sabato 31 gennaio 2009

Liberazione 31.1.09
Slavi, il volto razzista del fascismo
di Enzo Collotti


Se vogliamo cercare di capire cos'è la politica di espansione che il fascismo realizza in direzione della penisola balcanica, dobbiamo tenere conto di una serie di fattori. Il primo è il presupposto storicoculturale del vecchio imperialismo nazionalista che ha nella penisola balcanica uno dei suoi obiettivi principali di espansione. Ricordiamo che la guerra di Libia ha solo come oggetto immediato la Libia: l'obiettivo principale è infliggere un serio colpo all'Impero ottomano e aprire la strada alla penetrazione italiana nei Balcani. Allora si pensava che l'Italia, nella fase del decollo industriale, avesse la capacità di espandersi, di realizzare le proprie ambizioni economiche in quell'area. Questo spiega l'ostilità manifestata, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, alla creazione dello Stato degli slavi del sud e l'ambizione a fare dell'Adriatico un mare interno italiano. Un secondo punto da tenere presente, quando si parla di questa problematica, è il rapporto tra la politica interna e la politica estera dell'Italia. Negli anni del fascismo - segnatamente a partire dalla seconda metà degli anni venti, indipendentemente da quello che era successo fino all'apparente chiusura della questione fiumana con i trattati di Nettuno del 1925 - l'Italia opera una costante politica di accerchiamento della Jugoslavia. Da nord attraverso l'aggiogamento alla politica del fascismo di Austria e Ungheria, da sud attraverso il favoreggiamento del terrorismo macedone. Successivamente l'Italia appoggerà il separatismo croato degli ustascia, che saranno ospitati e armati all'interno dello Stato italiano. Infine verrà l'occupazione dell'Albania, nell'aprile del 1939, come testa di ponte per continuare questa operazione di accerchiamento della Jugoslavia. Il terzo punto riguarda la problematica dei rapporti, in relazione all'area danubiano-balcanica, tra l'Italia e la Germania. Questi rapporti hanno visto fasi diverse, hanno avuto momenti di acuta crisi intorno alla questione austriaca, ma al momento dell'Anschluss (1938) l'Italia è già sulla strada della ritirata, non è più in grado di competere con la pressione germanica. Questo problema del rapporto con la Germania accompagna tutta la fase di avvicinamento alla guerra, e in guerra, per quanto riguarda l'Italia, la situazione balcanica attraverserà diverse fasi. Il 28 ottobre 1940 ha inizio l'aggressione, intrapresa con estrema leggerezza, alla Grecia. Il motto era «spezzeremo le reni alla Grecia», ma l'esercito italiano rischiò di essere rigettato in mare in Albania dalla resistenza che gli si oppose. Questa è la prima fase. La seconda fase si apre nell'aprile del 1941, quando l'invasione della Jugoslavia da parte delle forze della Wehrmacht e dell'esercito italiano apre definitivamente la via non solo alla sconfitta della Jugoslavia, ma anche, e soprattutto, della Grecia. In un primo momento la Grecia non riconosce di essere stata battuta dagli italiani e viene fatto ripetere l'armistizio, perché i greci vogliono firmarlo solo con i tedeschi, riconoscendo di essere stati sconfitti soltanto da loro. Questi sono i presupposti della complessa politica di occupazione che l'Italia praticherà in quell'area, distinguendo abbastanza nettamente fra il settore jugoslavo e quello greco. C'è da dire che il problema delle occupazioni balcaniche è, nella storiografia italiana, un argomento abbastanza marginale. Questo per varie ragioni: prima di tutto per una reticenza, credo tuttora inesplicabile, a occuparsi di questi problemi. Secondariamente - ma solo secondariamente - per il ritardo nell'acquisizione di fonti.
Bisogna distinguere, però, la Jugoslavia dalla Grecia, perché nel secondo caso il ritardo non è solo della storiografia italiana ma anche di quella ellenica, per motivi del tutto interni alla politica di quel paese. Qualcosa di più è stato fatto per quanto riguarda quella che possiamo chiamare, in riferimento al 1941, la ex Jugoslavia. Perché uso questa espressione? Perché la prima conseguenza della sconfitta militare della Jugoslavia ad opera delle potenze dell'Asse fu la totale disgregazione dello spazio jugoslavo: un vecchio obiettivo dell'imperialismo italiano e del fascismo, realizzato con l'appoggio della Wehrmacht. Questo vecchio obiettivo presentava per l'Italia anche notevoli implicazioni di carattere interno: non dobbiamo dimenticare che in tutta l'avventura balcanica vi sono una responsabilità e un peso della dinastia dei Savoia. Basta pensare alla collezione di corone, o di semicorone, che il sovrano italiano accumulò per sé e per la sua famiglia nella penisola balcanica per rendersi conto del significato dell'alleanza fra monarchia e regime. C'è la presenza di una principessa di casa Savoia in Bulgaria, la presenza del re d'Italia come re d'Italia e d'Albania, successivamente il tentativo di imporre un sovrano di casa Savoia - che per fortuna non prese mai possesso del suo trono - in Croazia. Il rapporto tra potere dinastico e regime fascista, poi, comportò anche l'appoggio di settori forti della politica italiana - nel caso specifico penso alle forze armate - ai disegni di dominazione balcanica da parte dell'Italia. Quindi risulta chiara l'influenza complessiva che lo scacchiere balcanico ha avuto rispetto alla posizione dell'Italia, ai caratteri dell'occupazione italiana in quei territori. Tuttora ci interroghiamo sugli obiettivi specifici di quell'occupazione, al di là della generica aspirazione a sottrarre spazio ai nemici, in particolare all'Inghilterra. Il problema del rapporto con l'Inghilterra in relazione alla penisola balcanica è molto importante, perché il patto di Pasqua del 1938 impegnava l'Italia a non modificare lo status quo nel Mediterraneo orientale. La conquista dell'Albania fu, quindi, un vulnus pesante, all'origine dell'accelerazione dell'Italia verso la guerra. Difficile, tuttora, è capire se ci fosse un disegno, un progetto nei confronti delle aree balcaniche, che andasse oltre la conquista territoriale diretta di certi territori. Questo discorso riguarda soprattutto le aree dell'ex Jugoslavia, e in parte anche la Grecia. L'Italia si annette alcuni territori - di fatto ma in parte anche di diritto, perché emana una serie di normative per quanto riguarda le isole ioniche -, operando una sottrazione a carico della Grecia. Fa molto più corpose sottrazioni di territorio a carico della Jugoslavia. Come con l'annessione - o meglio la cosiddetta annessione - della provincia di Lubiana. Agli sloveni promette la cittadinanza italiana senza mai accordarla, estende le occupazioni dalla Dalmazia alle isole dell'Alto Adriatico, stabilisce - e qui è un altro punto di interesse di casa Savoia - un protettorato sul Montenegro: si tratta di un protettorato di fatto, mentre si considera la possibilità di inserire un altro membro di casa Savoia in Montenegro. Inoltre l'Italia amplia il territorio albanese ai danni della Jugoslavia, con l'aggregazione all'Albania del Kosovo e di una parte della Macedonia, formando quella che poi viene definita «Grande Albania». La Macedonia viene divisa con la Bulgaria, quindi si disegna la disgregazione totale di quella che era la vecchia entità statale della Jugoslavia, e l'Italia tenta di allargare anche i confini dell'Albania in direzione dell'Epiro e della fascia costiera greca a sud dell'Albania, la Ciamuria. Più che un progetto di conquiste territoriali, c'è una pratica di conquiste territoriali che è uno dei risvolti della debolezza, non solo politica ma effettiva, della politica italiana. La politica italiana non ha minimamente la capacità di penetrazione e di tenuta della potenza concorrente tedesca, non è in grado di contestare l'egemonia della Germania. A loro volta i tedeschi avrebbero voluto tenere l'area balcanica fuori dal conflitto immediato: la Germania pensava alla penisola balcanica come grande retroterra di carattere economico, area di rifornimenti, oltre che di drenaggio di manodopera in previsione della guerra all'Est. L'Italia non ha nessuna capacità di penetrazione da questo punto di vista, lo si vedrà soprattutto nello scontro di interessi, non solo genericamente nell'area balcanica, ma in particolare in Croazia, dove il riconoscimento apparente di un'egemonia politica italiana viene contraddetto dall'influenza diretta, immediata, di carattere economico della Germania. Quindi ci troviamo di fronte alla problematica che nasce da questo conflitto di interessi e, in parte, dalla mancanza di obiettivi precisi dell'Italia, nonché dalla sua effettiva impreparazione a fare fronte a impegni di quelle dimensioni. Questa situazione è anche all'origine di altre caratteristiche della politica italiana in quei territori, come l'uso indiscriminato della violenza e della repressione nei confronti non solo dei movimenti di resistenza, ma anche, si potrebbe dire adottando un'espressione che oggi usiamo in altri contesti, in forma di guerra ai civili. E questo è un ennesimo risvolto dell'incapacità sia di avere una visione politica sia di dialogare con le popolazioni. Anche in questo caso, i discorsi che sono stati fatti sulla questione dell'«altro» calzano abbastanza bene, soprattutto per quanto riguarda le popolazioni slave, considerate come una sorta di nemico ereditario. Non vi è nessuno sforzo da parte italiana - almeno in base a quanto per ora possiamo documentare - di capire chi è l'«altro». Ne è testimone la pubblicistica che attraversa la stampa italiana dell'epoca e, più specificamente, la stampa diffusa tra i soldati. La propaganda per i soldati doveva cercare di dare loro la forza e il coraggio di operare e di ambientarsi in quel territorio. Perlopiù i militari non sapevano neanche perché erano stati mandati a morire in quelle zone, e per spronarli si dipingeva loro il nemico come appartenente a una civiltà inferiore, si spacciava l'immagine della Balcania tenebrosa. Quest'immagine - che andrebbe studiata attentamente, forse più dal punto di vista antropologico che da quello storico - delinea una Balcania sconosciuta che diventa per le forze italiane un vero e proprio incubo. L'uso indiscriminato della violenza è di sicuro - oltre che determinato dalla consapevolezza dell'inferiorità e incapacità militare italiana - anche il risvolto di questa totale cecità e incomprensione delle popolazioni con le quali l'Italia aveva a che fare. Vi sono alcune ipotesi interpretative che meriterebbero di essere approfondite; ricordo in particolare gli spunti di Sala sul carattere coloniale della presenza italiana nella penisola balcanica. Molti militari e anche funzionari dell'amministrazione italiana vengono mandati in queste terre dopo aver fatto esperienza militare o di amministrazione in Africa orientale o in Libia. Uno dei comandanti italiani con maggiori responsabilità quanto a repressioni, il generale Alessandro Pirzio-Biroli che operava in Montenegro, era stato governatore dell'Amhara. Il punto, qui, non è la carriera di queste persone, ma la loro cultura e il loro modo di guardare ai loro amministrati. Nella migliore delle ipotesi, questi amministrati non sono considerati degni di un rapporto come deve esservi tra popolazioni civili, ma solo sudditi da reprimere. Lo dico in termini spicci, forse brutali, ma la sostanza del discorso è questa, e sarebbe interessante continuare ad approfondire questo tema, perché alle spalle di certi comportamenti vi era una vecchia cultura italiana che aveva sempre guardato agli slavi come a nemici, comunque un popolo barbaro. E' chiaro che in questo contesto, soprattutto nel territorio jugoslavo, la guerra cieca delle forze italiane contro il dispiegamento delle forze partigiane comportò un coinvolgimento molto esteso in operazioni di rappresaglia - anzi, in operazioni che non erano solo di rappresaglia ma anche di feroce contrapposizione alla popolazione civile - e la trasformazione del conflitto in una grande operazione di polizia. Quindi, anche nel confronto tra potere politico - penso alla provincia di Lubiana - e potere militare, l'espropriazione di qualsiasi forma di autorità civile e la trasformazione di ogni operazione in azione di carattere poliziesco o militare diedero alla presenza italiana un carattere di militarizzazione estrema, e di altrettanto estrema violenza. Uno degli esempi più forti di disposizioni per la repressione delle attività partigiane - ma con ampie implicazioni nei confronti della popolazione civile - è rappresentato dalla famosa circolare 3C del marzo 1942, diramata dal generale Mario Roatta, comandante della II armata, che fu degno successore del generale Ambrosio, poi passato allo Stato Maggiore. Quest'ultimo aveva dichiarato a tutte lettere che la guerra che si combatteva in Jugoslavia era una guerra nella quale non si facevano prigionieri. Affermazioni di questa natura ne potremmo riportare molte, non soltanto grazie alle indagini - e alle relative documentazioni - di Tone Ferenc, uno storico sloveno purtroppo deceduto, ma anche grazie a uno dei pochi studi che l'Ufficio storico militare dello Stato Maggiore dell'Esercito è riuscito a produrre su questi temi, L'occupazione italiana della Slovenia (1941-1943) di Marco Cuzzi.

Stralcio dal saggio di Enzo Collotti "Le occupazioni italiane nei Balcani" in "Dall'Impero austro-ungarico alle foibe" (Bollati-Boringhieri, pp. 304, euro 24,00), in libreria dal 12 febbraio

l’Unità 31.1.09
Intervista con Livia Turco
«Da Fava sul Pd parole assurde e irricevibili»
L’ex ministro: ha le sue ragioni sulla legge elettorale per le Europee, ma non c’entra nulla con il voto per Cosentino. Lo sbarramento è sbagliato


Onorevole Livia Turco, Claudio Fava, leader di Sd, ha accusato il Pd di aver fatto uno scambio con il Pdl sullo sbarramento per le europee. In questo baratto il Pd avrebbe messo anche la lotta alla mafia: la prova sarebbero i tanti assenti e astenuti sulla mozione di sfiducia contro il sottosegretario Cosentino...
«Parole irricevibili, Fava non può coltivare sospetti di questo genere contro il Pd e il suo segretario Veltroni. Li respingo in modo fermo. Fava ha ragione a lamentarsi per lo sbarramento, anche io sono e resto contraria. Ma con invettive di questo tipo non si va da nessuna parte, c’è solo la degenerazione del confronto politico. Con queste parole Fava allontana anche una come me...».
Eppure nel Pd ci sono state decine di voti mancanti per la mozione di sfiducia a Cosentino, accusato da alcuni pentiti di rapporti con il Clan dei Casalesi.
«Il partito ha posto la questione con grande forza e coerenza, abbiamo fatto una battaglia vera: non a caso la mozione era firmata dal nostro capogruppo Soro. Se non è passata è stato per il voto contrario della maggioranza. Quanto agli astenuti, evidentemente non erano convinti fino in fondo di quella mozione. Ma da qui a dire che questi deputati sono insensibili alla lotta alla mafia, o complici di qualche cosa, ce ne passa parecchio. Sono accuse assurde, che servono solo ad avvelenare il clima. Io ho ascoltato in aula le ragioni dell’astensione dell’onorevole Tempestini, una persona serissima. Se ci fosse stato un patto indicibile, Soro non avrebbe presentato quella mozione».
Fava è molto arrabbiato per lo sbarramento...
«Ecco, se stiamo su questo terreno penso che abbia le sue ragioni. Anche Veltroni ha detto che l’esclusione della sinistra radicale dal Parlamento è stata una ferita per la democrazia. Ecco, per rimarginarla ci sarebbe voluta attenzione, ascolto per le ragioni della sinistra, di una fetta importante di elettorato che rischia di precipitare nella sfiducia. Il Pd avrebbe dovuto avere questa attenzione, e rinunciare a qualunque forma di sbarramento. Anche perché non credo che, comunque, ne trarrà grandi vantaggi».
In che senso?
«Nel senso che non prevedo forme di voto utile, da sinistra verso il Pd: alle europee non si sceglie il governo. Noi avremo successo se sarà credibile il nostro progetto, se avremo parole chiare sulla crisi, sulla sicurezza, sull’immigrazione. Se diremo chiaramente quale sarà la nostra casa in Europa. Se queste cose non ci saranno, non sarà lo sbarramento a darci una mano. Ecco, a Walter lo voglio dire chiaramente: per vincere è molto più utile dire con chiarezza quale sarà la nostra famiglia europea rispetto agli sbarramenti».
Si dice che così si consolida il bipolarismo...
«La vocazione maggioritaria parte dalla forza di un programma e guai pensare che significhi “nessuna alleanza”. Se questo è vero, è un errore anche tattico alimentare lacerazioni a sinistra. Sarebbe stato molto meglio sanare la ferita del 2008, quando siamo andati da soli, invece di alimentare divisioni e risentimenti».
Franceschini sostiene che così la sinistra sarà spinta a riaggregarsi...
«Evitiamo almeno questi toni paternalistici. Le aggregazioni sono processi politici, non si fanno grazie alle leggi elettorali. Abbiamo deciso di dire sì a questo sbarramento, ma almeno evitiamo di dire alla sinistra che per loro sarà un bene...».

l’Unità 31.1.09
Violenza sessuale. La repressione non basta
Bisogna ripartire dall’educazione dell’uomo
a cura di Natalia Rodriguez


Pochi anni fa l’apparizione di un seno alla televisione americana in orario di massimo ascolto provocò uno scandalo pazzesco. Justin Timberlake e Janet Jackson cantavano nell’ intermezzo della partita finale dal campionato di calcio americano. Un gesto, una provocazione o magari una strategia commerciale, chissà, ma milioni di persone si trovarono di fronte a un capezzolo inaspettato, e scoppiò una grande polemica. Per un seno. Il rapporto fra gli americani e l’immaginario sessuale è molto complesso. Un seno in televisione può essere considerato un attacco ai valori americani, mentre i giovani si trovano a gestire una sessualità complessa.
Nel bagno dalla Stokes Librery si possono trovare alcuni poster dove si legge: «Una donna su quattro di questa Università è sopravvissuta a una aggressione sessuale o ha affrontato un tentativo di violenza durante il corso di laurea». Messaggi per la prevenzione sono frequenti anche in scuole, bar e biblioteche. Nonostante i poster e le buone intenzioni, purtroppo il messaggio sembra non raggiungere lo scopo. I comportamenti violenti nei confronti delle donne non demordono. Il numero delle aggressioni resta troppo alto. La campagna di prevenzione fin qui messa in atto non è sufficiente. Cosa e dove si sta sbagliando?
Alcuni studi sottolineano come sarebbe opportuno, a questo punto, promuovere iniziative che agiscano puntando a ridurre il tasso di accettazione dei comportamenti violenti contro le donne nella società e in particolare nei gruppi dove soprattutto negli ambienti universitari è attiva una tolleranza sottotraccia nei confronti di questo tipo di violenza. Nei bagni delle università americane si possono trovare anche poster contro l’alcolismo. Il problema è che i messaggi veicolati da queste campagne sono contraddittori.
Se da un lato si dice: «La maggioranza degli studenti beve tra quattro e sei bicchieri in una notte di festa», dall’altra si afferma: «questa quantità è eccessiva ed è dannosa per la vostra salute». La contraddizione sta nel fatto che questo doppio messaggio mette in luce un comportamento sociale molto popolare e allo stesso tempo condannato. Nei campus americani si beve molto e lo stato d’ubriachezza è frequente. Ed è proprio la condizione d’ubriachezza uno dei fondali più importanti della violenza sessuale.
Questi messaggi non sono efficaci Un poster da solo non ce la può fare. Ma può far sì che all’interno dei gruppi gli studenti inizino a parlare tra loro su questo tema. Allora il gruppo diventa il fulcro di una nuova politica d’intervento. Perché? Perché è proprio il gruppo il nucleo fondamentale su cui poggia la tolleranza nei confronti di comportamenti violenti contro le donne e in questo l’alcol gioca un ruolo spesso decisivo.
Dalla fine degli anni 90, l’Università James Madison di Virginia lavora utilizzando questo approccio di gruppo contro la violenza sessuale con strumenti desunti dal marketing. Con l’obiettivo di «vendere» una scala di valori capace di mettere in minoranza la «legge» che ha fin qui quasi legittimato lo scivolamento dei comportamenti nell’area della violenza. Nei campus si può leggere «L’uomo rispetta la donna: nove uomini su dieci della James Madison si fermano di fronte al primo no al sesso pronunciato dalla sua compagna».
Il punto di partenza di questo lavoro era molto chiaro: quasi tutti i fattori che favoriscono l’aggressione sessuale si coltivano all’interno di gruppi maschili; di conseguenza i programmi sono stati portati avanti da psicologi uomini specializzati. Questo programma ha prodotto risultati apprezzabili.
Qualcuno si è chiesto: non sarebbe forse meglio minacciare gli aggressori con pene più dure? I fatti dimostrano che è una strada improduttiva. Nella James Madison le indagini hanno evidenziato che gli uomini e anche le donne non davano valore al «consenso» nelle relazioni sessuali. Anzi, gli studi hanno dimostrato che gli uomini non riconoscevano le donne come compagne se nel gruppo questa percezione non era acquisita come positiva. Cosa possono punizioni più severe contro una cultura ben radicata che toglie valore fondamentale al «consenso» nelle relazioni tra uomini e donne?
Sono stati costruiti messaggi destinati esclusivamente alle donne. Alcuni di questi lavorano affidando alla paura un ruolo di governo delle scelte e dei comportamenti. Uno spot della televisione italiana mostra una donna che cammina sola nella notte. Un uomo la segue e la blocca per il braccio; la voce fuori campo recita : «fai attenzione, questo può succedere anche a te».
La paura può convincere tutte le donne a restare chiuse in casa la sera, ma non eviterà la violenza sessuale che si consuma all’interno dei gruppi d’amici o spessissimo nella propria casa. La paura non aiuterà le donne. Gli studi fin qui compiuti tendono invece a dare importanza a tutti gli strumenti utili a rafforzare il controllo della paura nello scenario della violenza sessuale.
Il ruolo degli uomini Un aspetto interessante di questo nuovo approccio è il ruolo degli uomini: in questa direzione vengono infatti assunti come soggetti della soluzione e non più solo come causa del problema. Da qui, l’opportunità e l’urgenza di promuovere a tutti livelli una normativa sociale che convinca l’uomo ad accettare la pari dignità della donna. A partire ovviamente dalle relazioni all’interno dei gruppi.

l’Unità 31.1.09
Nessuno ricorda lo sterminio degli zingari
di Dijana Pavlovic






















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Repubblica 31.1.09

Il colonialismo del terzo millennio
Territori sempre più vasti dei paesi poveri comprati dalle nazioni ricche: è il nuovo colonialismo. Al tempo della crisi
di Ettore Livini


