Repubblica 27.9.08
Il vento della violenza
di Adriano Prosperi
Integrazione, due o tre cose che so di lei. C´è quella post mortem. È toccata al ragazzo quattordicenne morto carbonizzato due giorni fa a Sesto San Giovanni. Veniva dalla Romania, si chiamava Marian Danilà, ma il brevissimo stelloncino di cronaca comparso ieri a pagina 27 del Corriere della sera gli ha regalato un nome italiano: Daniele Mariano. A lui, prima della morte, l´Italia ha offerto il calore delle tende di nylon e delle coperte di pile con cui si difendeva dai primi freddi nello scenario apocalittico delle macerie di un capannone abbandonato dell´area ex-Falck. Qui vivono centinaia di persone, ha detto alla cronista di Repubblica don Massimo Capelli della Casa della Carità. Carità, non diritti. Secondo don Massimo, «ci sono stati già quattro morti alla Falck, ma il comune sa fare solo sgomberi». Questo pezzo di umanità è immondizia da eliminare; i vivi con lo sgombero forzato, i morti con rapide e distratte informazioni. Queste le condizioni che la più moderna e ricca regione italiana ha fissato per loro.Nella cronaca del telegiornale Rai della sera si è levato il grido di un anonimo abitante del capannone: «I zingari vogliono integrare in società!».Dunque integrarsi ha per qualcuno un valore positivo in Italia. Ci si chiede da quale distanza arrivi l´invito di Tariq Ramadan (Islam e libertà, tradotto in italiano da Einaudi) a non parlare più di integrazione. Secondo Tariq Ramadan la parola deve scomparire: oggi l´integrazione è qualcosa che attende di essere realizzata compiutamente nelle dimensioni profonde e quotidiane, quelle che dovrebbero creare la sensazione del «sentirsi bene», «sentirsi a casa». Questo è l´ultimo miglio che rimane una volta realizzata l´integrazione linguistica, sociale, legale, culturale e religiosa, quando finalmente si è maturato un senso di piena e conclusa appartenenza. A questo punto si arriva quando il corpo sociale «riconosce ufficialmente il valore e il contributo di tutti i suoi membri». Nell´ideale società europea qui descritta tutti si sentono membri di pari dignità e valore perché hanno la consapevolezza di essere tutti immigrati, sia pure a diverse distanze temporali: per qualcuno da secoli, per altri da anni. Spetta alle istituzioni, alla scuola, ai luoghi di lavoro costruire e tutelare la coscienza di appartenenza comune. Per esempio, osserva Ramadan, non sarà necessario che la storia insegnata nelle scuole sviluppi un discorso colpevolizzante delle società europee per le violenze delle colonizzazioni. Basterà insistere sul modo in cui tutti, inclusi i nuovi cittadini, hanno contribuito e contribuiscono alla costruzione dei Paesi europei. Fa un curioso effetto leggere nell´attuale clima italiano queste cose, scritte evidentemente per lettori inglesi e francesi. Un giovane italiano ucciso a sprangate a Milano da una banda che lo chiama «sporco negro»; una strage di lavoratori di origine africana da parte del clan camorrista dei casalesi; ricorrenti manifestazioni di ostilità verso i musulmani e le loro pratiche religiose: questi alcuni tra gli ultimi episodi della montante ondata di intolleranza, di odio razziale e di rigurgiti fascisti. Certo, la realtà sociale italiana non è tutta qui. Questi episodi sono solo la schiuma sporca che galleggia in superficie. Ma galleggia perché la fa emergere una speciale condizione di favore che si è creata oggi in Italia. Così lo scatenamento di violenze è solo apparentemente istintivo e selvaggio, mentre in realtà è sorretto e guidato da un calcolo preventivo di impunità. Lo slogan «tolleranza zero» ripetuto continuamente da uomini e donne titolari di poteri istituzionali alimenta una violenza a senso unico. Il vento della violenza soffia dall´alto e dà forza agli attori che trova di volta in volta nelle più diverse pieghe della società, tra le forze dell´ordine come tra i camorristi e che si sfoga contro l´immigrato dalla pelle scura, gli zingari delle baracche, la prostituta gettata sul pavimento della questura. Di fatto l´umiliazione dei senza diritti sta diventando una pratica abituale e prende stabilmente posto nella vita quotidiana. Altro che «sentirsi a casa». Accanto a quella privata, del commerciante o del naziskin, c´è quella impalpabile e quotidiana diffusa nella rete delle istituzioni e da lì infiltrata nel tessuto quotidiano dell´esistenza: è qui che si materializza l´abitudine alla differenza di condizione umana tra "noi" e "gli altri": tra i cittadini a pieno titolo e quelli ai quali l´impiegato comunale si rivolge col "tu" e col verbo all´infinito. E non parliamo delle "altre", quelle che sperimentano la doppia schiavitù della violenza istituzionale italiana e della violenza fisica imposta ai loro corpi da organizzazioni malavitose. A questi episodi la risposta delle autorità italiane consiste per lo più nel nascondere, sopire, sedare, anche a prezzo delle più incredibili negazioni dell´evidenza: si nega il motivo politico dell´aggressione dei naziskin, il razzismo di chi uccide gridando «sporco negro», la discriminazione etnica delle schedature dei bimbi rom. Quanto alle prostitute, spariscano dai viali e tanto basti. Questo è oggi il razzismo istituzionale e civile italiano. È sbrigativo e concreto. Non ha bisogno di leggi razziali come quelle del 1938 su cui si attardano le nostalgie del sindaco Alemanno. Perciò l´invito di Tariq Ramadan non troverà ascolto. Il grido dello zingaro che si è levato tra le macerie di Sesto San Giovanni ci dice che saremo costretti a parlare chissà quante volte ancora di integrazione e di tolleranza, mentre ogni giorno dobbiamo fare i conti col ridursi degli spazi civili e istituzionali dove si esercita il riconoscimento dei diritti che derivano dalla comune appartenenza alla specie umana e dal fatto di risiedere e faticare in Italia - l´abitazione, il luogo di lavoro, la scuola, il comune, il seggio elettorale. Eppure dovremmo sapere che «la tolleranza dovrebbe essere una fase transitoria, deve portare al rispetto»: anche perché «tollerare è offendere». Lo ha scritto Wolfgang Goethe.
Repubblica 27.9.08
Tolleranza
Com'è difficile essere diversi
di Fernando Savater
Il conflitto tra religione e scienza nel pensiero di George Santayana
Anticipazione/ La lectio di Fernando Savater ai "Dialoghi di Trani" Il senso storico, biologico e simbolico della parola umanità
La religione va esclusa dalle scuole pubbliche per logica democratica
Viviamo in un´epoca - immagino di dover aggiungere «fortunata» - dove qualunque forma di tolleranza si giustifica praticamente da sola, mentre intolleranze, proibizioni e intransigenze di qualsiasi altro genere non riescono mai a trovare piena giustificazione e lasciano sempre un retrogusto di arbitrarietà dittatoriale. La tolleranza universalmente sostenuta non si riferisce, tuttavia, a conoscenze propriamente dette, bensì a forme di vita o interpretazioni di senso, diciamo, «esistenziale». (...). Per dirlo ricorrendo a una metafora che risale a molti secoli addietro, il mondo in cui viviamo e di cui facciamo parte è un libro il cui messaggio poetico può essere interpretato in molti modi diversi, ma che è scritto in una lingua la cui sintassi e semantica di fondo sono stabilite in forma universale dal metodo scientifico.La generalizzazione della tolleranza è indubbiamente una conseguenza del riconoscimento di diritti fondamentali identici per tutti gli esseri umani, vale a dire di un concetto di uguaglianza che significa - come ha fatto ben notare Odo Marquard - «che tutti possiamo essere diversi senza timore». Abbiamo diritto a essere diversi: cioè condividiamo il diritto, non la differenza. (...)Che cos´è che condividiamo? O per dirla in altra forma: che cos´è che chiamiamo umanità? Ognuno di noi (...) avverte che vivere è, insieme, una funzione biologica e un´esperienza simbolica. Ambedue gli aspetti rimangono costantemente in relazione reciproca e riusciamo a comprendere solo in modo alquanto parziale le convergenze e le divergenze di tale relazione. Per questo è permanente la tentazione di cercare di comprenderli separatamente, come forme di vita pure o - per utilizzare l´espressione classica - assolute. Una funzione biologica che non deve nulla all´esperienza simbolica, un´esperienza simbolica in grado di svincolarsi trionfalmente dalla sua funzione biologica. Abbiamo perfino coniato delle figure per incarnare questi assoluti: l´Animale, che è biologia libera da simboli, e l´Angelo o il Dio, che è simbologia non biologica (...). La nostra condizione bifronte (ma unica!) presenta distinte esigenze intellettuali: la sopravvivenza biologica esige una conoscenza ragionata e verificabile, empiricamente sostenuta, della realtà oggettiva (impersonale e non frutto di scelta, quella che resiste all´urgenza dei desideri) dentro cui trascorre la nostra esistenza, mentre l´esperienza simbolica necessita di disponibilità e apertura dell´immaginazione creatrice. La tolleranza è indispensabile per facilitare questi sforzi, distinti e complementari. (...)Il vero problema comincia quando la scienza e la poesia non si limitano a essere complici o almeno rivali complementari, ma cercano di sostituirsi l´una all´altra, sopprimendo il proprio opposto. (...)A mio giudizio, uno dei pensatori che meglio si è occupato di questo conflitto di giurisdizioni intellettuali è George Santayana nel suo Interpretations of Poetry and Religion. Essendo un autore meno ricordato di quanto meriterebbe, mi permetto di citarlo estesamente: (...) «le dottrine religiose farebbero bene ad abbandonare le loro pretese di occuparsi di questioni concrete. Una pretesa simile non solo è all´origine dei conflitti tra religione e scienza e delle vane e aspre controversie tra sette, ma è anche causa dell´impurità e incoerenza della religione, quando cerca le propria ratifiche nella sfera della realtà e dimentica che la sua funzione specifica è quella di esprimere l´ideale».Tuttavia, è poco probabile che i credenti, di qualsiasi fede religiosa, si conformino a questa sensata caratterizzazione di Santayana. Per loro, la religione esprime sicuramente un ideale, ma un ideale obbligatorio, che deve produrre effetti verificabili sulla condotta degli esseri umani e sull´organizzazione morale della società: un ideale esecutivo, non solo basato sulla realtà ben compresa, ma anche da realizzare nel mondo. (...)Negli Stati di diritto coerentemente laici (...), il ruolo delle credenze religiose e soprattutto delle Chiese è convenientemente circoscritto: può essere liberamente esercitato, ma sempre nel quadro delle leggi civili. Le argomentazioni dei credenti riguardo a questioni di valori e di moralità devono essere tenute da conto, sempre che - come ha segnalato Habermas - vengano esposte sforzandosi di trovare ragioni che siano comprensibili anche da coloro che non condividono la loro stessa fede, non in quanto dogmi rivelati e pertanto indiscutibili, inappellabili. In questo senso, è inaccettabile che i sostenitori del soprannaturale facciano appello a una presunta «Legge Naturale» di fronte alla quale dovrebbero inchinarsi tutti i dubbi e le contestazioni di chi crede solo in una ragione meramente umana, illuminata dalla discussione con i propri simili ma non sottomessa ad alcuna rivelazione divina. (...)Il punto più spinoso, però, è quello dell´istruzione. Come già segnalato, su questioni di fatto - scientifiche, per intenderci - le spiegazioni religiose sono inappellabilmente inaccettabili: vale a dire che sono false, perché nessun fatto verificabile potrebbe mai smentirle (secondo i parametri fissati da Popper) o confermarle. E nemmeno si riesce a concepire quale genere di evidenza probatoria potrebbe servire a dimostrarle. E se sono inaccettabili come spiegazioni, lo saranno anche come via di apprendimento per i neofiti, che nemmeno dispongono delle risorse intellettuali per premunirsene. È dunque tollerabile la tolleranza di un insegnamento religioso? Non mi riferisco ovviamente alla pubblica istruzione, da cui la religione dev´essere esclusa per elementare logica democratica, ma anche ai licei privati. Possiamo, noi persone laiche, attente all´istruzione (che dev´essere sempre uno sforzo verso la veracità o almeno verso la possibilità razionalmente più fondata, pur restando obbligatoriamente aperta e rivedibile) approvare in nome della libertà che vengano insegnate falsità o spiegazioni inverificabili a chi meno è in grado di difendersi da esse? E non solo su questioni scientifiche obbiettive, ma anche nel campo della morale e dei valori che dobbiamo condividere: è ammissibile che su queste materie venga impartita una formazione che lascia intendere che non esistono doveri e precetti etici se non quelli emanati da un´autorità soprannaturale o quelli che concordano supinamente con essi? Se la libertà di insegnamento prevale su qualsiasi altra considerazione, perché la negromanzia o lo spiritismo, così come la dottrina dell´esistenza di razze superiori, sono formalmente e universalmente esclusi dai programmi di studio? (...) Vale a dire che in tutti i campi - e in particolare nella scuola - deve rimanere aperta la possibilità di denunciare la falsità o la nocività delle credenze religiose quando esse abbandonano il loro ruolo poetico-simbolico pretendendo di competere con la scienza o con il discorso politico. So che è difficile arrivare a qualcosa di simile per vie istituzionali senza apparire intransigenti, ma conviene ricordare che su certe questioni una dose di intransigenza rappresenta un elemento insostituibile della salute mentale e morale.(traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 27.9.08
"Immigrati, dal governo troppa intolleranza"
L'Osservatore attacca la stretta su ricongiungimenti e asilo. Criticata anche la Ue
"Dal mondo politico arrivano segnali che alimentano un clima di paura"
di Orazio La Rocca
CITTÀ DEL VATICANO - Per la Santa Sede «cresce» in Italia e in Europa il clima di intolleranza verso gli immigrati. Il nuovo richiamo arriva dall´Osservatore Romano ad appena 48 ore da un analogo intervento lanciato, attraverso la Radio Vaticana, dal Pontificio consiglio dei migranti che ha sostenuto che «sui diritti umani e sulle politiche per l´accoglienza degli immigrati il governo italiano gioca al ribasso». Stesso richiamo oggi sulla prima pagina del giornale pontificio in un editoriale dal titolo «Poca memoria, pochissima speranza» firmato da monsignor Vittorio Nozza, direttore della Caritas italiana (l´ente Cei per gli interventi umanitari), che chiama in causa il governo Berlusconi e il Parlamento europeo. È un testo in perfetta linea con gli analoghi appelli lanciati negli ultimi tempi dalle gerarchie ecclesiali in difesa degli immigrati e per bloccare la deriva di intolleranza e di xenofobia in corso nel nostro paese. A partire da papa Ratzinger che, recentemente, ha sollevato il problema dei ricongiungimenti familiari, ricordando che gli immigrati vanno «sempre trattati come fratelli». Come pure il cardinale Angelo Bagnasco, presidente Cei, che all´apertura del Consiglio permanente dei vescovi lunedì scorso si è spinto ad affermare che «anche i clandestini hanno diritto all´accoglienza». Analogo il tenore dell´Osservatore Romano che parla di «tristezza» quando, dal mondo politico, «arrivano segnali» che «alimentano un clima di paura e di intolleranza» che «accentuano tendenze di chiusura autarchica e di arroccamento sociale». Il giornale del Papa scrive, tra l´altro, che «restrizioni, ostacoli, barriere sono i segnali che arrivano dal Parlamento europeo e dal patto per l´immigrazione, e il diritto d´asilo che dovrebbe essere adottato dal vertice europeo dei capi di stato e di governo il 15 ottobre. Con possibili eccezioni e corsie preferenziali per i lavoratori altamente specializzati». Critiche anche al «giro di vite» annunciate «in Italia sui ricongiungimenti e per i richiedenti asilo», e per la prevista «tolleranza zero contro gli irregolari, ma - precisa il quotidiano d´Oltretevere - con eccezioni in base alle nostre convenienze». «Tendenze che - lamenta monsignor Nozza - non meravigliano in questo primo segmento del terzo millennio in cui c´è sempre meno memoria e scarsa speranza. In cui la vita è sempre più ?usa e getta´, più che curata e vissuta. Con i deboli e i poveri costretti a pagare due volte».Il nuovo richiamo, ovviamente, non piace al cattolico Maurizio Lupi, vice presidente del Pdl alla Camera, che si dice «particolarmente colpito dalle parole di don Nozza per l´attacco sull´Osservatore alla politica del governo su sicurezza e immigrazione». Quando, invece, assicura Lupi «il governo ha sempre guardato alla tutela della persona senza trascurare il principio della responsabilità». Apprezzamenti, invece, arrivano dal segretario del Pd Walter Veltroni il quale invita a coniugare «la sicurezza dei cittadini con l´accoglienza agli immigrati, facendoli pure votare alle amministrative per evitare di andare verso la violenza». «Hanno ragione l´Osservatore e don Nozza», commenta il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, allarmato per i provvedimenti di «chiaro stampo razzista e di xenofobia» del governo Berlusconi. Anche per Rosi Bindi, vice presidente del Pd alla Camera, «la voce del giornale della Santa Sede è un monito che il governo non può ignorare».
Repubblica 27.9.08
Profondo rosso a Liberazione Ferrero liquida Sansonetti
Per il quotidiano del Prc in arrivo drastici tagli
La protesta di giornalisti e tipografi: "È liquidazione comunista"
di Carmelo Lopapa
ROMA - Sventola la bandiera rossa del Prc dal balcone del partito al primo piano, svolazza lo striscione giallo «Liquidazione comunista» al piano terra, redazione del quotidiano Liberazione. E fa una certa impressione. Davanti, giù per strada, i giornalisti in sit-in manifestano contro l´editore-partito. Che alle 13 si materializza col volto e la camicia bordeaux del segretario Paolo Ferrero, la scure sotto la giacca: «C´è un disavanzo di oltre 4 milione di euro, la situazione è complicata, occorre una drastica ristrutturazione». Che vuol dire personale in esubero, tagli e, sospettano nel palazzo di Rifondazione di via del Policlinico, perfino la trasformazione in settimanale. Vento di tempesta che soffia in queste ore anche su Manifesto, Padania, Secolo d´Italia, Europa, per via dei tagli ai contributi pubblici all´editoria di partito e cooperativa. Lunedì si riuniranno per la prima volta i comitati di redazione di tutti i giornali a rischio.I 37 redattori di Liberazione, la trentina di poligrafici, adesso restano col fiato sospeso. Troppo poche le 9 mila copie vendute, secondo la segreteria. Volti tesi, i giornalisti fumano, il direttore Piero Sansonetti suda, ma nella redazione non fa caldo. Arriva il segretario mancato Nichi Vendola e in redazione si forma un capannello, ma poi ecco il leader Ferrero, i due si incrociano ma nemmeno si salutano. Gelo. Perché lo psicodramma attorno all´organo del partito - ultima voce del Prc dopo che la rappresentanza parlamentare è stata cancellata - si consuma sui conti in rosso, ma la partita è politica, retaggio della spaccatura al congresso di luglio. Il partito è azionista unico della società editrice (Mrc) ed è guidato ora dalla nuova segreteria, ma il cda di Liberazione è espressione della vecchia maggioranza interna. Il problema sta anche qui. Resa dei conti? «Se è così, allora tutto ha un che di barbarico, perché si consuma sulla pelle dei lavoratori» dice davanti ai giornalisti in assemblea il governatore pugliese Vendola. Nega che la direzione sia vicina a lui, Bertinotti, Giordano. Poi compare Ferrero e Vendola sparisce. Piombano l´ex segretario Franco Giordano e Gennaro Migliore, ma vedono che parla il leader e si allontana pure loro. Ferrero, reduce dall´incontro con l´amministrazione, sciorina le cifre e non fa sconti. «La situazione è grave, frutto dei 2 milioni di tagli al finanziamento pubblico che faranno lievitare il disavanzo a 4-4,5 milioni, ma c´è stata anche una significativa perdita di copie: il 30% negli ultimi 4 anni. Il deficit è enorme, dato che il bilancio del partito è di 10 milioni. Il rischio è che nel 2010 chiuda il Prc. Faremo il possibile per il rilancio, non porteremo i libri in tribunale, ma occorre una ristrutturazione pesante». E i diritti dei lavoratori?, gli chiedono. «Non sono in grado di garantire questo impegno» taglia corto lui. E la trasformazione in settimanale? «Per noi il quotidiano è un valore», replica, ma niente di più. «La crisi va formalizzata non sia al buio» insiste a nome del comitato di redazione Anubi D´Avossa, al fianco del segretario della Fnsi Roberto Natale. Sale la tensione. «Non carichiamo la vicenda di elementi politici. Ma è evidente - è la stilettata finale di Ferrero - che chi ha gestito, non solo l´amministrazione, non è più compatibile con il rilancio». Sansonetti silurato? Il direttore non ci sta, soprattutto dopo il faccia a faccia pomeridiano con gli amministratori, il sindacato e lo stesso Ferrero. «Parlano di perdita di copie, si è scoperto che nel 2008 c´è stato un incremento dell´8% - spiega il direttore - Piuttosto, dov´è il Prc nella battaglia contro i tagli? Ne ho dovuto parlare con la Melandri». Non gli sfugge la posta in gioco: «La questione è politica. Vogliono un altro direttore? Preferiscono un bolscevico? Mi sostituiscano». Lui non si farà da parte. Le trattative per la ristrutturazione sono partite. La buona notizia è che, dopo lo sciopero, da oggi il quotidiano torna in edicola.
l’Unità 27.9.08
Liberazione. Ferrero: situazione grave serve la ristrutturazione
ROMA Liberazione è in crisi ed è ormai inevitabile una ristrutturazione, ma Rifondazione intende rilanciarlo. Lo ha detto Paolo Ferrero, segretario del Prc, incontrando i dipendenti del quotidiano del suo partito in stato di agitazione. «Le previsioni aziendali - spiega Ferrero - stimano il deficit tra i quattro milioni e i quattro milioni e mezzo di euro. La situazione è frutto di più elementi: un calo delle vendite di circa il 30% negli ultimi quattro anni (le cifre che circolano parlano di seimila copie in media, ma il direttore del giornale Piero Sansonetti le ha smentite, ndr), e un aumento del disavanzo che dai 700mila euro del 2003 sarebbe oggi di 2 milioni e 400mila, anche senza le decisioni del governo sui fondi per l’editoria». «Faremo tutto il possibile per il rilancio di Liberazione - precisa Ferrero - ma sicuramente servirà un piano di ristrutturazione molto pesante. E chi ha gestito questa situazione non è compatibile con il rilancio». Parole che tutti a Liberazione interpretano come un preavviso di licenziamento per gli amministratori del giornale ma anche per Sansonetti.
l’Unità 27.9.08
Nichi Vendola Il governatore della Puglia: «Se la maggioranza propone l’unità dei comunisti, noi chiameremo il partito alla mobilitazione»
«Brutto clima nel Prc. Ridiamo credibilità alla sinistra»
di Simone Collini
Nichi Vendola parla di un «clima sgradevole», dentro il Prc. Il governatore della Puglia ieri ha incontrato i coordinatori dell’area “Rifondazione per la sinistra”, «che non è una corrente - ci tiene a sottolineare - è mezzo partito, capace di molte relazioni all’esterno». Riferimento tutt’altro che casuale, anche se alla riunione a porte chiuse di ieri ha dovuto faticare non poco nel muoversi tra compagni di partito che sempre meno sopportano la convivenza con la componente che ha vinto il congresso e quelli che invece invitano a non bruciare troppo in fretta le tappe. Una cosa è comunque certa: «Se la maggioranza proponesse l’unità dei comunisti, sarebbe la definitiva scissione di Rifondazione comunista dalla sua storia. E noi a quel punto chiameremo l’intero partito al confronto e alla mobilitazione».
Ora c’è il varo di “Rifondazione per la sinistra”: l’obiettivo più immediato?
«Rimettere in campo l’idea della ricostruzione della sinistra come di un tema necessario per la società italiana. Oggi assistiamo a una vera e propria afasia della sinistra, in tutte le sue componenti: quella che ha scelto di fuoriuscire dalla storia e dalla cultura del movimento operaio, e che si è riconosciuta nel progetto del Pd, ma anche quella che vive di pulsioni identitarie».
Cioè il Prc, il vostro partito.
«Noi stiamo dentro Rifondazione ma anche dentro la società italiana, e costruiamo una rete di rapporti con tanti soggetti, fuori dal partito. La domanda che ci poniamo non è dove siamo collocati, ma come restituiamo credibilità e persino fascino a un nuovo vocabolario della sinistra».
Che aria si respira dentro Rifondazione?
«C’è un clima abbastanza sgradevole».
Per via della convivenza di linee politiche differenti?
«È sgradevole complessivamente, non si può descrivere come un clima in cui la differenza abbia il sapore di un arricchimento. È un clima anche molto pesante, per molti singoli compagni e compagne».
Sono gli strascichi di un congresso aspro?
«Dobbiamo dichiarare finito il congresso di Chianciano, ma non possiamo dimenticare che è stato segnato da una conta interna e che una commissione di partito ha cancellato molti voti. Oggi nessuna commissione può cancellare la realtà, che è la necessità e l’urgenza di restituire senso all’agire politico della sinistra».
La prima verifica elettorale l’avrete alle europee.
«Bisogna rilanciare il disegno di un processo unitario della sinistra, come un grande movimento e una grande forma di consultazione nei territori».
E se invece la maggioranza proponesse il tandem Prc-Pdci sulla scheda?
«Significherebbe che i veri vincitori del congresso sono quelli che hanno rastrellato il 7% dei voti con la proposta dell’unità dei comunisti».
Recentemente c’è stato l’abbraccio tra Diliberto e Grassi, che non stava in quella minoranza ma si è mosso con Ferrero: che farete se viene imboccata questa strada?
«Chiameremo al confronto e alla mobilitazione l’intero partito, perché questo fatto significherebbe la definitiva scissione di Rifondazione comunista dalla sua storia».
Mussi fa un passo avanti rispetto alla necessità di aprire un cantiere e dice che è necessario un nuovo soggetto della sinistra: lei che ne pensa?
«Che prima di occuparsi del contenitore bisogna occuparsi dei contenuti ed evitare qualunque abbrivio politicista. Bisogna che la sinistra srotoli le proprie idee e ambizioni e cominci un percorso con tanti, poi insieme vedremo cosa fare».
E del momento difficile che vive Liberazione che dice?
«Sono due i problemi di Liberazione. Uno è generale e riguarda le testate di partito. Ma poi c’è l’autonomia di una redazione giornalistica, che è un bene che non può essere messo in discussione. È stata una grande conquista nella storia della sinistra immaginare che essere organo di un partito non significa essere un bollettino. E questo non può essere smobilitato».
il Riformista 27.9.08
Vendola si fa il partito: di governo e filo Cgil
Nel Prc è guerra su tutto: feste, giornale e sindacato
di Alessandro De Angelis
Guai a nominare la parola scissione. Almeno per ora. Ma dentro Rifondazione, due mesi dopo il congresso, i duellanti - Vendola e Ferrero - vivono da separati in casa. La guerra dei Roses comunista non conosce tregua. Quest'estate i due si sono rovinati le feste (di partito, s'intende). Da un lato le tradizionali feste di Liberazione, dall'altro quelle dei vendoliani in Puglia, Toscana, Campania. E a Roma, dove due giorni fa sono andati in scena da un lato Ferrero, dall'altro Bertinotti con due spartiti diversi. Separati anche nella stessa piazza: l'11 ottobre alla manifestazione di Rifondazione contro il governo, i bertinottiani ci saranno, ma con molti mal di pancia. La loro idea era di andare in piazza anche col Pd il 25 ottobre: fumo negli occhi, per Veltroni. Che, nell'incontro svoltosi qualche giorno fa con Fumagalli e Fava di Sd, ha affermato che non avrebbe cambiato la sua piattaforma per far aderire Vendola. Separati anche sul quotidiano di partito, a rischio di chiusura. La redazione di Liberazione - che da Ferrero è distante politicamente - ieri ha protestato con un sit in via del Policlinico, esponendo cartelli fin troppo espliciti contro la «liquidazione comunista». Gli uomini di Ferrero rimandano le accuse al mittente: «Tutto il bilancio di Rifondazione è di dieci milioni euro. I debiti di Liberazione sono di quattro. Considerati i tagli all'editoria: che facciamo? Mica possiamo chiudere il partito per ristrutturare Liberazione. La linea politica di Sansonetti non c'entra nulla». Nemmeno gli altri sanno cosa fare. Bertinotti si è limitato a mostrare il suo dispiacere al cdr del giornale. Immediata la stoccata degli uomini di Ferrero: «Quelli di Vendola vogliono la metà di tutto, tranne che dei debiti di Liberazione». L'elenco della guerra dei Roses è lunga. Compreso il capitolo "stanze separate" a via del Policlinico tra le truppe dell'uno e dell'altro che, ovviamente sì e no si parlano: «Stiamo solo facendo traslochi per agevolare il lavoro» spiega Claudio Grassi, potente responsabile dell'organizzazione.
Praticamente, a via del Policlinico, convivono - si fa per dire - due partiti in uno. Quello ufficiale, sempre più comunista. Grassi ha favorito anche un riavvicinamento del segretario con Diliberto. È andato in scena a Gubbio, lo scorso fine settimana, in occasione della festa della sua componente. Che si chiama, neanche a dirlo «Essere comunisti». L'altro partito invece, di fatto, nascerà oggi alla Garbatella. E l'aggettivo comunista l'ha tolto dal nome. Ma guai a chiamarlo "partito". Vendola terrà oggi a battesimo l'area (politico-programmatica, così viene definita) «Rifondazione per la sinistra». È, di fatto, l'embrione di un nuovo soggetto politico con Sd e i Verdi (non tutti, quelli di Paolo Cento), più di governo e più compatibile col Pd, rispetto all'Arcobaleno che fu: «Ci muoveremo come se avessimo vinto il congresso» spiegano i vendoliani che ieri si sono riuniti per mettere a punto la linea. Alfonso Gianni, bertinottiano doc, spiega: «Continueremo la nostra battaglia per fare un soggetto di sinistra all'altezza dei problemi del ventunesimo secolo. Parleremo non solo ai gruppi dirigenti ma alla sinistra diffusa che non si riconosce nelle attuali espressioni politiche». Una linea opposta a quella di Ferrero.
L'area avrà un coordinamento affidato a sei dirigenti. Tra i big Patrizia Sentinelli, ex viceministro degli Esteri, e Gennaro Migliore, ex capogruppo alla Camera ed enfant prodige del bertinottismo: «L'attuale linea di Rifondazione è opaca - spiega Migliore - rispetto ai problemi del paese. Non basta fare volantinaggi e testimonianza. La destra ha vinto nel paese profondo e la sinistra rischia la scomparsa. Dobbiamo ripartire da identità, programma e iniziativa politica». Dopo la disfatta dell'Arcobaleno, l'obiettivo è uno solo: radicamento. Ed è sul sindacato che la spaccatura tra i due partiti (dentro Rifondazione) è profonda. La novità - e non è poco, dopo le critiche all'accordo su Alitalia - è che Rps (Rifondazione per la sinistra) sta con la Cgil. Tutta. Tanto che alla manifestazione di oggi sarà previsto un collegamento video con piazza Farnese dove parlerà proprio il numero uno di Corso Italia. Nel giorno delle cento piazze della Cgil contro il governo Vendola&Co vogliono dare un segnale ben preciso al sindacato. Dice Migliore: «Dopo l'aggressione del governo alla Cgil la nostra è anche una delle loro piazze. È una vicinanza non solo mediatica ma politica». Il leader della Fiom Rinaldini e l'ex segretaria confederale Piccinini sono impegnati in giro per l'Italia. Ma in un primo momento la loro presenza, al battesimo di Rps, era prevista. Così come è prevista la presenza di Rinaldini in piazza l'11 ottobre. Rispetto a quando Rifondazione criticava da sinistra la Cgil l'aria è cambiata: «L'interlocuzione col complesso della Cgil c'è», taglia corto Gianni. E con Ferrero la guerra continua.
l’Unità 27.9.08
La sanità è sotto attacco
di Luigi Cancrini
«Privato è bello, dice Berlusconi, il modello Lombardia dimostra che dove si dà spazio ai privati, nella sanità si spende di meno». Pensa, probabilmente, il Cavaliere a qualche nuova cordata di imprenditori, più o meno fasulli, più o meno avidi che potrebbe essere aiutata, da questa maggioranza e da questo governo a comprare un po’ di ospedali.
Licenziando gli eventuali esuberi. Guadagnando un po’ di soldi sulle spalle di noi tutti.
Quello che Berlusconi non dice e forse non sa è il tipo speciale di privato con cui si ha a che fare nella sanità. Bisognerebbe distinguere con grande chiarezza, infatti, il privato vero, quello che viene pagato direttamente dagli utenti o dalle loro assicurazioni dal privato «convenzionato»: un privato che funziona, cioè, con soldi interamente pubblici e che economicamente dovrebbe essere considerato, a tutti gli effetti, pubblico.
Il vero problema è, nella regione Lombardia come in tante altre regioni italiane, che le strutture convenzionate utilizzano i loro dipendenti in modo molto più libero di quelle pubbliche.
Li pagano di meno, a volte sfruttandoli vergognosamente (come accade in particolare per i servizi di guardia, medica e non medica), li assumono, li licenziano, li promuovono liberamente, al di fuori di qualsiasi controllo. La mancanza di un contratto nazionale, la debolezza strutturale di un personale che può essere sostituito in qualsiasi momento se non fa gli interessi della proprietà permettono lo sviluppo di situazioni in cui la sanità privata convenzionata può essere effettivamente competitiva con quella pubblica. Quelli che non vengono tutelati, tuttavia, in questa situazione sono i diritti dei lavoratori, i diritti e gli interessi degli utenti. Medici e infermieri, piloti e assistenti di volo lavorano bene, esercitando sul serio le loro responsabilità, solo se il loro lavoro viene riconosciuto e tutelato nel modo giusto.
