sabato 1 maggio 2010

Repubblica Bologna 30.4.10
Il libro
Flamigni-Melega una guida laica alla pillola del giorno dopo
di Brunella Torresin

IL sottotitolo è molto significativo: «Una guida per tutti». Per le donne, questo è ovvio, ma anche per gli uomini. Per credenti e non credenti, per mentalità laiche e per caratteri fideistici. A poche settimane dall´uscita di «RU486. Non tutte le streghe sono state bruciate», Carlo Flamigni e Corrado Melega, ginecologi entrambi, una vita trascorsa assieme in corsia - Flamigni: «Melega è più di un allievo, è un figlio» - tornano in libreria con un nuovo titolo, «La pillola del giorno dopo», edito anch´esso da L´Asino d´Oro. «Libro strettamente legato al primo, libro per tutti - sottolineano - e utile».
Quattro anni fa una ricerca condotta dagli studenti della Scuola di Giornalismo tra i loro coetanei e coetanee dell´Alma Mater, con questionari anonimi, rivelò che una ragazza su quattro aveva fatto ricorso alla pillola del giorno dopo. Apriti cielo. Bene, secondo Flamigni e Melega, occorre «sottrarre questi temi alle discussioni miserabili e restituirli nelle mani delle persone». «La pillola del giorno dopo» è una guida scritta per fare chiarezza, smentire «bugie e pervicaci ignoranze», sgombrare il campo dall´equivoco più grande, secondo il quale la pillola del giorno dopo sarebbe un farmaco abortivo. Non lo è: è un contraccettivo d´emergenza, la cui efficacia è circoscritta alle 72 ore successive al rapporto sessuale.
La «pillola del giorno dopo» non ha nulla a che fare con la RU486. È un progestinico che agisce alterando la qualità dell´ovulazione, senza interferire sull´impianto dell´ovulo fecondato, che avviene 5 giorni dopo la fecondazione. E «poiché la gravidanza inizia con l´annidamento dell´ovulo fecondato nella mucosa uterina - spiega Carlo Flamigni - non possiamo affermare che il farmaco sia abortivo». Chi lo afferma, «o porta a sostegno delle prove, che io non conosco, oppure è un bugiardo», chiarisce il padre della fecondazione assistita. In Francia è distribuita nelle scuole superiori alle ragazze, anche minorenni, che la richiedano. In altri paesi d´Europa si acquista in farmacia senza ricetta; negli Usa si dà senza ricetta alle maggiorenni. In Italia è divenuta materia di obiezione di coscienza, strumento della «misoginia di Stato e di Chiesa», commenta Flamigni. Una donna può acquistarla in farmacia solo con ricetta nominale non ripetibile. Oppure deve richiederla al consultorio e al pronto soccorso. Nel bel libro di Anais Ginori, «Pensare l´impossibile», un collettivo universitario, le Malefiche, racconta come la notte di San Valentino del 2009, in quindici si siano recate nei pronto soccorso di Roma con la stessa richiesta: «Ho avuto un rapporto a rischio. Vorrei la pillola del giorno dopo». Risultato: tre ospedali non l´hanno prescritta, altri sei hanno chiesto un ticket di 25 euro, in altri quattro la pillola è stata data solo dietro forti insistenze. Il giorno dopo le Malefiche hanno denunciato «l´omissione di soccorso e l´interruzione di pubblico servizio».


l’Unità 1.5.10
«Il Pd difende gli operai» E Bersani «buca» Annozero
«Ma lo sapete cos’è il Pvc? E cosa facciamo a Portotorres, Assemini, Marghera?» Il segretario zittisce le critiche in studio. Grande consenso su Facebook e in rete
di Simone Collini

Perché tanto stupore?». Pier Luigi Bersani rimette su la faccia bonaria, il giorno dopo la puntata di “Annozero” in cui all’ennesima caricatura del Pd non c’ha visto più e è sbottato di fronte a Marco Travaglio: «Noi avremo dei limiti e dei difetti, ma stiamo parlando di un partito di centrosinistra con la schiena dritta che merita rispetto». Una replica a muso duro, dopo aver ascoltato l’inviata di Michele Santoro dire agli operai di Porto Torres «Bersani magari ti potrebbe dire che se non c’è lavoro nel chimico magari dovresti provare in un altro settore», dopo aver ascoltato l’aspirante direttore del “manifesto” Norma Rangeri e poi le battute di Travaglio sui dirigenti democrat che quando dichiarano «non bucano». «Adesso mi fate una cortesia alza la voce Bersani fate il giro di tutti i partiti di sinistra italiani e gli fate la seguente domanda: cos’è il pvc?, dove sono gli stabilimenti di cui si parla lì?, cosa è successo a Porto Torres?, cosa sta succedendo ad Assemini?, a Margera?, chi li ha incontrati, chi li ha difesi quelli lì in giro per l’Italia? Il Pd. Va bene? Quando ero ministro ho fatto un piano per la chimica. Chi in parlamento ha sollevato queste cose qui?, e quanti di voi sanno negli ultimi due giorni di che cosa si è discusso in Parlamento? Ammortizzatori, redditi, quelle cose lì ce li abbiam portati noi usando quel pochissimo spazio che abbiamo per l’opposizione. Abbiam combattuto, qualcosina l’abbiam portata a casa, il governo vergognosamente ha respinto altre cose. Quanti di voi sanno cosa significa veramente la norma con cui abbiamo messo sotto il governo? Lo sapete precisamente?» Le telecamere inquadrano Travaglio a bocca aperta. «No. Se ne fregano tutti. Compresi quelli che dicono che si interessano».
La mattina dopo Bersani rimette su la faccia bonaria, sorride ricordando ai tanti incontri con categorie varie in cui ha risposto a muso ancora più duro, risponde agli sms di complimenti di compagni di partito e alle telefonate degli operai dell’isola dell’Asinara che venerdì andrà ad incontrare, ascolta i collaboratori che gli raccontano le migliaia di volte che sono stati rivisti su youtube quei dieci minuti di trasmissione e i commenti favorevoli su questo sito e su facebook e poi incassa anche l’approvazione della minoranza del partito, con il veltroniano Achille Passoni che dice di aver apprezzato sia il merito «non dobbiamo stancarci di ribadire che siamo al fianco dei lavoratori» sia il tono: «S’è incazzato? Ogni tanto ci vuole».
E pure se torna a mettere su il sorriso, il Bersani «incazzato» potrebbe non durare il tempo di una puntata di “Annozero”. Intervistato ieri su Youdem, ha parlato ancora di lavoro: «Il primo maggio, non è una data incartapecorita, con le ragnatele, anzi mostrerà quest’anno la sua vivacità perché il lavoro è di gran lunga il problema numero uno degli italiani, una vera emergenza». Ma ha mandato un messaggio anche sulle riforme e «le chiacchiere di Berlusconi» piuttosto esplicito, indirizzandolo fuori e dentro il centrosinistra: «Mi sono scocciato, ognuno ha il suo carattere, ma io non accetto balletti di questo genere nemmeno dal lato nostro: quello lì che si alza la mattina e dice il partito, il partitino, l’inciucio, quelle cose lì, ma i problemi sono il lavoro, la crisi, la vita degli italiani. Non è picconando il centrosinistra che si risolvono i problemi, ed è una vergogna l’attitudine autodistruttiva, noi dobbiamo concentrarci sui problemi veri».

il Fatto 1.5.10
Elogio di Bersani
di Marco Travaglio

Giovedì, ad Annozero, sono accadute cose che sarebbero normali in un Paese normale, ma in Italia rasentano lo stupefacente. Pier Luigi Bersani – diversamente dal suo mèntore baffuto e dal cavalier Berlusconi – ha accettato di misurarsi senza rete di protezione con cinque giornalisti di vari orientamenti che gli rivolgevano domande e gli muovevano contestazioni anche aspre. Ha fatto buon viso, ha sorriso, s’è infervorato, s’è incazzato, ha risposto per le rime, a tratti è parso addirittura a un passo dal commuoversi. Insomma, a contatto con alcuni esseri viventi, ha ripreso vita proprio quando lo stavamo perdendo. Lo stato pre-comatoso di partenza non è colpa sua: provate voi a frequentare tutti i santi giorni luoghi sepolcrali come quelli del Pd, antri spettrali popolati di salme e anime morte, ossari e fossili, in cui si aggirano raminghi i D’Alema, i Veltroni, i Fioroni, i Fassino, i Marini, i Follini, i Violante, i Letta (junior), facendosi largo fra residui del cilicio della Binetti e della cicoria di Rutelli e altri giurassici relitti del passato che non passa. Scene e ambienti che intristirebbero un battaglione di clown del Circo di Mosca. Ma poi le prime domande hanno sortito l’effetto del defibrillatore: il paziente s’è prontamente rianimato come nella serie E.R. e, dopo un istante di comprensibile disorientamento (“Dove sono?”), ha pronunciato alcune frasi tratte da un passato ormai lontano ma ancora impresse nei meandri del subconscio: “Opposizione”, “Costituzione”, addirittura “conflitto d’interessi”. Paolo Mieli ne ha concluso che in quel momento è nato un leader. Può darsi, lo sperano in molti. Intanto i suoi elettori non possono che aver apprezzato alcune frasi finalmente complete (prima le lasciava quasi tutte a metà), dunque chiare, comprensibili, non politichesi. Soprattutto una: “La nostra Costituzione è la più bella del mondo: al massimo va un po’ aggiornata, ma guai a chi la tocca. Per difenderla siamo pronti a chiamare a raccolta tutti quelli che ci stanno, a partire da Fini”. Una svolta non da poco, visto che fino al giorno prima il responsabile Pd per le riforme, Luciano Violante, dichiarava restando serio: “Ho il dovere di credere al presidente del Consiglio e di dialogare sulle riforme”. Frase che ha indotto Ficarra e Picone, a Striscia la notizia, a domandare se per caso non sia cambiato il presidente del Consiglio, visto che il Pd gli crede. E a ipotizzare che, in vista dell’incontro per le riforme, Berlusconi abbia invitato Violante a presentarsi a Palazzo Grazioli col trucco leggero e il tubino nero d’ordinanza. Se le parole di Bersani hanno un senso – e si spera che l’abbiano, è il segretario del Pd – la “bozza Violante” per rafforzare (ancora?) i poteri del premier, porre fine al bicameralismo e saltare nel buio del federalismo va in soffitta, visto che prevede ben di più e di peggio che “qualche aggiornamento” alla “Costituzione più bella del mondo”. Così come le tragicomiche avances per l’ennesima riforma anti-magistratura affidate dal responsabile Giustizia Andrea Orlando al Foglio di Ferrara (forse sperando che non le leggesse nessuno). Vedremo se, alle parole di Bersani, seguiranno i fatti (intanto ci accontentiamo delle parole: prima non c’erano neppure quelle): è cioè la fine del “dialogo” e dei “tavoli” per le “riforme” e l’inizio di un’opposizione dura, proporzionata alla gravità della minaccia. Chissà che, trovando una sponda energica nel Pd, il capo dello Stato non racimoli un po’ di coraggio per rispedire al mittente le leggi vergogna della banda del buco prossime venture. A proposito: ci scusiamo con i lettori per la precipitosità con cui ieri abbiamo elogiato Napolitano per la mancata firma al decreto Bondi sugli enti lirici. Dopo appena 24 ore di temeraria astinenza, la penna più veloce del West ha firmato anche quello. Ma non è colpa sua. E’ come il Dottor Stranamore: quando gli parte la mano, non c’è nulla da fare. E’ più forte di lui.

il Fatto 1.5.10
“Basta genuflessioni
La sinistra offra un sogno”
Parla il direttore della Normale Settis, rosarnese
di Giampiero Calapà