Niente carri armati. Zero aerei, soldati e cannoni. Il neo-colonialismo del terzo millennio (copyright della Fao) va alla conquista di nuove terre da sfruttare a bordo di comodi trattori. Spargere sangue per annettersi un pezzo d´Africa, Asia o Sudamerica non serve più. Oggi - per alzarci la propria bandiera - c´è un metodo molto più semplice: comprarselo. Il Terzo mondo, messo in ginocchio dai dazi agricoli e dai capricci dei prezzi delle materie prime, si è messo in vendita. E i paesi più ricchi (ma non solo) - consci che tra pochi anni terra e acqua saranno risorse più preziose del petrolio - fanno già la fila per accaparrarsi le nazioni in saldo.
Questo risiko sulla pelle delle aree più povere del pianeta è aperto a tutti. Si muovono governi, grandi aziende, fondi sovrani, persino i privati. Philippe Heilberg, ex banchiere a Wall Street e oggi numero uno della Jarch Capital (società dietro cui ci sono molti ex-uomini della Cia e del dipartimento di Stato Usa), si è regalato due settimane fa 400mila ettari di campi fertili in Sudan lungo le sponde del Nilo.
Le aree più povere del pianeta sono ormai in ginocchio Colpa dei dazi agricoli e del prezzo delle materie prime E così, per annettersi un pezzo d´Africa, di Asia o Sudamerica non c´è più bisogno di guerre e invasioni. Basta semplicemente fare un´offerta e acquistare territori. Come in un risiko. Tragico
Una maxi-fattoria grande come tutto il Dubai. Venditore: Gabriel Matip, figlio di Paulino, il signore della guerra che da anni controlla in punta di fucile queste zone. Il Madagascar ha "affittato" alla Daewoo per 99 anni 1,3 milioni di ettari, una superficie superiore a quella del Belgio e pari al 50% della terra arabile malgascia. Qui i trattori dei sudcoreani coltiveranno mais e olio di palma da destinare ai consumi interni di Seul. «L´intesa è solo all´apparenza commerciale - commenta Carl Atkins di Bidwell Agribusiness, società di consulenza che si occupa di questo tipo di transazioni - In realtà è sponsorizzata dal governo della Corea del sud nel nome degli interessi strategici nazionali di sicurezza alimentare».
«Siamo di fronte a un fenomeno che non possiamo non catalogare alla voce del neo-colonialismo», ha lanciato l´allarme il numero uno della Fao Jacques Diouf pensando al 70% dei cittadini del Madagascar che vivono al di sotto della soglia della povertà. Ma fermare il vento con le dita è impossibile. La Cina - paese dove l´acqua (scarsissima) vale già come oro - ha messo le mani avanti dal 2007 comprando a suon di renminbi centinaia di migliaia di ettari nelle Filippine, in Sudan e Kazakhstan. La Libia ha barattato uno po´ di barili del suo greggio per aggiudicarsi i diritti su un pezzo di Ucraina. Quindici investitori sauditi hanno puntato 4 miliardi di dollari per sviluppare 500mila ettari in Indonesia. Obiettivo: piantare riso Basmati da riesportare poi in Arabia.
Il problema della Fao e delle organizzazioni non governative - allarmate per le drammatiche conseguenze sui milioni di persone che oggi campano coltivando queste terre - è che le vittime del neo-capitalismo, affamate di capitali e investimenti, sono le prime a mettere la testa sotto la ghigliottina. La Cambogia, ingolosita dalle intese indonesiane, ha messo in vendita pezzi enormi del paese. «Vogliamo incassare 3 miliardi - ha detto orgoglioso Suos Yara, sottosegretario alla cooperazione economica di Phnom Penh - Abbiamo contatti avanzati con Kuwait e Qatar». Che dalla sabbia dei loro deserti riescono a cavare solo petrolio. Stessa musica in Etiopia: «L´asta per i nostri campi è aperta, ci servono tecnologie e soldi», ha annunciato il primo ministro di Addis Abeba Meles Zenawi.
Ad accelerare questo suk, che sta ridisegnando la mappa del mondo senza sparare una sola pallottola, è stata la bolla speculativa sui prezzi delle materie prime alimentari del 2008. Il problema, dicono i sociologi, è semplice. La popolazione del mondo cresce a ritmi vertiginosi mentre le superfici coltivabili sono più o meno sempre le stesse. Nel 1960 ogni essere umano aveva a disposizione 4.300 metri quadri del pianeta per il suo sostentamento alimentare. Oggi siamo scesi a 2.200 e nel 2030 il nostro "spazio vitale" sarà di soli 1.800 mq. Altro che dipendenza dal greggio: «Allargare la terra a disposizione dei propri cittadini sta diventando sempre più una priorità strategica per i governi che sanno guardare più lontano», dice Atkins. Quelli che non sono capaci (o non possono permettersi di farlo) invece vendono.
Le cose tra l´altro, dicono gli esperti, rischiano solo di peggiorare. «La prossima emergenza si chiama acqua - sostiene Chiara Tonelli, docente di genetica all´università degli studi di Milano e consulente dell´advisory group sull´alimentazione della Ue - Il 70% delle risorse idriche viene utilizzato oggi per l´agricoltura e il cambio delle abitudini mondiali dalla dieta vegetale alla carne (per produrre un chilo di riso ci vogliono mille litri d´acqua, per un chilo di carne 45mila) aggraverà questo problema. Ragion per cui chi può va a comprarsi e consumare l´acqua degli altri». La Cina è l´esempio più lampante: a Pechino non manca certo la superficie arabile. Ma la cronica indisponibilità di sorgenti e fiumi ha convinto il governo da qualche anno ad adottare una certosina politica di acquisizioni di terra all´estero (da Cuba al Messico, dall´Australia all´Uganda fino alla Russia e alla Tanzania) che ha consentito di alzare la bandiera rossa su quasi 3 milioni di ettari in giro per il mondo.
Il problema è chiaro (e antico): i paesi più potenti e ricchi si riempiranno in futuro la pancia a spese di quelli più poveri. Offrendo in cambio poco più di un piatto di lenticchie. Ma cosa si può fare per arginare questo fenomeno? La Fao, alle prese con un miliardo di persone che soffrono di fame (un numero che cresce invece di diminuire), ha proposto di avviare un piano di aiuti d´emergenza all´agricoltura delle nazioni più arretrate per non costringerle ad appendere il cartello "Vendesi" sulle proprie terre. Peccato che in piena crisi finanziaria i big del G-8 non trovino i soldi nemmeno per rimediare alle voragini aperte dalla loro finanza creativa.
La scienza ha la sua ricetta: se le terre non si possono allargare, spiegano pragmaticamente nelle università, si può provare a farle rendere di più. «Oggi il 30% della produzione agricola è perso per stress come malattie e mancanza d´acqua - spiega Tonelli - Una cifra enorme. Basterebbe riuscire a rendere le piante più resistenti alla siccità o recuperare alla coltivazione i terreni marginali per disincentivare la convenienza economica allo shopping di terre all´estero». Una risposta di mercato forse più efficace degli appelli della Fao. Le conoscenze scientifiche per arrivare a questi risultati tra l´altro, grazie al sequenziamento dei genomi, ci sono già. Ma le resistenze alle modifiche genetiche, il crollo dei fondi per la ricerca e le lungaggini dei processi d´approvazione non autorizzano a sperare in una rapida soluzione scientifica alle esigenze alimentari del mondo.
La via dunque è stretta ed è in questo crinale sottile che si tuffano tutti, dai governi ai bucanieri della finanza come Heilberg. «Agricoltura? Io non ne capisco niente - ha ammesso il numero uno della Jarch, ex manager della disastrata compagnia assicurativa Aig, dopo lo shopping in Sudan - So solo che questa è terra fertile in una zona instabile. E quando la situazione sarà tranquilla, con la richiesta di asset come questi che c´è in giro per il mondo, noi faremo grandi affari». Nessun rimorso per aver negoziato con un signore della guerra. «So che Paulino ha ucciso molta gente - ha confessato al Financial Times - ma l´ha fatto per difendere il suo popolo».
Pecunia non olet, il denaro non ha odore. «Io ho tutti i giorni sotto il naso la mappa del mondo per andare a di nuove occasioni - conclude Heilberg - E sto già guardando al Darfur». Il neo-colonialismo - un´arte raffinata - riesce ormai persino a far combattere le sue guerre dagli eserciti altrui.

Repubblica 31.1.09
La Terra in svendita
di Carlo Petrini


Tutto fa presupporre che il 2008 sarà l´anno che ricorderemo come quello in cui è iniziato un cambiamento epocale. Le crisi finanziaria, ecologia e climatica sono esplose in tutta la loro gravità. È proprio in questi momenti che la terra, la natura, le risorse rinnovabili e la produzione di cibo attirano maggiori attenzioni: sono quell´economia reale a cui ri-aggrapparsi. Sono il motore di un possibile cambiamento e si fa gara ad accaparrarsele.
Non è dunque un caso che chi ha sfruttato e vilipeso la Terra, ha generato la crisi finanziaria, ha fatto miliardi con pratiche insostenibili, oggi che si trova con le spalle al muro si getti a capofitto nell´acquisizione selvaggia di terre e fonti d´acqua. Non sono certo operazioni che hanno come fine il bene della comunità: il tentativo è di spremere tutto ciò che si può ancora spremere. Bel cambiamento.
Cambiamento è la parola sulla bocca di tutti, è ciò che più ha cavalcato Barack Obama nella corsa alla sua elezione a presidente degli Stati Uniti d´America.
Ovvero l´evento indiscusso del 2008, che farà storia, grazie a un uomo che si presenta promettendo di «imbrigliare il sole e i venti e il suolo per alimentare le nostre auto e mandare avanti le nostre fabbriche»; che promette alla gente delle nazioni povere «di lavorare insieme per far fiorire le campagne, per pulire i corsi d´acqua, per nutrire i corpi e le menti affamate».
In tutto il nostro fare non avevamo mai messo in conto le esigenze della natura, gli equilibri ambientali, uno sfruttamento equo delle risorse e il benessere dei poveri: probabilmente è stato il nostro errore più grande. Credevamo di migliorare la nostra condizione e invece l´abbiamo peggiorata.
Ma dicevamo che il 2008 farà storia. Per l´evidenza delle crisi e l´elezione di Obama, certo, ma forse nessuno lo ricorderà per l´entrata in vigore di una delle costituzioni nazionali più moderne e intelligenti del mondo. Il 28 settembre 2008, infatti, la popolazione dell´Ecuador ha votato a larga maggioranza la propria nuova costituzione, la prima nella storia in cui vengono riconosciuti i diritti della natura insieme a quelli delle persone e della collettività.
Una carta costituzionale esemplare che, come tutte le costituzioni, è figlia dei propri tempi e recepisce in pieno le nuove esigenze di questo mondo in difficoltà. Nelle roccaforti della democrazia Occidentale la protezione dell´ambiente, delle minoranze etniche e culturali, della diversità e della biodiversità non erano certamente delle priorità nel momento in cui si trovarono a darsi delle regole fondanti: nei periodi post-rivoluzionari o post-bellici erano, giustamente, da privilegiare valori come l´uguaglianza, il lavoro, la libertà.
Oggi, in questo quadro mondiale, in un paese come l´Ecuador, è invece sintomatico come la vera conquista sia rappresentata dall´inedito riconoscimento dei diritti del creato. La portata innovativa del documento però non finisce qui, perché i diritti della natura sono soltanto uno dei presupposti per il «buen vivir»: un concetto chiave, nel documento scritto anche in lingua quichua, «sumak kawsay».
Il "buon vivere" nell´opulento mondo Occidentale è connotato da cose superflue, dall´accumulazione della ricchezza; in campo alimentare dallo sfizio costoso, "gourmettistico" o pantagruelico. Tutto ciò è sintomatico di un´altra visione del mondo: il buen vivir in Ecuador è il fine di vivere in armonia con ciò che ci sta intorno e con gli altri. Per perseguirlo hanno messo nero su bianco che va difeso l´ambiente, che la sovranità alimentare è un diritto inalienabile, che i suoli vanno conservati e protetti, che la terra deve essere garantita ai piccoli contadini, che l´acqua non si può privatizzare, che i popoli indigeni hanno gli stessi diritti degli altri, mentre la loro identità, la loro lingua, i loro saperi ancestrali sono importanti come le più moderne tecnologie e la ricerca più avanzata. Hanno però vietato gli organismi geneticamente modificati, vogliono ridurre le emissioni di CO2 e dichiarano di voler rispettare la «Pacha Mama», la Terra Madre, «con tutti i suoi cicli vitali, funzioni e processi evolutivi». Propongono un nuovo rapporto e un nuovo equilibrio fra zone urbane e zone rurali, all´interno delle quali anche ai piccoli contadini è garantito il diritto al buen vivir. Niente di tutto questo è rintracciabile in altre costituzioni. Pensiamo ad esempio alla sovranità alimentare: c´è un intero capitolo ad essa dedicato, e non si tratta di un generico dovere di garantire alimenti a tutta la popolazione, ma si pongono le condizioni, economiche ed ecologiche, perché tutti possano godere del cibo che vogliono scegliersi.
Mentre Obama teneva il suo magistrale discorso, pieno di speranza e propositivo in tema di importanti cambiamenti, io pensavo alla nuova costituzione dell´Ecuador e al buen vivir. Mi chiedevo se in un paese come gli Stati Uniti e in tutto l´Occidente, dove abbiamo un´idea completamente diversa del "buon vivere", dove lo ricerchiamo attraverso un sistema economico disumano, del tutto avverso alla Natura, i cambiamenti invocati dal nuovo Presidente Usa potranno davvero trovare terreno fertile. E la metafora non cade a caso: mentre il terreno fertile diventa un bene preziosissimo, comprato selvaggiamente da chi non ha idea cosa sia il buen vivir, si sente anche la mancanza di quel terreno fertile dato da menti aperte, da una nuova visione del mondo. Una visione che si emancipi dai sistemi economici, energetici, alimentari e industriali che ci hanno condotto sin qui, a riporre tutte le nostre speranze nel nuovo capo della nazione che in realtà più di tutte ha esportato quei sistemi insostenibili in giro per il mondo. Tranne in Ecuador, a ben vedere.

Repubblica 31.1.09
Grand Palais, esauriti persino i biglietti delle 4 del mattino
Parigi in fila anche di notte per la 24 ore di Picasso
di Giampiero Martinotti


Nel tentativo di attrarre un pubblico più giovane, i grandi musei sperimentano nuovi orari d´apertura E nonostante i rigori dell´inverno, in Francia spopola l´esposizione-evento al Grand Palais
"Picasso la nuit" Parigi insonne
I cancelli sono aperti a ciclo continuo da ieri mattina a lunedì sera
18 mila biglietti notturni sono già stati venduti. Per gli altri 18 mila tocca fare la coda

PARIGI È la superstar dell´arte novecentesca, uno dei rari artisti a mettere d´accordo critici e pubblico, a conciliare gli snob e i cultori del nazional-popolare, a far tacere le differenze tra il colto e l´inclita: Pablo Picasso ha sbancato ancora una volta il botteghino. Settecentodiecimila persone hanno visitato da ottobre a oggi la mostra del Grand Palais dedicata al pittore spagnolo e ai maestri che lo hanno ispirato.
E altre cinquantamila sono attese in tre giorni per un´inedita kermesse: da ieri mattina e fino a lunedì sera, infatti, la mostra è aperta senza interruzione, di giorno e di notte. Tutti i posti prenotabili sono esauriti, compresi quelli alle quattro o alle cinque del mattino.
Vedere Picasso anche a costo dell´insonnia - come già avviene, ma in piena estate, per i capolavori di Goya a Madrid - è insomma la parola d´ordine degli appassionati che hanno già un biglietto e di quelli che si metteranno in coda per una o due ore, malgrado il freddo delle notti parigine: 18 mila biglietti "notturni" sono già stati venduti, gli altri 18 mila sono riservati a chi si sorbirà la coda.
Un vero e proprio happening difficilmente paragonabile con altri avvenimenti. Certo, da qualche anno la «notte bianca» ha abituato a un festival sotto le stelle dedicato all´arte, ma in quel caso si tratta di un avvenimento particolare, di una specie di mega-spettacolo. Qui, invece, si tratta di andare a vedere una mostra tradizionale a un´ora in cui le auto sugli Champs-Elysées si fanno rare e il piantone al commissariato del Grand Palais comincia a chinare il capo dal sonno. E di sopportare le temperature previste per stanotte, attorno allo zero. Gli organizzatori della mostra hanno però cercato di addolcire la stanchezza degli aficionados: ai visitatori in fila saranno offerti cioccolata e bevande calde per aiutarli a superare la prova del freddo e del sonno. All´interno, bar e libreria saranno aperti durante tutta la maratona. L´obiettivo principale di questo "Picasso by night" è di far venire i giovani, visto che la media dei visitatori delle mostre al Grand Palais è di 53 anni.
Esposizione eccezionale, successo strepitoso (anche se non si tratta di un record) e profitti sostanziosi: la mostra dovrebbe portare nelle casse della Réunion des Musées Nationaux (Rmn) più di un milione di euro. Una cifra che ha creato immediatamente molte gelosie: i tre musei che hanno prestato il grosso delle tele (Louvre, Picasso, Orsay) hanno rivendicato il 70 per cento di quella cifra, la Rmn ha risposto picche annunciando che i soldi guadagnati serviranno a ripianare il deficit di altre mostre. I responsabili, del resto, ricordano che nessuna mostra al mondo è in attivo se si considerano tutti i costi (trasporti, assicurazione, affitto, ecc.) e che la mostra Picasso lo è solo se si considerano i costi diretti.
Resta il successo, alimentato anche dalle star: a vedere Picasso e la sua genealogia artistica sono venuti proprio tutti, da Nicolas Sarkozy e Carla Bruni a Woody Allen e Nicole Kidman, da Valéry Giscard d´Estaing a Sophie Marceau. E poi la folla degli anonimi, che stanotte ha avuto l´onore di microfoni e telecamere: per tre notti, la superstar Picasso è stata soppiantata da una star inattesa: il pubblico.

Corriere della Sera 31.1.09
Immigrazione, chiede asilo il 75% di chi arriva per mare
Unhcr: non possono essere respinti
di Mario Porqueddu


A fine 2008 le istanze ricevute dalle commissioni erano 31.097. Già valutate 21.933
Le procedure L'esame delle domande è lungo e complesso. Il trasferimento in centri appositi

Era il 1999, l'anno della guerra in Kosovo. Migliaia di persone in fuga dai Balcani bussarono alle porte d'Italia e le richieste d'asilo, che solo due anni prima erano state circa 2 mila, superarono le 33 mila; una cifra senza precedenti per il nostro Paese. Allora si parlò di emergenza-profughi. Sono passati dieci anni e molte cose sono cambiate. Dal Kosovo in Italia non arriva più quasi nessuno, ma nel mondo si continua a scappare da Paesi in guerra, persecuzioni, aree di crisi. Alla fine del 2008 le commissioni territoriali per il diritto d'asilo in Italia avevano ricevuto 31.097 richieste: 21.933 sono state valutate. In 9.478 casi le udienze si sono concluse con un diniego, 10.849 hanno avuto esito positivo. Il nostro Paese ha riconosciuto lo status di rifugiato — pensato per chi è vittima di una persecuzione ad personam — a 1.695 richiedenti, e ha accordato forme di protezione sussidiaria o umanitaria in altre 9.154 occasioni.
Per capire la realtà descritta dai numeri, però, occorre qualche confronto. Nel 2007 in Italia le domande d'asilo sono state 14 mila. L'anno prima furono circa 10.500. C'era un crescendo e quest'anno c'è stato un picco. «Ma stupisce vedere come, di fronte a cifre simili a quelle di dieci fa, la situazione sia sempre di affanno — dice Laura Boldrini, portavoce dell'Unhcr, l'Alto commissariato Onu per i rifugiati —. Non si è riusciti a prevedere il fenomeno e inserirlo in termini di risorse nel budget dello Stato. La mancanza di programmazione ha impedito che si creasse un sistema adeguato. Così ogni anno si finisce per dichiarare lo stato di emergenza a livello regionale o nazionale perché servono più fondi per offrire accoglienza alle persone. Questo crea confusione nell'opinione pubblica, come se il Paese dovesse difendersi da un'invasione. Non è così». Un fattore che distorce la percezione è che sempre più spesso la strada dei richiedenti asilo passa per Lampedusa. Quella che nell'immaginario italiano rimane «l'isola dei clandestini», da almeno un paio d'anni è la principale porta d'ingresso per donne e uomini che fuggono verso l'Europa perché la loro vita è in pericolo. Le carrette del mare sono le stesse, ma i flussi migratori sono cambiati. Nel 2008 (dati del Viminale) sono sbarcate sulle coste italiane 36.952 persone: 30.657 hanno preso terra a Lampedusa. «Dal mare, però, arriva solo il 15% dei clandestini presenti sul territorio nazionale — ha spiegato il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, una decina di giorni fa —. Anche trovando la soluzione alla questione-Lampedusa risolveremmo solo parte del problema: l'85% degli immigrati giunge nel nostro Paese con visti turistici, poi li fa scadere e rimane ». Altri perdono il lavoro, non ne trovano uno entro 6 mesi ed entrano in clandestinità.
L'Unhcr ribadisce: «Le nostre statistiche dicono che il 75% di chi è arrivato in Italia dal mare nel 2008 era un richiedente asilo. Queste persone non possono essere respinte, a meno di violare la Convenzione di Ginevra. Perciò, quando si firmano accordi bilaterali tra Stati nell'ambito della lotta all'immigrazione irregolare, come quelli sui pattugliamenti delle coste africane, ci devono essere garanzie specifiche per i richiedenti asilo».
Lo status di rifugiato è concesso con parsimonia, perché accordarlo a chi non ne ha diritto indebolirebbe lo strumento di protezione. L'Ue a fine 2007 dava asilo a 1 milione e 400 mila persone. In Italia i rifugiati sono 38 mila, uno ogni 1.500 residenti (la cifra non comprende minori e rifugiati riconosciuti prima del '90). Non sono molti: Norvegia, Germania e Svezia ospitano oltre 7 rifugiati ogni 1.000 abitanti. Da noi la procedura standard funziona così: prendendo ad esempio Lampedusa, un funzionario dell'Unhcr comunica a ogni persona che sbarca le informazioni in materia di asilo, illustra le regole, spiega che non tutti hanno titolo per fare domanda. Qualcosa di simile avviene ai valichi di frontiera, a Fiumicino e Malpensa, nei porti di Bari, Brindisi, Ancona e Venezia, dove spesso a fare questo lavoro è il personale di associazioni come Caritas o Consiglio italiano per i rifugiati. Chi vuole chiedere asilo viene indicato alle autorità, è fotosegnalato, gli prendono le impronte digitali e le generalità. Poi, se privo di documenti, parte per un «Cara», Centro di accoglienza per richiedenti asilo, mentre se ha soldi e passaporto è libero di spostarsi dove vuole. I «Cara» sono aperti, di giorno le persone entrano ed escono a piacimento, perché chi chiede protezione non ha interesse a scappare. Il passo successivo è compilare il modulo «C3», con il quale chi ha lasciato il suo Paese e non può tornarci comincia a raccontare alle forze di polizia italiane la sua storia. A quel punto inizia l'attesa. Dall'arrivo nel «Cara» all'audizione si aspetta, in media, circa 4 mesi. Dipende dall'arretrato che le commissioni devono smaltire: in questo momento le «istanze in attesa di esame» sono circa 10 mila. In Italia fino a pochi mesi fa operavano 10 commissioni, a novembre un decreto ha istituito altre 5 sottosezioni: sono tutte composte da un prefetto, un rappresentante della polizia, uno dell'Anci e uno dell'Unhcr. Se il caso che esaminano è lampante il colloquio con il richiedente asilo può risolversi in 45 minuti. Altre volte si parla per ore. L'intervistato deve spiegare perché è fuggito da casa sua, meglio se fornisce delle prove: «Capita che mostrino tesserini di appartenenza a un partito di opposizione, articoli di giornale che hanno scritto, documenti che dimostrano la residenza in un luogo dove c'è guerra — spiega Boldrini —. Poi molto dipende dalla loro credibilità. Chi conduce l'audizione fa domande incrociate, prende informazioni sui Paesi di origine presso il database dell'Unhcr e le ambasciate italiane. È un lavoro complicato: hai di fronte una persona che non conosci, ti racconta una storia, parla di tragedie, di violenza. A volte capita che si esprima bene, altre volte che sia quasi incapace di parlare. Magari a causa dei traumi subiti, o semplicemente perché non è spigliato. Tu non gli credi, decidi per un diniego: espulsione, cinque giorni per lasciare l'Italia. E allora ti porti dentro il dubbio: perché non gli ho creduto? Avrò fatto bene?». I tempi per il ricorso sono di 15 giorni se sei all'interno di un «Cara» e di 30 se vivi altrove, fuori dal centro. Dati sul numero dei ricorsi non ce ne sono. Sull'asilo, l'Italia ha recepito le normative europee con standard superiori a quelli minimi stabiliti da Bruxelles: i richiedenti possono avere un avvocato durante l'audizione e chi ottiene lo status di rifugiato non deve indicare requisiti di reddito per il ricongiungimento familiare. Ma la vita può non essere facile nemmeno per loro. Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), garantisce ospitalità ad alcune di queste persone in strutture messe a disposizione da più di 100 Comuni italiani. Ognuna di loro costa circa 25 euro al giorno: il grosso lo paga il Viminale, ma negli anni altri soldi sono venuti dall'8 per mille, da fondi europei, in piccola parte dalle casse dei Comuni. I posti a regime, però, sono pochi: 2.600 l'anno scorso, 3.000 in quello appena iniziato. Insomma, la maggioranza rimane fuori. E l'accoglienza è a tempo: 6 mesi, che servono da «accompagnamento verso l'autonomia». Poi la collettività smette di occuparsi di loro.