Basterebbe per verificarlo, dare uno sguardo alla serie incredibile di processi incardinati presso in Tribunale di Milano, alcuni dei quali già conclusi con condanne pesantissime, a seguito degli scandali che si sono verificati proprio nella sanità lombarda di Formigoni: danni gravissimi sono stati prodotti, infatti, in questi anni sui bilanci della sanità e, quello che più conta, sulla salute dei cittadini Così come basterebbe, per provarlo l'enormità dei guadagni accumulati dai padroni delle case di cura private, delle residenze sanitarie per anziani (RSA) e dei centri di riabilitazione, oggetto, sempre più spesso, di indagini della magistratura in tutta Italia.
Sono problemi che a Berlusconi interessano notoriamente poco. Se i magistrati e le loro indagini scomparissero dal paese che lui governa, lui ne sarebbe solo contento. Il fatto che degli imprenditori senza scrupoli siano capaci di arricchirsi con denaro pubblico desta in lui più ammirazione che biasimo. Per fortuna, anche se lui se ne dimentica spesso, in questo paese c'è ancora chi crede che la salute sia un diritto sacro di tutti i cittadini e che riuscirà, mobilitandosi con questo obiettivo, a far sì che queste dette oggi restino solo le battute di una persona che di sanità pubblica o privata, non ha mai saputo né capito nulla.
l’Unità 27.9.08
Ora Berlusconi vuole privatizzare gli ospedali pubblici
di Andrea Carugati
Dopo l’attacco alla scuola, e in attesa della “soluzione finale” per la magistratura, Silvio Berlusconi ora ha in mente un altro bersaglio: la sanità pubblica. «La soluzione è la privatizzazione di molti ospedali pubblici», ha detto ieri a Todi, intervenendo a un convegno organizzato da Carlo Giovanardi, in una pausa della sua tre giorni dedicata alla “remise en forme” nel centro benessere di Marc Mességué. Sarà per il clima della spa umbra, cara a vip come Lino Banfi e Anna Falchi, dove una settimana costa minimo 3mila euro, ma Berlusconi ha deciso di toccare un tabù della politica italiana, gli ospedali pubblici. «Rispetto al Veneto e alla Lombardia, in Sicilia e Sardegna di spende oltre il 40% in più: la soluzione è il federalismo fiscale e la privatizzazione degli ospedali». Il premier non spiega nulla del suo progetto, si limita a buttare lì la frase, carica di incognite soprattutto per chi non può permettersi le cure private. Tanto per lui problemi non ce ne sono: per il suo fastidioso mal di schiena ha fatto addirittura riaprire il lussuoso centro benessere che era chiuso per ferie...
Il premier parla di molto altro, del bipartitismo che vorrebbe e naturalmente di giustizia. La riforma «è pronta, e la presenteremo tra poco in Parlamento: prevederà la separazione delle carriere tra i pm e i magistrati giudicanti. I pm si chiameranno avvocati dell’accusa e dovranno dare del lei ai giudici». E ancora: con le nuove norme sulle intercettazioni, i pm «non potranno più intervenire con controlli sulle telefonate per qualsivoglia reato e dovranno rispettare la privacy». Quanto alla riforma della giustizia civile, «sarà legge entro quest’anno», ha assicurato.
Il premier accelera sulla nascita del Pdl: «C’è già un’assemblea costituente, abbiamo deciso di adottare la carta dei valori del Ppe e avremo il congresso, pensiamo nel mese di marzo, per arrivare a un vero nuovo movimento politico e non solo un’alleanza». Incontrando i consiglieri comunali di Todi, Berlusconi si è rivolto a un uomo di An: «Ora ci uniamo, siamo al 44%. Dobbiamo trovare il modo di non litigare perché c’è gloria e posto per tutti. E così segneremo la storia italiana per i prossimi decenni». Del resto, uno “storico” obiettivo della sua carriera politica sente di averlo già in tasca: «Mi chiedevano di salvare l’Italia dai comunisti. Siamo andati vicini al risultato, non ci sono più alla Camera e al Senato...però in giro ci sono tanti comunisti che si fanno passare per liberali, magari della domenica. Ma pazienza...». Ricordando poi le altre promesse della campagna elettorale, il premier ha scherzato a modo suo: «Avevo promesso di mandare a casa Prodi e di comprare Ronaldinho: fatto».
C’è anche uno spazio per un Berlusconi “teodem” e per uno “law and order”. «La famiglia per noi, nonostante questa pretesa modernità, è sempre e soltanto quella indicata dalla tradizione cristiana e dalla nostra Costituzione e cioè quella formata da un uomo e una donna per allevare figli», dice alla festante platea dei «popolari liberali» di Giovanardi. E poi, più soldati per tutti. «Useremo la forza anche per la sicurezza, è stato un passo importante usare le forze armate, e continueremo su questa strada».
Unica nota dolente, i rifiuti: il premier sarà di nuovo a Napoli mercoledì prossimo «per far partire il secondo e il terzo termovalorizzatore». Ma, avverte, «dobbiamo farli anche in altre regioni in cui la situazione è delicata».
Infine un messaggio sinistro per l’occupazione: «Ho incontrato il presidente di un grande gruppo elettronico e mi ha detto che intende ridurre da 496mila a 160mila i collaboratori in Europa». Mistero su quale sia il colosso. Come sugli ospedali che verranno privatizzati.
l’Unità 27.9.08
Marino: «I cittadini i veri azionisti del Sistema sanitario»
di Sonia Renzini
IL CARTELLO con la scritta «pista ciclabile Fausto Coppi» è nemmeno a farlo apposta posto proprio a bella vista di fronte al tendone affollatissimo di piazza Mazzini che ospita la prima edizione del festival della salute di Viareggio. E il particolare non è sfuggito a Enrico Mentana che ieri ha moderato il dibattito di apertura della tre giorni organizzata dalla fondazione Italianieuropei presieduta da Massimo D’Alema. La kermesse, diretta dal chirurgo-senatore del Pd Ignazio Marino, ospiterà fino a domenica una sequenza infinita di laboratori e convegni, corsi di acquaticità per bambini, lezioni di golf e di hockey su rotelle e perfino un giardino terapeutico per gli anziani malati di Alzheimer. Non solo. C’è anche un camper dove i cittadini possono salire e farsi analisi gratis. Ma il cuore della rassegna ieri era racchiuso nel dibattito tra il ministro al welfare Maurizio Sacconi, Ignazio Marino (Pd), Enzo Ghigo (Pdl), l’assessore alla Salute della Toscana Enrico Rossi e il ct della nazionale Marcello Lippi.
L’associazione tra Coppi e Lippi è fin troppo ovvia e Mentana la usa per rompere il ghiaccio. «Grande Coppi, grande Lippi che a Viareggio ci vive e che ci ha portato in cima al mondo», esordisce Mentana. La discussione inizia leggiadra sull’importanza dello sport e sul legame a doppio filo con la salute. Ma è solo un’illusione. «Tanti sportivi che incontro lo sport non lo praticano affatto - racconta Lippi - semmai lo discutono e quasi tutti sono ansiosi di suggerirmi la formazione della squadra». Le metafore calcistiche («il ct della nazionale è come un direttore sanitario") non bastano a contenere la tensione. A cominciare da quella degli operatori appostati poco più in là, sotto un gazebo targato Cgil, a lato della piazza, proprio di fronte al monumento a Burlamacco, la maschera ufficiale di Viareggio concepita da Umberto Bonetti nel 1930. Sono quelli della casa di cura San Camillo di Forte dei Marmi, struttura privata convenzionata che in questi giorni sta razionalizzando il personale. Anche dentro la tensione sale. Il ministro al welfare Maurizio Sacconi, arrivato in gran fretta da Roma, costretto a continuamente al telefono per gli aggiornamenti sulla vicenda Alitalia, mette subito la palla al centro: i criteri di valutazione delle strutture sanitarie alla luce della proposta del ministro Brunetta di pubblicare tutti i curricula dei chirurghi su internet. «È necessario - dice Sacconi - il paese è spaccato a metà. Ci sono buone pratiche che dobbiamo fare diventare la regola, il federalismo fiscale in queste senso ci può aiutare. E sicuramente si deve partire dalla valorizzazione dell’Agenzia nazionale dei servizi socio-sanitari. Regioni virtuose come la Toscana, per esempio, sono sicuramente interessate a non coprire le inefficienze altrui». Porte spalancate dal senatore Marino, allo strumento della valutazione. Per lui che vanta 18 anni di carriera negli Stati Uniti, si tratta di una pratica a dir poco scontata. «Le persone hanno diritto di sapere cosa succede all’interno degli ospedali e dove si cura meglio una malattia - spiega - tanto più che da noi a differenza che negli Usa i cittadini sono i veri azionisti del sistema sanitario, visto che per fortuna tutti hanno diritto alle cure».
È un’occasione anche per ricordare i 30 anni della creazione del servizio alla salute pubblica e scaldare gli animi di chi di smantellarlo non ne vuole proprio sapere. In sala ce ne sono tanti, ma a rivendicarne l’orgoglio è l’assessore al diritto alla Salute della Toscana Enrico Rossi che per primo ha messo a punto parametri di valutazione per giudicare l’operato dei direttori delle Asl. «Nel 2009 valuteremo anche i dirigenti delle unità operative - conclude - Trovo giusto che i direttori delle Asl siano nominati dai presidenti della giunta regionale, ma questi poi devono scegliere i primari migliori, altrimenti li caccio».
l’Unità 27.9.08
I nostri geni i nostri diritti
di Maurizio Mori
Il tema di questo mese è connesso con quei cambiamenti profondi che sono indotti dal progresso della scienza e che, per ora, lavorano in silenzio, come la talpa nel sottosuolo. Si tratta dello straordinario aumento delle conoscenze genomiche, ossia del sistema informazionale proprio degli organismi viventi, conoscenze distinte da quelle genetiche che riguardano invece solo la trasmissione dei loro caratteri. La distinzione non è da poco, anche se viene spesso trascurata, raggruppando sotto “genetica” concetti profondamente diversi. In particolare, nel momento in cui aumenta la conoscenza del genoma umano, che viene decodificato, sembra quasi il Dna genomico umano diventi un oggetto magico capace di risolvere tutti i nostri problemi, compreso quello della richiesta di “sicurezza” dei cittadini. Così nel nostro Paese è in atto un silenzioso accaparramento di questi dati. La pagina di oggi vuole essere un contributo alla riflessione, affinché i cittadini sappiano che la “sicurezza personale” è un valore importante, fondamentale. Ma che va contemperato con altri che sono altrettanto importanti o anche superiori. Vivere comporta sempre un qualche rischio che non fa eccessivamente enfatizzato: chiamiamo ipocondriaco chi ha eccessiva paura di contrarre malattie e per questo ad esempio non esce di casa per non correre il rischio di prendere il raffreddore, ecc. Non abbiamo ancora un nome per indicare chi sopravvaluta la “sicurezza” ma c’è un rischio analogo. La lotta contro la criminalità va fatta e si deve aumentare la “sicurezza” dei cittadini, ma questo valore decisivo va raggiunto senza sacrificarne altri, come appunto i diritti fondamentali. Forse in Italia (ma anche in tutto il resto dell’Europa) si deve riflettere maggiormente su questo punto. E si deve riflettere sul perché si ignorino bellamente elementari conoscenze scientifiche per consentire l’acquisizione di dati sensibili. Il problema vale per le norme oggetto di questi articoli, ma vale anche per le sperimentazioni cliniche con la copertura delle quali le ditte farmaceutiche stanno immagazzinando a dismisura dati del DNA personale, avvalendosi della penombra di una normativa incerta. Anche su questo bisognerebbe riflettere di più. In questa pagina vengono lanciati solo alcuni spunti, con l’augurio di aprire un dibattito.
Presidente della Consulta di Bioetica, Università di Torino
l’Unità 27.9.08
Operazione Dna: chi scheda i cittadini?
C’È UN DENOMINATORE comune nelle scelte legislative di politica criminale degli ultimi anni che lascia attonito il giurista e depauperato di pezzi di libertà il cittadino: la pubblica sicurezza.
Uno degli ultimi provvedimenti varato in questo solco è il nuovo disegno di legge di adesione dell’Italia al Trattato Prüm e contestuale istituzione della banca dati nazionale del Dna, approvato dal Consiglio dei Ministri alla sua prima seduta operativa in quel di Napoli il 21 maggio 2008 e presentato in Senato lo scorso 28 luglio.
Il testo del provvedimento ricalca pedissequamente quello approvato dal passato Governo. Stesso articolato, stessa motivazione politica: la tutela della sicurezza pubblica.
Il povero cittadino potrebbe rimanerne sconcertato per ragioni ideologiche, il giurista, sebbene attonito, va oltre e si chiede perché un mero interesse, sebbene collettivo, come la sicurezza debba prevalere su diritti individuali costituzionalmente protetti come la tutela della riservatezza (art. 2 Cost.), della libertà personale (quest’ultima garantita ex art.13 Cost. dalla doppia riserva di legge e di giurisdizione) o della presunzione di innocenza di cui all’art.27, comma 2, Cost. (il riferimento è alla mancata previsione nel ddl della cancellazione dei dati anche a fronte di talune formule di assoluzione cosiddetta “piena”).
Comunque sia, in linea col fine perseguito della pubblica sicurezza, la relazione di accompagnamento al ddl esalta la prorompente capacità della costituenda banca dati di risolvere casi giudiziari altrimenti insoluti, citando, senza peraltro alcun riferimento alle fonti, statistiche straniere che attestano una crescita della percentuale di identificazione degli autori di reato dal 6% al 60%. Ma quali diritti e quanta libertà verranno sacrificati sull’altare della sicurezza? Sul punto la relazione tace.
Come rilevato dal Garante per la protezione dei dati personali, ciò che desta maggior allarme è l’istituzione, parallelamente alla banca dati nazionale contente i profili del Dna (peraltro genericamente definiti sequenze alfa numeriche ricavate dal Dna senza alcun riferimento alle procedure scientifiche di estrazione), di un laboratorio centrale in cui verranno conservati (per 20 anni!) i campioni biologici utilizzati per l’estrazione dei profili stessi. Orbene, se l’unica finalità della banca dati è quella di archiviare i profili genetici per agevolare l’identificazione di autori di reati, perché conservare anche i campioni biologici? Perché mai trattenere campioni da cui potrebbero essere ottenute informazioni di carattere sensibile, quali malattie o predisposizioni genetiche?
Ma vi è di più. Il ddl nulla dice in merito al trattamento dei campioni biologici archiviati presso i laboratori scientifici delle singole forze di Polizia: né quelli pregressi, né quelli che saranno in futuro raccolti per analisi genetiche per fini di giustizia. Continueremo dunque ad avere archivi non ufficiali come quelli oggi disseminati nei vari reparti di polizia scientifica?
Da ultimo, due spunti di riflessione sulla maggiore invasività, fisica e giuridica, insita nel prelievo di campioni biologici a fini di profilazione genetica rispetto ad altre limitazioni coattive della libertà personale.
Sull’invasività fisica basti il richiamo alla sentenza con cui la Corte Costituzionale nel 1996 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.224, 2° co., c.p.p., nella parte in cui consentiva al giudice di disporre, anche in via coattiva, misure incidenti sulla libertà personale.
Sull’invasività giuridica il pensiero corre dritto al «caso Fronthaler», tristemente nota vicenda giudiziaria in cui l’autore del reato venne individuato sulla base del profilo genetico del padre, il quale si era, unitamente a tutti i suoi compaesani, spontaneamente sottoposto ad un prelievo biologico disposto dagli inquirenti. La vicenda mette a nudo due delicatissime questioni: da un lato il contemperamento (ad oggi irrisolto) della raccolta del dato genetico con le garanzie processual-penalistiche, dall’altro la potenzialità lesiva della banca dati nei confronti di soggetti terzi del tutto estranei a qualsivoglia implicazione giudiziaria. A differenza per esempio delle impronte digitali, infatti, i dati genetici possono essere utilizzati per trarre informazioni relative al cosiddetto gruppo biologico del soggetto a cui i dati si riferiscono.
Oltre alla riservatezza dell’interessato, occorre dunque pensare e garantire la tutela di terzi, formalmente estranei alla normativa, ma di fatto inevitabilmente coinvolti e compromessi.
Quale sicurezza può valere il sacrificio della privacy e della libertà di incolpevoli terze persone?* Avvocato penalista in Torino
l’Unità 27.9.08
Per i nostri politici i «profili del Dna» non sono da considerarsi «dati genetici»: ignoranza scientifica bella e buona
Quando la politica non conosce la scienza
di Antonino Forabosco
Per capire i punti problematici del disegno di legge che istituisce la Banca dati nazionale del Dna e il Laboratorio centrale per la banca dati nazionale del Dna («ddl Dna») è indispensabile avere qualche nozione scientifica, che cercherò qui di presentare in modo semplice.
Il Dna - ovvero l’acido desossiribonucleico - è il componente cellulare nel quale sono codificate le informazioni genetiche degli organismi viventi. Il termine è tuttavia entrato nel vocabolario della gente a indicare una sorta di entità metafisica che determina gli avvenimenti nei quali le persone sono coinvolte e le pulsioni che li hanno generati. Non meraviglia perciò che l’opinione pubblica possa attribuire a questa macromolecola anche i miracolosi poteri necessari per risolvere i gravi problemi di sicurezza e ordine pubblico. Meraviglia invece che di questo appaiano convinti pure i nostri politici e gli esperti che li consigliano! Solo così, infatti, si può spiegare perché il «ddl Dna» - presentato dal governo Prodi - sia stato approvato rapidamente e senza discussione da uno dei due rami del precedente Parlamento e la sua definitiva approvazione non sia avvenuta unicamente per l’inaspettata caduta del governo. Il medesimo silenzio si registra anche ora che il governo Berlusconi ha ripresentato un ddl identico nel testo e nei mirabolanti annunci circa l’efficacia del Dna nella identificazione degli autori di reato. Eppure il ddl presenta molti punti critici. Non vi sono obiezioni a che organi dello Stato preposti alla tutela dei cittadini si dotino di tutti gli strumenti necessari per svolgere questo compito, in discussione è che la raccolta ed il trattamento di informazioni molto personali - come quelle ricavate dal Dna - deve avvenire in modo trasparente e deve essere garantito che tali informazioni non possano essere usate contro la volontà dei cittadini. Come ha messo in evidenza l’avv. Senor, appare del tutto ingiustificata e quindi sospetta l’istituzione del Laboratorio centrale per la banca dati nazionale del Dna, davvero sorprendente è che una legge che si prefigge di normare la raccolta, l’archiviazione e il trattamento dei «profili del DNA» quali strumenti essenziali per quella «operazione sicurezza» - che si vuole realizzare su scala europea - basata sulla identificazione personale dei cittadini a beneficio di polizie e autorità giudiziarie, nazionali ed internazionali, non contenga alcun riferimento al provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali «Autorizzazione al trattamento dei dati genetici».
Per i nostri politici, quindi, i «profili del Dna» non sono da considerarsi «dati genetici». Ma proprio qui sta il problema: perché qui c’è ignoranza scientifica bella e buona. I «profili del Dna» sono - come il codice fiscale - dei codici alfanumerici rappresentativi di determinate sequenze di nucleotidi presenti nel Dna la cui analisi può consentire l’inequivocabile identificazione dell’individuo dal quale il Dna è derivato. Tutto ciò è reso possibile dalla particolare organizzazione informazionale del genoma umano. Solo per una piccola parte (non più del 5%) il genoma umano è composto da sequenze nucleotidiche uniche che si ritrovano sostanzialmente identiche negli individui che costituiscono le popolazioni umane. Queste sequenze, che danno origine ai circa 20/25.000 «geni» dell’uomo, vengono trascritte in una molecola di Rna e tradotte nella sequenza amminoacidica di una data proteina. Sono per questo dette «sequenze codificanti».
La parte più consistente del genoma umano (almeno il 40%) è invece formata da sequenze - dette microsatelliti - che non codificano per delle proteine e che si ripetono a tandem - e cioè testa coda - un numero svariato di volte. Inoltre, il numero delle ripetizioni di queste sequenze in uno specifico segmento di DNA genomico varia moltissimo non solo fra gli individui di una popolazione ma anche nello stesso individuo. Questo comporta un cambiamento della lunghezza del segmento di Dna che le contiene: si parla in questo caso di regioni genomiche (o del Dna) altamente polimorfiche in lunghezza. Sono queste le regioni utilizzate per costruire i «profili del Dna» previsti dal «ddl Dna» in quanto le loro variazioni in lunghezza possono essere utilizzate per costruire una specie di codice a barre che può permettere la identificazione dell’individuo dal quale il Dna proviene. Per costruire questo profilo è necessario considerare un certo numero di regioni, nel «ddl Dna» la indicazione della loro tipologia e del loro numero (da 9 a 13) è demandato all’European Network of Forensic Science Institutes (Enfsi). Ancora oggi abbiamo una conoscenza incompleta delle porzioni del genoma codificanti proteine e una comprensione molto superficiale della funzione delle sequenze non codificanti, nonché degli elementi genomici che regolano l’espressione genica nel tempo e nello spazio. È tuttavia certo che sono del tutto cadute le fantasiose ipotesi pseudoscientifiche secondo le quali la maggior parte del genoma è costituito da junk Dna, ossia da «Dna spazzatura». Le evidenze scientifiche attuali ci dicono che la quasi totalità delle sequenze del genoma umano - e perciò anche quelle del Dna spazzatura a cui appartengono i microsatelliti - sebbene non venga tradotta in proteine, si ritrova comunque trascritta in Rna. Quindi non può essere escluso che queste sequenze possano svolgere una determinata funzione regolativa dell’espressione delle sequenze geniche codificanti le proteine. Ciò viene confermato dalla recente scoperta che sequenze considerate «spazzatura» sono state determinanti nell’evoluzione dell’uomo . Non è pertanto più così scontato quanto affermato all’art. 11, comma 3 del «ddl Dna» e precisamente che «i sistemi di analisi scelti per costruire i profili del Dna sono applicati esclusivamente alle sequenze del Dna che non consentono la identificazione delle patologie da cui può essere affetto l’interessato».
Non vi è perciò oggi alcun dubbio che i «profili del Dna» rappresentino una parte della informazione genetica che un individuo riceve all’inizio della vita, il cossiddetto «genotipo». Il genotipo individuale si realizza attraverso la messa in comune del genotipo dei due gameti e - per il particolare modo attraverso i quali si è formato il genotipo dei due gameti - tale genotipo risulta del tutto nuovo e per questo, assume un carattere tanto personale che alcuni segmenti - in particolare quelli utilizzati per ricavare i profili del Dna - possono permettere la identificazione dell’individuo. Appare pertanto logico e del tutto evidente che i profili del Dna identificativi di un individuo debbano essere considerati suoi «dati genetici» e questo è tanto vero che nel parlare corrente essi sono anche chiamati «profili genetici». Lo afferma del resto anche l’Unesco nella dichiarazione adottata per acclamazione il 16 ottobre 2003 nel corso della 32ª sessione della Conferenza Generale ed è ribadito nel sopra citato provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali quando precisa: «dato genetico è il dato che, indipendentemente dalla tipologia, riguarda la costituzione genotipica di un individuo...».
Non far riferimento a tale provvedimento del Garante è grave difetto del «ddl Dna». In questo modo, ai dati genetici rappresentati nei profili del Dna non viene assicurato il medesimo grado di protezione previsto per tutti gli altri dati genetici. Questo rappresenta un grosso rischio per la nostra privacy, che è una delle basi fondamentali della democrazia. Lasciare che questi dati privati siano nelle mani di organismi che li chiedono per la nostra «sicurezza» ma senza assicurarne una adeguata protezione è molto pericoloso. I dubbi aumentano considerando che la richiesta per ottenere questa «licenza di possedere» si fonda su un palese errore scientifico. Prima delle leggi c’è la Costituzione, che garantisce la tutela della privacy stessa.
*Università di Modena e Reggio Emilia Consulta di Bioetica, sez. di Modena
l’Unità 27.9.08
Tre domande al Pd
di Furio Colombo
È naturale che un partito nuovo riveli le tipiche imperfezioni di tutti i fatti nuovi, tecnici e umani. Tanto più che il partito nuovo deve reggere, insieme, la spinta a momenti divergenti nei percorsi interni (penso al dichiarato scetticismo del politicamente autorevole Presidente dei Deputati Pd Antonello Soro nei confronti delle posizioni e proposte scientificamente autorevoli di Ignazio Marino, medico noto e senatore Pd, sul testamento biologico). E deve contrastare la spinta ad allargarsi dell’autoritarismo e della semidemocrazia di governo. Mi rendo conto dei mille problemi (il più serio è una strategia e uno stile di opposizione che si riconoscano subito, che durino nel tempo, che permettano ai cittadini di identificarsi e di non sentirsi soli). Ma, se ci sono problemi, è bene lavorare a risolverli. Provo a dare una mano con tre domande, fra le tante che brulicano e girano e si ascoltano tra gli elettori del Pd.
Prima domanda: che cosa c’è che non va, e chi lo dice e perché, nell’annuncio di Giulia Innocenzi di volersi candidare alle primarie per l’elezione a Segretario nazionale giovani Pd? Perché le sue lettere sono state lasciate senza risposta, salvo venire a sapere che esiste un "regolamento" che nessuno di noi conosce? In tutti i partiti che ammettono le primarie (penso a uno che conosco bene, i democratici Usa) accade che una candidatura spontanea e inattesa disturbi la leadership di partito, soprattutto il pur minimo apparato burocratico. Ma l’esperienza, in generale, insegna che è buona pratica democratica (ma vale per qualunque organizzazione, dunque è buona pratica civile) discutere subito e all’aperto ciò che viene giudicato un problema, e non sperare che «vada via».
L’esperienza italiana, poi, insegna che i Radicali sono tenaci, bene organizzati e inclini a non rinunciare, tanto che, da partito quasi inesistente, hanno cambiato in due o tre aspetti fondamentali l’Italia. Inoltre, come deputati e senatori del gruppo Pd alla Camera e al Senato, sono molto attivi, molto efficaci e tutt’altro che ospiti in attesa. Puoi convenire o no, con le loro iniziative, ma ci sono sempre e non si distraggono lungo il percorso.
Giulia Innocenzi viene dalla «Associazione Luca Coscioni». A parte gli studi, il lavoro e le lingue straniere, può una ventiquattrenne esibire un curriculum più carico di valore umano e politico (in senso alto e pulito)? Chissà in quante cose dissentiremo, se vince. Ma perché non dovrebbe partecipare alle «primarie giovani» nel partito per cui ha votato?
Seconda domanda: Arrivano (credo non solo a me, a molti deputati e senatori) grida dalla periferia, che vuol dire l’Italia, che vuol dire il centro del problema. Chiedono: ma le primarie come abbiamo deciso di farle, con quali regole? Una lettera con varie firme da Bologna protesta: «Come è possibile che, se uno di noi si candida, gli viene impedito di prendere contatto con gli iscritti che dovrebbero votarlo?». Chi, quando ha fatto la norma da Europa dell’Est d’altri tempi?
E dunque la terza domanda: chi, quando, come, dove, discute le regole che poi si trovano fatte, e discute le iniziative che poi viene chiesto a tutti di sostenere?
Le difficoltà del nuovo, insieme con le difficoltà e complicazioni del momento, sono una parte della risposta, ma solo una parte. Dubito che una larga base di elettori del Pd abbia sostenuto l’idea di organizzare la prima Festa nazionale del Pd, come festa di governo e anticipazione di Porta a Porta. Ma l’elettore del Pd a chi poteva dirlo e quando? Ha letto sui giornali della sua Festa trasformata in celebrazione «bipartisan». Ha preso atto che tutta l’attenzione della Festa del maggior partito di opposizione è stata dedicata a personaggi chiave, tutt’altro che innocui, del governo. E non ha avuto alcuna altra occasione di dire il dissenso, se c’era, come credo, dissenso. Alcune iniziative intelligenti stanno avvenendo nei gruppi parlamentari, per esempio i seminari di politica estera e sul testamento biologico. Ma fuori ci sono i cittadini, protagonisti di una vita italiana segnata dalle bizzarrie di governo (la camorra è «guerra civile» oppure «guerra per bande»?), dagli abusi di governo (impunità giudiziaria per tutti), dall’autoritarismo costituzionalmente deragliato del governo (le minacce leghiste di secessione, il tributo di destra al fascismo) che è una vita da «montagne russe», con pochi momenti alti e spaventosi abbassamenti di qualità politica e morale della vita italiana. Dove, come si parla ai cittadini? Non da Porta a Porta, dove ognuno appare uguale a tutti gli altri. Dove ogni partecipazione è un tributo al dominio sulle notizie e alla libertà vigilata dell’opposizione.
Urge, a parte il progetto di grandi manifestazioni, il dar vita a occasioni, incontri, faccia a faccia con gli elettori che sono il vero modo di seminare, durante questo lungo inverno.
furiocolombo@unita.it
Repubblica 27.9.08
Luigi Meneghello. Una vita contro la retorica
di Franco Marcoaldi
In un volume di fotografie la vicenda umana e letteraria dello scrittore vicentino
Il libro di fotografie di Luigi Meneghello Volta la carta la ze finia viene presentato domani a Parole nel Tempo, la rassegna di piccoli editori che inizia oggi al Castello di Belgioioso. All´incontro, previsto per le 17, intervengono oltre ai curatori del volume Giuliana Adamo e Pietro De Marchi, Renzo Cremante e Vittorio Poma.l ritratto cinematografico di Luigi Meneghello che porta la firma di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini, si conclude con lo scrittore di Malo e il suo intervistatore, il medesimo Paolini, impegnati a recitare la filastrocca Le campane de Masón: «Volta la carta ghe ze un pósso. / Un pósso pien de aqua / volta la carta ghe ze na gata. / Na gata che fa i gatèi / volta la carta ghe ze du putèi. / Du putèi che fa ostaria / volta la carta la ze finia».Proprio così, Volta la carta la ze finia (a cura di Giuliana Adamo e Pietro De Marchi, Effigie edizioni, pagg. 213, euro 30), si intitola la bella biografia per immagini di Luigi Meneghello, che un folto gruppo di amici ha approntato a un anno dalla morte dello scrittore. Ma il progetto era nato in precedenza, con Gigi ancora in vita. E non faccio fatica a immaginare con quale puntuta precisione egli abbia scelto le diverse fotografie, che qui si accompagnano alle copertine delle ripetute edizioni dei suoi libri (ogni volta rivisti, ogni volta limati); alle tante pagine di appunti su cui - con grafia bella e chiara - scriveva e riscriveva in continuazione la sua "roba" letteraria; ad alcuni suoi testi poco conosciuti; e infinite a svariate testimonianze, scritte per l´occasione.Credetemi, è davvero commovente ripercorrere, tra parole e immagini, la vicenda esistenziale di questo autentico fuoriclasse in perenne ricerca della glassy essence, «l´essenza invetriata» della realtà «che la mente nel concepire o la penna nello scrivere (...) vanno cercando e ogni tanto trovano». Neanche a dirlo, quell´essenza è estremamente difficile da catturare. Più facile è individuare i suoi principali nemici: l´inautenticità e l´artificio, il sussiego e la solennità; malattie endemiche della nostra cultura letteraria, dalla quale Meneghello si allontanerà nel corso di un ultradecennale "dispatrio" in Inghilterra, marcato al suo avvio nel 1947 da «una polemica piuttosto accesa contro la falsa profondità e l´oscurità artificiata, finta, di una parte purtroppo dominante dei nostri scrittori e critici, sia accademici che, come dicevano, militanti (cosa vuoi militare, avrebbe detto il piantone Giazza del 5? Alpini a Merano)».Memore del dettato di Keats - «fine writing is fine doing» - Gigi si sentiva profondamente offeso dalla «falsa oscurità, la finzione del difficile, del raffinato, dell´insolito, del profondo». Praticare quel tipo di prosa non è «un modo disonesto di scrivere, ma un modo disonesto di vivere». Soltanto una volta spurgati i vizi «dell´odiosa lingua aulica della tribù» e, per contro, assorbite le migliori virtù del mondo anglosassone (concretezza empirica, antiretorica, pacato scetticismo), Meneghello potrà pensare di avventurarsi nel suo viaggio letterario attorno «all´umana commedia»; viaggio scandito nel suo caso da una personalissima autobiografia fissata in successive «ere geologiche». Quasi che soltanto prendendo le distanze dal suo mondo originario, gli fosse possibile riportarne alla luce le radici più profonde e più care: sarà così con l´irresistibile Libera nos a Malo («Libera Signore i tuoi figli da questo luàme, dalla sudicia porta dell´Inferno!); con Fiori italiani, che ripercorre gli anni dell´educazione fascista; con la ricostruzione antieroica dell´esperienza nella Resistenza contenuta in Piccoli maestri; per arrivare infine alla breve stagione nel Partito d´Azione: «Io e i miei compagni volevamo una cosa da nulla, rifare l´Italia».Nel successivo e costante andirivieni tra l´Inghilterra e il vicentino, Meneghello sarà mosso da un´unica spinta: la ricerca del miracoloso connubio tra le parole e le cose. Ecco perché quella continua riscrittura, cancellazione, sottrazione di cui danno conto le pagine vergate a mano dallo scrittore e pubblicate in questo libro: «Se vivessi altri centoncinquant´anni, cosa farei? Avremmo tutta un´altra opera, cambiata completamente».Perfezionista fino all´ossessione, il suo modo di procedere suona decisamente inattuale in un mondo in cui pressappochismo e sciatteria regnano sovrani. Ma Gigi andava dritto per la sua strada. Non per caso l´ultimo discorso tenuto in pubblico il 20 giugno del 2007, in occasione della laurea ad honorem in Filologia moderna attribuitagli dall´Università di Palermo, era intitolato «L´apprendistato»: «Ho il senso di non avere ancora finito l´apprendistato: sono quasi al punto, però. Penso a mio padre quando terminò il suo apprendistato come tornitore e dovette fare come prova finale un pezzo conclusivo, che chiamano "il capolavoro" (...) Il capolavoro che gli diedero da fare era una vite senza fine; preparò il pezzo, misurò, ci fece i segnetti che bisogna farci per tornire una vite senza fine e a questo punto il capo che lo stava a guardare aveva già capito che era bravo e disse: "Basta così!". Vorrei fare così anch´io, se ne avrò il tempo, scrivere qualcosa di veramente conclusivo, magari solo una paginetta, o un paio, ma da scrittore finalmente maturo. E che voi, come già a mio padre i suoi esaminatori, mi diceste: "Ok, basta così"».