Quando Rosarno è salita agli onori delle cronache per la tragica rivolta del gennaio scorso, il rosarnese Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale di Pisa dal 1999 (lascerà il prossimo ottobre), ha provato “dolore, perché un luogo relegato alla marginalità otteneva gli onori delle cronache per un episodio così terribile”; e “stupore, perché Rosarno è stato sempre un paese di emigranti: ad esempio, nella famiglia di mio padre sette fratelli su sette sono emigrati e mio nonno, Salvatore come me, è stato sia in Argentina sia a New York”. Ma non solo, perché “Rosarno all’inizio del ‘900, dopo le bonifiche e grazie alle coltivazioni di agrumeti che rendevano molto, ha anche accolto altri calabresi provenienti da zone ancor più povere, come l’Aspromonte, e nel giro di pochi anni la popolazione crebbe da poche migliaia a 20 mila abitanti: tanti rosarnesi di oggi discendono da quell’esperienza di immigrazione interna, da quel tempo in cui Rosarno era chiamata “Americhedda”, piccola America, quindi i fatti di gennaio sono stati un paradosso nel paradosso”.
Facciamo un passo indietro. Sempre a Rosarno, 1980, altro tragico evento, l’assassinio di Peppino Valarioti, intellettuale e dirigente del Pci locale, per mano della ‘ndrangheta in una storia mai chiarita fino in fondo (ancora oggi non c’è nessun responsabile). Che ricordi ha di quei giorni?
Ho avuto modo di conoscere Valarioti personalmente, quando dopo molti anni ritornai a Rosarno da archeologo per fare degli scavi negli anni ‘70. Mi legava a lui una grandissima simpatia. Valarioti faceva parte di una specie molto rara nel Sud: intellettuale, giovane, radicale nelle sue posizioni e soprattutto deciso a rimanere a Rosarno, di restare nella sua terra. Non voglio criticare con questo chi va via, perché dovrei criticare anche me stesso, ma lui rappresentava qualcosa di importante: una speranza. E quando fu ucciso venne meno proprio questo, la speranza. Non era un magistrato che aveva mandato qualche capomafia all’ergastolo, era semplicemente una persona che aveva deciso di non scendere a compromessi ed è morto per questo.
Dagli anni ’80 a oggi la civiltà culturale della Calabria, del Sud, ha fatto ulteriori passi indietro?
Ho l’impressione che la situazione non sia molto cambiata. Alcune reazioni individuali ci sono, ma manca la capacità di organizzare un movimento, anche per colpa dei partiti che non sono stati in grado di rappresentare la voglia di rinnovamento e offrire un’immagine diversa. Anzi, hanno proprio fallito i partiti. Pur con qualche tentativo generoso: penso all’assessore Domenico Cersosimo, dell’ultima giunta Loiero, per i suoi investimenti considerevoli nella scuola con l’introduzione di meccanismi per aiutare soprattutto le fasce più svantaggiate, i più poveri. Eppure l’unica certezza per la Calabria pare essere l’arretratezza a cui la condanna soprattutto una criminalità antichissima nella liturgia, ma modernissima nella capacità di esser protagonista dell’economia. Pensando sempre a Rosarno, l’immagine dei cartelli stradali bucherellati dai proiettili indica proprio questo, il degrado di un posto che ha pur dato i natali a un discepolo di Platone, Filippo di Medma. Invece è un luogo sotto la cappa di una ‘ndrangheta che ai miei tempi faceva piccole estorsioni, piccole rapine, “controllava” i campi. Poi l’evoluzione: mantenendo sempre gli stretti legami familiari e sociali,
ma alzando la mira sul traffico internazionale di droga e di armi, raggiungendo guadagni incredibili. Ma quel qualcosa di molto arcaico rimane, come rimane il pellegrinaggio annuale delle ‘ndrine al santuario della Madonna di Polsi.
Ci sono state, però, anche delle grandi illusioni: come il porto di Gioia Tauro che, se a pieno regime, potrebbe garantire migliaia di posti di lavoro in più. Ma resta, appunto, un’illusione, perché?
Forse perché, nel caso specifico, è nato male quel porto. E’ stato devastato uno dei più bei luoghi della Calabria, distruggendo olivi secolari, spianando tutto con i camion della ‘ndrangheta. E non per un porto: doveva sorgere il quinto centro siderurgico d’Italia in un momento in cui gli altri quattro non funzionavano più. Era l’epoca della lotta tra poveri, il “boia chi molla” della rivolta di Reggio contro Catanzaro capoluogo. Si porta dietro questa maledizione il porto.
Le responsabilità politiche non mancano. Anche il centrosinistra, che ha governato dieci anni prima della recente vittoria di Scopelliti, è ampiamente responsabile, non crede?
Sì e al di là di quello che è stato fatto o meno, rimprovero alla sinistra di non essere più in grado di costruire una speranza, ma non solo al Sud dove l’immobilismo produce effetti ancor più gravi. Non c’è più un’idea, tutto viene sistematicamente copiato: come il federalismo dalla Lega, copiare dal Carroccio è una moda poi. Invece, parlare di unità d’Italia è ora rivoluzionario, come nel 1848. C’è stata qualche eccezione a sinistra, bisogna ricordarlo, come Nichi Vendola, la sua storia è la più bruciante sconfitta del Pd: il piano era perdere in un colpo solo la Puglia e Bari, e a volerlo, diciamolo, era un normalista (il riferimento è a Massimo D’Alema, che in gioventù studiò alla Normale senza però conseguirne il diploma, ndr).
Mentre la crisi del Sud è senza fine, al Nord non si può neppure più cantare “Bella ciao”... perché anche gli intellettuali non parlano più, non fanno sentire la loro voce?
E’ vero, è una cosa che manca sempre di più. Gli intellettuali sono sempre più ridotti al silenzio, all’auto-bavaglio. Scetticismo? Sfiducia? Stanchezza? In parte anche eterna capacità di trasformismo, come dal 1922 al ’43, perché per afferrare piccole briciole di potere molti sono pronti a genuflettersi davanti a chiunque o almeno a tacere, ambiguamente.
In un’Italia sempre più spaccata e divisa almeno il sindacato cerca ancora, pur tra mille contraddizioni e limiti, di trovare ancora dei simboli, per questo la manifestazione nazionale oggi è proprio a Rosarno.
E’ positivo se dentro il simbolo, però, c’è qualcosa. Perché i simboli se sono vuoti si consumano in fretta: qual è il progetto del sindacato per l’Italia? Anche questo, a dir il vero, non mi è molto chiaro.

il Fatto 1.5.10
Vendola e la costruzione della leadership
Il presidente della regione Puglia sta costruendo le sue fabbriche sul territorio
di Salvatore Cannavò

“Il centrosinistra è vecchio e i suoi leader sono come esorcisti che negano la realtà”. Non è un avversario a fare queste dichiarazioni ma Nichi Vendola, governatore della Puglia e uno degli aspiranti leader del nuovo centrosinistra che dovrà sfidare Silvio Berlusconi. Il tono è fermo proprio perché la partita per la leadership è di fatto lanciata con ripercussioni pesanti all'interno dello stesso Pd dove, ancora una volta, i principali contendenti restano D'Alema e Veltroni. Il primo ha spiegato al Corriere della Sera che non è detto che il centrosinistra terrà le primarie per designare il leader della coalizione alternativa a Berlusconi. Immediata la risposta di Veltroni secondo il quale senza primarie “il Pd perderebbe la sua ragione sociale”. Lo scontro non è nominalistico perché le primarie definiscono anche il tipo di candidatura e quindi il profilo politico che si potrà delineare. Senza primarie si va a un patto tra forze politiche che potrebbe tirare fuori personaggi "algidi" come Luca Cordero di Montezemolo o Mario Draghi. Le primarie sono invece fatte anche per figure più "calde". C'è chi fa il nome di Matteo Renzi, sindaco di Firenze, e non va escluso lo stesso Veltroni. Ma certamente in campo c'è il nome di Vendola che alcuni danno in sintonia con l'ex sindaco di Roma. ”Il centrosinistra non ha il vocabolario giusto per affascinare, per essere credibile come costruttore di un'alternativa di governo”, sostiene ad esempio il presidente pugliese, lasciando intendere che lui invece il vocabolario giusto ce l'ha. E anche alcuni interlocutori. È in questa chiave che vengono interpretati alcuni passaggi degli ultimi giorni. A fine mese, ad esempio, il quotidiano "comunista" il manifesto promuove una due giorni a Firenze per discutere di "democrazia" e "sinistra". Tra i protagonisti, intellettuali come Rodotà o Revelli, Michele Santoro ma anche politici come Vendola, De Magistris e Ignazio Marino. Su La Stampa dell'altro ieri, però, l'appuntamento è stato ricostruito come il banco di prova di uno schieramento largo in grado di sfidare i vertici del Pd. E ieri, sul quotidiano torinese è apparsa un'intervista a Antonio Di Pietro il quale, intravedendo un'alleanza che punta a escluderlo, ha annunciato la sua partecipazione al meeting fiorentino, lasciando addirittura aperta una porta per Vendola leader. “Assistiamo a così tante incursioni di campo sulla nostra iniziativa che ci vien voglia di mollare tutto” dice al Fatto un irritato Loris Campetti che per il manifesto sta organizzando il convegno. “Noi non abbiamo mai invitato Di Pietro e comunque non facciamo i cavalli ruffiani di nessuno”. La smentita, piuttosto secca, non elimina il fatto che dei movimenti esistano e che lo stesso Vendola stia preparando la sua specifica "discesa in campo".
Così, mentre nel Pd si discute e si litiga, negli uffici della Regione Puglia si cerca il "racconto" giusto per battere Berlusconi. E gli strumenti adatti. Le Fabbriche dovranno servire a questo e a breve terranno i loro Stati Generali. “Sono comitati di scopo” dice al Fatto il presidente Vendola, “basati su cooperazione e partecipazione” e definiscono un progetto basato sul rapporto diretto “tra politica e popolo”. E quando gli chiedi come fa a combinare questa nuova moltitudine con le virtù salvifiche di un uomo solo Vendola risponde con l'ennesimo ossimoro: “Guarda che il mio è un populismo antipopulista, mica solletico il basso ventre, nei miei comizi punto a diffondere il massimo di consapevolezza e partecipazione”. Vendola, quindi, si fa avanti con molta convinzione, forte di un vuoto evidente e di una carica infusa dalla recente vittoria in Puglia. Anche l'intervista al Corriere della Sera di qualche giorno fa non è passata inosservata: “Sull'omosessualità ho avuto più ascolto dai preti che dal partito”, ha spiegato. In un momento di bufera attorno alla Chiesa un'apertura di questo tipo non costituisce un buon accredito?

il Fatto 1.5.10
Lavoratori della lirica in rivolta dopo la firma del Quirinale
Passa il decreto che blocca le assunzioni dei finti precari
Il senatore Pd Pietro Ichino assiste la Scala contro i dipendenti “stagionali” che fanno causa
Caos al Maggio: i lavoratori del Teatro fiorentino indicono lo sciopero per lo spettacolo di domani
di Stefano Vergine