Corriere della Sera 31.1.09
Dalla Somalia all'Italia, in fuga dalla guerra. «Ma siamo chiusi nel centro, non era quello che sognavamo»
Un anno e mezzo in attesa di una risposta
di Mariolina Iossa


ROMA — Scappano i somali. Scappano dalla guerra, dagli etiopi, dai bombardamenti, dai pestaggi e dai fondamentalisti islamici. Da una vita che non è più vita, da una città, Mogadiscio, dove c'era il grande mercato che dava da lavorare a tre milioni di persone e ora è distrutto. Alì ha 34 anni, sta in Italia da sei mesi, nel centro di Castelnuovo di Porto, vicino a Roma. Viene da Mogadiscio, ci sono voluti mesi e un viaggio lungo per arrivare qui. «Ho detto basta il giorno in cui un mortaio ha distrutto la nostra casa, ha ucciso mio padre e la moglie di mio fratello, un altro fratello ha perso una gamba. Basta lo dicono in tanti, vendono le case, i terreni e partono».
Ma avere un gruzzolo non basta. Raggiungere l'Italia è difficile. Continua Alì: «Da Mogadiscio sono arrivato a Gibuti e ci sono rimasto due mesi, ho lavorato per guadagnare i soldi che mi servivano per il pezzo di viaggio successivo. Il lavoro si trova così: vai nei posti dove sai che al mattino presto arrivano degli uomini con i camion e ti portano dove serve, a mungere le mucche, tosare le pecore, raccogliere la frutta, fare il muratore, qualunque cosa. In Eritrea sono stato un mese, in Sudan due. Da lì per attraversare il deserto devi pagare le bande di trafficanti, due, trecento dollari per ogni pezzo di strada. Una banda ti vende ad un'altra banda e devi pagare. Dopo 25 giorni nel deserto sono arrivato a Kufra, in Libia. Ci hanno messo in un capannone e ci hanno detto che se non pagavamo 250 dollari a testa non saremmo stati liberati».
Quelli che non possono pagare sono denunciati alle autorità libiche e sbattuti nelle carceri. Omar, 21 anni, è stato in carcere «2 mesi e 23 giorni, poi ci hanno liberato, lì i poliziotti sono corrotti, abbiamo dato i numeri di telefono delle nostre famiglie a Mogadiscio e loro hanno chiesto un riscatto. Come ha pagato la mia famiglia? Mio padre è morto anni fa, mia madre ha chiesto aiuto ai parenti, hanno fatto una colletta e hanno spedito i soldi».
Per liberare Omar i libici hanno preteso 600 dollari ma appena lui e gli altri hanno messo piede fuori dal carcere, quegli stessi poliziotti hanno avvisato i trafficanti di uomini che li hanno ripresi ed è ricominciato il ricatto dei soldi in cambio della libertà.
Iman, 36 anni, ha lasciato la Somalia «per questa guerra civile che dura da venti anni e che ha distrutto il mio Paese. In viaggio per Kufra su un camion con altri profughi una banda ci ha saccheggiato, ci ha portato via tutto, le cose, i soldi. Hanno costretto tre ragazze somale a scendere dal camion e le hanno violentate sotto i nostri occhi. Ci puntavano il fucile alla testa, non potevamo fare niente. Poi ci hanno lasciato andare. A Kufra un'altra banda di trafficanti ci ha massacrato di botte e ci ha chiesto 500 dollari per arrivare a Tripoli».
Tripoli, la tappa finale degli esuli somali in viaggio verso l'Italia. A Tripoli si sta almeno 5, 6 mesi per lavorare e guadagnare quegli 800-900 dollari da dare agli scafisti per la traversata in mare coi barconi. Alì ce l'ha ancora negli occhi il viaggio su quel barcone. «Ho avuto una paura che non posso dimenticare. In mezzo al mare c'erano solo due possibilità: vivere o morire. La barca era lunga non più di 8 metri, ci stavamo in 45. Se resto vivo, ho pensato, avrò tutta la vita davanti e sarò libero. Quando ho visto la motonave italiana con la bandiera che sventolava ho pensato: è fatta, vengono a salvarci. Ero veramente felice». Ma la felicità dura poco, il tempo di dire: sono un profugo, scappo dalla Somalia in guerra e Alì, Iman, Omar si ritrovano nel centro di Castelnuovo di Porto. Non sono proprio rifugiati politici ma hanno una protezione. Devono sottoporsi ad un'audizione ma per farla aspettano mesi, poi altri mesi per avere il permesso di soggiorno. Loro ancora non ce l'hanno. Come Raghe, 20 anni. «A Mogadiscio studiavo all'università, poi la mia famiglia mi ha detto: va via di qua, questa non è vita. L'università era spesso chiusa, le lezioni sospese, gli studenti perseguitati dagli integralisti islamici. Io qui spero di studiare e di trovare un lavoro, di vivere una vita vera. Ma per ora non vedo niente, stiamo al centro tutto il giorno, non conosciamo la lingua, non possiamo lavorare senza permesso di soggiorno, non ci sono scuole, assistenza, aiuti, niente che ci prepari ad integrarci. Mangiamo, beviamo e dormiamo. Io sognavo l'Italia, non pensavo che fosse questo». Abdullahi, 19 anni, sorride e annuisce: «Io mi sento il cervello spento». Quando arriverà il permesso di soggiorno, per Alì, Omar, Iman, Raghe e Abdullahi sarà passato almeno un anno e mezzo dall'addio a Mogadiscio. Le porte del centro di accoglienza si apriranno e fuori ci sarà il nulla. «Roma è piena di somali esuli con il permesso di soggiorno che non riescono a integrarsi, a trovare lavoro», dice amaro Iman.

Corriere della Sera 31.1.09
Nuovi studi sui gemelli (e un test con i topi) aprono scenari inediti sul nostro profilo genetico
La firma della mamma sul Dna
I comportamenti materni ci condizionano prima di nascere
di Massimo Piattelli Palmarini


Esperimento Sotto esame 200 coppie di fratelli Epi-genoma Non ereditiamo geni «nudi» Gravidanza Quanto incide lo stile di vita

Uno studio su circa duecento coppie di gemelli identici (tecnicamente definiti monozigotici) e gemelli fraterni (dizigotici) appena pubblicato su «Nature Genetics» da un nutrito gruppo di clinici e genetisti canadesi, cinesi, svedesi, americani e australiani conclude con la seguente frase: «I meccanismi molecolari dell'eredità possono non essere limitati alle sole differenze di sequenze del Dna». In altre parole, contano anche le minime trasformazioni chimiche impresse soprattutto dalla madre durante la gestazione, quello che in termini tecnici si definisce il «marchio» (imprinting) sui geni. In altre parole ancora, non ereditiamo dai nostri genitori solo dei geni, per così dire, nudi, non solo un intero genoma, ma un intero apparato, quello che oggi si chiama, come diremo tra un momento, un epi-genoma.
Oltre ai geni, questo apparato contiene anche una miriade di piccole appendici chimiche attaccate sia al Dna che ai rollini sui quali il Dna si arrotola nel formare un intero cromosoma, i cosiddetti istoni, costituenti fondamentali della cosiddetta cromatina (l'assonanza con cromosoma è tutt'altro che accidentale). Ebbene, queste piccole appendici, gruppi noti ai chimici organici da gran tempo, per esempio i gruppi detti metilici, stanno per dimensioni alle grandi molecole del Dna e alle proteine che costituiscono gli istoni come i sassolini catturati da un pneumatico stanno a un intero autobus. Ma il loro ruolo nel regolare l'espressione dei geni è capitale.
Tali piccoli gruppi possono bloccare o ritardare o attenuare il lavoro dell'apparato cellulare che trasforma l'informazione contenuta in un gene in prodotti biologici, per esempio in enzimi, proteine di supporto, messaggeri tra cellula e cellula, attivatori o inibitori di altri geni. Tali piccole appendici srotolano o arrotolano parti dei cromosomi, esponendo o nascondendo i geni, in tal modo attivandoli o disattivandoli. Quanti di questi gruppuscoli chimici si attaccano al Dna e agli istoni e dove esattamente si vanno ad attaccare dipende da molti fattori, per esempio dalla storia alimentare della madre durante la gravidanza, e dal suo regime di vita. I dettagli sfuggono ancora, nonostante negli ultimi anni sia fiorita un'intera disciplina, chiamata epi-genetica, che si avvale anche di modelli animali, soprattutto dei topi. I gemelli identici hanno in comune non solo le sequenze di Dna, ma anche, ovviamente, l'ambiente biologico materno della gestazione. I gemelli fraterni condividono anche loro tale ambiente, ma non tutti i geni. La comparazione tra coppie di gemelli identici e non, rappresenta, quindi un laboratorio naturale ideale per spiare i diversi effetti di questi diversi fattori.
Analizzando in minuzioso dettaglio le sequenze geniche e altri fattori in una varietà di cellule estratte da coppie di gemelli identici e non identici a varie età, questi ricercatori hanno costruito una banca dati senza precedenti. Le differenze sono, come previsto, maggiori tra i gemelli non identici, ma si trattava di precisare quanto di questa maggiore differenza è dovuta alla diversità delle sequenze geniche e quanto ai fattori qui sopra menzionati, ai piccoli onnipresenti gruppi chimici inseriti «a valle» della formazione del genoma, durante la gestazione e poi durante la vita extra-uterina. Dico «a valle» in termini intuitivi, ma il termine appropriato, dal greco, è «epi», cioè al di sopra. Epi-genetica significa, infatti, al di sopra della costituzione dell'apparato genetico, significa studiare cosa avviene, cosa cambia nell'organismo, senza che niente cambi al livello del suo Dna.
Qui conviene fare due passi indietro. Nel 1944 l'Olanda, occupata dei nazisti, venne sottoposta a drastiche restrizioni alimentari. La carestia affamò tutta la popolazione e le donne che riuscirono a completare la gravidanza partorirono bimbi e bimbe di peso assai ridotto. Fin qui niente di biologicamente sorprendente. La sorpresa viene adesso, con le nipotine di quelle nonne. Anche loro, sebbene perfettamente ben nutrite, partoriscono neonati di peso ridotto. Il passo indietro più breve va, invece, all'estate del 2003, quando Randy Jirtle e collaboratori, alla Duke University, nutrirono delle topine gravide con cibi altamente metilanti, cioè ricchi di uno di quei gruppi chimici visti sopra. Ebbene, tanto più ricca era la dieta in gruppi metilici, tanto più manifestamente giallo era il manto dei topini figli, e così succedeva nella generazione successiva.
A parità di Dna, un gene chiamato aguti veniva diversamente attivato. Il parallelo con gli effetti della carestia olandese è lampante. In anni ancora più recenti altri fenomeni di eredità epi-genetica sono stati individuati in animali, ma per quanto riguarda gli esseri umani poco si aveva. L'articolo appena pubblicato costituisce, quindi, un notevole passo avanti. Similmente a quanto si era osservato in cloni di topi geneticamente identici, le differenze individuali sussistono sempre, anche tra gemelli identici. Dati clinici ed epidemiologici sui gemelli identici nell'uomo mostrano una concordanza media di circa il 50% nella suscettibilità a diversi tipi di patologie. Molto? Poco? Il ruolo fondamentale di quello che si chiama «epigenoma», cioè del Dna con in più la miriade di gruppuscoli chimici, soprattutto i famosi metili, deciderà se il bicchiere dell'ereditarietà è mezzo pieno o mezzo vuoto.

il Riformista 31.1.09
Soru, il padrone di sinistra
di Stefano Cappellini


SONDAGGI a due facce: avanti nel gradimento sullo sfidante Cappellacci, molto indietro nella sfida tra coalizioni. Ma la scommessa è lanciata: vincere ribaltando il canone moderato della candidatura Veltroni.

Fosse un referendum sulle persone, la vittoria sarebbe assicurata. Se prevarrà il voto ai partiti, la sconfitta è certa. Il bivio di Renato Soru, in corsa per la riconferma alla presidenza della Regione Sardegna, si snoda tutto su questa consapevolezza.I sondaggi sono chiari: nel gradimento dei sardi, il suo vantaggio sul rivale Ugo Cappellacci è netto. Come netto, d'altra parte, è lo scarto tra la coalizione di centrodestra e quella di centrosinistra che si sfideranno il 15 febbraio.
Quanto alle previsioni di voto per il Pd, le cui divisioni interne hanno causato le dimissioni del governatore e portato la regione di nuovo al voto, meglio stendere il classico velo: non dovrebbe andare molto meglio che in Abruzzo, dove si fermò al 19 per cento.
Si può vincere in queste condizioni? Soru è convinto di sì, anzi si sente come quei saltatori in alto che dopo aver sbagliato la misura due volte decidono di giocarsi il terzo e ultimo tentativo alzando l'asticella. Dopo aver comprato l'Unità nel momento peggiore della sua presidenza, quando pareva che i suoi avversari interni fossero addirittura in grado di impedirne la ricandidatura («Si comprò così la riconferma», tagliano corto i suoi detrattori), e dopo essersi dimesso in polemica col suo stesso partito, un preludio che di solito porta al bagno di sangue nelle urne, a Soru piace accreditare l'idea che le sue ambizioni di leadership siano addirittura nazionali e che la sfida sarda sia solo un antipasto di quella che lo vedrà un giorno non troppo lontano riportare la sinistra alla vittoria su Silvio Berlusconi.
«Io sono contento che Berlusconi venga così spesso in Sardegna a fare campagna elettorale», dice il patron di Tiscali. Vero o no che sia, le ragioni di contentezza sarebbero le seguenti: la presunzione che il sardo non gradisca questa ingerenza di un uomo del continente, sebbene all'anagrafe faccia Berlusconi, ma soprattutto la possibilità di elevare la portata dello scontro, di presentarlo come un confronto titanico capace di produrre come conseguenza immediata la "scomparsa" del carneade Cappellacci e come risultato di lungo periodo una candidatura naturale alla premiership, in caso di vittoria il 15 febbraio.
In questo senso la campagna dell'imprenditore di Sanluri è l'esatto opposto di quella di Veltroni. Se questi non nominava nemmeno Berlusconi, l'altro lo cita in continuazione, disseminando i suoi discorsi nei palazzetti e nelle piazze di ironici rimandi al «signor presidente del Consiglio». Ma le differenze non si fermano qui. Quella di Soru è una delle campagne più di "sinistra" che si ricordino negli ultimi lustri: tutto un inno al pubblico, alla redistribuzione della ricchezza, sciorinata in comizi in stretto dialetto campidanese tra i pastori, tra i pescatori, con una capacità - questa sì del tutto simile a Veltroni - di ricordare volti e nomi di gente incontrata magari mesi o anni prima. «Signor presidente, vorrei parlarle...», lo ha avvicinato pochi giorni fa un pescatore. E lui, prima ancora che quello finisse la domanda: «Delle ferrettare». Che sarebbero poi un metodo di pesca vietato in Sardegna.
Se l'uomo ci faccia o ci sia - se cioè il suo spiccato sinistrismo sia indole reale ovvero pura scelta di marketing politico, come peraltro sosteneva ieri in un'intervista al Giornale Giovanni Valentini, ex vicedirettore di Repubblica ed ex dirigente di Tiscali - non è dato capire fino in fondo. Non foss'altro per un paradosso: la rete di supporto al governatore è quasi interamente composta dagli ex democristiani dell'isola, mentre suoi nemici giurati sono gli ex Pci e Psi, quasi tutti epurati dalle liste democrat (Antonello Cabras, che sconfisse Soru nella corsa a segretario regionale alle primarie prima di dimettersi a sua volta, è all'estero in questi giorni...). A parte il sostegno del capogruppo alla Camera del Pd Antonello Soro, già capo dei giovani Dc di Nuoro, in loco si segnala l'attivismo di Pietro Soddu, ex giovane turco cossighiano e commissario straordinario della Dc ai tempi di Tangentopoli. Anche la rete intellettuale è di estrazione cattolico-popolare. Fan di Soru sono Manlio Brigaglia, professore di Storia all'università di Sassari e, soprattutto, un altro sassarese illustre, il sociologo Arturo Parisi, convinto che l'uomo possa davvero rivelarsi «il nuovo Prodi».
Non è chiaro nemmeno fino a che punto sia un gioco delle parti, oppure una rivalità già in essere, la dialettica con Veltroni, che certo non gradisce l'ombra di un potenziale concorrente nazionale impegnato a rispolverare la parola d'ordine dell'ulivismo nel momento peggiore del Pd. E comunque, almeno su questo punto, una certezza c'è. Veltroni deve sperare con tutte le forze che Soru batta Cappellacci e, in un certo senso, la debole coalizione di centrosinistra che lo accompagna alle elezioni. Per l'ex sindaco di Roma, meglio rischiare un avversario in più domani che fare i conti oggi con una sconfitta che lastricherebbe un bel tratto della via che porta alla fine della sua leadership democratica.

il Riformista 31.1.09
Stratagemmi che puzzano d'inciucio
di Diego Bianchi


L'idea di sopravvivere con lo sbarramento del quattro per cento alle europee è cosa tristissima, soprattutto alla luce del fatto che l'escamotage è pensato per limitare forze politiche che tradizionalmente si sbarrano da sole

Ciao Diego, cosa ne pensi dell'accordo Pd-Pdl per fissare al 4% lo sbarramento alle Europee? Circolo Pd Sotomayor
Penso sia una porcata poco furba, palesemente scorretta e ingiustificabile, visto che del bipolarismo in Europa non gliene frega niente a nessuno. Sopravvivere con stratagemmi che puzzano d'inciucio è cosa tristissima soprattutto alla luce del fatto che l'escamotage è pensato per limitare forze politiche che tradizionalmente si sbarrano da sole.
Ciò detto, mercoledì ero davanti alle targhe divelte della sede del Pd ad ascoltare Ferrero che lì manifestava simbolicamente la sua protesta. A 200 metri di distanza i vendoliani manifestavano per le stesse ragioni, ovviamente separati dai primi.
Oltre a Ferrero e a due bandiere di Sinistra Democratica, al Nazareno c'erano solo giornalisti e giapponesi che li fotografavano. E Russo Spena, che mentre Ferrero parlava e spiegava le sue ragioni, chiacchierava e rideva a voce alta con un amico suo, disturbando come uno scolaretto. Solo dopo m'è venuto il dubbio che stesse dando il la ad un'ulteriore scissione.

Caro Zoro, ho appena finito di vedere la puntata di Anno Zero dedicata a Lampedusa. Tu cosa ne pensi? T'è piaciuta?
Circolo Pd Mano Negra Clandestina
Anche e soprattutto sulle pagine di questo giornale Santoro non gode di particolare stima, anzi, ma per quel che mi riguarda la puntata in questione è stata veramente bella, appassionante, formativa e informativa.
Bravo Santoro, bravo Travaglio, bravissima Youdem (e non è una battuta) a trovarsi nel posto giusto al momento giusto (con emblematiche immagini del centro d'accoglienza e della fuga dei reclusi tra le braccia dei lampedusani manifestanti), brava la Bindi, bravo Cota a fare la parte del leghista de coccio, bravo Casini a fare la parte di quello che deve dire qualcosa di diverso da quello che dicevano Bindi e Cota, brava la Guzzanti a fare l'Annunziata (a me l'Annunziata di Sabina Guzzanti me fa ride sempre, è più forte di me).
E bravi soprattutto i lampedusani. Potevano far scoppiare una guerra tra poveri, si sono alleati con i poveri.
Roba che neanche Obama l'ha pensata ancora una cosa così bella.

Caro Zoro, la famigerata amichevole tra Italia e Brasile, la dobbiamo giocare o no?
Circolo Pd Ana Laura Ribas
Ogni partita della Nazionale, amichevole o no, rappresenta un rischio. Una partita della Nazionale contro il Brasile raddoppia il rischio. Dopo il caso Panucci e l'infortunio di Cassetti abbiamo gli uomini contati e l'idea che un giocatore della Roma s'infortuni in questa inutile partita, per quel che mi riguarda cancella ogni dubbio sull'opportunità della stessa.

Ciao Diego, ti ho visto in Sardegna al seguito di Soru. Che te ne è parso?
Circolo Il Pd Non È Acquafresca
Sono stato invitato a partecipare ad un'iniziativa di lettiani candidati con Soru, e con sorpresa ho scoperto che i lettiani non sono solo Enrico Letta e lo zio, ma ce ne sono anche altri, per lo più giovani, uno dei quali mi ha pure ricordato che il 10% del Pd ha votato per il loro leader e quindi non c'è nulla di che stupirsi.
E poi ho seguito Soru per un giorno intero di campagna elettorale, e l'ho sentito rispondere ad un pescatore che lo contestava perché non gli aveva concesso le ferrettare (una discussa tecnica di pesca non permessa in Sardegna) che "non si vive di sole ferrettare", ma anche di ospedali, scuole, asili nido, ecc. ecc.
Soru parla di scuola pubblica e sanità pubblica come nessun altro politico negli ultimi anni, di giovani, ambiente e pari opportunità in una maniera tale per cui in parecchi da quelle parti pensano che Obama sia il Soru dell'Illinois. Anche al netto della retorica di ogni campagna elettorale, Soru parla da uomo di sinistra, o forse "da miliardario di sinistra", ma per come siamo messi non cambia molto.

Ciao Diego, ti risulta che il Pd abbia salvato Cosentino, il sottosegretario Pdl accusato di camorra, astenendosi alla Camera sulla mozione di sfiducia presentata dal Pd stesso?
Circolo Pentìti Pd
Sì, mi risulta, se ne parla poco, ma è successo anche questo. Qualche parlamentare Pd ha votato contro la mozione, molti si sono astenuti, altri sono usciti dall'aula per rientrare dopo il voto, qualcun altro era in missione e Cosentino s'è salvato, grazie al Pd. Considerando così inutile il proprio voto adesso, non sarà semplice chiedere voti utili a giugno.

il Riformista 31.1.09
Dopamina. Il libero arbitrio chimico
di Andrea Valdambrini


NEUROSCIENZE. All'origine delle nostre scelte ci sarebbe un elegante meccanismo neurale, in grado di spiegare persino come si diventa terroristi. È l'ipotesi del neuroscienziato Read Montague nel suo ultimo libro "Perché l'hai fatto?"

Il Duca di Mantova nel Rigoletto si vantava delle sue qualità di conquistatore cantando che le donne per lui «pari sono», se belle e non invadenti. Eppure, le scelte grandi o piccole fanno parte del quotidiano. In termini un po' più scientifici, il fatto è che il nostro cervello non può permettersi di sprecare energie come se le risorse a disposizione fossero infinite. Questo dato impone la scelta come costante necessità, senza la quale non saremmo organismi efficienti quanto dobbiamo. Se la drastica alternativa è "scegliere o morire" ecco che sembra aprirsi un abisso, per dirla nei termini poco ironici con cui si esprimeva Jean Paul Sartre. Ogni decisione ne esclude inevitabilmente mille altre, perfino in campo sentimentale.
Certo, Sartre si riferiva a grandi scelte, quelle che facciamo in modo tendenzialmente consapevole. Ma più in generale, su che base prendiamo decisioni, a partire da quelle piccolissime che facciamo ogni momento della giornata anche in modo non consapevole? Perché per esempio oggi preferisco mangiare la pasta piuttosto che le verdure? O mi va più di uscire con Silvia che con Giulia? Non è strano che ad occuparsi di questa tema sia, qualche anno dopo Sartre, non un filosofo ma uno scienziato con un ricco background di ricerca medica. In Perché l'hai fatto? (Cortina, Milano 2008) Read Montague presenta il risultato del suo decennale lavoro di ricerca, in cui ha focalizzato la sua attenzione sul ruolo della dopamina, un importante neurotrasmettitore presente nel cervello. Proprio la dopamina, sarebbe sostanzialmente responsabile delle piccole scelte, quelle che senza neppure accorgerci dobbiamo fare istante per istante. I segnali elettrici prodotti dal sistema dopaminico e inviati alle aree cerebrali coinvolte nel processo decisionale agiscono indicando quanto la situazione che abbiamo di fronte sia migliore, peggiore o eventualmente in equilibrio con le attese e attivando in questo modo un complesso circuito di valutazioni e anticipazioni di queste, che facilitano le scelte sia in presenza che in assenza dello stimolo percettivo.
La cosa più strana è che il cervello non funziona solo seguendo ricompense e delusioni "materiali" come il piacere del cibo o quello di uscire con Giulia. L'azione della dopamina sarebbe per Montague anche la soluzione all'inquietante interrogativo: cosa spinge un terrorista a compiere un'azione suicida? Non è forse questa la più anti-biologica delle funzioni, dato che porta alla distruzione di un'individuo e potenzialmente alla rovina della specie? Montague ipotizza che il circuito dopaminico sia in questo caso "ricompensato" dal solo potere di un'idea, che si assocerebbe al prestigio personale. L'assunto di partenza può essere giudicato sbagliato, sotto il profilo morale, se si tratta di dare corso a un'azione violenta o addirittura suicida. Ma i circuiti cerebrali funzionano correttamente, perseguendo linearmente l'obiettivo della ricompensa attraverso il prestigio. Ecco prché la specie umana sarebbe dotata di un "superpotere" decisamente anti-biologico, quello di respingere gli istinti più immediati, come quello principale di non morire, al solo fine di servire un'idea. Una qualità che al di là del terrorismo, potrebbe dare luogo a comportamenti nobilissimi, come quello di battersi fino a sacrificarsi per la libertà o per la giustizia.
Come se non bastasse poi lo stesso meccanismo è anche alla base del potere del marketing. Tutti noi siamo infatti inconsapevolmente spinti a comprare qualcosa principalmente in base alla ricompensa sociale che possiamo trarre da questa scelta. Compro quel cibo o quel vestito preferendolo a un altro, perché il suo marchio significa prestigio, e il prestigio è una ricompensa per ‘individuo che lo ottiene. Così il marketing ha una fonte biologica, e perfettamente naturale. Anche le bacche infatti si colorano di rosso per segnalare agli insetti la presenza degli zuccheri che sono necessari al loro nutrimento, e grazie alla scelta degli stessi insetti il loro seme viene propagato il più possibile. Insomma, alla competizione disperata, anche in natura si risponde mettendosi in mostra. Perché le scelte vanno sempre sollecitate e, ricordiamocelo, chi non sceglie o chi non è scelto muore. E anche in questo caso non tutti i messaggi "pari sono", perché alcuni risultano più efficaci degli altri. Così succede tanto alle bacche rosse rispetto alle verdi quanto al marchio Coca-cola, che da solo esercita più potere persuasivo di quello Pespi, come ha efficacemente dimostrato un esperimento psicologico condotto qualche anno fa.
La dopamina sembra la chiave di molti problemi. I tormenti filosofici di Sarte o di Heidegger sono così almeno in parte chiarificati e il Duca di Mantova è servito. A meno che non si interpreti la sua dichiarazione come un'appassionata, legittima, scelta in favore del libertinaggio e contro il tedio dell'amor coniugale: «Del mio core/l'impero non cedo/meglio a una/ che ad altra beltà».

