lettori ma le politiche di promozione della lettura che nei Paesi citati esistono e in Italia sono inesistenti. In Italia la metà della popolazione non legge neanche un libro all’anno ed è su questo che dobbiamo concentrarci. Quanto spostano i 1200 festival e i 18.00 premi letterari? Evidentemente poco, molto poco se la situazione è quella descritta.
Molti hanno sostenuto che questa legge salvaguarda piccoli e medi librai ed editori. Sono d’accordo solo in parte. Questa legge pone solo qualche regola che prima non c’era e riporta la competizione non sullo sconto ma sul servizio. Come può una libreria competere con Amazon o con un supermercato che arrivano a fare sconti del 35% laddove la libreria stessa acquista i libri con il 30%? Come può un piccolo editore con poche risorse rincorrere questa politica suicida degli sconti? La libreria deve potersi misurare sul servizio e non sullo sconto. L’editore sulla qualità del suo prodotto e non su quanto sconto fa. Finché in Italia non si riconosce il ruolo fondamentale delle librerie sul territorio al pari delle biblioteche continueremo a fare inutili dibattiti. In Francia si è arrivati ad assegnare un marchio di qualità alle librerie che rispondono a certe caratteristiche e sono un riferimento sia per l’assortimento che per la loro attività culturale.
E per allargare la base dei lettori c’è necessità di biblioteche, scuole e librerie che funzionino. Al Sud mancano biblioteche e librerie. Lo sviluppo di queste zone e la crescita economica sono legati alla modernizzazione sociale e culturale. Nelle statistiche recenti alti indici di lettura sono connessi ad alti indici di reddito. Quindi la promozione della lettura è un obiettivo strettamente connesso con lo sviluppo economico del nostro Paese.
Il lettore deve comprendere che le politiche degli sconti di questi anni spesso sono state aleatorie ed ingannevoli. Che senso ha lievitare i prezzi continuamente per poi continuamente ribassarli del 30% come è capitato in questi anni? E’ possibile per gli operatori essere in promozione continua?
Perché l’Italia non è capace di fare politiche nazionali di promozione della lettura e non riesce a fare una festa del libro sull’esempio di altri Paesi europei che potrebbe rappresentare un secondo Natale per gli operatori? Non siamo neanche capaci di copiare da chi fa meglio di noi. La Spagna ci ha superati da questo punto di vista. Se qualcuno ha fatto bene, perché non copiare? Questo lo diceva Bruno Munari.
*libraio indipendente

La Stampa TuttoLibri 3.9.11
Montale segreto: fate pure tanti pettegolezzi
Inediti Trent’anni fa moriva il Nobel che depistò critici e biografi: pubblichiamo le carte mai viste, con arsenici giochi salottieri, perfidie, amori mai erotici
di Giuseppe Marcenaro

qui

l'Unità 3.9.11
Quei metodi pericolosi di Freud e Jung
Film e inconscio Cronenberg si ispira al triangolo inquieto tra il padre della psicoanalisi, il suo discepolo prediletto e un’allieva-paziente per tracciare un ritratto delle lotte di potere che nascono tra personalità forti e creative
di Alberto Crespi


Un giornalista chiede a Viggo Mortensen cos’è il pupazzetto che tiene accanto a sé, sul tavolo delle conferenze stampa. «È la mascotte del San Lorenzo de Almagro, la squadra di calcio di Buenos Aires per la quale faccio il tifo. Se volete potete rivolgere le domande a lei». David Cronenberg osserva sornione il proprio attore, poi dice: «Avete capito con chi avevo a che fare, sul set?».
È molto lieve e simpatica, l’atmosfera fra regista e attori di A Dangerous Method, il film di Cronenberg passato ieri in concorso. E pensare che il tema del film, invece, è tutt’altro: Mortensen interpreta Freud, il tedesco Michael Fassbender è Jung (anche se nel film, per motivi di coproduzione internazionale, è costretto a recitare in inglese) e l’inglese Kiera Knightley è Sabina Spielrein, prima paziente di Jung poi forse sua amante, una delle prime donne ad esercitare la professione di psicoanalista. Tanto per completare il quadro da film-Onu, Cronenberg è canadese e Mortensen, di padre danese e madre americana, è vissuto per anni da ragazzo in Argentina: il suo tifo per un oscuro club di Buenos Aires non è un segno di follia anche se Cronenberg, sempre scherzando, aggiunge: «Scegliere gli attori per questo film è stato un modo di introdurli gentilmente all’idea che avevano bisogno di aiuto. Infatti, li vedete: ora sono personcine per bene, prima erano dei pazzi nevrotici!» (ovviamente Viggo, Michael e Kiera sghignazzano alla battuta). In realtà, vedendo A Dangerous Method ci è venuto il forte sospetto che non si tratti, sotto sotto, di un film sulla psicoanalisi, bensì di un ritratto delle lotte di potere che possono nascere all’interno di un mondo accademico, o di qualsiasi ambiente dove le questioni di ego si confrontino da un lato con una tormentata creatività, dall’altro con la gestione di enormi somme di denaro. E se questa vi sembra una plausibile descrizione del mondo del cinema, forse non avete torto. La verità è che, all’inizio del Novecento, Freud era una star e Jung ambiva a diventarlo. Quando prende in cura la Spielrein, Jung – almeno nel film – intuisce subito il suo enorme potenziale, sia come paziente sia come futura studiosa. La sceneggiatura di Christopher Hampton suggerisce che la giovane diventi in qualche modo il «terreno di scontro» tra il padre della psicoanalisi e il suo giovane rivale: una lettura, nemmeno tanto sotterranea, del film è il modo disinvolto con il quale Freud e Jung interagiscono con l’universo femminile, cornificando abbondantemente le proprie donne e spesso sfruttandone le intuizioni. Non a caso il personaggio di gran lunga più bello ed emozionante è quello della moglie di Jung, Emma, interpretata dalla splendida attrice canadese Sarah Gadon, che finora ha fatto quasi esclusivamente televisione. Emma resta sullo sfondo, ma Hampton e Cronenberg lasciano intuire che ella tutto sappia e tutto capisca, fin dal primo incontro fra Jung e la Spielrein, e abbia dell’animo umano un’istintiva comprensione assai più profonda di quella del marito.
Lettura intrigante, lo ammetterete: Freud e Jung come maschi immaturi e competitivi, geniali ma pronti a rubarsi le idee (e le ricche sovvenzioni) giocando sulla pelle di amici, colleghi, pazienti. Anche se Cronenberg non sminuisce certo la portata epocale delle loro scoperte: «La psicoanalisi nasce in un momento, e in un contesto storico – quello dell’Europa colta e civilizzata del primo Novecento –, in cui l’uomo europeo si crede avviato a un avvenire radioso. Freud mette invece l’Europa di fronte a ciò che davvero è, intuendo una violenza inconscia che ben presto esploderà nelle carneficine della prima guerra mondiale e dell’Olocausto. Io sono convinto che oggi siamo molto diversi dai pazienti di Freud e Jung, perché la presenza della tecnologia ha sensibilmente modificato il funzionamento del nostro cervello, sia a livello conscio che a livello non conscio». Questo è il retro-pensiero del regista, leggibile nel film solo in parte. Forse a causa del copione di Hampton, bravo volgarizzatore più che grande scrittore, A Dangerous Method rimane abbastanza in superficie, e lo stile di solito insinuante di Cronenberg si perde in una ricostruzione d’epoca elegante ma poco emozionante. Fassbender e Mortensen sono corretti, la Knightley è insopportabile: tra i tanti modi di interpretare una pazza sceglie il peggiore, quello tutto smorfie e gesti esteriori.

Repubblica 3.9.11
Parla il cineasta: "Erano due grandi"
"Farò scontenti i fedeli dell'uno e dell'altro"
di Maria Pia Fusco


«Non sono mai andato in analisi, non ne ho avuto bisogno forse grazie al cinema. Spesso un film, e l´arte in generale, ti porta a scoprire aspetti nascosti della condizione umana. Non dico che l´arte sia una terapia, ma può essere terapeutica», dice David Cronenberg. Il regista canadese è consapevole del rischio di polemiche che il suo A dangerous method (nelle sale italiane dal 30 settembre con Bim) potrebbe suscitare. «Ci saranno scontenti sia da parte degli junghiani che dei freudiani, ma spero che tutti riconoscano il valore del film: riporta in vita due grandi personalità, è come una resurrezione». Da cineasta «provo empatia per tutti i personaggi del film. Come persona, anche se quando ero giovane Jung era molto popolare, ho sempre pensato che fosse Freud il vero conoscitore dell´animo e della condizione umana, per me Jung era soprattutto un leader religioso. Durante le ricerche per il film l´ho rivalutato».
Nella lettura del carteggio tra Freud e Jung , Cronenberg è stato affascinato «dalla complessità tormentata del loro rapporto. Jung era l´allievo preferito di Freud, che lo aveva destinato a succedergli. La relazione di Jung con la paziente Sabina Spielrein ha cambiato le cose, è cominciata una rivalità sottile». Tra i momenti più divertenti del film, c´è il confronto tra le condizioni economiche. «Freud doveva lavorare molto per mantenere la famiglia, Jung aveva sposato una donna ricca. Ci sono anche piccole vendette, Freud che rifiuta di raccontare il suo sogno o il pettegolezzo lanciato da Jung su un rapporto di Freud con la cognata».
Venezia 68, Cronenberg ha 68 anni, li ha compiuti il 15 marzo, le "idi di marzo", titolo del film d´apertura: «Le chiamo coincidenze junghiane ma scherzo. In realtà Freud è stato il primo a dire che non esistono le coincidenze».

Repubblica 3.9.11
I due geni e la paziente Sabina stavolta Cronenberg divide i fan
Sesso, chiacchiere e lettino Freud e Jung a Venezia
di Natalia Aspesi


Applausi a "A dangerous method" in cui il cineasta canadese racconta il rapporto controverso fra i padri della psicanalisi
Grande perfezione formale e la capacità di non rendere ridicoli i dibattiti scientifici Con Viggo Mortensen, Michael Fassbender, Keira Knightley

VENEZIA. Sarà perché A dangerous method è tratto dall´opera teatrale "The talking cure", sarà perché appunto la cura psicanalitica si basa soprattutto sulla parola, non si era mai visto un film in cui si chiacchiera così ininterrottamente. Tranne quando il medico psicanalista protestante svizzero Carl Gustav Jung frusta sul sedere coperto da gonnelloni inizio ‘900 la contentissima ebrea russa Sabina Spielrein, paziente amante, futura psicanalista. Ma parlare evidentemente spossa (al primo incontro, Sigmund Freud e Jung parlano per 13 ore e neppure se ne accorgono!) perché quasi sempre le più profonde discussioni sulla libido, l´inconscio, la pulsione di morte, il transfert e controtransfert, avvengono a tavola: vuoi servendosi di arrosto con cavoli nella modesta casa viennese dell´ebreo austriaco Freud davanti ai suoi sei figli, vuoi in una pasticceria, pregustando una torta Sacher con panna, vuoi nella lussuosa casa zurighese di Jung, alla ricca prima colazione e al ricchissimo tè pomeridiano.
I tanti fan di David Cronenberg per questo "Metodo pericoloso" si sono divisi: c´è chi l´ha adorato per la massima perfezione formale e la capacità con cui questo regista della crudeltà riesce a non rendere ridicoli i dibattiti scientifici e peggio ancora psicanalitici, tra uomini boriosi in marsina, orologio nel taschino e grosso sigaro in bocca; c´è chi o sapendo troppo di Freud e Jung e Spielrein, o non sapendone niente, si è sentito spaesato se non raggelato, come le pazienti del film, soprattutto se supposte ninfomani, che nel famoso ospedale Burgohzli di Zurigo vengono immerse nell´acqua gelata per appunto raffreddarle in tutti i sensi. Sabina diciannovenne viene trascinata urlante e sfrenata nell´ospedale stesso, dove essendo la magrissima Keira Knightley, digrigna i denti e artiglia le dita come un aspirante vampiro. La prende in cura il non ancora trentenne Jung con la famosa novità della "talking cure": e mal gliene incoglie, perché mentre gli racconta che quando il babbo la picchiava lei, orrore, si bagnava, lui, che pure ha l´aplomb di Michael Fassbender, comincia ad avere cattivi pensieri. Lei signorina si masturba tuttora? Orrore, le basta la vista di un bastone che si deve chiudere in camera, povera isterica, e si sa benissimo cosa ne pensa il maestro Freud, da piccina va bene, ma da adulta è una vera devianza.
Comunque Jung, che ha una moglie ricchissima e di perlacea bellezza molto malinconica in quanto sempre incinta (Sarah Gadon), dà ascolto a Vincent Cassel, il medico Otto Gross, figlio di un noto criminologo, che ingravida le signore a tre per volta e incita il probo Jung a lasciar perdere il civile controllo degli istinti e l´obbligatoria monogamia: viene subito ubbidito e finalmente può lasciarsi andare alla sua passione, legare al letto Sabina e frustarla con reciproca soddisfazione. E cosa ne pensa del delitto di portarsi a letto una paziente, il padre della psicanalisi Freud? Intanto bisogna avvertire che quando i due scienziati si incontrano a Vienna nel 1907, Freud ha 51 anni e il fascino insostenibile di Viggo Mortensen, che con quegli occhi ironici, quella voce suadente, quella elegante superbia, ci rende subito tutti accaniti freudiani qualsiasi cosa, sempre maschilista, dica. Sabina studia medicina e vuole diventare psicanalista, ha intuizioni scientifiche che subito i maschi le sottraggono, anche Freud! La dolce moglie di Jung, al quarto o quinto figlio, si scoccia delle corna e manda in giro lettere anonime: Jung si spaventa e tronca con lei ormai guarita ma sempre in grado di dargli una coltellata. Sabina scrive a Freud, Jung nega, Freud sgrida Sabrina, Sabrina obbliga Jung a dire la verità, Freud si mette dalla parte di Sabina, le sottrae qualche pensiero sulla pulsione di morte e in cambio le passa un paio di pazienti.
Tra il padre della psicanalisi e quello che avrebbe dovuto essere il suo erede, la rottura scientifica ma anche umana avviene nel 1914: schiaffo massimo per Jung che Sabina si senta ormai freudiana. Preveggente, Freud le dice, "noi ebrei non dobbiamo mai fidarci di un ariano". Dopo la prima guerra mondiale Sabina prende il tè con la signora Jung, tutte e due con l´ennesimo etereo abito di leggera batista bianca con cui hanno attraversato tutto il film: Sabina deve essere passata finalmente alla fase vaginale perché è incinta del marito medico. Jung imbambolato e depresso l´ha sostituita con una nuova amante, pure lei sua paziente Antonia Wolff, non si sa di quali giochi erotici appassionata. Nel suo film del 2002, "Prendimi l´anima", basato sullo stesso triangolo, rivelato per la prima volta da Aldo Carotenuto, Roberto Faenza accompagna la vita di Sabina oltre gli anni di Jung e Freud: e ne racconta la tragica fine in Unione Sovietica, fucilata con le due figlie dai nazisti invasori nella sinagoga di Rostov, nel novembre del 1941. Cronenberg invece tronca la storia sul volto bagnato di lacrime di Sabina che si allontana da Zurigo, ancora bella, e con tutta la vita davanti.