Il cavillo che conta è ancora lì, immerso nelle 17 pagine del decreto legge che punta a riformare le fondazioni liriche. Relazione illustrativa, articolo 3: “Visti i numerosi contenziosi avviati si legge sono vietati i rinnovi dei rapporti di lavoro che, in base a disposizione legislative o contrattuali, comporterebbero la trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. Pertanto, le assunzioni effettuate in violazione del suddetto divieto sono nulle di diritto”. Parole che fanno riflettere sulle reali conseguenze del provvedimento d’urgenza promosso dal ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, con l’obiettivo ufficiale di “razionalizzare le spese” e di “implementare i livelli di qualità delle produzioni offerte”. Ieri mattina è arrivato l’ok del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che dopo aver rispedito al mittente il decreto con alcune osservazioni di carattere tecnico-giuridico, si è detto soddisfatto delle modifiche apportate dal governo e ha firmato. I cambiamenti, però, non riguardano la parte sui precari. E infatti le proteste dei lavoratori del settore non si sono placate. Dopo la firma di Napolitano e l’annuncio che il decreto entrerà in vigore oggi, primo maggio e festa dei lavoratori, il mondo della lirica è andato in subbuglio. All’Accademia di Santa Cecilia di Roma i dipendenti si sono riuniti in assemblea permanente e hanno annunciato il blocco totale delle attività. I colleghi del Maggio Fiorentino hanno annunciato che la replica de “La donna senz’ombra”, l’opera che giovedì ha inaugurato la stagione, non si terrà. A Bologna i sindacati hanno annunciato uno sciopero per martedì prossimo in occasione della prima della Carmen. E anche a Milano i dipendenti della Scala hanno deciso di far saltare la prima del 13 maggio. Il decreto è rivolto a tutte le fondazioni liriche italiane, ma le poche righe inserite nell'articolo 3 sembrano essere state pensate proprio per il teatro milanese, difeso legalmente dal professore di diritto del lavoro e senatore del Pd Pietro Ichino.
LA SCALA. Nel fiore all'occhiello della lirica italiana lavorano attualmente circa 730 persone assunte con contratto a tempo indeterminato (il ministero ne prevede un massimo di 800), più altre 150 a cui da decenni la fondazione rinnova un contratto a tempo determinato. Tutto ciò fino al 2005, quando i giudici del tribunale di Milano hanno dato ragione all'avvocato Luigi De Andreis e alla sua assistita, una donna addetta alla lavanderia, che con questo tipo di contratto veniva costantemente assunta da anni. Alla fine la Scala è stata costretta a concederle un tempo indeterminato, e così la vittoria di uno è diventata la speranza di molti: falegnami, carpentieri, parrucchiere, truccatrici, elettricisti, calzolai e ballerine. Tutta gente che contribuisce attivamente alle produzioni del teatro, tutti con la stessa storia lavorativa alle spalle. Vent’anni di contratti “stagionali”, undici mesi di durata, inizio a settembre e scadenza a fine luglio. Agosto a casa: proprio come accade alla maggior parte dei lavoratori, solo che quelli “stagionali” della Scala andavano in vacanza senza contratto. Sulla base di questi dati, nel 2005 il tribunale di Milano ha iniziato a dare ragione ai precari. Dal punto di vista giuridico il motivo è semplice: dal 1998, anno della trasformazione per legge degli enti lirici da pubblici a privati, questi ultimi hanno iniziato ad essere sottoposti alle norme del lavoro valide per i privati. E da questo momento i contratti a termine dei precari della Scala sono entrati in contrasto con la legge, sia quella in vigore fino al 2001, sia quella successiva e attualmente in vigore (D.Lgs 368/01, articolo 1 commi 1 e 2).
I giudici hanno escluso che quei precari potessero essere ritenuti degli stagionali, perché in realtà lavoravano 11 mesi all’anno, proprio come qualsiasi dipendente a cui spetta un contratto a tempo indeterminato. Per questi motivi una quarantina di loro hanno già vinto la causa. Quanto basta per convincere gli altri
centodieci a seguire la stessa strada, tanto che poco più di un mese fa il sindacato interno al teatro aveva annunciato una maxi azione legale nei confronti della Scala. Ora però le cose potrebbero cambiare. Il decreto prevede di annullare le assunzioni derivate da queste cause, e punta a sterilizzare le parti della legge 368 del 2001, cioè proprio quelle che finora hanno permesso ai precari di vincere le cause. Oltre che dai sindacati, le proteste sono arrivate dal Pd, che però si è soffermato su altri aspetti: il pensionamento dei ballerini a 45 anni, la penalizzazione del contratto integrativo, la contrattazione nazionale, il taglio dei fondi alle fondazioni liriche che rischia di penalizzare l’arte italiana. I precari? Alla domanda del Fatto Quotidiano, l’avvocato della Scala e senatore del Pd, Pietro Ichino, ha tagliato corto: “Preferisco non dare un giudizio politico sulla questione perché sono coinvolto sul piano professionale”.

Repubblica 1.5.10
L’Italia della lirica sciopera contro il governo
Dilaga la protesta dopo la firma di Napolitano alla riforma. Bondi: irresponsabili
di Anna Bandettini

Il ministro: "È un primo passo per cambiare le cose. Ora va discusso". Il 6 vedrà i sindacati

Sipario chiuso alla Scala il 13 maggio (per la prima di Das Reihngold). Sipario chiuso al San Carlo di Napoli ieri sera. Sipario chiuso al Comunale di Bologna martedì. Sipario chiuso al Maggio di Firenze domenica, come al Regio di Torino e alla Fenice di Venezia. Sipario chiuso al Carlo Felice di Genova giovedì. Sipario chiuso a oltranza all´Opera di Roma e all´Accademia di S. Cecilia, stato di agitazione al Petruzzelli di Bari, al Verdi di Trieste ... È un bollettino di guerra quello che arriva dalle Fondazioni liriche italiane contro il decreto che riforma l´intero settore e tutto fa pensare che sarà una guerra dura. «Atteggiamento irresponsabile», liquida la faccenda il ministro Bondi.
La protesta è dilagata dopo che il presidente Napolitano, ieri mattina, ha firmato il decreto con minime modifiche rispetto al testo che nemmeno 48 ore prima aveva restituito al ministro chiedendo spiegazioni. «Sembra tutto un teatrino», lamentavano costernati molti lavoratori che avrebbero auspicato un confronto tra le parti prima che il ministro rinviasse nuovamente il testo al Presidente. Conciliante, la nota del Quirinale: «il Capo dello Stato ha preso atto della conferma del ministro di incontrare nei prossimi giorni le rappresentanze sindacali e di tener conto delle proposte dei gruppi parlamentari e degli apporti dal mondo della cultura e dello spettacolo». Ubbidiente, Bondi ha già fatto sapere di incontrare i sindacati il 6 maggio. «È vent´anni che aspettiamo una riforma – ha dichiarato il ministro– È il primo passo di un confronto che si svolgerà in Parlamento e con le parti sociali e i sovrintendenti per un rilancio su criteri efficienti del settore». Gli fa eco il sottosegratrio Francesco Giro: «La riforma dà regole certe e stringenti, altrimenti a chiudere i teatri saranno i debiti milionari non gli scioperi». «No, è un decreto che disperde un patrimonio artistico e professionale», gli hanno risposto ieri davanti al pubblico, prima dello spettacolo, i lavoratori della Scala. «È inaccettabile. Distrugge il lavoro, altro che riforma», incalza Silvano Conti della Slc-Cgil, confermando che quella sul decreto sarà una battaglia pesante.
In vigore da oggi, con un iter di conversione di 60 giorni, tempo utile per fare delle modifiche, il decreto fa quello che tutti ritengono necessario: riformare le 14 Fondazioni liriche oggi economicamente insostenibili. Lo Stato destina 240milioni al settore che ha perdite per 2milioni e 667mila, con 5600 lavoratori che costano oltre 340milioni di euro, ma che, pure, in dieci anni col contratto nazionale hanno portato a casa un aumento di soli 150 euro, al terzo livello. Se la riforma ci vuole, quello che non piace ai lavoratori è come la fanno i nove articoli del decreto che toccano anche i criteri di assegnazione dei contributi statali (Fus) allo spettacolo dal vivo, Cinecittà, Siae e Imaie la cassa mutua degli interpreti (rinascerà con nuovo statutoe sotto vigilanza ministeriale).
Le novità per gli enti lirici: autonomia gestionale per le fondazioni che rispondono a parametri di «rilevanza internazionale, capacità produttive, rivelanti ricavi, significativo apporto dei privati»; il consiglio d´amministrazione sarà con membri in proporzione al finanziamento e il finanziamento statale triennalizzato. Accusa Conti: «Così privatizzano la Scala», oggi l´unico teatro a rientrare nei parametri (in una prima bozza era scritto nel decreto insieme all´Accademia di S. Cecilia come "teatro nazionale"). «Tutti i teatri con gestione virtuose potranno avere l´autonomia», affermano al ministero che indica il modello virtuoso: blocco del turn over, blocco delle assunzioni a tempo indeterminato, contratto nazionale sottoscritto tra ministro e parti sociali con la consulenza dell´Aran (l´organismo del pubblico impiego) e soprattutto contrattazione integrativa subordinata a quella di primo livello e comunque da subito dimezzata finché non sarà firmato il nuovo contratto nazionale. «Ci sarà una perdita del 30 per cento sul singolo salario dei lavoratori», avverte il sindacato. Allarmati dal clima infuocato, i sovrintendenti provano una conciliazione accogliendo l´invito di Napolitano. Francesco Giambrone del Maggio: «Lavoriamo perché questa riforma sia condivisa».

il Fatto 1.5.10
Da Roma a Bari l’agonia dei licei
di Caterina Perniconi

“Siamo in emergenza su tutto, non solo sui corsi di recupero. Da due anni non ci arrivano nemmeno i soldi del funzionamento”. Dopo l’allarme lanciato dal preside del liceo Keplero di Roma, che ha scritto una lettera al ministro Mariastella Gelmini denunciando la mancanza di fondi per i corsi di recupero, la voce di Bice Mezzina, insegnante di liceo classico e presidente del centro d’iniziativa democratica degli insegnanti di Bari, è solo una tra le molte che fanno eco nei corridoi della scuola italiana: “Non ci sono soldi, siamo al collasso”. Verona, Bologna, Roma, Napoli, Bari. Il problema è lo stesso dappertutto: non arrivano i fondi da Miur. “La rigorosità di preparazione scolastica complessiva richiesta dalle nuove norme cozza fragorosamente con la drammatica realtà di scuole senza soldi e sostegno per sopravvivere – ha scritto il preside del Keplero, Antonio Panaccione a giugno prossimo saremo obbligati ad applicare, completamente disarmati, le nuove disposizioni del Governo in merito alla valutazione finale. Ci troveremo, così, di fronte al tradizionale alto numero di alunni che non avranno raggiunto la sufficienza in ogni materia e i consigli di classe avranno allora solamente due possibilità, entrambe assurde: bocciare tutti o regalare tantissimi ‘6 politici’. Soluzioni che distruggerebbero la credibilità della scuola, portando così nuova linfa alle scuole private”.
E allora i professori si organizzano come possono: “Nel nostro liceo chiediamo agli studenti di autofinanziarsi – spiega Bice Mezzina – l’anno scorso 70 euro a testa, quest’anno 80. Nelle scuole primarie, invece, le insegnanti chiedono di portare da casa carta e pennarelli. Il ministro ha detto che i soldi per i corsi estivi arriveranno, ma per ora non si sono visti, e da due anni non riceviamo nemmeno il fondo per gestire il funzionamento scolastico, circa 30 mila euro l’anno”. All’istituto professionale Fermi di Verona, dove si formano odontoiatri e preparatori bio-chimici, il preside ha avvisato le famiglie che per poter coprire il costo dei corsi di recupero dovranno pagare 100 euro a testa. Al liceo Righi di Bologna, studiare la seconda lingua straniera a scuola dal prossimo anno costerà 120 euro in più. E mentre la Rete degli studenti denuncia che “la situazione delle scuole italiane è ridotta a pezzi”, ieri, in un’intervista al settimanale Io donna, la neomamma Mariastella Gelmini ha detto che sua figlia Emma “andrà in una buona scuola, pubblica o paritaria non importa. E comunque l’aumento delle iscrizioni alle paritarie è dovuto a un dato innegabile, la scuola pubblica è in crisi e per salvarla non basta il governo, devono contribuire i sindacati e i dirigenti, spesso poco attenti agli sprechi”. Peccato che sia impossibile sprecare soldi che non sono mai arrivati. “Per fare i corsi integrativi di recupero – ha scritto il preside del Keplero tanto necessari per i più deboli e svantaggiati, ci vorrebbero almeno quei finanziamenti certi, tempestivi e mirati dello Stato previsti dal decreto ministeriale n. 80 del 2007 già elargiti nel 2008 e 2009, ora invece eliminati o peggio girati alle scuole private”.