Aprile on line 31.1.09
Folena: un partito della "conoscenza"
di Carlo Patrignani


Il primo atto è riscoprire la "vita", i sentimenti, gli affetti, l'umano, ricollegandosi a un filone caldo della storia del socialismo: al riformismo rivoluzionario di Riccardo Lombardi e al comunismo libertario e critico che in Antonio Gramsci ha avuto il suo ispiratore. E su queste basi si può "ri-costruire" un nuovo partito della sinistra, parte della grande famiglia socialista europea, che chiamo della cultura o della conoscenza. A parlare è l'ex-coordinatore dei Ds, poi leader di "Uniti a Sinistra", formazione dell'arcipelago bertinottiano "Sinistra Europea", Pietro Folena che, di fronte all'ennesima scissione di Vendola e compagni da Rifondazione Comunista è categorico e netto: "Rifondazione, accantonata la speranza di una forza nuova
della Sinistra Europea, cavalca legittimamente l'obiettivo della propria sopravvivenza, è una posizione comprensibile - spiega Folena - sia per chi ha osteggiato il cambiamento e sia per chi lo vorrebbe ma attende tempi migliori.
Incomprensibile invece è la posizione di chi sostiene le stesse idee di innovazione anche oggi: come si può pensare che - si chiede Folena - da una scissione e da una rottura, costruendo un piccolo partito con altre frange della sinistra dispersa, possa nascere un corso nuovo?".
Da Rifondazione, al Pd. "La crisi del Pd è palese - annota Folena - e non si sbaglia a affermare che questo progetto, pur con il fascino che ha esercitato, ha determinato una asimmetria da cui può uscir travolto il fragile bipolarismo italiano: in tali condizioni la destra può governare a lungo e finire con l'essere la sola possibile alternativa a se stessa". Insomma, bisogna prendere atto che una fase politica è finita e per ripartire non c'è che una strada: il socialismo versus vita. "Un Epinay italiana spesso annunciata e sempre bruciata dallo scontro sulla leadership - nota Folena - diventa un percorso necessario e perfino obbligato. Del resto la sinistra, nelle forme che si è data lungo il '900, è morta nel cuore della gente. E la violenta uscita dal Parlamento, per la prima volta in democrazia, non è solo l'esito di un'esperienza catastrofica di partecipazione al Governo e di una aggregazione elettorale confusa, gestita da un ceto politico chiuso, mediocre, autistico, ma è il prodotto (la cui altra faccia è la crisi dell'ipotesi neomoderata del Pd) di una separazione profonda, avvenuta negli anni del neoliberismo globale, tra i "proletari di tutto il mondo" e le loro forme storiche di organizzazione autonoma".
Nuovo partito e pertanto un programma specifico. "Questo programma sulla vita, per conquistare fiducia e consenso, deve avere quattro pilastri: il primo è la specie umana, i suoi affetti, i suoi sentimenti, il suo corpo e la sua coscienza che diventano il terreno di conquista e di resistenza della libertà umana; il secondo, la nonviolenza come stile di vita, risposta alla guerra e alla logica amico-nemico; la libera circolazione del sapere per cambiare la vita di tanti; la dignità del lavoro, a partire dal suo prezzo, e quindi di un rinnovato programma di difesa delle condizioni economiche e sociali di chi lavora". Una nuova sinistra che sappia, secondo Folena, "promuovere un cambiamento in cui ciascuno possa poter realizzare una parte di se stesso e delle proprie aspirazioni".
Ed il nuovo partito della cultura e della conoscenza? "Penso ad una forza che, consapevole dello sfruttamento, e della violenza sulle donne e sui bambini, e dei rischi per la vita di tanti esseri viventi e dell'ecosistema, e della spirale terrorismo - fondamentalismo - guerra, sappia vedere oggi, nella diffusione e nell'accesso di un numero crescente di esseri umani alla cultura e alla conoscenza, un'opportunità straordinaria per cambiare quelle condizioni. Il sol dell'avvenire è una vita - continua Folena - e un'organizzazione sociale in cui il tempo per sé, per i propri affetti, per gli altri, per le relazioni sociali possa crescere in quantità e in densità, e in cui le componenti meccaniche, ripetitive, alienanti possano esser progressivamente circoscritte, ridotte, temperate. Un partito che vuole che alla cultura possa accedere chi oggi non può; che vuole moltiplicare i luoghi di produzione, di diffusione, condivisione dell'arte, della musica, della danza, del teatro, della letteratura, del cinema.
Un partito che fa del bello una visione degli spazi urbani, dei paesaggi naturali e culturali e delle relazioni tra esseri umani.
Qui vi è anche una corposa indicazione sulle forme organizzate, oltre quelle sperimentate nel secolo passato, di una nuova forza della sinistra - conclude Folena - in cui l'aspetto partecipativo e democratico, nella selezione dei dirigenti e dei candidati, non può prendere la fragile forma di un'occasionale primaria, ma si deve impiantare sull'educazione permanente, sulla riflessione culturale e sull'organizzazione di un tempo per se, sull'organizzazione e sulla promozione di cultura nella società. Una comunità aperta, senza timori del diverso, che aiuta a valorizzare, nella società delle merci e del profitto, i fattori umani".

venerdì 30 gennaio 2009

l’Unità 30.1.09
La Francia in piazza per la prima risposta al piano Sarkozy
di Gianni Marsilli


La prima vera risposta sociale a Nicolas Sarkozy da quando è stato eletto: tre milioni in piazza, secondo le organizzazioni dei lavoratori. Dipendenti pubblici e privati hanno scioperato contro il piano anti-crisi del governo.
Erano 300mila a Marsiglia (24mila secondo la polizia), 50mila a Lione (20mila), 80mila a Bordeaux (34mila), centomila a Parigi (65mila), e decine di migliaia in tutti i centri del paese, per un totale di quasi duecento manifestazioni. In tutto quasi tre milioni per i sindacati, meno di un terzo per la polizia. Ma la solita guerra di cifre non ha nascosto l'evidenza: le piazze francesi si sono riempite, i luoghi di lavoro si sono svuotati. Certo, in misura diseguale. Gli insegnanti di primarie e secondarie hanno scioperato in maniera massiccia, a livello del 70 per cento. Il settore privato - automobile, distribuzione, banche, telecomunicazioni - ha partecipato molto più del solito, per quanto difficilmente quantificabile. I lavoratori dei trasporti, è vero, non hanno paralizzato il paese. Treni, metrò, aerei, per quanto in misura ridotta, hanno assicurato il servizio minimo, rispettando così la legge «anticaos» approvata da pochi mesi. Secondo la direzione delle ferrovie, si è astenuto dal lavoro quasi il 40 per cento dei dipendenti. Percentuali analoghe alle Poste e nei pubblici ospedali, anch'essi sorretti da un servizio minimo garantito. Un quadro che ha consentito a François Chereque, segretario generale della Cfdt, una delle tre grandi centrali (paragonabile alla nostra Cisl), di rivendicare «la più grande giornata d'azione dei lavoratori da una ventina d'anni a questa parte».
IL PS NEI CORTEI
«Ce n'est pas au salariés/de payer pour le banquiers»: questo lo slogan più riassuntivo delle manifestazioni. A Parigi si sono aggiunti al corteo anche i dirigenti socialisti. Per Martine Aubry, da poco alla testa del partito, il segnale inviato a Sarkozy è netto: «Gli mandiamo a dire che adesso basta, che è ora di cambiare politica». Il Ps chiede maggior sostegno ai consumi e un controllo più rigoroso dei fondi destinati alle banche: «Lo Stato le finanzia, ma non entra nei consigli di amministrazione». Da parte governativa si è lasciato dire e fare senza polemizzare. Anzi, c'è stato chi - come il neoministro agli affari sociali Brice Hortefeux - ha giudicato «necessaria» la mobilitazione di ieri. Sarkozy, che dalla sua agenda ieri aveva depennato tutti gli impegni pubblici, si ripromette di parlare più tardi, nel corso del mese di febbraio, nel corso di un lungo intervento televisivo «pedagogico».
Priva di un obiettivo preciso (se non quello di «rimettere a zero la diagnosi e le soluzioni individuate per la crisi», come dice Bernard Thibault, il leader della Cgt), la protesta è stata innanzitutto una prova di vitalità sindacale. Non facile da fornire, in un Paese in cui il tasso di sindacalizzazione non supera il 7 per cento nella funzione pubblica e il 4 per cento nel privato. In secondo luogo è stata la manifestazione di un crescente malcontento politico: «I francesi non si sentono rispettati dal modo in cui sono governati», denuncia il centrista François Bayrou. Da oggi i sindacati discutono di un eventuale seguito. Ma la parola nei prossimi giorni passerà a Sarkozy e al suo governo.

l’Unità 30.1.09
Il lefebvriano: camere a gas utili per disinfettare
I rabbini: in carcere
di Umberto De Giovannangeli


Le camere a gas? «Sono esistite per disinfettare...». E ancora: «Noi non riconosciamo il Concilio Vaticano II». Altro che ripensamenti. I lefebvriani insistono e sfidano lo stesso Benedetto XVI.
«Il posto di chi nega la Shoah deve essere in carcere, e non fra i leader religiosi» La considerazione di Oded Wiener, direttore generale del Rabbinato di Gerusalemme, dà conto di una ferita tutt’altro che rimarginata tra il mondo ebraico e la Santa Sede che ha riaperto le «porte» ai negazionisti lefebvriani. Non solo il vescovo Williamson. «Io so che le camere a gas sono esistite almeno per disinfettare, ma non so dire se abbiano fatto morti oppure no, perché non ho approfondito la questione».
DELIRIO CONTINUO
A sostenerlo è don Floriano Abrahamowicz, 47 anni, capo della comunità lefebvriana del Nordest, in un’intervista alla Tribuna di Treviso. «Tutta questa polemica sulle esternazioni di monsignor Williamson riguardo l'esistenza delle camere a gas - afferma il sacerdote tradizionalista - è una potentissima strumentalizzazione in funzione anti-Vaticano. Williamson ha semplicemente espresso il suo dubbio e la sua negazione non tanto dell'Olocausto, come falsamente dicono i giornali, ma dell’aspetto tecnico delle camere a gas». Secondo don Floriano, che si dice «vicino alla gente della Lega Nord», «il negazionismo è un falso problema perché si sofferma su metodi e cifre e non risponde alla sostanza del problema». «Se monsignor Williamson avesse negato alla televisione il genocidio di un milione e 200 mila armeni da parte dei turchi - sostiene ancora il sacerdote - non penso che tutti i giornali avrebbero parlato delle sue dichiarazioni nei termini in cui lo stanno facendo ora».
Non basta. Il sacerdote negazionista rincara la dose: «E gli israeliani - ha affermato ancora don Abrahamowicz - non possono mica dirmi che il genocidio che loro hanno subito dai nazisti è meno grave di quello di Gaza, perché loro hanno fatto fuori qualche migliaio di persone, mentre i nazisti ne hanno fatti fuori 6 milioni. È qui che do la colpa all’ebraismo che esaspera invece di onorare decentemente le vittime del genocidio». «Ogni posizione che prende le distanze dal pensiero del Papa è da considerare storicamente infondata ed estranea al sentire cristiano e agli elementari sentimenti di umanità», sottolinea il vescovo di Treviso mons.Andrea Bruno Mazzoccato. Alle tesi negazioniste del sacerdote trevigiano replica l'arcivescovo di Milano, card. Dionigi Tettamanzi, secondo il quale le parole del Papa sui rapporti con gli ebrei e i lefebvriani sono state «chiare ed esplicite», tanto da spegnere ogni interrogativo al riguardo.
I lefebvriani rilanciano
A fianco di don Abrahamowicz scende in campo don Pierpaolo Petrucci, Priore del Priorato di Rimini della Fraternità (lefebvriana) di San Pio X. «La scomunica ci è stata tolta senza che a noi fosse stata posta alcuna condizione, si è trattato di un atto unilaterale del Papa», sostiene don Petrucci. Altro che ripensamento. «Riconosciamo il magistero della Chiesa fino al Concilio Vaticano II, è quello che abbiamo sempre detto», insiste il Priore lefebvriano. E aggiunge: «Il Vaticano è il primo Concilio della storia che mette in discussione tutto ciò che la Chiesa affermava precedentemente». E sulle camere a gas, versione Abrahamowicz? «Le sue parole sono state estrapolate», taglia corto don Petrucci.

l’Unità 30.1.09
Violenza sessuale, finalmente arriva il sì alla legge sullo stalking
di Federica Fantozzi


Con 379 sì e 2 no la Camera approva il ddl sulle molestie. Pene fino a 4 anni che diventano 6 con le aggravanti. Un fondo di 20 milioni per le vittime. Unico neo: bocciato il patrocinio gratuito.

La Camera dei Deputati ha approvato a larghissima e trasversale maggioranza (379 sì, 2 no e 3 astensioni) il disegno di legge sullo stalking, le molestie reiterate. Ora il testo passa al Senato: «Spero lo approverà presto - ha detto il ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna - Oggi è un grande giorno per l’Italia e per le donne». L’Udi (Unione donne d’Italia) parla di «un’ottima cosa che aiuterà la convivenza civile tra i sessi».
Se varata, la legge introdurrà nel nostro ordinamento un nuovo articolo: il 612-bis del codice penale che prevede gli «atti persecutori» puniti con il carcere da 6 mesi a a 4 anni. C’è un’aggravante se a molestare è il coniuge (anche separato o divorziato), il convivente o il fidanzato, o se la persecuzione ha a oggetto una donna incinta o minore o disabile: in questi casi la pena può arrivare a 6 anni.
Voto condiviso
Esulta Giulia Bongiorno, presidente della Commissione Giustizia e impegnata in prima linea grazie all’associazione «Doppia Difesa» fondata con Michelle Hunziker. Dice: «Una legge necessaria che le donne aspettavano da tempo», e si sorprende del voto contrario di Daniela Melchiorre, diniana nel gruppo misto: «L’unica critica viene da chi non ha partecipato ai lavori in commissione dove il testo è stato condiviso da tutti». Lei ribatte: «Un testo illiberale, con rischi di incostituzionalità. Noi lib dem voteremo contro».
Per il resto, commenti positivi bipartisan. «Una bella alleanza di tutte le donne» osserva l’ex ministro Livia Turco. «Un passo avanti ma non ci accontentiamo» dice Barbara Pollastrini. Per la leghista Carolina Lussana «ora serve una nuova legge contro la violenza sessuale».
Unico dispiacere: la bocciatura da parte dell’aula per soli due voti dell’emendamento (presentato sia dal Pd che da Alessandra mussolini) che introduceva il patrocinio gratuito per le vittime. «Lo ripresenteremo» promettono. Il motivo del no è - pare - l’incertezza sulla copertura finanziaria, ma il ministro Carfagna assicura che ci sarà un fondo anti-stalking di 20 milioni di euro.
Contro gli atti persecutori
Questi i contenuti del ddl. È prevista la reclusione fino a 4 anni per chiunque «molesta o minaccia taluno con atti reiterati e idonei a cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura o a ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un congiunto o a costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita». Serve la querela di parte, ma si procede d'ufficio se il reato è commesso contro un minore o disabile. Per raccogliere le prove è consentito disporre intercettazioni telefoniche. Esiste l’«ammonimento: prima della querela, la vittima può raccontare la sua storia alla polizia e il questore ammonire il responsabile. Il testo prevede che il giudice possa poi intimargli di non avvicinarsi ai luoghi normalmente frequentati dalla vittima, di mantenersi a distanza per un periodo fino a un anno. Per le vittime di stalking è istituito un numero verde nazionale con assistenza psicologica e giuridica.

l’Unità 30.1.09
Madrid indaga ministri e militari israeliani per crimini di guerra
di U.D.G.


Arriva da Madrid la prima offensiva giudiziaria internazionale contro Israele, all’indomani dell’ultima guerra di Gaza: il giudice Fernando Andreu della Audiencia Nacional, il più importante tribunale spagnolo, ha annunciato ieri di avere avviato indagini per presunti «crimini di guerra» contro gli attuali ministri israeliani Benyamin Ben Eliezer e Avi Dichter e contro 5 alti ufficiali dello Stato ebraico. I sette sono indagati in nome della legge sulla competenza universale della giustizia spagnola per il bombardamento il 22 luglio 2002 di un edificio di Gaza City, deciso per uccidere il comandante militare di Hamas fondatore delle Brigate Al Qassam Sallah Shedade. Un F16 con la stella di David sganciò una bomba da una tonnellata sopra il palazzo - che venne disintegrato - in cui si trovava il dirigente di Hamas. L’attacco fece però ingenti «danni collaterali»: oltre a Shedade, vennero uccisi 14 civili. Più di 100 i feriti. Con Ben Eliezer, allora ministro della Difesa nel governo del premier Ariel Sharon, oggi titolare del portafoglio delle infrastrutture nazionali, ed a Avi Dichter, ex-capo dei servizi segreti interni dello Shin Bet, ora ministro della sicurezza interna, sono indagati da Andreu - che ha accolto una denuncia in questo senso del Comitato palestinese per i diritti umani - cinque alti responsabili militari al momento della strage di Gaza: il capo dell'aeronautica Dan Halutz, l'uomo che diede l'ordine di sganciare la bomba, il capo di stato maggiore Moshe Yaalon, il comandante della regione Sud Doron Almog, il generale Mike Herzog e il consigliere per la sicurezza nazionale di Sharon Giora Eiland. Il ministro della Difesa e leader laburista Ehud Barak in una nota ha definito «delirante» l'iniziativa del giudice Andreu e annunciato che farà di tutto per farla annullare. Il capo dell’opposizione Benyamin Netanyahu, dato dai sondaggi quale probabile vincitore delle prossime politiche, ha parlato di «una vera assurdità».

l’Unità 30.1.09
Contratti, la Cgil chiede il referendum
Quattro ore di sciopero sul territorio
di Felicia Masocco


Epifani conferma al direttivo la linea della confederazione e punta a una grande campagna per informare i lavoratori. «Non si entra mai nel merito delle questioni, noi non siamo conservatori».

Direttivo La decisione di assemblee subito e poi la mobilitazione a livello locale
Veltroni «Meno male che io ed Epifani non ci parliamo sui giornali, ci vedremo presto»

Assemblee da subito con il voto dei lavoratori, quattro ore di sciopero da gestire localmente e, soprattutto, la difesa convinta della propria scelta. La Cgil è in conclave, ieri il direttivo ha discusso dell’accordo separato che riforma la struttura della contrattazione e di come attrezzarsi per affrontare la fase che si è aperta. La priorità è informare i lavoratori, a questo serviranno le assemblee che si concluderanno con un voto «su documenti articolati che spieghino le nostre proposte, cioè quelle della piattaforma unitaria», ha detto Guglielmo Epifani nella relazione.
L’ABIURA
La piattaforma cui si riferisce è quella che Cgil, Cisl e Uil presentarono in primavera dopo mesi e mesi di discussione, limature, mediazioni. Cisl e Uil l’hanno di fatto abiurata ed è diventata carta straccia. Non è dunque un referendum in senso stretto, un sì o un no al testo uscito da Palazzo Chigi, ma una consultazione che farà il paio con una campagna capillare anche tra i pensionati e, più in generale, tra i cittadini. Le assemblee partiranno a breve e saranno accompagnate dalle iniziative di mobilitazione già decise: lo sciopero dei metalmeccanici e dei lavoratori pubblici del 13 febbraio, la manifestazione dei pensionati a Roma il 5 marzo, lo sciopero della scuola a fine marzo e due iniziative in Puglia e in Sicilia sul Mezzogiorno. Il calendario è chiuso dalla manifestazione, già annunciata, del 4 aprile. Di nuovo c’è un pacchetto di 4 ore di sciopero a livello territoriale.

Epifani ha insistito sull’autonomia della Cgil e sul rifiuto di etichette che la vorrebbero «un’organizzazione conservatrice». Il passaggio è dedicato a quanti si sono adoperati a far passare una campagna di informazione di questo tipo, e sono stati citati anche i partiti di opposizione. «Non si discute mai del merito - torna ad accusare il segretario Cgil - non si dice se i contenuti siano giusti o sbagliati e se abbiamo torto o ragione nel dire, per esempio, che il nuovo modello strutturalmente non consentirà mai il recupero dell’inflazione nella contrattazione di primo livello e se questo sia un bene o un male per i lavoratori». Di autonomia ha parlato ieri anche il segretario Pd Walter Veltroni, smentendo le tensioni con l’amico Epifani. «Per fortuna - ha detto - io ed Epifani non ci parliamo attraverso i giornali e ci vedremo nei prossimi giorni», «non c’è nessuna ragione di tensione e di conflitto ma due punti di vista autonomi che si rispettano reciprocamente».
Il sindacalista insiste però sul referendum. Bando alle «lacrime di coccodrillo» di chi a cose fatte lo rivorrebbe al tavolo, «davanti alle voci discordi su cifre, aumenti e quant’altro» Epifani reclama «una sede per dire ognuno la propria verità ai lavoratori». Perché l’accordo firmato vale per tutti non solo per gli iscritti a Cisl e Uil. Così nel corso di un’intervista al Tg3. Al direttivo, invece, il riferimento è ai «soggetti firmatari che non dicono la verità sui contenuti», ma in ogni caso la Cgil non può venir meno al principio della consultazione democratica. Tanto più che in ballo ci sono le regole e che come hanno affermato Carlo Azeglio Ciampi e Pierre Carniti, sulle regole non si possono fare accordi separati. Concorda su questo Massimo D’Alema, senza la firma del sindacato più grosso «il rischio - dice - è di avere una riforma ineffettuale e non un nuovo sistema che genera effetti positivi». Cioè un «manifesto ideologico».
CHI ROMPE
Durissimo con Confindustria «che non capisce che l’accordo non può reggere se manca uno dei pilastri della rappresentanza», Epifani accusa il governo, il regista che «ha fatto precipitare la situazione con l’intento di arrivare alla rottura sindacale». «Un ministro (Brunetta, ndr) definisce la Cgil “nemica” e nessuno nel governo si indigna» e, assurdamente «siamo noi ad essere accusati di troppa ideologia».

Repubblica 30.1.09
Legge elettorale in rivolta i piccoli partiti e si divide anche il Pd
Europee, i piccoli in rivolta contro il Pd
Prc: "Legge truffa". Veltroni: "Voi la volevate", ma nel partito crescono i dubbi
di Goffredo De Marchis


Nel Pd rispunta il nome di Bersani per la leadership. Ma lui: vedremo al congresso

ROMA - I piccoli partiti, quelli fuori dal Parlamento, organizzano una rivolta in piena regola contro l´accordo sulla legge elettorale europea tra Pd e Pdl. Ci sono proteste a livello locale con sospensione dei lavori del consiglio comunale, come a Torino, e minacce della sinistra di un addio alle giunte (ieri blocco delle attività istituzionali deciso da Prc in Campania). Poi, a Roma tutto lo schieramento contro la soglia del 4 per cento, indicata nell´intesa di massima tra maggioranza e opposizione e in particolare tra Berlusconi e Veltroni, si riunisce nel conclave ribattezzato "comitato per la democrazia" con la partecipazione di Ps, Prc, Verdi, Sd, Udeur, radicali, Pri, Partito d´Azione, Pli, Liberaldemocratici, Psdi e Movimento dei 101. Tutte queste sigle manifesteranno martedì davanti al Quirinale e a Montecitorio.
Il principale bersaglio della contestazione è il segretario del Partito democratico Veltroni, visto che i partitini sono soprattutto quelli legati all´esperienza del centrosinistra. Il segretario dei socialisti Riccardo Nencini annuncia iniziative in tutta Italia. Ma Bobo Craxi è più duro. Parla di «un accordo che ricorda la Grecia dei colonnelli». E annuncia uno sviluppo esplosivo della vicenda quando la legge frutto dell´intesa arriverà in aula: «Spunterà un emendamento per abolire anche le preferenze». Anche Sinistra democratica è furiosa con il Pd. Attacca Fassino che vuole evitare lo sbarco di "un´armata Brancaleone a Strasburgo". «Per il momento l´armata Brancaleone è il Pd che vota sempre in modo difforme all´Europarlamento», dice Carlo Leoni. Claudio Fava condanna anche il voto del Pd sulla sfiducia al sottosegretario Cosentino, accusato da pentiti di rapporti con la camorra: «Fa parte del baratto con Berlusconi sulle Europee». «È una legge truffa, un europorcellum», dice Paolo Ferrero, leader di Prc. Alla protesta si associa il suo avversario interno Nichi Vendola, così come Oliviero Diliberto. La parola più usata è «inciucio». Ora però i partiti della sinistra ragionano sul dopo (lo fa anche la destra dove si profila un´alleanza Storace-Mpa di Lombardo). Veltroni risponde agli attacchi. Prima cerca di sminuire gli effetti: «Ho fiducia che la sinistra possa andare ben oltre il 4 per cento». Poi ricorda: «Chi critica oggi era tra quelli che poche settimane fa ci chiedeva di intervenire».
A difesa dell´accordo e di una legge che mantenga le preferenze ma introduca la soglia di sbarramento (che oggi non c´è) interviene il presidente della Camera Gianfranco Fini: «Non è illegittimo cambiare una legge con la campagna elettorale già in corso». Ma le sue dichiarazioni non bloccano il fronte del no. I partitini sanno che l´accordo Berlusconi-Veltroni ha le sue fragilità. Sanno che l´esame parlamentare può riservare sorprese. E che nel corso delle prossime ore un fronte di dissenso si può aprire anche nel Partito democratico. Mercedes Bresso contesta la soglia «perché cancella partiti storici». Non condivide nemmeno Rosa Russo Jervolino. È evidente che gli amministratori temono un effetto devastante nelle giunte locali. Effetto però che un altro amministratore come Vendola si affretta smentire. Per lui la minaccia contro la solidità delle alleanze non deve esistere. Franco Marini sta dalla parte di Veltroni: «È in linea con le decisioni del Pd lo sbarramento al 4». Eppure nel Pd si annuncia un duello già martedì quando il gruppo della Camera si riunisce prima dell´esame della legge. Si dice che i dalemiani daranno battaglia. Pierluigi Bersani ammette che «quella soglia non è illogica. Ma c´è il rischio che stavolta il voto utile si ritorca contro di noi. Potrebbe, cioè, andare a sinistra. Il partito deve gestire bene questo passaggio». Beppe Fioroni avverte i malpancisti: «Non si cambia il profilo del Pd in corso d´opera. O è un partito nuovo o non è, non esiste». Insomma, non deve tornare ai vecchi giochi delle alleanze. La sfida di martedì ha avuto un prologo l´altra sera in una riunione di Red, l´associazione ispirata da Massimo D´Alema. Molte voci si sono levate per un cambio al vertice del Pd. Con Pierluigi Bersani candidato alla leadership. Lui smentisce, lascia correre: «Lavoro per la ditta», spiega. Il congresso è in autunno, ma per qualche iscritto a Red appare lontano. «C´è preoccupazione per le difficoltà del progetto», ripetono i partecipanti. «Non è vero che ci sia un´asse Epifani-D´Alema-Bersani per far fuori Veltroni», dice Nicola Latorre. Ma certo la riunione di Red ha fatto registrare molti malumori nei confronti del segretario.