Repubblica 24.9.08
Presentati a Londra i risultati di un sondaggio della Società Italiana di Ginecologia
Il 62% del un campione (in grande maggioranza femminile) dà la strana risposta
Giovani bocciati in contraccezione
Per molti "è compito delle ragazze"
Carenze complessive d'informazione. Campagna Coni con Josefa Idem testimonial
di Elvira Naselli
LONDRA - Si assegnano medaglie d'oro e d'argento nella contraccezione consapevole ma, in realtà, i giovani italiani sono un mezzo disastro. La metà ritiene l'educazione sessuale "inutile" e per due su tre la protezione nei confronti di gravidanze indesiderate è compito "di lei". Sono alcuni dei risultati di un sondaggio della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia, la SIGO, presentati oggi a Londra, in occasione della giornata mondiale della contraccezione che si celebra il 26 settembre.
Una desolante fotografia, scattata durante l'estate a 1200 giovani da Como alla Sicilia, attraverso un'indagine, non scientifica ma statisticamente significativa, dal titolo "Sesso, conosci le regole del gioco?", associata ai Summer Games Tour 2008, una manifestazione che ha attraversato tutta la penisola in 20 tappe.
La scarsa conoscenza delle "regole del gioco" non stupisce più di tanto, considerato che l'Italia è ormai uno dei pochissimi paesi a non aver introdotto a scuola uno spazio dedicato alla conoscenza del proprio corpo, alla contraccezione, alla protezione dalle malattie sessualmente trasmesse, che non a caso sono in aumento proprio tra le giovanissime. Stupisce invece, e molto, che in un campione composto al 78 per cento da donne, la maggior parte (62%) ritenga che sia un compito femminile, e non della coppia, quello di evitare di "correre rischi" durante l'amore.
"E' importante informare i ragazzi sulla contraccezione - spiega il professor Giorgio Vittori, presidente della SIGO - e su come proteggersi dalle malattie trasmesse sessualmente. Per questo, a parte il sito (www. sceglitu. it), e un numero verde (800.555.323, attivo nei giorni feriali dalle 14 alle 17), che è una specie di call center per le informazioni sulla contraccezione, abbiamo utilizzato You Tube e Second life. Inoltre gli opuscoli a vignette che spiegano come funzionano i mezzi contraccettivi e suggeriscono la doppia protezione, pillola e profilattico, verranno distribuiti a breve ai concerti, negli ambulatori dei ginecologi, ma anche in piscine e palestre. E ho avuto la disponibilità di Farmindustria per una campagna di informazione su contraccettivi e malattie sessualmente trasmesse nelle farmacie italiane. Un risultato importantissimo".
Ma non l'unico. Per la prima volta, infatti, grazie ad un accordo con il CONI, la contraccezione entrerà anche nel mondo dello sport. "Proporremo ai ragazzi i messaggi attraverso personaggi giovani, vincenti, di successo - precisa Diana Bianchedi, campionessa olimpica di fioretto a Sidney e medico dello sport - è importante che si faccia capire, attraverso le maternità pianificate della Vezzali o di Josefa Idem, per esempio, che la propria vita sessuale e riproduttiva va tutelata, così come una contraccezione sicura. Ed è importante che gli opuscoli messi a punto dalla Sigo si troveranno nelle palestre e nelle piscine di tutto il paese".
Dunque informazione, tanta informazione. E, in parte, i risultati di questa indagine, ragiona Alessandra Graziottin, direttore del centro di Ginecologia e Sessuologia Medica dell'ospedale San Raffaele Resnati di Milano, sono un'implicita accusa a noi adulti, medici, genitori, istituzioni, che non sappiamo stimolare i ragazzi su un tema così prioritario. "E' necessario che non solo scuola, genitori, medici e pediatri raggiungano i ragazzi. Ma che lo si faccia con programmi efficaci, già sperimentati in altri paesi: la comunicazione deve essere da maschio a maschio o da donna a donna, ci deve essere vicinanza d'età tra chi spiega e chi ascolta e, se il contesto è multirazziale, uguaglianza di razza. Difficilmente un ragazzo starà a sentire una donna, ma un allenatore di calcetto o un giovane campione di nuoto avrà tutta la sua attenzione".
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
venerdì 26 settembre 2008
Repubblica 26.9.08
Seconda generazione la vita sospesa dei figli di immigrati
di Gad Lerner
Le (per ora) timide manifestazioni dei rom e dei sinti oggetto di sgomberi e taglio di luce e acqua nelle baraccopoli di Roma. I blacks italo-africani sono dunque solo gli ultimi a organizzarsi, forse perché più deboli degli altri, ma il conflitto etnico fa già parte del nostro panorama metropolitano. Inesorabili presagi di una guerra favorita dall´assenza di sensibilità condivisa: solo di rado i loro morti ottengono la visibilità tributata agli italiani assassinati da stranieri. Tanto meno la cronaca registra gli innumerevoli episodi quotidiani di umiliazione della loro dignità. Anche perché nel nostro paese gli immigrati, nonostante molti di loro abbiano già conseguito con fatica la cittadinanza italiana, restano quasi del tutto privi della rappresentanza politica di cui già godono nelle altre democrazie europee.
Purtroppo parlando di seconda generazione ci soffermiamo soprattutto sulle nude cifre - i giovani di origine straniera erano circa 400 mila nel 2003, si calcola che saranno un milione nel 2015 - ma fatichiamo a inquadrarne la condizione esistenziale. Ragazzi i cui genitori hanno pochissimo tempo da dedicare alla loro educazione. Famiglie spesso ancora separate, con madri e padri impreparati a seguire il percorso scolastico dei figli, quasi sempre prive di quel sostegno di accudimento fondamentale rappresentato dai nonni. Giovani smarriti, dunque, come ci ricorda il più autorevole studioso italiano della seconda generazione, Maurizio Ambrosini.
Eppure si tratta di ragazzi bene o male inseriti in una società che fornisce loro un reddito sufficiente alla sopravvivenza, e che condividono le mode, i miti consumistici, le aspirazioni dei loro coetanei. Qui scatta la maledizione di un sistema bloccato che penalizza qualsivoglia aspettativa di ascesa sociale. I figli degli immigrati sono italiani che dunque tenderanno a rifiutare i lavori tipici degli immigrati. Non vorranno fare la vita dei loro genitori, anche perché ce l´hanno sotto gli occhi. Entrano nel mondo del lavoro con standard occidentali, del tutto ignari delle condizioni di vita nei loro paesi d´origine. Se la prima generazione immigrata era disposta a sopportare enormi sacrifici pur di realizzare un progetto di sistemazione a lungo termine, i giovani nati in Italia (o approdati nella prima infanzia) sono titolari di ben altre aspettative. E se l´alternativa proposta loro fosse solo quella fra condizioni di lavoro degradanti e una vita di espedienti, siano pure illegali, potrà apparire loro conveniente anche il reclutamento o l´auto-organizzazione criminale. Tutto, pur di non fare la fine dei loro padri sfruttati nel lavoro nero o delle loro madri badanti.
È in questo retroterra che si diffonde il pericoloso stato d´animo degli stranieri in patria, intenzionati a sfuggire l´antica condizione dei meteci relegati alle necessità produttive ma privi di cittadinanza reale. Senza che possa essere presa in considerazione neppure l´ipotesi di un ritorno al paese da cui partirono i genitori, entità mitica che gli appartiene solo nella fantasia, oggetto di quella nuova forma di nostalgia che le diaspore esasperano nella relazione con luoghi sconosciuti, irrecuperabili. La seconda generazione è italiana, dunque non estradabile.
La tunica di raso marrone indossata dal padre di Abdoul Salam Guiebre alla cerimonia funebre di Cernusco sul Naviglio, preannunciava ben di più che un richiamo folklorico. Perché quella salma di un giovane cittadino italiano stava per essere imbarcata su un aereo, destinata a una sepoltura nel Burkina Faso, lontano migliaia di chilometri dal luogo in cui aveva vissuto. Segno di rottura con un paese rivelatosi d´improvviso atrocemente inospitale. In Africa, la seconda generazione può ritornarci da morta, mentre i fratelli di Abdoul soffriranno d´ora in poi una cittadinanza dimezzata. Coltiveranno probabilmente un´africanità che le circostanze paiono contrapporre all´italianità, spezzando il percorso dell´integrazione cui pure avevano lavorato gli insegnanti, gli amici, i vicini di casa, i datori di lavoro.
Il recupero di un´identità alternativa, anche se spesso deformata e posticcia, pare l´esito inevitabile di questa disgregazione sociale. Tipico è il caso di Meryem Fourdaus, la fantasiosa marocchina ventunenne di Treviso che ha dato vita al movimento "Seconda generazione". Giunta in Italia all´età di 10 anni, il padre operaio in cassa integrazione, la madre addetta alle pulizie in un ospedale, Meryem frequenta all´università di Padova un corso di Economia Internazionale e intanto fa la commessa part time. Non porta il velo islamico, si dichiara non praticante. Ma ciò non le ha impedito di organizzare per dieci settimane in un parcheggio della sua città la sorpresa della "preghiera segreta". Paradossalmente, la sua storia dimostra come possa essere l´ottusità leghista, il divieto di moschea, la causa di un riavvicinamento forzato alla religione di giovani che se n´erano allontanati.
La deriva di una guerra annunciata, il diffondersi sul nostro territorio di un conflitto etnico a cui si sentono richiamati molti cittadini italiani immigrati di seconda generazione, procede dunque come la più classica delle profezie di sventura che si autoavverano. A renderlo probabile, e ancor più pericoloso, è un´altra caratteristica del nostro sistema: gli immigrati da noi sono totalmente privi di rappresentanza politica. Col bel risultato che gli unici portavoce disponibili sul territorio e nel teatro mediatico sono dei capi comunità, per loro natura separatisti, spesso legittimati solo da una pseudo-autorità religiosa integralista. Non esistono oggi leader democratici dell´immigrazione perché, salvo eccezioni irrilevanti, i partiti politici italiani finora li hanno esclusi. Un deficit di rappresentanza che la seconda generazione rischia di colmare ben presto affidandosi a capiclan e militanti radicali, scavando ulteriormente il fossato della mancata integrazione.
Repubblica 26.9.08
Voglia di integrarsi, paura di essere respinti. Dopo la tragedia di Abdoul viaggio tra gli immigrati di seconda generazione
Neri d’Italia
di Fabrizio Ravelli
«Sono arrivato dall´Angola che avevo due anni. Ora ne ho ventitré, lavoro da cinque, ho studiato qui. Nemmeno mi ricordo dove sono nato. Questa è la mia terra». Gelson veste di nero, parla un italiano fluido e preciso, e ha gli occhi rossi di lacrime. È uno degli amici di Abdoul, detto Abba, italiano ammazzato a sprangate da un barista che gli gridava «sporco negro». Gelson è uno di quelli che sfilavano rabbiosi in testa alla manifestazione: «Ma se c´è stato un po´ di disordine chiediamo scusa, era solo uno sfogo, vogliamo solo gridare che siamo qui, che esistiamo, che siamo cittadini di questo Paese».
Esistono, sono qui. Seconda generazione, figli di immigrati. Nati qui, o arrivati bambini. Cittadini italiani, o sulla strada di diventarlo superando la corsa a ostacoli della burocrazia. L´Italia fatica a conoscere e ad ammettere quello che in altri paesi è storia. Ci pensa la cronaca nera a sbatterci in faccia questa realtà, quando l´incomprensione diventa intolleranza, violenza, razzismo.
La seconda generazione è per sua natura destinata alla rivolta: lo insegna ormai da un secolo la sociologia dell´immigrazione, e non è certo difficile intuire il perché. I figli degli affamati giunti da lontano in cerca di un lavoro purchessia, non provano la medesima rassegnazione dei genitori. Percepiscono semmai la falsità di una cittadinanza formale concessa loro dal paese in cui sono nati senza riuscire a sentirsi veramente a casa propria.
Invece di stupirci per la scoperta di una "rabbia nera" che per la prima volta - da Castelvolturno al centro di Milano - si manifesta con intemperanza contro gli "italiani bastardi", dovremmo rammaricarci di non averne colto per tempo le avvisaglie.
Lo scatenarsi delle pandillas, le bande giovanili latino-americane, a Genova nel 2004. La rivolta della Chinatown milanese, con tanto di bandiere rosse, nell´aprile 2007. La pacifica disobbedienza civile dei beurs, i giovani maghrebini laici che a Treviso inscenano da mesi improvvise adunate di "preghiera proibita" per protestare contro il generalizzato boicottaggio leghista del culto islamico.
Corriere della Sera 26.9.08
In pochi dissero no alle leggi razziali
Quando gli italiani si scoprirono ariani
di Michele Sarfatti
Alcuni vennero sospesi dal partito per atteggiamenti «pietisti», la maggior parte si pentì dopo
Gli italiani che il fascismo nel 1938 definì «di razza ariana» contestarono le idee razziste e la persecuzione dei concittadini «di razza ebraica»? Questa domanda viene posta di frequente, specie da studenti, desiderosi di comprendere di quali comportamenti si trovino a essere di fatto eredi. Quando viene posta a me, rispondo che vi furono contestazioni, ma pochissime, e sottolineo che mancano ricerche scientifiche sul tema.
Una delle testimonianze più note è quella di Ernesta Bittanti, la vedova di Cesare Battisti, che nel diario di quei mesi annotò: «La stampa che è tutta statale, e vuole avere uno spirito antiebraico, dà uno spettacolo pietoso ributtante di incongruenze, contraddizioni, spropositi storici, nefandezze da sciacalli». Poi sul Corriere della Sera del 18 febbraio 1939 pubblicò un caldo necrologio dell'amico ebreo Augusto Morpurgo, tuttavia non meglio precisate «autorità» fecero cancellare le parole attestanti l'italianità dei Morpurgo.
Di recente Ruth Nattermann ha riportato che l'alto dirigente del ministero degli Esteri Luca Pietromarchi annotò sul suo diario: «Le idee fasciste sul razzismo ... un ammasso di sciocchezze » (14 luglio 1938). E poi: «Infierisce la campagna contro gli Ebrei ridotti a essere il vilipendio della nazione. Misure violatrici non solo dello statuto e delle leggi ma degli elementari diritti dell'uomo» (3 settembre).
Benedetto Croce manifestò la sua netta ripulsa in una lettera del 21 settembre all'Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, impegnato a censire razza e religione di soci e famigliari: «Ricevo oggi qui il questionario che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l'avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. Ha senso domandare a un uomo che ha circa sessant'anni di attività letteraria e ha partecipato all'attività politica del suo Paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose? L'unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me che ho per cognome CROCE, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo proprio quando questa gente è perseguitata».
Del tutto pubblica fu la contestazione del periodico L'igiene e la vita, diretto da Giulio Casalini («un vecchio medico socialista, deamicisiano ed umanitario », lo definisce Roberto Gremmo). Nel fascicolo di agosto 1938 il giornale riaffermò l'origine ebraica di Cristo e dei suoi primi discepoli; in quelli successivi si impegnò nella critica scientifica del Manifesto fascista della razza. E proprio «atteggiamento antirazzista» fu la motivazione con la quale le autorità ne disposero ripetuti sequestri sino alla soppressione nel 1939. Fuori d'Italia la condanna poté essere espressa liberamente. Ne Il razzismo in Italia, edito nel 1939 in Francia, l'esule comunista Giuseppe Gaddi scrisse: «Il giovane operaio o il giovane impiegato di Milano non può risolversi a considerare come un essere inferiore la piccola dattilografa milanese che dopo una visita alla sinagoga va a ballare con lui, come lo studente non può risolversi a considerare come una nullità il grande professore che lo ha educato e salutare invece come un grande scienziato il fascista che occupa la sua cattedra per il solo merito del "puro sangue ariano"».
In questo elenco non possono trovare spazio i membri del Gran Consiglio del Fascismo che, nella seduta del 6 ottobre che approvò la Dichiarazione sulla razza, chiesero di ampliare le categorie di «benemeriti» (combattenti, ecc.) da esentare parzialmente dalla normativa antiebraica. Essi infatti non contestarono la persecuzione nel suo complesso (salvo affermarlo nelle memorie scritte dopo la sconfitta del fascismo). Vanno invece aggiunti gli espulsi dal partito fascista per atteggiamenti definiti «pietisti»: Ilaria Pavan ha rintracciato la menzione di quattro casi, non sempre lineari; altri potrebbero esservene stati.
Sono note alcune altre contestazioni. Ma Annalisa Capristo ricorda che, per gli accademici, la lettera di Croce fronteggia solitaria una moltitudine di dichiarazioni di arianità noncuranti del suo «proprio quando». Ecco, la cifra media del comportamento degli italiani «bianchi ariani cattolici» sembra sia stata di noncuranza, adesione passiva o adesione attiva. Quelli perbene furono una ridotta minoranza. E forse non è un caso se proprio su questo tema la storiografia è rimasta così indietro. Forte è la sensazione che il silenzio sugli italiani perbene sia il prezzo che il nostro Paese ha pagato per non mettere troppo in rilievo troppi italiani mala gente.
l’Unità 26.9.08
Tagli all’editoria. Giornali in trincea
Liberazione sciopera contro Rifondazione
di f. fan.
SCIOPERO IMMEDIATO: oggi Liberazione non sarà in edicola. Contro il «comportamento antisindacale» e «la perdurante mancanza di chiarezza» dell’editore che anziché «battersi per cambiare la legge» che taglia i contributi all’editoria «minaccia la crisi e sembra attendere passiva gli esiti nefasti».
È la reazione dei giornalisti di viale del Policlinico alla nota del segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, al termine di un incontro con presidente del cda della società editrice: «La situazione finanziaria di Liberazione è gravissima - vi si legge - Il cda prospetti subito a Rc le proposte con cui affrontare la difficilissima vicenda».
Toni giudicati «drammatici» dai giornalisti, peraltro già in stato di agitazione e con un presidio pubblico organizzato per oggi. Immediata l’assemblea, quasi automatico lo sciopero. Accompagnato da un durissimo comunicato: «Da mesi la redazione attende di conoscere, come è suo diritto, la reale situazione di bilancio e di conoscere le intenzioni sulla sorte dei 60 posti di lavoro e dei molti collaboratori esterni da molto tempo non più retribuiti».
Ferrero replica di aver visto solo ieri lo stato dei conti e respinge le accuse: «Serve chiarezza sui numeri, i redattori hanno diritto di sapere» ma «è del tutto arbitrario addossare le mancanze al partito». In serata il cdr del quotidiano ha incontrato sia lui che Fausto Bertinotti.
Nel caso Liberazione la minaccia di «strangolamento» per via del taglio dei contributi pubblici al settore si innesta sulla dinamica interna a Rc e sulle divergenze di linea tra il direttore Piero Sansonetti e i vertici di partito. Ma la scure sui conti minaccia anche gli altri «piccoli» del panorama editoriale.
Ieri il manifesto è uscito con l’eloquente copertina «Manifestatevi» e l’editoriale di Valentino Parlato: «Stringiamoci le mani, non stringiamoci a corte». Europa titolava: «Così si soffocano le idee». Il quotidiano della Margherita «sta per rilanciarsi (deadline per la nuova grafica: primo ottobre) eppure può chiudere se il governo non cambia il testo». Incassando la solidarietà di Anna Finocchiaro e Luigi Zanda.
Il capogruppo del Pd Soro ha scritto al presidente della Camera Fini invocando un dibattito parlamentare: «Il governo vuole chiudere i giornali d’opinione, i tagli creano disoccupazione e condizionano la stampa, la democrazia non può sopportarlo».
La Fnsi lancia l’allarme: il nuovo regolamento voluto da Palazzo Chigi «non basta se restano i tagli per l’anno già in corso e per il prossimo» perché ci sarebbero «caduti e morti per asfissia». Stesse preoccupazioni per Articolo 21: «Così si pregiudica una riforma in grado di introdurre trasparenza e modernizzazione - scrive Beppe Giulietti - Meglio procedere in modo condiviso eliminando le parti inaccettabili».
Solidarietà a Liberazione arriva dalla Fnsi e dall’Associazione Stampa Romana: «Si rispettino le regole». E dal cdr dell’Unità: «Oggi una testata importante dell'informazione politica in Italia vede messa a rischio la propria esistenza. Notizie inquietanti giungono in una vicenda dai troppi punti oscuri». Il rischio è «far spegnere una voce autonoma, intelligente, preziosa per la democrazia. L'Unità lotterà con i colleghi di Liberazione perché non accada».
l’Unità 26.9.08
Piero Sansonetti: «Il quotidiano resterà in edicola. Vendola? Ci vuole più bene»
«Ferrero dica se ripiana il debito»
di Federica Fantozzi
Direttore, qual è la situazione di Liberazione? 12 milioni di perdite?
«Questi numeri, fatti dall’Espresso, sono demenziali. Liberazione storicamente ha uno sbilancio tra 1 e 2 milioni. Nessuno mi ha fatto vedere le cifre attuali, ma pare sia salito a 3-4. Credo che in quella cifra sia già compreso il taglio di 2 milioni di contributi».
Il rosso in più quindi è colpa del governo?
«Vendite e pubblicità sono stabili. La free press ha avuto grande successo iniziale, poi le inserzioni sono franate dopo le elezioni. Può avere un rosso, ma si tratta di cifre modeste. Il problema è che non c’è più un gruppo parlamentare di riferimento».
Con Ferrero non vi amate. Non è un mistero che vi accusi di seguire una linea «minoritaria». Se avesse vinto Vendola, cosa farebbe oggi?
«Anche lui si troverebbe di fronte una crisi, ma suppongo che abbia un affetto maggiore per questa Liberazione che alla maggioranza non piace per le sue posizioni culturali e politiche. Non c’è dubbio che la differenza sia forte».
È falsa la malignità che l’unica cosa di cui i vendoliani non vogliono la metà sono i debiti del giornale?
«I vendoliani sono una corrente, non una società. L’editore è il partito: se non gli piace il direttore, lo cambi. In passato ho litigato con Giordano su temi importanti. Con Ferrero non ci sono grandi liti ma neanche rapporti intensissimi».
Rc promette un piano di rilancio. L’ha visto?
«No, ma ritengo che debba esserci. E che vada concordato con chi dirige il giornale, io o altri».
Le nuove regole sui contributi all’editoria sono molto restrittive. È un problema politico o di mercato?
«È un problema politico non solo di sinistra, di tutti. Scomparirebbero i giornali di partito che svolgono una funzione molto importante. Sono alla base di metà delle idee del dibattito politico. La legge tende ad abolirli: difficile che sopravvivano».
Quali sono i punti irricevibili?
«La discrezionalità assoluta del ministero del Tesoro che mette i giornali alle dipendenze di Tremonti e crea una sudditanza antidemocratica. E la retroattività che avrà conseguenze pesantissime, farà saltare i bilanci in corso e chiuderanno 2-3 giornali. Poi per la sinistra c’è un problema in più».
Quale?
«Solo Liberazione, il manifesto e l’Unità sono giornali di sinistra. Se chiudono loro, la sinistra resta senza voce. Tutto il resto, grande stampa compresa, è di centro o di destra. Il rischio è diventare un Paese che non ha più una stampa di sinistra».
Una provocazione: se qualcuno lo trovasse la naturale conseguenza della mancanza di rappresentanza parlamentare della sinistra? Perché, in sostanza, agli italiani non interessa?
«Risponderei che sono due cose diverse. Gli elettori hanno pieno diritto di decidere chi governa e chi fa parte del Parlamento. Anche se la cosa mi impressiona: in passato non ci sarebbe stato La Malfa. Ma se la democrazia decide di autolimitarsi può farlo. La libertà di stampa invece è illimitabile».
A Ferrero cosa chiedete?
«Gli azionisti dicano, semplicemente, se ripianano o no. Ma escludo che Liberazione nei prossimi anni non sia in edicola».
l’Unità 26.9.08
La scure di Gelmini sui più piccoli
Elementari, bocciati con un cinque
di Maristella Iervasi
Ripristinata la bocciatura alle scuole elementari. Basterà una sola insufficienza e i bambini della primaria ma anche i ragazzini delle medie verranno bocciati. Con un 5 e mezzo in Geografia o disegno alle elementari - tanto per fare un esempio - e lo stesso voto per i più grandicelli in Applicazione tecnica o in Musica, gli studenti rischiano di ripetere l’anno e persino di non essere ammessi all’esame di licenza scolastica. Ecco la scuola del «rigore» del ministro Mariastella Gelmini. La norma, in vigore da subito, è nascosta tra le righe del decreto n.137 del 1° settembre scorso che il Parlamento si appresta a convertire in legge. Quello - per capirci - che ha introdotto il voto in condotta, le pagelle in numeri e che prevede il ritorno del maestro unico. «Basta un solo voto al di sotto dei 6/10 in un’unica materia o gruppo di discipline per pregiudicare la carriera scolastica di un alunno - denuncia Manuela Ghizzoni, capogruppo Pd in Commissione Cultura alla Camera».
«Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università». Dopo Cittadinanza e Costituzione e la valutazione del comportamento degli studenti, ecco l’articolo 3: «Valutazione del rendimento scolastico degli studenti». Il titolo è generico e i primi due commi specificano che si parla della valutazione «periodica e annuale» dall’anno scolastico 2008/2009 nella scuola primaria e secondaria di I° grado, cioè le medie. Mentre il terzo comma sancisce: «Sono ammessi alla classe successiva, ovvero all’esame di Stato a conclusione del ciclo, gli studenti che hanno ottenuto un voto non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina o gruppo di discipline».
Una rivoluzione senza precedenti, visto che finora alle elementari la bocciatura è un caso raro e laddove è ritenuta necessaria è sempre concordata tra genitori e insegnanti. Ed è una norma fortemente discriminatoria anche per i ragazzi delle medie e le loro famiglie, visto che per gli studenti delle superiori è consentito di mettersi in pari con il proprio debito o le difficoltà scolastiche con i programmi di recupero introdotti dall’ex ministro dell’Istruzione Beppe Fioroni e confermati dalla Gelmini.
Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil: «È assurdo che per una sola materia si bocci un bambino. Il 137 prevede proprio questo. Dietro queste norme si nasconde un vuoto assoluto di idee su come rendere innovativo il sistema di istruzione nel nostro paese e nello stesso tempo si dà un corpo mortale alla scuola pubblica partendo da quella che funziona meglio: l’elementare. Bocciare un bambino, attraverso il meccanismo del voto - conclude Pantaleo - significa riconoscere l’incapacità della scuola, la sua funzione educativa e di apprendimento».
Il Pd in Commissione Cultura, solo per il comma 3 sulla valutazione del rendimento scolastico, ha presentato 5 emendamenti (Ghizzoni, Caterina Pess, Rosa Bruna De Pasquale e Letizia De Torre). Ne ha discusso a lungo con la relatrice Valentina Aprea e anche alla presenza del ministro. Mentre anche la Lega con la deputata Paola Goisis, si è accorta della pericolosità della norma e ha chiesto «che venga meglio chiariata». Ma il testo, alla fine è stato licenziato con il ripristino della bocciatura per le elementari. Senza alcuna modifica. Solo un impegno della Lega a modificarla in aula. Sconcertanti le parole messe verbale e riportate sul sito della Camera nel corso della discussione di martedì scorso in VII Commissione Cultura. Valentina Aprea, presidente e relatore: «Il comma 3 dell’articolo 3 è una norma chiara, volta a responsabilizzare i docenti della scuola secondaria di primo grado». Il ministro Maristella Gelmini: «Gli insegnanti avranno buon senso nell’applicare la norma in questione».
Lunedì a Montecitorio l’aula comincerà l’esame del decreto. «E chissà se in quella sede la maggioranza capirà che le leggi si scrivano affinchè vengano applicate e non per confidare nel buon senso dei cittadini», è il commento di Manuela Ghizzoni. Il Piddì annuncia battaglia. Il governo e il centrodestra hanno invece fretta di convertire in decreto in legge ordinaria, perchè altrimenti entro il mese di ottobre decadrebbe.
Ma un’altra «grana» è in agguato: l’art.4 che prevede il ritorno del maestro unico, manca di copertura finaziaria. L’ha certificato la commissione bilancio, che ne ha chiesto la riformulazione per precisarne gli oneri e la data di applicazione.
Intanto, con lo slogan «salva la scuola» parte la tre giorni di mobilitazione del Pd contro il decreto Gelmini. Stamattina l’ex ministro Giuseppe Fioroni sarà a Milano davanti davanti alla scuola «Casa del Sole» e poi al convegno «Salva l’Italia cambia la scuola all’Auditorium Teatro San Carlo. Domani Dario Franceschini, vice segretario Pd, sarà a Perugia. Mentre lunedì, a Roma, alle 17, Walter Veltroni incontrerà il mondo della scuola al teatro Capranica.
l’Unità 26.9.08
Scuole pubbliche e private: Ratzinger vuole la parità
Parità scolastica. Sia reale la possibilità di «libera scelta delle famiglie» e sia «effettiva l’uguaglianza tra scuole statali e scuole paritarie», che poi sono fondamentalmente quelle cattoliche. Lo ha chiesto ieri Benedetto XVI ricevendo in udienza a Castel Gandolfo i partecipanti al convegno promosso dal Centro studi per la scuola cattolica della Cei. Nel suo saluto il Papa, sottolineando il «significato civile» del progetto pedagogico cattolico, ha rilevato come possa e debba rispondere a «quella emergenza educativa» denunciata più volte. Lo fa rilanciando il tema della parità scolastica, non soltanto come problema di cassa per la scuola «cattolica», ma anche come «intento pedagogico» da far conoscere e da valorizzare in tutti i suoi aspetti, non solo quello dell’identità ecclesiale e del suo progetto culturale, ma anche del suo «significato civile», che «va considerato non come difesa di un interesse di parte, ma come contributo prezioso all'edificazione del bene comune dell'intera società italiana». È così che quel modello, spiega il pontefice, può essere «scelto e apprezzato». Plaude il ministro dell'istruzione del governo ombra, la democratica Mariapia Garavaglia, aggiungendo che «purtroppo il governo in carica non ha presentato nessun progetto educativo, ma tagli pesanti che coinvolgono tanto la scuola statale che paritaria». Plaude anche Luca Volontà (Udc) che sottoscrive la richiesta di «effettiva parità scolastica» e di «reale libertà di scelta per le famiglie», per chiedere al governo di centrodestra di passare ai fatti: di assicurare finanziamenti alla scuola cattolica «per riconoscere la piena attuazione del diritto-dovere di libertà educativa». Un giudizio non condiviso dalla portavoce del Cgd, Coordinamento genitori democratici, Angela Nava. «Le dichiarazioni del Papa sulla necessità di un'effettiva parità fra istituti statali e paritari può funzionare per le coscienze, ma non per la politica di uno Stato, che d'altronde è particolarmente favorevole alla scuola privata. Il governo dovrebbe investire maggiormente sulla scuola pubblica, quella di tutti». «In Italia -continua Nava- la questione fra scuola pubblica e scuola privata è ancora irrisolta. La legge Berlinguer, in base alla quale istituti statali e paritari devono garantire stessi diritti e doveri, non ha ancora avuto piena attuazione. Quando gli istituti privati si adegueranno ci sarà effettiva parità, e in questo modo potremo garantire il diritto delle famiglie alla scelta». L’Unione genitori, invece, apprezza e chiede maggiore sostegno alle famiglie.
l’Unità 26.9.08
Senza certezza di una cattedra e di uno stipendio, dopo il Ssis e i corsi di specializzazione. In Puglia e in tutt’Italia
Provveditorato, in centinaia in fila. Per un anno di supplenza
di Paola Natalicchio
In coda davanti al Provveditorato, per un posto precario nella scuola, una semplice supplenza annuale: 12 punti in graduatoria, 1200 euro al mese. Un giro di giostra in più, con la speranza che prima o poi qualcosa succeda: un nuovo concorso, un’onda di pensionamento di massa. Chissà. È questo, in tutta Italia, il settembre angoscioso di decine di migliaia di insegnanti «a gettone». Precari della scuola appesi a un filo, senza la certezza di una cattedra e di uno stipendio a fine mese. Se un anno fa la situazione era pesante, quest’anno la crisi è piena, soprattutto al Sud. Qui la scure dei tagli in Finanziaria si è fatta sentire più che altrove. E un’intera generazione di trentenni che ha investito sulla formazione arranca.
In Puglia, ad esempio; qui aumentano i laureati, aumenta la domanda di impiego nel settore scuola e diminuiscono le possibilità. Quest’anno gli aspiranti supplenti sono passati da poco più di 17 mila a 18.730. I tagli in graduatoria, però, sono stati 1400, in buona misura dovuti dalla diminuzione della popolazione scolastica: 7000 alunni in meno rispetto all’anno scorso. Qui non ci sono molti immigrati come al Nord a riempire le classi e il decremento demografico della popolazione giovanile inizia a farsi sentire.