Repubblica 3.9.11
L'attore è il bravissimo protagonista del film già candidato al Leone d´oro
Viggo Mortensen: "La psicanalisi? Meglio parlare a un tassista"
Il mio Sigmund è un signore pieno di ironia. Ma tutti i personaggi del triangolo sono umani più infantili dei pazienti
di Arianna Finos


Viggo Mortensen tira fuori dalla tasca un taccuino con la foto classica, anziana e barbuta, di Sigmund Freud. «Capisce perché all´inizio non ne volevo sapere del ruolo? Non mi ci vedevo, fisicamente». Malgrado le reticenze iniziali, l´attore feticcio di David Cronenberg ha poi accettato di incarnare il padre della psicanalisi (con l´aiuto di protesi e molto trucco) in A Dangerous Method, applauditissimo film in concorso alla Mostra.
Mortensen, che cosa le ha fatto cambiare idea?
«La voglia di tornare sul set con David per la terza volta. E il fatto che nel film Freud non è il vecchio malato di cancro che tutti conosciamo. È un uomo di cinquant´anni, pieno di vita ed energia. Tutti i personaggi del triangolo del film, Freud, Sabina Spielrein e Gustav Jung, sono raccontati come esseri umani. Grazie alle loro lettere, molte delle quali purtroppo ancora non divulgate, abbiamo ricostruito tre personalità in conflitto più per orgoglio che per teorie scientifiche. Infantili come i loro pazienti».
Lei ha scelto la chiave dell´umorismo.
«Era accennato in sceneggiatura, io ci sono balzato sopra. Ci ho costruito il personaggio, intorno a quella ironia secca e sottilissima. L´umorismo implica il sentirsi a proprio agio, potersi permettere di ridere. L´ironia di Freud era figlia della cultura ebraica, del sentirsi in svantaggio, perseguitati. Per questo le sue battute erano veloci. Invisibili a molti, irresistibile per chi le coglieva».
Lei che rapporto ha con la psicanalisi?
«Una ventina d´anni fa feci un tentativo, in un momento difficile. Non funzionò. Era come parlare a un tassista. Ma la mia terapia è stata fare il cinema, che è nato più o meno insieme alla psicanalisi».
A Dangerous Method è dato per favorito dai bookmaker per il Leone d´oro. Lei è competitivo?
«Nel calcio molto. Nell´arte no. Né vorrei mai fare il giurato. Il concetto di vincente e perdente mi mette a disagio. Non amo gli attori e i registi che fanno il calcolo di quanto i premi possano essere utili al film. Per me i Festival sono l´occasione di scoprire opere emozionanti. Sono ansioso vedere il Faust di Sokurov».

La Stampa TuttoLibri 3.9.11
Un cuore di tenebra per Brahms
di Giorgio Pestelli


Maurizio Giani JOHANNES BRAHMS L'Epos, pp. 641, 58,30

Gli studi musicali italiani si arricchiscono di un'opera fondamentale con questo Johannes Brahms di Maurizio Giani: non solo per l'ampiezza del volume (più di 600 pagine, biografia, esame completo dell'Opera, cataloghi e apparati esaurienti e aggiornati), ma per la qualità del livello intellettuale, il coinvolgimento interno e, pregio non secondario, la specchiata chiarezza della lingua e dell'esposizione. La vita è trattata in modo succinto, ma abbastanza a fondo da passare l'uomo Brahms sotto una lente, con mano leggera ma indagativa; incontri, amicizie, ambienti spiccano precisi; sul famoso rapporto con Clara Schumann, forse la punta sentimentale di una vita apparentemente monotona, s'intuiscono le fiamme della passione, ma con la delicatezza di chi mette a riscontro ipotesi, illazioni, fonti anche contraddittorie a integrarsi come tessere di una figura più problematica di quanto non si creda. Il catalogo delle composizioni di Brahms non è smisurato, ma, come si sa, controllatissimo e in pratica senza punti deboli, per cui l'impegno di dominarlo tutto è enorme; con metodica pazienza di ogni opera ci viene dato: genesi, cronologia, fonti letterarie, varianti, struttura formale, visione d'assieme sul significato storico; anzi, dove Giani si trova nel suo centro, è proprio quando salda una singola opera nell'edificio «storia della musica», come anello di una catena. Pochi musicisti sono così connessi alla storia come Brahms, per cui la sua opera è il paradiso dello studioso: come il nostro autore lascia trapelare quando confessa che si ama Brahms non solo per i valori puramente musicali, ma «per i tesori di dottrina e di conforto che essa è riuscita sinora a dispensare a quanti si sobbarchino alla dolce fatica di penetrarvi i segreti».
Decisive alla vitalità del volume sono le digressioni inserite nel «racconto»: «Brahms lettore», «Brahms musicologo», «Wagner contra Brahms» e così via, come le pagine sul canto popolare, e sulla storia della fortuna brahmsiana; che poi, più che digressioni, sono parti perfettamente integrate a delineare un percorso, dal primo scapigliato romanticismo tedesco, agli anni bismarkiani della fondazione della Germania, ai riflessi del fine secolo. Sul piano critico sono del tutto originali le pagine («Ansia da dipendenza?») che mettono Brahms nel fuoco di problemi moderni elaborati da W.H.Auden sul disagio del creatore di prima mano con alle spalle il peso della tradizione; trattate sempre con concretezza, senza cedere a paralleli centrifughi e discutendo e superando le rigidezze teoriche usate in materia da Harold Bloom. Impossibile qui dar conto di tutte le prospettive aperte dai risultati di questa «dolce fatica»; ma accenniamo almeno alla felicità delle sezioni dedicate ai Lieder: perché qui fra tanti dati minuziosi Giani getta uno sguardo pieno d'affetto dentro l'anima di Brahms scoprendo inediti risvolti; come sull'op. 32, definita il «Viaggio d'inverno» di Brahms: «Il viaggio nella notte di un “cuore di tenebra”, un devastante psicodramma di rara sincerità e con accenti del tutto inconsueti nel liederista sospettoso della parola troppo eloquente, e tanto sensibile al decoro esterno». Così il vecchio cliché del campione di una «sana» alternativa agli eccessi romantici e decadenti, si compone in questo libro in un nuovo ritratto ricco di luci e ombre.

La Stampa TuttoLibri 3.9.11
Così rude Mahler così forbito Strauss
di Sandro Cappelletto


Comincia il più vecchio: «Le chiedo di volermi suggerire quale strada mi convenga seguire per ottenere l’esecuzione di una mia sinfonia nella prossima stagione di concerti...».
Ventitré anni dopo, tocca in sorte al più giovane scrivere l’ultima lettera: «Caro amico! Leggo con grande gioia che sta meglio ed è sul punto di sconfiggere la Sua dolorosa malattia. Forse sarà lieto di sapere, nelle ore tetre della convalescenza, che il prossimo inverno eseguirò a Berlino la Sua Terza sinfonia con l’Orchestra di Corte».
E’ l’11 maggio 1911; una settimana dopo, a soli 51 anni, Gustav Mahler muore e Richard Strauss rimane privo del colloquio con il musicista che più di ogni altro stimava.
Quanto simili e quanto diversi i due titani di cui ora Archinto pubblica l’epistolario: Mahler (1860-1911) e Strauss (1864-1949), ambedue compositori e direttori, con incarichi pubblici di grande responsabilità; il primo più stimato, dai suoi contemporanei, con la bacchetta in mano, mentre il secondo non ha rivali per quanto riguarda il riscontro del pubblico.
Tutti e due, il boemo e il germanico, si esprimono in tedesco: diretta, talvolta rude la prosa mahleriana, più di mondo e forbita quella di Strauss. Musicalmente, sono assai distanti: Strauss inanella con le sue opere - «Salome», «Elektra», «Cavaliere della Rosa», «Arianna a Nasso», molte altre - un successo dopo l’altro, Mahler di opere non riesce a scriverne una che sia una. In Strauss deflagra la vita, con le sue lussurie e le sue angosce, Mahler è felice solo quando pensa alla morte e alla pace che può donare.
Ma quanto rispetto reciproco, quale perfetta consapevolezza dei valori in campo. Quando Strauss deve respingere le accuse di chi gli rimprovera di voler favorire, più di qualsiasi altra, la musica di Mahler, questi a sua volta protesta: «Lei sa benissimo che io non sgomito certo per impormi, e non sono minimamente vanitoso».
L’anno più caldo è il 1905: Strauss ha completato «Salome», prendendo spunto dalla tragedia di Oscar Wilde. Mahler vuole assolutamente dirigere la prima, all’Opera di Vienna di cui è direttore. Ma la censura della capitale dell’impero non concede il via libera, «per motivi

Corriere della Sera 3.9.11
Nostalgia dell'Urss, la ragazza di Stalin è tornata a Mosca
Il dittatore la rimosse: troppo nuda
di Fabrizio Dragosei


MOSCA — L'anno scorso era toccato alla colossale scultura dell'operaio e della contadina che sono tornati a svettare (lui con il martello e lei con la falce) in tutti i loro 58 metri davanti alla Mostra delle realizzazioni socialiste. Adesso è giunta l'ora di quella che per generazioni è stata il simbolo del realismo socialista staliniano: la Ragazza col remo, una statua prima voluta e poi fatta rimuovere dal Piccolo Padre per la sfacciata nudità. È di nuovo nella fontana centrale di Gorky Park, quello più amato dai moscoviti che a sua volta sta per essere completamente restaurato: tornerà allo splendore degli anni Trenta. Non siamo proprio al «Back In Ussr», ma certamente la nostalgia per i bei tempi di una volta, di quando tutto funzionava, non c'erano oligarchi e banditi (o almeno non se ne parlava) e l'Unione Sovietica era rispettata nel mondo si fa sentire parecchio. E alla fine anche il vecchio Baffone, per molti, non era proprio tanto male.
Così tornano i bassorilievi con slogan comunisti, si canta il vecchio inno dell'Urss, si ascoltano canzoni dell'epoca, si guardano film sulla Grande Guerra Patriottica e sul nazismo sconfitto. La gente va a mangiare in ristoranti creati all'interno di vecchie mense del Partito o in nuovi bar che si chiamano Kgb. E, inevitabilmente, si dà una spolverata ai busti di Stalin non abbattuti in questi anni.
La Ragazza col remo era stata sistemata al centro della fontana nel 1935, sette anni dopo l'apertura di Gorky Park. Ma resistette poco e venne spostata in un parco di Lugansk, in Ucraina. Il suo posto fu preso da un'altra statua dello scultore Ivan Shadr, sempre nuda, ma meno sexy che poi venne distrutta da un bombardamento tedesco durante la guerra.
In questi ultimi anni, specie da quando Putin definì lo scioglimento dell'Urss del 1991 «una delle più grandi catastrofi del XX secolo», è stato tutto un fiorire di «ritorni».
In una stazione della metropolitana di Mosca è stato, ad esempio, ripristinato un verso cancellato dopo la destalinizzazione: «Ci ha cresciuto Stalin nella fedeltà al popolo...». Poi il ministero della Difesa ha aperto un suo canale televisivo, Zvezda («stella», come quelle rosse che troneggiano sulle torri del Cremlino) dedicato in buona parte alla storia gloriosa dell'Unione Sovietica.
E se Putin tutti gli anni va a festeggiare con i vecchi cekisti l'anniversario della fondazione della polizia segreta di Stalin, anche gli altri russi si lasciano coinvolgere dall'amore per i ricordi. Il ristorante Sovetskij Soyuz (Unione Sovietica) di San Pietroburgo è sempre pieno. Come pure la ex mensa dell'Istituto per il marxismo-leninismo di Mosca dove le pareti sono coperte dai volumi dell'opera omnia dei due filosofi. Si mangiano pollo alla Kiev e salami Mikoyan, dal nome del fedelissimo di Stalin. Ci sono canali radio che trasmettono solo musica di un tempo, come Retro FM e Nostalgia. E tv dedicate ai film di una volta, da «Dove volano le Cicogne» a «Lo Scudo e la Spada» un polpettone sull'Nkvd che convinse il giovane Putin ad abbracciare la carriera di spia. Per scaricare i vecchi programmi della tv la gente si collega al portale www.CCCP.tv.
Tutti orfani di Stalin? Certamente no, visto che il Partito Comunista alle elezioni raccatta solo pochi voti (di anziani). È che Vladimir Putin è riuscito nell'operazione acrobatica di convincere i suoi connazionali che si può coniugare una Russia moderna e semi-democratica con la grandezza sovietica e i valori del Kgb. E poi, comunque, i ricordi di quando si era giovani sembrano sempre più dolci. Per molti il periodo d'oro al quale rifarsi non è certamente quello di Stalin (parecchi non erano nati) ma quello della cosiddetta «stagnazione brezhneviana». In Urss non succedeva nulla ma non ci si doveva nemmeno preoccupare di nulla. Pensava a tutto il Partito.

Corriere della Sera 3.9.11
Se Pechino «spegne» il troppo lusso
di Marco Del Corona


Più al cuore della Cina di così non si poteva: a poche centinaia di metri dai due Mao Zedong della Tienanmen — il corpo mummificato, il ritratto appeso sulla porta — e di fronte alla Grande Sala del Popolo dove si celebrano le grandi liturgie della Repubblica Popolare. Bulgari arriva a Pechino e prende possesso, per due mesi, del Museo Nazionale, riaperto quest'anno. La casa fondata a Roma nel 1884 offre alla Cina la sua storia e uno sguardo su 578 pezzi. La mostra («125 Years of Italian Magnificence», vernissage stasera) è la stessa inaugurata a Roma due anni fa e portata a Parigi nel 2010 ma allo stesso tempo non è la stessa. «Presentiamo i gioielli per quello che sono, ovvero opere d'arte nel pieno senso della parola. E qui abbiamo fatto uno sforzo di mediazione culturale», avverte la curatrice Amanda Triossi. Si dà dunque spazio a pezzi prestati da proprietari cinesi (occultati da un volontario anonimato) ma sottolineando le suggestioni della Dolce Vita e dei paparazzi. Si gioca sul glamour contemporaneo, anche attraverso icone asiatiche, da Zhang Ziyi a Gong Li. Mancheranno i gioielli di Liz Taylor, destinati a un'asta di Christie's i cui proventi andranno alla fondazione dell'attrice, compensati da altre creazioni.
Necessarie certe cautele, dopo che la mostra su Louis Vuitton, chiusa questa settimana, aveva provocato polemiche per la sua natura «troppo spudorata». Sui testi, i responsabili del museo hanno chiesto sobrietà, in linea con la prudenza della leadership nel trattare temi che possano intaccare l'armonia sociale o suscitare sentimenti di invidia o esclusione (un regolamento municipale impone di non menzionare il lusso in contesti pubblici).
La mostra, che andrà a Shanghai, fa da ponte fra l'era della famiglia Bulgari e l'acquisizione da parte del gruppo francese Lvmh. Benché l'appetito cinese per il lusso spinga il fatturato del marchio (548 milioni di euro nel primo semestre 2011, un +23,6% su scala globale, ma tra Repubblica Popolare, Taiwan e Hong Kong l'incremento è del 59,5%), l'evento rinuncia dichiaratamente al taglio commerciale. Si punta sull'italianità, questo sì, e sulla percezione profonda del marchio. I sinologi di Ca' Foscari hanno lavorato sui testi, in alcuni casi forgiando formule ed espressioni inedite. Domani, giorno dell'apertura, un dotto seminario rimarcherà aspetti storici e culturali. Portati i gioielli nel cuore della Cina, adesso è il momento di diffonderne l'aura.

il Riformista 3.9.11
L’archeomafia di Viterbo
Lacriminalitàgestisceil girod’affarideitombaroli,spessoanchecome intermediaria con gli acquirenti. Il settore è un canale per riciclare denaro sporco
di Luca Mauri
qui