Repubblica 30.1.09
L’operazione-sopravvivenza impone liste comuni. Sotto il 4% neanche un euro di rimborso
Dal mini-Pci agli eco-socialisti nozze forzate tra compagni separati
Quattro giorni dopo l´addio, Vendola cerca il Prc. Ma Ferrero tratta con il Pdci
di Carmelo Lopapa


ROMA - È già tempo di matrimoni di interesse. I comunisti con gli altri comunisti perché alla falce e martello non si può rinunciare. La sinistra movimentista con verdi e socialisti. Mastella con altri centristi, sognando il ritorno con l´ex "gemello" Casini. La porta di accesso agli scranni di Strasburgo che si fa strettissima non lascia nemmeno il tempo per smaltire la rabbia contro il duo Berlusconi-Veltroni, che i "cespugli", un anno dopo, sono di nuovo alle prese con la lotta per la sopravvivenza.
Ma sopravvivenza per davvero, stavolta, perfino finanziaria. Dato che, con lo sbarramento al 4 per entrare nell´Europarlamento, sembra che dalla bozza di riforma targata Pd-Pdl sbucherà anche una norma ulteriormente restrittiva. Chi non dovesse superare la soglia, non accederebbe nemmeno ai rimborsi elettorali, che finora erano almeno riconosciuti a chi avesse raggiunto l´1% (anche se nelle passate Europee quel minimo dava già diritto a un deputato, grazie ai resti). Ed è facile immaginare cosa ne consegua in termini di rischi sulle anticipazioni bancarie per affrontare una campagna elettorale dall´esito incerto. Sarà anche per questo che i nervi sono a fior di pelle, in queste ore, tra le segreterie dei partitini. E ognuno si organizza come può, tutti pronti a rimettere in discussione i propri programmi di fronte al cataclisma in arrivo.
Prendete Nichi Vendola e i suoi, appena usciti dal Prc per dire addio una volta per tutte all´ortodossia comunista di Ferrero. Ecco, ieri il governatore pugliese si è presentato alla Camera con Franco Giordano e Gennaro Migliore per annunciare a tv e stampa che un cartello di sinistra a questo punto lui lo sogna con tutti, anche con i cugini di Rifondazione appena abbandonati al loro destino. Non senza aver premesso che loro comunque non procederanno a ritorsioni contro il Pd negli enti locali, alle amministrative di giugno. Anche perché, fa notare malizioso qualcuno, tra le giunte regionali a cadere in caso di rottura ci sarebbe anche quella da lui presieduta in Puglia. Ma il cartello per come lo immagina Vendola è stato archiviato pochi minuti dopo dal compagno-avversario Ferrero. Che di intese per ora non vuole parlare («Prima conduciamo la battaglia contro il 4%»). Ma tutti nel Prc sono già al lavoro per stringere un patto con gli altri comunisti, quelli del Pdci di Diliberto che va ripetendo: «L´Arcobaleno non ha funzionato, non ricadremo nello stesso errore». E così, "La sinistra" dei fuoriusciti di Rifondazione nascerà ufficialmente a febbraio e abbraccerà i Verdi di Grazia Francescato e Sinistra democratica di Claudio Fava e Fabio Mussi. Prc e Pdci insieme sull´altro fronte. Se questi saranno gli schieramenti, il 14-15 giugno si assisterà a un delicatissimo derby a sinistra: dentro o fuori, Comunisti o Sinistra. Sempre che la spaccatura non risulti fatale a entrambi.
Ma i nervi tesi rischiano di saltare. L´azione più eclatante la stanno mettendo a punto quelli del neonato e arrabbiatissimo "Comitato per la democrazia" che abbraccia un po´ tutti, dal centrista Mastella ai socialisti di Nencini, dai radicali di Pannella al comunista Ferrero. Stazioneranno martedì davanti al Quirinale per un sit-in di protesta, ma una quindicina di ex parlamentari si preparano a occupare poche ore dopo il Transatlantico di Montecitorio. Alla riunione del Comitato, ieri mattina, tra i tanti si è presentato anche Marco Pannella per i radicali. Il leader Udeur Mastella, guardando per la verità agli altri moderati del tavolo, ha buttato giù la sua proposta: «Va bene le proteste, il sit-in, ma mettiamoci insieme, creiamo un cartello elettorale». In realtà, dall´Udc raccontano che l´ex dc Clemente sogna proprio un ritorno all´ombra dello scudocrociato per affrontare il salto a Strasburgo. Ma le acque sono agitate anche tra i cespugli del Pdl. «Diciamo sì al 4% ma presenteremo le nostre liste alle Europee» fanno sapere più che irritati il ministro Dc Gianfanco Rotondi, Stefano Caldoro del Psi e Alessandra Mussolini di Azione sociale. Prende le distanze dalla comitiva Francesco Nucara, certo non entusiasta anche lui («Perché non al 10 per cento?»), comunque realista: «Inutile pensare ad azioni eclatanti ma anche a candidarsi. Per fare una campagna decorosa occorrono 2-3 milioni di euro. E con la quasi certezza di non raggiungere il 4, non si vedrebbe nemmeno un quattrino di rimborso. Troppo rischioso». Furibondo, a dir poco, Francesco Storace a capo della Destra. Ha già chiesto audizione al Quirinale e ne ha per Fini, Veltroni, Berlusconi: «Sono tutti uguali e stanno facendo accordo su tutto, intercettazioni comprese».
E mentre su alcuni forum internet di quotidiani e partiti monta la protesta della base contro lo sbarramento, immancabile, ecco su Facebook il gruppo «contro la legge truffa alle Europee»: non ha fatto in tempo a nascere che vanta già oltre mille aderenti.

Repubblica 30.1.09
Ateo-bus, nuovo slogan sì della concessionaria


GENOVA - Dopo le polemiche, l´Unione atei, agnostici e razionalisti (Uaar) cambia il messaggio e ottiene l´ok dalla concessionaria di pubblicità per la campagna sugli autobus. Il nuovo slogan «La buona notizia è che in Italia ci sono milioni di atei. L´ottima è che credono nella libertà di espressione» ha avuto parere positivo.

Repubblica 30.1.09
Il pentimento indispensabile
di Marek Halter


In Polonia, nella grande sala dell´Università Cattolica di Lublino, la folla è numerosa. Il clero occupa le prime file per la Giornata del giudaismo istituita dalla Chiesa polacca. Io sono l´ospite d´onore ed è la prima volta che torno nel mio Paese natale. Emozione. Ritrovo la lingua. Parlo della storia che accomuna ebrei e polacchi da mille anni, da quando nacque il regno di Polonia. Racconto la vita di questa minoranza ebraica che prima della guerra rappresentava l´11 per cento della popolazione, una percentuale comparabile a quella dei neri negli Stati Uniti odierni. Chiedo di immaginare New York, Los Angeles, Chicago o Baltimora senza afroamericani. Quel grande Paese non sarebbe più lo stesso: e nemmeno il suo cinema, la sua musica, la sua letteratura, i suoi balli, il ritmo delle sue strade. La Polonia senza ebrei mi fa lo stesso effetto. Noi siamo, dico, come una coppia molto anziana. Una coppia che si amava, si odiava, si affascinava, arrivava addirittura ad augurarsi che l´altro scomparisse, ma quando l´altro non c´è più chi resta si ritrova vedovo.
Lublino non aveva mai sentito un discorso simile. Io sognavo di fare di questa Giornata del giudaismo una Giornata del pentimento. Tre milioni e mezzo di ebrei assassinati lo giustificavano ampiamente. Certo, non sono stati propriamente i polacchi ad ucciderli, ma la maggioranza tra loro, come ricordava il polacco Czeslaw Milosz, premio Nobel della letteratura 1980, non li ha nemmeno granché aiutati. Il pentimento mi sembra assolutamente indispensabile: come potrebbero altrimenti i polacchi riappropriarsi finalmente della loro storia, di tutta la loro storia, compresa la parte ebraica del loro passato?
Come una saracinesca è caduto un silenzio sulle mie ultime parole. Neanche un applauso: la freddezza del metallo. Quando l´arcivescovo di Lublino, monsignor Jozef Zycinski, ha chiesto se c´erano domande, si è alzato un uomo. Mi ha fatto cortesemente le sue congratulazioni. Poi mi ha chiesto perché non avevo invitato i russi a dare mostra di pentimento. Precisando: quei russi che hanno massacrato centinaia di migliaia di polacchi «con la complicità dei comunisti ebrei». Allora, soltanto allora, la sala, unanimemente, si è alzata in piedi applaudendo entusiasticamente. È andata avanti per dieci minuti buoni. L´arcivescovo, visibilmente imbarazzato, ha alzato le braccia al cielo: «Smettetela! Offendete il vostro pastore!». La sua collera era sincera. La reazione della folla anche.
Sotto l´influenza di Giovanni Paolo II, il papa polacco che ho avuto l´onore di conoscere bene, la gerarchia cattolica si era riavvicinata agli ebrei. Non erano, citando le sue stesse parole, i «fratelli maggiori della Chiesa»? Le accuse di "popolo deicida" cominciarono a scomparire dalla liturgia e l´espressione "perfidi giudei" sparì dalla preghiera del Venerdì Santo.
Giovanni Paolo II era un papa di resistenza. Per cominciare, si era opposto al totalitarismo sovietico. Questa resistenza l´aveva portata avanti, già prima della guerra, al fianco degli ebrei di Wodowice, il paesino dov´era nato; dopo la guerra contro il comunismo importato che soffocava il suo Paese.
Il cardinale Ratzinger, il suo successore col nome di Benedetto XVI, è, invece, un papa di guerra. Il ritorno della religione, fenomeno che avrebbe segnato il nuovo secolo secondo le tesi da lui stesso sostenute, non va solo a vantaggio della Chiesa, tutt´altro. Altre religioni, in particolare l´Islam, ne traggono profitto. Ieri era il comunismo che si ergeva contro il cristianesimo, oggi è la moschea che si erge contro la chiesa. In questi ultimi anni, i cristiani sono stati scacciati dall´Iraq. In Egitto, in Indonesia e in India sono perseguitati, a volte assassinati. Ecco perché, in un discorso a Ratisbona il 12 settembre del 2006, Benedetto XVI ha appellato l´Islam alla Ragione. Ha ripetuto queste affermazioni due mesi fa di fronte a dei responsabili musulmani invitati in Vaticano.
Più vicino a Urbano II, che lanciò la prima crociata nel 1095, che a Giulio II, che commissionò gli affreschi della Cappella Sistina a Michelangelo nel 1512, Benedetto XVI sa che per opporsi all´Islam ha bisogno di tutte le forze della Chiesa, comprese le più dure e reazionarie fra di esse. Ed ecco che ha tolto la scomunica che colpiva, dai tempi di Giovanni Paolo II i vescovi integralisti, tra cui il negazionista monsignor Williamson. Aprendo le porte della Chiesa ai vescovi ordinati illegalmente da monsignor Marcel Lefebvre, contestatore delle decisioni del concilio Vaticano II (1962-1965), Benedetto XVI tenta di adunare gli estremisti della Fraternità sacerdotale San Pio X, valutati in centocinquantamila fedeli in tutto il mondo.
Nella sua strategia figura anche la riabilitazione di Pio XII, quel papa che i suoi avversari chiamavano "il papa di Hitler". Eletto il 2 marzo 1939, l´anno in cui le truppe naziste entrarono a Varsavia, Pio XII inviò una lettera personale al Führer: «Desideriamo restare legati al popolo tedesco affidato alle vostre cure, attraverso un´intima benevolenza».
Dopo la guerra, il suo silenzio in quegli anni di morte fu abbondantemente commentato e criticato. L´Osservatore Romano, di cui suo nonno Marcantonio Pacelli fu uno dei fondatori, prese le sue difese: «Di fronte all´Olocausto, il papa Pio XII non è stato né silenzioso né antisemita, ma prudente». Che sarebbe successo il papa fosse stato meno prudente, se avesse chiamato tutti i cristiani, e innanzitutto i suoi, i cattolici, a salvare gli ebrei? La Shoah avrebbe preso un´altra piega? Il drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth pose questa domanda con clamore nella sua opera Il vicario, realizzata a Berlino Ovest il 20 agosto 1963: la pièce fece scalpore in tutto il mondo. Nel 2002 Costa Gavras ne ricavò un film, Amen.
La storica italiana Emma Fattorini torna sull´argomento in un libro di recente pubblicazione, Pio XII, Hitler e Mussolini. Basandosi su un documento trovato negli archivi del Vaticano, la Fattorini assicura che Pio XI, predecessore di Pio XII, aveva convocato l´11 febbraio 1939 l´insieme dei vescovi italiani per il decimo anniversario degli accordi del Laterano tra la Chiesa e Mussolini. In quell´occasione avrebbe condannato il regime fascista e quello nazista. Ma Pio XI morì la notte del 10 febbraio 1939. C´è chi sostiene, senza poterlo dimostrare, che sarebbe morto per avvelenamento. Il papa all´epoca aveva ottantadue anni. Invece, secondo il documento citato dalla Fattorini, il suo segretario di Stato, il cardinale Eugenio Pacelli, futuro Pio XII, si mostrò fautore di un atteggiamento più diplomatico verso i fascisti e avrebbe fatto distruggere sia le bozze che i piombi di quel discorso mai pronunciato.
I difensori di Pio XII, soprattutto quelli che si battono per la sua beatificazione, come il tedesco Gumpel e un´ampia fascia conservatrice della Chiesa, negano il suo antigiudaismo. Per l´attuale pontefice, Joseph Ratzinger, «la causa della beatificazione del servitore di Dio proseguirà felicemente».
Il ritorno del fantasma di Pio XII ha provocato commozione e collera in Israele e nelle comunità ebraiche di tutto il mondo: era veramente antisemita? Non necessariamente. Se non rispose alla lettera del 14 giugno 1942 dell´arcivescovo di Friburgo, monsignor Conrad Gröber, che lo allertava sulla determinazione del regime nazista a distruggere il giudaismo, è perché quell´argomento, ahimé, non lo interessava affatto. Per Pio XII, il pericolo principale non era il fascismo, ma la Russia comunista, regime ateo. Preferì dunque tenersi buona la Germania, perfino quando invase la Polonia, condannando invece la Russia quando questa attaccò la Finlandia. La crociata contro il comunismo lo condurrà a sostenere Franco contro la Repubblica spagnola e a rallegrarsi con l´ambasciatore tedesco presso la Santa Sede per i successi militari della Wehrmacht sul fronte russo.
Il destino dell´uomo è tragico: unico tra gli esseri viventi a essere a conoscenza del limite della sua esistenza. Esistenza difficile, che sopravvive solo grazie alla speranza. In Francia, i laici sono riusciti a imporre, con Aristide Briand, il 9 dicembre 1905, la legge sulla separazione tra le Chiese e lo Stato, perché erano in grado di offrire ai francesi speranze universali diverse da quelle delle religioni. Di fronte alle confessioni allora rappresentate, la cattolica, la protestante, la luterana, la riformata e l´israelita, la Storia ha schierato il socialismo, il comunismo, il fascismo e il liberalismo, ideologie che hanno poi fallito. Da allora, sempre incapaci di vivere senza speranza, gli uomini tornano alla religione. Insomma, con Nietzsche abbiamo creduto che Dio era morto, ma ci siamo sbagliati. Un giorno su un muro di Berlino ho visto una scritta: «Nietzsche è morto»; era firmata Dio. Ma le vie del Signore, sempre impenetrabili, sono veramente quelle di Ratzinger?
Traduzione di Fabio Galimberti

Repubblica 30.1.09
New Scientist ha interrogato gli studiosi Quale sarà il futuro dell’evoluzionismo?
Tutte le risposte che Darwin non ha trovato
di Elena Dusi


I quesiti insoluti: dall´origine della vita a quella del rossore sul volto di chi s´imbarazza

Come è avvenuta la nascita della vita sulla Terra? Come può la teoria dell´evoluzione spiegare qualcosa di così ineffabile come la coscienza che distingue gli esseri umani. E ancora, solo la nostra specie ha la caratteristica di arrossire quando si trova in situazioni imbarazzanti. Due secoli dopo la nascita di Darwin e 150 anni dopo la pubblicazione dell´"Origine delle specie", il lavoro del viaggiatore del Beagle è ancora, appunto, in evoluzione. E per capire dove ci porteranno i prossimi anni di studio, la rivista New Scientist ha intervistato sedici fra i più importanti studiosi di biologia e storia naturale.
Frans De Waal della Emory University si concentra sull´arrossire del volto, caratteristica che nessun primate condivide con noi. «È naturale chiedersi - scrive su New Scientist - che bisogno abbiamo di comunicare sensazioni così intime. Mostrare imbarazzo interferisce con la strategia di manipolare gli altri senza farsi troppi scrupoli. È come se gli uomini primitivi fossero sottoposti a una pressione evoluzionistica tesa a premiare l´onestà».
Sia Darwin che Galileo (di cui sempre quest´anno si ricorda un anniversario: i quattro secoli dalla prima osservazione del cielo al telescopio) hanno contribuito a far scendere l´uomo dal suo piedistallo. Ma a differenza dell´astronomo, il padre dell´evoluzionismo sembra averci lasciato in eredità più domande che risposte. «Non c´è nulla di strano, è la caratteristica della buona scienza» commenta Giorgio Vallortigara, professore di neuroscienze all´università di Trento, che insieme a Vittorio Girotto e Telmo Pievani ha da poco pubblicato "Nati per credere" (Codice editore). «Anche le credenze religiose, e sovrannaturalistiche in genere, hanno infatti origini evoluzionistiche», aggiunge.
Richard Dawkins, biologo evoluzionista a Oxford, oggi chiederebbe a Darwin se è per caso che l´evoluzione del sesso, dell´intelligenza, del linguaggio e della coscienza nell´uomo siano avvenuti così, o era necessario che seguissero questo percorso. Altri nodi da sciogliere riguardano il numero esorbitante di specie sulla Terra o il modo in cui un comportamento o un tratto somatico provocano un mutamento permanente nel Dna di un gruppo di esseri viventi. Andy Knoll dell´università di Harvard, alla luce dei rischi di un cambiamento climatico, si chiede fino a che punto la capacità di adattamento permetterà all´uomo di sopravvivere in un ambiente stravolto.
Quanto a Vallortigara, è sul fenomeno della coscienza che si soffermerebbe con Darwin oggi. Per molti degli scienziati interpellati da New Scientist il pensiero superiore e la capacità dell´uomo di percepire se stesso rappresentano uno dei traguardi più difficili da spiegare con la teoria dell´evoluzione. «È un enigma - dice il professore di Trento - perché da un punto di vista logico è possibile che le funzioni mentali, anche quelle più complicate, possano essere svolte senza essere accompagnate da una rappresentazione nel "teatro della coscienza". In questo momento nessuno ha una risposta a questa domanda». Ma fra altri duecento anni, probabilmente, anche l´enigma del cervello umano avrà ricevuto risposte ricche di nuove interessanti domande.

Repubblica 30.1.09
L’Europa e gli schiavi
Così si arricchì il continente
di Hugh Thomas


Un pezzo fondamentale della storia mercantile e marittima che dalla metà del XV secolo proseguì fino alla fine del XIX secolo
Lo studioso inglese ha indagato sul commercio di uomini e sui suoi effetti determinanti per la crescita economica in Occidente

Ricevo questo premio a settantasette anni, un momento di memorie e ricordi. Ci sembra sempre che la cifra dell´età sia inventata, che qualcuno abbia aggiunto gratuitamente nuovi numeri. Ma devo ammettere che sono passati più o meno settantasette anni da quando ho preso l´espresso per la civiltà. Il treno è partito dalla Gare du Nord a Parigi; a poca distanza prendevano prenotazioni per il Bateau Ivre di Rimbaud.
Naturalmente viaggio su un vagone letto, mentre qualcuno mi disfa le valigie. Sulla rastrelliera sono raccolti tutti i miei libri. In primo piano è la mia Storia della guerra civile spagnola, complessivamente quindici edizioni. Là vicino è anche la Storia di Cuba, che è un libro più lungo; la prima edizione spagnola includeva tre volumi. Ecco, ancora, la mia Storia del mondo, che invece è breve: avendo scritto un lungo libro su una piccola isola, pensavo di dover scrivere un breve saggio sull´immensità del mondo. Scavando negli archivi, mi sono imbattuto in nuovo materiale; alcune di queste scoperte mi hanno dato maggior piacere di qualsiasi altra cosa. Meraviglioso! Poi sono arrivate altre opere importanti, sulla nascita dell´impero spagnolo (I Fiumi dell´Oro Mondadori) e sull´ascesa e caduta del commercio degli schiavi sulle rotte dell´Atlantico (The Slave Trade, Il Commercio degli schiavi).
Su The Slave Trade vorrei soffermarmi. Probabilmente la maggior parte della gente considera la tratta degli schiavi come un ramo vergognoso del commercio, che di tanto in tanto deve essere studiato quando si affronta la storia economica moderna. È un clamoroso errore. Il commercio degli schiavi è stato elemento essenziale di gran parte della storia d´Europa, delle Americhe e dell´Africa per molti secoli. È stato l´attività principale sotto molti punti di vista. Che cosa voglio dire? Voglio dire innanzitutto che gli sforzi realizzati dagli europei per scoprire il mondo africano e per conquistare le Americhe si fondano sulle migliaia di schiavi neri, trascinati dall´Africa prima in Portogallo, nel XV e XVI secolo, più tardi trasportati attraverso l´Atlantico perché svolgessero lavori pesanti. Il Portogallo fondò le sue prime colonie proprio allo scopo di commerciare in schiavi; nel nuovo mondo le sue colonie, come quelle create in Brasile, dipendevano dalla manodopera nera. Le navi, i traffici, la dimensione del reddito e la mole delle fortune marittime portoghesi derivavano dal commercio degli schiavi africani. Questo commercio si protrasse fino al tardo diciannovesimo secolo, quando gli ultimi schiavi furono trasportati su veloci navi a vapore dall´Angola, per esempio, alla moderna colonia spagnola di Cuba in tempo record.
Nello scrivere la storia del commercio degli schiavi, ho dovuto attrezzarmi per poter raccontare una storia commerciale, marittima ed economica che dalla metà del XV proseguì fino alla fine del XIX secolo. Anche in questo campo non sono mancate le scoperte. Nel corso degli anni, abbiamo imparato che le industrie della lana in Europa spesso ricevevano un forte impulso proprio dal commercio degli schiavi. Le industrie nel Lancashire, in Normandia, vicino Nantes e vicino La Rochelle erano tutte sostenute dalla tratta schiavista. Il commerciante che ha trasportato il maggior numero di schiavi attraverso l´Atlantico in quattro secoli e mezzo, dal 1510 al 1865, fu probabilmente un basco. Vissuto nel XIX secolo, egli si arricchì con lo zucchero a Cuba. Si chiamava Julián de Zulueta, morì nel 1881. La tratta degli schiavi s´infranse nelle battaglie per i diritti, nate proprio in Gran Bretagna. Fu uno dei nostri momenti di maggiore orgoglio. Il paese acquistò la fisionomia di un eroico filantropo.
Naturalmente con il lavoro sugli schiavi non termina il mio lungo viaggio attraverso gli studi storici. Provo affetto anche per lo studio sull´imprenditore spagnolo Eduardo Barreiros e anche per un trattato su Beaumarchais in Spagna, paese che gli ispirò idee e anche personaggi per le sue brillanti commedie. E il libro su Goya, sulla sua esperienza nella guerra napoleonica nel periodo intorno al 1810? Sì, nella rastrelliera va messo anche quello, mentre il treno continua a viaggiare.