Per l’anno prossimo non si vede luce. Anzi. «La riforma Gelmini triplicherà il problema, fino alla catastrofe di 5000 tagli previsti per l’anno scolastico 2009-2010», spiega Paolo Peluso, segretario regionale di Flc-Cgil. Che aggiunge: «Il paradosso è che non stiamo liberando la scuola da personale inadeguato o da nuovi fannulloni, ma stiamo sprecando giovani talenti, altamente specializzati e potenzialmente in grado di migliorare la qualità dell’offerta didattica».
Ieri mattina, in fila al Provveditorato di Bari, per la terza e (per ora) ultima «chiamata» per le supplenze alle superiori c’erano un centinaio di professori in cerca d’autore: età media tra i 30 e i 40, moltissime le donne. Francesca, 32 anni, ha una laurea in lingue, un dottorato, la Ssis e due corsi di specializzazione. Eppure è tra gli ultimi nella graduatoria di inglese. Senza una cattedra qui, domani parte per Bergamo, dove è stata chiamata dalle graduatorie d’istituto. Ce la fa per un pelo. Scoppia a piangere, le tremano le mani. Nella lotteria delle supplenze, "vince" una cattedra di qualche ora a Putignano, la città del carnevale. Cento chilometri da casa, ma che importa: «Ancora non ci credo, avevo già iniziato a fare le valigie». Anche Lella, 29 anni, riesce ad avere uno "spezzone": 9 ore di insegnamento a Modugno, zona industriale di Bari, dopo un dottorato, la Ssis, tre corsi di specializzazione, un anno all’estero e un assegno di ricerca. «Mi hanno svuotato le tasche, però. 3000 euro per la Ssis, dai 600 ai 1000 euro per ogni corso di formazione. Per quest’anno ne è valsa la pena, ma fra un anno arrivano i tagli della Gelmini, e quasi certamente resterò fuori». Mario, 40 anni, la guarda con un sorriso amaro. Stesso curriculum di Lella, ma in più una moglie, due gemelli appena nati, un mutuo. «Tento di giocare una doppia partita: qualche supplenza a scuola superiore e qualche contratto in università. Anche lì la situazione non è facile. A me è appena scaduto un assegno di ricerca e il massimo che mi hanno garantito per quest’anno è un corso di sei mesi a 2000 euro totali. Se non prendo una cattedra oggi non so davvero come fare». Purtroppo rimane a mani vuote. Come Adriana, 30 anni. Lei il dottorato non ce l’ha e sono 12 punti in meno. Ha "solo" una laurea, un master, due corsi di specializzazione: «È impossibile che mi chiamino, ma sono venuta lo stesso. Non si sa mai e sono sei anni che sono disoccupata, a parte qualche call center, Ma l’anno prossimo me ne vado al Nord. Ho degli amici che insegnano a Brescia, altri a Treviso. Lì si lavora. Stare qui è perder tempo».
l’Unità 26.9.08
Tra nazionalismo e messianesimo
Gerusalemme, la galassia della destra ultra ortodossa
di u.d.g
Il loro credo è Eretz Israel, la Grande Israele. Il loro eroe è Yigal Amir, l’assassino di Yitzhak Rabin. L’ accordo di pace con i palestinesi? «Un tradimento». LUno Stato per i palestinesi? «La terra a disposizione è troppo piccola per ospitare due popoli». Quale futuro per la gente dei territori? «Hanno ventidue Paesi dove andare a vivere». Il loro humus ideologico è un mix tra messianismo religioso e nazionalismo portato agli estremi. Hanno una visione manichea della Storia, per la quale da un lato c’è il popolo eletto, Israele, e sul fronte opposto il mondo ostile dei Gentili. Nei loro siti internet, nelle affermazioni dei loro leader, emerge, costante, l’idea di Israele come un grande ghetto super armato in guerra permanente non solo con i terroristi palestinesi ma contro i loro «mandanti» che vanno ricercati in un mondo arabo che, in questa visione paranoica, ha come unico disegno quello di consumare una nuova Shoah contro gli Ebrei. In questa logica da guerra permanente tra i «Nemici» mortali vengono annoverati i «traditori», coloro cioè che dal’interno di Israele operano per distruggere Eretz Israel consegnandola nelle mani «empie e grondanti di sangue« degli rabi. Dentro questo humus è maturato l’assassinio, tredici anni fa, di Yitzhak Rabin, il «generale-primo ministro» che aveva «osato» stringere la mano a Yasser Arafat e avviato la stagione del dialogo. Secondo un recente rapporto di Shin Bet, il servizio di sicurezza interno dello Stato ebraico, possono contare su almeno quattrocento attivisti in servizio effettivo permanente, ma l’area di simpatizzanti si estende ad almeno ventimila persone, in maggioranza giovani. Sono una minoranza, certo, ma una minoranza agguerrita, che può contare su agganci nei partiti dell’estrema destra presenti alla Knesset (il Parlamento israeliano). Le loro roccaforti sono negli insediamenti ebraici di «Giudea e Samaria» (i nomi biblici della Cisgiordania) come Kiryat Arba, a un tiro di fucile da Hebron, dove ancora si venera come «eroe di Israele», Baruch Goldstein, il dottore colono che 24 febbraio 1994 si trasformò in killer implacabile nella «tomba dei patriarchi» di Hebron, sterminando più di 50 pellegrini musulmani prima di essere ucciso. I zeloti ultrà sono inquadrati in movimenti oltranzisti, come il Kach (messo fuorilegge 1994 dallo Stato israeliano per le sue posizioni razziste nei confronti della popolazione araba israeliana e palestinese) .o la «Spada di David», a cui si è aggiunto, più di recente, «Eyal», formazione che proclama di opporsi con tutte le sue energie «al governo dei traditori», dove per «traditori» si intendono tutti quei leader, da Rabin a Sharon, ed oggi Olmert e la nuova premier incaricata Tzipi Livni, che hanno praticato, o anche solo accennato, la via del compromesso. I pionieri della Grande Israele fanno proseliti nelle «yeshiva» (le scuole talmudiche) dove insegnano i rabbini più conservatori. Minoritari, ma non isolati. Secondo un recente sondaggio pubblicato da più diffuso quotidiano israeliano, Yediot Ahronot, il 32% dei 220mila coloni della Cisgiordania ritiene che sia «ragionevole» amnistiare Yigal Amir, l’assassino di Rabin. Per un altro sondaggio, ben il 17% dei coloni si è detto pronto a prendere le armi contro la polizia di un (ipotetico) Stato palestinese. Per sottrarsi ai controlli delle autorità , diversi capi dell’ultradestra hanno scelto come base strategica gli Stati Uniti dove possono contare su appoggi e finanziamenti. Gli epigoni di Eretz Israel propugnano la espulsione in massa dei palestinesi dalla Cisgiordania, e hanno nel loro mirino, non solo metaforico, non solo i politici, ma anche gli scrittori, gli artisti, i giornalisti, donne e uomini di cultura che si battono per un accordi di pace con i palestinesi fondato sul principio di due popoli, due Stati. «L’errore più grave che potremmo commettere è sottovalutare le minacce dell’estrema destra o ridurre questo problema solo a una questione di polizia», dice a l’Unità Abraham Bet Yehoshua. «È tempo - aggiunge lo scrittore - di condurre una battaglia culturale contro la demonizzazione dell’altro da sé, contro l’idea che la Sacra Terra d’Israele sia più importante dello Stato d’Israele e della sua essenza democratica. Una battaglia contro la logica del “tradimento” scagliata con violenza contro chiunque “osi” agire per riaprire spazi di dialogo con i palestinesi». .
l’Unità 26.9.08
America: e la destra disse Dio è con noi
di Furio Colombo
DOMANI CON L’UNITÀ il libro di Furio Colombo dedicato al trionfo del fondamentalismo religioso nella politica degli Usa. Dalla religiosità di Carter a quella mediatica di Reagan e dei due Bush
Era il 1979, nel corso di una dura e difficile campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti quando la religione ha fatto il suo clamoroso ingresso nella politica americana. I due candidati erano Jimmy Carter, e Ronald Reagan. Carter, Presidente in carica, era noto per la sua religiosità personale, si era da tempo definito born again, nato di nuovo alla grazia di Dio, un fenomeno che stava divulgandosi nelle Chiese protestanti di denominazione battista, di cui Jimmy Carter era membro e dove insegnava il catechismo. In quella stessa Chiesa, una sorella del Presidente era ritenuta autrice di alcuni miracoli. Reagan, come tutti ricordano, era il tipico personaggio di Hollywood, mondano, simpatico, ottimo conversatore, religioso solo al modo formale e cinematografico della gran parte della middle america: la cerimonia domenicale, la moglie col cappellino, il pastore che ringrazia sulla porta della piccola Chiesa bianca. Anche Reagan era protestante ma senza alcuna affiliazione nota. Era stato protagonista della politica californiana come Governatore ed era, agli occhi dei suoi estimatori e dei suoi avversari, un conservatore senza rigidità, circondato però da personaggi aspramente schierati a destra... ma lui stesso, era personaggio benevolo, incline alla comunicazione, interessato al grande consenso e con scarsa vocazione dogmatica. Vorrei ricordare ai lettori che sto parlando del Ronald Reagan della campagna elettorale, non ancora di un Presidente di destra e tuttavia ricco d’istinto politico, autore della celebre frase sull’Urss come impero del male, ma pronto a coglierne i segni del cambiamento e il messaggio di Gorbaciov sulla fine della Guerra fredda. Tra i candidati, il Presidente e il laico, l’uomo rinato in Dio e il disinvolto uomo di spettacolo, il potente schieramento religioso che stava emergendo in America come riferimento autorevole di gran parte del protestantesimo ha immediatamente scelto Reagan e ne ha fatto il campione. Reagan, da parte sua ha accettato il poderoso sostegno e ha adattato alla sua nuova militanza la sua immagine pubblica. Lo ha fatto moltiplicando riferimenti e apparizioni pubbliche associati a Dio, ad alcuni predicatori, ad alcune Chiese, ad alcuni impegni per la sua elezione alla presidenza (per esempio la promessa di nomina per la corte suprema di giudici contrari all’aborto) e ad alcuni atti simbolici, come il dichiararsi a favore della preghiera obbligatoria nelle scuole. È dunque iniziata, con la campagna elettorale del 1979, l’ingresso tra le componenti del confronto politico americano di una vasta e bene organizzata opinione pubblica legata ad alcune Chiese e movimenti. È l’ingresso drammatico, pesante e tuttora in atto negli Stati Uniti della religione nella politica, negli equilibri o squilibri politici, in tutti gli aspetti della vita pubblica americana da quello giudiziario a quello dell’insegnamento nelle scuole. Occorre per prima cosa definire questa alleanza, definire i protagonisti e seguire le tracce di un percorso che giunge fino a noi. In questo libro, scritto e pubblicato per la prima volta nel 1980 (New York, Columbia University press, Milano, Mondadori) la serie di episodi che hanno segnato e cambiato profondamente la vita americana e la vita del mondo, è vista e descritta nel suo inizio, nella clamorosa novità che portava. I protagonisti, come si legge in queste pagine, sono due leader cristiani di notevole carisma come il reverendo Jerry Falwell e il reverendo Pat Robertson. Importa poco che, nel corso degli anni, le due vite abbiano attraversato fortune diverse e diversi gradi di successo. I due personaggi, noti al tempo del loro emergere e imporsi alla vita pubblica americana come predicatori elettronici, hanno creato la vasta base d’opinione del fondamentalismo cristiano che diventerà per decenni la forza quasi sempre imbattibile della destra. Ecco ciò che in effetti è avvenuto: una duratura e radicata alleanza fra destra politica e religione. A questa alleanza la destra americana ha offerto, in cambio di un potere prolungato e senza controlli morali, la lotta contro tutti i valori che la destra aveva, in passato, ricevuto dal liberalismo roosveltiano e kennediano: libertà civili, parità nel lavoro delle donne, diritto delle donne a scegliere sulla procreazione, separazione rigorosa, anche simbolica della Chiesa dallo Stato, separazione rigorosa della Chiesa dalla scienza. La contro-offerta dello schieramento religioso è apparsa di grande importanza per la destra economica e politica america. Pressione, predicazione, conversione, penetrazione nelle famiglie e nelle persuasioni individuali avrebbe sciolto fronti compatti come quello del lavoro e dei sindacati, riorientato i più poveri dalla protesta sociale alla fede in Dio, avrebbe screditato e reso più deboli i gruppi che traevano la loro forza non solo dal liberalismo democratico, ma dai movimenti liberatori di Martin Luther King e Robert Kennedy, e le varie forme di protagonismo e antagonismo nate negli anni Sessanta, soprattutto la parte, molto dannosa per il mondo degli affari, impegnata nelle crociate ambientaliste... In più la destra acquistava la disponibilità; anche fisica, di piazze, folle, marce, mobilitazioni, grandi eventi pubblici, cortei, che fino a un momento prima erano stati patrimonio e strumento esclusivo della sinistra sindacale o di quella politica. Un prezioso aiuto in più è stato subito visto dalla destra politica nella nuova alleanza: lo scudo religioso sarebbe stato in grado, e lo è stato, di respingere gli attacchi da parte liberale e di sinistra, basati sulla moralità, le accuse di comportamenti impropri e dannosi nell’uso privilegiato della ricchezza. Uno schieramento di predicatori, sostenuto da nuovi fondi, da nuove megachiese e da infiniti programmi televisivi, si è dimostrato in grado di deflettere o respingere gran parte degli attacchi del vecchio liberalismo e del vecchio movimentismo in nome di Dio e delle nuove priorità: lotta all’aborto, agli omosessuali, alla separazione tra Chiesa e Stato, tra Chiesa e scienza. In questa alleanza politica-religione avvenuta negli anni Ottanta in America, i lettori non faranno fatica a riconoscere la ragione del trionfo della destra politica... Meno chiaro, per molti che sono lontani dalla cultura americana, è che cosa si intenda per religione e per Chiesa come partner di questa alleanza. Le Chiese protestanti americane sono una costellazione di istituzioni e di iniziative che sono, allo stesso tempo, radicate nella storia e nate, rinate, divise e riformate continuamente nel presente. Esse sono, quasi nello stesso tempo, istituzioni e movimento, sede fissa e immutabile di valori e adattamento continuo, soggetto alla doppia spinta del tempo, conservatorismo e mutazione. Tre caratteri fondamentali vanno tenuti presenti da chi si affaccia alla costellazione delle Chiese protestanti americane. La prima è che manca quasi del tutto una gerarchia se non temporanea e carismatica, che abbia responsabilità e potere di guida. La seconda è che, per quanto le predicazioni siano pressanti e potenti, non esistono invalicabili linee di ortodossia e proposizioni dogmatiche definite. La terza è che l’intero mondo protestante americano si divide in Chiese o dominazioni (denomination) dette main stream (Metodisti, Unitariani, Luterani, Mormoni, Christian Science) e nella vasta disseminazione di Chiese battiste associate in assemblee, con organi di coordinamento non totali e non perenni. Ciascuno di questi gruppi di Chiese si divide a sua volta in bianchi e neri, (lungo linee razziali fino a poco fa abbastanza marcate) e nella contrapposizione fra grandi centri urbani e America interna o Bible belt.
(...)Si direbbe che assistiamo, negli Stati Uniti degli anni Ottanta, ad una grande anticipazione di ciò che accadrà alcuni decenni più tardi, nel comportamento e nelle decisioni della Chiesa di Roma, che sotto il papato di Joseph Ratzinger, dovendo scegliere fra il sostegno a un cattolico rigoroso e praticante come Romano Prodi, leader del centrosinistra, e un personalità pronta a ogni cerimoniosità ma evidentemente estraneo ai valori religiosi, come Silvio Berlusconi, Ratzinger non ha esitato a offrire a quest’ultimo il pieno ed esplicito sostegno della Chiesa italiana. La scelta di Papa Ratzinger appare del tutto simile, nelle motivazioni e nelle conseguenze, a quella delle Chiese fondamentaliste americane: l’estraneità ai valori religiosi, unita all’ansietà di offrire sostegno a valori che sono indifferenti alla destra (ma garantiscono i voti religiosi al partito), e il sostegno politico del partito, premiato da quei voti, alla Chiesa rassicurata su ciò che desidera, cementano una alleanza perfetta. Di più: la mancanza di valori religiosi, proprio da parte dell’alleato laico prescelto, garantiscono la sua disponibilità a sostenere le richieste più rigide di una Chiesa.
l’Unità 26.9.08
Tolleranza zero, l’ossessione dei potenti
di Luigi Ferrajoli
Pubblichiamo alcuni stralci dell’intervento di Luigi Ferrajoli al festival del Diritto che si svolge a Piacenza da oggi a domenica.
La tolleranza zero, cioè l’impossibilità del crimine, potrebbe forse essere raggiunta solo in una società panottica di tipo poliziesco, che sopprimesse preventivamente le libertà di tutti, mettendo un poliziotto alle spalle di ogni cittadino e i carri armati nelle strade. Il costo della vagheggiata e comunque sempre illusoria "tolleranza zero" sarebbe insomma la trasformazione delle nostre società in regimi disciplinari e illiberali sottoposti alla vigilanza capillare e pervasiva della polizia. Laddove il connotato principale del diritto penale, in una società liberale, consiste precisamente nella tolleranza, a garanzia delle libertà di tutti, della possibilità materiale della trasgressione e nella sua prevenzione sulla sola base della minaccia della pena: nella difesa, in altre parole, della libertà fisica della trasgressione in quanto vietata giuridicamente e non impossibilitata materialmente. Di tutto questo furono ben consapevoli i criminalisti della Scuola classica, che ammonirono contro il carattere assurdo e funesto dell’illusione panpenalistica e pangiudizialista. "La pazza idea che il giure punitivo debba estirpare i delitti dalla terra", scrisse Francesco Carrara, "conduce nella scienza penale alla idolatria del terrore". E prima di lui Gaetano Filangieri aveva scritto che solo un legislatore "tirannico" può illudersi e illudere che "le pene potranno interamente bandire dalla società i delitti", anziché semplicemente "diminuirne il numero". E Mario Pagano, a sua volta, aveva messo in guardia contro lo zelo inquisitorio e le ideologie efficientiste, denunciando l’"arbitrario ed immoderato potere" che "fa d’uopo" lasciare "nelle mani del giudice" ove si voglia "che il più leggiero fallo non resti impunito", nonché il prezzo "di necessarie violenze ed attentati sulla libertà dell’innocente" che occorrerebbe pagare per la ricerca di ogni "occulto delitto".
E tuttavia è sulla base di questa insensata parola d’ordine che è stata promossa in questi ultimi venti anni la crescita esponenziale, non solo in Italia, della carcerazione penale, senza che sia in alcun modo diminuita la criminalità che queste politiche avrebbero dovuto ridurre a zero. Si tratta di un fenomeno di dimensioni gigantesche, che offre la prova più clamorosa dell’irrazionalità delle politiche penali informate al progetto insensato della tolleranza zero. In tutti i paesi occidentali si è prodotta in questi anni una vera esplosione delle carceri, che ha visto talora raddoppiare, come in Italia, e talora, come negli Stati Uniti, addirittura decuplicare la popolazione carceraria: una popolazione formata ormai quasi unicamente, come mostrano le statistiche giudiziarie di tutti questi paesi, da soggetti poveri ed emarginati: immigrati, neri, tossicodipendenti, detenuti per piccoli reati contro il patrimonio.
Ma simultaneamente la criminalità, per effetto delle politiche informate alla vagheggiata tolleranza zero, non è affatto diminuita. Negli Stati Uniti, al contrario, è aumentata. Da un lato il numero dei detenuti ha raggiunto circa i 2 milioni e mezzo, senza contare i 4 milioni di cittadini sottoposti alle misure della probation o della parole: 1 ogni 100 abitanti, dieci volte di più che in Europa, otto volte di più che negli stessi Stati Uniti di 30 anni fa. Ma dall’altro il numero degli omicidi ha raggiunto il numero di circa 30.000 l’anno, che è quasi dieci volte il numero degli omicidi che, nonostante le mafie e le camorre, accadono ogni anno in Italia. Aggiungo che il fenomeno si è sviluppato, pur se in misura incomparabilmente inferiore, anche in Europa. Si tratta di una carcerazione di massa della povertà, generata da una degenerazione classista della giustizia penale, del tutto scollegata dai mutamenti della fenomenologia criminale e sorretta soltanto da un’ideologia dell’esclusione che criminalizza i poveri, gli emarginati, o peggio i diversi - lo straniero, l’islamico, l’immigrato clandestino - all’insegna di un’antropologia razzista della disuguaglianza. In ogni caso l’effetto della cosiddetta tolleranza zero è stato, in termini di sicurezza, uguale a zero: perfino a New York, dove è stata sbandierata come un grande successo del sindaco Giuliani, si è risolto nel nascondere la polvere sotto il tappeto: nel far sparire vagabondi, spacciatori e piccoli criminali dal centro di Manhattan e nel costringerli a spostarsi in periferia.
Il diritto penale, luogo, nel suo modello normativo, quanto meno della uguaglianza formale davanti alla legge, è così diventato, di fatto, il luogo della massima disuguaglianza e discriminazione. Esso non solo riproduce le disuguaglianze presenti nella società, riproducendone gli stereotipi classisti e razzisti del delinquente "sociale" oltre che "naturale", ma ha codificato discriminazioni e privilegi con politiche legislative tanto severe con la delinquenza di strada quanto indulgenti con quella del potere. Si pensi solo, in Italia, all’introduzione di misure draconiane nei confronti della criminalità di strada e dell’immigrazione clandestina e, insieme, all’edificazione di un intero corpus iuris ad personam finalizzato a paralizzare i vari processi contro il presidente del consiglio; simultaneamente - va aggiunto - a una campagna di denigrazione dei giudici: tanto più accusati di politicizzazione quanto più al contrario, prendendo in parola il principio dell’uguaglianza davanti alla legge, hanno cessato di essere condizionati dalla politica.
Si sta così producendo, in una misura ancor più massiccia che in passato, una duplicazione del diritto penale: diritto minimo e mite per i ricchi e i potenti; diritto massimo e inflessibile per i poveri e gli emarginati. Mentre nei confronti della delinquenza dei colletti bianchi la giustizia è sostanzialmente impotente - si pensi solo alla prescrizione perseguita sistematicamente in questi processi da agguerriti difensori - nei confronti della delinquenza di strada la giustizia penale è severissima.
Corriere della Sera 26.9.08
Il Comitato di Bioetica: il rifiuto delle cure è un diritto
di Margherita De Bac
ROMA — Nel dibattito sul testamento biologico arriva il documento sulla «Rinuncia consapevole al trattamento sanitario», oggi al voto del Comitato nazionale di bioetica (Cnb). Riafferma con forza un principio ancora poco chiaro ai cittadini nonostante molte sentenze di tribunali: la completa libertà sulla gestione del proprio corpo, un principio che non può essere toccato anche se il rifiuto di cure mette a rischio la vita. Il tema ruota attorno all'autodeterminazione. Ma qui si parla di persone pienamente coscienti, in grado di intendere e di volere, che esprimono con lucidità i propri desideri. Come Welby, per intendersi.
Ecco un esempio tratto da una storie reale, nota all'opinione pubblica perché finita sui giornali recentemente: se scegli di non farti amputare la gamba, nessuno può sindacare sulla tua motivazione personale. E il medico? Dovrà cercare con tutti gli argomenti di farti cambiare idea, di indurti ad accettare «i trattamenti life saving». Se non riesce nell'intento potrà «astenersi da condotte avvertite come contrarie alle propri concezioni etiche e professionali ». In altre parole «l'accoglimento della richiesta di sospendere le cure è lecito ma non obbligatorio sul piano giuridico deontologico e morale». Dunque è libero di astenersi, passando l'assistenza ad un collega. Il paziente, da parte sua, ha il diritto di manifestare la sua volontà. Ma dovrebbe avvertire anche il dovere di salvaguardare la vita, che resta un bene inviolabile, come viene sottolineato nella parte più «cattolica» del documento.
Scritto con estremo rigore dal giurista bolognese Stefano Canestrari, new entry nel Cnb, il parere ha buone probabilità di essere licenziato con voto unanime dal Comitato. Avvenimento storico per un gruppo che si distingue anche per mancanza di condivisione.
Il Cnb ha ritenuto necessario intervenire su questa materia proprio alla vigilia del dibattito parlamentare sul testamento biologico. Sembra che maggioranza e opposizione si muovano nella direzione di una legge. Ieri il Pd ha avviato un confronto interno al partito. E' possibile si riesca a trovare una sintesi fra le varie posizioni. Ottimista Anna Finocchiaro: «Al di là di posizioni marginalissime finalmente si avverte un'esigenza condivisa». Il senatore Ignazio Marino ritiene però che la legge non dovrà definire l'accanimento terapeutico e che sull'alimentazione artificiale debba decidere il medico. Disposta al dialogo l'associazione Scienza e Vita, purché l'eutanasia venga nettamente esclusa.
Corriere della Sera 26.9.08
Il programma divino e la spiegazione scientifica sono due modi di interpretare un identico movimento della storia dell'uomo
Il nulla che unisce Dio e Darwin
Disegno intelligente ed Evoluzione sono entrambi figli del divenire e del caso
di Emanuele Severino
Su «Kos»: La creazione e la tecnica
Oggi è in libreria il numero 9 di «Kos», bimestrale del San Raffaele diretto da Luigi Maria Verzé. È dedicato a «l'Evoluzione». Ospita, tra gli altri, articoli dello stesso Verzé, di Edoardo Boncinelli, di Luigi Luca Cavalli-Sforza e di Emanuele Severino, che all'Università Vita-Salute del San Raffaele è professore di ontologia fondamentale. Dal saggio di Severino intitolato «Il caso, il divino, la tecnica: variazioni dello stesso tema», diamo qui un estratto riveduto dall'autore stesso.
Metodo. Democrito e Aristotele spiegarono il divenire attraverso il caso, una potenza «che si produce da se stessa» muovendosi dal non-essere
Gli sviluppi della biologia hanno sottoposto la teoria dell'evoluzione a critiche profonde, ma ne tengono tuttora fermi i capisaldi: il carattere casuale della produzione del patrimonio genetico e la selezione naturale. In un passo molto noto de Il caso e la necessità, Jacques Monod scrive che «soltanto il caso è all'origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera. Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, alla radice del prodigioso edificio dell'evoluzione». Monod si rifà esplicitamente al concetto democriteo di caso: la biologia percepisce il proprio legame con la filosofia greca, ma di esso non coglie ancora la forza — che in quanto segue intendo richiamare. D'altra parte la biologia sfrutta oggi a fondo il concetto di «programma», desunto dalla teoria dell'informazione: nei cromosomi di un embrione esiste un «piano», un «programma» appunto. «La vita segue un programma», che è «l'insieme delle potenzialità incorporate nella sostanza dei geni» (Salvador Luria). E, anche qui, il concetto biologico di «programma» è strettamente legato a quello aristotelico di «potenza».
Tale concetto aristotelico di «potenza» guida l'intera civiltà occidentale — quindi anche l'intero sviluppo del sapere scientifico. Non è una stranezza che Werner Heisenberg abbia affermato che le «onde di probabilità» che producono i fenomeni «possono essere interpretate come una formulazione quantitativa del concetto aristotelico di dýnamis, di possibilità, chiamato anche, più tardi, col nome latino di potentia ».
L'«onda di probabilità» ha però molto da insegnare al modo in cui la biologia intende il concetto di «programma». Ha da insegnare che la scienza deve lasciarsi alle spalle ogni «necessità» e che la biologia non può concepire il patrimonio genetico come qualcosa che, «uscito dall'ambito del puro caso entra in quello della necessità, delle più inesorabili determinazioni», come sostiene Monod.
«Caso» traduce la parola greca autòmaton che, alla lettera, significa «(ciò) che tende, si muove e si produce da sé». È la parola usata da Democrito — ma anche da Aristotele. Se si guarda ciò che sta attorno all'autòmaton, non si trova nulla che spieghi perché esso tenda, si muova, si produca. Cioè si trova il nulla. Muovendosi e producendosi «da sé stesso», si muove e si produce a partire dal proprio non essere.
Ma quando la filosofia parla dell'«essere» e del «non essere» li pensa primariamente in relazione al divenire del mondo. Si tratta di comprendere che il caso non è una forma particolare e più o meno diffusa di divenire, ma che, dato il modo in cui l'Occidente intende il divenire, il divenire, in quanto tale, è caso: dunque è caso anche quando, come appunto avviene nella tradizione occidentale, si intende che il divenire sia guidato dalla Mente o dalla Provvidenza divina e creato da essa; ed è caso anche quando si presenta con quelle altissime forme di regolarità che sono state via via messe in luce dall'uomo comune e dalla scienza. Per Aristotele l'embrione è «in potenza» un uomo, ossia è il «programma» seguito dalla vita umana che si sviluppa. L'embrione diventa uomo, nel senso che realizza il proprio programma (il proprio Dna, dice oggi la genetica). Ma, prima dell'esistenza (cioè dell'«essere») dell'uomo, tale realizzazione non esisteva, cioè «non era», era nulla. E la biologia si esprime appunto, continuamente, con affermazioni come questa (di Jacob): che l'evoluzione ha prodotto «fenomeni che prima sulla terra non esistevano ».
Affermare che l'embrione è «in potenza» uomo significa dunque affermare che, nell'embrione, l'uomo realizzato non è, è nulla: si pensa, certamente, che esista già il programma di un certo individuo umano, ma non la realizzazione di tale individuo. Il programma, che è già esistente, è cioè unito al non essere (al nulla) della propria realizzazione. In relazione al programma, tale realizzazione non è casuale: il programma ne è la «spiegazione» e l'anticipazione. Ma in quanto la realizzazione è nulla quando ancora non esiste l'uomo realizzato, ne viene che questa sua nullità non può essere una «spiegazione» o un'anticipazione del futuro: è un nulla di spiegazione e di anticipazione. Ciò significa che, proprio perché si produce a partire dal proprio nulla, la realizzazione del programma è un «prodursi da sé», un autòmaton:
è caso. Non può quindi essere che aleatorio, casuale, il modo stesso in cui il programma guida l'evoluzione degli individui e delle specie. Se ancora si vuole parlare di «guida», il rapporto tra programma e sua realizzazione (o tra «genotipo » e «fenotipo») può avere soltanto un carattere «probabilistico» (come l'«onda di probabilità» di Heisenberg). Ma lo stesso accade nel rapporto tra il «Programma » divino e le sue creature, che, per quanto anticipate e spiegate dal «Programma», secondo la teologia cristiana sono da esso create ex nihilo sui et subiecti: «Dal loro esser (state) nulla e dalla nullità della materia ( subiecti) di cui son fatte». Nonostante abbiano alle spalle addirittura il Programma divino, le cose del mondo, in quanto create ex nihilo, sono caso, esistono casualmente. Il caso prevale sulla Provvidenza, che nella storia dell'Occidente intende, invece, essere spiegazione e anticipazione assoluta delle creature, mantenendo tuttavia, contraddittoriamente, la loro nullità originaria, ossia il loro essere originariamente un nulla che non può in alcun modo spiegare e anticipare la loro realizzazione. La stessa creazione divina del mondo è casuale, nonostante l'intenzione più ferma di vedere in essa la negazione più radicale della casualità.
Il creazionismo e le forme più intransigenti di evoluzionismo si trovano dunque sullo stesso piano: sono grandi variazioni dello stesso Tema, il Tema del divenire, inteso come evoluzione dalla potenza all'atto che la realizza, e pertanto come evoluzione dal non essere all'essere. Se si è capaci di scendere nel sottosuolo della filosofia (ossia dell'anima) del nostro tempo, si scorge il legame essenziale che unisce l'evoluzione (il divenire) e il caso. Il divenire è caso; e nessuna necessità può caratterizzare i programmi informatici, biologici, metafisici, teologici perché se essa esistesse spiegherebbe e anticiperebbe tutto il futuro e, quindi, lo dissolverebbe perché dissolverebbe il nulla di ciò che ancora non è: dissolverebbe il divenire e l'evolversi di cui tale necessità vorrebbe essere la spiegazione e l'anticipazione: dissolverebbe quel divenire che, per gli stessi amici dei programmi mondani o divini, è l'evidenza suprema.
Quel sottosuolo scorge, pertanto, che l'evoluzione non può nemmeno avere uno scopo necessario. Proprio perché il nulla originario delle cose non spiega e non anticipa il loro futuro, e la loro realizzazione è «libertà assoluta», l'evoluzione è «cieca», non può avere alcuna direzione se non quella che di fatto, casualmente, si produce e che di fatto è osservabile. Qualora avesse uno scopo inevitabile, quest'ultimo sarebbe daccapo il programma che dissolve il nulla del futuro e il divenire del mondo. Se la «direzione» dei fenomeni biologici è un semplice fatto constatabile (e non una «necessità»: il divenire del mondo «non ha senso»), rimangono tuttavia gli scopi dell'uomo (il senso che egli dà alle cose): rimane la sua lotta per la sopravvivenza, che ripropone e prolunga, nella dimensione cosciente, la cosiddetta «selezione naturale», secondo un tipo di «evoluzione » in cui va di fatto prevalendo, sugli altri scopi della civiltà occidentale e planetaria, la volontà dell'apparato scientifico-tecnologico di incrementare all'infinito la capacità di realizzare scopi. Va dunque prevalendo la selezione artificiale che si propone di guidare — secondo le leggi statistico- probabilistiche della scienza — la stessa «selezione naturale».
Per quanto paradossale possa apparire, la «teoria dell'evoluzione», e in generale del divenire, è il farsi massimamente coerente da parte della teoria della creazione divina del mondo; è la variazione più coerente al Tema del divenire. Ma è questo Tema a non venire mai e in alcun modo discusso nel suo significato più profondo. Esso porta ormai sulle proprie spalle l'intera storia della Terra. Non è già questo il motivo sufficiente perché finalmente ci si fermi, ci si volti e lo si guardi in faccia (e lo si scuota per vedere fino a che punto non si lascia sradicare)?