Corriere della Sera 3.9.11
Amiche o minacciose Quelle strane voci che sentono i bambini
I medici: non sempre è una malattia
di Erika Dellacasa


SAVONA — Antinea ha sentito per la prima volta la voce quando aveva quattro anni: «Non mi sono spaventata. Mi è sembrato normale. Forse credevo che succedesse anche agli altri bambini. Io ho il doppio dono». Il doppio dono significa che Antinea (è uno pseudonimo) oltre a sentire le voci vede chi le sta parlando: «All'inizio — dice — quando avevo quattro anni era un piccolo uomo, alto così» e con il pollice e l'indice delimita uno spazio di pochi centimetri. «Poi — continua — è cresciuto e ne sono venuti altri». Per vent'anni Antinea non ha detto a nessuno di sentire le voci, poi ha dovuto cercare aiuto «mi sopraffacevano, parlavano in continuazione, non mi lasciavano dormire». Lo racconta, questa graziosa ragazza, nel bar del campus universitario di Savona dove da due giorni sono per la prima volta in Italia a convegno, provenienti da tutte le parti del mondo, da ventidue Paesi compresa l'Australia, «uditori di voci» e operatori sanitari. Psichiatri, psicologi, che si confrontano con queste ragazze, ragazzi, uomini e donne che sentono parlare nella loro testa o al di fuori (ci sono voci che vengono dalla pancia, dal petto, altre che arrivano al tuo orecchio, dall'esterno), sono terapeuti che ascoltano e soprattutto, dice Marcello Macario, responsabile del centro di salute mentale di Carcare e organizzatore del meeting, cercano di trovare percorsi che consentano non di «uccidere» le voci ma di vivere meglio, anche con queste «presenze». «Le voci — dice Rufus May, psicologo — sono dei messaggeri. Come dite voi italiani: ambasciator non porta pena, giusto? Non si uccidono gli ambasciatori». Rufus May è stato, a vent'anni, un «uditore di voci». Come Eleanor, diventata psicologa a sua volta. In questo campus soprattutto si raccontano le proprie esperienze dirette. Sandra Escher, olandese, parla invece dei bambini che sentono voci con un approccio di grande serenità: prima di tutto, dice, rivolta ai genitori, non bisogna spaventarsi, non bisogna gridare alla malattia mentale, stressare il bambino. La percentuale di bambini che hanno questa esperienza — sentire voci — stupisce: intorno al 9 per cento, dicono alcune ricerche. Nella maggioranza queste voci se ne vanno (il 60 per cento del campione della ricerca ha smesso di udirle entro tre anni). Per una parte di bambini rappresentano un problema più grave, spesso le voci sono legate a un trauma e possono essere «cattive», aggressive o persecutorie, ma possono essere anche «buone», diventare una sorta di difesa, di auto-aiuto in situazioni difficili. Da dove vengono le voci che sentono i bambini? Le loro risposte: da un pupazzo di peluche, dalla televisione, dal computer, dalla finestra, oppure passano attraverso i muri, sono le voci di un fantasma, di un alieno o meno fantasiosamente (ma forse più spaventose) di uno zio, del padre o, racconta un bambino, del nonno morto che gli rimboccava le coperte ogni sera, o di una persona sconosciuta a cui talvolta si dà un nome e talvolta no. Le voci sono un fenomeno diverso dall'amico immaginario, anche se in qualche modo lo ricordano. Le voci non sono mai la «tua» voce, ma quella di un altro, uomo, donna, bambino. Come fanno i bambini a dire che a parlare nella loro testa non è la loro voce? «È sicuramente di qualcun altro perché io non direi cose così stupide» è la risposta di un ragazzino, e Marja «Sento due voci, non ci possono essere due voci della stessa persona che parlano insieme». Il problema con le voci, girando per questo campus da un dibattito all'altro, è tenerle a bada, non lasciarsi prevaricare. Possono essere minacciose, prevaricatorie. C., ad esempio, racconta ancora con angoscia l'esperienza della prima volta che ha sentito la voce e di come questa gli ha detto «ammazzati» finché si è gettato dalla finestra.
I bambini, dice Sandra Escher, possono affrontare le proprie voci e non farsi spaventare né dalle voci né da chi, sapendo quello che sta accadendo, tende a spaventarli. «Ci sono bambini — dice una mamma — che non vogliono abbandonare le loro voci. Gli mancano. Sono voci buone». Voci che danno consigli, o che consolano. «Ora — dice Antinea — non le sento più da un po' di tempo. E sto bene. Ma se tornassero starei bene lo stesso, so come affrontarle. È un lavoro interiore». Antinea ha iniziato a studiare per aiutare bambini che, come lei, sentono sussurrare.

Corriere della Sera 3.9.11
Bellocchio: presto il film ispirato da Eluana
di Chiara Maffioletti


MILANO — «Stavo lavorando da mesi all'idea, avevo scritto il soggetto, poi la sceneggiatura...». Ora, finalmente, c'è anche il produttore. Marco Bellocchio realizzerà Bella addormentata, il suo prossimo film che si sviluppa dal dramma di Eluana Englaro. Ospite della serata «La vita: istruzioni per l'uso», alla Festa Democratica Nazionale di Pesaro, il regista ha confermato: «Fortunatamente ho trovato un produttore che, in un tempo in cui trionfano commedie, e questo è chiaramente un dramma, mi ha incoraggiato ad andare avanti. Speriamo di poterlo realizzare».
«C'è un buon accordo con Cattleya, le riprese dovrebbero iniziare a inizio anno», ribadisce Bellocchio, che mesi fa aveva confessato di aver pensato di rinunciare al progetto perché troppo difficile. La vicenda non è la storia di Eluana — la ragazza che tutti abbiamo imparato a conoscere per lo strazio di quei suoi 17 anni in stato vegetativo e per la determinazione con cui il padre, Beppino, voleva rispettata la volontà della figlia di porre fine alla sua vita — ma parte da lì: «Tutto si svolge nei sei giorni che sono stati l'ultimo atto della vita di Eluana: dal suo arrivo nella clinica di Udine, il 3 febbraio 2009, alla sua morte, il 9. La fine di quel dramma mi colpì molto e divise l'Italia. Essendo la vicenda così complessa, alla fine questo tempo di elaborazione è servito».
Non è un film di denuncia, precisa il regista (che il 9 riceverà il Leone d'oro alla carriera), «perché il cinema di denuncia è stato bruciato dalla tv, da Internet. Per temi di questa grandezza c'è bisogno di riflessione. Nel film ci sono personaggi di fantasia. In quei sei giorni avvengono storie, in varie regioni d'Italia, collegate emozionalmente al caso Englaro che era per tutti una presenza costante in quel periodo, attraverso i media. Ci sarà un'elaborazione di quel materiale».
Pur partendo solo dalla storia di Eluana, il regista ha sentito il bisogno, mesi fa, di contattare il padre della ragazza: «Abbiamo parlato più volte. È un uomo per cui provo un'enorme stima, che ha portato avanti una battaglia di legalità ed è riuscito nella sua impresa. Nessuno lo dimenticherà. Non è un personaggio del film, nessun attore interpreta il suo ruolo, e ho voluto esporgli questa differenza. C'è una realtà, una cronaca: io prendo quello che si è visto e lo mescolo con immagini inventate». Si parlerà della valenza politica del film... «Politicizzare è sbagliato. Ci saranno i soliti intolleranti ottusi che utilizzeranno il film per portare avanti le loro tesi, lo fecero già con Buongiorno, notte. Ma il film non è questo». Ma lei ha un punto di vista netto sul tema... «Parto da un punto di vista laico, ma ci sono personaggi di diversi schieramenti, posizioni contrapposte, c'è una dialettica. Il film non è una volata verso una tesi».

venerdì 2 settembre 2011

Gheddafi “Resistiamo, non siamo donnicciole”

il Fatto 2.9.11
Le colpe dei giornali
di Antonio Padellaro


Non è affatto strana la coincidenza, non solo temporale, tra Berlusconi che definisce l’Italia “un paese di merda” e l’allarme lanciato dalla grande stampa internazionale sulla voragine italiana che rischia di inghiottire l’euro. E non è strano neppure che ieri il Wall Street Journal abbia adoperato la stessa terminologia che da giorni campeggia nei titoli del Fatto a proposito della terza, quarta o quinta versione della cosiddetta manovra escogitata dal cosiddetto governo italiano: “Buffonata”. Non è certo un merito aver visto ciò che immediatamente saltava agli occhi e, cioè, l’incredibile spettacolo di inettitudine e malafede che il cosiddetto premier e suoi degni ministri organizzano ogni giorno da mesi giocando con i nostri destini come bari al tavolo delle tre carte. La domanda è proprio questa: possibile che ciò che sconcerta qualunque osservatore di medio buon senso a Londra o a New York, qui da noi non faccia battere ciglio agli autorevoli giornali che pure si autoproclamano occhiute sentinelle dell’opinione pubblica? Possibile che al Sole 24 Ore l’élite del giornalismo economico non avverta un fremito di sdegno a registrare con il titolo: “Ecco il piano contro i grandi evasori” la gigantesca frottola propinata da chi i grandi evasori li ha sempre coperti, favorendo lo scandalo a cielo aperto che costa al Paese 120 miliardi l’anno? Possibile che al Corriere della Sera non sappiano che “il rischio carcere per gli evasori” è una barzelletta che segue le altre barzellette sull’abolizione delle province, evaporata in un lampo come del resto la fantomatica “stretta” sulle pensioni? Non vogliamo dare lezioni a nessuno, ma in questo momento, drammatico come forse mai prima nella storia repubblicana, l’Italia ha bisogno di una stampa che non giri la testa dall’altra parte e che sappia gridare “buffoni” ai buffoni.

il Fatto 2.9.11
Evasione fiscale: fatti e opinioni
di Bruno Tinti


Leggo sul “Corriere” alcune anticipazioni sulla lotta all’evasione programmata da B&C, che dovrebbe consentire di iscrivere maggiori entrate per 700 milioni il primo anno, 1,6 miliardi per il secondo e così via. Apprezzo lo stile: i fatti separati dalle opinioni. Apprezzo un po’ meno che l’opinione non ci sia proprio. In fondo all’articolo si sarebbe dovuto scrivere: tutte cazzate. I fatti sarebbero i seguenti: 1) manette ai grandi evasori (più di tre milioni all’anno; cioè nessuno); 2) nuovo condono fiscale sotto forma di concordato: si incrocia il dichiarato con i beni posseduti (case, auto, barche, etc) e si scoprono i redditi incompatibili con il tenore di vita; 3) il nuovo condono avrebbe successo perché gli evasori avrebbero paura delle nuove sanzioni. 1) Di leggi denominate manette agli evasori ce ne sono state già 2. Quella in vigore, che era stata pensata proprio per mandare davvero in prigione gli evasori (l’ho scritta io), è stata sapientemente devirilizzata dal Parlamento trasversalmente concorde (gli evasori sono tanti e votano tutti per chi gli garantisce l’impunità). Così com’è non serve a niente. Dovrebbe essere riscritta da capo (anzi basterebbe recuperare la versione originale), ma le probabilità che questo accada sono di 10.000 a 1, soprattutto a distanza di un anno e mezzo dalle elezioni. E comunque l’abrogazione delle intercettazioni, la prescrizione breve e brevissima, il processo lungo e il processo breve renderebbero impossibile arrivare a sentenze di condanna. Fumo negli occhi. 2) Incrociare i redditi dichiarati con i dati di Catasto, Pra e Registro nautico si fa da sempre; e il Fisco qualche volta (quando non si trova di fronte a società offshore del genere di quelle create da B. per non pagare le tasse, come disse lui stesso espressamente) ottiene risultati. Resta il fatto che gli accertamenti sono il 10% delle dichiarazioni presentate, con l’ovvia conseguenza che l’evasore ha il 90% di probabilità di non essere mai scoperto. Senza radicali modifiche del sistema non ci sarà ovviamente nessun incremento di concordati. Fumo negli occhi. 3) In questa situazione, iscrivere tra le entrate quello che si dovrebbe recuperare con la lotta all’evasione si chiama, giuridicamente, falso in bilancio. Proprio quello che commette abitualmente (tanto B. lo ha depenalizzato di fatto) l’imprenditore che iscrive all’attivo crediti nei confronti di debitori falliti o certamente insolventi. Fumo negli occhi. Queste, sia chiaro, non sono opinioni: sono fatti. Esposti i quali, adempio all’onere di esprimere opinioni. Che sono: A) il sistema tributario e penale tributario italiano è inefficace perché è costruito per garantire l’impunità agli evasori. Non può essere migliorato perché è nella sua natura essere inefficiente. Si deve costruire un sistema nuovo. Ho già scritto di un sistema fondato sulla detrazione totale di tutte le spese concernenti i bisogni primari e sulla tassazione diretta (cosiddetta supertassa) per ogni acquisto di beni voluttuari. Risultato: il popolo della partita Iva la smette di fare nero. B) Nell’immediato, siccome servono soldi, una patrimoniale, che ha il merito di non essere commisurata al reddito dichiarato, come avviene per il cosiddetto contributo di solidarietà che premia l’evasore e castiga il contribuente onesto. Solo che siamo sempre lì: gente che ha pubblicamente lamentato che la manovra per uscire dalla crisi farà perdere le elezioni alla destra (come se il problema dell’Italia fosse questo) ovviamente tutto ciò non lo farà mai.

Corriere della Sera 2.9.11
Credibilità cercasi
di Massimo Franco


È assai poco berlusconiano l'emendamento col quale ieri, per la terza volta in due settimane, il governo ritiene di avere trovato un compromesso sulla manovra finanziaria. Delineare un orizzonte di giri di vite fiscali, manette per i «grandi evasori», pubblicazione dei redditi da parte dei Comuni, rappresenta un rovesciamento della filosofia di Silvio Berlusconi. Si tratta di misure che appena tre anni fa venivano rimproverate ad una sinistra accusata di vampirismo tributario. Oggi Lega e Pdl sono costretti a farle proprie: al punto che non ci si può non chiedere se siamo davvero di fronte alla versione definitiva.
La credibilità dell'Italia presso la Banca centrale europea si gioca molto sulla chiarezza e la certezza delle sue scelte: esattamente quello che non è stato fatto negli ultimi giorni. È il solo modo per arginare il declino di una maggioranza ammaccata dalle divisioni interne; logorata dalle incomprensioni fra il presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, richiamato ieri a Roma per una mediazione in extremis; e inseguita dalle ombre giudiziarie che riguardano Berlusconi. Qualunque leader che si rispetti sa di dover proporre misure impopolari.
La sensazione è che il governo si sia rassegnato a scegliere l'«impopolarità minore»: anche perché non aveva alternative. Dopo i pastrocchi sulle pensioni, serviva un segnale. Rimane da capire se basterà ai mercati, scongiurando il rischio di nuove manovre. E se consentirà a Berlusconi di andare un po' oltre la logica della pura sopravvivenza. Qualcuno comincia a pensare che esiste una maledizione dei vertici internazionali, per lui. Si cominciò con l'avviso di garanzia recapitatogli a quello di Napoli, nel 1994. Ieri, il presidente del Consiglio è arrivato a Parigi per il summit sul futuro della Libia, preceduto dalla notizia di nuove intercettazioni telefoniche e arresti.
Rispetto a diciassette anni fa, Berlusconi non è accusato di nulla, anzi: è vittima di un'estorsione. Ma un premier ricattato porta a domandarsi: perché? Non che l'Italia sia particolarmente sensibile a certi temi: spesso l'indignazione è una merce avariata dalla faziosità politica e dal moralismo. Il meno che si possa dire, però, è che mentre lievitava una crisi finanziaria sottovalutata fino alla sua esplosione, Berlusconi sembrava distratto da altro. Si tratta di una constatazione obbligata e amara.
Conferma e dilata le incognite della manovra economica. Un Berlusconi logorato non prelude ad una crisi di governo, ma alla perdita parallela di credibilità internazionale dell'Italia. L'arresto dell'imprenditore Gianpaolo Tarantini e della moglie, accusati di ricattare il premier, e l'ordine di cattura per Valter Lavitola, ritenuto un suo informatore sulle questioni giudiziarie, consegnano il capo del governo all'ennesima, imbarazzante sovraesposizione. Per ora il premier è condannato a rimanere a Palazzo Chigi; e l'Italia, e forse anche un pezzo d'Europa, a sperare che non si crei un vuoto di potere. Nonostante gli stereotipi deteriori che Berlusconi alimenta.