Repubblica 30.1.09
Quelle storie fra vecchio e nuovo mondo
Le industrie nel Lancashire, a Nantes o in Normandia erano tutte sostenute dalla tratta schiavistica
di V.S.Naipaul


Lo storico britannico Hugh Thomas � o Lord Thomas di Swynnerton, da quando è stato nominato pari a vita da Margaret Thatcher più di vent´anni fa � può essere considerato un maestro. Il suo primo libro, La Guerra Civile Spagnola, è stato pubblicato nel 1961. Ora è un classico, ma di genere insolito. È stato continuamente rivisitato, come doveva essere, man mano che ulteriori documenti su quel difficile e controverso argomento venivano alla luce. E tuttavia, tale è il rigore intellettuale dell´autore che il suo libro non è mai sembrato parziale e mai in alcun modo è diventato obsoleto. Alcuni anni fa gli chiesi se potesse arrivare a concludere le revisioni e sentirsi in grado di presentare un testo definitivo. Rispose: «Mai».
Si è concentrato principalmente su argomenti ispanici o iberici dopo quell´inizio. Ha contribuito a innovare la storiografia sulla conquista del Messico e su argomenti collegati, la cui importanza non si può ancora pienamente comprendere. Se la storia dell´antica Roma è in parte la storia delle infinite e pericolose migrazioni verso Est, molta della storia moderna sembra essere una continuazione di quelle migrazioni, ora però dal vecchio mondo al nuovo, con il ripopolamento del nuovo mondo negli ultimi cinquecento anni.
Un capitolo fondamentale del ripopolamento è stato il commercio degli schiavi, dall´Africa verso quasi tutti i paesi delle Americhe. Questo è il soggetto del capolavoro di Thomas, The Slave Trade. Il commercio di cui scrive è andato avanti per cinquecento anni, coincidendo con l´invenzione della stampa, la creazione della letteratura moderna, lo sviluppo di sistemi di governo, la crescita della straordinaria rivoluzione industriale, con tutti i suoi grandi benefici e le sue immense crudeltà fino a centocinquant´anni fa. Nei romanzi di Dickens, il fuoco scoppiettante in un salotto parla di comfort e di felicità. In un libro recente sui Vittoriani, lo scrittore A. N. Wilson ci racconta che il carbone di quel fuoco potrebbe essere stato estratto da un bambino di sei anni, costretto in spazi che erano troppo piccoli per un adulto. In modo abbastanza simile la schiavitù rendeva confortevole il mondo per la gente comune.
Il libro di Hugh Thomas non è sulla schiavitù in sé. Riguarda il trasporto degli schiavi attraverso l´Atlantico. È un argomento doloroso. Gli schiavi erano più o meno nudi; vivevano nella loro sporcizia, e a volte venivano uccisi dal terribile fetore. Un falegname faceva parte dell´equipaggio sulle navi schiaviste. Era suo compito creare spazi divisori fra i ponti in modo da poter trasportare più gente. La mancanza d´aria era abominevole. Gli abitanti dell´Avana erano in grado di dire quando una nave schiavista era arrivata. Potevano sentire l´odore degli escrementi. Ma il bellissimo libro di Hugh Thomas non affonda sotto il peso di questi dettagli raccapriccianti. L´autore non perde la sua umanità, il suo rispetto per i valori di civiltà, perfino il suo humour.

Repubblica 30.1.09
La tribù dei capi carismatici
Un dibattito di MicroMega sulla legalità


Siamo tutti d´accordo su cosa sia "la morale"? Contro Montesquieu, per il quale il potere arresta il potere, avanza la nuova specie dei leader incuranti delle regole Ne discutono Zagrebelsky, Spinelli e Zingales
La politica è da sempre impasto di idealismi e bassezze
Ma il problema è che in Italia la corruzione è ormai pratica diffusa

Con le recenti inchieste che hanno coinvolto esponenti politici di rilievo del centro-sinistra è tornata prepotentemente di attualità nel nostro paese la cosiddetta "questione morale".
GUSTAVO ZAGREBELSKY - Prima di entrare nel vivo della discussione, desidero fare una premessa. In generale, nell´affrontare questi problemi, dobbiamo tenere conto della circostanza che la politica - da sempre, ab immemorabili - è un impasto potremmo dire di idealismi e di bassure, di idealismi e corruzione. Lo è forse intrinsecamente; quindi pensare che si possa avere una politica totalmente libera da corruzione rappresenta un caso di moralismo essenzialmente antipolitico. Da questa constatazione, però, non deriva che la corruzione debba essere accettata passivamente, anche perché, oltre un certo limite, essa è destinata a minare dall´interno il regime entro il quale si diffonde. Nel nostro caso, il regime democratico. Questa premessa mi pare necessaria. La corruzione politica non è uno scandalo "di sistema". Diventa invece uno scandalo "del sistema" se si diffonde fino al punto da diventare una sua regola costitutiva e da essere accettata come tale, senza che si manifestino reazioni o, peggio, che si manifestino reazioni non nei confronti della corruzione e di coloro che ne sono autori, ma nei confronti di coloro che la mettono a nudo, la denunciano, cercano di colpirla. Qui c´è una prima domanda alla quale dobbiamo tutti una risposta, quale che sia la nostra posizione nella società e nelle istituzioni: nel nostro paese, la corruzione la si combatte o la si copre?
Secondo punto. Si ritorna a parlare di "questione morale", ma siamo tutti d´accordo nell´intendere che cosa sia la "morale" nella questione morale? Non ne sono sicuro. Inutile dire che vi sono concezioni della morale quante sono le visioni del mondo e, per restare al nostro tema, quante sono le visioni della politica. La corruzione è una questione di contraddizione tra concezione della politica e azione politica. Se cambia la concezione della politica, azioni che in una concezione sono perfettamente "morali" possono non esserlo più, e viceversa. C´è una morale politica comune, ora, qui, nel nostro paese? Guardiamo i fatti: i medesimi comportamenti, presso gli uni, provocano riprovazione; presso gli altri, nessuna riprovazione, anzi talora consenso. Ad esempio: la confusione del privato nel pubblico e del pubblico nel privato per alcuni è una gravissima prova di disprezzo delle istituzioni; per altri, è una benefica forma di modernizzazione, sburocratizzazione, perfino avvicinamento delle istituzioni e della politica alla gente. Chi è "morale" e chi "immorale"? Dipende dai punti di vista. Se i punti di vista sono lontani, il discorso sulla necessità di una vita pubblica ripulita dalla corruzione - una questione che dovrebbe unire, nel nome di un interesse comune, superiore a quello delle parti - diventa semplicemente un´occasione, un pretesto per scambiarsi accuse. In conclusione: ciò che dovrebbe essere ripristinata è la visione comune, l´idea del vivere insieme. Come si può fare appello alla morale in un paese in cui l´evasione fiscale, uno dei comportamenti eticamente più condannabili secondo un´etica repubblicana, sia accettata addirittura come esercizio di un diritto o manifestazione di furbizia?
BARBARA SPINELLI - Partirei da quanto ha detto il professor Zagrebelsky a proposito della politica, che è sempre un impasto di idealismo e bassezze o di idealismo e forme di corruzione. È vero che il potere è qualche cosa che naturalmente corrompe. Come diceva lord Acton, "il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente". È un dato di fatto. Nella storia del liberalismo - prima ancora che cominciasse l´esperienza della democrazia - si è guardata in faccia questa realtà e da qui hanno avuto origine tutte le teorie del potere che va limitato o controbilanciato. Montesquieu dice l´essenziale quando afferma: "Perché non ci sia abuso di potere occorre che il potere fermi il potere": che cioè ci siano istituzioni, organismi che facciano da contrappeso. Da qui è nata poi la separazione dei poteri, e da qui è nato anche il quarto potere, quello della stampa, che è un altro potere chiamato ad arginare il potere.
Più avanti avremo modo di parlare di che cosa sia la morale in politica: sono convinta anch´io che essa sia la questione centrale nell´Italia contemporanea. Eugenio Scalfari ha spiegato d´altronde come lo sia quasi da principio, nella sua storia. La cornice fondamentale che impone un comportamento corretto in politica è però costituita sempre dalla possibilità che il potere fermi il potere. Solo la separazione dei poteri può garantire che la corruzione venga fermata, proprio perché il potere tende intrinsecamente a farsi assoluto e dunque a corrompere assolutamente, andando verso la crescente occupazione dello spazio pubblico da parte di singoli soggetti come i partiti, gli interessi particolari, e chiunque non abbia come obiettivo il bene comune o lo Stato, ma la promozione del proprio vantaggio e del proprio bene parziale. Chiunque parli di questione morale - o di giustizia che funzioni - in questo momento storico, nell´Italia di oggi, deve ormai preoccuparsi quasi sempre di spiegare che non è un moralista, che non è un giustizialista; così come deve sistematicamente spiegare, se difende la laicità, che non è un laicista. In questo momento, chi domanda comportamenti eticamente corretti in politica si trova in una posizione difensiva.
LUIGI ZINGALES - Tutto quello che è stato detto finora mi sembra giustissimo. Però prima ancora di una questione morale, io parlerei di una questione legale in Italia, che non interessa solo la politica ma anche il mondo degli affari. In Italia il delitto paga, e paga molto. Tanzi è stato condannato, però non si sa se andrà mai in galera, anzi è probabile che non farà nemmeno un anno di galera nella sua vita. Fiorani è in Sardegna che si diverte, fa la bella vita. In Italia praticamente nessuno va in galera qualsiasi cosa faccia. O meglio, in galera ci vanno solo i poveracci, perché non hanno un buon avvocato e non sanno tirare a lungo le cose.
ZAGREBELSKY - Naturalmente questione morale e questione legale sono strettamente legate. La legge è pur sempre un riflesso di un modo di concepire la vita sociale, secondo un punto di vista che è denso di contenuto etico, che rinvia a un´idea di vita buona, anche se è la legge più permissiva, più liberale del mondo. La libertà comporta un´etica della libertà. Ma in Italia la corruzione politico-amministrativa - e con questa alludo alla corruzione dei meccanismi della pubblica amministrazione come l´alterazione delle gare pubbliche, la compravendita di provvedimenti della pubblica autorità, insomma a tutti quei reati che hanno come vittime non singole persone concrete, ma la società nel suo complesso - viene considerata molto poco grave. Quando il soggetto passivo è "il pubblico", la coscienza etica si affievolisce. Sembra che ci sia un´idea pervasiva, che ha corrotto le nostre coscienze, secondo la quale ciò che è di tutti - ciò che è pubblico - per questo è di nessuno, non merita di essere difeso, può essere oggetto di spoliazione privata. E così da noi chi viene preso con le "mani nel sacco" sa di aver fatto, in fondo, ciò che molti altri, se ne avessero la possibilità, farebbero. Molte denunce, molte iniziative giudiziarie sono in realtà poco più che un omaggio ipocrita alla virtù. Ma basta lasciar passare un poco di tempo e tutto ritornerà come prima, anzi, in certi casi, peggio di prima. Quanti casi sapremmo indicare di persone incappate in "incidenti" giudiziari che ne sono usciti, in un modo o in un altro, rafforzati negli ambienti in cui operavano e continuano poi a operare?
Nel nostro paese i crimini dei "colletti bianchi" - come si diceva una volta - sono sostanzialmente impunibili, perché tra condoni, indulti, norme che accorciano i termini di prescrizione eccetera, è praticamente impossibile arrivare a sentenze di condanna e poi all´esecuzione delle sentenze. E questa, secondo me, non è causa di corruzione, ma conseguenza di un certo modo di vedere le cose, quando di mezzo c´è "solo" l´interesse pubblico. Ritorno al mio chiodo fisso: quando parliamo di morale, forse fra noi tre c´è un certo accordo sul modo di concepirla, ma nel nostro paese?
Barbara Spinelli faceva riferimento alla grande idea di Montesquieu del potere che arresta il potere, radicata nella convinzione che il potere è, in sé, corruttivo. Il potere corrotto, per Montesquieu, è quello troppo forte, smodato. I regimi sani, per lui, sono i regimi moderati. Ma questa è una, una soltanto, concezione della buona politica, una concezione liberale. Oggi hanno preso piede idee e pratiche politiche che Max Weber avrebbe definito carismatiche. Il capo carismatico, quello al quale i suoi adepti affidano fideisticamente le proprie sorti e dal quale si attendono tutto il bene possibile, non sa che farsi dei limiti, dei contropoteri eccetera. Li considera degli impacci, delle forme di corruzione del potere ch´egli vuole forte perché grande è l´attesa che gli adepti ripongono nel loro salvatore. Ecco, ancora una volta, la relatività dei punti di vista. Perfino l´imbroglio, la corruzione, il furto, il delitto, si giustificano quando la causa è grande e i leader carismatici non si accontentano di una piccola politica: vogliono il potere di fare tutto perché i fini che sbandierano sono grandi, storici, epocali, perché i nemici contro cui combattere sono potenti, pericolosi, subdoli. Perfino il "bossismo", la caricatura del regime carismatico (bossismo non nel senso di Bossi, ma del potere del "boss"), ha bisogno di ideali per giustificarsi e per giustificare l´uso spregiudicato di ogni mezzo possibile.
Nel nostro paese le reazioni all´illegalità sono così diverse proprio perché diverse sono le concezioni delle relazioni politiche e sociali alle quali - consciamente o inconsciamente - ci si ispira. Se si vuole, con una semplificazione, per l´una "il fine non giustifica i mezzi", mentre per l´altra, altrettanto classica, "il fine giustifica i mezzi".

Corriere della Sera 30.1.09
L'incontro L'ex br presenta il suo libro a Casa Pound. «Basta con l'antifascismo ideologico»
E Morucci va nel centro sociale dell'estrema destra
di Maria Rosaria Spadaccino


ROMA — La Sapienza lo ha respinto, lo ha accolto invece Casa Pound. Valerio Morucci, l'ex brigatista del sequestro Moro e della strage di via Fani, va a parlare del suo libro
Patrie galere, cronache dall'oltrelegge,
edito da Ponte alle Grazie, nel centro sociale del Blocco Studentesco, il movimento di estrema destra coinvolto negli scontri di ottobre in piazza Navona. Sembra che proprio quei tafferugli siano stati il filo rosso — per usare una facile metafora — tra Morucci e i militanti neofascisti. «Dopo gli scontri ci ha cercato per manifestarci solidarietà, così sono cominciati i contatti», racconta Gianluca Iannone, presidente di Casa Pound Italia, di fatto il laboratorio della destra radicale. «Poi quando il 12 gennaio gli è stato impedito di parlare all'università, così come è successo a noi tre a volte a Tor Vergata e a Roma Tre, abbiamo deciso di offrirgli asilo politico, perché siamo un luogo dove il confronto è libero », sostiene Iannone.
Alla Sapienza l'ex terrorista era stato invitato dal professore di letteratura anglo-americana Giorgio Mariani a partecipare al seminario «Cultura, violenza e memoria», ma era stato lo stesso rettore Luigi Frati a mettere il veto dopo che le polemiche politiche erano divampate. Non è però solo la presenza di Morucci a far gongolare i dirigenti di Casa Pound: «Lo abbiamo invitato perché ha annunciato un'iniziativa importante — dice Iannone — ovvero un appello a mettere fine al meccanismo diabolico dell'antifascismo, che lui ha dichiarato esplicitamente di condannare. Si parla tanto di riconciliazione nazionale, superare le divisioni ideologiche è un passaggio obbligato». Oggi — annunciano i giovani di Casa Pound — la capitale sarà invasa dai manifesti sull'evento, che si terrà venerdì 6 febbraio alle 21. Parteciperanno Giampiero Mughini, Angelo Mellone, Ugo Maria Tassinari, il vicecapogruppo Pdl in Campidoglio Luca Gramazio e Carlomanno Adinolfi.
«Capisco lo stupore, ma l'avevo già annunciato che sarei andato nei centri sociali della destra radicale», spiega Morucci. E continua: «Quello che ho intrapreso spero sia un percorso positivo. Vorrei bloccare la contrapposizione ideologica, schematica, quasi religiosa tra Male e Bene, perché nel passato ha provocato solo disastri. E ancora potrebbe crearne. La Costituzione garantisce a tutti la libertà di espressione, la libertà di parola... invece in Italia questo diritto è vietato ad alcune categorie di persone. Io faccio parte di una di quelle categorie, e anche i fascisti ne fanno parte ». Un fiume in piena, insomma, che non si è fermato nemmeno davanti alla tecnologia. Ieri sera il «compagno Pecos », come lo chiama l'ex brigatista Anna Laura Braghetti nel libro Il prigioniero, ha scritto un lungo messaggio su Facebook nel gruppo d'opinione «Libertà di Parola». Comincia citando Erri De Luca: «Senza pietà per i vinti non c'è l'Iliade... richiedere la pietà per i vinti è tutt'uno con il richiedere la loro parola».

Corriere della Sera 30.1.09
«Peccatrice, ti uccideremo» Minacce alla poetessa in tv
Ma la saudita Aydah si avvia alla finale dello show
di Viviana Mazza


«Mi hanno imposto il burqa, ma io sono libera come un uccello. Anche la spada nascosta nel fodero non è meno tagliente»
La sagoma nera sta seduta su una grande poltrona rossa e dorata. Invisibile il volto — pure gli occhi. Si vedono solo le mani bianche, che tagliano l'aria con gesti ampi, e il microfono che spunta all'altezza della bocca. Dalla sagoma nera proviene una voce decisa, che recita i versi di una poesia: «Mi hanno imposto il burqa, ma io sono libera come un uccello. Anche la spada nascosta nel fodero non è meno tagliente».
Aydah Al Jahani, quarantenne saudita, è l'unica partecipante donna rimasta in gara nel concorso della tv di Abu Dhabi
Il poeta milionario. Il popolarissimo show, nato nel 2006, giunto alla terza edizione, vede 8 professionisti e dilettanti fronteggiarsi ogni giovedì sera recitando nel dialetto del Golfo composizioni da loro scritte di poesia nabati, un genere di tradizione beduina. Erano 48 all'inizio (altre due donne, entrambe giordane, sono state eliminate). Aydah ha superato la prima selezione a dicembre (partecipando con una poesia sui diritti delle donne), e ieri ha passato la seconda: è stato il pubblico da casa (oltre 7 milioni di spettatori) a sceglierla, con il 59% dei voti inviati via sms nel corso di una settimana. Ora è una dei 20 poeti rimasti nella fase finale (ancora 6 settimane) a contendersi i 5 milioni di dirham (1 milione di euro) in palio (e altri ricchi premi.
La tribù Al Jahani, cui Aydah appartiene, e il suo stesso padre però non sono d'accordo. Il sito saudita Elaph scrive che l'avrebbero minacciata di morte, perché poco importa che Aydah nasconda il proprio corpo: la voce femminile è in sé erotica e sufficiente a suscitare pensieri peccaminosi. Secondo un aneddoto sulla vita del Profeta, Maometto l'avrebbe definita
awra e cioé un'onta, raccomandando a un fedele dal quale era andato a pranzo di far abbassare la voce alla moglie che lo chiamava gridando dal reparto delle donne.
Hana Al Hirsi, PR della compagnia Pyramedia che produce lo show, conferma che Aydah «ha ricevuto pressioni dalla sua tribù», ma non minacce di morte. «Proviene dalla regione del Golfo. La tribù è come una grande famiglia e molti sono contrari che partecipi al programma. Ma il fatto stesso che lo abbia fatto è una conquista», dice Al Hirsi al Corriere. «E d'altra parte ci sono anche molti che l'appoggiano e che si sono sintonizzati ieri sera solo per vedere lei».
Aydah ha cominciato a comporre poesie da bambina, unendo dialetto e lingua colta. A 5 anni pubblicò la prima sul mensile culturale del Kuwait Al Yaqdha (il risveglio). La poetessa si definisce «wahida saudiya » (l'unica saudita) nella sua prima raccolta del 1999. Da allora ha conquistato premi letterari e alcuni cantanti del Golfo hanno messo in musica le sue poesie. Diverso però è apparire di persona in tv davanti a milioni di persone, con quella «voce incantevole» e quei «modi raffinati », scrive Elaph.
Ma Aydah ha due alleati: il pubblico e il marito. I giurati in studio (cinque uomini) selezionano ogni giovedì un poeta che passa al round successivo: in nessuno dei due round hanno scelto lei. Ma anche gli spettatori possono dire la loro: sono stati loro a promuoverla.
Ieri tre quarti della platea in studio era composta da donne, rigorosamente sedute in una sezione separata rispetto agli uomini. Aydah ha accolto la notizia di essere passata al terzo round (l'ultimo prima della finale del 26 marzo) dicendosi orgogliosa a nome di tutte le donne. La poetessa non scrive però solo sui diritti femminili, ma anche di questioni che riguardano tutti. «Molte delle composizioni in gara sono su Gaza, sul nazionalismo, sulla guerra, sulle difficoltà economiche», spiega Al Hirsi. L'ultima poesia recitata da Aydah, «Dedicato al piccolo Basem», è la storia vera di un bambino povero morto di fame e di freddo nel nord dell'Arabia Saudita.
E mentre lei siede sulla scena, nascosta nel suo involucro nero, il marito seduto tra il pubblico applaude. Prima di poetare, come tutti i partecipanti Aydah ringrazia sempre Dio. Poi, con quella sua voce matura e forte, rivolge al compagno parole tenerissime: «Mi inchino, con rispetto, con gratitudine e con amore, al più coraggioso degli uomini, mio marito».

Corriere della Sera 30.1.09
Mons. Ravasi: Galileo, niente monumento in Vaticano
di G.G.V.


CITTÀ DEL VATICANO— Un convegno internazionale a Firenze dal 26 al 30 maggio, miriadi di iniziative, soprattutto il desiderio della Santa Sede di «onorare la figura di Galileo Galilei, geniale innovatore e figlio della Chiesa». Lo dice lo stesso arcivescovo Gianfranco Ravasi, grande biblista nonché presidente del pontificio consiglio della Cultura: «I tempi sono ormai maturi per una nuova considerazione della figura di Galileo».
Nell'anno galileiano non ci sarà tuttavia spazio per la statua del grande scienziato in Vaticano, giusto accanto alla pontificia accademia delle scienze: «Il progetto c'era, era stato realizzato anche un bozzetto, ma per il momento è stato archiviato: abbiamo consigliato allo sponsor di finanziare istituzioni che si dedicano a studi scientifici e filosofici», ha spiegato Ravasi. «Ad esempio è stata sovvenzionata una di queste istituzioni in Africa». Restano comunque gli omaggi e gli approfondimenti su Galileo, compimento di un «lungo cammino di riflessione» iniziato da Wojtyla nell'81 con l'istituzione di una commissione che «ebbe il coraggio di riconoscere gli errori dei giudici». Del resto Benedetto XVI lo ha citato a modello, elogiando nel giorno dell'Epifania gli scienziati che «sulle orme di Galileo non rinunciano né alla ragione né alla fede».

Corriere della Sera 30.1.09
Fra le cause della frammentazione Christopher Duggan, storico inglese, indica il ruolo negativo della Chiesa e dell'estrema sinistra
Italia, una nazione senza lo Stato
Partiti, fazioni e clientele hanno impedito l'affermazione di valori collettivi unificanti
di Christopher Duggan


Il problema principale che si pose dopo l'unità d'Italia non fu se una nazione esistesse oppure no (durante il Risorgimento quasi tutti i patrioti postulavano che l'Italia fosse una nazione), ma il come fosse possibile creare uno Stato unitario che incarnasse questa nazione, e con il quale la massa della popolazione potesse identificarsi. Gli ostacoli erano enormi: la frammentazione del-l'Italia sul terreno politico, geografico, linguistico, economico, culturale e storico appariva evidente, ed era quasi impossibile individuare simboli o idee «nazionali» suscettibili di avere un rilevante impatto emotivo fuori dell'angusta cerchia delle élites. Particolarmente problematico era il passato: quasi ogni singolo episodio patriottico — dalla battaglia di Legnano ai Vespri siciliani — poteva essere visto come una manifestazione di regionalismo.
Tra i più straordinari paradossi del processo di unificazione svoltosi nel 1859-60 c'è il fatto che un sistema altamente centralizzato fu imposto in buona parte perché un grado elevato di autonomia locale e regionale appariva storicamente naturale. La ragione principale di questa politica era l'insicurezza delle élites, ossia il timore che le tensioni regionali avrebbero fatto esplodere il nuovo edificio se l'esercito piemontese non fosse stato in grado d'intervenire rapidamente. E tra gli effetti ci fu un imponente retaggio di malcontento per quella che fu percepita come un'ingiustificata «piemontesizzazione». Il processo di unificazione lasciò un rancore profondo, che costituisce tuttora un terreno fertile per partiti a base regionale nel Nord come nel Sud della penisola.
Un altro paradosso fu che la debolezza dello Stato in termini di legittimazione popolare condusse all'adozione di misure che si proponevano di sanare la frattura tra «Paese legale» e «Paese reale», ma che si rivelarono di fatto controproducenti. Qui il problema era che l'Italia unita non aveva saputo creare un mito di fondazione unificante paragonabile, poniamo, a quello della Gran Bretagna nel Seicento o della Francia all'epoca della Rivoluzione francese. E a peggiorare le cose il nuovo Stato nacque proprio mentre l'estrema sinistra e la Chiesa riuscivano a mobilitare la gente comune su una scala senza precedenti — e si trattava di una mobilitazione rivolta contro il nuovo regno. Per vari motivi, in Italia gli strumenti impiegati in quest'epoca da altri Stati per nazionalizzare le masse — l'economia, la scuola, l'allargamento del suffragio, il carisma della monarchia — ebbero un effetto limitato; e sotto la spinta della disperazione le élites fecero ricorso alla guerra (nel 1866, nel 1895-96, nel 1911-12, nel 1915-18), con risultati spesso catastrofici. E naturalmente il fascismo legò inscindibilmente il suo programma di nazionalizzazione al linguaggio e alla pratica della guerra.
Tra i temi principali del mio libro La forza del destino (Laterza) è il grande ostacolo frapposto fin dal principio dalla Chiesa cattolica al movimento nazionale. Abbiamo qui un altro enorme paradosso: come Gioberti e altri riconobbero, la religione era sotto molti aspetti l'elemento culturale più «nazionale» rinvenibile in Italia; ma a partire dalla primavera del 1848 si vide che non esisteva la minima possibilità che la Chiesa diventasse qualcosa di diverso da un intransigente nemico dell'unificazione della penisola. Le conseguenze furono colossali. Fin dalla sua nascita, lo Stato liberale vide la sua autorità minata dal Vaticano, il cui diritto di denigrare gli avversari era protetto dalla legge delle guarentigie. Né gli attacchi del papato erano l'unico fattore nocivo. Il fatto che tra gli uomini di governo i cattolici fossero così numerosi, e sperassero nella conciliazione con la Chiesa, indebolì fin dal principio la capacità dello Stato liberale di affermare se stesso. Se le élites non credevano convintamente nei valori del nuovo Stato, come sorprendersi che la massa della popolazione fosse incerta quanto alla fonte ultima della sovranità?
A me sembra che la presenza dominante della Chiesa abbia avuto anche un altro effetto di lungo periodo, nel senso che introdusse — inevitabilmente — nella vita politica italiana una nota di estremismo. Avrebbe Mazzini concepito il suo programma nazionale in termini così intransigenti e così squisitamente religiosi senza l'opposizione della Chiesa? Avrebbe il socialismo (ma anche il fascismo) avuto un carattere così accentuatamente rivoluzionario se il cattolicesimo non fosse stato il suo grande rivale per i cuori e le menti delle masse? È ovvio che questo estremismo inasprì le divisioni del Paese. E grosse furono altresì le sue conseguenze per i valori dello Stato: quanti dei compromessi morali di cui si resero responsabili i democristiani, e che minarono la credibilità della Repubblica, trovarono una giustificazione nella sensazione di essere impegnati in una guerra civile ideologica?
Il mio è sostanzialmente uno studio storico del «processo» di nazionalizzazione, ossia di come l'Italia fu immaginata in quanto nazione, e di come intellettuali e politici cercarono di creare uno Stato che incarnasse le loro speranze. Il suo centro focale è il periodo compreso tra la Rivoluzione francese e la Seconda guerra mondiale, mentre la trattazione dell'Italia post-1945 è deliberatamente stringata. Ciò in parte perché a misura che ci si avvicina al tempo presente diventa per lo storico molto più difficile discernere i temi che contano, ma anche perché la «nazione », dopo essere stata al centro delle discussioni sull'Italia fino al 1945, nell'epoca della «Prima Repubblica» arriva quasi a scomparire come questione politica.
Si potrebbe suggerire che questa mancanza di attenzione per la «nazione» fosse il segno di una maggiore solidità e sicurezza: è lecito affermare che le colossali trasformazioni economiche degli anni Cinquanta e Sessanta fecero per nazionalizzare l'Italia molto più di tutte le iniziative pedagogiche dei 150 anni precedenti. D'altro canto, l'erosione della dimensione nazionale in sede politica rese però estremamente difficile per lo Stato postbellico affermarsi come fonte di autorità morale. Come tanti patrioti risorgimentali avevano temuto sarebbe accaduto in un regime rappresentativo cui facesse difetto un potente senso etico della nazione, i partiti, le loro fazioni interne, le organizzazioni clandestine e le reti clientelari colonizzarono lo Stato in misura via via crescente, spogliandolo degli attributi dell'imparzialità e dell'efficienza.
L'impulso a «fare l'Italia» e a «fare gli italiani» comportava il rischio di produrre (e ha di fatto talvolta prodotto) conseguenze catastrofiche. Ma l'incapacità d'instaurare e difendere valori collettivi chiaramente definiti può essere altrettanto perniciosa. Se lo Stato e le sue istituzioni perdono autorità, e si rompe l'equilibrio tra l'interesse pubblico e gli interessi privati, si corre il pericolo di creare una spirale di disillusione inarrestabile. E nel caso dell'Italia questo rischia di riportare alla ribalta la dialettica che ha segnato tanta parte della sua storia: da un lato la frammentazione (anche territoriale), e dall'altro gli appelli alla «coesione nazionale » e una ricerca, talvolta disperata, di meccanismi capaci di esercitare un'azione unificatrice.