Repubblica 26.9.08
Il grande tonfo del capitalismo di mercato
di Guido Rossi
Vorrei fornire qualche indicazione sulle questioni totalmente nuove e irrisolte che toccano le recenti dimensioni e strutture sia della società per azioni, sia dei mercati finanziari. A questo proposito ho recentemente usato la metafora del mito della Fenice e della necessità che dalle ceneri del "diritto vivente" nascano nuovi paradigmi e un nuovo ordinamento. La discussione è ora aperta in tutti i Paesi, per gli effetti che la globalizzazione economica ha provocato, squarciando i vecchi schemi. Infatti, le pur multiformi modifiche al sistema internazionale delle imprese introdotte dalla moderna lex mercatoria, la quale ha valicato il confine imposto dalle legislazioni dei singoli Stati, non hanno potuto fermare le crisi che hanno colpito le società e i mercati finanziari in generale. E ciò è avvenuto anche perché in ogni caso le regole della lex mercatoria, dettate dai protagonisti dei mercati, ispirati solo alla tutela dei loro interessi, offrivano strumenti il più delle volte inutili, che soltanto in alcune sporadiche ipotesi sono riusciti a tutelare i contraenti indifesi e ad impedire gli illeciti e le bolle speculative che stanno alla base delle crisi.
Le vere sfide del diritto sono dunque quelle di dover affrontare una realtà (da disciplinare) completamente diversa rispetto a quella che i suoi strumenti tradizionali avevano fin qui regolamentato. Siamo di fronte ad una rivoluzione del sistema economico che il diritto non è stato ancora in grado di seguire, sia perché il suo armamentario ormai superato altro non ha fatto che rendere ancora più complesse le crisi, se non a volte favorirle, sia perché è mancato il coraggio di mettere in discussione i vecchi dogmi e formulare ipotesi di base completamente nuove. Robert J. Shiller (The Subprime solution, 2008) ha recentemente dimostrato che anche la subprime crisis non può essere risolta con strumenti vecchi di mero intervento pubblico, ma va rivisitata con strutture nuove. La verità è che la crisi è più profonda, poiché la grande società per azioni è sfuggita, nel suo operare, non solo alle tradizionali categorie giuridiche sulle quali era organizzata, ma a tutti i più recenti originali, e spesso scimmiottati da altri ordinamenti, tentativi di regolamentazione che vanno genericamente sotto il vago nome di corporate governance. Anzi la frammentazione della gestione dell´impresa sociale, attraverso la scomposizione degli organi amministrativi in miriade di comitati, ha all´incontrario favorito il perseguimento di interessi extrasociali e il dissanguamento della società, aiutati da un mercato senza né controlli, né scrupoli e da una fantasiosa e cinica dominanza della finanza sempre più autoreferenziale e distaccata dalla realtà economica dell´impresa. In questo quadro prolificano la speculazione e la crisi che l´economia e il diritto stanno vivendo, in uno stato di semi impotenza, quasi senza capire che non è più tempo di restaurazione...
Le vecchie formule risultano dunque superate. Nelle strutture dei mercati ormai azionisti e creditori, imbrigliati in innumerevoli e sovente opachi strumenti finanziari, stanno perdendo sempre più autonomia fino a confondersi. L´azionista, infatti, è solamente uno degli investitori e non è più il solo a rappresentare l´interesse sociale: con lui concorrono i creditori?finanziatori, gli obbligazionisti nelle varie fattispecie attraverso le quali i loro diritti si possono variegare, le diverse categorie di azionisti sempre più numerose e spesso indecifrabili. Ma concorrono sempre più rilevanti i titolari di prodotti derivati con la varietà di operazioni d´acquisto, di vendita e di conversione, dissimulate spesso da riallocazioni del rischio; i partecipanti alle varie forme di trust, di fondi (dagli hedge funds ai fondi pensione e soprattutto ai nuovi irrompenti protagonisti: i fondi sovrani), di prestito di azioni, di equity swaps e di tutti gli altri strumenti finanziari che formano un enorme e incontrollato mercato...
Un ulteriore fenomeno recente che sta modificando radicalmente le strutture dei mercati finanziari e delle società per azioni è il massiccio investimento dei cosiddetti fondi sovrani (sovereign wealth funds). Tendenza questa che suona in modo opposto a quella che sembrava consolidata, nel capitalismo di mercato, delle privatizzazioni. La loro attuale presenza calcolata fra i 3 e i 5 trilioni di dollari ha evidenziato il diverso ruolo che possono assumere i governi in un´economia capitalista: "il capitalismo di Stato opposto dunque al capitalismo di mercato"?... Quel che oggi rileva è che i fondi sovrani sembrano poter costituire una vera alternativa al capitalismo di mercato. Né può dimenticarsi che proprio i fondi asiatici, del Medio Oriente e di Singapore hanno contribuito a risolvere le recenti crisi di istituti di investimento di straordinaria rilevanza nel capitalismo di mercato, quali Citigroup, Inc., Merrill Lynch & Co., e UBS AG. Ma ancor più anomale sono tutte le forme di bailout, di intervento economico del governo americano nei recenti salvataggi bancari... Tullio Ascarelli riteneva che le società per azioni controllate dallo Stato costituiscono una "formula insincera". E ripete oggi Robert J. Shiller che i salvataggi (i bailout) sono forme di ipocrisia, ai vertici della quale, mi pare, troviamo anche noi il tentativo nostrano di salvataggio governativo dell´Alitalia...
Parlare ancora del "capitalismo di mercato", soprattutto dopo gli interventi del Tesoro americano a salvataggio dei vari istituti finanziari a iniziare da Fannie Mae e Freddie Mac, sembra riferirsi a un relitto storico o a un oggetto d´antiquariato. Le azioni preferenziali emesse a favore del Tesoro e la possibilità, con l´emissione di warrants, di acquistare fino al 79,9% delle azioni ordinarie, nonché la sospensione del diritto di tutti gli azionisti a favore del Commissario (Conservator), sono, si potrebbe dire celiando, la copertura di mercato a un salvataggio pubblico in spregio. Lo stesso dicasi per il grande gruppo assicurativo AIG.
Considerata l´opacità dei fondi sovrani e di altri interventi dei governi nelle società, ritengo che una strada percorribile potrebbe essere, dopo averne imposto la rigorosa "trasparenza", quella di individuare con chiarezza la loro responsabilità sia nei confronti della società, degli azionisti e dei principali stakeholders....
Insomma, i modelli sui quali erano costruiti il diritto societario e quello dei mercati finanziari sono totalmente fuori uso e inadatti a interpretare le nuove realtà del capitalismo finanziario globalizzato. Né vale a tenerli in piedi qualche fragile e già vetusto strumento, quale il ricorso agli amministratori indipendenti o a nuove, ma stantie definizioni di parti correlate, o la vaga responsabilità sociale per proteggere gli stakeholders: espressioni, per dirla con Robert B. Reich (Supercapitalism, New York 2007, p. 171 (trad.it., Fazi Editore 2008) considerate "meaningful as cotton candy" così senza senso come lo zucchero filato. Intanto nei gruppi di società, all´interno e nei mercati, il conflitto di interessi ha assunto forme nuove e incomprensibili coi vecchi paradigmi, tanto da colpire anche gli stessi stakeholders... Pretendere che gli eventuali conflitti di interessi fra le società e le parti correlate possano, ad esempio, essere risolti affidando le decisioni relative ai cosiddetti amministratori indipendenti, facendoli diventare in determinate fattispecie i veri "capi azienda", snaturandone così la presunta natura e funzione, come vorrebbe la Consob, è frutto di un paradigma vecchio e comunque superato...
Ma che dire dei mercati finanziari sempre meno regolamentati e controllati, dove l´homo oeconomicus è stato sostituito dall´homo ludens se il maggiore di tali mercati è quello dei credit default swaps, nei quali si scommette sull´insolvenza non solo della società quotata ma anche del debito pubblico degli Stati. Il collasso di questo mercato di scommesse incontrollate può essere peggiore delle crisi dei subprime mortgages. E vale allora la pena di ricordare ancora la frase di Keynes: "Quando l´accumulazione del capitale di un Paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò è probabile che le cose vadano male".
(Questo testo è un ampio stralcio dell´intervento di Guido Rossi al convegno di studi "I nuovi equilibri mondiali: imprese, banche, risparmiatori", che si tiene a Courmayeur oggi e domani)
Repubblica 26.9.08
"Pericle insegnami che cos'è la legge"
La legge e le sue ragioni
di Gustavo Zagrebelsky
«DIMMI, Pericle, mi sapresti insegnare che cosa è la legge?» chiede Alcibiade a Pericle. Pericle risponde: «Tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto, stabilendo ciò che si debba e non si debba fare, si chiama legge». E prosegue: «Tutto ciò che si costringe qualcuno a fare, senza persuasione, facendolo mettere per iscritto oppure in altro modo, è sopraffazione piuttosto che legge». Se non ci si parla, non ci si può comprendere e, a maggior ragione, non è possibile la persuasione.
Questa è un´ovvietà. Per intendere però l´importanza del contesto comunicativo, cioè della possibilità che alle deliberazioni legislative concorra un elevato numero di voci che si ascoltano le une con le altre, in un concorso che, ovviamente, non è affatto detto che si concluda con una concordanza generale, si può ricorrere a un´immagine aristotelica, l´immagine della preparazione del banchetto. In questa immagine c´è anche una risposta all´eterna questione, del perché l´opinione dei più deve prevalere su quella dei meno.
Il principio maggioritario è una semplice formula giuridica, un espediente pratico di cui non si può fare a meno per uscire dallo stallo di posizioni contrapposte (E. Ruffini)? È forse solo una «regoletta discutibile» (P. Grossi) che trascura il fatto che spesso la storia deve prendere atto, a posteriori, che la ragione stava dalla parte delle minoranze, le minoranze illuminate (e inascoltate)?
Quali principi sono alla base di una norma? Quanto vale il criterio maggioritario e quanto la necessità del dialogo? Un tema dibattuto dai tempi di Pericle e rimbalzato fino all´attualità
Una richiesta confessionale che dovrebbe valere anche per i non credenti
La formula di Ugo Grozio per la legislazione era "Come se Dio non ci fosse"
Si deve essere disposti, nel confronto con gli altri, a difendere i propri principi
Oppure, si tratta forse non di una regoletta ma di un principio che racchiude un valore? Non diremo certo che la maggioranza ha sempre ragione (vox populi, vox dei: massima della democrazia totalitaria), ma forse, a favore dell´opinione dei più, c´è un motivo pragmatico che la fa preferire all´opinione dei meno. A condizione, però, che «i più» siano capaci di dialogo e si aggreghino in un contesto comunicativo, e non siano un´armata che non sente ragioni.
In un passo della Politica di Aristotele (1281b 1-35), che sembra precorrere la sofisticata «democrazia deliberativa» di Jürgen Habermas e che meriterebbe un esame analitico come quello di Senofonte al quale ci siamo dedicati, leggiamo: «Che i più debbano essere sovrani nello Stato, a preferenza dei migliori, che pur sono pochi, sembra che si possa sostenere: implica sì delle difficoltà, ma forse anche la verità. Può darsi, in effetti, che i molti, pur se singolarmente non eccellenti, qualora si raccolgano insieme, siano superiori a ciascuno di loro, in quanto presi non singolarmente, ma nella loro totalità, come lo sono i pranzi comuni rispetto a quelli allestiti a spese di uno solo. In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e quando si raccolgono e uniscono insieme, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e d´intelligenza».
Dunque, inferiori presi uno per uno, diventano superiori agli uomini migliori, quando è consentito loro di contribuire all´opera comune, dando il meglio che c´è in loro. Più numeroso il contributo, migliore il risultato.
Naturalmente, quest´immagine del pranzo allestito da un «uomo in grande» non supera questa obiezione: che nulla esclude che ciò che si mette in comune sia non il meglio, ma il peggio, cioè, nell´immagine del pranzo, che le pietanze propinate siano indigeste. Ma questa è un´obiezione, per così dire, esterna. Dal punto di vista interno, il punto di vista dei partecipanti, è chiaro che nessuno di loro ammetterebbe mai che il proprio contributo all´opera comune è rivolta al peggio, non al meglio.
Ognuno ritiene di poter contribuire positivamente alle decisioni collettive; l´esclusione è percepita come arbitrio e sopraffazione proprio nei riguardi della propria parte migliore.
Ora, accade, e sembra normale, che il partito o la coalizione che dispone della maggioranza dei voti, sufficiente per deliberare, consideri superfluo il contributo della minoranza: se c´è, bene; se non c´è, bene lo stesso, anzi, qualche volta, meglio, perché si risparmia tempo. Le procedure parlamentari, la logica delle coalizioni, la divisione delle forze in maggioranza e opposizione, il diritto della maggioranza di trasformare il proprio programma in leggi e il dovere delle minoranze, in quanto minoranze, di non agire solo per impedire o boicottare, rendono comprensibile, sotto un certo punto di vista, che si dica: abbiamo i voti e quindi tiriamo innanzi senza curarci di loro, la minoranza. Ma è un errore. Davvero la regola della maggioranza si riduce così «a una regoletta». Una regoletta, aggiungiamo, pericolosa. Noi conosciamo, forse anche per esperienza diretta, il senso di frustrazione e di umiliazione che deriva dalla percezione della propria inutilità. Si parla, e nessuno ascolta. Si propone, e nessuno recepisce. Quando la frustrazione si consolida presso coloro che prendono sul serio la loro funzione di legislatori, si determinano reazioni di auto-esclusione e desideri di rivincita con uguale e contrario atteggiamento di chiusura, non appena se ne presenterà l´occasione. Ogni confronto si trasformerà in affronto e così lo spazio deliberativo comune sarà lacerato. La legge apparirà essere, a chi non ha partecipato, una prevaricazione.
La «ragione pubblica» - concetto oggi particolarmente studiato in relazione ai problemi della convivenza in società segnate dalla compresenza di plurime visioni del mondo - è una sfera ideale alla quale accedono le singole ragioni particolari, le quali si confrontano tramite argomenti generalmente considerati ragionevoli e quindi suscettibili di confronti, verifiche e confutazione; argomenti che, in breve, si prestino a essere discussi. Le decisioni fondate nella ragione pubblica sono quelle sostenute con argomenti non necessariamente da tutti condivisi, ma almeno da tutti accettabili come ragionevoli, in quanto appartenenti a un comune quadro di senso e di valore. Contraddicono invece la ragione pubblica e distruggono il contesto comunicativo le ragioni appartenenti a «visioni del mondo chiuse» (nella terminologia di John Rawls, che particolarmente ha elaborato queste nozioni, le «dottrine comprensive»). Solo nella sfera della «ragione pubblica» possono attivarsi procedure deliberative e si può lavorare in vista di accordi sulla gestione delle questioni politiche che possano apparire ragionevoli ai cittadini, in quanto cittadini, non in quanto appartenenti a particolari comunità di fede religiosa o di fede politica.
Un sistema di governo in cui le decisioni legislative siano la traduzione immediata e diretta - cioè senza il filtro e senza l´esame della ragione pubblica - di precetti e norme derivanti da una fede (fede in una verità religiosa o mondana, comunque in una verità), sarebbe inevitabilmente violenza nei confronti del non credente («l´infedele»), indipendentemente dall´ampiezza del consenso di cui potessero godere. Anzi, si potrebbe perfino stabilire la proporzione inversa: tanto più largo il consenso, tanto più grande la violenza che la verità è capace di contenere.
Sotto questo aspetto, dire legge non violenta equivale a dire legge laica; al contrario, dire legge confessionale equivale a dire legge violenta. La verità non è di per sé incompatibile con la democrazia, ma è funzionale a quella democrazia totalitaria cui già sì è fatto cenno.
L´esigenza di potersi appellare alla ragione pubblica nella legislazione, un quanto si voglia sconfiggere la violenza che sempre sta in agguato nel fatto stesso di porre la legge, spiega la fortuna attuale dell´etsi Deus non daretur, la formula con la quale, quattro secoli fa, Ugo Grozio invitava i legislatori a liberarsi dall´ipoteca confessionale e a fondare il diritto su ragioni razionali; invitava cioè a lasciar da parte, nella legislazione civile, le verità assolute. Mettere da parte Dio e i suoi argomenti era necessario per far posto alle ragioni degli uomini; noi diremmo: per costruire una sfera pubblica in cui vi fosse posto per tutti. Naturalmente, da parte confessionale un simile invito ad agire indipendentemente dall´esistenza di Dio non poteva non essere respinto. Per ogni credente, Dio non si presta a essere messo tra parentesi, come se non ci fosse. Ma l´esigenza che ha mosso alla ri-proposizione di quell´antica espressione (G. E. Rusconi) non è affatto peregrina. È l´esigenza della «ragione pubblica». A questa stessa esigenza corrisponde l´invito opposto, di parte confessionale, rivolto ai non credenti affinché siano loro ad agire veluti si Deus daretur (J. Ratzinger). Altrettanto naturalmente, anche questo invito è stato respinto.
Per un non credente in Dio, affidarsi a Dio (cioè all´autorità che ne pretende la rappresentanza in terra) significa contraddire se stessi. Ma questa proposta-al-contrario coincide con la prima, nel sottolineare l´imprescindibilità di un contesto comune, con Dio per nessuno o con Dio per tutti, nel quale la legge possa essere accettata generalmente in base alla persuasione comune.
Entrambe le formule non hanno dunque aiutato a fare passi avanti. Sono apparse anzi delle provocazioni, ciascuna per la sua parte, alla libertà, autenticità e responsabilità della coscienza. In effetti, non si tratta affatto di esigere rinunce e conversioni di quella natura, né, ancor meno, di chiedere di agire come se, contraddicendo se stessi. Non è questa la via che conduce a espungere la violenza dalla legislazione.
Un punto deve essere tenuto fermo: la legge deve essere aperta a tutti gli apporti, compresi quelli basati su determinate assunzioni di verità. La verità può trovare posto nella democrazia e può esprimersi in «legislazione che persuade», perché la democrazia non è nichilista. Ma solo a patto però - questo è il punto decisivo - che si sia disposti, al momento opportuno, quando cioè ci si confronta con gli altri, a difendere i principi e le politiche che la nostra concezione della verità a nostro dire sostiene, portando ragioni appropriatamente pubbliche (J. Rawls).
Così, i sistemi religiosi, filosofici, ideologici e morali non sono esclusi dalla legislazione, ma vi possono entrare solo se hanno dalla propria parte anche buone ragioni «comuni», su cui si possa dissentire o acconsentire, per pervenire a decisioni accettate, pur a partire da visioni del mondo diverse, come tali non conciliabili. La legislazione civile, in quanto si intenda spogliarla, per quanto è possibile, del suo contenuto di prevaricazione, non può intendersi che come strumento di convivenza, non di salvezza delle anime e nemmeno di rigenerazione del mondo secondo un´idea etica chiusa in sé medesima.
Il divieto dell´eutanasia può essere argomentato con una ragione di fede religiosa: l´essere la vita proprietà divina («Dio dà e Dio toglie»); l´indissolubilità del matrimonio può essere sostenuta per ragioni sacramentali («non separare quel che Dio ha unito»). Argomenti di tal genere non appartengono alla «ragione pubblica», non possono essere ragionevolmente discussi. Su di essi ci si può solo contare. La «conta», in questi casi, varrà come potenziale sopraffazione. Ma si può anche argomentare diversamente. Nel primo caso, ponendo il problema di come garantire la genuinità della manifestazione di volontà circa la fine della propria esistenza; di come accertare ch´essa permanga tale fino all´ultimo e non sia revocata in extremis; di come evitare che la vita, nel momento della sua massima debolezza, cada nelle mani di terzi, eventualmente mossi da intenti egoistici; di come evitare che si apra uno scivolamento verso politiche pubbliche di soppressione di esseri umani, come dicevano i nazisti, la cui vita è «priva di valore vitale». Alla fine, se ne potrà anche concludere che, tutto considerato, difficoltà insormontabili e rischi inevitabili o molto probabili consigliano di far prevalere il divieto sul pur molto ragionevole argomento dell´esistenza di condizioni di esistenza divenute umanamente insostenibili. Oppure, viceversa. Nel secondo caso, si potrà argomentare sull´importanza della stabilità familiare, nella vita e nella riproduzione della vita delle persone e delle società; a ciò si potrà contrapporre il valore della genuinità delle relazioni interpersonali e la devastazione ch´esse possono subire in conseguenza di vincoli imposti. Su questo genere di argomenti si può discutere, le carte possono mescolarsi rispetto alle fedi e alle ideologie, le soluzioni di oggi potranno essere riviste domani. Chi, per il momento, è stato minoranza non si sentirà per questo oggetto di prevaricazione.
Qualora poi le posizioni di fede non trovino argomenti, o argomenti convincenti di ragione pubblica per farsi valere in generale come legge, esse devono disporsi alla rinuncia. Potranno tuttavia richiedere ragionevolmente di essere riconosciute per sé, come sfere di autonomia a favore della libertà di coscienza dei propri aderenti, sempre che ciò non contraddica esigenze collettive irrinunciabili (questione a sua volta da affrontare nell´ambito della ragione pubblica). Tra le leggi che impongono e quelle che vietano vi sono quelle che permettono (in certi casi, a certe condizioni). Le leggi permissive, cioè le leggi di libertà (nessuno oggi pensa - in altri momenti si è pensato anche questo - che l´eutanasia o il divorzio possano essere imposti) sono quelle alle quali ci si rivolge per superare lo stallo, il «punto morto» delle visioni del mondo incompatibili che si confrontano, senza che sia possibile una «uscita» nella ragione pubblica. Anzi, una «ragione pubblica» che incorpori, tra i suoi principi, il rigetto della legge come violenza porta necessariamente a dire così: nell´assenza di argomenti idonei a «persuadere», la libertà deve prevalere. Questa è la massima della legge di Pericle.
Repubblica 26.9.08
Giovani. Un paese senza
Perché in Italia i ragazzi non crescono mai
di Simonetta Fiori
I quindicenni nel 1980 erano un milione, nel 2009 saranno appena la metà
Un saggio di Massimo Livi Bacci affronta un problema demografico con fortissime incidenze sociali
Tra le persone incluse nello Who´s who solo il 2 per cento ha meno di 35 anni
La catastrofe è nascosta dietro una parola inglese, disempowerment. I demografi la chiamano "sindrome del ritardo", ossia la lentezza biblica con cui i giovani oggi conquistano autonomia e responsabilità. Un ingranaggio mortifero che dilata i tempi di attesa in un gioco al rimbalzo: il ritardo negli studi si riflette sul lavoro provocando costanti rinvii nelle scelte esistenziali come casa, matrimonio, figli. Una letargia tutta italiana che finisce per spogliare i giovani delle loro prerogative, relegandoli in ruoli marginali nella politica e nell´economia, in famiglia e nella cultura. In una recente rassegna di Who´s who - l´elenco delle persone che a ragione o torto sono considerate influenti nelle professioni o nell´élite pubblica - poco più del 2 per cento ha meno di trentacinque anni. Ed è diminuita tra il 1990 e il 2004 la percentuale di quelli compresi tra i 35 e i 50 anni.
Pochi, lenti e impotenti. Questo è il desolante quadro disegnato da Massimo Livi Bacci nel nuovo saggio sui giovani (la popolazione tra i 15 e i 30 anni), una meticolosa mappatura che incrocia statistiche e censimenti nell´arco dell´ultimo ventennio (Avanti giovani, alla riscossa, pagg. 118, euro 10). Scaraventati nei piani bassi delle classifiche europee, assistiamo al fenomeno con granitica indifferenza, come "narcotizzati", suggerisce Livi Bacci, professore di Demografia all´Università di Firenze e senatore del Partito Democratico. Anche il linguaggio restituisce questo diffuso intontimento, ancora "ragazzi" a trent´anni, "scrittori in erba" a quaranta, "giovani promesse" a cinquanta se si fa parte del Pantheon accademico. «La società s´è addormentata», sintetizza Livi Bacci, «ma temo che l´anestetico sia stato somministrato in dosi troppo massicce».
Specie ormai rara, decimata da una crisi di natalità che non ha eguali in Europa, i nuovi giovani contano tra le proprie file un numero sempre più esiguo di persone. Basti un dato: nel 1980 ha compiuto quindici anni quasi un milione di ragazzi e ragazze; nel 2009 i quindicenni saranno appena 560.000. In teoria il declino numerico dovrebbe implicare una maggiore disponibilità da parte dei genitori, dunque un più rapido ingresso nella società. Solo in teoria. Perché nella pratica, spiega Livi Bacci, è vero che i ventenni del 2008 hanno una dote assai più ricca rispetto ai loro coetanei del primo dopoguerra, «sono più alti, più sani, più istruiti, forse anche più belli, stando ai canoni estetici». Ma contano assai di meno dei loro scalcagnati nonni e bisnonni. «L´investimento dei genitori sui figli è oggi molto alto, ma tende più a conservare o ad aumentare il tenore di vita (consumi) che non la formazione del capitale umano (investimento). Questo processo ha concorso insieme ad altri fattori a indebolire la condizione giovanile». Con gravi conseguenze.
Prendiamo ad esempio la creatività. Uno studioso americano, Benjamin Jones, ha analizzato "l´età della scoperta" nelle biografie dei grandi innovatori e dei premi Nobel per la scienza tra il 1901 e il 2003. L´apice della vena inventiva viene raggiunto intorno ai trentacinque anni, mentre la curva raggiunge valori molto bassi dai cinquantacinque anni in poi. Nell´arco del secolo, poi, l´età media della scoperta aumenta di sei anni, a causa dell´inizio più tardivo dell´attività scientifica. Ne consegue che se la formazione ha tempi troppo lunghi - e ancor più estenuante è l´attesa del lavoro - ne soffre il potenziale innovativo della società. Si perde "l´attimo", e non si recupera.
Il ritardo italiano è ben evidenziato dai dati statistici, sia in relazione alla nostra stessa storia, sia nel confronto con i nostri contemporanei in Europa. Quel che Livi Bacci segnala nitidamente è un´inversione di tendenza rispetto alla rivoluzione novecentesca: se il secolo scorso è stato contrassegnato dalla progressiva "liberazione" della componente giovane da gravi patologie e da diverse costrizioni sociali, oggi la spinta positiva appare esaurita. Non pochi i segnali di questa involuzione tra gli adolescenti, come l´aumento dell´obesità e la diffusione di sindromi depressive, entrambe condizioni tipiche delle società prospere.
A questo s´aggiunge l´irrilevanza sociale subita oggi dalle generazioni più giovani. Il censimento del 1911 ci dice che oltre un terzo della popolazione economicamente attiva aveva meno di 30 anni; oggi questa percentuale è pari a un ottavo. Se osserviamo poi la precocità nello scalare le gerarchie sociali e professionali, vediamo che allora avevano meno di trent´anni il 10 per cento dei medici, il 19 per cento degli ingegneri e degli architetti, il 21 per cento degli avvocati, il 22 per cento del clero. Il censimento del 1999 fornisce per categorie professionali analoghe percentuali molto più basse: il 2,9 per cento per i medici, il 9,1 per cento per ingegneri e architetti, il 7,4 per cento per gli avvocati, il 4,2 per cento dei sacerdoti. «Nel giro d´un secolo», sintetizza lo studioso, «i giovani si sono liberati dal fardello dell´arretratezza, ma hanno anche perso il loro prestigio pubblico». Dal notariato alla magistratura, dalla pubblica amministrazione alla ricerca e alla Università, non c´è settore che non registri un preoccupante avanzamento nell´anagrafe.
Può colpire, nella radiografia di Livi Bacci, la rassegnazione con cui i ragazzi italiani subiscono questo spaventoso "scippo" sociale. Più che un vulcano prossimo all´eruzione, le indagini Iard o le inchieste della Commissione europea li rappresentano come un lago tranquillo, qui e là moderatamente increspato, ma complessivamente quieto. A differenza dei loro coetanei europei, non avvertono il bisogno urgente di affiancare allo studio un lavoro remunerativo, di affrancarsi dal tepore domestico anche a rischio di scomodità, di mettere su famiglia anche in condizioni più avventurose (le statistiche qui sono impietose). Ma Bamboccioni si nasce o si diventa? «Si diventa», risponde deciso Livi Bacci. «Se il sistema formativo imponesse un ritmo; se il mercato del lavoro fosse più aperto; se le aree protette fossero smantellate; se le famiglie non fossero indotte a sostituirsi allo stato sociale che con loro è assai avaro; se ci fosse un Erasmus universale che imponesse a tutti i giovani di fare un´esperienza all´estero? allora si ridurrebbe l´anestetico del sistema e di conseguenza la quota di bamboccioni - invero assai elevata - del nostro paese».
Non ne escono bene neppure le generazioni adulte, intrappolate entro schemi tradizionali, sostanzialmente scorrette nell´educazione (i maschi esonerati dai lavori domestici), soprattutto poco propense a un´apertura europea. Anche qui le cifre Iard, calcolate sulla base di diversi indicatori - contatti con l´estero attraverso amici o famigliari, viaggi, letture o tv in lingua straniera, rapporti di lavoro - , sono sconfortanti. «Paese di storica immigrazione cosmopolita e capitale della cristianità, l´Italia si colloca all´ultimo posto delle classifiche europee per il grado di apertura internazionale», riferisce il demografo. Può sembrare incredibile, eppure è così: ultima di quindici, dopo Portogallo, Grecia e Spagna, ai primi posti l´Europa del Nord. Ma non dovevano essere le generazioni dei padri, rigenerate dal Sessantotto, quelle più libertarie e cosmopolite? «Sono poco incline ad attribuire responsabilità collettive», risponde Livi Bacci, «ma un misto di familismo mediterraneo e perdonismo hanno permeato la società italiana negli ultimi decenni. Il Grande cambiamento del ventennio del dopoguerra - che imponeva rischio e fatica - è stato metabolizzato, capitalizzato e dimenticato. In seguito non è stato percepito che le conquiste politiche e civili vanno sostenute con i fatti e con le azioni».
Intanto la salvezza - rispetto all´estinzione giovanile provocata dal calo demografico - arriva proprio dai flussi migratori. È stato calcolato che, dopo il 2015, un adolescente su dieci sarà uno "straniero" di seconda generazione (cioè figlio di immigrati) nato in Italia, una percentuale che potrebbe salire nei dieci anni successivi fino a uno su sei. A questi vanno aggiunti i figli di stranieri nati fuori d´Italia, che entreranno nel paese al seguito dei genitori. Nel 2023 si calcola che l´incidenza degli stranieri sotto i quarant´anni si aggirerebbe attorno al quindici per cento della popolazione totale di pari età. Questo accade in un paese che si scopre (o si riconferma) razzista. Siamo attrezzati per questo cambiamento?
Il titolo del saggio - Avanti giovani, alla riscossa - riecheggia un celebre inno socialista. Ma i giovani non rappresentano un partito, tantomeno un gruppo sociale coeso. Quante generazioni ci vorranno perché l´Italia esca dalla palude in cui s´è cacciata nell´ultimo ventennio? «Le società cambiano più velocemente di quanto si pensi», replica Livi Bacci. «Le prerogative si perdono e si riacquistano con eguale facilità. Basta fare le cose giuste». Tanto per cominciare, svegliarsi.
Adnkronos 26.9.08
Giornalisti: al via domani il "Press Festival" di Roccasecca
Roma, 26 set. - (Adnkronos) - Prende il via domani a Roccasecca, in provincia di Frosinone, la due giorni del press festival organizzato da '6 medià sotto il titolo «Ultime, le notiziè. L'inaugurazione è in programma alle 10 nella sala San Tommaso del Comune: il percorso del festival prevede subito dopo, alle 11, l'inizio del corso »Alfabetizzazione al giornalismo«. Sempre domani è in programma un confronto sui new media, »dal ciclostile alla web tv« mentre nella Piazza Mercato si svolgerà 'Liberi schizzi d'artistà una performance artistica che vedrà impegnati vari writers. Tra gli altri appuntamenti di rilievo da segnalare quello dedicato all'impegno civile della professione con il confronto su 'Giornali locali e lotta alla mafia» con Santo Della Volpe. (Sec/Pn/Adnkronos) 26-SET-08 16:15 NNN
Agi 26.9.08
Editoria: Colmbo, ok Roccasecca, l'autocensura è peggio della censura
(AGI) - Roma, 26 set. - L'autocensura e' peggio, piu' devastante della censura: ognuno la esercita su stesso e difficilmente in futuro uno di noi epurera' se stesso tanto che pressati a cedere lo facciamo e finiamo per farlo spontaneamente. A parlare e' l'ex-direttore de 'l'Unita'' e senatore del Pd, Furio Colombo che esprime il suo 'sentito apprezzamento' per il primo 'Press Festival' di Roccasecca, in programma da domani a domenica ed organizzato dall'associazione '6i to be media', che scalda 'il cuore' anche di Ermete Realacci del Pd: "un piccolo comune patria della kermesse della libera informazione - dice - e' davvero una bella cosa". Si prevede la partecipazione, con un tam tam mediante siti, blog e cellulari, di un migliaio di persone, tra giornalisti autoconvocati artisti e attori creativi, a Roccasecca. Autore di 'Silenzio Stampa', Colombo mette l'autocensura al primo posto dello stato comatoso dell'informazione. "E' tanto diffusa ed accettata che non si da' torto a nessuno - chiosa - anzi no, al rompiscatole che non si autocensura". E Realacci aggiunge, "la liberta' di espressione di ogni forma di stampa e' vitale per la democrazia e in una fase come questa, in cui il Governo annuncia cospicui tagli al settore che mettono a serio rischio l'uscita in edicola anche di testate storiche e importanti, ben vengano tutte le attivita' che hanno lo scopo di richiamare l'attenzione su questi temi: faccio i miei migliori agli organizzatori per la buona riuscita della festa della libera stampa, in un momento davvero critico per la loro sopravvivenza". L'idea dei partecipanti al 'Press Festival' e' come diventare per una settimana tutti writer per colorare ogni luogo si usi per trasformare gli italiani in un popolo di zombi sottomessi, fatui e spenti. "Sono d'accordo c'e' bisogno di una sferzata", conclude Colombo richiamando l'autorevolezza e la liberta' con cui i grandi quotidiani americani criticano oggi il Presidente e il Vice-Presidente degli Usa. (AGI) Pat
Seconda generazione la vita sospesa dei figli di immigrati
di Gad Lerner
Le (per ora) timide manifestazioni dei rom e dei sinti oggetto di sgomberi e taglio di luce e acqua nelle baraccopoli di Roma. I blacks italo-africani sono dunque solo gli ultimi a organizzarsi, forse perché più deboli degli altri, ma il conflitto etnico fa già parte del nostro panorama metropolitano. Inesorabili presagi di una guerra favorita dall´assenza di sensibilità condivisa: solo di rado i loro morti ottengono la visibilità tributata agli italiani assassinati da stranieri. Tanto meno la cronaca registra gli innumerevoli episodi quotidiani di umiliazione della loro dignità. Anche perché nel nostro paese gli immigrati, nonostante molti di loro abbiano già conseguito con fatica la cittadinanza italiana, restano quasi del tutto privi della rappresentanza politica di cui già godono nelle altre democrazie europee.