Repubblica 2.9.11
Quando il rigore è scritto sull´acqua
di Massimo Riva


Se ne sono viste e sentite talmente tante nella grottesca gestazione di questa manovra che nulla dovrebbe più stupire. Ma ieri il ministro dell´Economia ha superato ogni infelice primato di manipolazione dei conti asseverando con solennità che i saldi dell´ultima versione del provvedimento restano invariati rispetto alla previsione dei 45 miliardi necessari per anticipare al 2013 il fatidico pareggio del bilancio.
Già il testo originario del decreto aveva suscitato fieri dubbi sulla consistenza effettiva dei suoi effetti finanziari in osservatori severi ma imparziali quali la Corte dei Conti, la Banca d´Italia, l´Ufficio del Bilancio del Senato. Rispetto a quelle ipotesi di intervento la situazione è poi degradata di giorno in giorno per la resistenza contro alcune misure da parte di un´opposizione interna alla maggioranza capeggiata su alcuni punti niente meno che dal presidente del Consiglio in persona. Si sono così persi per la strada pezzi di manovra magari più che discutibili e però di sicuro impatto sui saldi del bilancio. È stata cancellata, per esempio, la super Irpef sui redditi oltre 90 e oltre 150mila euro che avrebbe comunque garantito un gettito sonante vicino ai quattro miliardi in tre anni. I tagli previsti a carico degli enti locali sono stati dimezzati rinunciando così a un altro paio di miliardi. Al tempo stesso si è rinunciato a compensare questi risparmi perduti vuoi con aumenti dell´Iva vuoi intervenendo sulle pensioni d´anzianità. O meglio, in quest´ultimo caso, abborracciando una tale enormità giuridica come lo scorporo retroattivo dei riscatti d´anni di studio o di leva militare da dover fare in poche ore una penosa e precipitosa retromarcia.
E adesso lo stesso ministro che avrebbe dovuto far pagare le tasse ai tanti, troppi ladri d´imposte ci racconta che per i buchi apertisi nella manovra non c´è problema. Essi saranno pareggiati con il gettito di più severe misure contro l´evasione tributaria.
Ebbene gli italiani non hanno bisogno che il fiscalista Giulio Tremonti spieghi loro l´importanza politica, civile e finanziaria della lotta contro chi si fa beffe delle imposte e dunque potrebbero anche plaudire a un governo che finalmente dice di voler fare la faccia feroce in materia. Se non fosse - e qui davvero si ha di nuovo l´antica impressione di essere presi per il naso - che il governo annuncia non solo interventi più mediatici che di sostanza, ma si spinge perfino ad attribuire loro effetti contabili che sono intrinsecamente scritti sull´acqua.
Va bene, mandiamo pure direttamente in galera coloro che rubano tasse per più di tre milioni. Diamo pure ai Comuni la facoltà (già, perché non l´obbligo?) di pubblicare l´elenco delle singole dichiarazioni dei redditi.
Facciamo finalmente una revisione accurata di tutte quelle società di comodo dietro le quali gli evasori più ricchi e incalliti nascondono barche e auto di lusso, immobili in patria o all´estero e così via. Chiediamo anche ai contribuenti di indicare nella dichiarazione annuale quanti sono e presso quale banca i loro conti correnti. Ma il gettito per l´Erario di tutto questo armamentario come si fa a calcolarlo seriamente in quantità e soprattutto in tempi d´esazione?
I contribuenti onesti sono stanchi di essere bombardati da straordinari annunci di maxievasioni scoperte della Guardia di Finanza cui fanno seguito - sovente dopo parecchi anni di contenzioso - incassi effettivi per lo Stato in misura notevolmente inferiore. Quelli poi che sono anche più attenti alla contabilità pubblica sanno che altrettanto sovente governi e parlamenti si sono letteralmente inventate cifre di gettito da lotta all´evasione al solo e miope fine di dare una copertura falsa nella sostanza ma accettata nella forma a questo o a quel provvedimento d´urgenza. La corsa del debito pubblico è lastricata da un eccesso di trovate del genere.
Se c´è una forma di gettito aleatoria per sua natura è proprio quella che deriva dalla lotta all´evasione perché l´ordinamento della materia sembra fatto apposta per incentivare ricorsi e contenziosi con conseguente impossibilità per lo Stato di calcolare i relativi incassi soprattutto nell´immediato futuro. Al ministro Tremonti che ora scopre l´evasione come il passepartout finanziario della manovra in corso si vorrebbe ricordare che è suo l´impegno al pareggio di bilancio entro il 2013. Oggi chiedere agli italiani di credere che in un paio d´anni il nuovo corso fiscale del governo Berlusconi produrrà l´effetto di colmare i buchi che la stessa maggioranza ha scavato nella sua manovra significa obbligarli a un esercizio impossibile per la loro intelligenza oltre che per la loro esperienza in materia. Figuriamoci poi quanto un simile esercizio possa essere possibile da parte di coloro che muovono i capitali sui mercati internazionali e che, nelle scorse settimane, hanno inviato al governo italiano espliciti inviti a non fare più furbate di basso conio e di valore finanziario nullo. Ieri lo spread fra i titoli del Tesoro e i "bund" tedeschi ha di nuovo superato la soglia critica dei 300 punti. Non per caso.

il Fatto 2.9.11
Sacconi: altro che pallottoliere
di Flavia Perina


Caro direttore, dunque un altro errore di pallottoliere. Stavolta, fa sapere Berlusconi, si è sbagliato Maurizio Sacconi. Nel vertice (il penultimo) sulla manovra il ministro del Lavoro aveva sostenuto che gli italiani interessati dal “congelamento” del riscatto di laurea e servizio militare erano solo 60 mila. Per questo è stata varata la norma, poi precipitosamente ritirata. Si era convinti che il provvedimento riguardasse solo fasce “marginali”. Ora, io capisco che un premier o un ministro non conoscano il prezzo del latte o non sappiano chi è Lukascenko, ma come si può, così, a spanne, credere che in Italia ci siano solo 60 mi-la ex-soldati di leva o ex-studenti universitari? La naja obbligatoria è stata sospesa appena sei anni fa, dal secondo governo del Cavaliere: fino al 2005 tutti o quasi gli italiani maschi hanno fatto il servizio militare. Quanto ai laureati, sono circa il 20 per cento della popolazione. Non ci voleva certo un mago della contabilità o della statistica per immaginare che quel numero ridicolo – sessantamila! Meno dei posti a sedere dell'Olimpico – fosse del tutto improbabile. Con tutta la disistima per la competenza di questo governo e dei suoi responsabili economici, la tesi dello sbaglio di calcolo fa ridere. Penso piuttosto che il provvedimento fosse, ab origine, l'esito di una scelta “ideologica” del centrodestra e della Lega. La categoria dei laureati è sommamente impopolare per questo governo. Sacconi ha fatto addirittura propaganda per ridurla, invitando i genitori a iscrivere i loro figli alle scuole professionali piuttosto che ai licei. Meglio avvitare bulloni che conquistare “competenze che non sono richieste dal mercato del lavoro”. Quanto ai soldati di leva, nella percezione del Pdl sono il fantasma di un'Italia rottamata da un pezzo, assieme all'articolo 52 della Costituzione con quella frase – “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino” – che nella sua retorica ingenuità evoca valori, impegni, giuramenti, antitetici alle attuali attitudini della maggioranza e irritanti per i soci padani. Qualche giorno fa Luca Te-lese ha scritto un pezzo interessante sulla collezione di rancori prodotta dal berlusconismo, analizzando l'istinto vendicativo che sembra muovere gli ex socialisti “alla Sacconi” contro l'antico nemico comunista e tutto ciò che ne evoca la passata egemonia, dai precari agli operai al sindacato. È un ragionamento che va ampliato.
   Il “sacconismo” seppellisce l'unica parte difendibile dell'esperienza socialista, l'attenzione al mondo della cultura e lo spirito patriottico, in nome di una visione del tutto estranea alla tradizione italiana. Operai senza diritti, intellettuali trattati alla stregua di parassiti, libertà individuali – come far famiglia, come vivere, come morire – bandite come lussi borghesi. Roba da Pol Pot spacciata per modernizzazione di un'Italia allo stremo, azzerando in difesa del “mondo nuovo” del berlusconismo tutto ciò che lo ha preceduto a cominciare dalla straordinaria esperienza del laboratorio socialista degli anni '70. È lo stesso fenomeno che ha visto la destra rimasta fedele al Cavaliere annientare valori e riferimenti ideali difesi strenuamente per mezzo secolo. E la componente cattolica inchinarsi all'eroe del Bunga Bunga trasformando persino la bestemmia in episodio da “contestualizzare”. Così il Pdl, nato con l'ambizione di essere sintesi dei grandi filoni della cultura nazionale, si è trasformato nella loro tomba. Altro che pallottoliere, altro che errore di calcolo.

Repubblica Firenze 2.9.11
Operaio morto, arresto convalidato
Sicurezza violata: il gip non scarcera il datore di lavoro
La nuova sensibilità dei magistrati
di Beniamino Deidda, Procuratore generale della repubblica di Firenze


La notizia della convalida da parte del Giudice per le indagini preliminari dell´arresto di un datore di lavoro, ritenuto responsabile della morte di un suo lavoratore, è di quelle che determinano un "salto di qualità" nel panorama della repressione giudiziaria del grave fenomeno degli infortuni sul lavoro. Se non mi sbaglio, è la prima volta che in Italia si è adoperata la carcerazione preventiva in occasione del verificarsi di un infortunio, sia pure mortale. La novità non sta tanto nel fatto che si è proceduto all´arresto nella "quasi" flagranza del reato (un particolare che può sollevare qualche dubbio non ingiustificato) di omicidio colposo.
Ciò che più conta è che un pubblico ministero e, successivamente, un giudice abbiano ritenuto di dover ricorrere al carcere preventivo per contrastare un fenomeno sociale e criminale di indubbia gravità.
Intendiamoci. Il fatto che si sia dovuto aspettare l´anno di (relativa) grazia 2011 per arrestare un datore di lavoro indagato per l´omicidio di un lavoratore fa sorgere nei profani qualche inevitabile domanda, in un paese in cui nessun ladruncolo di angurie sfugge all´arresto immediato, se scoperto. Sono domande di elementare politica giudiziaria e vanno rivolte soprattutto ai pubblici ministeri e ai giudici: come mai l´intervento della custodia cautelare preventiva riguarda per lo più la criminalità spicciola e quasi mai quella di alto bordo?
Del resto i datori di lavoro non sono stati gli unici soggetti finora "trascurati" dai Pm e dai giudici. E´ successo per lunghi decenni anche per gli autori di gravissimi incidenti stradali che hanno provocato un numero infinito di morti. Nessuno ha mai proceduto all´arresto preventivo dei responsabili. Solo da poco tempo un´opinione pubblica sempre più larga, indignata per le pene irrisorie che troppo spesso sono state comminate per queste morti, reclama pene più aspre e addirittura l´introduzione del reato di omicidio stradale. Ricorrendo magari anche alla carcerazione preventiva.
Si potrebbe continuare con gli esempi di una certa "indifferenza" dei magistrati nei confronti di certi reati. Chi ha visto mai, ad esempio, in manette preventive gli evasori fiscali? "A trovarli", risponderete voi (e in effetti, se dura questo governo, non penso che li troveremo facilmente).
Naturalmente non vogliamo dire che l´episodio di questi giorni rappresenti una svolta e neppure che abbia aspetti positivi. Assai più della carcerazione preventiva sarebbe importante l´effettiva prevenzione relativa alla salute e alla sicurezza dei lavoratori. E non sarà certo il carcere che farà crescere la cultura della sicurezza nei datori di lavoro.
Ma chi presta qualche attenzione alle cose della giustizia non sarà indifferente all´emergere di una nuova e diversa sensibilità dei magistrati in materia di infortuni e malattie da lavoro.
L´autore è il Procuratore generale della Repubblica

l’Unità 2.9.11
Intervista a Carlo Smuraglia
«Mobilitazione straordinaria per salvare il 25 aprile»
Il presidente Anpi «Ancora nessun atto formale per fare uscire l’accorpamento delle feste civili dalla manovra. Da oggi manifestazioni, raccolte di firme, presidi e telegrammi al presidente del Senato»
di Roberto Brunelli


Chi è. Guida un’associazione con 150 mila iscritti
Carlo Smuraglia èun avvocato esperto di lavoro. È stato parlamentare nel Pci e nel Pds. Da aprile è presidente dell’associazione dei partigiani, che conta 150 mila iscritti.

Contro la storia
«Tutto sarà affossato nella fiducia? Vien da pensare che davvero ci sia chi vuole fare i conti conla Resistenza...»