Repubblica 1.5.10
Così muore la scienza del tutto
Trasformazioni veloci e mondo liquido la sociologia non basta più
di Carlo Galli

Il segno del declino è stata la scelta del Cnr di riunire le scienze sociali in un unico ambito di ricerca che verrà chiamato "Identità Culturale Italiana" La tesi principale era che individui e Stato non si possono pensare come autosufficienti Ma l´eccesso di obiettivi e di metodi, ha finito per frammentare la disciplina

Dagli anni ´60 in poi le scienze sociali hanno dominato la lettura della realtà: ogni fenomeno veniva interpretato attraverso gli occhiali di questa disciplina Ma tra l´invasione dei "tuttologi" e gli eccessi specialistici ora è cominciato il declino E gli intellettuali di riferimento sono diventati gli economisti, i filosofi, gli antropologi

ul sito web della Fondazione Treccani una delle figure di punta della sociologia del nostro Paese – il milanese Guido Martinotti – ha criticato aspramente la scelta del Cnr di riunire le scienze sociali in un unico ambito di ricerca denominato «Identità Culturale Italiana». Ma a partire dalla denuncia della debolezza organizzativa di una disciplina che non riesce a opporsi a simili diktat, viene introdotta una articolata riflessione – a cui hanno partecipato parecchi altri sociologi – su quella che viene definita la "crisi della sociologia": crisi di paradigmi conoscitivi, di presenza accademica, di visibilità pubblica; crisi del sociologo come «tuttologo», insomma. Una crisi d´identità che viene dopo una stagione di notevoli successi.
A partire dagli anni Sessanta, infatti, ha conosciuto un grande incremento della sua penetrazione dell´Università, grande popolarità dei suoi metodi (il questionario), grande appetibilità del suo sapere per gli enti pubblici di vari livelli che alle analisi sociologiche – il prodotto tipico delle ricerche commissionate (e finanziate) ai sociologi – affidavano e ancora oggi affidano la legittimazione delle loro politiche d´intervento sulla società italiana. Un successo anche d´immagine, tanto più notevole quanto più la cultura italiana non era stata certo benevola, inizialmente, verso la disciplina: contro la quale avevano pesato i pregiudizi della filosofia idealistica – «inferma scienza» fu definita da Croce – ma anche la chiusura del marxismo, nonché l´originaria diffidenza di altri mondi scientifici più influenti.
Una disciplina, la sociologia, che sembrava povera di pedigree e di lignaggio scientifico, insomma. Il che, però, non era vero. Nata nel grembo della filosofia del tardo Settecento e dell´Ottocento – da Bonald a Comte, da Saint-Simon a Spencer –, la sociologia si afferma tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del XX con l´opera di padri fondatori che sono dei giganti del sapere e della ricerca: da Durkheim a Tönnies, da Weber a Simmel, da Pareto a Parsons. E in seguito, nel corso del Novecento, la sociologia è stata illustrata da personaggi come Elias e Goffman, Boudon e Luhmann, Schütz e Merton, Elster e Riesman, Giddens e Beck – solo per fare qualche nome tra i più famosi, noti anche a un pubblico non specialistico.
Una simile fioritura d´ingegni – diversissimi tra loro quanto a stili e metodi di pensiero – testimonia della straordinaria rilevanza e fecondità del proposito originario della sociologia: l´analisi della società, cioè della dimensione che si colloca tra il soggetto e lo Stato, e che dà loro sostanza e fondamento. La sociologia assume infatti che i pilastri del pensiero politico moderno – individualità e statualità – non possano essere pensati come entità autosufficienti, ma siano comprensibili come momenti interni a un universo di relazioni e di interazioni reali, appunto la società, nella quale i soggetti agiscono rapportandosi variamente con altri soggetti, con le comunità, con le istituzioni, con le forme del potere.
È questa concretezza e questa multiformità relazionale della società la sfida a cui la sociologia vuole rispondere, evitando quelle che le paiono le parzialità, le semplificazioni, le astrattezze di altre discipline, come la filosofia, l´economia, il diritto. Questo progetto di analisi del Tutto si è ben presto arricchito e complicato: la sociologia si è divisa tra sostenitori del primato dell´agire soggettivo e teorici della precedenza delle grandi strutture impersonali; tra fautori dei metodi qualitativi e di quelli quantitativi o empirici; tra strutturalisti e funzionalisti; tra chi crede del ruolo applicativo della sociologia – un sapere che avrebbe la vocazione a stabilire una sorta di alleanza "illuministica" o tecnocratica col potere – e chi ne enfatizza la capacità critica e demistificatrice. Soprattutto, la sociologia si è profondamente articolata in numerosissime branche e specializzazioni, che indagano ogni angolo e ogni versante dell´esperienza individuale e dell´esistenza collettiva, stabilendo così nuovi legami – alla pari – con altre scienze umane.
Eppure, in questa crescita c´è stato anche il seme del declino. L´ampliamento dello spettro degli obiettivi, proprio in ottemperanza all´imperativo di aderire alla realtà sociale in tutte le sue molteplici dimensioni, ha fatto nascere molte sociologie quasi autoreferenziali, sprofondate nei propri oggetti anche minimi, poco capaci di dialogare tra loro e molto differenziate per metodi e obiettivi, che faticano a essere riconducibili a un´epistemologia comune, a quella "terza cultura" – non solo scientifica e non solo umanistica – che la sociologia vorrebbe essere. A ciò si aggiunga la continua trasformazione dell´oggetto – la società –, causata dalle sconvolgenti trasformazioni del mondo contemporaneo, dei suoi spazi politici e dei suoi attori, che disorienta, oltre che altre discipline, anche e forse più la sociologia: proprio in quanto vuol essere sensibile a ogni mutamento, questa è destinata a inseguire e a volte anche a subire i cambi di struttura e di paradigma che la nostra epoca di transizione reca con sé. Il Tutto sociale si è fatto tanto complesso da risultare quasi imprendibile.
Così, benché ancora molto "utilizzati", non si può dire che i sociologi siano oggi gli intellettuali di riferimento primario, dubbio onore che tocca più ai filosofi, agli economisti, ai politologi, agli antropologi. Al netto di ogni altro problema specificamente italiano – necessità di ringiovanimento, di riorganizzazione, di internazionalizzazione – proprio nel vanto della sociologia, la sua capacità di aderire a una realtà mobile e sfuggente come la società, sta anche la fonte primaria dei suoi problemi.

Repubblica 1.5.10
Noi eravamo saliti in cattedra ma oggi un comico conta di più
di Franco Ferrarotti

La disciplina ha avuto grande successo accademico, tra facoltà e corsi di laurea Eppure non si è riusciti a intaccare la mentalità prevalente che è rimasta parolaia

Sembra ormai un dato acquisito: la sociologia è in crisi; il sociologo sta uscendo di scena. Dopo la «sbornia sociologica», come la chiamava il tardo-crociano Francesco Compagna, il sociologo appare evanescente, ha perso il passo. Ma, storicamente, la sociologia è nata da una grande crisi; è figlia ingrata della transizione dal mondo contadino alla società industriale. E ha avuto, non solo in Europa o negli Stati Uniti, ma anche in Italia, i suoi successi, se non i suoi trionfi. Una grande vittoria, però, è un grande pericolo. Il successo rende timidi. Si esita a cambiare formule o impostazioni che hanno funzionato.
In Italia, siamo al paradosso. Come in una pochade da Café du Commerce, si verifica una fulminea sostituzione di persona; il sociologo si presenta sotto mentite spoglie; è scomparso. In due tempi. Dapprima, questioni sociologicamente rilevanti sono affrontate e discusse da altri degni analisti sociali, soprattutto psicologi e antropologi. Come mai? Con tutto il rispetto per questi colleghi - già in cattedra per la sociologia ho aiutato a suo tempo Tullio Tentori ed Ernesto Valentini ad avere la loro in antropologia e psicologia - a parte il fatto che credo fermamente nell´impostazione multidisciplinare della ricerca, i committenti pubblici e privati li ritrovano probabilmente più «maneggevoli», forse meno sulfurei.
Gli antropologi fanno ancora pensare ai popoli detti «primitivi». Sanno di post-colonialismo. Gli psicologi riducono la società a stati d´animo, predicano l´adattamento, se non la rassegnazione. I sociologi chiamano in causa le strutture della società, sospendono un interrogativo sul potere, sui gruppi sociali che lo detengono, sulla legittimità non solo formale, ma sostanziale. Misurano lo scarto fra le cose dette e le cose fatte. Scoprono, qualche volta, che una classe dirigente mira più a durare che a dirigere, che si comporta come una truppa d´occupazione in un paese che non conosce.
In un secondo momento, specialmente in Italia, il sociologo è surrogato dal professore di estetica e dal comico. Niente da dire sulla professionalità di queste figure. Ma non hanno mai fatto una ricerca, come si dice, sul campo. E perché dovrebbero? A loro basta la battuta, la strizzatina d´occhio, il gesto. Non hanno bisogno di fare ricerca. Intuiscono. Vengono direttamente dalla «commedia dell´arte». Sono collegati con la più collaudata tradizione politica e culturale italiana: tradurre i problemi etici in atteggiamenti estetici; far ridere per dimenticare di piangere. Crozza e Benigni invece di Vilfredo Pareto o, più modestamente, Alfredo Niceforo, quello che aveva studiato la pellagra al Nord Est e di cui i nuovi ricchi di quelle parti farebbero bene a ricordarsi.
Per riassumere e concludere, la sociologia in Italia, nel corso degli ultimi cinquant´anni, ha ottenuto un grande successo accademico-burocratico-organizzativo. Ci sono oggi cattedre, facoltà, corsi di laurea, dottorati in sociologia. Non è riuscita a intaccare, tanto meno a trasformare la mentalità prevalente, che è rimasta ciceroniana, parolaia, ciarlatanesca - in una parola, incapace di ragionare pacatamente e di operare efficacemente con riguardo alle questioni specifiche di un paese in bilico, divenuto industriale ma senza una cultura industriale, privo di una lucidità condivisa. Le tre grandi tradizioni culturali italiane - cattolica, marxistica, liberaldemocratica - non sono strumentalmente in grado di aiutare e portare al compimento della transizione. Ma hanno un temibile potere di veto. Gli intellettuali più aperti al nuovo si sentono esuli in patria. Rispetto ai problemi quotidiani della loro comunità, sono dei «separati in casa».

Repubblica 1.5.10
Pablo Picasso e tutte le sue donne
di Barbara Briganti

Quando cambiava compagna, cambiava anche vita. A dire il vero succede a molti uomini. Ma nello specifico, lui era Pablo Picasso e mutare vita voleva dire rinnovare, oltre all´indirizzo e alla cerchia di amicizie, anche genere pittorico. E dato che Picasso, nel corso della sua intensa esistenza ebbe un ragguardevole numero di compagne, parallelamente attraversò un equivalente numero di fasi o periodi.
Paula Izquierdo aggiunge alcuni nomi alla lista nota e allarga il campo delle influenze femminili alla madre e a conoscenti come Gertrude Stein, la quale, a vedersi catalogata come amante del pittore, si rivolterà probabilmente nella tomba.
Nonostante alcune imprecisioni fastidiose: (Fernande Olivier ha scritto un libro su Picasso e i suoi amici, e non amiche, opera che sarebbe stata una velenosa vendetta), questo svelto catalogo rappresenta una sorta di guida e promemoria, che ci ricorda anche quanto il modus amandi del maggior pittore del secolo scorso fosse distruttivo per le sue vittime. «Le donne sono macchine per soffrire», disse. Leggendo le loro storie se ne ha una prova tangibile.