Purtroppo parlando di seconda generazione ci soffermiamo soprattutto sulle nude cifre - i giovani di origine straniera erano circa 400 mila nel 2003, si calcola che saranno un milione nel 2015 - ma fatichiamo a inquadrarne la condizione esistenziale. Ragazzi i cui genitori hanno pochissimo tempo da dedicare alla loro educazione. Famiglie spesso ancora separate, con madri e padri impreparati a seguire il percorso scolastico dei figli, quasi sempre prive di quel sostegno di accudimento fondamentale rappresentato dai nonni. Giovani smarriti, dunque, come ci ricorda il più autorevole studioso italiano della seconda generazione, Maurizio Ambrosini.
Eppure si tratta di ragazzi bene o male inseriti in una società che fornisce loro un reddito sufficiente alla sopravvivenza, e che condividono le mode, i miti consumistici, le aspirazioni dei loro coetanei. Qui scatta la maledizione di un sistema bloccato che penalizza qualsivoglia aspettativa di ascesa sociale. I figli degli immigrati sono italiani che dunque tenderanno a rifiutare i lavori tipici degli immigrati. Non vorranno fare la vita dei loro genitori, anche perché ce l´hanno sotto gli occhi. Entrano nel mondo del lavoro con standard occidentali, del tutto ignari delle condizioni di vita nei loro paesi d´origine. Se la prima generazione immigrata era disposta a sopportare enormi sacrifici pur di realizzare un progetto di sistemazione a lungo termine, i giovani nati in Italia (o approdati nella prima infanzia) sono titolari di ben altre aspettative. E se l´alternativa proposta loro fosse solo quella fra condizioni di lavoro degradanti e una vita di espedienti, siano pure illegali, potrà apparire loro conveniente anche il reclutamento o l´auto-organizzazione criminale. Tutto, pur di non fare la fine dei loro padri sfruttati nel lavoro nero o delle loro madri badanti.
È in questo retroterra che si diffonde il pericoloso stato d´animo degli stranieri in patria, intenzionati a sfuggire l´antica condizione dei meteci relegati alle necessità produttive ma privi di cittadinanza reale. Senza che possa essere presa in considerazione neppure l´ipotesi di un ritorno al paese da cui partirono i genitori, entità mitica che gli appartiene solo nella fantasia, oggetto di quella nuova forma di nostalgia che le diaspore esasperano nella relazione con luoghi sconosciuti, irrecuperabili. La seconda generazione è italiana, dunque non estradabile.
La tunica di raso marrone indossata dal padre di Abdoul Salam Guiebre alla cerimonia funebre di Cernusco sul Naviglio, preannunciava ben di più che un richiamo folklorico. Perché quella salma di un giovane cittadino italiano stava per essere imbarcata su un aereo, destinata a una sepoltura nel Burkina Faso, lontano migliaia di chilometri dal luogo in cui aveva vissuto. Segno di rottura con un paese rivelatosi d´improvviso atrocemente inospitale. In Africa, la seconda generazione può ritornarci da morta, mentre i fratelli di Abdoul soffriranno d´ora in poi una cittadinanza dimezzata. Coltiveranno probabilmente un´africanità che le circostanze paiono contrapporre all´italianità, spezzando il percorso dell´integrazione cui pure avevano lavorato gli insegnanti, gli amici, i vicini di casa, i datori di lavoro.
Il recupero di un´identità alternativa, anche se spesso deformata e posticcia, pare l´esito inevitabile di questa disgregazione sociale. Tipico è il caso di Meryem Fourdaus, la fantasiosa marocchina ventunenne di Treviso che ha dato vita al movimento "Seconda generazione". Giunta in Italia all´età di 10 anni, il padre operaio in cassa integrazione, la madre addetta alle pulizie in un ospedale, Meryem frequenta all´università di Padova un corso di Economia Internazionale e intanto fa la commessa part time. Non porta il velo islamico, si dichiara non praticante. Ma ciò non le ha impedito di organizzare per dieci settimane in un parcheggio della sua città la sorpresa della "preghiera segreta". Paradossalmente, la sua storia dimostra come possa essere l´ottusità leghista, il divieto di moschea, la causa di un riavvicinamento forzato alla religione di giovani che se n´erano allontanati.
La deriva di una guerra annunciata, il diffondersi sul nostro territorio di un conflitto etnico a cui si sentono richiamati molti cittadini italiani immigrati di seconda generazione, procede dunque come la più classica delle profezie di sventura che si autoavverano. A renderlo probabile, e ancor più pericoloso, è un´altra caratteristica del nostro sistema: gli immigrati da noi sono totalmente privi di rappresentanza politica. Col bel risultato che gli unici portavoce disponibili sul territorio e nel teatro mediatico sono dei capi comunità, per loro natura separatisti, spesso legittimati solo da una pseudo-autorità religiosa integralista. Non esistono oggi leader democratici dell´immigrazione perché, salvo eccezioni irrilevanti, i partiti politici italiani finora li hanno esclusi. Un deficit di rappresentanza che la seconda generazione rischia di colmare ben presto affidandosi a capiclan e militanti radicali, scavando ulteriormente il fossato della mancata integrazione.
Repubblica 26.9.08
Voglia di integrarsi, paura di essere respinti. Dopo la tragedia di Abdoul viaggio tra gli immigrati di seconda generazione
Neri d’Italia
di Fabrizio Ravelli
«Sono arrivato dall´Angola che avevo due anni. Ora ne ho ventitré, lavoro da cinque, ho studiato qui. Nemmeno mi ricordo dove sono nato. Questa è la mia terra». Gelson veste di nero, parla un italiano fluido e preciso, e ha gli occhi rossi di lacrime. È uno degli amici di Abdoul, detto Abba, italiano ammazzato a sprangate da un barista che gli gridava «sporco negro». Gelson è uno di quelli che sfilavano rabbiosi in testa alla manifestazione: «Ma se c´è stato un po´ di disordine chiediamo scusa, era solo uno sfogo, vogliamo solo gridare che siamo qui, che esistiamo, che siamo cittadini di questo Paese».
Esistono, sono qui. Seconda generazione, figli di immigrati. Nati qui, o arrivati bambini. Cittadini italiani, o sulla strada di diventarlo superando la corsa a ostacoli della burocrazia. L´Italia fatica a conoscere e ad ammettere quello che in altri paesi è storia. Ci pensa la cronaca nera a sbatterci in faccia questa realtà, quando l´incomprensione diventa intolleranza, violenza, razzismo.
La seconda generazione è per sua natura destinata alla rivolta: lo insegna ormai da un secolo la sociologia dell´immigrazione, e non è certo difficile intuire il perché. I figli degli affamati giunti da lontano in cerca di un lavoro purchessia, non provano la medesima rassegnazione dei genitori. Percepiscono semmai la falsità di una cittadinanza formale concessa loro dal paese in cui sono nati senza riuscire a sentirsi veramente a casa propria.
Invece di stupirci per la scoperta di una "rabbia nera" che per la prima volta - da Castelvolturno al centro di Milano - si manifesta con intemperanza contro gli "italiani bastardi", dovremmo rammaricarci di non averne colto per tempo le avvisaglie.
Lo scatenarsi delle pandillas, le bande giovanili latino-americane, a Genova nel 2004. La rivolta della Chinatown milanese, con tanto di bandiere rosse, nell´aprile 2007. La pacifica disobbedienza civile dei beurs, i giovani maghrebini laici che a Treviso inscenano da mesi improvvise adunate di "preghiera proibita" per protestare contro il generalizzato boicottaggio leghista del culto islamico.
Corriere della Sera 26.9.08
In pochi dissero no alle leggi razziali
Quando gli italiani si scoprirono ariani
di Michele Sarfatti
Alcuni vennero sospesi dal partito per atteggiamenti «pietisti», la maggior parte si pentì dopo
Gli italiani che il fascismo nel 1938 definì «di razza ariana» contestarono le idee razziste e la persecuzione dei concittadini «di razza ebraica»? Questa domanda viene posta di frequente, specie da studenti, desiderosi di comprendere di quali comportamenti si trovino a essere di fatto eredi. Quando viene posta a me, rispondo che vi furono contestazioni, ma pochissime, e sottolineo che mancano ricerche scientifiche sul tema.
Una delle testimonianze più note è quella di Ernesta Bittanti, la vedova di Cesare Battisti, che nel diario di quei mesi annotò: «La stampa che è tutta statale, e vuole avere uno spirito antiebraico, dà uno spettacolo pietoso ributtante di incongruenze, contraddizioni, spropositi storici, nefandezze da sciacalli». Poi sul Corriere della Sera del 18 febbraio 1939 pubblicò un caldo necrologio dell'amico ebreo Augusto Morpurgo, tuttavia non meglio precisate «autorità» fecero cancellare le parole attestanti l'italianità dei Morpurgo.
Di recente Ruth Nattermann ha riportato che l'alto dirigente del ministero degli Esteri Luca Pietromarchi annotò sul suo diario: «Le idee fasciste sul razzismo ... un ammasso di sciocchezze » (14 luglio 1938). E poi: «Infierisce la campagna contro gli Ebrei ridotti a essere il vilipendio della nazione. Misure violatrici non solo dello statuto e delle leggi ma degli elementari diritti dell'uomo» (3 settembre).
Benedetto Croce manifestò la sua netta ripulsa in una lettera del 21 settembre all'Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, impegnato a censire razza e religione di soci e famigliari: «Ricevo oggi qui il questionario che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l'avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. Ha senso domandare a un uomo che ha circa sessant'anni di attività letteraria e ha partecipato all'attività politica del suo Paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose? L'unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me che ho per cognome CROCE, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo proprio quando questa gente è perseguitata».
Del tutto pubblica fu la contestazione del periodico L'igiene e la vita, diretto da Giulio Casalini («un vecchio medico socialista, deamicisiano ed umanitario », lo definisce Roberto Gremmo). Nel fascicolo di agosto 1938 il giornale riaffermò l'origine ebraica di Cristo e dei suoi primi discepoli; in quelli successivi si impegnò nella critica scientifica del Manifesto fascista della razza. E proprio «atteggiamento antirazzista» fu la motivazione con la quale le autorità ne disposero ripetuti sequestri sino alla soppressione nel 1939. Fuori d'Italia la condanna poté essere espressa liberamente. Ne Il razzismo in Italia, edito nel 1939 in Francia, l'esule comunista Giuseppe Gaddi scrisse: «Il giovane operaio o il giovane impiegato di Milano non può risolversi a considerare come un essere inferiore la piccola dattilografa milanese che dopo una visita alla sinagoga va a ballare con lui, come lo studente non può risolversi a considerare come una nullità il grande professore che lo ha educato e salutare invece come un grande scienziato il fascista che occupa la sua cattedra per il solo merito del "puro sangue ariano"».
In questo elenco non possono trovare spazio i membri del Gran Consiglio del Fascismo che, nella seduta del 6 ottobre che approvò la Dichiarazione sulla razza, chiesero di ampliare le categorie di «benemeriti» (combattenti, ecc.) da esentare parzialmente dalla normativa antiebraica. Essi infatti non contestarono la persecuzione nel suo complesso (salvo affermarlo nelle memorie scritte dopo la sconfitta del fascismo). Vanno invece aggiunti gli espulsi dal partito fascista per atteggiamenti definiti «pietisti»: Ilaria Pavan ha rintracciato la menzione di quattro casi, non sempre lineari; altri potrebbero esservene stati.
Sono note alcune altre contestazioni. Ma Annalisa Capristo ricorda che, per gli accademici, la lettera di Croce fronteggia solitaria una moltitudine di dichiarazioni di arianità noncuranti del suo «proprio quando». Ecco, la cifra media del comportamento degli italiani «bianchi ariani cattolici» sembra sia stata di noncuranza, adesione passiva o adesione attiva. Quelli perbene furono una ridotta minoranza. E forse non è un caso se proprio su questo tema la storiografia è rimasta così indietro. Forte è la sensazione che il silenzio sugli italiani perbene sia il prezzo che il nostro Paese ha pagato per non mettere troppo in rilievo troppi italiani mala gente.
l’Unità 26.9.08
Tagli all’editoria. Giornali in trincea
Liberazione sciopera contro Rifondazione
di f. fan.
SCIOPERO IMMEDIATO: oggi Liberazione non sarà in edicola. Contro il «comportamento antisindacale» e «la perdurante mancanza di chiarezza» dell’editore che anziché «battersi per cambiare la legge» che taglia i contributi all’editoria «minaccia la crisi e sembra attendere passiva gli esiti nefasti».
È la reazione dei giornalisti di viale del Policlinico alla nota del segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, al termine di un incontro con presidente del cda della società editrice: «La situazione finanziaria di Liberazione è gravissima - vi si legge - Il cda prospetti subito a Rc le proposte con cui affrontare la difficilissima vicenda».
Toni giudicati «drammatici» dai giornalisti, peraltro già in stato di agitazione e con un presidio pubblico organizzato per oggi. Immediata l’assemblea, quasi automatico lo sciopero. Accompagnato da un durissimo comunicato: «Da mesi la redazione attende di conoscere, come è suo diritto, la reale situazione di bilancio e di conoscere le intenzioni sulla sorte dei 60 posti di lavoro e dei molti collaboratori esterni da molto tempo non più retribuiti».
Ferrero replica di aver visto solo ieri lo stato dei conti e respinge le accuse: «Serve chiarezza sui numeri, i redattori hanno diritto di sapere» ma «è del tutto arbitrario addossare le mancanze al partito». In serata il cdr del quotidiano ha incontrato sia lui che Fausto Bertinotti.
Nel caso Liberazione la minaccia di «strangolamento» per via del taglio dei contributi pubblici al settore si innesta sulla dinamica interna a Rc e sulle divergenze di linea tra il direttore Piero Sansonetti e i vertici di partito. Ma la scure sui conti minaccia anche gli altri «piccoli» del panorama editoriale.
Ieri il manifesto è uscito con l’eloquente copertina «Manifestatevi» e l’editoriale di Valentino Parlato: «Stringiamoci le mani, non stringiamoci a corte». Europa titolava: «Così si soffocano le idee». Il quotidiano della Margherita «sta per rilanciarsi (deadline per la nuova grafica: primo ottobre) eppure può chiudere se il governo non cambia il testo». Incassando la solidarietà di Anna Finocchiaro e Luigi Zanda.
Il capogruppo del Pd Soro ha scritto al presidente della Camera Fini invocando un dibattito parlamentare: «Il governo vuole chiudere i giornali d’opinione, i tagli creano disoccupazione e condizionano la stampa, la democrazia non può sopportarlo».
La Fnsi lancia l’allarme: il nuovo regolamento voluto da Palazzo Chigi «non basta se restano i tagli per l’anno già in corso e per il prossimo» perché ci sarebbero «caduti e morti per asfissia». Stesse preoccupazioni per Articolo 21: «Così si pregiudica una riforma in grado di introdurre trasparenza e modernizzazione - scrive Beppe Giulietti - Meglio procedere in modo condiviso eliminando le parti inaccettabili».
Solidarietà a Liberazione arriva dalla Fnsi e dall’Associazione Stampa Romana: «Si rispettino le regole». E dal cdr dell’Unità: «Oggi una testata importante dell'informazione politica in Italia vede messa a rischio la propria esistenza. Notizie inquietanti giungono in una vicenda dai troppi punti oscuri». Il rischio è «far spegnere una voce autonoma, intelligente, preziosa per la democrazia. L'Unità lotterà con i colleghi di Liberazione perché non accada».
l’Unità 26.9.08
Piero Sansonetti: «Il quotidiano resterà in edicola. Vendola? Ci vuole più bene»
«Ferrero dica se ripiana il debito»
di Federica Fantozzi
Direttore, qual è la situazione di Liberazione? 12 milioni di perdite?
«Questi numeri, fatti dall’Espresso, sono demenziali. Liberazione storicamente ha uno sbilancio tra 1 e 2 milioni. Nessuno mi ha fatto vedere le cifre attuali, ma pare sia salito a 3-4. Credo che in quella cifra sia già compreso il taglio di 2 milioni di contributi».
Il rosso in più quindi è colpa del governo?
«Vendite e pubblicità sono stabili. La free press ha avuto grande successo iniziale, poi le inserzioni sono franate dopo le elezioni. Può avere un rosso, ma si tratta di cifre modeste. Il problema è che non c’è più un gruppo parlamentare di riferimento».
Con Ferrero non vi amate. Non è un mistero che vi accusi di seguire una linea «minoritaria». Se avesse vinto Vendola, cosa farebbe oggi?
«Anche lui si troverebbe di fronte una crisi, ma suppongo che abbia un affetto maggiore per questa Liberazione che alla maggioranza non piace per le sue posizioni culturali e politiche. Non c’è dubbio che la differenza sia forte».
È falsa la malignità che l’unica cosa di cui i vendoliani non vogliono la metà sono i debiti del giornale?
«I vendoliani sono una corrente, non una società. L’editore è il partito: se non gli piace il direttore, lo cambi. In passato ho litigato con Giordano su temi importanti. Con Ferrero non ci sono grandi liti ma neanche rapporti intensissimi».
Rc promette un piano di rilancio. L’ha visto?
«No, ma ritengo che debba esserci. E che vada concordato con chi dirige il giornale, io o altri».
Le nuove regole sui contributi all’editoria sono molto restrittive. È un problema politico o di mercato?
«È un problema politico non solo di sinistra, di tutti. Scomparirebbero i giornali di partito che svolgono una funzione molto importante. Sono alla base di metà delle idee del dibattito politico. La legge tende ad abolirli: difficile che sopravvivano».
Quali sono i punti irricevibili?
«La discrezionalità assoluta del ministero del Tesoro che mette i giornali alle dipendenze di Tremonti e crea una sudditanza antidemocratica. E la retroattività che avrà conseguenze pesantissime, farà saltare i bilanci in corso e chiuderanno 2-3 giornali. Poi per la sinistra c’è un problema in più».
Quale?
«Solo Liberazione, il manifesto e l’Unità sono giornali di sinistra. Se chiudono loro, la sinistra resta senza voce. Tutto il resto, grande stampa compresa, è di centro o di destra. Il rischio è diventare un Paese che non ha più una stampa di sinistra».
Una provocazione: se qualcuno lo trovasse la naturale conseguenza della mancanza di rappresentanza parlamentare della sinistra? Perché, in sostanza, agli italiani non interessa?
«Risponderei che sono due cose diverse. Gli elettori hanno pieno diritto di decidere chi governa e chi fa parte del Parlamento. Anche se la cosa mi impressiona: in passato non ci sarebbe stato La Malfa. Ma se la democrazia decide di autolimitarsi può farlo. La libertà di stampa invece è illimitabile».
A Ferrero cosa chiedete?
«Gli azionisti dicano, semplicemente, se ripianano o no. Ma escludo che Liberazione nei prossimi anni non sia in edicola».
l’Unità 26.9.08
La scure di Gelmini sui più piccoli
Elementari, bocciati con un cinque
di Maristella Iervasi
Ripristinata la bocciatura alle scuole elementari. Basterà una sola insufficienza e i bambini della primaria ma anche i ragazzini delle medie verranno bocciati. Con un 5 e mezzo in Geografia o disegno alle elementari - tanto per fare un esempio - e lo stesso voto per i più grandicelli in Applicazione tecnica o in Musica, gli studenti rischiano di ripetere l’anno e persino di non essere ammessi all’esame di licenza scolastica. Ecco la scuola del «rigore» del ministro Mariastella Gelmini. La norma, in vigore da subito, è nascosta tra le righe del decreto n.137 del 1° settembre scorso che il Parlamento si appresta a convertire in legge. Quello - per capirci - che ha introdotto il voto in condotta, le pagelle in numeri e che prevede il ritorno del maestro unico. «Basta un solo voto al di sotto dei 6/10 in un’unica materia o gruppo di discipline per pregiudicare la carriera scolastica di un alunno - denuncia Manuela Ghizzoni, capogruppo Pd in Commissione Cultura alla Camera».
«Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università». Dopo Cittadinanza e Costituzione e la valutazione del comportamento degli studenti, ecco l’articolo 3: «Valutazione del rendimento scolastico degli studenti». Il titolo è generico e i primi due commi specificano che si parla della valutazione «periodica e annuale» dall’anno scolastico 2008/2009 nella scuola primaria e secondaria di I° grado, cioè le medie. Mentre il terzo comma sancisce: «Sono ammessi alla classe successiva, ovvero all’esame di Stato a conclusione del ciclo, gli studenti che hanno ottenuto un voto non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina o gruppo di discipline».
Una rivoluzione senza precedenti, visto che finora alle elementari la bocciatura è un caso raro e laddove è ritenuta necessaria è sempre concordata tra genitori e insegnanti. Ed è una norma fortemente discriminatoria anche per i ragazzi delle medie e le loro famiglie, visto che per gli studenti delle superiori è consentito di mettersi in pari con il proprio debito o le difficoltà scolastiche con i programmi di recupero introdotti dall’ex ministro dell’Istruzione Beppe Fioroni e confermati dalla Gelmini.
Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil: «È assurdo che per una sola materia si bocci un bambino. Il 137 prevede proprio questo. Dietro queste norme si nasconde un vuoto assoluto di idee su come rendere innovativo il sistema di istruzione nel nostro paese e nello stesso tempo si dà un corpo mortale alla scuola pubblica partendo da quella che funziona meglio: l’elementare. Bocciare un bambino, attraverso il meccanismo del voto - conclude Pantaleo - significa riconoscere l’incapacità della scuola, la sua funzione educativa e di apprendimento».
Il Pd in Commissione Cultura, solo per il comma 3 sulla valutazione del rendimento scolastico, ha presentato 5 emendamenti (Ghizzoni, Caterina Pess, Rosa Bruna De Pasquale e Letizia De Torre). Ne ha discusso a lungo con la relatrice Valentina Aprea e anche alla presenza del ministro. Mentre anche la Lega con la deputata Paola Goisis, si è accorta della pericolosità della norma e ha chiesto «che venga meglio chiariata». Ma il testo, alla fine è stato licenziato con il ripristino della bocciatura per le elementari. Senza alcuna modifica. Solo un impegno della Lega a modificarla in aula. Sconcertanti le parole messe verbale e riportate sul sito della Camera nel corso della discussione di martedì scorso in VII Commissione Cultura. Valentina Aprea, presidente e relatore: «Il comma 3 dell’articolo 3 è una norma chiara, volta a responsabilizzare i docenti della scuola secondaria di primo grado». Il ministro Maristella Gelmini: «Gli insegnanti avranno buon senso nell’applicare la norma in questione».
Lunedì a Montecitorio l’aula comincerà l’esame del decreto. «E chissà se in quella sede la maggioranza capirà che le leggi si scrivano affinchè vengano applicate e non per confidare nel buon senso dei cittadini», è il commento di Manuela Ghizzoni. Il Piddì annuncia battaglia. Il governo e il centrodestra hanno invece fretta di convertire in decreto in legge ordinaria, perchè altrimenti entro il mese di ottobre decadrebbe.
Ma un’altra «grana» è in agguato: l’art.4 che prevede il ritorno del maestro unico, manca di copertura finaziaria. L’ha certificato la commissione bilancio, che ne ha chiesto la riformulazione per precisarne gli oneri e la data di applicazione.
Intanto, con lo slogan «salva la scuola» parte la tre giorni di mobilitazione del Pd contro il decreto Gelmini. Stamattina l’ex ministro Giuseppe Fioroni sarà a Milano davanti davanti alla scuola «Casa del Sole» e poi al convegno «Salva l’Italia cambia la scuola all’Auditorium Teatro San Carlo. Domani Dario Franceschini, vice segretario Pd, sarà a Perugia. Mentre lunedì, a Roma, alle 17, Walter Veltroni incontrerà il mondo della scuola al teatro Capranica.
l’Unità 26.9.08
Scuole pubbliche e private: Ratzinger vuole la parità
Parità scolastica. Sia reale la possibilità di «libera scelta delle famiglie» e sia «effettiva l’uguaglianza tra scuole statali e scuole paritarie», che poi sono fondamentalmente quelle cattoliche. Lo ha chiesto ieri Benedetto XVI ricevendo in udienza a Castel Gandolfo i partecipanti al convegno promosso dal Centro studi per la scuola cattolica della Cei. Nel suo saluto il Papa, sottolineando il «significato civile» del progetto pedagogico cattolico, ha rilevato come possa e debba rispondere a «quella emergenza educativa» denunciata più volte. Lo fa rilanciando il tema della parità scolastica, non soltanto come problema di cassa per la scuola «cattolica», ma anche come «intento pedagogico» da far conoscere e da valorizzare in tutti i suoi aspetti, non solo quello dell’identità ecclesiale e del suo progetto culturale, ma anche del suo «significato civile», che «va considerato non come difesa di un interesse di parte, ma come contributo prezioso all'edificazione del bene comune dell'intera società italiana». È così che quel modello, spiega il pontefice, può essere «scelto e apprezzato». Plaude il ministro dell'istruzione del governo ombra, la democratica Mariapia Garavaglia, aggiungendo che «purtroppo il governo in carica non ha presentato nessun progetto educativo, ma tagli pesanti che coinvolgono tanto la scuola statale che paritaria». Plaude anche Luca Volontà (Udc) che sottoscrive la richiesta di «effettiva parità scolastica» e di «reale libertà di scelta per le famiglie», per chiedere al governo di centrodestra di passare ai fatti: di assicurare finanziamenti alla scuola cattolica «per riconoscere la piena attuazione del diritto-dovere di libertà educativa». Un giudizio non condiviso dalla portavoce del Cgd, Coordinamento genitori democratici, Angela Nava. «Le dichiarazioni del Papa sulla necessità di un'effettiva parità fra istituti statali e paritari può funzionare per le coscienze, ma non per la politica di uno Stato, che d'altronde è particolarmente favorevole alla scuola privata. Il governo dovrebbe investire maggiormente sulla scuola pubblica, quella di tutti». «In Italia -continua Nava- la questione fra scuola pubblica e scuola privata è ancora irrisolta. La legge Berlinguer, in base alla quale istituti statali e paritari devono garantire stessi diritti e doveri, non ha ancora avuto piena attuazione. Quando gli istituti privati si adegueranno ci sarà effettiva parità, e in questo modo potremo garantire il diritto delle famiglie alla scelta». L’Unione genitori, invece, apprezza e chiede maggiore sostegno alle famiglie.
l’Unità 26.9.08
Senza certezza di una cattedra e di uno stipendio, dopo il Ssis e i corsi di specializzazione. In Puglia e in tutt’Italia
Provveditorato, in centinaia in fila. Per un anno di supplenza
di Paola Natalicchio
In coda davanti al Provveditorato, per un posto precario nella scuola, una semplice supplenza annuale: 12 punti in graduatoria, 1200 euro al mese. Un giro di giostra in più, con la speranza che prima o poi qualcosa succeda: un nuovo concorso, un’onda di pensionamento di massa. Chissà. È questo, in tutta Italia, il settembre angoscioso di decine di migliaia di insegnanti «a gettone». Precari della scuola appesi a un filo, senza la certezza di una cattedra e di uno stipendio a fine mese. Se un anno fa la situazione era pesante, quest’anno la crisi è piena, soprattutto al Sud. Qui la scure dei tagli in Finanziaria si è fatta sentire più che altrove. E un’intera generazione di trentenni che ha investito sulla formazione arranca.
In Puglia, ad esempio; qui aumentano i laureati, aumenta la domanda di impiego nel settore scuola e diminuiscono le possibilità. Quest’anno gli aspiranti supplenti sono passati da poco più di 17 mila a 18.730. I tagli in graduatoria, però, sono stati 1400, in buona misura dovuti dalla diminuzione della popolazione scolastica: 7000 alunni in meno rispetto all’anno scorso. Qui non ci sono molti immigrati come al Nord a riempire le classi e il decremento demografico della popolazione giovanile inizia a farsi sentire.
Per l’anno prossimo non si vede luce. Anzi. «La riforma Gelmini triplicherà il problema, fino alla catastrofe di 5000 tagli previsti per l’anno scolastico 2009-2010», spiega Paolo Peluso, segretario regionale di Flc-Cgil. Che aggiunge: «Il paradosso è che non stiamo liberando la scuola da personale inadeguato o da nuovi fannulloni, ma stiamo sprecando giovani talenti, altamente specializzati e potenzialmente in grado di migliorare la qualità dell’offerta didattica».