La storia può essere violentata in tanti modi. Per esempio affogando un emendamento nella babele di trattative intorno a questa quadrupla manovra che il Wall Street Journal ha definito «una pagliacciata». Ma, ancora una volta, i partigiani non ci stanno. Ieri la segreteria nazionale dell’Anpi, riunita in seduta straordinaria, ha deliberato una mobilitazione generale per impedire la strage delle cosiddette «feste civili», quelle, per intendersi, che celebrano il fondamento dell’Italia uscita dal fascismo. «Il 25 aprile,
il primo maggio e il 2 giugno: siamo ancora lì, a difendere non solo la memoria, ma l’identità stessa del paese»: lo dice Carlo Smuraglia, presidente dell’associazione nazionale partigiani.
Presidente, cosa sta succedendo?
«La situazione è molto confusa: la manovra viene riaggiustata continuamente, al Senato si stanno presentando gli emendamenti, la commissione è in attesa e in tutto questo non si sa ancora quale sia la sorte del paragrafo sulle festività. Comprendiamo i motivi della manovra, ma l’aspetto dei valori è altrettanto importante. 25 aprile, primo maggio e 2 giugno sono date importanti per tutti gli italiani. Gli argomenti che si sono usati per inserirle nella manovra sono irrilevanti dal punto di vista del risparmio. E poi: davvero non abbiamo la consapevolezza del valore simbolico ed educativo di queste date? Noi il 25 aprile spieghiamo alle nuove generazioni cos’è stato il fascismo e cosa ha voluto dire la Liberazione, così come il primo maggio è un momento unitario che riguarda tutti i lavoratori, una festa che solo il fascismo aveva messo in discussione...».
Voi lanciate una mobilitazione straordinaria...
«Abbiamo dato indicazione a tutte le nostre delegazioni molte delle quali si sono mosse già autonomamente di intensificare al massimo il proprio impegno. Siamo preoccupati per il fatto che si parli sempre più spesso di fiducia: sarebbe grave se vi rientrasse la norma sulle festività senza che vi sia stata una discussione seria».
Ma qual è la ragione profonda per questa misura? Davvero quella di fare i conti con la Resistenza? «Sicuramente questa vicenda alimenta il sospetto che vi sia in alcuni la volontà di cogliere l’occasione di togliere di mezzo valori fondamentali alla convivenza nel nostro paese. Si stanno sommando diverse cose: proposte di legge per l’abrogazione della dodicesima disposizione transitoria della Costituzione (che vieta la riorganizzazione del partito fascista, ndr), il tentativo di equiparare i repubblichini ai partigiani e oggi la volontà di spostare il 25 aprile. Sono iniziative che fanno pensare che ci sia una precisa volontà o, come minimo, una scarsa comprensione della storia».
Eppure sembrava che stessero prendendo piede iniziative bipartisan... «Beh, non se n’è saputo più nulla. Ho visto le dichiarazione del ministro Brambilla che ha ribadito come la questione della festività sia rimasta in bilico. Noi aspettiamo un atto formale: sarebbe motivo di tranquillità per tutti, a quel punto ci si può occupare dei veri elementi della manovra, che investe in maniera così gravosa le famiglie italiane. Intanto promuoviamo tutte le iniziative possibili: telegrammi, raccolte firme, presidi, manifestazioni. Vogliamo fare sentire il peso della volontà popolare sollevando un problema che non è dell’Anpi, ma di tutti gli italiani».

il Fatto 2.9.11
Ricatti anche sotto il cupolone tra minacce e lettere anonime
Una mano ignota scrive a Bertone: “Funerali a corte”
di Marco Politi


Gran svolazzar di corvi in Vaticano. “Funerali a corte” è il sinistro augurio rivolto da un anonimo prelato al cardinale Bertone, in una lettera gentilmente recapitatagli. La missiva rivela l’atmosfera di malumori, rancori e divisioni che si respira in Curia.
 “Una bufala estiva”, la qualificano i collaboratori del pontefice. Nel senso che oltre il Portone di Bronzo non aleggia – come forse qualcuno si illude – un’aura paradisiaca, ma fra i tanti che lavorano a maggior gloria di Santa Romana Chiesa c’è anche un proliferare di professionisti della lettera anonima. “Per i collezionisti – racconta un veterano di Curia – non c’è che l’imbarazzo della scelta: ogni settimana partono almeno tre lettere anonime”. Indirizzate a tutti i livelli. Carriere bloccate, sorpassi nelle promozioni, soffiate su amanti vere o presunte , delazioni su rapporti gay, favole metropolitane come il corridoio segreto che permetterebbe a monsignori poco casti di ritrovarsi a Trastevere per passare notti allegre: un’orgia di rumors e ciacole che finiscono in massa in una produzione di epistole senza firma, al cui confronto la rivista Chi fa la figura di un bollettino parrocchiale e Alfonso Signorini pare un timido chierichetto.
D’altronde la “circolare” anonima, che costruì un altarino di fango sull’ammenda penale inflitta a suo tempo per il reato di “molestie” dai giudici di Terni al direttore dell’Avvenire Boffo, non era stata redatta da mangiapreti. Vittorio Feltri ebbe la colpa e la responsabilità di rilanciare la polpetta avvelenata, ma la cottura era avvenuta in forni di christifideles ambrosiani.
NELL’ESTATE del 1999 nel Palazzo apostolico si assistette impotenti all’esplodere di un superscandalo di soffiate anonime, raccolte addirittura in un libro pubblicato dalle edizioni Kaos (nomen omen) con il titolo di Via col vento in Vaticano. Un minestrone piccante di messe nere, incontri clandestini etero e gay, complotti massonici, scontri per promozioni mancate. Il libro era passato inosservato, ma qualcuno ebbe l’infelice idea di denunciare uno degli autori (scoperto), un vecchio protonotario apostolico , mons. Luigi Marinelli. Partita la denuncia, si scatenò un circo mediatico internazionale mentre in Vaticano dilagava il gioco di società: “No, non era il cardinale a circuire la suora, ma il suo segretario… che dici, l’azzimato monsignore abbracciato in macchina a un ragazzino non è diventato arcivescovo, l’hanno promosso invece a…”. Finì che il Vaticano – alla maniera berlusconiana ante litteram – insabbiò il processo.
L’annuncio minaccioso di “grandi funerali a corte”, che qualcuno ha voluto persino leggere come minacce di morte rivolte al braccio destro di Ratzinger, è piuttosto l’equivalente di un romanesco “te possino…” scagliato contro Bertone . Al personale vaticano ricorda l’avvertimento di Don Bosco indirizzata a re Vittorio Emanuele II per impedire la nazionalizzazione delle proprietà degli ordini religiosi. La legge passò lo stesso nel 1855. Ma i clericali intransigenti si bearono della profezia di Don Bosco perché a Vittorio Emanuele II morirono in rapida successione la madre, la moglie, il fratello e l’ultimogenito. Quanto alla moglie, è noto il robusto appetito del primo re d’Italia nel consolarsi.
“Gran funerali a corte”, dunque, è il pensierino indirizzato al Segretario di Stato. La lettera è stata passata come di prammatica alla gendarmeria vaticana, ma nessuno teme un attentato. Ai piani alti del palazzo apostolico si è già scoperto l’autore. “Un anziano monsignore campano”, sussurrano, con il fegato avvelenato per una mancata nomina. D’altronde il tiro al bersaglio anonimo contro i Segretari di Stato è un classico. Ci sono passati tutti. Da Casaroli a Sodano per rimanere agli ultimi trent’anni. Bertone non poteva costituire un’eccezione.
PIUTTOSTO è interessante capire perché la lettera maledicente sia alla fine approdata sulle pagine del settimanale Panorama. Assieme a tanti altri piccoli segni appare il riflesso di un incancrenirsi dell’atmosfera in Curia. Priva di una strategia geopolitica religiosa di ampio respiro, la macchina curiale sembra ripiegata su se stessa, condannata a piccoli rancori e gelosie, in preda a divisioni di clan che si ostacolano a vicenda.
Bertone, come Segretario di Stato, non è mai stato amato dai quadri curiali. Gli si rimprovera di non avere esperienza nella diplomazia. Di piazzare troppi salesiani in posti di rilievo. Di non aver saputo intervenire in tempo su Benedetto XVI per evitare le varie crisi che hanno scosso il pontificato.
È noto che il Papa lo ha scelto come Segretario di Stato perché era il suo strettissimo collaboratore al Sant’Uffizio e non per altre tappe del suo curriculum. Già nel 2010 i dossier di Wikileaks segnalavano che “non poche voci in Vaticano” chiedevano le dimissioni di Bertone, ma papa Ratzinger per due volte con lettere pubblicate dall’Osservatore Romano gli ha confermato la sua piena fiducia. Resterà Segretario di Stato per tutto il pontificato.

Repubblica 2.9.11
Incubi e raptus di follia quei traumi di guerra che l´esercito nega
Colpito il 20% dei reduci, ma per l´Italia non esiste
La chiamano "Sindrome del Vietnam" e può anche portare al suicidio chi ne è vittima
Il ministero della Difesa minimizza: selezioniamo i nostri soldati meglio degli altri
Gli esperti: impossibile, ha la stessa incidenza che nelle altre forze armate europee
di Ranieri Salvadorini


ROMA - «Ricordo solo che mio figlio mi diede una pacca sulla spalla. "Ciao pà!", disse. Non ricordo altro. Solo che i vicini cercavano di togliermelo dalle mani». Piero Follesa è un reduce di Nassirya che ha aggredito il figlio quattordicenne credendosi sotto attacco. E la sua mente lo era. È il Post Traumatic Stress Disorder (PTSD), una patologia psichiatrica che colpisce soprattutto i reduci dalle missioni militari. Rispetto al trauma provocato dalle catastrofi naturali, come ad esempio un terremoto, in guerra si aggiunge l´intenzionalità: è un tuo simile a volere la tua morte.
Nelle Forze armate italiane si dovrebbero contare migliaia di storie simili a quella di Piero. In Europa, infatti, la media di PTSD tra i contingenti è del 4-5 per cento, all´interno di una stima del 10 per cento di manifestazioni minori del disturbo. Le stime crescono vistosamente negli eserciti più aggressivi, che rispondono a regole d´ingaggio diverse da quelle dei contingenti europei: maggiore è l´esposizione allo scontro e maggiore è l´esposizione allo stress. Si arriva così al 20-30 per cento negli Usa (nel 2008 i soldati colpiti da gravi disturbi psichiatrici sono stati stimati in oltre 320mila, su 1,6 milioni), si flette di poco in Canada o Israele, mentre in Gran Bretagna la Difesa dichiara un 3 per cento, subito smentita dalle cronache: quasi il 10 per cento dei detenuti nelle carceri britanniche (circa 20.000 persone) provengono dalle Forze armate, quasi tutti "dentro" per violenze (soprattutto domestiche) legate all´abuso di alcol e droghe.
Eppure le gerarchie militari italiane invece raccontano un´altra storia: su 150.000 soldati impiegati all´estero risultano solo 2/3 diagnosi l´anno su circa 20 casi segnalati. Statisticamente zero. È credibile questa "singolarità antropologica"? E come si spiega? Se è davvero così "inverosimile", come sostengono alcuni, per quale motivo il fenomeno non emerge? Disattenzione casuale o incompetenza?
L´Esercito rivendica questo zero statistico con orgoglio: «Anche se capisco che possa sembrare inverosimile, le casistiche fornite dai colleghi sono corrette - afferma il Generale Michele Gigantino, che per 10 anni ha guidato il Dipartimento di scienze psichiatriche e neurologiche al Celio di Roma - merito di una selezione a maglie strette: passano solo i più adatti. E poi i comandanti, altro sensore: loro hanno il polso della situazione. Per questi motivi il paragone con gli altri paesi è fuorviante». «Impossibile», replica Carol Beebe Tarantelli, psicoanalista, perché, «addestramento o meno, la strutturazione della psiche occidentale è simile. Così come ci sono in Olanda, ad esempio, devono esserci anche in Italia». L´Esercito non li rileva o li nasconde, conclude.
Daniele Moretti, psichiatra, ha seguito dal 2004 a oggi 5 reduci di Nassirya, al CIM di Finale Ligure, e si dice perplesso sui dati forniti dall´Esercito: «Al pari di altre patologie ci si dovrebbe aspettare un´incidenza analoga agli altri paesi impegnati in missione all´estero e questo fa pensare che il fenomeno non sia stato rilevato», spiega Moretti. Perplessità condivise in questi anni con la collega e psicologa Sabrina Bonino, con cui ha fatto squadra, che introduce un ulteriore aspetto emerso dall´esperienza "di trincea" di Finale Ligure (capitanata dal Direttore del Dipartimento di psichiatria, Tiziano Ferro). «Sono venuti tutti con delle fotografie da mostrarmi, perché forse temevano di non essere creduti», racconta Bonino.
La psicologa si riferisce a immagini di corpi dilaniati dall´esplosione e raccolti dai suoi pazienti nei giorni successivi all´attentato. Dalla paura di non essere creduti nasce, forse, l´ossessione dei militari per la documentazione fotografica: corpi dilaniati o carbonizzati, fusi tra loro o nelle lamiere delle macchine, brandelli di carne. «Noi le fotografie le abbiamo stampate in mente, nei minimi dettagli, ma sono da vedere», è stata la battuta ricorrente durante molti incontri.
A Pietro Sini, altro reduce dall´Iraq, il Disturbo da stress è emerso tardi, nel 2009, quando è diventato irritabile per ogni cosa, e ha perso il sonno, ha capito «che qualcosa non stava funzionando». Sini è un operativo. Subito dopo l´esplosione si è gettato nella base, dove ha messo in salvo oltre 5 colleghi (lo mostra in parte la TV araba) e nel video mostra le foto degli accertamenti del post-attentato, fatte per il riconoscimento dei corpi. «Questo è quel collega che ti dicevo, dentro il Defender», dice Sini indicando una gamba che il calore dell´esplosione ha letteralmente fuso nel motore. Racconta che i resti dei compagni sono stati raccolti a «mani nude, altri con le cesoie, perché aggrovigliati nel filo spinato. Dove ronzavano mosche, racconta il Carabiniere ora in congedo, lì sapevamo che c´erano resti umani. Mettevamo tutto in sacchi neri, normali sacchi di monnezza, cercando di evitare che i cani randagi si portassero via i resti dei nostri compagni».
Corpi, corpi a metà, corpi carbonizzati, corpi sfigurati e 6 sacchi della spazzatura di resti. Questo è quello che c´era in quelle 19 bare. «Noi raccoglievamo tutto, nell´impossibilità di sapere se si trattava di un Carabiniere, di un militare, o altro. La guerra è anche questo». «Quando la sera ti levi gli anfibi e con lo stecchetto li ripulisci dei resti di determinate cose», dice Piero Follesa, rievocando i giorni del post-attentato.
I due reduci sono amareggiati: «Altro che "figli", altro che "uomini", altro che "eroi", l´Arma dei Carabinieri ci ha abbandonato quando ne avevamo più bisogno, per chi abbiamo combattuto?». È l´altro lato della retorica, quando la guerra "torna a casa" nella mente di chi c´è stato. Perché ammettere il disturbo mentale tra i militari «significherebbe dire all´opinione pubblica che le attività che stiamo svolgendo all´estero sono di stampo bellico», sottolinea Sergio Dini, Sostituto procuratore di Padova, a lungo Procuratore militare. Che retoricamente si chiede: «Perché l´Esercito dovrebbe istituire una struttura di studio per far emergere il fenomeno se lo si vuol negare?».
Nella lettura che ne dà Dini le Forze Armate sono un «passaggio obbligato» per entrare nelle Forze dell´ordine. È qui che si crea un gioco dell´equivoco, per il procuratore: l´interesse dei soldati a dissimulare il malessere per restare dentro ed entrare poi in Polizia collude con quello delle gerarchie militari a non doversi far carico del fenomeno. È il precariato militare: cumulare missioni su missioni nascondendo ansia e sofferenza, altrimenti il giorno dopo sei fuori. E ti giochi il tuo progetto di vita. E infatti c´è crisi di "vocazioni": i soldati vengono (quasi) tutti dal Sud, da famiglie disagiate sul piano socio-economico, perché «non sarebbe presentabile mandare a morire i figli dei professionisti e così si è fatto l´esercito professionale: un escamotage per far pagare ai più poveri il prezzo concreto delle missioni all´estero. Che fine facciano questi ragazzi e se sia giusto che l´Esercito sia fondato sulle fasce più deboli della popolazione è un problema che non si sta ponendo nessuno», conclude Dini.

Repubblica 2.9.11
"Il nostro inferno dopo la battaglia"


ROMA - I racconti dei militari italiani che dopo le missioni di guerra all´estero - dall´Iraq all´Afghanistan - si sono ammalati del "Post traumatic stress disorder". Le denunce dei medici e degli psicologi sul silenzio dei vertici dell´esercito italiano. Sul sito delle inchieste Repubblica-l´Espresso (http://inchieste. repubblica. it) saranno online da stamattina tutti gli approfondimenti sul caso dei traumi di guerra dei soldati. Con le video-interviste ai protagonisti e tutti i documenti originali.