Corriere della Sera 30.1.09
Un'antologia di scritti su istruzione, lavoro e voto
L'emancipazione femminile: un cammino non concluso
di Giovanni Belardelli


Secondo uno studio dell'Istituto medico legale dell'Aeronautica militare, le donne pilota sarebbero adatte al comando più degli uomini. Di fronte a notizie del genere, ormai sempre più frequenti, possiamo ben valutare il cammino percorso dall'emancipazione femminile attraverso un libro come Per filo e per segno di Ginevra Conti Odorisio e Fiorenza Taricone (sottotitolo «Antologia di testi politici sulla questione femminile dal XVII al XIX secolo», Giappichelli editore, pp. 304, e 29), vera e propria «summa» di testi politici sulla questione femminile scritti nell'arco di tre secoli e più, da donne e non solo (spiccano tra le eccezioni maschili Condorcet, Mazzini, John Stuart Mill).
Si va dalla veneziana Moderata Fonte, che alla metà del Cinquecento aspettava che il fratello tornasse da scuola per farsi ripetere tutto ciò che aveva imparato, alla nutrita pattuglia emancipazionista dell'Otto e Novecento: dalla socialista Anna Kuliscioff (nella foto) a Teresa Labriola, figlia del filosofo marxista Antonio.
Da un'autrice all'altra, i temi sono spesso simili: anzitutto, la dimostrazione dell'eguaglianza tra i sessi e la rivendicazione degli stessi diritti degli uomini. Fulminante l'osservazione dell'inglese Harriet Martineau che alla metà dell'Ottocento, richiamandosi alla dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti, si chiedeva (tra l'altro) come si potesse pretendere che le donne ubbidissero a leggi che, prive del diritto di voto, non avevano concorso ad approvare.
L'insieme dei testi ci racconta l'origine e le prime fasi di un'emancipazione che si è enormemente accelerata negli ultimi decenni, ma che ha tuttora il vistoso limite d'essersi potuta dispiegare (si pensi alla condizione della donna in gran parte dei Paesi islamici) soltanto o quasi nell'Occidente giudaico- cristiano.

il Riformista 30.1.09
Dopo l'accordo sulle europee, in arrivo quello sulla Rai
Ecco il Veltronellum
In rivolta i piccoli partiti. La sinistra sotto il 4% se la prende con il Pd, di di Fabrizio D’Esposito


Inciuci l'accordo Pd-Pdl sulle europee spalanca la via ad altri dossier bipartisan: il primo è viale Mazzini

Retroscena. Berlusconi e Veltroni si affannano a far smentire dai loro fedelissimi trattative sottobanco. Ma, approvato il genocidio di tutto ciò che sta a destra e sinistra dei partiti principali, è già in moto il risiko sulla tv di Stato. Zavoli alla Vigilanza, Petruccioli vs. Calabrese per la presidenza, corsa a quattro per la direzione generale.

È grande baratto tra Pd e Pdl. Prima l'intesa sulla legge elettorale per le europee, con lo sbarramento al quattro per cento che provocherà un genocidio partitico alla destra e alla sinistra dei due poli. Poi l'accordone. Su tutto: la Vigilanza, il nuovo consiglio di amministrazione della Rai, la giustizia, il federalismo, i regolamenti parlamentari. E, stando a indiscrezioni, pure la riforma della par condicio. Sulla Rai l'intesa è a portata di mano. La prossima settimana l'elezione di Sergio Zavoli alla Vigilanza sarà il primo atto. Con l'obiettivo di accorciare i tempi sulla nomina dei vertici di viale Mazzini. Chiuso anche l'accordo sulla presidenza sul nome di Pietro Calabrese, frutto dell'asse tra Letta e Bettini. Mentre sul direttore generale la rosa si è ristretta a quattro nomi. C'è di più. La trattativa, per il Cavaliere, sarà il vero banco di prova per capire se il segretario del Pd ha intenzione di mollare Di Pietro e percorrere il sentiero di un bipartitismo dialogante. Sullo sbarramento insorgono i piccoli: «Questa norma "salva-Veltroni" è una vergogna» dice Nichi Vendola. Che ieri ha proposto un cartello elettorale «di tutte le forze a sinistra del Pd, dai socialisti a Rifondazione». E Francesco Storace tuona: «Siamo al regime, mancano solo gli stivali».

Baratto. Oppure accordone con dentro di tutto, persino la mai dimenticata, da parte del Cavaliere, riforma della par condicio. L'intesa tra Pd e Pdl sulla legge elettorale per le europee, con lo sbarramento al quattro per cento che provocherà un genocidio partitico alla destra e alla sinistra dei due poli, ha spianato la strada a una serie infinita di ipotesi e voci su un inciucio a partitura multipla: la Vigilanza, il nuovo consiglio di amministrazione della Rai, la giustizia, il federalismo, i regolamenti parlamentari.
I due leader interessati, Berlusconi e Veltroni, si affannano però da ore a far smentire dai loro fedelissimi ogni disegno di grande pacchetto in arrivo. Ecco, per esempio, che cosa dice un berlusconiano di rango: «Nell'ottica del presidente e del gruppo dirigente del Pdl non c'è alcun baratto ma solo un confronto di volta in volta sul merito delle questioni. Ogni cosa viene discussa nel proprio perimetro, non si sconfina mai». Solo che, aggiunge un altro azzurro informato, «se in quel perimetro a trattare sono sempre gli stessi è difficile non pensare a un accordo largo». Insomma la conferma ufficiale del contenitore che si sta costruendo in queste ore non arriverà mai, ma sarà sufficiente attenersi ai fatti per misurare la larghezza del perimetro d'intesa tra Pd e Pdl.
Se, allora, questa è stata la settimana del Veltronellum, su cui poi saranno i capigruppo parlamentari a decidere i tempi di approvazione, la prossima dovrebbe essere quella della Rai. Anche perché, agli occhi della maggioranza, sarà questo il vero banco di prova per capire se il segretario del Pd ha intenzione di mollare Di Pietro e percorrere il sentiero di un bipartitismo dialogante se non mite. Ieri è arrivata un'ulteriore provocazione dal portavoce del premier, il sottosegretario Paolo Bonaiuti, che a proposito della crisi economica ha parlato di un «Veltroni che resta legato al carro dell'Italia dei valori». E rivela un maggiorente del Pdl incaricato del dossier Rai: «Questa settimana non abbiamo forzato la mano sulla Vigilanza per consentire a Di Pietro di fare le sue sparate in piazza. E adesso dopo le cose che ha detto contro Napolitano, Veltroni sulla Rai ha una strada obbligata. Del resto se perde l'Udc per far posto a un dipietrista nel cda rischia di spingere Casini tra le braccia del centrodestra».
La road map per uscire dal pantano di viale Mazzini, il consiglio è scaduto nella primavera di un anno fa, è nelle mani dei presidenti di Camera e Senato. Saranno Fini e Schifani, infatti, a convocare la nuova commissione di Vigilanza della Rai in una finestra tra il 3 e il 5 febbraio. Prima però nomineranno d'imperio i due commissari dell'Idv che Di Pietro si rifiuta di indicare. A quel punto Sergio Zavoli succederà a Riccardo Villari e si procederà all'elezione del nuovo cda come prevede la Gasparri. I plenipotenziari di Berlusconi e Veltroni, rispettivamente Gianni Letta e Goffredo Bettini, stanno lavorando a una griglia che come soluzione forte prevede sempre la presidenza a Pietro Calabrese, ex direttore di Messaggero, Gazzetta dello sport e Panorama. Dal Pdl, però, segnalano in risalita le quotazioni dell'attuale numero uno Claudio Petruccioli. Indicativo dello scontro in atto quanto dice una fonte berlusconiana: «Il Cavaliere punta a tre consiglieri, a partire dalla conferma di Petroni in quota Tesoro. Petroni però non vuole saperne di ritrovarsi nel cda con Petruccioli nuovamente presidente e quindi ha fatto sapere che entrerà solo con Calabrese o altri». Dove per «altri» bisogna intendere l'ex dg Rai Pier Luigi Celli, da sempre etichettato come dalemiano, e il direttore del Sole 24 Ore Ferruccio de Bortoli.
Altro nodo delicato della trattativa in atto riguarda il posto di direttore generale. Nella maggioranza si fronteggiano due schieramenti: il primo propenso a una scelta esterna, il secondo per una soluzione interna. La rosa per un dg proveniente da fuori è di tre nomi: Mauro Masi, segretario generale di Palazzo Chigi; Maurizio Beretta di Confindustria; Fernando Napolitano, manager carico di consulenze e consigliere dell'Enel. Sul fronte interno, invece, la candidatura è unica: Lorenza Lei. Al momento la Lei sembrerebbe favorita ma col passare dei giorni non sono esclusi ribaltamenti improvvisi. Come già sta accadendo, del resto, nella formazione di centrodestra del cda. Se, infatti, dovessero saltare Petroni e anche Urbani, oltre ad Alessio Gorla potrebbero esserci due nomi a sorpresa, tra cui quella di Del Noce.
Negli altri partiti, il totocandidati non presenta scossoni rispetto alle previsioni: Bianchi Clerici per la Lega e Rositani per An. Nell'Udc sono in corsa Erminia Mazzoni e Rodolfo De Laurentiis e nel Pd, infine, tutto è legato alla sorte di Calabrese presidente: se non dovesse passare farebbe comunque il consigliere insieme con Nino Rizzo Nervo. E in nessun caso circolano nomi di dipietristi.

il Riformista 30.1.09
Sbarramento
Finalmente una legge ad personas
Il Veltronellum dannoso ma utile a due persone
di Andrea Romano


È una vocazione irresponsabile quella che spinge Veltroni e Berlusconi a blindare il voto europeo con una soglia di sbarramento tagliata su misura di reciproca convenienza, pochi mesi prima delle urne. Perché questa leggina ad personam (più esattamente "ad duas tantum personas") confermerà nell'elettorato la convinzione che le regole del voto siano determinate unicamente dalle mutevoli convenienze del momento. Oggi quelle convenienze impongono la soglia del 4 per cento, prima delle elezioni del 2006 l'orrido Porcellum fu varato per altre esigenze ma con lo stesso metodo frettoloso e opportunistico, domani saranno forse altri i bisogni da soddisfare per portare un altro colpo alla dignità del voto popolare.
A fare le spese di questa disinvolta gestione delle regole del gioco non saranno solo i piccoli partiti, spinti fuori dalla rappresentanza parlamentare anche a Strasburgo dove pure non esiste alcun imperativo di governabilità, ma la stessa possibilità di una qualsiasi innovazione dell'offerta politica. Che da domani dovrà percorrere una via non elettorale per provare a imporsi all'attenzione del pubblico, diversamente da quanto è stato concesso ormai molti anni fa persino alla Lega dell'allora senatore unico e rivoluzionario Umberto Bossi.
È un'irresponsabilità condivisa dai due poli, con Berlusconi che fa un altro passo verso il traguardo del partito unitario del centrodestra, ma che appare particolarmente utile al Pd. O meglio, utile all'equilibrio di potere che mantiene in vita il Pd così come concretamente appare agli italiani. E dunque alla leadership traballante di Veltroni, con la sua corte di colonnelli mugugnanti ma privi di alternative. Perché possiamo anche apprezzare il gesto retorico di Dario Franceschini (che ha sostenuto che «la riforma serve al Paese e ai nostri figli») ma è evidente che la toppa dello sbarramento europeo non porterà alcun giovamento né al Paese né tantomeno ai nostri figli.
Rimane da vedere se il Veltronellum sarà utile almeno a Veltroni, che accantona l'ambizione di qualificare politicamente la propria leadership per abbracciare la strategia degli espedienti come metodo di sopravvivenza. In questo caso l'espediente è una nuova scommessa sul voto utile, che lo scorso aprile non bastò a garantirgli la vittoria e che il prossimo giugno confida di vedere resuscitato in condizioni generali assai meno favorevoli. Perché nel frattempo la sinistra radicale non ha smesso di frantumarsi ma l'effetto novità del Pd ha fatto la fine che conosciamo, con il rischio che alle europee una parte decisiva dell'elettorato faccia scattare una sorta di operazione "salviamo il panda". Con tanti saluti alla soglia del 30 per cento, che pure rappresenterebbe una ben misera linea di galleggiamento per questo Pd.
È dunque una scommessa avventurosa quella di Veltroni, e senza la nobiltà residua della "vocazione maggioritaria", che tale non è mai stata perché fin dall'inizio sostenuta dall'alleanza con Di Pietro. Oggi questo sbarramento artificioso non sarà compreso dal Paese e verrà letto come un tentativo di uccidere nella culla qualsiasi tentativo di discutere alla luce del sole la missione del Pd. Ma nel surreale spirito bipartisan da cui è animato produrrà qualche ricompensa per entrambi i contraenti. Certamente non saranno quelle riforme condivise che l'incedere della crisi rende sempre più urgenti, ma forse sarà qualcosa di più vicino alle sensibilità di Veltroni. Ad esempio la Rai, dove c'è da scommettere che il pantano nel quale il suo Pd si è cacciato con i propri piedi sarà magicamente dissolto nel giro di pochi giorni.

il Riformista 30.1.09
Vinti e mazziati, la rivolta dei "piccoli"
di Alessandro De Angelis


NICHI VENDOLA. «Un'alleanza elettorale con tutte le forze a sinistra del Pd, dai socialisti a Rifondazione»: la ricetta del leader della neonata Rps per non sparire anche in Europa. «Che vergogna cancellare il pluralismo in nome della governabilità».

«Un cartello elettorale di tutte le forze a sinistra del Pd»: il governatore della Puglia Nichi Vendola spiega la sua proposta anti-sbarramento.
Vogliono farvi fuori anche in Europa?
Questa storia della frammentazione è davvero la foglia di fico con cui si copre una vergogna: la cancellazione del pluralismo in nome della governabilità. Non c'entra nulla col parlamento europeo che non elegge alcun governo e ha bisogno di rappresentanza di culture politiche che arricchiscano l'Europa. È veramente un parossismo: la cultura liberaldemocratica nega il rispetto delle minoranze.
Quindi, che propone?
Un'alleanza elettorale con tutte le forze a sinistra del Pd, dai socialisti a Rifondazione. Sarebbe un atto di responsabilità che apre la prospettiva a una battaglia politica diversa dalla pura difesa esistenziale e che tiene insieme le tante storie e tradizioni della sinistra, in nome di un'altra Europa, dei diritti e della giustizia sociale.
In altri paesi però ci sono soglie di sbarramento.
Quando sono in ballo atteggiamenti impresentabili tutti diventano esterofili. Diciamoci la verità: questa è una norma "salva-Veltroni". Un tentativo del Pd per arginare la propria crisi e per il Pdl di inglobarlo in una sorta di governo allargato.
Che intende per governo allargato?
A prescindere dalle chiacchiere sull'antiberlusconismo buone per strillare la domenica, questo governo allargato vive in una cultura leghista che mette in consonanza pezzi dei due poli, nell'assalto alle risorse del Mezzogiorno, nell'acquiescienza al federalismo sotto l'egemonia nordista. E potrei continuare.
Sulla proposta che fa si è consumata la scissione del Prc.
È una cosa diversa. Noi, al congresso, ponemmo il problema che tante storie dovevano mettersi in gioco in un soggetto unitario e plurale. Poi siamo usciti da un partito schiacciato su una deriva iper-identitaria. Ora non sto riproponendo a Ferrero un soggetto unitario. Dico a un campo di forze che va dai socialisti a Rifondazione che è necessario che la sinistra politica cerchi un minimo comune denominatore per il passaggio elettorale. Anche la questione del simbolo è secondaria.
Ferrero dice: prima blocchiamo la legge, poi discutiamo.
Io dico che la forza politica della proposta del cartello ha un valore in sé, tanto più all'indomani della nostra fuoriuscita. Dà speranza a tutto il popolo della sinistra e rende più efficace la lotta contro lo sbarramento. Se non dovesse essere condivisa perseguiremo l'unità possibile.
Si aspettava che nel Pd D'Alema battesse un colpo?
Più che altro vorrei dire a Veltroni "batti un colpo" e non sulla testa della sinistra. Anche perché sarebbe il secondo. Quanto poi al Pd mi domando: che altro dovrebbe fare per rendere visibile la sua cifra neocentrista?
Quindi il Pd è un capitolo chiuso?
È un capitolo apertissimo. I partiti non sono mummie, sono corpi viventi. E se si aprono varchi, la mia cultura comunista mi porta a guardare la dialettica di ogni partito. Perché non dovrei essere curioso di una apertura a sinistra del Pd?

il Riformista 30.1.09
Fine vita o fine Pd?
Binetti all'attacco: «Scontro culturale»
di Sonia Oranges


Polemiche. La deputata teodem replica alla lettera al "Riformista" con cui Finocchiaro ha annunciato che nei gruppi parlamentari del Pd si voterà sul testamento biologico: «Si tenta di emarginarci, la via da seguire è un'altra».

Anna Finocchiaro e Marina Sereni hanno annunciato, dalle colonne del Riformista, la controffensiva laica sul testamento biologico con la votazione, nel gruppo pd al Senato, sulla linea da tenere in aula, spingendo sulla posizione che vuole assicurate idratazione e nutrizione al paziente fino al termine della vita, salvo che la loro sospensione sia espressamente oggetto della dichiarazione anticipata di trattamento. Un "salvo che" mai digerito dal gruppo dei teodem e ora reso ancora più indigesto da una conta che, come spiega la senatrice Paola Binetti, a loro avviso non renderebbe giustizia a un sentimento in realtà maggioritario nel Paese.
Cosa pensa della lettera di Finocchiaro e Sereni?
Mi ha sorpreso che citassero solamente il disegno di legge di Ignazio Marino, quando c'era anche quello della Baio e mio in cui emergevano in anticipo le posizioni su cui ora divergiamo. Non m'è parso corretto, ma da sempre in direzione c'è stato un atteggiamento di orientamento privilegiato per quel ddl. Inoltre, riferendosi al gruppo di lavoro sul tema, parlano di una posizione condivisa su nutrizione e idratazione, quando la Coscioni e io dissentivamo, pur se per motivi diversi. D'altra parte, è vero che proprio quel gruppo di lavoro ha fatto fare un notevole salto in avanti al nostro dibattito interno, almeno rispetto all'iniziale proposta di Marino. Tanto per cominciare, il riconoscere che idratazione e nutrizione non sono accanimento terapeutico.
Nessun problema allora, anche perché ognuno avrà libertà di votare secondo coscienza...
Il problema invece c'è. E non è tanto sapere se ho libertà di coscienza, perché è uno statuto del parlamentare, ma il sapere se la cultura che rappresentiamo, che è quella di parte prevalente del mondo cattolico, ha un luogo di rappresentazione all'interno del Pd, al di là dei numeri. Oppure se il Pd si riconosce in una cultura altra. Vogliamo contarci? Bene. Sono curiosa di sapere come voteranno in tanti, al di là della politica, su una scelta di coscienza. Chi siamo? quanti siamo? Quanto pesa questa cultura? È questo il vero tema su cui si gioca lo sviluppo del Pd. Nulla di molto diverso, a ben pensarci, dal dibattito che in questi giorni anima il sindacato in materia di contratti: sono due modelli culturali diversi. Ora il Pd deve decidere se assumere la logica di valore di un pensiero nuovo, in cui la vita è un bene indisponibile, scegliere se assimilare il nostro portato oppure emarginarlo. Perché se la scelta è la seconda, è bene che sia fatta ma anche dichiarata. Subito e prima che si vada alle elezioni, ora che in periferia si costruiscono le posizioni.
Ma perché votare rischiando una frattura?
Me lo sono chiesto anche io. Vede, la Bindi aveva considerato più importante lavorare per condividere un progetto. Ora non so che bisogno ci sia di contarci in anticipo, visto che poi in aula comunque ognuno si esprimerà secondo coscienza. Vogliono sapere quanti si riconoscono nel nostro messaggio valoriare? Quanti cattolici ci credono per davvero? Sembra quasi che ci sia il pressing di qualcuno che vuole rendere egemone un filone di pensiero.
Come andrà a finire?
È una storia tutta da scrivere, anche con questa battaglia. La diversità non dovrebbe diventare ostilità, ma c'è chi ha un continuo bisogno di dire che siamo inifluenti. Certo, numericamente siamo minoritari, ma credo il progetto che rappresentiamo sia maggioritario. Ma se lo sono domandato perché siamo al 23% e perché rischiamo di scendere al 21?

il Riformista 30.1.09
Grido d'allarme. La comunità preoccupata per un'ondata di antisemitismo è in rotta anche con il Governo
Gli ebrei di Germania decidono di rompere con il Papa tedesco
Crisi continua.Il Gran Rabbinato d'Israele annulla un incontro in Vaticano. Ma il messaggio più doloroso per Benedetto XVI arriva da casa.
di Paolo Petrillo