Repubblica 1.5.10
Sinéad O’Connor
"La mia missione? Salvare Dio dalla religione"
Il Papa dovrebbe dimettersi e bisognerebbe ritirare l´ambasciatore irlandese in Vaticano per rispetto alle vittime degli abusi sessuali
di Giuseppe Videtti

Credo nei precetti del cristianesimo, nella Trinità e in Gesù Cristo. Continuo a lottare per la paura di non essere più in grado di proteggere la mia famiglia

Quant´era bella e intensa e seducente quando, con la testa rasata e gli occhi pieni d´inquietudine, cantava Nothing compares 2 U, una canzone che Prince aveva scritto per il gruppo The Family e lei vent´anni fa fece schizzare in classifica. La premiarono con un Grammy per il miglior album di musica indipendente (I do not want what I haven´t got) ma lei, testarda e orgogliosa come solo un´irlandese sa essere, disertò la manifestazione. Com´è diversa oggi Sinéad O´Connor, 43 anni, madre di quattro figli, un´artista che ha scelto la provocazione anche a costo di sacrificare il successo. Non le importa di sembrare una casalinga, non le importa di produrre un disco ogni cinque anni (l´ultimo, Theology, è del 2007); il glamour la disgusta, lo show business è una tentazione di cui approfittare solo nei momenti di bisogno.
«Non sono scomparsa, vivo a Dublino, sono una mamma felice», esordisce Sinéad, che stasera terrà un concerto acustico al Teatro San Carlo di Napoli (poi tornerà il 22 maggio a Fabriano e l´8 luglio a Genova). «Si sa, i bambini hanno bisogno di tempo, soprattutto in età scolare. E d´altronde io non faccio dischi se non ho tra le mani le canzoni giuste, brani che siano l´esatta rappresentazione del mio pensiero e dei miei sentimenti». Severa e intransigente, come sempre. Ribelle e polemica, più di sempre. Della sua vita ha sempre spiattellato ogni cosa: gli abusi subiti da una madre separata e dalle suore cui fu data in custodia dopo ripetuti episodi di cleptomania adolescenziale; il rapporto conflittuale con il cattolicesimo che la portò al gesto estremo di strappare l´immagine di Giovanni Paolo II davanti alle telecamere del Saturday Night Live e a pretendere di essere ordinata sacerdote dal vescovo di un gruppo cattolico indipendente col nome di Mother Bernadette Mary; la mortificazione della femminilità col taglio di capelli; quattro figli avuti da altrettanti uomini e le contraddittorie dichiarazioni sulla propria sessualità («Nonostante non l´abbia mai detto apertamente, sono lesbica», dichiarò nel 2000); il disagio di convivere con una dolorosa forma di fibromialgia.
«Mi è difficile ricordare quel che è successo vent´anni fa», dice, «non per eludere le domande, ma proprio perché non ricordo. Mi capita spesso di chiedere ad altre persone informazioni sul mio passato. Ricordo molto chiaramente che ero una fan di Barbra Streisand, che a quindici anni cantavo Evergreen dalla mattina alla sera, che poi sono stata rapita da Dylan e infine da Bob Marley, Smiths, Public Enemy, Nwa, Krs One. La mia storia nel mondo dello spettacolo è altalenante: brillante nei momenti in cui ero felice, turbolenta quando non lo ero. Il successo è comunque un trauma, soprattutto se sei solo come ero io quando arrivai da Dublino a Londra. Ero ingenua, eccitata di esibirmi a Top of the Pops, al settimo cielo quando partii per il primo tour mondiale. Ma, a ben guardare, tutto era un gran caos, poco familiare, confuso, straniante».
Negli anni Novanta, Sinéad O´Connor era la sacerdotessa del rock, l´orgoglio della musica irlandese, protagonista degli eventi top (The Wall dei Pink Floyd a Berlino, la colonna sonora de In nome del padre, la celebrazione degli Who nei due concerti alla Carnegie Hall, infine una parte nel film The butcher boy di Neil Jordan: era la Vergine Maria). Il suo impegno di attivista, mai lasciato in secondo piano, è ora tornato prepotentemente alla ribalta. Già nel ´92, scegliendo come inno di battaglia l´aggressiva War di Bob Marley, Sinéad denunciò il fenomeno dei preti pedofili. Fu in quell´occasione che fece a pezzi l´immagine del papa gridando: «Combattete il vero nemico». Oggi dice: «Quella canzone mi diede la forza di esprimere onestamente le mie opinioni, di combattere contro le ingiustizie che mi balzavano agli occhi, di usare la mia arte e la mia popolarità come strumento di denuncia. Lo so, ci sono musicisti di grande popolarità che nelle loro canzoni non dicono assolutamente niente, sembrano vivere sulla luna. Come si può ignorare i problemi che sono sotto gli occhi di tutti quando si fa un mestiere come il nostro?».
Non nega le affermazioni fatte in tv a Oprah Winfrey (di essere affetta da bipolarismo e aver tentato il suicidio a 33 anni) e rincara la dose di accuse contro la chiesa cattolica in merito allo scandalo dei preti irlandesi, già lanciate attraverso la Cnn, la Nbc e diversi quotidiani come il Washington Post e l´Independent. «Credo fermamente nei precetti del cristianesimo, nella Trinità e in Gesù Cristo», dice, ma allo stesso tempo chiede le dimissioni di Benedetto XVI «per non aver cooperato con la commissione d´inchiesta e il ritiro dell´ambasciatore irlandese presso la Santa Sede in segno di rispetto per il popolo d´Irlanda oltraggiato dalla noncuranza dimostrata dal Vaticano nei confronti della sofferenza patita dalle vittime degli abusi sessuali perpetrati dal clero». Dice che questa è la sua missione, «salvare Dio dalla religione» in un mondo flagellato dalle guerre e dai reiterati scempi contro l´ambiente. «Per questo continuo a lottare», conclude, «per la paura di non essere più in grado, un giorno, di avere un tetto, cibo e vestiti per la mia famiglia».

l’Unità 1.5.10
Il trionfo della Cina
Senza debiti, si celebra nell’Expo. E l’Ue annaspa
Differenze. La Grecia seppellita anche dalle spese per le Olimpiadi, i cui effetti sono stati occultati
Pechino. Per la fiera mondiale che si apre oggi i cinesi hanno speso molto di più Una prova di forza
di Loretta Napoleoni

Alla vigilia della cerimonia d’apertura della World Expo di Shanghai, il cui tema è «una città migliore per una vita migliore», il paese che ci ha dato la polis, la Grecia, è sull’orlo della bancarotta e l’Europa, culla della Rivoluzione industriale e dell’urbanizzazione si interroga sul perché di quest’ennesima crisi dell’economia globalizzata. Ma non basta, mentre nell’Europa Unita il tema dell’immigrazione nei centri urbani si fa sempre più spinoso ed i politici scivolano uno dopo l’altro su questa buccia di banana, all’Expo di Shanghai troviamo scolpiti lungo le pareti del padiglione cinese tutti i simboli dei popoli che da millenni vi abitano. Un riconoscimento ufficiale, insomma, alle minoranze etniche di questo immenso paese. Ecco due immagini che ben riassumono le contraddizioni del villaggio globale ed i cambiamenti in atto in Cina e nelle economie emergenti che le ruotano attorno, ed in occidente e nelle sue non più sfavillanti metropoli.
Emblematico è anche scoprire come la Grecia abbia gestito l’investimento per le olimpiadi del 2004 e come la Cina invece abbia finanziato i costi della World Expo, che si dice siano pari al doppio di quelli delle Olimpiadi di Pechino. Oggi veniamo a conoscenza che nei 300 miliardi del debito ateniese figura anche la spesa per i giochi olimpici, soldi che in parte sono scomparsi lungo i mille rivoli delle bustarelle. Abbiamo anche appreso che grazie ai giochi di prestigio dei maghi dell’alta finanza questo debito è stato abilmente nascosto, anche e soprattutto agli occhi dei burocrati di Bruxelles. E giustamente gli europei non vogliono accollarselo. Questi, ahimè, sono gli inconvenienti di un sistema finanziario ad effetti speciali. Benvenuti nel laboratorio cinematografico del neo-liberismo di Wall Street!
Al posto degli effetti speciali a Shanghai durante la cerimonia di apertura che si terrà oggi ci saranno i fuochi d’artificio che tanto piacciono ai cinesi. Sarà uno spettacolo indimenticabile, in grado di offuscare quello della cerimonia d’apertura delle olimpiadi di Pechino. Ai cinesi, si sa, piace fare le cose in grande. Tutto, naturalmente, è a spese del governo e dell’amministrazione locale. Di prendere i soldi in prestito per la fiera delle meraviglie in Cina non se ne è mai neppure parlato. Questo è tra i pochi paesi al mondo senza debiti.
All’ombra dei 262 padiglioni dell’Expo si sussurra che l’investimento per le infrastrutture ammonti a 14 miliardi di dollari, ma sicuramente di soldi se ne sono spesi di più. Basta pensare che per ospitare l’Expo un’intera sezione abbandonata di Shanghai, tutta lungo l’estuario dello Yangtze, è stata rimessa a nuovo. Cinque kilometri quadrati, questo lo spazio adibito alla fiera delle meraviglie, una città nella città, e per percorrerlo a piedi i 70 e più milioni di visitatori impiegheranno diversi giorni. Ma questa non è una fiera come le altre, le 92 nazioni in mostra accanto ad altrettante organizzazioni internazionali ed alle grandi corporation come la Coca-Cola, faranno da damigelle d’onore alla città. In fondo Shanghai è la vera, grande attrazione in questa vetrina del futuro.
Oggi persino gli stessi abitanti faticano a riconoscerla, eppure è la metropoli che tanto bene esprime l’ampiezza ed il ritmo del cambiamento in Cina, una sorta di super-modernizzazione del Paese. Con 20 milioni di persone, Shanghai era già una delle più grandi megalopoli al mondo, ma le nuove infrastrutture create per l’Expo l’hanno trasformata in una delle città più moderne al mondo sia dal punto di vista tecnologico che da quello architettonico.
La globalizzazione ha dunque restituito alla Cina gran parte del suo splendore del passato, ed il tema della World Expo sembra volercelo ricordare: la città del futuro concepita come uno spazio ameno e vivibile, alimentato principalmente da energia sostenibile. Un mondo insomma urbanizzato, densamente popolato, dove la Cina reclama la propria centralità. Lo scopo dei padiglioni è fornirci uno squarcio del futuro delle città del pianeta, dal momento che ormai più gente vive nei centri urbani che in campagna. Ma nessuno di questi, neppure quello Saudita che assomiglia ad una nave spaziale con un’aureola di palme e dune del deserto e che è costato ben 160 milioni di dollari, riesce a competere con Shanghai. Tutto in questa città sembra provenire dal futuro. Il treno che la collega all’aeroporto di Pudon è tra i più veloci al mondo. I passeggeri osservano affascinati i pannelli elettronici dove si legge la velocità che supera i 350 chilometri orari mentre dal finestrino il paesaggio sembra curvarsi su se stesso. 8 minuti e si arriva in città. Per l’Expo l’amministrazione locale non ha badato a spese: ha costruito un secondo aeroporto che smisterà le decine e decine di milioni di visitatori cinesi che come formiche in fila verso il formicaio visiteranno la fiera; ha anche ampliato la rete della metropolitana con 7 nuove linee. 13 arterie principali percorrono la città in lungo ed in largo, i treni sono tutti nuovi di zecca, comodi, frequenti, veloci e puntualissimi.
Il messaggio che la diplomazia dell’Expo, uno stuolo di individui che come quella delle olimpiadi del 2008 ha lavorato alacremente alla creazione del luna park del futuro, non è diretto solo all’occidente ma anche e soprattutto ai paesi in via di sviluppo, all’Africa che è presente con 53 paesi grazie ai finanziamenti dei cinesi, all’America Latina ed all’Asia. Pechino propone al sud del mondo, che tanto subisce il suo fascino, una visione dell’urbanizzazione del futuro ed osservando le luci fantasmagoriche dei grattacieli di Shanghai viene spontaneo chiedersi: chi meglio di questa nazione popolosissima potrebbe farlo?
Secondo uno studio della London School of Economics entro il 2050 il 75% della popolazione mondiale sarà urbanizzato. Vivremo in città grandi come province e regioni ed in alcuni casi addirittura estese tanto quanto intere nazioni. L’Onu prevede che gran parte di questo processo avverrà nel sud del mondo dove negli ultimi vent’anni sono sorte le megalopoli, i più grandi agglomerati urbani. L’alta densità della popolazione è il tema spinoso che la città del domani deve affrontare e la World Expo lancia questa sfida al mondo intero. E paradossalmente il ricco occidente è poco ferrato in materia.
All’inizio del 2010 nella hit parade delle metropoli c’era solo una città occidentale, Tokyo. Da anni Londra e New York sono state estromesse dalle capitali del sud del mondo, tutte con circa 20 milioni di abitanti. Mumbai, Shanghai, Jakarta, Pechino, Karachi in Asia; San Paolo e Città del Messico nell’America latina; Laos in Africa, ecco i modelli urbani del futuro. All’Expo di Shanghai la Cina presenterà il modello del Delta del fiume delle Perle, dove vivono 40 milioni di persone dove il motore urbano è l’industria. A differenza però delle metropoli del passato, la fusione di industria e città è intimamente legata al dinamismo finanziario e commerciale di Hong Kong.
L’una è complementare all’altro. Si tratta di un modello che ritroviamo in molte città dei paesi emergenti del sud del mondo da Mumbai a Città del Messico. Ed è questa realtà che Shanghai si prefigge di ricreare nel prossimo futuro quando sfiderà Wall Street quale centro finanziario più importante al mondo.
Questo fine settimana la Cina capi-comunista sarà in festa, centinaia di milioni di persone assisteranno alla cerimonia d’apertura della World Expo incollati ai televisori. Nel vecchio continente invece i rappresentanti del Fondo Monetario e dell’Unione Europea lo passeranno seduti intorno al tavolo delle riunioni, cercando di accordarsi su come salvare dalla bancarotta la Grecia, culla della cultura occidentale e della democrazia. Molti vedono in questo incredibile parallelo la conferma che la sfida sia già stata lanciata. Forse hanno ragione.