Corriere della Sera 2.9.11
«Il muro israeliano a Gerusalemme come quello del ghetto di Varsavia»
Il sociologo Bauman riapre la polemica sullo sterminio degli ebrei
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — Com'è malmessa, la Terra Promessa. E bellicosa. E senza pace, perché timorosa della pace. E quanto specula sulla Shoah. E quel muro che divide Israele e la Cisgiordania, poi: roba da nazisti, altroché, niente da invidiare alla muraglia che chiuse il Ghetto di Varsavia... Quante volte li avete sentiti, questi argomenti? Cose già dette, già lette. Già proclamate, già contestate. Così ripetute che nemmeno ci finiscono più, sui giornali israeliani, quando arrivano da chi se l'aspettano.
Diverso, però, se a dirle è Zygmunt Bauman, uno dei più grandi sociologi viventi, ebreo di Poznan che da bimbo visse le persecuzioni hitleriane e da adulto le purghe comuniste, che trovò rifugio a Tel Aviv per preferire poi l'Inghilterra. E che in un'intervista a un settimanale polacco, Politika, ha rovesciato sui politici di Gerusalemme la più urticante delle accuse: di fare ai palestinesi quel che fecero le Ss. «Parole inaccettabili — ha protestato formalmente il governo Netanyahu, in una lettera al giornale del suo ambasciatore in Polonia —. Sgradevoli, ingiuste e senza alcuna base di verità».
Il muro di Betlemme come il muro di Varsavia: si può paragonare l'orribile barriera antiterrorismo all'orrore che fece morire mezzo milione d'ebrei? Bauman, premio Adorno, critico dei totalitarismi e del negazionismo, a 85 anni si permette di rompere il tabù: «Israele sta traendo vantaggio dall'Olocausto per legittimare azioni inconcepibili». Pugno, ergo sum: combatto, quindi esisto? Bauman ne è stracerto: «I politici israeliani sono terrorizzati dalla pace. Tremano, col terrore della possibilità d'una pace. Perché senza guerra e senza una mobilitazione generale, non sanno come vivere. Israele non vede come un male i missili che cadono sulle cittadine lungo i confini. Al contrario: i politici sarebbero preoccupati, perfino allarmati, se non piovesse questo fuoco». E ancora, citando un suo articolo pubblicato su Haaretz, lo stesso giornale israeliano che giorni fa ha ospitato lo scrittore Günter Grass e il suo parallelo fra le vittime della Shoah e le vittime tedesche della Seconda guerra mondiale: «Sono preoccupato — dice il sociologo polacco — del fatto che gl'israeliani più giovani crescano nella convinzione che lo stato di guerra e l'allerta militare siano naturali e inevitabili».
Vite di scarto: sulle opinioni di Bauman, l'opinione pubblica israeliana ha meno certezze della classe politica. Basta leggere i commenti Web all'intervista: «Sono d'accordo, questa destra ci porta alla rovina», scrive Linda, ebrea newyorkese; «è come paragonare le mele alle arance», è perplesso Bobin, di Tel Aviv; «dategli una casa gratis a Sderot — boccia Moshe — e vada là a prendersi i missili da Gaza». Il dibattito finisce anche in tv: un po' perché è di questi giorni la storia delle scuole francesi che cancellano la Shoah dai libri di testo, e questi veleni qui fanno sempre impressione; un po' perché Bauman, atteso da oggi a Sarzana per la sua lectio al Festival della Mente, è molto conosciuto (per tre anni insegnò all'università, i suoi libri sono tradotti in ebraico) e ha posizioni che a molti ricordano un'altra bestia nera della destra, lo storico israeliano Ilan Pappé.
«Io ammiro molto il professor Bauman e la sua storia — dice al Corriere l'ambasciatore israeliano a Varsavia, Zvi Rav-Ner, 61 anni, origini polacche —. Lui è stato un esempio: dovette andarsene dalla Polonia nel '68, per i pogrom contro gli ebrei. Perciò siamo molto stupiti che abbia detto cose d'un odio così cieco. Dal '71, il professore è tornato in Israele solo tre volte: forse non sa bene che oggi è uno Stato democratico, dov'è ammessa qualsiasi critica, anche la più aspra. Ma dove queste parole sono considerate da antisemita. Le stesse che dicevano i comunisti polacchi dopo la guerra dei Sei giorni: quelli che cacciarono Bauman».

Repubblica Firenze 2.9.11
Giornata della cultura ebraica
Volli e Ovadia, lite su Netanyahu
"Moni è contro Israele, non invitatelo". Replica l´attore: "Psicosi"
"Quello che dico lo pensano milioni di israeliani, ma gli oltranzisti non accettano critiche"
di Roberto Incerti


La TOSCANA è mobilitata per la «Giornata europea della cultura ebraica» che si terrà domenica, con qualche anticipazione domani. Ci sono iniziative colte, bellissime; ma c´è anche una assurda polemica che riguarda un maestro del teatro musicale qual è Moni Ovadia che nei suoi spettacoli da sempre descrive con ironia e struggimento la condizione dello sradicamento ebraico. Domenica alle 16 in piazza del Mercato a Siena Ovadia è fra i protagonisti di Ridere per ridere: racconti, barzellette e umorismo ebraico da Abramo al web! La risata corre nella rete. Si tratta di un «Theater talk» condotto dal giornalista di La7 David Parenzo che avrà come ospiti, oltre a Ovadia, il vignettista ed autore televisivo Massimo Caviglia, il massmediologo Klaus Davi, l´editore Daniel Vogelmann, un rabbino a sorpresa.
Scusi Ovadia, ma chi è che la contesta e perché?
«Il semiologo Ugo Volli e vari esponenti di comunità ebraiche oltranziste mi sparano addosso perché critico il governo israeliano per quello che viene fatto alla popolazione civile palestinese. Io sono contro l´esproprio di case, la distruzione degli ulivi, le colonizzazioni. Tengo a chiarire che la mia fonte è la stampa israeliana».
La sua è una posizione isolata?
«Certo che no: quello che dico io lo pensano moltissimi israeliani. Ci sono però tanti oltranzisti di destra che non tollerano le critiche. Io sono ebreo, sono un cittadino italiano, sono iscritto ad una comunità ebraica da 30 anni: nessuno potrà mai impedirmi di dire ciò che penso. Mi riterrò sempre libero di criticare e gli altri potranno sempre criticarmi. E poi io sono un cittadino libero, non ho alcun ruolo istituzionale».
Cos´è per lei l´umorismo ebraico?
«La dote maggiore degli ebrei è l´autoironia. L´umorismo ebraico è una critica della ragion paradossale che smaschera le violenze e le idolatrie. Sconfigge la logica di fazione a favore della fragilità contraddittoria dell´uomo attraverso una spietata autodelazione. L´autoironia non si ferma davanti a nessuno. Mi occupo di umorismo ebraico da 30 anni, mi hanno invitato ad un incontro e non vedo perché non dovrei andare. Non ci si può fermare di fronte alle posizioni più di reazionarie. Democrazia significa dibattito non oscurantismo. Rispetto, non psicopatologia».
Cosa dice ai suoi detrattori?
«Io sono contro la politica del governo Netanyahu, non contro Israele. Dove è finita la libertà di critica, la libertà di pensiero? E non mi permetterei mai il boicottaggio per quelli che non la pensano come me. Io sono a favore di una soluzione che vede «due popoli, due stati» nel rispetto della «green line», ovvero i confini del 1967».
Il giornalista David Parenzo così interviene sulla polemica: «Nel nostro theater talk si parla di umorismo ebraico. Chi se non Moni Ovadia dovevo invitare? Il suo teatro da decenni tratta in maniera colta questo tema. Io stesso spesso ho idee diverse da Moni: ma questo cosa significa? Io credo che contestare la presenza di Ovadia all´incontro di domenica sia una forma di scarsa intelligenza».
Siena è la città capofila in Italia della Giornata europea della cultura ebraica. Organizzata dall´Unione delle comunità ebraiche italiane la manifestazione - l´altro anno sono state più di 50.000 le presenze - si svolgerà in più di sessanta località della penisola e in 27 paesi della Ue con una fitta ragnatela di eventi su tutti gli aspetti dell´ebraismo.

Corriere della Sera 2.9.11
La crociata antiaborto del texano Perry spaventa pure i repubblicani (moderati)
Il governatore del Texas è in testa ai sondaggi per la nomination del partito
di Massimo Gaggi


NEW YORK — Dopo «Irene», a seminare il panico in America è arrivato ora l'«uragano Perry», il candidato che, ad appena due settimane dalla sua discesa in campo, sembra già aver sbaragliato gli altri aspiranti alla «nomination» repubblicana alla Casa Bianca, compreso Mitt Romney, dato da tutti come favorito fino a Ferragosto. Il governatore del Texas trionfa in tutti i sondaggi e intanto si tuffa in una durissima polemica contro un giudice che ha bloccato una legge del suo Stato che, nel tentativo di disincentivare in ogni modo gli aborti, impone alle donne e ai medici quella che la corte federale ha giudicato un'inammissibile violazione della libertà di espressione tutelata dalla Costituzione americana.
Perry ha fulminato Sam Sparks (giudice, peraltro, a suo tempo nominato da George Bush e tutt'altro che progressista) ribadendo la sua linea favorevole, in caso di aborto anche per stupro, non solo all'obbligo di sottoporsi a un'ecografia transvaginale, ma anche a imporre ai medici a spiegare in dettaglio alla donna incinta come avviene lo sviluppo del feto e persino a farle ascoltare il battito cardiaco, in modo da cercare di dissuaderla dalla decisione di interrompere la gravidanza.
Contemporaneamente il governatore repubblicano ha continuato a snocciolare il suo programma economico arciconservatore, mentre la lettura di «Fed Up» (Non se ne può più), il suo libro-manifesto appena dato alle stampe, sta facendo venire i brividi alla sinistra americana.
Ma comincia a esserci preoccupazione anche tra i conservatori moderati e nell'«establishment» economico che aveva scelto di puntare su un uomo d'impresa come Romney rispetto a un Rick Perry che oggi fa l'iperliberista pronto ad azzerare — dalle pensioni alla sanità — ogni brandello di «Stato sociale», ma la cui biografia è densa di episodi nei quali il governatore in anni più o meno lontani si è lasciato andare a scelte stataliste, per giunta poco trasparenti.
Fin qui la prospettiva di una sfida per la Casa Bianca tra Barack Obama e un esponente della destra radicale non era stata presa più di tanto in considerazione un po' perché i candidati potenziali — da Sarah Palin a Michele Bachmann — non sembravano avere la caratura per aspirare alla nomination, un po' perché si riteneva che un leader integralista, non appoggiato dalla parte moderata del fronte conservatore, avrebbe finito per favorire la riconferma del presidente democratico per un secondo mandato.
Perry, però, ha sconvolto i termini dell'equazione: anche se ha assunto posizioni spesso estreme (definendo, ad esempio «incostituzionale» Medicare, l'assistenza sanitaria per gli anziani) e se ha usato espressioni durissime contro Ben Bernanke (un altro repubblicano scelto a suo tempo da Bush), affermando che, se stampasse dollari da qui alle elezioni del 2012, il capo della Federal Reserve commetterebbe «alto tradimento», nei sondaggi il governatore ha rapidamente sopravanzato tutti gli altri candidati. Il sondaggio Quinnipac, il più recente, lo dà al 24 per cento dei consensi, sei punti più di Romney. Quello della Cnn vede, addirittura, un Romney doppiato da Perry (27 a 14) con la Palin al 10 per cento e la Bachmann al 9 insieme a Rudy Giuliani.
I giochi non sono ancora fatti, certo. Tra qualche giorno toccherà alla Palin decidere se candidarsi mentre alcuni conservatori spaventati da Perry stanno cercando di convincere il governatore del New Jersey Chris Christie (che però continua ad opporre un fermissimo rifiuto) a scendere in campo. Per adesso l'effetto Perry ha fatto emergere soprattutto la disaffezione dell'elettorato repubblicano per Romney: accettato come il minore dei mali, ma guardato sempre con diffidenza perché considerato poco sincero, poco comunicativo e anche per la sua fede mormone.
Meglio, almeno per ora, l'evangelico Perry, che sa tenere la scena e vanta i successi economici colti negli 11 anni in cui ha governato il Texas. Anche se radicale, Perry è un avversario assai temibile per un Obama sempre più indebolito dalla crisi economica e occupazionale, proprio perché il politico repubblicano può affermare di aver guidato uno Stato molto attivo nella «job creation».
«Posti di lavoro creati soprattutto nel settore pubblico e con le commesse militari di Washington» replicano indispettiti i democratici, il cui improvviso panico è giustificato dal record di Perry che in vita sua non ha mai perso un'elezione importante. Chi, come Ruth Marcus del Washington Post, ha già letto «Fed Up», conclude, tra l'atterrito e lo sconsolato, che George Bush, in confronto, era un «liberal» alla George McGovern.

Corriere della Sera 2.9.11
Ecco perché il termine «Shoah» richiama l'unicità di quell'evento
di Mordechay Lewy
, Ambasciatore d'Israele presso la Santa Sede

Durante un incontro tra diplomatici israeliani un mio anziano collega disse che il ricordo della Shoah si sarebbe dovuto mantenere come intima memoria piuttosto che come esposizione in pubblico delle sofferenze e dei traumi. Solo così il ricordo sarebbe rimasto autentico e immune da banalità e strumentalizzazioni. Nonostante ciò, coltivare la memoria collettiva di un evento così traumatico, unico nel suo genere, è una necessità. Con il trascorrere del tempo, i sopravvissuti scompaiono e il ricordo dei fatti potrebbe sbiadire. I primi anni '50 furono caratterizzati dal silenzio delle vittime e degli aguzzini, un silenzio che si ruppe con il processo Eichmann che portò a una nuova riflessione sulla Shoah fra i membri della seconda generazione - sia delle vittime sia degli aguzzini. Si iniziò a promuovere la cultura della memoria. La Shoah doveva essere spiegata alle generazioni più giovani e si ritenne che si potesse mantenere viva grazie alla ripetizione. Ma si aprì anche la strada alla banalizzazione. Poiché per correttezza politica si usava il termine «olocausto» per descrivere il male estremo, la tentazione di etichettare altri eventi come olocausti divenne politicamente conveniente. Olocausti in Biafra, in Cambogia, in Burundi o nel Darfur hanno riempito i titoli dei media, contribuendo a richiamare l'attenzione su eventi che lo meritavano. Tuttavia lo scotto da pagare è stato il venir meno dell'unicità della Shoah e della sua memoria. Il termine greco «olocausto», letteralmente «offerta interamente bruciata», nella Bibbia (Ger 19,4-5) indica i sacrifici umani alle divinità infernali. La stessa definizione viene data dall'Encyclopedie di Diderot. D'altra parte, a New York, nel 1932, la pubblicità di una svendita annunciava che tappeti orientali erano oggetto di un «grande olocausto del prezzo». Il termine «olocausto» per indicare lo sterminio nazista degli ebrei fu utilizzato per la prima volta nel novembre 1942 in un editoriale del Jewish Frontier. Tuttavia, anche dopo il 1945, non è mai divenuto un sinonimo preciso di sterminio degli ebrei, infatti, fino ai primi anni Sessanta, era usato principalmente nel contesto della catastrofe nucleare.
Il termine «olocausto» per indicare lo sterminio degli ebrei era dunque usato raramente e sempre insieme all'aggettivo «ebraico». Nel 1978 la serie televisiva statunitense «Holocaust» fu trasmessa in tutto il mondo occidentale legando così il termine allo sterminio ebraico.
Sono numerosi i motivi per cui è divenuto preferibile il termine Shoah per indicare l'evento, unico nel suo genere, dell'uccisione sistematica e meccanizzata che portò allo sterminio di un terzo del popolo ebraico. In primo luogo, esso offre un'alternativa ai significati imprecisi del termine «olocausto». L'unicità è meglio mantenuta con il termine Shoah. In secondo luogo, utilizzando il termine Shoah si può mostrare rispetto e solidarietà alle vittime e al modo in cui esse stesse esprimono la propria memoria nella loro lingua ebraica. Probabilmente dobbiamo questa sostituzione di termini al regista Claude Lanzmann che, nel 1985, ha intitolato il suo documentario di nove ore proprio «Shoah». Ciò ha reso internazionalmente nota questa parola ebraica. Gli ebrei hanno sviluppato una sensibilità all'uso di questo termine, ritualizzato nella cultura della memoria per evitare la dimenticanza. A tutt'oggi accomunare la loro unica esperienza di vittime con le atrocità commesse contro altre nazioni sembra equivalere al tradimento di un lascito trasmesso alle generazioni di ebrei sopravvissuti a quell'evento. Infatti, se la possibile conseguenza della memoria è la banalizzazione, il prezzo della dimenticanza è molto più alto. Per questo all'entrata dello Yad Vashem si possono leggere le parole di Baal Shemtov: «La memoria è la fonte della redenzione».