Berlino. «Mentre rinnovo con affetto l'espressione della mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza, auspico che la memoria della Shoah induca l'umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell'uomo.» Sembrava che le parole pronunciate mercoledì da Benedetto XVI avessero, se non placato, almeno avviato a soluzione la dura polemica scoppiata fra Chiesa cattolica e mondo ebraico in seguito al ritiro della scomunica del vescovo Richard Williamson, lefebvriano e negazionista. Sembrava che il Gran Rabbinato d'Israele le avesse apprezzate, quelle parole, e che, pur «riservandosi di discutere», le considerasse «un gran passo avanti per risolvere la questione». Sembrava, ma forse non è così.
Dalla Germania, luogo sensibilissimo quando il discorso verte su antisemitismo e Olocausto, è arrivato ieri un segnale esplicito: Charlotte Knobloch, presidente del Consiglio generale delle Comunità ebraiche tedesche, esclude al momento la possibilità di riprendere il dialogo con il Vaticano. «Non ho a che fare con persone che non sanno quello che fanno» ha spiegato la signora Knobloch in un'intervista apparsa sul quotidiano Rheinische Post. «Il Papa è una delle persone più colte e più intelligenti di cui la Chiesa dispone. Ed è convinto e consapevole di ogni parola che pronuncia». La dichiarazione di solidarietà pronunciata all'Udienza generale in Vaticano è quindi apprezzabile, ma non sufficiente. Urgono altri passi. «Riammettere una persona, che nega l'esistenza storica delle camere a gas, all'interno di una comunità di cui non è degno, rimane per me cosa inaccettabile - ha detto ancora la Knobloch - quindi al momento, e in queste condizioni, con la Chiesa non vi sarà di sicuro alcun dialogo. Anche se sottolineo: al momento».
Ad ascoltare i commenti che, intorno alla vicenda, ha rilasciato Stephan Kramer, segretario generale delle Comunità ebraiche tedesche, si ha però l'impressione che ad alimentare l'intransigenza della signora Knobloch non vi sia solo la polemica in corso in questi giorni. Sullo sfondo, infatti, si profila una più generale preoccupazione: quella di trovarsi di fronte, soprattutto in Germania, a una montante ondata di antisemitismo. Che, secondo le Comunità, potrebbe trovare nel «perdono» papale a Williamson un ulteriore e pericoloso incentivo. «All'interno delle comunità tedesche - ha spiegato recentemente Kramer alla Frankfurter Allgemeine Zeitung - l'antisemitismo è di nuovo il principale tema di dibattito». I sintomi, a suo avviso, sono molteplici: si pensi all'aumento degli atti di violenza contro luoghi o persone appartenenti al mondo ebraico. O agli slogan antisemiti che hanno accompagnato alcune delle manifestazioni di protesta organizzate in Germania durante i bombardamenti israeliani su Gaza. «E con il suo gesto - ha commentato Kramer - il Papa sembra aver voluto mettere un negazionista sotto la propria ala protettrice».
Non basta. Le comunità ebraiche temono che anche il governo tedesco - che per responsabilità storica dovrebbe vigilare al massimo - si stia invece lentamente dimenticando di loro. L'ultima occasione di polemica è recente, risale al 27 gennaio, giorno dedicato alla memoria della Shoah. Durante un incontro al Mausoleo dell'Olocausto - a Berlino, vicino alla Porta di Brandeburgo - la signora Knobloch ha annunciato che, in segno di protesta contro la scarsa attenzione mostrata dal governo federale nei confronti e dei sopravvissuti ai campi di sterminio e della propria organizzazione, quest'anno non avrebbe partecipato alla rituale cerimonia nell'aula del Bundestag. «Abbiamo avuto l'impressione di essere considerati soltanto degli spettatori - ha commentato Kramer - e che a nessuno importasse veramente della nostra presenza».
La signora Knobloch ha ribadito che «al momento» non è pronta a riprendere il dialogo. Forse vuole ulteriori rassicurazioni sul fatto che nessuno, dentro il Vaticano, si permetta di considerare l'antisemitismo come questione non dirimente, o sorpassata. «Ciò che mi augurerei - ha detto rispetto al ritiro della scomunica di Williamson - è un grido di protesta da parte di tutta la Chiesa».

il Riformista 30.1.09
La vergogna non è sentimento per Toni Negri
di Francesco Bonami


Oggi il professore invoca l'amnistia per tutti i condannati di reati "politici" durante gli anni di piombo. Fa rabbia e pena nella sua insistenza nel definire "politici" quelli che sono stati e rimangono semplici e brutali crimini. Abbia invece il coraggio di dichiarare sotto giuramento: «Sono stato, siamo stati e rimaniamo dei poveri stronzi, e per questo vi chiediamo perdono»

Caro Bob - Gli anni del terrorismo in Italia sono ancora pesanti come quel piombo che alcuni disgraziati si sentirono in dovere di distribuire dichiarando guerra a un governo democratico con l'obbiettivo...?
E sì, perché dimentichiamo spesso di chiederci quale fosse davvero l'obiettivo di questa famosa "guerra".
La distruzione del sistema imperialista delle multinazionali? Lo sterminio dei servi dello Stato?
Ma allora si sarebbero dovuti fare fuori gli impiegati delle Poste, delle Usl che a quei tempi si chiamavano Enpas, della Sip, tutti i ferrovieri eccetera eccetera. Le guerre si dichiarano con un motivo, liberare la propria terra, difendere i propri confini, conquistare un paese nemico che ci minaccia o liberarne un'altro. Senza un obiettivo concreto non si può parlare di guerra ma solo di terrore un tanto al chilo.
Oggi il professor Toni Negri invoca l'amnistia per tutti i condannati di reati "politici" durante gli anni di piombo. Negri fa rabbia e pena nella sua insistenza nel definire "politici" quelli che sono stati e rimangono semplici e brutali crimini. L'Italia non ha necessità di un'amnistia che metta in libertà i già liberi Cesare Battisti o la signora Marina Petrella, a quella ci pensano Paesi come il Brasile che forse - non amando rovistare nei suoi anni di piombo (come hanno fatto Argentina e Cile ) dal 1964 al 1985, quando la dittatura militare ne fece di cotte e di crude - è più disposto a chiudere un occhio anche sul Cocido y Crudo di altri Paesi. Oppure ci pensa la Francia con la Carla che l'è più bella quando non parla.
L'Italia avrebbe avuto bisogno di una commissione, come quella sudafricana alla fine dell'apartheid, per "la Verità e la Riconciliazione". Una commissione non legale ma morale dove le vittime ascoltavano i colpevoli anmmettere le loro colpe e i loro errori. L'amnistia che chiedono Negri e compagni è invece un colpo di spugna su colpe ed errori. La miseria della maggior parte dei terroristi viene a galla in questo rifiuto testardo nel non voler dichiarare pubblicamente e umilmente: «Siamo stati colpevoli. Siamo stati dei semplici delinquenti che non avevano capito nulla. Siamo stati e siamo degli emeriti incapaci che hanno prodotto soltanto inutile male e inutile dolore». Solo ripetendo davanti a una commissione ufficiale queste parole accompagnate da una confessione dei propri crimini, questi signori potrebbero finalmente aiutare il Paese a cicatrizzare la sua ferita.
Invece no. Negri vuole andare a Rio de Janeiro in sostegno di Battisti con altri sfiancati fiancheggiatori. Ma questo capitolo della storia italiana non può finire con un "bomba libero tutti" come si fa a nascondino. Negri non vuole né verità, visto che sostiene la falsità dell'innocenza di Battisti, né riconciliazione. Negri non era forse colpevole quando fu condannato, ma lo diventa oggi sostenendo immoralmente i crimini che altri hanno commesso insistendo a definirli "politici".
Adriano Sofri, che almeno ha confessato la sua colpevolezza morale nell'omicidio Calabresi, alla fine del suo libro, forse involontariamente fa un'altra confessione più grande di quella che avrebbe voluto fare. Alla domanda su cosa accadde in quella stanza della Questura di Milano dove Pinelli volò fuori dalla finestra, Sofri risponde «Non lo so».
Tutti però sanno che cosa accadde a Luigi Calabresi e alle altre vittime del terrorismo. Il nocciolo sta qui. Negli anni di piombo la gente ha ucciso senza sapere niente, muovendosi come un branco di criminali ignoranti, non di rivoluzionari. Una profonda e violenta ignoranza che quasi nessuno dei responsabili vuole ammettere apertamente, pubblicamente e ufficialmente. Senza infiorettature intellettuali, ideologiche o teoriche. Non sapevamo, ma nel dubbio uccidevamo.
Se desidera tanto l'aministia per le «vittime del sistema delle multinazionali», il professor Negri abbia il coraggio di dichiarare sotto giuramento: «Sono stato, siamo stati e rimaniamo dei poveri stronzi, e per questo vi chiediamo perdono».

il Riformista 30.1.09
Sciopero dietro l'angolo
di Tonia Mastrobuoni


METALMECCANICI. Le tute blu aspettano e temono le decisioni del governo. Negli stabilimenti Fiat cresce la preoccupazione.
Il "patto di non belligeranza" dell'autunno scorso regge. Nonostante la spaccatura sulla riforma dei contratti tra Cgil, Cisl e Uil, i metalmeccanici dei tre sindacati restano convinti di voler affrontare la crisi uniti. Soprattutto, vogliono attraversare insieme la difficile fase che sta caratterizzando la Fiat, che il ministro Scajola ha quantificato mercoledì in termini di peso sul prodotto interno lordo: «l'industria dell'auto vale da sola l'11,4 per cento del Pil». Ma nel day after di quel deludente vertice, come viene unanimente considerato in tutti gli stabilimenti Fiat, tutto tace. Una calma apparente, perché tra dieci giorni - il tempo che si preso l'esecutivo per decidere sugli aiuti al settore - la situazione potrebbe esplodere, se venissero confermate le «ridicole» cifre di cui si vocifera, come osserva Andrea Amendola, responsabile auto Fiom-Cgil Campania. Quel che si profila concretamente, se gli interventi saranno giudicati insufficienti dai metalmeccanici, ammette un sindacalista Fim-Cisl a microfoni spenti, è uno sciopero generale del settore (ma solo dopo il 13 febbraio, quando la Fiom incrocerà le braccia contro la firma separata sul riordino del modello contrattuale).
Nell'attuale situazione già tesa - in molti stabilimenti si lavora ormai una settimana al mese e molti operai percepiscono salari attorno ai 700 euro sin dallo scorso autunno - qualsiasi tipo di mobilitazione «è difficile», racconta Maurizio Peverati, segretario Uilm-Uil in Piemonte. Per il sindacalista «il problema è che la Fiat si espande all'estero e ha problemi in Italia. Se tra dieci giorni il governo dovesse mettere sul piatto risorse insufficienti e distribuite male, cioè troppo diluite, nelle fabbriche ciò avrebbe un effetto deflagrante». La politica, chiosa Peverati, «non capisce». A una recente iniziativa organizzata sulla questione a Torino, dei 74 parlamentari eletti in Piemonte, «se ne sono presentati 5», racconta amareggiato.
Se in Piemonte il problema è già molto sentito, al Sud assume toni drammatici. Nei due stabilimenti più vulnerabili, quello campano di Pomigliano e quello siciliano di Termini Imerese, gli operai fanno fatica a scommettere sulla sopravvivenza oltre il 2009. È uno dei motivi per cui i vertici dei sindacati metalmeccanici hanno chiesto a Palazzo Chigi di vincolare gli aiuti Fiat all'impegno a non chiudere neanche uno stabilimento e a investire le risorse in Italia e non all'estero. Giovanni Sgambati, segretario campano Uilm-Uil: «nel nostro stabilimento è imminente la fine della produzione della 147 e del Gt. Poi cosa faremo?». Aggiunge Amendola (Fiom) che «a luglio del 2008 ci avevano promesso che avremmo prodotto qui le Bravo. Poi non abbiamo saputo più niente». Fuori dalla fabbrica Fiat e dall'indotto "regolare" la situazione è esplosiva, raccontano altri che preferiscono l'anonimato. «Qui c'è un indotto in nero su cui non c'è un controllo sindacale. Se i soldi non arrivano o non ne arrivano abbastanza, lì esplode tutto», racconta uno. L'area è già sotto un forte stress, ammette Sgambati, «perché inevitabilmente chi guadagna 700 euro al mese fa un secondo lavoro in nero, si improvvisa idraulico o carpentiere, e sottrae lavoro a chi non ce l'ha. Si rischiano tensioni sociali incontenibili, di questo passo».
A Melfi, in Basilicata, le prospettive sono meno cupe, racconta Carmine Vaccaro, segretario regionale Uilm-Uil. «Ma è assurdo - nota - che il governo non si senta responsabile per un milione di lavoratori del settore dell'auto. Adesso la protesta è soffocata dalla paura di perdere il posto del lavoro. Ma che succederà tra dieci giorni?» Roberto Mastrosimone, segretario della Fiom di Palermo, teme invece la chiusura di Termini Imerese: «siamo quelli messi peggio di tutti, siamo al cambio di modello e senza prospettive». E in questo quadro grave, «ci si mette anche il governo che prende tempo sugli aiuti e ci fa perdere ogni giorno una fetta di mercato». Il 13 febbraio la sua organizzazione sciopererà contro al riforma del modello contrattuale. È un giorno nel bel mezzo dell'unica settimana di lavoro di febbraio, nello stabilimento siciliano. «Ma noi sciopereremo lo stesso», scandisce.

il Riformista 30.1.09
Filosofia. L'ultima lezione di Foucault
L'elogio dei cinici
di L.A.


Parigi. Archeologo dei saperi e storico delle idee, durante tutta la sua vita Michel Foucault si è impegnato in un'opera di svelamento dell'autorità dietro le supposte verità del discorso, in un sapiente processo di decostruzione delle strutture storico-culturali dell'ordine del discorso, per far apparire dietro il sapere ciò che sempre vi si cela: il potere appunto. Poi, nell'ultima parte della sua vita, il suo percorso intellettuale cambia direzione e il professor Foucault si avvia verso l'esplorazione di un territorio vasto come quello del cosa voglia dire «dire la verità», sempre più abitato, col passar del tempo, dall'ossessione della Verità non come discorso, ma come atto. La contraddizione stessa della «vita filosofica» che Foucault, in quanto professore e filosofo militante, ha incarnato fino alla fine.
Gli ultimi due corsi al College de France, che vanno sotto il titolo di Il governo di sé e degli altri, girano con accanimento intorno a questa antinomia, come conferma anche Il coraggio della verità, volume appena pubblicato in Francia con le lezioni dell'84. Le ultime di Foucault, iniziate in ritardo a febbraio a causa della malattia e finite a fine marzo con la frase, «ora è troppo tardi». Per dipanare certi fili, per seguire certe intuizioni, per percorrere certi cammini. Il corso volge al termine e la vita minata dall'Aids si «cancella». Foucault morirà qualche settimana più tardi, in giugno, non prima però di averci lasciato questo corso che costituisce il suo «testamento» filosofico.
Come in quello precedente, anche in questo Foucault parte dal concetto di parresia, dal greco «dire la verità», parlar franco. E come sempre in lui dalla disamina della filosofia antica, da Socrate a Platone, da Seneca a Crisostomo, fa scaturire l'attualità dal passato, parla dell'epoca contemporanea parlando del mondo greco. Perché Socrate ha detto la verità agli ateniesi anche se rischiava la vita? Per, dice Foucault, «incitarli ad occuparsi non della loro fortuna, della loro reputazione, del loro onore, ma di sé stessi, cioè: della loro ragione, della verità della propria anima». La parresia è infatti «una nozione politica», perché dire la verità sottopone al rischio della vita, come Socrate ci insegna. Dal «dire vero» si passa presto, infatti, alla «vita vera», alla «vita filosofica». Così come, dice Foucault, mostra la condotta di vita dei filosofi cinici. Cinico viene da kynikos, aggettivo derivante da kyon, cane. Diogene vive in una botte, si spoglia delle costruzioni della civiltà, vive letteralmente come un cane, scandalosamente. Fa della filosofia un mezzo per trasformare la propria vita, e immediatamente la verità che essa incarna diventa scandalosa. Perché la verità delle parole, da tutti condivisa, entra in conflitto con la verità della pratica, da tutti vituperata. È la differenza che passa tra la parresia di Socrate, che conduce fino alla morte, e quella di Platone, confinata nel mondo delle Idee. È la spaccatura che si crea nel mondo occidentale tra la filosofia come «conoscenza dell'anima» e metafisica, che arriverà a produrre il professore di filosofia pagato dallo Stato; e la filosofia come «prova della vita», che verrà incarnata dall'asceta, dal monaco e dal rivoluzionario. O, ultimo tra i filosofi, da Spinoza che rifiuta l'insegnamento.
Foucault rimanda nel suo ultimo corso alla contraddizione che lui stesso incarnava, del professore che scredita la cattedra da cui parla. In fin dei conti nella sua pratica militante e di professore, il testamento di Foucault sta proprio in quella sua necessità d'insegnare perché bisognerebbe insegnare in un modo differente da quello che lui stesso ha dovuto assumere.

Corriere della Sera 28.1.09
La pelle conosce segreti che il dormiveglia rivela
Il mondo interiore è scritto sul corpo
Visioni di luci, geometrie o moti di oggetti, a seconda della zona stimolata prima del sonno
di Giuseppe Bonaviri


Alcuni anni or sono, ho pubblicato, con Mondadori un romanzo dal titolo Il dormiveglia. In appendice al romanzo, era presente un «trattato pseudoscientifico» sulle percezioni sensoriali che precedono la fase del sonno e che sono legate alle varie sollecitazioni cutanee cui siamo sottoposti. Bisogna almeno premettere che, secondo studi medici, dallo stesso foglietto del neo-embrione si formano sia la sfera celebrare che la cute. Quest' ultima - da certe mie ricerche fatte all' epoca della stesura del romanzo, avendo svolto la professione medica per cinquant' anni - ha una funzione «mini pensante» per cui possiamo relativamente stabilire una mappa cutanea dei pensieri che ci sopraggiungono nella fase del dormiveglia. Assai brevemente possiamo accennare al fatto che se una persona ha degli stimoli cutanei sul viso mentre sta per addormentarsi, vede delle luci, delle lampade accese, e tutto ciò che è legato alla luce, perché viene a essere stimolata una particolare area cerebrale visiva. Se tali stimoli, sotto varie forme, interessano le braccia, colui che sta per addormentarsi crede di vedere degli oggetti in movimento. Se i cosiddetti stimoli sensitivi partono dall' addome si ha una visione di alimenti diversi che, generalmente, partono dal pane e si articolano verso cibi ben più complessi e diversi. Quando lo stimolo, invece, parte dai piedi si visualizzano vie e strade sia terrestri che marine e, in rari casi, aeree; la gola genera visioni di alimenti che arrivano e scompaiono rapidamente. A mio avviso, però, la zona cutanea più strana e singolare è l' area inguinale dove è localizzata l' idea primordiale di un Dio che ci ha creato e ci ha lasciato dei segni «mini geometrici», così come diceva Platone: se, infatti, tale area è stimolata noi vediamo una successione di elementi geometrizzabili. Insomma, sulla nostra cute si riflette un mondo interiore che non emergerebbe, anche se solo in forma onirica, se non ci fossero tutte queste successioni di punti stimolati. La nostra sfera onirico-psichica è tuttora tutta da studiare e ci riserverà notevoli e meravigliose sorprese. Ci vorranno, secondo me, molti anni ancora perché si possa entrare nel mistero di un organismo e nel mistero di un Dio che si diffonde per miliardi di chilometri fra galassie e sistemi stellari, dei quali non comprendiamo quello che hanno significato nei secoli passati e significheranno nei secoli futuri. I nostri posteri sicuramente conosceranno e vedranno cose che per noi sono impensabili e completamente ignote.

Repubblica 27.7.05
Il personaggio
Il lancio della candidatura nella libreria dello psicanalista Fagioli tra gli applausi di militanti e fan
Fausto abbraccia il Guru e s'affida alla Provvidenza rossa
Per il leader del Prc una grande cornice mediatica: il rituale di applausi, grida festose e foto scattate con i telefonini
Adorato dalle signore dei salotti
Dice di lui Suni Agnelli: "Si ama la politica e si finisce per innamorarsi di Bertinotti"
di Filippo Ceccarelli


Dio li fa e poi li accoppia. Anche applicato a non credenti, o a persone «in ricerca», come potrebbero essere l´onorevole Fausto Bertinotti e il professor Massimo Fagioli, il vecchio proverbio non solo conferma la propria inesorabile certezza, ma si preoccupa pure di gestire l´accoppiamento, lo rende visibile, gli dà una cornice mediatica, gli monta attorno un rituale fatto di applausi, grida festose e foto scattate con i telefonini tanto dai rifondatori quanto dalla gran massa dei «fagiolini», come ormai da un quarto di secolo vengono chiamati nella sinistra romana i seguaci di Fagioli.
Con il che si va ad allestire la scena, usciti sgocciolanti come sommergibilisti dalla libreria-sauna "Amore e Psiche", sotto lo schioppo del sole, il Leader e lo Psicoterapeuta si abbracciano. Una, due volte, per la comodità dei fotografi. I vigili urbani hanno addirittura chiuso la strada. Bertinotti è pelato e indossa un abito chiaro, Fagioli ha una chioma fluente, autorevole, ma è vestito più sciolto, una camicia azzurra e occhiali da sole un po´ cattivi.
Le lingue lunghe della politica dicono che c´è lui, già guru di Marco Bellocchio, dietro la svolta neo-esistenzialista e non violenta di Bertinotti, e la riprova starebbe nel fatto che per lanciare - con accaldata scomodità, invero - la sua candidatura alle primarie, abbia scelto proprio quella libreria che Fagioli, cui i fans attribuiscono un genio quasi leonardesco, ha addirittura progettato e realizzato con archi e scale in legno chiaro, piuttosto elegante.
Fagioli, infatti, è un guru, un classico guru. Giovane e luminosa promessa della psicanalisi freudiana, già negli anni sessanta ne scosse le fondamenta guadagnandosi la disagevole, ma esaltante fama di eretico, che in seguito estese anche al marxismo. Fu scacciato dalla Spi e malvisto dall´ortodossia comunista, ma dalla sua aveva esperienza, fascino e carisma. Fece ricerca per conto suo, alla metà degli anni settanta ebbe un successo travolgente tra i giovani di sinistra, molti in via di disperato disincanto, che lo inseguivano in cliniche psichiatriche, università e conventi occupati, a migliaia, per farsi interpretare i sogni.
Era l´Analisi Collettiva, o psicoterapia di folla (gratuita, comunque), in pratica l´evoluzione dell´assemblea in senso introspettivo. I «fagiolini», imploranti, alzavano la mano e il Maestro sceglieva a quale domanda dare corso. Per dire il successo di quelle atmosfere, a un certo punto venne fuori pure una radio «fagiolina», con conferenze e telefonate in diretta. Arrivò la gloria, naturalmente, ma anche una stagione di polemiche. Ai tempi de «Il diavolo in corpo» Bellocchio fu duramente contestato dal produttore perché si portava Fagioli sempre sul set, come regista del regista, lasciandogli mettere bocca anche sul montaggio.
Vera, falsa o enfatizzata che fosse, la venerazione di parecchi pazienti, pure ribattezzata «massimo-dipendenza», finì per alimentare attorno a Fagioli e ai suoi fans una qualche sulfurea nomea di setta. Ma di tutto, com´è noto, i guru possono preoccuparsi, meno che di quella. Così, nel tempo, il Maestro ha continuato a scrivere sceneggiature per Bellocchio, come pure ha seguitato adoratissimo a guarire, a insegnare, a editare pubblicazioni, a disegnare mobili e ispirare architetti; si è pure fatto celebrare in un paio di convegni, uno dei quali divenuto autocentrico documentario; quindi ha girato un film tutto suo, «Il cielo della luna», per il quale ha scelto le musiche e recitato la parte di un barbone, per quanto muto, lasciando il ruolo dei protagonisti a due «fagiolini». E infine - qui viene il bello - Massimo Fagioli ha incontrato Bertinotti.
Il bello sta nella fantastica circostanza che anche Bertinotti è un po´ un guru. Certo: rispetto allo psicanalista se lo può permettere di meno, con sei correnti, tre solo trotzkiste, nel suo partito. C´è però da dire che «il Grande Fausto», come l´ha chiamato Liberazione il giorno del suo compleanno, è un santone a suo modo poliedrico, un seduttore adattabile, un poetico cacciatore di anime che sa sempre cogliere il momento.
Così, più che con gli impervi trotzkisti, vale la pena di vederlo all´opera nella sua intensa vita mondana: cortese, elegante, telegenico, pacato, con tanto di erre moscia e civettuola bustina portaocchiali. Come tale invitatissimo «prezzemolino», insieme con la simpatica moglie signora Lella, record di presenze a Porta a porta, premio Oscar del Riformista: «Si ama la politica - ha detto di recente Suni Agnelli - e si finisce per innamorarsi per Bertinotti».
Le signore, specie quelle dei salotti-spettacolo di una Roma al tempo stesso prestigiosa e sgangheratissima, vanno pazze per lui: e lui lo sa. E non c´è niente di male, non è reato frequentarle, tantomeno è peccato ritrovarsi con i reduci del Grande Fratello. E´ solo un po´ buffo, o surreale, o straniante, come in un film di Bunuel, veder così spesso Bertinotti in foto al fianco di Donna Assunta Almirante, o a Maria Pia Dell´Utri, sorridente con Valeriona Marini, Cecchi Gori, Romiti, Sgarbi e Marione D´Urso; oppure intervistato sulla fede da don Santino Spartià, comunque assiduo a casa Suspisio, immancabile a villa «La Furibonda» di Marisela Federici. E insomma tutto bene, ci mancherebbe altro, però il giorno dopo è curioso sentirlo parlare del «popolo», parola desueta, parola potente. Chissà se il popolo si divertirebbe pure lui a «La Furibonda» o a «La Città del Gusto».
Ad "Amore e Psiche", intanto, lo Psicologo è rimasto nobilmente in platea a fare sì-sì con la testa non appena il Politico dava segno di aver assorbito un linguaggio che si nutre ormai di «felicità», «premonizione», «desiderio», «promessa», «liberazione», «attesa». A un dato momento, deposti i vecchi attrezzi lessicali vetero-marxisti, Bertinotti ha pure invocato la «Provvidenza rossa». Fuori, dietro le vetrine, la gran massa degli adepti animava la strada con sorrisi e applausi. Dopo l´abbraccio, c´è il tempo per un´ultima domanda, con la speranza che non suoni troppo indisponente: «Scusi, Fagioli, ma chi è più guru: lei o Bertinotti?». E il Maestro, senza fare una piega: «E´ più guru Bertinotti». Ma forse, per una risposta più articolata, potrebbe non bastare un seminario.