Ieri mattina, in fila al Provveditorato di Bari, per la terza e (per ora) ultima «chiamata» per le supplenze alle superiori c’erano un centinaio di professori in cerca d’autore: età media tra i 30 e i 40, moltissime le donne. Francesca, 32 anni, ha una laurea in lingue, un dottorato, la Ssis e due corsi di specializzazione. Eppure è tra gli ultimi nella graduatoria di inglese. Senza una cattedra qui, domani parte per Bergamo, dove è stata chiamata dalle graduatorie d’istituto. Ce la fa per un pelo. Scoppia a piangere, le tremano le mani. Nella lotteria delle supplenze, "vince" una cattedra di qualche ora a Putignano, la città del carnevale. Cento chilometri da casa, ma che importa: «Ancora non ci credo, avevo già iniziato a fare le valigie». Anche Lella, 29 anni, riesce ad avere uno "spezzone": 9 ore di insegnamento a Modugno, zona industriale di Bari, dopo un dottorato, la Ssis, tre corsi di specializzazione, un anno all’estero e un assegno di ricerca. «Mi hanno svuotato le tasche, però. 3000 euro per la Ssis, dai 600 ai 1000 euro per ogni corso di formazione. Per quest’anno ne è valsa la pena, ma fra un anno arrivano i tagli della Gelmini, e quasi certamente resterò fuori». Mario, 40 anni, la guarda con un sorriso amaro. Stesso curriculum di Lella, ma in più una moglie, due gemelli appena nati, un mutuo. «Tento di giocare una doppia partita: qualche supplenza a scuola superiore e qualche contratto in università. Anche lì la situazione non è facile. A me è appena scaduto un assegno di ricerca e il massimo che mi hanno garantito per quest’anno è un corso di sei mesi a 2000 euro totali. Se non prendo una cattedra oggi non so davvero come fare». Purtroppo rimane a mani vuote. Come Adriana, 30 anni. Lei il dottorato non ce l’ha e sono 12 punti in meno. Ha "solo" una laurea, un master, due corsi di specializzazione: «È impossibile che mi chiamino, ma sono venuta lo stesso. Non si sa mai e sono sei anni che sono disoccupata, a parte qualche call center, Ma l’anno prossimo me ne vado al Nord. Ho degli amici che insegnano a Brescia, altri a Treviso. Lì si lavora. Stare qui è perder tempo».
l’Unità 26.9.08
Tra nazionalismo e messianesimo
Gerusalemme, la galassia della destra ultra ortodossa
di u.d.g
Il loro credo è Eretz Israel, la Grande Israele. Il loro eroe è Yigal Amir, l’assassino di Yitzhak Rabin. L’ accordo di pace con i palestinesi? «Un tradimento». LUno Stato per i palestinesi? «La terra a disposizione è troppo piccola per ospitare due popoli». Quale futuro per la gente dei territori? «Hanno ventidue Paesi dove andare a vivere». Il loro humus ideologico è un mix tra messianismo religioso e nazionalismo portato agli estremi. Hanno una visione manichea della Storia, per la quale da un lato c’è il popolo eletto, Israele, e sul fronte opposto il mondo ostile dei Gentili. Nei loro siti internet, nelle affermazioni dei loro leader, emerge, costante, l’idea di Israele come un grande ghetto super armato in guerra permanente non solo con i terroristi palestinesi ma contro i loro «mandanti» che vanno ricercati in un mondo arabo che, in questa visione paranoica, ha come unico disegno quello di consumare una nuova Shoah contro gli Ebrei. In questa logica da guerra permanente tra i «Nemici» mortali vengono annoverati i «traditori», coloro cioè che dal’interno di Israele operano per distruggere Eretz Israel consegnandola nelle mani «empie e grondanti di sangue« degli rabi. Dentro questo humus è maturato l’assassinio, tredici anni fa, di Yitzhak Rabin, il «generale-primo ministro» che aveva «osato» stringere la mano a Yasser Arafat e avviato la stagione del dialogo. Secondo un recente rapporto di Shin Bet, il servizio di sicurezza interno dello Stato ebraico, possono contare su almeno quattrocento attivisti in servizio effettivo permanente, ma l’area di simpatizzanti si estende ad almeno ventimila persone, in maggioranza giovani. Sono una minoranza, certo, ma una minoranza agguerrita, che può contare su agganci nei partiti dell’estrema destra presenti alla Knesset (il Parlamento israeliano). Le loro roccaforti sono negli insediamenti ebraici di «Giudea e Samaria» (i nomi biblici della Cisgiordania) come Kiryat Arba, a un tiro di fucile da Hebron, dove ancora si venera come «eroe di Israele», Baruch Goldstein, il dottore colono che 24 febbraio 1994 si trasformò in killer implacabile nella «tomba dei patriarchi» di Hebron, sterminando più di 50 pellegrini musulmani prima di essere ucciso. I zeloti ultrà sono inquadrati in movimenti oltranzisti, come il Kach (messo fuorilegge 1994 dallo Stato israeliano per le sue posizioni razziste nei confronti della popolazione araba israeliana e palestinese) .o la «Spada di David», a cui si è aggiunto, più di recente, «Eyal», formazione che proclama di opporsi con tutte le sue energie «al governo dei traditori», dove per «traditori» si intendono tutti quei leader, da Rabin a Sharon, ed oggi Olmert e la nuova premier incaricata Tzipi Livni, che hanno praticato, o anche solo accennato, la via del compromesso. I pionieri della Grande Israele fanno proseliti nelle «yeshiva» (le scuole talmudiche) dove insegnano i rabbini più conservatori. Minoritari, ma non isolati. Secondo un recente sondaggio pubblicato da più diffuso quotidiano israeliano, Yediot Ahronot, il 32% dei 220mila coloni della Cisgiordania ritiene che sia «ragionevole» amnistiare Yigal Amir, l’assassino di Rabin. Per un altro sondaggio, ben il 17% dei coloni si è detto pronto a prendere le armi contro la polizia di un (ipotetico) Stato palestinese. Per sottrarsi ai controlli delle autorità , diversi capi dell’ultradestra hanno scelto come base strategica gli Stati Uniti dove possono contare su appoggi e finanziamenti. Gli epigoni di Eretz Israel propugnano la espulsione in massa dei palestinesi dalla Cisgiordania, e hanno nel loro mirino, non solo metaforico, non solo i politici, ma anche gli scrittori, gli artisti, i giornalisti, donne e uomini di cultura che si battono per un accordi di pace con i palestinesi fondato sul principio di due popoli, due Stati. «L’errore più grave che potremmo commettere è sottovalutare le minacce dell’estrema destra o ridurre questo problema solo a una questione di polizia», dice a l’Unità Abraham Bet Yehoshua. «È tempo - aggiunge lo scrittore - di condurre una battaglia culturale contro la demonizzazione dell’altro da sé, contro l’idea che la Sacra Terra d’Israele sia più importante dello Stato d’Israele e della sua essenza democratica. Una battaglia contro la logica del “tradimento” scagliata con violenza contro chiunque “osi” agire per riaprire spazi di dialogo con i palestinesi». .
l’Unità 26.9.08
America: e la destra disse Dio è con noi
di Furio Colombo
DOMANI CON L’UNITÀ il libro di Furio Colombo dedicato al trionfo del fondamentalismo religioso nella politica degli Usa. Dalla religiosità di Carter a quella mediatica di Reagan e dei due Bush
Era il 1979, nel corso di una dura e difficile campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti quando la religione ha fatto il suo clamoroso ingresso nella politica americana. I due candidati erano Jimmy Carter, e Ronald Reagan. Carter, Presidente in carica, era noto per la sua religiosità personale, si era da tempo definito born again, nato di nuovo alla grazia di Dio, un fenomeno che stava divulgandosi nelle Chiese protestanti di denominazione battista, di cui Jimmy Carter era membro e dove insegnava il catechismo. In quella stessa Chiesa, una sorella del Presidente era ritenuta autrice di alcuni miracoli. Reagan, come tutti ricordano, era il tipico personaggio di Hollywood, mondano, simpatico, ottimo conversatore, religioso solo al modo formale e cinematografico della gran parte della middle america: la cerimonia domenicale, la moglie col cappellino, il pastore che ringrazia sulla porta della piccola Chiesa bianca. Anche Reagan era protestante ma senza alcuna affiliazione nota. Era stato protagonista della politica californiana come Governatore ed era, agli occhi dei suoi estimatori e dei suoi avversari, un conservatore senza rigidità, circondato però da personaggi aspramente schierati a destra... ma lui stesso, era personaggio benevolo, incline alla comunicazione, interessato al grande consenso e con scarsa vocazione dogmatica. Vorrei ricordare ai lettori che sto parlando del Ronald Reagan della campagna elettorale, non ancora di un Presidente di destra e tuttavia ricco d’istinto politico, autore della celebre frase sull’Urss come impero del male, ma pronto a coglierne i segni del cambiamento e il messaggio di Gorbaciov sulla fine della Guerra fredda. Tra i candidati, il Presidente e il laico, l’uomo rinato in Dio e il disinvolto uomo di spettacolo, il potente schieramento religioso che stava emergendo in America come riferimento autorevole di gran parte del protestantesimo ha immediatamente scelto Reagan e ne ha fatto il campione. Reagan, da parte sua ha accettato il poderoso sostegno e ha adattato alla sua nuova militanza la sua immagine pubblica. Lo ha fatto moltiplicando riferimenti e apparizioni pubbliche associati a Dio, ad alcuni predicatori, ad alcune Chiese, ad alcuni impegni per la sua elezione alla presidenza (per esempio la promessa di nomina per la corte suprema di giudici contrari all’aborto) e ad alcuni atti simbolici, come il dichiararsi a favore della preghiera obbligatoria nelle scuole. È dunque iniziata, con la campagna elettorale del 1979, l’ingresso tra le componenti del confronto politico americano di una vasta e bene organizzata opinione pubblica legata ad alcune Chiese e movimenti. È l’ingresso drammatico, pesante e tuttora in atto negli Stati Uniti della religione nella politica, negli equilibri o squilibri politici, in tutti gli aspetti della vita pubblica americana da quello giudiziario a quello dell’insegnamento nelle scuole. Occorre per prima cosa definire questa alleanza, definire i protagonisti e seguire le tracce di un percorso che giunge fino a noi. In questo libro, scritto e pubblicato per la prima volta nel 1980 (New York, Columbia University press, Milano, Mondadori) la serie di episodi che hanno segnato e cambiato profondamente la vita americana e la vita del mondo, è vista e descritta nel suo inizio, nella clamorosa novità che portava. I protagonisti, come si legge in queste pagine, sono due leader cristiani di notevole carisma come il reverendo Jerry Falwell e il reverendo Pat Robertson. Importa poco che, nel corso degli anni, le due vite abbiano attraversato fortune diverse e diversi gradi di successo. I due personaggi, noti al tempo del loro emergere e imporsi alla vita pubblica americana come predicatori elettronici, hanno creato la vasta base d’opinione del fondamentalismo cristiano che diventerà per decenni la forza quasi sempre imbattibile della destra. Ecco ciò che in effetti è avvenuto: una duratura e radicata alleanza fra destra politica e religione. A questa alleanza la destra americana ha offerto, in cambio di un potere prolungato e senza controlli morali, la lotta contro tutti i valori che la destra aveva, in passato, ricevuto dal liberalismo roosveltiano e kennediano: libertà civili, parità nel lavoro delle donne, diritto delle donne a scegliere sulla procreazione, separazione rigorosa, anche simbolica della Chiesa dallo Stato, separazione rigorosa della Chiesa dalla scienza. La contro-offerta dello schieramento religioso è apparsa di grande importanza per la destra economica e politica america. Pressione, predicazione, conversione, penetrazione nelle famiglie e nelle persuasioni individuali avrebbe sciolto fronti compatti come quello del lavoro e dei sindacati, riorientato i più poveri dalla protesta sociale alla fede in Dio, avrebbe screditato e reso più deboli i gruppi che traevano la loro forza non solo dal liberalismo democratico, ma dai movimenti liberatori di Martin Luther King e Robert Kennedy, e le varie forme di protagonismo e antagonismo nate negli anni Sessanta, soprattutto la parte, molto dannosa per il mondo degli affari, impegnata nelle crociate ambientaliste... In più la destra acquistava la disponibilità; anche fisica, di piazze, folle, marce, mobilitazioni, grandi eventi pubblici, cortei, che fino a un momento prima erano stati patrimonio e strumento esclusivo della sinistra sindacale o di quella politica. Un prezioso aiuto in più è stato subito visto dalla destra politica nella nuova alleanza: lo scudo religioso sarebbe stato in grado, e lo è stato, di respingere gli attacchi da parte liberale e di sinistra, basati sulla moralità, le accuse di comportamenti impropri e dannosi nell’uso privilegiato della ricchezza. Uno schieramento di predicatori, sostenuto da nuovi fondi, da nuove megachiese e da infiniti programmi televisivi, si è dimostrato in grado di deflettere o respingere gran parte degli attacchi del vecchio liberalismo e del vecchio movimentismo in nome di Dio e delle nuove priorità: lotta all’aborto, agli omosessuali, alla separazione tra Chiesa e Stato, tra Chiesa e scienza. In questa alleanza politica-religione avvenuta negli anni Ottanta in America, i lettori non faranno fatica a riconoscere la ragione del trionfo della destra politica... Meno chiaro, per molti che sono lontani dalla cultura americana, è che cosa si intenda per religione e per Chiesa come partner di questa alleanza. Le Chiese protestanti americane sono una costellazione di istituzioni e di iniziative che sono, allo stesso tempo, radicate nella storia e nate, rinate, divise e riformate continuamente nel presente. Esse sono, quasi nello stesso tempo, istituzioni e movimento, sede fissa e immutabile di valori e adattamento continuo, soggetto alla doppia spinta del tempo, conservatorismo e mutazione. Tre caratteri fondamentali vanno tenuti presenti da chi si affaccia alla costellazione delle Chiese protestanti americane. La prima è che manca quasi del tutto una gerarchia se non temporanea e carismatica, che abbia responsabilità e potere di guida. La seconda è che, per quanto le predicazioni siano pressanti e potenti, non esistono invalicabili linee di ortodossia e proposizioni dogmatiche definite. La terza è che l’intero mondo protestante americano si divide in Chiese o dominazioni (denomination) dette main stream (Metodisti, Unitariani, Luterani, Mormoni, Christian Science) e nella vasta disseminazione di Chiese battiste associate in assemblee, con organi di coordinamento non totali e non perenni. Ciascuno di questi gruppi di Chiese si divide a sua volta in bianchi e neri, (lungo linee razziali fino a poco fa abbastanza marcate) e nella contrapposizione fra grandi centri urbani e America interna o Bible belt.
(...)Si direbbe che assistiamo, negli Stati Uniti degli anni Ottanta, ad una grande anticipazione di ciò che accadrà alcuni decenni più tardi, nel comportamento e nelle decisioni della Chiesa di Roma, che sotto il papato di Joseph Ratzinger, dovendo scegliere fra il sostegno a un cattolico rigoroso e praticante come Romano Prodi, leader del centrosinistra, e un personalità pronta a ogni cerimoniosità ma evidentemente estraneo ai valori religiosi, come Silvio Berlusconi, Ratzinger non ha esitato a offrire a quest’ultimo il pieno ed esplicito sostegno della Chiesa italiana. La scelta di Papa Ratzinger appare del tutto simile, nelle motivazioni e nelle conseguenze, a quella delle Chiese fondamentaliste americane: l’estraneità ai valori religiosi, unita all’ansietà di offrire sostegno a valori che sono indifferenti alla destra (ma garantiscono i voti religiosi al partito), e il sostegno politico del partito, premiato da quei voti, alla Chiesa rassicurata su ciò che desidera, cementano una alleanza perfetta. Di più: la mancanza di valori religiosi, proprio da parte dell’alleato laico prescelto, garantiscono la sua disponibilità a sostenere le richieste più rigide di una Chiesa.
l’Unità 26.9.08
Tolleranza zero, l’ossessione dei potenti
di Luigi Ferrajoli
Pubblichiamo alcuni stralci dell’intervento di Luigi Ferrajoli al festival del Diritto che si svolge a Piacenza da oggi a domenica.
La tolleranza zero, cioè l’impossibilità del crimine, potrebbe forse essere raggiunta solo in una società panottica di tipo poliziesco, che sopprimesse preventivamente le libertà di tutti, mettendo un poliziotto alle spalle di ogni cittadino e i carri armati nelle strade. Il costo della vagheggiata e comunque sempre illusoria "tolleranza zero" sarebbe insomma la trasformazione delle nostre società in regimi disciplinari e illiberali sottoposti alla vigilanza capillare e pervasiva della polizia. Laddove il connotato principale del diritto penale, in una società liberale, consiste precisamente nella tolleranza, a garanzia delle libertà di tutti, della possibilità materiale della trasgressione e nella sua prevenzione sulla sola base della minaccia della pena: nella difesa, in altre parole, della libertà fisica della trasgressione in quanto vietata giuridicamente e non impossibilitata materialmente. Di tutto questo furono ben consapevoli i criminalisti della Scuola classica, che ammonirono contro il carattere assurdo e funesto dell’illusione panpenalistica e pangiudizialista. "La pazza idea che il giure punitivo debba estirpare i delitti dalla terra", scrisse Francesco Carrara, "conduce nella scienza penale alla idolatria del terrore". E prima di lui Gaetano Filangieri aveva scritto che solo un legislatore "tirannico" può illudersi e illudere che "le pene potranno interamente bandire dalla società i delitti", anziché semplicemente "diminuirne il numero". E Mario Pagano, a sua volta, aveva messo in guardia contro lo zelo inquisitorio e le ideologie efficientiste, denunciando l’"arbitrario ed immoderato potere" che "fa d’uopo" lasciare "nelle mani del giudice" ove si voglia "che il più leggiero fallo non resti impunito", nonché il prezzo "di necessarie violenze ed attentati sulla libertà dell’innocente" che occorrerebbe pagare per la ricerca di ogni "occulto delitto".
E tuttavia è sulla base di questa insensata parola d’ordine che è stata promossa in questi ultimi venti anni la crescita esponenziale, non solo in Italia, della carcerazione penale, senza che sia in alcun modo diminuita la criminalità che queste politiche avrebbero dovuto ridurre a zero. Si tratta di un fenomeno di dimensioni gigantesche, che offre la prova più clamorosa dell’irrazionalità delle politiche penali informate al progetto insensato della tolleranza zero. In tutti i paesi occidentali si è prodotta in questi anni una vera esplosione delle carceri, che ha visto talora raddoppiare, come in Italia, e talora, come negli Stati Uniti, addirittura decuplicare la popolazione carceraria: una popolazione formata ormai quasi unicamente, come mostrano le statistiche giudiziarie di tutti questi paesi, da soggetti poveri ed emarginati: immigrati, neri, tossicodipendenti, detenuti per piccoli reati contro il patrimonio.
Ma simultaneamente la criminalità, per effetto delle politiche informate alla vagheggiata tolleranza zero, non è affatto diminuita. Negli Stati Uniti, al contrario, è aumentata. Da un lato il numero dei detenuti ha raggiunto circa i 2 milioni e mezzo, senza contare i 4 milioni di cittadini sottoposti alle misure della probation o della parole: 1 ogni 100 abitanti, dieci volte di più che in Europa, otto volte di più che negli stessi Stati Uniti di 30 anni fa. Ma dall’altro il numero degli omicidi ha raggiunto il numero di circa 30.000 l’anno, che è quasi dieci volte il numero degli omicidi che, nonostante le mafie e le camorre, accadono ogni anno in Italia. Aggiungo che il fenomeno si è sviluppato, pur se in misura incomparabilmente inferiore, anche in Europa. Si tratta di una carcerazione di massa della povertà, generata da una degenerazione classista della giustizia penale, del tutto scollegata dai mutamenti della fenomenologia criminale e sorretta soltanto da un’ideologia dell’esclusione che criminalizza i poveri, gli emarginati, o peggio i diversi - lo straniero, l’islamico, l’immigrato clandestino - all’insegna di un’antropologia razzista della disuguaglianza. In ogni caso l’effetto della cosiddetta tolleranza zero è stato, in termini di sicurezza, uguale a zero: perfino a New York, dove è stata sbandierata come un grande successo del sindaco Giuliani, si è risolto nel nascondere la polvere sotto il tappeto: nel far sparire vagabondi, spacciatori e piccoli criminali dal centro di Manhattan e nel costringerli a spostarsi in periferia.
Il diritto penale, luogo, nel suo modello normativo, quanto meno della uguaglianza formale davanti alla legge, è così diventato, di fatto, il luogo della massima disuguaglianza e discriminazione. Esso non solo riproduce le disuguaglianze presenti nella società, riproducendone gli stereotipi classisti e razzisti del delinquente "sociale" oltre che "naturale", ma ha codificato discriminazioni e privilegi con politiche legislative tanto severe con la delinquenza di strada quanto indulgenti con quella del potere. Si pensi solo, in Italia, all’introduzione di misure draconiane nei confronti della criminalità di strada e dell’immigrazione clandestina e, insieme, all’edificazione di un intero corpus iuris ad personam finalizzato a paralizzare i vari processi contro il presidente del consiglio; simultaneamente - va aggiunto - a una campagna di denigrazione dei giudici: tanto più accusati di politicizzazione quanto più al contrario, prendendo in parola il principio dell’uguaglianza davanti alla legge, hanno cessato di essere condizionati dalla politica.
Si sta così producendo, in una misura ancor più massiccia che in passato, una duplicazione del diritto penale: diritto minimo e mite per i ricchi e i potenti; diritto massimo e inflessibile per i poveri e gli emarginati. Mentre nei confronti della delinquenza dei colletti bianchi la giustizia è sostanzialmente impotente - si pensi solo alla prescrizione perseguita sistematicamente in questi processi da agguerriti difensori - nei confronti della delinquenza di strada la giustizia penale è severissima.
Corriere della Sera 26.9.08
Il Comitato di Bioetica: il rifiuto delle cure è un diritto
di Margherita De Bac
ROMA — Nel dibattito sul testamento biologico arriva il documento sulla «Rinuncia consapevole al trattamento sanitario», oggi al voto del Comitato nazionale di bioetica (Cnb). Riafferma con forza un principio ancora poco chiaro ai cittadini nonostante molte sentenze di tribunali: la completa libertà sulla gestione del proprio corpo, un principio che non può essere toccato anche se il rifiuto di cure mette a rischio la vita. Il tema ruota attorno all'autodeterminazione. Ma qui si parla di persone pienamente coscienti, in grado di intendere e di volere, che esprimono con lucidità i propri desideri. Come Welby, per intendersi.
Ecco un esempio tratto da una storie reale, nota all'opinione pubblica perché finita sui giornali recentemente: se scegli di non farti amputare la gamba, nessuno può sindacare sulla tua motivazione personale. E il medico? Dovrà cercare con tutti gli argomenti di farti cambiare idea, di indurti ad accettare «i trattamenti life saving». Se non riesce nell'intento potrà «astenersi da condotte avvertite come contrarie alle propri concezioni etiche e professionali ». In altre parole «l'accoglimento della richiesta di sospendere le cure è lecito ma non obbligatorio sul piano giuridico deontologico e morale». Dunque è libero di astenersi, passando l'assistenza ad un collega. Il paziente, da parte sua, ha il diritto di manifestare la sua volontà. Ma dovrebbe avvertire anche il dovere di salvaguardare la vita, che resta un bene inviolabile, come viene sottolineato nella parte più «cattolica» del documento.
Scritto con estremo rigore dal giurista bolognese Stefano Canestrari, new entry nel Cnb, il parere ha buone probabilità di essere licenziato con voto unanime dal Comitato. Avvenimento storico per un gruppo che si distingue anche per mancanza di condivisione.
Il Cnb ha ritenuto necessario intervenire su questa materia proprio alla vigilia del dibattito parlamentare sul testamento biologico. Sembra che maggioranza e opposizione si muovano nella direzione di una legge. Ieri il Pd ha avviato un confronto interno al partito. E' possibile si riesca a trovare una sintesi fra le varie posizioni. Ottimista Anna Finocchiaro: «Al di là di posizioni marginalissime finalmente si avverte un'esigenza condivisa». Il senatore Ignazio Marino ritiene però che la legge non dovrà definire l'accanimento terapeutico e che sull'alimentazione artificiale debba decidere il medico. Disposta al dialogo l'associazione Scienza e Vita, purché l'eutanasia venga nettamente esclusa.
Corriere della Sera 26.9.08
Il programma divino e la spiegazione scientifica sono due modi di interpretare un identico movimento della storia dell'uomo
Il nulla che unisce Dio e Darwin
Disegno intelligente ed Evoluzione sono entrambi figli del divenire e del caso
di Emanuele Severino
Su «Kos»: La creazione e la tecnica
Oggi è in libreria il numero 9 di «Kos», bimestrale del San Raffaele diretto da Luigi Maria Verzé. È dedicato a «l'Evoluzione». Ospita, tra gli altri, articoli dello stesso Verzé, di Edoardo Boncinelli, di Luigi Luca Cavalli-Sforza e di Emanuele Severino, che all'Università Vita-Salute del San Raffaele è professore di ontologia fondamentale. Dal saggio di Severino intitolato «Il caso, il divino, la tecnica: variazioni dello stesso tema», diamo qui un estratto riveduto dall'autore stesso.
Metodo. Democrito e Aristotele spiegarono il divenire attraverso il caso, una potenza «che si produce da se stessa» muovendosi dal non-essere
Gli sviluppi della biologia hanno sottoposto la teoria dell'evoluzione a critiche profonde, ma ne tengono tuttora fermi i capisaldi: il carattere casuale della produzione del patrimonio genetico e la selezione naturale. In un passo molto noto de Il caso e la necessità, Jacques Monod scrive che «soltanto il caso è all'origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera. Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, alla radice del prodigioso edificio dell'evoluzione». Monod si rifà esplicitamente al concetto democriteo di caso: la biologia percepisce il proprio legame con la filosofia greca, ma di esso non coglie ancora la forza — che in quanto segue intendo richiamare. D'altra parte la biologia sfrutta oggi a fondo il concetto di «programma», desunto dalla teoria dell'informazione: nei cromosomi di un embrione esiste un «piano», un «programma» appunto. «La vita segue un programma», che è «l'insieme delle potenzialità incorporate nella sostanza dei geni» (Salvador Luria). E, anche qui, il concetto biologico di «programma» è strettamente legato a quello aristotelico di «potenza».
Tale concetto aristotelico di «potenza» guida l'intera civiltà occidentale — quindi anche l'intero sviluppo del sapere scientifico. Non è una stranezza che Werner Heisenberg abbia affermato che le «onde di probabilità» che producono i fenomeni «possono essere interpretate come una formulazione quantitativa del concetto aristotelico di dýnamis, di possibilità, chiamato anche, più tardi, col nome latino di potentia ».
L'«onda di probabilità» ha però molto da insegnare al modo in cui la biologia intende il concetto di «programma». Ha da insegnare che la scienza deve lasciarsi alle spalle ogni «necessità» e che la biologia non può concepire il patrimonio genetico come qualcosa che, «uscito dall'ambito del puro caso entra in quello della necessità, delle più inesorabili determinazioni», come sostiene Monod.
«Caso» traduce la parola greca autòmaton che, alla lettera, significa «(ciò) che tende, si muove e si produce da sé». È la parola usata da Democrito — ma anche da Aristotele. Se si guarda ciò che sta attorno all'autòmaton, non si trova nulla che spieghi perché esso tenda, si muova, si produca. Cioè si trova il nulla. Muovendosi e producendosi «da sé stesso», si muove e si produce a partire dal proprio non essere.
Ma quando la filosofia parla dell'«essere» e del «non essere» li pensa primariamente in relazione al divenire del mondo. Si tratta di comprendere che il caso non è una forma particolare e più o meno diffusa di divenire, ma che, dato il modo in cui l'Occidente intende il divenire, il divenire, in quanto tale, è caso: dunque è caso anche quando, come appunto avviene nella tradizione occidentale, si intende che il divenire sia guidato dalla Mente o dalla Provvidenza divina e creato da essa; ed è caso anche quando si presenta con quelle altissime forme di regolarità che sono state via via messe in luce dall'uomo comune e dalla scienza. Per Aristotele l'embrione è «in potenza» un uomo, ossia è il «programma» seguito dalla vita umana che si sviluppa. L'embrione diventa uomo, nel senso che realizza il proprio programma (il proprio Dna, dice oggi la genetica). Ma, prima dell'esistenza (cioè dell'«essere») dell'uomo, tale realizzazione non esisteva, cioè «non era», era nulla. E la biologia si esprime appunto, continuamente, con affermazioni come questa (di Jacob): che l'evoluzione ha prodotto «fenomeni che prima sulla terra non esistevano ».
Affermare che l'embrione è «in potenza» uomo significa dunque affermare che, nell'embrione, l'uomo realizzato non è, è nulla: si pensa, certamente, che esista già il programma di un certo individuo umano, ma non la realizzazione di tale individuo. Il programma, che è già esistente, è cioè unito al non essere (al nulla) della propria realizzazione. In relazione al programma, tale realizzazione non è casuale: il programma ne è la «spiegazione» e l'anticipazione. Ma in quanto la realizzazione è nulla quando ancora non esiste l'uomo realizzato, ne viene che questa sua nullità non può essere una «spiegazione» o un'anticipazione del futuro: è un nulla di spiegazione e di anticipazione. Ciò significa che, proprio perché si produce a partire dal proprio nulla, la realizzazione del programma è un «prodursi da sé», un autòmaton:
è caso. Non può quindi essere che aleatorio, casuale, il modo stesso in cui il programma guida l'evoluzione degli individui e delle specie. Se ancora si vuole parlare di «guida», il rapporto tra programma e sua realizzazione (o tra «genotipo » e «fenotipo») può avere soltanto un carattere «probabilistico» (come l'«onda di probabilità» di Heisenberg). Ma lo stesso accade nel rapporto tra il «Programma » divino e le sue creature, che, per quanto anticipate e spiegate dal «Programma», secondo la teologia cristiana sono da esso create ex nihilo sui et subiecti: «Dal loro esser (state) nulla e dalla nullità della materia ( subiecti) di cui son fatte». Nonostante abbiano alle spalle addirittura il Programma divino, le cose del mondo, in quanto create ex nihilo, sono caso, esistono casualmente. Il caso prevale sulla Provvidenza, che nella storia dell'Occidente intende, invece, essere spiegazione e anticipazione assoluta delle creature, mantenendo tuttavia, contraddittoriamente, la loro nullità originaria, ossia il loro essere originariamente un nulla che non può in alcun modo spiegare e anticipare la loro realizzazione. La stessa creazione divina del mondo è casuale, nonostante l'intenzione più ferma di vedere in essa la negazione più radicale della casualità.
Il creazionismo e le forme più intransigenti di evoluzionismo si trovano dunque sullo stesso piano: sono grandi variazioni dello stesso Tema, il Tema del divenire, inteso come evoluzione dalla potenza all'atto che la realizza, e pertanto come evoluzione dal non essere all'essere. Se si è capaci di scendere nel sottosuolo della filosofia (ossia dell'anima) del nostro tempo, si scorge il legame essenziale che unisce l'evoluzione (il divenire) e il caso. Il divenire è caso; e nessuna necessità può caratterizzare i programmi informatici, biologici, metafisici, teologici perché se essa esistesse spiegherebbe e anticiperebbe tutto il futuro e, quindi, lo dissolverebbe perché dissolverebbe il nulla di ciò che ancora non è: dissolverebbe il divenire e l'evolversi di cui tale necessità vorrebbe essere la spiegazione e l'anticipazione: dissolverebbe quel divenire che, per gli stessi amici dei programmi mondani o divini, è l'evidenza suprema.
Quel sottosuolo scorge, pertanto, che l'evoluzione non può nemmeno avere uno scopo necessario. Proprio perché il nulla originario delle cose non spiega e non anticipa il loro futuro, e la loro realizzazione è «libertà assoluta», l'evoluzione è «cieca», non può avere alcuna direzione se non quella che di fatto, casualmente, si produce e che di fatto è osservabile. Qualora avesse uno scopo inevitabile, quest'ultimo sarebbe daccapo il programma che dissolve il nulla del futuro e il divenire del mondo. Se la «direzione» dei fenomeni biologici è un semplice fatto constatabile (e non una «necessità»: il divenire del mondo «non ha senso»), rimangono tuttavia gli scopi dell'uomo (il senso che egli dà alle cose): rimane la sua lotta per la sopravvivenza, che ripropone e prolunga, nella dimensione cosciente, la cosiddetta «selezione naturale», secondo un tipo di «evoluzione » in cui va di fatto prevalendo, sugli altri scopi della civiltà occidentale e planetaria, la volontà dell'apparato scientifico-tecnologico di incrementare all'infinito la capacità di realizzare scopi. Va dunque prevalendo la selezione artificiale che si propone di guidare — secondo le leggi statistico- probabilistiche della scienza — la stessa «selezione naturale».
Per quanto paradossale possa apparire, la «teoria dell'evoluzione», e in generale del divenire, è il farsi massimamente coerente da parte della teoria della creazione divina del mondo; è la variazione più coerente al Tema del divenire. Ma è questo Tema a non venire mai e in alcun modo discusso nel suo significato più profondo. Esso porta ormai sulle proprie spalle l'intera storia della Terra. Non è già questo il motivo sufficiente perché finalmente ci si fermi, ci si volti e lo si guardi in faccia (e lo si scuota per vedere fino a che punto non si lascia sradicare)?
Repubblica 26.9.08
Il grande tonfo del capitalismo di mercato
di Guido Rossi
Vorrei fornire qualche indicazione sulle questioni totalmente nuove e irrisolte che toccano le recenti dimensioni e strutture sia della società per azioni, sia dei mercati finanziari. A questo proposito ho recentemente usato la metafora del mito della Fenice e della necessità che dalle ceneri del "diritto vivente" nascano nuovi paradigmi e un nuovo ordinamento. La discussione è ora aperta in tutti i Paesi, per gli effetti che la globalizzazione economica ha provocato, squarciando i vecchi schemi. Infatti, le pur multiformi modifiche al sistema internazionale delle imprese introdotte dalla moderna lex mercatoria, la quale ha valicato il confine imposto dalle legislazioni dei singoli Stati, non hanno potuto fermare le crisi che hanno colpito le società e i mercati finanziari in generale. E ciò è avvenuto anche perché in ogni caso le regole della lex mercatoria, dettate dai protagonisti dei mercati, ispirati solo alla tutela dei loro interessi, offrivano strumenti il più delle volte inutili, che soltanto in alcune sporadiche ipotesi sono riusciti a tutelare i contraenti indifesi e ad impedire gli illeciti e le bolle speculative che stanno alla base delle crisi.
Le vere sfide del diritto sono dunque quelle di dover affrontare una realtà (da disciplinare) completamente diversa rispetto a quella che i suoi strumenti tradizionali avevano fin qui regolamentato. Siamo di fronte ad una rivoluzione del sistema economico che il diritto non è stato ancora in grado di seguire, sia perché il suo armamentario ormai superato altro non ha fatto che rendere ancora più complesse le crisi, se non a volte favorirle, sia perché è mancato il coraggio di mettere in discussione i vecchi dogmi e formulare ipotesi di base completamente nuove. Robert J. Shiller (The Subprime solution, 2008) ha recentemente dimostrato che anche la subprime crisis non può essere risolta con strumenti vecchi di mero intervento pubblico, ma va rivisitata con strutture nuove. La verità è che la crisi è più profonda, poiché la grande società per azioni è sfuggita, nel suo operare, non solo alle tradizionali categorie giuridiche sulle quali era organizzata, ma a tutti i più recenti originali, e spesso scimmiottati da altri ordinamenti, tentativi di regolamentazione che vanno genericamente sotto il vago nome di corporate governance. Anzi la frammentazione della gestione dell´impresa sociale, attraverso la scomposizione degli organi amministrativi in miriade di comitati, ha all´incontrario favorito il perseguimento di interessi extrasociali e il dissanguamento della società, aiutati da un mercato senza né controlli, né scrupoli e da una fantasiosa e cinica dominanza della finanza sempre più autoreferenziale e distaccata dalla realtà economica dell´impresa. In questo quadro prolificano la speculazione e la crisi che l´economia e il diritto stanno vivendo, in uno stato di semi impotenza, quasi senza capire che non è più tempo di restaurazione...
Le vecchie formule risultano dunque superate. Nelle strutture dei mercati ormai azionisti e creditori, imbrigliati in innumerevoli e sovente opachi strumenti finanziari, stanno perdendo sempre più autonomia fino a confondersi. L´azionista, infatti, è solamente uno degli investitori e non è più il solo a rappresentare l´interesse sociale: con lui concorrono i creditori?finanziatori, gli obbligazionisti nelle varie fattispecie attraverso le quali i loro diritti si possono variegare, le diverse categorie di azionisti sempre più numerose e spesso indecifrabili. Ma concorrono sempre più rilevanti i titolari di prodotti derivati con la varietà di operazioni d´acquisto, di vendita e di conversione, dissimulate spesso da riallocazioni del rischio; i partecipanti alle varie forme di trust, di fondi (dagli hedge funds ai fondi pensione e soprattutto ai nuovi irrompenti protagonisti: i fondi sovrani), di prestito di azioni, di equity swaps e di tutti gli altri strumenti finanziari che formano un enorme e incontrollato mercato...