Corriere della Sera 2.9.11
Foucault: isteria e ipocondria
Così la storia della medicina trasformò due patologie in «malattie sorelle» della follia
di Michel Foucault

la pagina in pdf è disponibile qui
http://www.scribd.com/doc/63787324/Corriere-Della-Sera-2-9-11-Foucault

Isteria e ipocondria. Al riguardo si pongono due problemi. 1) In che misura è legittimo trattarle come malattie mentali, o almeno come forme della follia? 2) È possibile trattarle assieme, come se formassero una coppia virtuale, simile a quella formata molto presto dalla mania e dalla malinconia?
Un colpo d'occhio sulle classificazioni basta a convincere: l'ipocondria non figura sempre a fianco alla demenza e alla mania; l'isteria vi prende posto solo molto raramente. Plater non annovera né l'una né l'altra tra le lesioni dei sensi e alla fine dell'età classica Cullen le classificherà ancora in una categoria diversa dalle vesanie: l'ipocondria verrà collocata tra le «adinamie o malattie che consistono in una debolezza o perdita del movimento nelle funzioni vitali o animali», l'isteria tra «le affezioni spasmodiche delle funzioni naturali».
Di più: nelle tavole nosografiche, raramente queste due malattie vengono raggruppate in una vicinanza logica o anche avvicinate nella forma di un'opposizione. Sauvages classifica l'ipocondria tra le allucinazioni — «allucinazioni che riguardano solo la salute» — e l'isteria tra le forme della convulsione. Linneo utilizza la stessa ripartizione.
Non sono forse fedeli, entrambi questi autori, all'insegnamento di Willis, che ha studiato l'isteria nel suo libro De morbis convulsivis e l'ipocondria nella parte del De anima brutorum dedicata alle malattie della testa e intitolata Passio colica? Si tratta infatti di due malattie molto differenti: in un caso, gli spiriti surriscaldati subiscono una spinta reciproca, che potrebbe far credere a una loro esplosione (poiché suscitano alcuni di quei movimenti irregolari o preternaturali la cui figura insensata è rappresentata dalla convulsione isterica); nell'altro caso invece — cioè nella passio colica — gli spiriti vengono irritati da una materia che rispetto a essi è ostile e mal proporzionata (infesta et improportionata); provocano perciò disturbi, irritazioni, corrugationes nelle fibre sensibili. Willis consiglia dunque di non lasciarsi prendere alla sprovvista da certe analogie tra i sintomi: certo, si sono viste convulsioni produrre dolori, come se il movimento violento dell'isteria potesse provocare le sofferenze dell'ipocondria. Ma le somiglianze ingannano. Non eadem sed nonnihil diversa materies est.
***
Ma sotto queste costanti distinzioni dei nosografi si sta realizzando un lento lavoro che tende sempre di più ad assimilare isteria e ipocondria come due forme di una stessa e unica malattia. Richard Blackmore pubblica nel 1725 un Treatise of spleen and vapours, or hypochondriacal and hysterical affections. Le due malattie sono qui definite come varietà di un'unica affezione: una «costituzione morbifica degli spiriti» e una «predisposizione a uscire dai loro serbatoi e a consumarsi». In Whytt, alla metà del XVIII, l'assimilazione è completa; il sistema dei sintomi è ormai identico: «Una straordinaria sensazione di freddo e di calore, i dolori in parti differenti del corpo; le sincopi e le convulsioni vaporose; la catalessia e il tetano; i venti nello stomaco e negli intestini; un appetito insaziabile per gli alimenti; vomiti di materia nera; un flusso subitaneo e abbondante di urina pallida, limpida; il marasma o l'atrofia nervosa; l'asma nervosa o spasmodica; la tosse nervosa; le palpitazioni del cuore; le variazioni del polso, i mali e i dolori di testa periodici; le vertigini e gli stordimenti, la diminuzione e l'indebolimento della vista; lo scoraggiamento, l'abbattimento, la malinconia o anche la follia; il brutto sogno o l'incubo».
D'altra parte isteria e ipocondria, nel corso dell'età classica, raggiungono lentamente il campo delle malattie della mente. Mead poteva ancora scrivere, a proposito dell'ipocondria: «Morbus totius corporis est». E occorre restituire il suo giusto valore al testo di Willis sull'isteria: «Tra le malattie delle donne, la passione isterica gode di una così cattiva reputazione che deve diventare, alla maniera dei semidamnati, portatrice dei difetti di numerose altre affezioni; se una malattia di natura sconosciuta e di origine nascosta si produce in una donna in modo tale che la sua causa sfugge e che l'indicazione terapeutica rimane incerta, subito accusiamo la cattiva influenza dell'utero, che nella maggior parte dei casi non è responsabile, e a proposito di un sintomo non abituale noi dichiariamo che vi si nasconde qualcosa di isterico e assumiamo proprio tale sintomo, che è stato così spesso il sotterfugio di tanta ignoranza, come oggetto delle nostre cure e dei nostri rimedi». Quanto sto per dire non dispiaccia ai commentatori tradizionali di questo testo, inevitabilmente citato in ogni indagine sull'isteria: esso non significa che Willis abbia messo in dubbio un'assenza di fondamento organico nei sintomi della passione isterica. Esso afferma soltanto, e in maniera esplicita, che la nozione di isteria raccoglie tutti i fantasmi: non i fantasmi di colui che è o si crede malato, ma quelli del medico ignorante che finge di sapere.
Anche il fatto che l'isteria sia classificata da Willis tra le malattie della testa non sta a indicare che egli ne faccia un disturbo della mente, ma solo che egli ne attribuisce l'origine — ed è l'origine e il primo tragitto degli spiriti animali — a un'alterazione di ordine naturale.
***
Eppure, alla fine del XVIII secolo ipocondria e isteria figureranno, quasi senza problema, tra gli stemmi della malattia mentale. Nel 1755 Alberti pubblica a Halle la sua dissertazione De morbis immaginariis hypochondriacorum; e Lieutaud, pur definendo l'ipocondria come spasmo, riconosce che «la mente è affetta quanto il corpo, e forse di più; da qui ne deriva che la parola ipocondriaco è divenuta quasi un termine offensivo di cui i medici che vogliono piacere evitano di servirsi».
Quanto all'isteria, Raulin non le assegna una maggior realtà organica, almeno nella sua definizione iniziale, inscrivendola di primo acchito in una patologia dell'immaginazione: «È divenuta talvolta epidemica e contagiosa questa malattia nella quale le donne inventano, esagerano e ripetono tutte le differenti assurdità di cui è talvolta capace un'immaginazione sregolata». Nell'età classica vi sono dunque due linee essenziali di evoluzione per l'isteria e per l'ipocondria. Una linea le avvicina fino alla formazione di un concetto comune, che sarà quello di «malattia dei nervi»; l'altra sposta il loro significato e il loro supporto patologico tradizionale — sufficientemente indicato dal nome — e tende a integrarle poco a poco al campo delle malattie della mente, a fianco alla mania e alla malinconia. Ma questa integrazione non si è realizzata, come per la mania e la malinconia, al livello di qualità primitive, percepite e sognate nei loro valori immaginari. Siamo di fronte a un tipo di integrazione completamente diverso.

Da tesi di dottorato a manifesto anti-internamento


La Storia della follia nell'età classica è stata la tesi di dottorato che Michel Foucault scrisse mentre si trovava in Svezia. Venne pubblicata nel 1961 da Plon a Parigi con il titolo Folie et déraison e due anni dopo in Italia, da Rizzoli, con traduzione di Franco Ferrucci, Emilio Renzi e Vittore Vezzoli. E' uno studio sull'idea di follia nella cultura europea dall'età classica (ovvero dal XV e XVI secolo) all'avvento della psicologia freudiana.
Nel testo, Foucault (che era figlio di un medico) intende mostrare sia il passaggio da una concezione organica e per similitudine delle malattie nervose a una mentale e comportamentale, sia le diverse forme di internamento con le quali i cosiddetti malati di mente — e con essi varie altre categorie di individui come eretici e criminali — sono stati marginalizzati. A cinquant'anni dall'uscita a Parigi della prima pubblicazione, Rizzoli ripubblica l'opera — in libreria da mercoledì prossimo — in un'edizione ampliata e completa a cura di Mario Galzigna (pp. 818, 12,90) nella quale viene riproposta la «Prefazione» del '61 (che poi Foucault decise di eliminare), vengono integrate alcune parti omesse nell'edizione del 1963 e tra queste anche Hystérie et Hypochondrie, capitolo del quale presentiamo qui sopra uno stralcio. La parte presentata inquadra la materia quando le due patologie sono ancora trattate separatamente come malattie dei nervi di origine organica. Nella parte finale del capitolo, Foucault mostrerà il loro divenire «malattie sorelle» all'interno del sistema psichiatrico. Nonché il loro passare da errore del corpo a colpa sociale tale da richiedere (specie con Samuel Tuke e Philippe Pinel) una punizione corporale. Il libro comprende anche due altri saggi: La follia, l'assenza di opera e Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco. (p. pan.)

Repubblica 2.9.11
“Tradimenti, complotti, ossessioni il trionfo del pensiero magico"
L’analista Luigi Zoja racconta il suo ultimo libro dedicato a uno stato d’animo patologico sempre più diffuso "Chiunque può esserne contagiato"
“L’Italia è un paese a rischio perché a prevalere è una rappresentazione irreale del mondo"
"Shakespeare ci spiega come il contagio può toccare anche uomini generosi"
di Lucxiana Sica


Più che a una patologia, la paranoia somiglia a un sentimento, sembra uno stato d´animo generale, e oggi la crisi con il disorientamento che produce accentua questa sorta di mood paranoico che del resto ha già segnato tragicamente il Novecento. Così la pensa Luigi Zoja: «Senz´altro le crisi economiche incoraggiano il dilagare di una paranoia collettiva, impossibile da diagnosticare, proprio perché condivisa. Oggi però ad alimentarla è soprattutto la vittoria del populismo mediatico, che ha preso il posto delle ideologie e della politica, con tutte quelle formule semplificate che spiegano "cosa c´è dietro". Se, dopo la Prima guerra mondiale, "dietro" la catastrofe militare ed economica della Germania si fantasticava su una congiura degli ebrei, ora si potrà dare la colpa della crisi agli immigrati, anche se gli specialisti dicono che senza di loro andrebbe anche peggio. A non dirlo sono i mass media di cattiva qualità che così moltiplicano la paranoia, anche senza volerlo».
La follia che fa la storia, sarà meglio partire dal sottotitolo per dire del nuovo libro di Zoja sulla Paranoia (Bollati Boringhieri, pagg. 468, euro 28). Meglio perché l´autore, celebre analista junghiano, non ha scritto un saggio "di psicoanalisi". È di un disturbo della mente che tratta, ma soprattutto di un´"infezione psichica" - per dirla con Freud - che contagia le masse, crea un panico diffuso fino al terrore e quindi all´euforica soppressione del Nemico, dell´Altro. È successo tante volte nel corso dei secoli, con l´apoteosi catastrofica dei totalitarismi, e quello di Zoja risulta un grande affresco storico che si affida anche alla tragedia greca ("La follia di Aiace") o alla letteratura ("Il sussurro di Iago").
Oggi non si rischierà di essere anche più paranoici di ieri?
«Siamo più impreparati a misurarci con i mali della psiche collettiva: l´Europa vive in pace da 66 anni, ma proprio questa serenità di superficie ci rende inadatti a contenere gli impulsi paranoici. Un paese come l´Italia è esposto particolarmente, perché da noi prevale una rappresentazione irreale e infantilizzata del mondo e ogni problema può esser sentito come un tradimento, un complotto... Ad esempio, ora ci ossessionano gli speculatori senza pensare che da tempo viviamo molto al di sopra delle nostre possibilità».
Per i greci la paranoia era un pensiero (nóos) che va oltre: delira (para-). Perché è un disturbo difficile da ricostruire?
«Perché fra tutte le malattie della mente, si presenta priva di fattori organici, tant´è vero che quasi non esistono farmaci che la possano contrastare. Quindi si suppone che sia dovuta alle condizioni in cui il paranoico è cresciuto, sempre però individuali e infinite come gli esseri umani. Anche se spesso ci sono fattori più tipici di altri: un padre violento, una madre insicura, una famiglia fredda».
Diffidenza, sospetto, manie di persecuzione sono i tratti che caratterizzano il paranoico. Ma perché lei lo vede anche come un plumbeo "nano negli affetti", sprofondato in "un abissale sentimento di solitudine"?
«Perché in genere è così: il paranoico non sa amare e neppure sa ridere, e di solito il vuoto e la solitudine che ne derivano sono sperimentate già nell´infanzia. Vivere senza gli altri però è innaturale, contrario ai bisogni della mente, e quindi l´inconscio porta comunque a tornare verso gli altri seppure in modo perverso, attraverso una curiosità negativa se non distruttiva. Spesso poi si innesta un delirio di grandiosità compensatorio: il paranoico immagina di essere un genio incompreso, e di conseguenza che gli altri lo invidiano e complottano contro di lui. Peggio ancora nel caso dei paranoici di successo che costruiscono vere teorie complottistiche, fanno seguaci, formano movimenti. Una via percorsa sia da Hitler che da Stalin, dove la "scoperta" di un nemico assoluto rimane il dogma granitico di base, un nucleo delirante alimentato paradossalmente da tutte le prove contrarie».
Come a dire: i passaggi successivi, apparentemente logici, sono al servizio dell´assurdità di partenza. Fa un esempio, anche solo un flash di questa singolare follia?
«Schiacciata la Polonia, Hitler chiede rapporti e filmati sui ghetti. Naturalmente le condizioni sono spaventose. Ma, invece che conseguenza della repressione, quelle tremende condizioni a lui confermano la causa di tutto: gli ebrei sono moralmente degenerati e quindi amano vivere nella degenerazione... Per quest´atteggiamento mentale, scrivo che la paranoia è l´unica malattia capace di fare la storia».
Sulla copertina del suo libro, c´è una foto di Life del ‘44. Ritrae una bella ragazza bionda che sembra meditare sulla finitezza della vita...
«E invece sta scrivendo al fidanzato per ringraziarlo di averle inviato il teschio di un soldato giapponese: di una scimmia, secondo la propaganda americana. Il bacillo dell´odio, della furia guerriera e razzista, si è posato con lievità direi estetica anche su quella scrivania di Phoenix».
Perché non è facile riconoscere un paranoico?
«Perché l´uomo che, immerso nella folla, chiede urlando la morte di una minoranza è lo stesso che poco fa aiutava i suoi bambini a fare i compiti. Riscaldato dall´aggressività degli altri, sente che è possibile deviare la tragicità della condizione umana: non è detto che si debba morire, si può trasferire la morte sugli avversari. È un piano inclinato che frana e scivola naturalmente verso la catastrofe».
Qui l´argomento è psicoanalitico: sta dicendo che la paranoia si basa sulla rimozione inconscia della morte?
«È così da sempre, soprattutto quando il paranoico "pensa" all´interno di una massa. All´inizio di ogni guerra, si sa che porterà un bagno di sangue, ma la possessione collettiva fa sostituire al pensiero ragionevole una sorta di pensiero magico. Sì, verrà la morte, ma non per noi: solo per i nemici che la meritano. Così dice la propaganda, ed è incredibile come in tutti i tempi possa funzionare».
È vero che ha cominciato a scrivere questo libro dieci anni fa, quando viveva ancora a New York?
«Sì, ero a Manhattan quando c´è stata la tragedia delle Torri, ed è stata la reazione di Bush, la sua politica impostata sulla paura di nuovi attacchi, la molla di una riflessione che mi ha impegnato per così tanto tempo - ne parlerò al Festival di Mantova proprio domenica 11 settembre. È stata la diffidenza paranoica, diventata dottrina ufficiale del governo americano, a consentire attacchi preventivi giustificati dal semplice sospetto. Si è invaso l´Iraq perché si immaginava che avesse armi di distruzione di massa».
Perché dedica il capitolo conclusivo a Shakespeare?
«Perché la sua è una lezione insuperabile su come un uomo generoso possa farsi "infettare" dalla paranoia, se gli è somministrata in modo graduale e sommesso. Otello si trasforma in un mostro paranoico e a trionfare è la genialità di Iago, un eroe moderno dotato del potere di comunicare e convincere. Oggi allora il nostro compito è rifiutare la manipolazione delle coscienze. Se non restiamo consapevoli, un pensiero perverso può sempre contagiare quello equilibrato. Oggi noi dobbiamo dire di no a Iago».