giovedì 29 aprile 2010

il Fatto 29.4.10
Flamigni: “Aborti in ritardo? Anche colpa degli obiettori”
di Silvia D’Onghia

È stato commesso un errore, non si pratica un’interruzione di gravidanza alla ventiduesima settimana. Esiste il rischio che il feto sopravviva”. Il professor Carlo Flamigni, ginecologo, membro del Comitato nazionale per la Bioetica, ultimamente autore di piccoli libri di divulgazione sulla Ru486 e sulla pillola del giorno dopo (in uscita domani), è categorico su quanto accaduto tra domenica e martedì in Calabria: un aborto terapeutico su un feto affetto da una grave malformazione, feto sopravvissuto per quasi un giorno intero. Una storia per la quale la Procura di Rossano Calabro ha iscritto martedì nel registro degli indagati alcune persone. Ipotesi di reato, omicidio volontario. E ieri il deputato Pdl Aldo Di Biagio ha presentato un’interrogazione al ministro della Salute Ferruccio Fazio, nella quale si chiede se si ritiene “opportuno avviare un percorso di analisi della situazione di gap normativo” della normativa e se meglio “definire le procedure di intervento e di monitoraggio medico nonché le responsabilità dei medici chiamati a eseguire un aborto terapeutico”. In realtà, secondo i ginecologi non obiettori, il testo è già molto chiaro. La legge 194, che consente l’interruzione quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna o quando siano accertati processi patologici che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, non stabilisce però un limite temporale. Di solito non si va oltre la ventiduesima settimana: “A quell’età, di norma, il feto non ha ancora costruito gli alveoli polmonari – spiega Flamigni – quindi la sopravvivenza è tecnicamente impossibile. Ma, poiché la biologia riserva sorprese, esistono rarissimi casi in cui gli alveoli sono già formati. Per questo alla ventiduesima settimana non si dovrebbe interrompere la gravidanza per un principio di precauzione. E’ possibile fare prima tutte le indagini necessarie ad escludere malformazioni, e quindi intervenire prima”.
Il problema, però, potrebbe essere esattamente questo: “Non conosco lo specifico caso della donna di Rossano Calabro – continua il professore – ma in Italia sempre più spesso le donne sono costrette a ‘combattere’ con i ginecologi obiettori, la cui percentuale è aumentata a dismisura. E’ sempre più difficile riuscire ad interrompere una gravidanza, tanto che molte donne vanno all’estero. Se questo è accaduto anche a Rossano, tutti quei medici devono sentirsi responsabili”.
Ma come può essere accaduto che un feto, nato vivo, sia stato lasciato in un contenitore per tante ore senza alcuna assistenza? “Non se ne sarà accorto nessuno – replica Flamigni – altrimenti non gli avrebbero messo un lenzuolo sul viso. Il feto potrebbe non aver mostrato subito segnali di vita. A volte sono modificazioni climatiche, o stimoli di varia natura, a scaturire parvenze di vitalità”. L’indagine della Procura di Rossano servirà a stabilire proprio se quel feto è stato lasciato morire o se realmente i medici non se ne sono accorti.
Il professore però non accetta i processi mediatici nei confronti della 194 e dei ginecologi che ancora la mettono in pratica. Martedì in un editoriale l’Avvenire parlava di “pratica eugenetica che non è consentita dalla legge, ma che purtroppo pare essere la realtà della stragrande maggioranza degli aborti tardivi”. “Il fatto che un’azienda vescovile faccia un comunicato così forte contro la cultura della morte a me fa orrore – contrattacca Flamigni – pensino prima alla cultura della pedofilia che hanno coperto fino a ieri”.
Il clima, per i medici non obiettori, è diventato molto pesante: l’invadenza del Vaticano nelle scelte politiche – non ultime le prese di posizione dei neogovernatori di Pdl e Lega sulla Ru486 – rischia di far tornare indietro l’Italia di decenni. L’impressione è che da un momento all’altro si voglia mettere in discussione seriamente la 194. “E’ come se le donne, negli ultimi anni, si fossero un po’ addormentate – conclude Flamigni – e invece proprio le donne dovrebbero capire che i loro diritti sono messi in discussione. La 194 è ancora una buona legge, bisognerebbe solo modificare alcune definizioni. Fu pensata per durare nel tempo, a differenza della 40 (quella sulla fecondazione assistita, ndr), fatta per essere distrutta”.

il Fatto 29.4.10
Se la Chiesa non coinvolge più. Un giovane su due non è cattolico
Il sociologo Garelli: Ratzinger è distaccato e impolitico
di Marco Politi

“La Chiesa di Benedetto XVI è troppo occidentale, si presta poca attenzione al resto del mondo”

Cinque anni dopo il 19 aprile 2005, che segnò l’avvento di Benedetto XVI, un giovane italiano su due respinge la qualifica di cattolico. Segno di crescente disaffezione. Ancora nel 2004 si dichiaravano cristiano-cattolici i due terzi della gioventù. Certo, sono processi di lungo periodo, ma l’indagine realizzata dall’Istituto Iard rivela che il Pontificato di Ratzinger non è riuscito a contrastare l’allontanamento dei giovani dalla Chiesa. E proprio in quell’Italia, che è direttamente sottoposta alla sua giurisdizione pastorale. Anzi, c’è motivo di credere che l’abbia favorito. Il quinquennio passato è quello di una “Chiesa del no” che, sull’onda dei cosiddetti principi non negoziabili stabiliti da Benedetto XVI, ha impedito la riforma delle legge sulla procreazione assistita per consentire ad una madre di non partorire un bimbo già condannato in partenza alla morte, ha combattuto una legge sulle coppie di fatto, ha vietato le unioni gay, ha bloccato l’autodeterminazione del paziente nel testamento biologico. Tematiche a cui le giovani generazioni sono sensibili. Cosa non funziona nel Pontificato ratzingeriano? Franco Garelli, sociologo cattolico che per conto della Cei ha realizzato importanti inchieste sulla religiosità in Italia, preferisce partire da un dato positivo. “Nel caso degli abusi sessuali del clero Benedetto XVI – dice – sta proiettando l’immagine di un capo della Chiesa che vuole fare pulizia, non ha paura di tagli drastici, non demorde e caccia i colpevoli”.
Però questo è solo un aspetto. Nel suo svolgersi il quinquennio ratzingeriano ha mostrato di oscillare in diverse direzioni. Questo Papa, spiega, “genera ammirazione e preoccupazione, governa più con i dossier che attraverso uno spirito collegiale, è il Pontefice della chiarezza dottrinale, della ripresa della memoria e della tradizio-
ne, ma al tempo stesso – enfatizzando l’esclusività della fede cristiana – isola la Chiesa, poiché la propone come portatrice di un’unica verità e non la presenta come ponte verso le altre religioni e i non credenti”.
Non è per fare paragoni astratti con il predecessore, però chi osserva il procedere della Chiesa non può fare a meno di notare che “Wojtyla era un leader carismatico, Ratzinger è più teologo. Wojtyla creava movimento, Ratzinger crea riflessività. In Wojtyla il tradizionalismo era contemperato da segni affettivi, Benedetto XVI è più normativo, definitorio, distaccato. Non produce coinvolgimento o almeno non in maniera maggioritaria”.
Alla fine – a parte la battaglia determinata sulla pedofilia – l’impressione è quella di una Chiesa statica. Con una caratteristica specifica: “Si avverte una debolezza del governo istituzionale, spesso più del consenso prevale l’ossequio”. E soprattutto, questo “è un Papa impolitico”.
Se si chiede a Garelli quali siano i problemi insoluti del Pontificato, ne elenca alcuni: tutti legati al rapporto fra Chiesa e società. “La Chiesa – sostiene – deve affrontare finalmente la questione dei divorziati risposati. Dopo il concilio Vaticano II è impensabile non affrontare questo tema nel mondo contemporaneo”. E’ una cosa, d’altronde, che sanno tutti i parroci. Quelli che più soffrono della proibizione di non prendere la comunione, che vale tassativamente per ogni divorziato risposato (a parte le guasconate di Berlusconi, per il quale c’è sempre si trova sempre un prelato pronto a perdonarlo), sono proprio i cattolici più sinceri e più impegnati nella vita ecclesiale.
Seconda questione, il celibato dei preti. Garelli come tanti altri respinge totalmente ogni connessione tra abusi sessuali e castità richiesta al clero. Il problema non è questo. Si tratta, molto semplicemente, che “il celibato dei sacerdoti deve essere volontario”.
Su un piano più generale il sociologo mette il dito sul vero punto dolente del Pontificato. La mancata riforma dell’assolutismo monarchico della Chiesa cattolica. Riforma che già con Giovanni Paolo II era matura (e la cui assenza era appena mascherata dall’attivismo wojtyliano e dalle novità del suo pontificato) e che con Benedetto XVI si sta manifestando sempre più improcrastinabile. Garelli, non da oggi – e lo fa capire ogni volta che lo invitano a partecipare ai grandi convegni decennali della Chiesa italiana – è un convinto sostenitore della “collegialità”. Cioè della partecipazione dei vescovi al governo della Chiesa universale. E altrettanto convintamente ritiene che il “laicato nella Chiesa deve partecipare davvero alla progettazione della missione pastorale e non servire solo da supporto”.
“La collegialità – sottolinea – ha un valore teologico e sociale. Il cardinale Martini l’ha richiamata spesso come punto qualificante. E’ necessario creare le condizioni affinchè nella Chiesa vi sia circolarità di idee. Bisogna prestare attenzione alle situazioni diverse ed è importante accettare l’unità nella diversità. Così come è necessario spingere i vescovi a riflettere insieme”.
Di pari passo è urgente superare l’“afonia dei laici”, cioè la situazione per cui i fedeli non sono mai consultati e chiamati alla progettazione della nuova evangelizzazione. Colpa, certamente, anche di tanti esponenti cattolici che non aprono bocca, perché “hanno meno coraggio delle generazioni precedenti”, e quindi il laicato cattolico in Italia si presenta sempre “allineato e coperto”. Di fatto clero e alte gerarchie parlano solo loro e i media, a loro volta, prestano attenzione solo a loro.
Eppure dal corpo della Chiesa salgono richieste diverse. “I fedeli – racconta Garelli che tante volte è andato a misurare sul campo il polso del cattolicesimo italiano – chiedono più ascolto e confidenza. Vorrebbero una Chiesa che sappia parlare un linguaggio spirituale più attento alle condizioni di vita e alle ragioni umane. Una Chiesa più in ricerca, capace di accompagnarli nelle loro vicende umane piuttosto che pronunciare verità e definizioni”. E quando non accade? “Se non trovano risposte, si chiudono, tacciono o vanno altrove”.
Certo, non va sottovalutato il segno dei tempi di uno stile di vita dilagante che mira solo ai consumi, alla scalata sociale, all’edonismo. “La cultura televisiva del Grande Fratello – confessa Garelli – depotenzia qualsiasi impegno religioso, politico o culturale, depotenzia destra e sinistra!”.
Gli chiedo, ora che inizia l’anno sesto di Papa Ratzinger, quale sia un altro punto critico del pontificato. Risponde: “Porre il baricentro nell’Occidente e prestare poca attenzione al cattolicesimo mondiale, che si nutre di culture non occidentali”. Intanto dal 2000 al 2008 le vocazioni sacerdotali in Europa sono cadute di un altro 7 per cento.