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L´attuale situazione si presenta assai più complicata rispetto alla semplicità dei sistemi giuridici tradizionali, tant´è che nel capovolgimento generale dei ruoli non deve essere trascurato l´aspetto dei "doveri fiduciari" che gli stessi azionisti organizzati e costantemente attivi possono avere nei confronti della società e degli altri soci. Al di fuori dei casi tipici di controllo maggioritario e minoritario, che possono alimentare ampi casi di conflitto di interessi, la dottrina e la giurisprudenza unanimi, in tutti gli ordinamenti, sono solite ritenere che gli azionisti non abbiano "alcun dovere nei confronti della società". Tuttavia, le recenti vicende dei mercati finanziari hanno spinto minoranze di azionisti attivi a considerare economicamente razionale il cercare di influenzare direttamente, anche fuori dei canonici contesti assembleari, le scelte degli amministratori. Questo fenomeno, assai diffuso nei maggiori mercati esteri, ha incominciato ad avere anche in Italia una sua non indifferente applicazione, come è stato recentemente dimostrato in una delle più importanti società italiane, le Assicurazioni Generali... Può darsi che l´attivismo dei soci minoritari possa anche essere a volte di stimolo all´operare degli amministratori, ancorché la separazione dei diritti di voto dagli interessi economici, largamente non regolata e spesso nascosta, possa essere strumento di facile perseguimento di interessi extrasociali, diretti o indiretti a grave danno del complesso degli azionisti, quando ad esempio è loro interesse far scendere il prezzo di borsa delle azioni. Il problema dei "doveri fiduciari" degli azionisti e del conflitto di interessi nell´ambito societario si è dunque ampiamente modificato e impone nuovi strumenti di valutazione, affatto difformi da quelli tradizionali.Un ulteriore fenomeno recente che sta modificando radicalmente le strutture dei mercati finanziari e delle società per azioni è il massiccio investimento dei cosiddetti fondi sovrani (sovereign wealth funds). Tendenza questa che suona in modo opposto a quella che sembrava consolidata, nel capitalismo di mercato, delle privatizzazioni. La loro attuale presenza calcolata fra i 3 e i 5 trilioni di dollari ha evidenziato il diverso ruolo che possono assumere i governi in un´economia capitalista: "il capitalismo di Stato opposto dunque al capitalismo di mercato"?... Quel che oggi rileva è che i fondi sovrani sembrano poter costituire una vera alternativa al capitalismo di mercato. Né può dimenticarsi che proprio i fondi asiatici, del Medio Oriente e di Singapore hanno contribuito a risolvere le recenti crisi di istituti di investimento di straordinaria rilevanza nel capitalismo di mercato, quali Citigroup, Inc., Merrill Lynch & Co., e UBS AG. Ma ancor più anomale sono tutte le forme di bailout, di intervento economico del governo americano nei recenti salvataggi bancari... Tullio Ascarelli riteneva che le società per azioni controllate dallo Stato costituiscono una "formula insincera". E ripete oggi Robert J. Shiller che i salvataggi (i bailout) sono forme di ipocrisia, ai vertici della quale, mi pare, troviamo anche noi il tentativo nostrano di salvataggio governativo dell´Alitalia...
Parlare ancora del "capitalismo di mercato", soprattutto dopo gli interventi del Tesoro americano a salvataggio dei vari istituti finanziari a iniziare da Fannie Mae e Freddie Mac, sembra riferirsi a un relitto storico o a un oggetto d´antiquariato. Le azioni preferenziali emesse a favore del Tesoro e la possibilità, con l´emissione di warrants, di acquistare fino al 79,9% delle azioni ordinarie, nonché la sospensione del diritto di tutti gli azionisti a favore del Commissario (Conservator), sono, si potrebbe dire celiando, la copertura di mercato a un salvataggio pubblico in spregio. Lo stesso dicasi per il grande gruppo assicurativo AIG.
Considerata l´opacità dei fondi sovrani e di altri interventi dei governi nelle società, ritengo che una strada percorribile potrebbe essere, dopo averne imposto la rigorosa "trasparenza", quella di individuare con chiarezza la loro responsabilità sia nei confronti della società, degli azionisti e dei principali stakeholders....
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Grande rilievo assume, ad esempio, la circostanza che il controllo pubblico su un´impresa non esclude in alcun modo l´applicazione della disciplina antitrust. La circostanza che il socio di controllo sia lo Stato o un ente pubblico non incide quindi sulla piena parificazione della società partecipata a un´impresa privata e sul suo assoggettamento alle regole concorrenziali previste per qualunque imprenditore. Il principio generale che se ne può trarre è, quantomeno, una presunzione in favore dell´applicazione delle regole di diritto (societario) comune anche alla mano pubblica. Tuttavia i bailout, i vari salvataggi, nonché gli interventi d´ogni tipo dello Stato nelle società quotate, hanno definitivamente cancellato dalla società per azioni il principio che la perdita del capitale, in caso di insolvenza, si abbatteva sugli azionisti. Nel nuovo capitalismo finanziario le perdite si sono allargate e vengono ormai ripianate dallo Stato, cioè da tutti i cittadini che pagano le tasse. Ma allora quale capitalismo di mercato?...Insomma, i modelli sui quali erano costruiti il diritto societario e quello dei mercati finanziari sono totalmente fuori uso e inadatti a interpretare le nuove realtà del capitalismo finanziario globalizzato. Né vale a tenerli in piedi qualche fragile e già vetusto strumento, quale il ricorso agli amministratori indipendenti o a nuove, ma stantie definizioni di parti correlate, o la vaga responsabilità sociale per proteggere gli stakeholders: espressioni, per dirla con Robert B. Reich (Supercapitalism, New York 2007, p. 171 (trad.it., Fazi Editore 2008) considerate "meaningful as cotton candy" così senza senso come lo zucchero filato. Intanto nei gruppi di società, all´interno e nei mercati, il conflitto di interessi ha assunto forme nuove e incomprensibili coi vecchi paradigmi, tanto da colpire anche gli stessi stakeholders... Pretendere che gli eventuali conflitti di interessi fra le società e le parti correlate possano, ad esempio, essere risolti affidando le decisioni relative ai cosiddetti amministratori indipendenti, facendoli diventare in determinate fattispecie i veri "capi azienda", snaturandone così la presunta natura e funzione, come vorrebbe la Consob, è frutto di un paradigma vecchio e comunque superato...
Ma che dire dei mercati finanziari sempre meno regolamentati e controllati, dove l´homo oeconomicus è stato sostituito dall´homo ludens se il maggiore di tali mercati è quello dei credit default swaps, nei quali si scommette sull´insolvenza non solo della società quotata ma anche del debito pubblico degli Stati. Il collasso di questo mercato di scommesse incontrollate può essere peggiore delle crisi dei subprime mortgages. E vale allora la pena di ricordare ancora la frase di Keynes: "Quando l´accumulazione del capitale di un Paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò è probabile che le cose vadano male".
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Alla domanda: quali nuove sfide per il diritto, la risposta a mio parere è dunque una sola: esiste un´unica sfida. Bisogna che i giuristi incomincino a interrogarsi per rivoluzionare i principi fondamentali e le strutture che hanno finora retto il diritto societario e dei mercati finanziari. Il paragone l´ho già altrove fatto. La società per azioni è al termine della sua stagione. Come all´inizio del seicento per sviluppare il nuovo capitalismo maturò Le Compagnie delle Indie, ora senza tradire il mito, come la Fenice si sta bruciando con gli stessi rami secchi che è andata raccogliendo sui mercati finanziari. Dalle sue ceneri, per affrontare le nuove sfide, deve uscire una nuova fenice. Oggi siamo nel bel mezzo della ricerca. E questa è la sfida per un nuovo paradigma scientifico che deve stare lontano dalle false vuote formule del "capitalismo sociale di mercato" e simili, ma deve incominciare a esaminare senza pregiudizi e preconcetti la nuova realtà che sembra sfuggita di mano. Affidarsi a strumenti superati non solo è perdita di tempo, ma significa dilazionare l´applicazione di strumenti che possano arginare le crisi e che solo il diritto può promuovere.(Questo testo è un ampio stralcio dell´intervento di Guido Rossi al convegno di studi "I nuovi equilibri mondiali: imprese, banche, risparmiatori", che si tiene a Courmayeur oggi e domani)
Repubblica 26.9.08
"Pericle insegnami che cos'è la legge"
La legge e le sue ragioni
di Gustavo Zagrebelsky
«DIMMI, Pericle, mi sapresti insegnare che cosa è la legge?» chiede Alcibiade a Pericle. Pericle risponde: «Tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto, stabilendo ciò che si debba e non si debba fare, si chiama legge». E prosegue: «Tutto ciò che si costringe qualcuno a fare, senza persuasione, facendolo mettere per iscritto oppure in altro modo, è sopraffazione piuttosto che legge». Se non ci si parla, non ci si può comprendere e, a maggior ragione, non è possibile la persuasione.
Questa è un´ovvietà. Per intendere però l´importanza del contesto comunicativo, cioè della possibilità che alle deliberazioni legislative concorra un elevato numero di voci che si ascoltano le une con le altre, in un concorso che, ovviamente, non è affatto detto che si concluda con una concordanza generale, si può ricorrere a un´immagine aristotelica, l´immagine della preparazione del banchetto. In questa immagine c´è anche una risposta all´eterna questione, del perché l´opinione dei più deve prevalere su quella dei meno.
Il principio maggioritario è una semplice formula giuridica, un espediente pratico di cui non si può fare a meno per uscire dallo stallo di posizioni contrapposte (E. Ruffini)? È forse solo una «regoletta discutibile» (P. Grossi) che trascura il fatto che spesso la storia deve prendere atto, a posteriori, che la ragione stava dalla parte delle minoranze, le minoranze illuminate (e inascoltate)?
Quali principi sono alla base di una norma? Quanto vale il criterio maggioritario e quanto la necessità del dialogo? Un tema dibattuto dai tempi di Pericle e rimbalzato fino all´attualità
Una richiesta confessionale che dovrebbe valere anche per i non credenti
La formula di Ugo Grozio per la legislazione era "Come se Dio non ci fosse"
Si deve essere disposti, nel confronto con gli altri, a difendere i propri principi
Oppure, si tratta forse non di una regoletta ma di un principio che racchiude un valore? Non diremo certo che la maggioranza ha sempre ragione (vox populi, vox dei: massima della democrazia totalitaria), ma forse, a favore dell´opinione dei più, c´è un motivo pragmatico che la fa preferire all´opinione dei meno. A condizione, però, che «i più» siano capaci di dialogo e si aggreghino in un contesto comunicativo, e non siano un´armata che non sente ragioni.
In un passo della Politica di Aristotele (1281b 1-35), che sembra precorrere la sofisticata «democrazia deliberativa» di Jürgen Habermas e che meriterebbe un esame analitico come quello di Senofonte al quale ci siamo dedicati, leggiamo: «Che i più debbano essere sovrani nello Stato, a preferenza dei migliori, che pur sono pochi, sembra che si possa sostenere: implica sì delle difficoltà, ma forse anche la verità. Può darsi, in effetti, che i molti, pur se singolarmente non eccellenti, qualora si raccolgano insieme, siano superiori a ciascuno di loro, in quanto presi non singolarmente, ma nella loro totalità, come lo sono i pranzi comuni rispetto a quelli allestiti a spese di uno solo. In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e quando si raccolgono e uniscono insieme, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e d´intelligenza».
Dunque, inferiori presi uno per uno, diventano superiori agli uomini migliori, quando è consentito loro di contribuire all´opera comune, dando il meglio che c´è in loro. Più numeroso il contributo, migliore il risultato.
Naturalmente, quest´immagine del pranzo allestito da un «uomo in grande» non supera questa obiezione: che nulla esclude che ciò che si mette in comune sia non il meglio, ma il peggio, cioè, nell´immagine del pranzo, che le pietanze propinate siano indigeste. Ma questa è un´obiezione, per così dire, esterna. Dal punto di vista interno, il punto di vista dei partecipanti, è chiaro che nessuno di loro ammetterebbe mai che il proprio contributo all´opera comune è rivolta al peggio, non al meglio.
Ognuno ritiene di poter contribuire positivamente alle decisioni collettive; l´esclusione è percepita come arbitrio e sopraffazione proprio nei riguardi della propria parte migliore.
Ora, accade, e sembra normale, che il partito o la coalizione che dispone della maggioranza dei voti, sufficiente per deliberare, consideri superfluo il contributo della minoranza: se c´è, bene; se non c´è, bene lo stesso, anzi, qualche volta, meglio, perché si risparmia tempo. Le procedure parlamentari, la logica delle coalizioni, la divisione delle forze in maggioranza e opposizione, il diritto della maggioranza di trasformare il proprio programma in leggi e il dovere delle minoranze, in quanto minoranze, di non agire solo per impedire o boicottare, rendono comprensibile, sotto un certo punto di vista, che si dica: abbiamo i voti e quindi tiriamo innanzi senza curarci di loro, la minoranza. Ma è un errore. Davvero la regola della maggioranza si riduce così «a una regoletta». Una regoletta, aggiungiamo, pericolosa. Noi conosciamo, forse anche per esperienza diretta, il senso di frustrazione e di umiliazione che deriva dalla percezione della propria inutilità. Si parla, e nessuno ascolta. Si propone, e nessuno recepisce. Quando la frustrazione si consolida presso coloro che prendono sul serio la loro funzione di legislatori, si determinano reazioni di auto-esclusione e desideri di rivincita con uguale e contrario atteggiamento di chiusura, non appena se ne presenterà l´occasione. Ogni confronto si trasformerà in affronto e così lo spazio deliberativo comune sarà lacerato. La legge apparirà essere, a chi non ha partecipato, una prevaricazione.
La «ragione pubblica» - concetto oggi particolarmente studiato in relazione ai problemi della convivenza in società segnate dalla compresenza di plurime visioni del mondo - è una sfera ideale alla quale accedono le singole ragioni particolari, le quali si confrontano tramite argomenti generalmente considerati ragionevoli e quindi suscettibili di confronti, verifiche e confutazione; argomenti che, in breve, si prestino a essere discussi. Le decisioni fondate nella ragione pubblica sono quelle sostenute con argomenti non necessariamente da tutti condivisi, ma almeno da tutti accettabili come ragionevoli, in quanto appartenenti a un comune quadro di senso e di valore. Contraddicono invece la ragione pubblica e distruggono il contesto comunicativo le ragioni appartenenti a «visioni del mondo chiuse» (nella terminologia di John Rawls, che particolarmente ha elaborato queste nozioni, le «dottrine comprensive»). Solo nella sfera della «ragione pubblica» possono attivarsi procedure deliberative e si può lavorare in vista di accordi sulla gestione delle questioni politiche che possano apparire ragionevoli ai cittadini, in quanto cittadini, non in quanto appartenenti a particolari comunità di fede religiosa o di fede politica.
Un sistema di governo in cui le decisioni legislative siano la traduzione immediata e diretta - cioè senza il filtro e senza l´esame della ragione pubblica - di precetti e norme derivanti da una fede (fede in una verità religiosa o mondana, comunque in una verità), sarebbe inevitabilmente violenza nei confronti del non credente («l´infedele»), indipendentemente dall´ampiezza del consenso di cui potessero godere. Anzi, si potrebbe perfino stabilire la proporzione inversa: tanto più largo il consenso, tanto più grande la violenza che la verità è capace di contenere.
Sotto questo aspetto, dire legge non violenta equivale a dire legge laica; al contrario, dire legge confessionale equivale a dire legge violenta. La verità non è di per sé incompatibile con la democrazia, ma è funzionale a quella democrazia totalitaria cui già sì è fatto cenno.
L´esigenza di potersi appellare alla ragione pubblica nella legislazione, un quanto si voglia sconfiggere la violenza che sempre sta in agguato nel fatto stesso di porre la legge, spiega la fortuna attuale dell´etsi Deus non daretur, la formula con la quale, quattro secoli fa, Ugo Grozio invitava i legislatori a liberarsi dall´ipoteca confessionale e a fondare il diritto su ragioni razionali; invitava cioè a lasciar da parte, nella legislazione civile, le verità assolute. Mettere da parte Dio e i suoi argomenti era necessario per far posto alle ragioni degli uomini; noi diremmo: per costruire una sfera pubblica in cui vi fosse posto per tutti. Naturalmente, da parte confessionale un simile invito ad agire indipendentemente dall´esistenza di Dio non poteva non essere respinto. Per ogni credente, Dio non si presta a essere messo tra parentesi, come se non ci fosse. Ma l´esigenza che ha mosso alla ri-proposizione di quell´antica espressione (G. E. Rusconi) non è affatto peregrina. È l´esigenza della «ragione pubblica». A questa stessa esigenza corrisponde l´invito opposto, di parte confessionale, rivolto ai non credenti affinché siano loro ad agire veluti si Deus daretur (J. Ratzinger). Altrettanto naturalmente, anche questo invito è stato respinto.
Per un non credente in Dio, affidarsi a Dio (cioè all´autorità che ne pretende la rappresentanza in terra) significa contraddire se stessi. Ma questa proposta-al-contrario coincide con la prima, nel sottolineare l´imprescindibilità di un contesto comune, con Dio per nessuno o con Dio per tutti, nel quale la legge possa essere accettata generalmente in base alla persuasione comune.
Entrambe le formule non hanno dunque aiutato a fare passi avanti. Sono apparse anzi delle provocazioni, ciascuna per la sua parte, alla libertà, autenticità e responsabilità della coscienza. In effetti, non si tratta affatto di esigere rinunce e conversioni di quella natura, né, ancor meno, di chiedere di agire come se, contraddicendo se stessi. Non è questa la via che conduce a espungere la violenza dalla legislazione.
Un punto deve essere tenuto fermo: la legge deve essere aperta a tutti gli apporti, compresi quelli basati su determinate assunzioni di verità. La verità può trovare posto nella democrazia e può esprimersi in «legislazione che persuade», perché la democrazia non è nichilista. Ma solo a patto però - questo è il punto decisivo - che si sia disposti, al momento opportuno, quando cioè ci si confronta con gli altri, a difendere i principi e le politiche che la nostra concezione della verità a nostro dire sostiene, portando ragioni appropriatamente pubbliche (J. Rawls).
Così, i sistemi religiosi, filosofici, ideologici e morali non sono esclusi dalla legislazione, ma vi possono entrare solo se hanno dalla propria parte anche buone ragioni «comuni», su cui si possa dissentire o acconsentire, per pervenire a decisioni accettate, pur a partire da visioni del mondo diverse, come tali non conciliabili. La legislazione civile, in quanto si intenda spogliarla, per quanto è possibile, del suo contenuto di prevaricazione, non può intendersi che come strumento di convivenza, non di salvezza delle anime e nemmeno di rigenerazione del mondo secondo un´idea etica chiusa in sé medesima.
Il divieto dell´eutanasia può essere argomentato con una ragione di fede religiosa: l´essere la vita proprietà divina («Dio dà e Dio toglie»); l´indissolubilità del matrimonio può essere sostenuta per ragioni sacramentali («non separare quel che Dio ha unito»). Argomenti di tal genere non appartengono alla «ragione pubblica», non possono essere ragionevolmente discussi. Su di essi ci si può solo contare. La «conta», in questi casi, varrà come potenziale sopraffazione. Ma si può anche argomentare diversamente. Nel primo caso, ponendo il problema di come garantire la genuinità della manifestazione di volontà circa la fine della propria esistenza; di come accertare ch´essa permanga tale fino all´ultimo e non sia revocata in extremis; di come evitare che la vita, nel momento della sua massima debolezza, cada nelle mani di terzi, eventualmente mossi da intenti egoistici; di come evitare che si apra uno scivolamento verso politiche pubbliche di soppressione di esseri umani, come dicevano i nazisti, la cui vita è «priva di valore vitale». Alla fine, se ne potrà anche concludere che, tutto considerato, difficoltà insormontabili e rischi inevitabili o molto probabili consigliano di far prevalere il divieto sul pur molto ragionevole argomento dell´esistenza di condizioni di esistenza divenute umanamente insostenibili. Oppure, viceversa. Nel secondo caso, si potrà argomentare sull´importanza della stabilità familiare, nella vita e nella riproduzione della vita delle persone e delle società; a ciò si potrà contrapporre il valore della genuinità delle relazioni interpersonali e la devastazione ch´esse possono subire in conseguenza di vincoli imposti. Su questo genere di argomenti si può discutere, le carte possono mescolarsi rispetto alle fedi e alle ideologie, le soluzioni di oggi potranno essere riviste domani. Chi, per il momento, è stato minoranza non si sentirà per questo oggetto di prevaricazione.
Qualora poi le posizioni di fede non trovino argomenti, o argomenti convincenti di ragione pubblica per farsi valere in generale come legge, esse devono disporsi alla rinuncia. Potranno tuttavia richiedere ragionevolmente di essere riconosciute per sé, come sfere di autonomia a favore della libertà di coscienza dei propri aderenti, sempre che ciò non contraddica esigenze collettive irrinunciabili (questione a sua volta da affrontare nell´ambito della ragione pubblica). Tra le leggi che impongono e quelle che vietano vi sono quelle che permettono (in certi casi, a certe condizioni). Le leggi permissive, cioè le leggi di libertà (nessuno oggi pensa - in altri momenti si è pensato anche questo - che l´eutanasia o il divorzio possano essere imposti) sono quelle alle quali ci si rivolge per superare lo stallo, il «punto morto» delle visioni del mondo incompatibili che si confrontano, senza che sia possibile una «uscita» nella ragione pubblica. Anzi, una «ragione pubblica» che incorpori, tra i suoi principi, il rigetto della legge come violenza porta necessariamente a dire così: nell´assenza di argomenti idonei a «persuadere», la libertà deve prevalere. Questa è la massima della legge di Pericle.
Repubblica 26.9.08
Giovani. Un paese senza
Perché in Italia i ragazzi non crescono mai
di Simonetta Fiori
I quindicenni nel 1980 erano un milione, nel 2009 saranno appena la metà
Un saggio di Massimo Livi Bacci affronta un problema demografico con fortissime incidenze sociali
Tra le persone incluse nello Who´s who solo il 2 per cento ha meno di 35 anni
La catastrofe è nascosta dietro una parola inglese, disempowerment. I demografi la chiamano "sindrome del ritardo", ossia la lentezza biblica con cui i giovani oggi conquistano autonomia e responsabilità. Un ingranaggio mortifero che dilata i tempi di attesa in un gioco al rimbalzo: il ritardo negli studi si riflette sul lavoro provocando costanti rinvii nelle scelte esistenziali come casa, matrimonio, figli. Una letargia tutta italiana che finisce per spogliare i giovani delle loro prerogative, relegandoli in ruoli marginali nella politica e nell´economia, in famiglia e nella cultura. In una recente rassegna di Who´s who - l´elenco delle persone che a ragione o torto sono considerate influenti nelle professioni o nell´élite pubblica - poco più del 2 per cento ha meno di trentacinque anni. Ed è diminuita tra il 1990 e il 2004 la percentuale di quelli compresi tra i 35 e i 50 anni.
Pochi, lenti e impotenti. Questo è il desolante quadro disegnato da Massimo Livi Bacci nel nuovo saggio sui giovani (la popolazione tra i 15 e i 30 anni), una meticolosa mappatura che incrocia statistiche e censimenti nell´arco dell´ultimo ventennio (Avanti giovani, alla riscossa, pagg. 118, euro 10). Scaraventati nei piani bassi delle classifiche europee, assistiamo al fenomeno con granitica indifferenza, come "narcotizzati", suggerisce Livi Bacci, professore di Demografia all´Università di Firenze e senatore del Partito Democratico. Anche il linguaggio restituisce questo diffuso intontimento, ancora "ragazzi" a trent´anni, "scrittori in erba" a quaranta, "giovani promesse" a cinquanta se si fa parte del Pantheon accademico. «La società s´è addormentata», sintetizza Livi Bacci, «ma temo che l´anestetico sia stato somministrato in dosi troppo massicce».
Specie ormai rara, decimata da una crisi di natalità che non ha eguali in Europa, i nuovi giovani contano tra le proprie file un numero sempre più esiguo di persone. Basti un dato: nel 1980 ha compiuto quindici anni quasi un milione di ragazzi e ragazze; nel 2009 i quindicenni saranno appena 560.000. In teoria il declino numerico dovrebbe implicare una maggiore disponibilità da parte dei genitori, dunque un più rapido ingresso nella società. Solo in teoria. Perché nella pratica, spiega Livi Bacci, è vero che i ventenni del 2008 hanno una dote assai più ricca rispetto ai loro coetanei del primo dopoguerra, «sono più alti, più sani, più istruiti, forse anche più belli, stando ai canoni estetici». Ma contano assai di meno dei loro scalcagnati nonni e bisnonni. «L´investimento dei genitori sui figli è oggi molto alto, ma tende più a conservare o ad aumentare il tenore di vita (consumi) che non la formazione del capitale umano (investimento). Questo processo ha concorso insieme ad altri fattori a indebolire la condizione giovanile». Con gravi conseguenze.
Prendiamo ad esempio la creatività. Uno studioso americano, Benjamin Jones, ha analizzato "l´età della scoperta" nelle biografie dei grandi innovatori e dei premi Nobel per la scienza tra il 1901 e il 2003. L´apice della vena inventiva viene raggiunto intorno ai trentacinque anni, mentre la curva raggiunge valori molto bassi dai cinquantacinque anni in poi. Nell´arco del secolo, poi, l´età media della scoperta aumenta di sei anni, a causa dell´inizio più tardivo dell´attività scientifica. Ne consegue che se la formazione ha tempi troppo lunghi - e ancor più estenuante è l´attesa del lavoro - ne soffre il potenziale innovativo della società. Si perde "l´attimo", e non si recupera.
Il ritardo italiano è ben evidenziato dai dati statistici, sia in relazione alla nostra stessa storia, sia nel confronto con i nostri contemporanei in Europa. Quel che Livi Bacci segnala nitidamente è un´inversione di tendenza rispetto alla rivoluzione novecentesca: se il secolo scorso è stato contrassegnato dalla progressiva "liberazione" della componente giovane da gravi patologie e da diverse costrizioni sociali, oggi la spinta positiva appare esaurita. Non pochi i segnali di questa involuzione tra gli adolescenti, come l´aumento dell´obesità e la diffusione di sindromi depressive, entrambe condizioni tipiche delle società prospere.
A questo s´aggiunge l´irrilevanza sociale subita oggi dalle generazioni più giovani. Il censimento del 1911 ci dice che oltre un terzo della popolazione economicamente attiva aveva meno di 30 anni; oggi questa percentuale è pari a un ottavo. Se osserviamo poi la precocità nello scalare le gerarchie sociali e professionali, vediamo che allora avevano meno di trent´anni il 10 per cento dei medici, il 19 per cento degli ingegneri e degli architetti, il 21 per cento degli avvocati, il 22 per cento del clero. Il censimento del 1999 fornisce per categorie professionali analoghe percentuali molto più basse: il 2,9 per cento per i medici, il 9,1 per cento per ingegneri e architetti, il 7,4 per cento per gli avvocati, il 4,2 per cento dei sacerdoti. «Nel giro d´un secolo», sintetizza lo studioso, «i giovani si sono liberati dal fardello dell´arretratezza, ma hanno anche perso il loro prestigio pubblico». Dal notariato alla magistratura, dalla pubblica amministrazione alla ricerca e alla Università, non c´è settore che non registri un preoccupante avanzamento nell´anagrafe.
Può colpire, nella radiografia di Livi Bacci, la rassegnazione con cui i ragazzi italiani subiscono questo spaventoso "scippo" sociale. Più che un vulcano prossimo all´eruzione, le indagini Iard o le inchieste della Commissione europea li rappresentano come un lago tranquillo, qui e là moderatamente increspato, ma complessivamente quieto. A differenza dei loro coetanei europei, non avvertono il bisogno urgente di affiancare allo studio un lavoro remunerativo, di affrancarsi dal tepore domestico anche a rischio di scomodità, di mettere su famiglia anche in condizioni più avventurose (le statistiche qui sono impietose). Ma Bamboccioni si nasce o si diventa? «Si diventa», risponde deciso Livi Bacci. «Se il sistema formativo imponesse un ritmo; se il mercato del lavoro fosse più aperto; se le aree protette fossero smantellate; se le famiglie non fossero indotte a sostituirsi allo stato sociale che con loro è assai avaro; se ci fosse un Erasmus universale che imponesse a tutti i giovani di fare un´esperienza all´estero? allora si ridurrebbe l´anestetico del sistema e di conseguenza la quota di bamboccioni - invero assai elevata - del nostro paese».
Non ne escono bene neppure le generazioni adulte, intrappolate entro schemi tradizionali, sostanzialmente scorrette nell´educazione (i maschi esonerati dai lavori domestici), soprattutto poco propense a un´apertura europea. Anche qui le cifre Iard, calcolate sulla base di diversi indicatori - contatti con l´estero attraverso amici o famigliari, viaggi, letture o tv in lingua straniera, rapporti di lavoro - , sono sconfortanti. «Paese di storica immigrazione cosmopolita e capitale della cristianità, l´Italia si colloca all´ultimo posto delle classifiche europee per il grado di apertura internazionale», riferisce il demografo. Può sembrare incredibile, eppure è così: ultima di quindici, dopo Portogallo, Grecia e Spagna, ai primi posti l´Europa del Nord. Ma non dovevano essere le generazioni dei padri, rigenerate dal Sessantotto, quelle più libertarie e cosmopolite? «Sono poco incline ad attribuire responsabilità collettive», risponde Livi Bacci, «ma un misto di familismo mediterraneo e perdonismo hanno permeato la società italiana negli ultimi decenni. Il Grande cambiamento del ventennio del dopoguerra - che imponeva rischio e fatica - è stato metabolizzato, capitalizzato e dimenticato. In seguito non è stato percepito che le conquiste politiche e civili vanno sostenute con i fatti e con le azioni».
Intanto la salvezza - rispetto all´estinzione giovanile provocata dal calo demografico - arriva proprio dai flussi migratori. È stato calcolato che, dopo il 2015, un adolescente su dieci sarà uno "straniero" di seconda generazione (cioè figlio di immigrati) nato in Italia, una percentuale che potrebbe salire nei dieci anni successivi fino a uno su sei. A questi vanno aggiunti i figli di stranieri nati fuori d´Italia, che entreranno nel paese al seguito dei genitori. Nel 2023 si calcola che l´incidenza degli stranieri sotto i quarant´anni si aggirerebbe attorno al quindici per cento della popolazione totale di pari età. Questo accade in un paese che si scopre (o si riconferma) razzista. Siamo attrezzati per questo cambiamento?
Il titolo del saggio - Avanti giovani, alla riscossa - riecheggia un celebre inno socialista. Ma i giovani non rappresentano un partito, tantomeno un gruppo sociale coeso. Quante generazioni ci vorranno perché l´Italia esca dalla palude in cui s´è cacciata nell´ultimo ventennio? «Le società cambiano più velocemente di quanto si pensi», replica Livi Bacci. «Le prerogative si perdono e si riacquistano con eguale facilità. Basta fare le cose giuste». Tanto per cominciare, svegliarsi.
Adnkronos 26.9.08
Giornalisti: al via domani il "Press Festival" di Roccasecca
Roma, 26 set. - (Adnkronos) - Prende il via domani a Roccasecca, in provincia di Frosinone, la due giorni del press festival organizzato da '6 medià sotto il titolo «Ultime, le notiziè. L'inaugurazione è in programma alle 10 nella sala San Tommaso del Comune: il percorso del festival prevede subito dopo, alle 11, l'inizio del corso »Alfabetizzazione al giornalismo«. Sempre domani è in programma un confronto sui new media, »dal ciclostile alla web tv« mentre nella Piazza Mercato si svolgerà 'Liberi schizzi d'artistà una performance artistica che vedrà impegnati vari writers. Tra gli altri appuntamenti di rilievo da segnalare quello dedicato all'impegno civile della professione con il confronto su 'Giornali locali e lotta alla mafia» con Santo Della Volpe. (Sec/Pn/Adnkronos) 26-SET-08 16:15 NNN
Agi 26.9.08
Editoria: Colmbo, ok Roccasecca, l'autocensura è peggio della censura
(AGI) - Roma, 26 set. - L'autocensura e' peggio, piu' devastante della censura: ognuno la esercita su stesso e difficilmente in futuro uno di noi epurera' se stesso tanto che pressati a cedere lo facciamo e finiamo per farlo spontaneamente. A parlare e' l'ex-direttore de 'l'Unita'' e senatore del Pd, Furio Colombo che esprime il suo 'sentito apprezzamento' per il primo 'Press Festival' di Roccasecca, in programma da domani a domenica ed organizzato dall'associazione '6i to be media', che scalda 'il cuore' anche di Ermete Realacci del Pd: "un piccolo comune patria della kermesse della libera informazione - dice - e' davvero una bella cosa". Si prevede la partecipazione, con un tam tam mediante siti, blog e cellulari, di un migliaio di persone, tra giornalisti autoconvocati artisti e attori creativi, a Roccasecca. Autore di 'Silenzio Stampa', Colombo mette l'autocensura al primo posto dello stato comatoso dell'informazione. "E' tanto diffusa ed accettata che non si da' torto a nessuno - chiosa - anzi no, al rompiscatole che non si autocensura". E Realacci aggiunge, "la liberta' di espressione di ogni forma di stampa e' vitale per la democrazia e in una fase come questa, in cui il Governo annuncia cospicui tagli al settore che mettono a serio rischio l'uscita in edicola anche di testate storiche e importanti, ben vengano tutte le attivita' che hanno lo scopo di richiamare l'attenzione su questi temi: faccio i miei migliori agli organizzatori per la buona riuscita della festa della libera stampa, in un momento davvero critico per la loro sopravvivenza". L'idea dei partecipanti al 'Press Festival' e' come diventare per una settimana tutti writer per colorare ogni luogo si usi per trasformare gli italiani in un popolo di zombi sottomessi, fatui e spenti. "Sono d'accordo c'e' bisogno di una sferzata", conclude Colombo richiamando l'autorevolezza e la liberta' con cui i grandi quotidiani americani criticano oggi il Presidente e il Vice-Presidente degli Usa. (AGI) Pat