il Fatto Saturno 2.9.11
Tra oriente e occidente
Il cervello creativo? Avanti a destra
Il genio artistico viene spesso associato a una forma di follia. Zen e neuroscienze sembrano confermarlo
di Gian Carlo Calza


IL GESTO COME ARTE; la ricerca della forma pura, essenziale; il fascino dell’irregolarità; la dinamica dell’asimmetria; l’apprezzamento dell’anticonformismo; il vuoto come silenzio: queste sono alcune delle conquiste della cultura e dell’arte occidentali nel ventesimo secolo, che vanno lette nel novero della riscoperta e realizzazione dell’unità fondamentale dell’uomo. Ovvero la ricostituzione del senso unitario della vita tra corpo, psiche e mente, riferiti alla coscienza. Negli ultimi ventiquattro secoli l’Occidente si è particolarmente impegnato a tenerli separati. Soprattutto lo sono stati mente e corpo, o spirito e materia; con la psiche oscillante fra i due e la coscienza ridotta, di fatto, ad attività censoria.
In questa vicenda l’Asia è stata ed è ancora, ciclicamente, una preziosa fonte di suggestioni e antidoti per noi. Così come, del resto, anche l’Occidente ha profondamente influito in Asia per l’acquisizione di maggior sensibilità sociale. Le conquiste dell’Occidente derivano soprattutto dall’incontro con la filosofia religiosa dello zen e con la corrente del buddhismo, nata in Cina nel sesto secolo e sviluppatasi successivamente in Giappone e da lì anche in Occidente. In Asia ha dato origine a un caratteristico genere artistico: inchiostro nero su carta, creato da monaci-artisti con dipinti e calligrafie vigorose, ma fluide, di un genere dall’espressione essenziale, quasi astratta. Secondo questa via, in ogni essere è presente la natura di Buddha, cioè l’attitudine a esser “svegliato”. Attitudine che tuttavia può capitare di non riuscire a percepire in se stessi, trascorrendo così l’esistenza senza potervi attingere. Basta un concetto, un semplice pensiero delle miriadi che ogni giorno attraversano incontrollate la nostra mente, o un’emozione che insorga improvvisa o un piccolo fastidio fisico, per innescare un processo mentale e offuscare o celare del tutto tale natura e precluderla allo sguardo interiore.
Perciò scopo fondamentale della via dello zen è la liberazione dalle forme automatiche, preconfigurate, del pensiero, la capacità di farlo azzittire attraverso la pratica meditativa fino a giungere così al “risveglio” (bodhi) della propria realtà vera, profonda. A questo proposito appare formidabile l’esperienza descritta in My Stroke of Insight, infelicemente tradotto nell’edizione italiana con il titolo fuorviante La scoperta del giardino della mente (Mondadori), da Jill Bolte Taylor. La Taylor, una neuroanatomista presidente della Brain Bank a Harvard, venne colpita a 37 anni da un grave ictus che la privò dell’uso dell’emisfero sinistro del cervello. Al tempo stesso le fece però guadagnare una conoscenza straordinaria del funzionamento del cervello e dei due emisferi, giungendo a intendimenti del tutto analoghi a quelli della meditazione. La Taylor scrive che «la nostra capacità di provare empatia di metterci nei panni degli altri e provare quello che essi provano, la dobbiamo alla corteccia frontale destra», mentre «è alla parte sinistra del cervello che dobbiamo il concetto di tempo, la divisione dei vari momenti in passato, presente e futuro». E continua: «attraverso i centri del linguaggio dell’emisfero sinistro, la mente ci parla in continuazione, un fenomeno che mi piace chiamare “chiacchiericcio cerebrale”… Prima dell’ictus le cellule del mio emisfero destro erano sopraffatte da quelle dell’emisfero sinistro e, di conseguenza, nella mia personalità erano dominanti le capacità di giudizio e di analisi». La Taylor trova dunque che il suo ictus «fu illuminante perché mi fece capire che al cuore della coscienza dell’emisfero destro si trova un carattere direttamente connesso con una sensazione di profonda pace interiore, un carattere che non desidera altro che portare nel mondo pace, amore, gioia e comprensione». Così come l’esperienza e le ricerche della Taylor, anche l’arte della calligrafia, dei segni, del suono o del pittorico di maestri orientali e occidentali, è il risultato di tale raggiunta consapevolezza. E perciò le opere sono spesso realizzate in modo fulmineo dopo un profondo raccoglimento meditativo. Le tradizioni estetiche asiatiche sembrano indicare, più delle nostre, che la creatività alta vada collocata in una zona ben oltre la normalità e che sia legata alla straordinarietà della persona e della sua opera. Non solo: pare che tutto ciò sia anche frutto di indipendenza da ogni scuola, sistema e soprattutto moda o tendenza.
Almeno a partire dal IV secolo prima dell’era attuale (a.C.), in Cina varie correnti critiche hanno sostenuto che superiori a tutti andrebbero considerati gli esseri svincolati da ogni regola. Quelli cioè liberi tanto dalle convenzioni della convivenza sociale quanto dai canoni estetici. Artisti e poeti che si allontanerebbero dal centro della normalità sociale, accademica, istituzionale o quant’altro. Noi molto spesso abbiamo preso le distanze da vite fuori della consuetudine bollandole di eccentricità se non di follia. Del resto a fianco dei percorsi della creatività più alta si accompagna sovente quello che comunemente e sbrigativa-mente si indica come disordine bipolare. Fondamentali nell’ambito del complesso e misterioso intreccio fra creatività e patologia appaiono le ricerche di Kay R. Jamison. Studiosa della John Hopkins University, nel suo ponderoso Touched with Fire: Manic-Depressive Illness and the Artistic Temperament (Simon and Schuster), essa esamina la correlazione tra disordine bipolare e creatività artistica. Gli esempi sono tanti da far sì che ci si debba seriamente interrogare sulla “normalità” di un prezzo eccezionalmente alto di rinunce personali e di straniamenti dalla vita comune che la massima creatività richiederebbe a chi la voglia perseguire. Abbiamo perciò esempi sublimi di ingegno artistico che si muovono sul sottile crinale tra genio e follia o si tratta forse di ispirazione altissima ai più non visibile? Ecco, forse la creatività è un’energia sacra. E tra Asia e Occidente con calligrafia, pittura e meditazione alla ricerca della straordinarietà, beh no, non è proprio possibile definirla.
Questo articolo è uno stralcio della lezione che Gian Carlo Calza terrà domani al Festival della Mente di Sarzana (Fortezza Firmafede, ore 15): www.festivaldellamente.it  

Repubblica 2.9.11
Le virtù dell’artista imperfetto
Fatevi guidare dalla musa dell’inconcludenza
di Alberto Manguel


Diceva Borges: "Penso sia stupido avere l´ambizione di essere un creatore di frasi più o meno mediocre Ma questo è il mio destino"
Il padre di Amleto e lo spettro di Banquo continuano a vagare nel nostro immaginario dopo la morte dei nemici

Un giorno di dicembre del 1919, il ventenne Jorge Luis Borges, durante un breve soggiorno a Siviglia, scrisse una lettera in francese al suo amico Maurice Abramowics a Ginevra nella quale, quasi en passant, gli confessava i sentimenti contraddittori che nutriva verso la sua vocazione letteraria: «Talvolta penso sia stupido avere l´ambizione di essere un creatore più o meno mediocre di frasi. Ma questo è il mio destino». Borges sapeva fin da allora che la storia della letteratura è la storia di questo paradosso. Se da un lato c´è l´intuizione profondamente radicata negli scrittori che il mondo esista, per dirla con l´espressione abusata di Mallarmé, per sfociare in un bel libro (o almeno in un libro mediocre, come pensava Borges), dall´altro permane la consapevolezza che a governare quell´impresa sia quella che Mallarmé chiamava la Musa dell´Impotenza, (o, per usare una traduzione più libera, la Musa dell´Impossibilità). Nell´Autobiografia Mallarmé aggiunse che chiunque si sia cimentato nella scrittura, perfino i cosiddetti geni, ha tentato di completare questo Libro ultimo, il Libro con la L maiuscola. E tutti hanno fallito.
Questa doppia intuizione scaturisce dalla letteratura stessa. Vi è un momento, quando ci accostiamo per le prime volte alla lettura, in cui scopriamo che dalle macchie di inchiostro sulla pagina emerge un mondo compiuto e magicamente vero. Questa esperienza ci trasformerà e, da quel punto in avanti, il nostro rapporto con il mondo tangibile e quotidiano non sarà più lo stesso. Dopo aver toccato con mano la capacità creativa del linguaggio, grazie alla quale le parole non soltanto riescono a comunicare e a etichettare, ma a dare vita a quanto etichettano e comunicano – quando siamo diventati cioè dei lettori – non potremo più percepire il mondo con innocenza. Una volta nominata, la cosa non è più se stessa, nel senso platonico che Borges avrebbe poi elaborato con grande passione: la cosa si desume dalla parola che la definisce, contaminata o arricchita dalla storia, dalle connotazioni e dai pregiudizi che tale parola porta con sé (...).
Così le nostre creazioni sono, nella migliore delle ipotesi, una copia approssimativa di una vaga intuizione della realtà, essa stessa un´imitazione imperfetta di un archetipo ineffabile. Questa è la nostra sola e umile prerogativa.
Perciò anche lo scrittore, che immagina un uomo e non può che crearlo a parole come un povero Golem, deve recitare la parte del Golem, una creatura imperfetta e capace soltanto di imperfezione, una creatura incompetente che in compenso solleva dubbi blasfemi sulla competenza del suo Creatore. In questo gioco di specchi mutevoli, il difettoso Golem diventa la nostra modesta, manchevole, onnicomprensiva letteratura, e la letteratura diventa il Golem, destinata a sbriciolarsi in un mucchio di polvere.
«Il nostro scopo nella vita», scrisse Stevenson, «non è riuscire, ma continuare a fallire nella migliore delle intenzioni». E allora il fallimento, così come lo avvertono gli scrittori, non è soltanto l´unico esito possibile di un´impresa letteraria, ma ne è il fine, la massima realizzazione. (...) Ogni opera d´arte o di letteratura, che sfugga alla nostra comprensione, tanto da farcela chiamare grande è, in quanto tale, incompleta, perché deve mantenere vive le domande sulla sua essenza e incerta l´intuizione dell´insieme. Deve prevedere incrinature e varchi in cui il lettore possa spingersi a esplorare e interpretare. L´epilogo mortale dei racconti epici non pone mai fine alle eterne battaglie intraprese dagli eroi; le tragedie di Edipo e di Oreste rimangono insolute dopo Colono e Delfi; il padre di Amleto e lo spettro di Banquo continuano a vagare nel nostro immaginario, irrequieti, dopo la morte dei rispettivi oppositori; il lieto fine di molte narrazioni di Dickens è sopportabile solo perché poggia su una miriade di personaggi irrisolti che continuano la loro quest ben oltre l´ultima pagina del libro. Le uniche conclusioni assolute appartengono a storie di sola facciata, narrative prive di spessore e di profondità, sterili oggetti consumistici di fattura perfetta che assiepano gli scaffali di bestseller delle nostre librerie. «La stupidità», faceva osservare Flaubert, «consiste nel desiderio di concludere».
I modelli utopistici del mondo e le tabelle statistiche che misurano la realtà hanno una chiarezza rasserenante. In letteratura, però, le cose non funzionano così. La letteratura segue regole che prevalgono su quelle della fantasia e della realtà: non è fatta né di rosee speranze né di riscontri scientifici, né di arcadiche illusioni né di dogmi catechistici. Infatti, nonostante il desiderio di Dante, Beatrice alla fine – come sottolinea Borges in un saggio magistrale – sfugge al poeta; e Virgilio, fonte di ispirazione dantesca, deve mostrarsi fallibile, così come vuole la logica di sovvertimento delle cantiche; amici e nemici devono talvolta occupare posti inaspettati nell´Aldilà. E perfino il poema, la meticolosa, sorprendente, illuminata e illuminante Commedia, deve autodistruggersi. Le parole vengono meno a Dante e rifiutano di testimoniare la gloria ultima, lasciando il lettore abbagliato dal fulgore finale, quando volontà e desiderio si riassestano, con la muta consapevolezza che qualunque cosa sia o sia stata questa suprema rivelazione, essa «move il sole e l´altre stelle». (...)
Viviamo nella morsa di questa intimazione immemorabile e contraddittoria: da un lato, non costruire nulla che porti all´idolatria e all´autocompiacimento e dall´altro costruire qualcosa degno di essere ricordato, per dirla con Dante «forti cose a pensare mettere in versi» (Purg. XXIX, 42). In termini biblici, ciò significa rifiutare la tentazione del serpente di aspirare a essere dei, ma farsi allo stesso tempo riflesso della creazione di Dio con pagine illuminate che evochino il Suo mondo; in termini razionalistici, accettare che i limiti della creazione umana siano invalicabili a differenza dell´infinita creazione del cosmo, eppure spingersi continuamente verso quei confini sfruttando appieno i nostri talenti. Questo è il paradosso di tutta la nostra arte, eseguirla sotto lo sguardo beffardo della Musa dell´Impossibilità. Esistiamo come un Golem tra questi due mandati, in questa triste, talvolta idilliaca, ma sempre privilegiata condizione umana.
Traduzione di Giovanna Baglieri