il Fatto 29.4.10
Pedofilia
Vittime da perdonare

Da quando in qua la vittima violentata ha bisogno di perdono? Domanda spontanea, leggendo sull’Avvenire qualche lettera di chi da bambino fu abusato. Eventi dolorosi, rimossi per anni sotto l’assillo di vergogna e disperazione. Racconti da ascoltare con rispetto. Lettere – almeno finora – incentrate sul gesto di un confessore che ha “salvato” la vittima con la sua comprensione. Ma l’ultimo scritto non può lasciare indifferenti. “Ricevere il perdono e il conforto di quel sacerdote – scrive un lettore – ha fatto sparire un peso che opprimeva la mia anima”. Non si discute lo sfogo di chi è stato ferito. Ma c’è
molto da discutere sul silenzio redazionale. Lasciare persistere, distratti, l’idea che la vittima abbia bisogno di perdono è allucinante. E’ stato così per secoli. Toccava alle donne disonorate o alle vittime stuprate, di ogni sesso, cercare di essere ri-accettate. Quasi mai avveniva. Chiesa e Società, a braccetto, le ricoprivano di colpevolizzazioni. Oggi non è più così. Le vittime hanno alzato la testa. Forse, per essere più chiari, sarebbe ora di pubblicare finalmente sui giornali ecclesiali il racconto di chi ha subìto violenza da un prete e chiede giustizia. E niente più.
m.pol.

l’Unità 29.4.10
Sessantasettemila stipati come bestie
Ma Alfano che fa?
Ogni mese le patrie galere si popolano di 800 nuovi detenuti Rispetto al resto d’Europa mancano le pene alternative Ed il carcere è pieno di persone non ancora «giudicate»
di Mariagrazia Gerina

Pene alternative, addio. Nel 2006 concesse a 40mila detenuti oggi a meno di 10mila
Sciopero della fame. La radicale Bernardini inizia oggi la terza settimana di protesta
Sono fatte per ospitare quarantatremila persone. Attualmente, però, nelle carceri italiane, ci vivono in più di sessantasettemila.
Come? «Ho visto, pochi giorni fa, celle di otto metri quadri, con due letti a castello e una terza branda piegata che i detenuti possono aprire solo la sera per andare a dormire altrimenti nella cella non hanno lo spazio nemmeno per muoversi e questo nel carcere di Pavia che non è certo uno dei peggiori della penisola», racconta Rita Bernardini, radicale e deputata eletta nelle fila del Pd, arrivata ormai al suo quindicesimo giorno di sciopero della fame (oggi) perché governo e parlamento facciano qualcosa per disinnescare la bomba “demografica” che sta facendo esplodere le carceri italiane: 7-800 detenuti in più ogni mese, che, a questo ritmo, entro l’estate supereranno quota 70mila. Sono già 67.452, al 21 aprile, secondo i dati del ministero della Giustizia. Ventiquattromila in più rispetto alla capienza regolamentare. Stipati nelle celle. Con un tasso di suicidi che è il più alto in Europa, il ventiduesimo si è ucciso due giorni fa nel carcere di Teramo.
E chi non si ammazza è comunque costretto a patire una pena aggiuntiva, che nessun giudice ha deciso e nessun parlamento ha previsto. Quella del sovraffollamento. E di un carcere che si riduce sempre più alla sola detenzione in cella. Mancano psicologi, educatori, figure sanitarie. Manca personale per fare qualsiasi cosa. «Richiamare negli istituti di pena gli agenti “imbucati” al ministero della Giustizia» sarebbe un inizio, suggerisce Rita Bernardini, che sferza i sindacati di polizia: «Da tre anni non viene rinnovato il contratto agli agenti penitenziari». Risultato: nel migliore dei casi (vedi Pavia) i detenuti, hanno 4 ore d’aria al giorno più una di socialità e trascorrono in cella le rimanenti 19 ore, ma a Poggio Reale o l’Ucciardone, in cella ci stanno fino a 22 ore. Mentre solo il 15% in media è impiegato in attività lavorative.
La via delle pene alternative negli ultimi anni è stata drammaticamente abbandonata dall’Italia, che già arrancava dietro a paesi come il Regno Unito, che già nel 2007 applicava le pene detentive a 220mila detenuti e riservava il carcere a 87mila detenuti (meno della metà). Nel 2006 quando fu varato l’indulto, i detenuti che scontavano pene alternative al carcere in Italia erano circa 40 mila, oggi non arrivano nemmeno a 10 mila. Cifre che parlano di una «temibile regressione culturale nella concezione della pena», denuncia Luigi Manconi, presidente di «A buon diritto». A testimonianza del pregiudizio che dilaga dietro questi numeri, Manconi cita una recente polemica: «Due ergastolani erano evasi dal permesso premio di Pasqua e, intervistato dal Gr1, il segretario generale del più grande sindacato della polizia penitenziaria a domanda ha risposto che ad evadere dai permessi premio sono un buon 10 per cento. Mentre la cifra è molto più bassa: 0.17%». Altrettanto bassa è la cifra di quanti violano le misure alternative al carcere: oscilla tra lo 0,7 e l’1,15%. «Le misure alternative che vengono date con un’avarizia impressionante per paura dell’opinione pubblica sono una misura efficacissima che ha un tasso di violazione praticamente irrisorio», osserva Manconi, che cita ancora un dato: «La recidiva tra coloro che scontano la pena in cella senza usufruire di sconti o condoni è del 68%, tra coloro che hanno beneficiato dell’indulto è stata del 27,1%».
E intanto il ddl Alfano che se varato potrebbe aprire la strada delle pene alternative a 12mila detenuti, arranca in parlamento. I radicali e il Pd chiedono di modificarlo. Ma se approvato consentirebbe almeno di invertire in extremis la via rovinosa del carcere per tutti praticata in questi anni.

l’Unità 29.4.10
Guardare dentro la famiglia
di Lidia Ravera

Chiunque sia sopravvissuto alla sua infanzia», diceva Flannery O’ Connor, grande narratrice nordamericana del sud, «ha di che scrivere un romanzo«. Era cattolica, appassionatamente credente, eppure lo vedeva, il male annidato nelle relazioni famigliari. La contiguità coatta, la reciproca dipendenza... e quel vedersi da vicino, tutti i giorni, che impedisce di illudersi sulle perfezioni dell’altro. La famiglia, spesso, è il luogo fisico della massima sciatteria relazionale: non ti trucchi e non ti vesti e non cerchi la luce migliore, per cenare con tuo marito. Non ascolti e non parli con i tuoi figli come parli e ascolti un’amica. Non metti in atto strategie seduttive, non dai il meglio di te. Il fatto che i genitori non te li sei scelti, che «ti sono capitati», spinge spesso i giovani a considerare quelli famigliari come rapporti gratuiti, per i quali non c’è bisogno di sforzarsi, di ricambiare favori o di provare gratitudine. Il fatto che i figli sono «tuoi» spinge spesso gli adulti a privilegiarli acriticamente, a esaltarli, a negare difetti e problemi per fare bella figura. Potrei continuare. Il primo gesto politico della mia vita è stato, nel mio liceo occupato, nel 1968, un seminario dal titolo «contro la famiglia». Niente di personale, ma l’ho sempre considerata un «luogo a rischio». Anche in assenza di patologie. Negli ultimi anni, poi, la faticosa normalità cede spesso alla violenza. Dicono che succedeva anche prima, ma adesso se ne parla. Se ne parla, infatti, ma quando è troppo tardi. Quando uomini spaventati dall’affermarsi della libertà femminile usano pugni, calci, coltelli e fucili contro le donne che non li vogliono più. Quando padri, fratelli, mariti esercitano sul corpo di figlie, sorelle, mogli un diritto che non esiste: prendersi un piacere non reciproco. Bisogna guardarci dentro, alla famiglia. Scoprire che cosa contiene. Quali affetti, quali malattie. Senza retorica.

l’Unità 29.4.10
Perché la sinistra fa il tifo per quelli non di sinistra?
di Francesco Piccolo

Un interrogativo che nasce dalla malcelata voglia di alcuni di guardare, per esempio, a Fini come sbocco futuro Ma non sarebbe la prima volta: la stessa cosa è accaduta con Travaglio. Risposte sbagliate al problema Berlusconi

Trascinatori occasionali. Ora c’è un sostegno scomposto per Gianfranco Fini e si dimentica il suo passato
I processi di Berlusconi. Travaglio, che non è di sinistra è un giornalista di grande valore con un’ossessione...
L’effetto. Tutti a parlare di processi, testimonianze, cassazione, prescrizione eccetera eccetera...
Il paradosso. Più importanti le motivazioni del legittimo impedimento che le nefandezze del premier

In un’intervista data al Corriere della Sera di martedì, sono stato un po’ sbrigativo. È colpa mia: non sono bravo a dare interviste, mi immergo in discorsi lunghissimi e complicati e poi mi meraviglio se il giornalista prende il succo e non dà spazio a tutte le motivazioni (che sul Corriere prenderebbero forse lo stesso spazio che veniva concesso a Oriana Fallaci dopo i fatti dell’11 settembre).
Però, insomma, mi sembra che venga fuori che per me uno dei problemi di questo paese sia Marco Travaglio (ipotesi molto suggestiva, tra l’altro, ma non veritiera). Il problema di questo Paese, è bene dirlo una volta per tutte, è Silvio Berlusconi. Da lì, come un detonatore, derivano tutti gli altri. Insisto da tempo col dire che ci sono modi e modi di affrontare questo problema, e che questi modi segnano una diversità tra coloro che compongono la squadra del resto del mondo. E ho indicato, a proposito del tifo scomposto che stiamo facendo per Fini, coloro che non sono di sinistra e ai quali pure la sinistra si è completamente affidata. Ho citato Di Pietro e Grillo, motivando la mia incomprensione. E poi Travaglio, senza motivarla.
Ecco. Ci tengo molto a chiarire questa cosa. Volevo soltanto dire che Travaglio, per la sua storia e anche per sua convinzione più volte espressa, non è di sinistra. E volevo dire che trovo molto curioso che tutto il popolo della sinistra si affidi ormai a persone che di sinistra non sono – e quindi procedono per ragionamenti piuttosto dissimili.
Cerco di fare un esempio: credo, come credono in molti, che Travaglio sia un giornalista di grande livello, per questo motivo mi è sembrato imperdonabile essere sbrigativo; mi ha impressionato, quelle poche volte che ci ho chiacchierato, la sua capacità di tenere a memoria tutti i fatti che accadono a tutti gli italiani con qualche forma di potere; come se li controllasse, tutti. Non credo di dire una cosa azzardata se affermo che la sua ossessione professionale siano i processi, in particolare quelli di Berlusconi. Bene, su questo informa fin nei dettagli nascosti. Molte volte non condivido quello che scrive, più volte non condivido il modo derisorio con cui affronta la questione: sono convinto che chiamare Berlusconi «Al Tappone» crei certo complicità con il lettore, ma allo stesso tempo finisca per neutralizzare una percentuale di informazione seria che sta dando con dovizia di fatti (ma questa è un’opinione, fa parte di un confronto dialettico).
Il grande (nel senso quantitativo) popolo della sinistra che lo segue da anni, un tempo si sarebbe fermato sulla soglia della questione politica come nella sostanza aveva fatto perfino con Craxi, fino alle monetine (comprese): è o non è degno di essere il nostro presidente del Consiglio, di sedere in Parlamento, di svolgere attività pubbliche? La risposta sarebbe stata chiara piuttosto presto, e da lì sarebbe dovuta partire una lotta democratica e tutta politica. Invece, articolo dopo articolo, complicità dopo complicità, il popolo di sinistra ha seguito Travaglio fin nelle sue ossessioni, che per lui sono professionali, ma per i suoi lettori rimangono ossessioni e basta. Il risultato è che adesso tutti parlano di processi, testimonianze, cassazione, prescrizione eccetera. Il risultato è che finisce per avere più importanza la motivazione del legittimo impedimento grazie al quale ogni volta Berlusconi non si presenta in aula, che tutte le questioni politiche di cui si rende colpevole ogni giorno. Non è un problema di Travaglio, ma di quello che la gente di sinistra è disposta a fare; quello che mi preoccupa (e che non mi piace) è ciò che Travaglio rappresenta, non la sua capacità di fare giornalismo. Ed è il risultato, inutile dirlo, del vuoto dentro il quale si trova la sinistra per la politica (non) espressa in tutti questi anni.

mercoledì 28 aprile 2010

l’Unità 28.4.10
Migranti a Rosarno
vent’anni con la schiena dritta
Loro ci hanno insegnato la legalità, ribellandosi ai soprusi quando si facevano cruenti. Prima della rivolta hanno provato con le denunce, sempre snobbati e lasciati in mano alle cosche
di Danilo Chirico

Più questa Italia continua a scacciarli come clandestini, più loro ostinatamente fanno i cittadini. Cittadini onesti, con la schiena dritta e la fiducia – non ricambiata, non sempre – nelle istituzioni. I lavoratori migranti di Rosarno danno ancora una volta il buon esempio, rivendicano i loro diritti, si ribellano allo sfruttamento selvaggio di padroni e caporali, si rivolgono alle forze dell’ordine. Senza nessuna pretesa se non quella di vivere tranquillamente.
Nasce così l’operazione Migrantes che cristallizza quello che tutti sanno – e fingono di non vedere – da almeno venti anni. In quello straordinario pezzo di Calabria, pieno di alberi di arance e mandarini, la storia si ripete almeno dal 1990, come ha svelato il dossier “Arance insanguinate” (a cura di daSud onlus e Stopndrangheta.it) pubblicato lo scorso febbraio. I primi lavoratori ad arrivare nella Piana di Rosarno sono magrebini: la gente li accoglie, ma iniziano anche lo sfruttamento sui campi e si fanno largo i primi episodi di violenza. Minacce, botte, ferimenti a colpi di arma da fuoco. Fino al 1992 quando, scrive nel dossier Alessio Magro, ci sono le prime due vittime: vengono ammazzati due ragazzi algerini di 20 anni, Abdelgani Abid e Sari Mabini. Una scia di violenza che viene arginata nel 1994 (e fino al 2003) quando Rosarno elegge Giuseppe Lavorato, un sindaco che lavora per l’integrazione. Apre le porte del Comune, organizza l’assistenza e la festa dei popoli nella piazza principale del paese. Lavorato, una vita a sinistra, è un sindaco antimafia ed è l’erede della tradizione dei braccianti che occupano le terre negli anni 40 e 50. Capisce che i migranti vivono oggi quello che ai rosarnesi capitava qualche decennio fa. Cerca i punti di contatto tra italiani e africani, i migranti trovano istituzioni credibili, parlano e trovano le loro risposte. A Rosarno si apre una nuova stagione. I lavoratori scrivono una prima lettera al sindaco nel febbraio 1997, poi una seconda il 12 novembre 1999 con la quale dicono basta alla «violenza di ultrarazzismo senza precedenti» e denunciano le congiure messe in atto «24 ore su 24, anche durante il riposo notturno». Appena due giorni prima tre di l0ro sono stati feriti gravemente a colpi di pistola. Scaduto il doppio mandato di Lavorato, a Rosarno si torna indietro. Riemergono tutte le contraddizioni fatte di slanci di solidarietà alternati a episodi di drammatica violenza e di sfruttamento sistematico del lavoro agricolo.
I migranti lavorano perché ne hanno bisogno, ma contestano – inascoltati le loro condizioni di vita disumane. L’Italia intera è colpevolmente distratta o, peggio, alimenta le spinte razziste. In questo contesto, la politica calabrese e le forze sociali dormono incomprensibilmente sonni tranquilli mentre la ‘ndrangheta gestisce indisturbata i suoi affari multimilionari. Fino al 2008, quando un ragazzo ivoriano viene sparato e finisce con la milza spappolata. I migranti non ne possono più, sorprendono tutti, scendono in piazza e sfilano per le strade di Rosarno. Pacificamente, chiedono diritti e giustizia. È la prima rivolta. Sporgono poi denuncia ai carabinieri e ottengono la condanna di un giovane del paese. Non basta. Cambia poco o nulla: stesse condizioni di vita e di lavoro. Soprattutto, stesse violenze.
Sono ancora i migranti a cercare una via d’uscita. Grazie alle loro testimonianze, un’inchiesta della Dia già nel 2009 fa luce su ciò che accade nelle campagne di Rosarno. Il 19 maggio scattano le manette per tre imprenditori italiani e due caporali bulgari: sono accusati di riduzione in schiavitù ed estorsione. È la solita storiaccia: proprietari che sfruttano il lavoro dei migranti, che truffano i lavoratori e soprattutto li minacciano di denuncia alle autorità come clandestini se solo pensano di alzare la testa e protestare. L’ennesimo atto di ribellione è lo scorso gennaio. Il caso Rosarno che finisce sulle prime pagine di mezzo mondo. Gli spari e i ferimenti, la rivolta dei neri e le ritorsioni dei bianchi. La richiesta di protezione da parte dei migranti e lo Stato che non si dimostra alla loro altezza. Li carica sui pullman e li spedisce lontano da Rosarno: «Non possiamo assicurare la vostra sicurezza», si sono sentiti dire gli africani.
Adesso le nuove denunce. I più deboli, i clandestini che fanno i cittadini e offrono una possibilità di riabilitazione al nostro Stato. Fatti che consegnano anche due necessità: riconoscere i diritti ai migranti come unica strategia per il futuro e tenere alta l’attenzione su Rosarno per evitare nuove e inutili tensioni.

l’Unità 28.4.10
Se i «clandestini» denunciano gli sfruttatori
di Anselmo Botte

L ’indagine della procura di Palmi sullo sfruttamento schiavistico dei lavoratori immigrati a Rosarno ci pone degli interrogativi sull’efficacia dei metodi di contrasto del lavoro nero.
Analizziamo nel dettaglio quel che è successo a partire dalla novità più significativa: il sequestro delle venti aziende agricole che hanno utilizzato in modo irregolare i lavoratori immigrati. È una conferma di quanto da anni denunciamo inascoltati: dietro ogni assunzione in nero c’è un datore di lavoro che assume in nero, dietro ogni caporale che governa il mercato delle braccia c’è un imprenditore che si rifiuta di assumere rispettando le ultraflessibili norme che regolano (si fa per dire) il mercato del lavoro in agricoltura.
Un punto fermo è che l’indagine ha avuto un esito positivo grazie alle dichiarazioni di lavoratori immigrati irregolari (”clandestini”, per chi ha più simpatia per questo termine ). Per questi collaboratori della giustizia lo stato ha previsto un permesso di soggiorno per motivi di giustizia; valido per la durata dell’iter processuale e neanche buono per lavorare. Poca cosa. Se la passano peggio i migranti scoperti a lavorare in nero. Per loro ci sarà l’ennesimo decreto di espulsione. E visto che in tanti ne hanno ormai collezionati una infinità, si suppone che continueranno a restare sul territorio nazionale. Non per una loro sorda ostinazione, ma perché di loro la nostra agricoltura ha bisogno. Resteranno quindi in una condizione di irregolarità che sarà impossibile sanare con le nuove disposizioni contenute nel “pacchetto sicurezza” e negli ultimi provvedimenti emanati dopo la sanatoria di settembre. Saranno irregolari per sempre, e per sempre presenti sul nostro territorio. Saranno un’ottima merce per il mercato del lavoro nero e per i loro aguzzini: i caporali. Credo che alla fine tutta l’operazione si tradurrà nel solito intervento repressivo e quindi all’espulsione ipocrita di migranti irregolari. Si continuerà ad ignorare quanto il provvedimento di sequestro delle venti aziende ha confermato: che la presenza dei migranti nel lavoro agricolo, dato ormai strutturale, peserà sempre più nell’immediato futuro. In alcuni comparti, come gli allevamenti, ha ormai sostituito integralmente la forza lavoro locale.
Eppure, nel 2006, con il governo Prodi e con Amato ministro, eravamo vicini ad una soluzione che prevedeva il riconoscimento del permesso di soggiorno a chi denunziava la sua condizione di sfruttamento. Insomma una possibilità di riscatto per quelle migliaia di lavoratori la cui fatica quotidiana nei campi è scandita da ritmi infernali, la misura della paga giornaliera legata al cottimo che ti spezza la schiena e il resto della giornata trascorsa in tuguri senza luce e senza acqua, in compagnia di topi e zanzare. Occorre ripartire da quella proposta, sperando che in questi anni siano maturate le condizioni per metterla in atto.❖

l’Unità 28.4.10
Ferlinghetti: «Non c’è posto per i beat in questo mondo L’Italia? Va verso il fascismo»

I beat? «È come se non fossero mai esistiti. Non si sa neppure cosa siano perchè il tipo di civiltà dominante è tecnocratica, materialista e senza anima, in America come in Europa» In Italia, poi, «c'è uno spostamento verso una nuova ondata di fascismo». Così la pensa Lawrence Ferlinghetti, 91 anni, ultimo superstite della beat generation, primo Poeta Laureato della città di San Francisco (dove 57 anni fa fondò la sua storica libreria, poi casa editrice, «Citylights»)e Commendatore della nostra Repubblica. In Italia per la mostra a lui dedicata, di stanza prima al romano Museo in Trastevere e ora a Reggio Calabria, Ferlinghetti romanziere, drammaturgo, editore, pittore, membro permanente dell'American Academy of Arts and Lettersha re-
cuperato il ritardo nell’arrivo accumulato a causa della nube islandese, non risparmiando dichiarazioni. Obama? «La sinistra in Usa ha pensato che solo il fatto di avere la pelle nera facesse di lui un rivoluzionario. E invece Obama è un centrista e viene dalla borghesia nera». La salvezza dov’è per Ferlinghetti? Nell’arte: «Tutti gli artisti, anche quelli meno bravi dovrebbero essere considerati come fratelli perchè siamo tutti compagni contro questo mostro, la tecnocrazia, e contro questa civiltà priva di emozioni e sentimenti» dice. E l’amico di Allen Ginsberg, l’editore di Howl, aggiunge: «Già dagli anni '50 in America la sinistra ha perso voce, è come se si fosse raggrinzita, non ha megafono. L'unica voce di resistenza è la poesia».❖

il Fatto 28.4.10
Pedofili, incoerenze papali
Contro la pedofilia dei suoi preti, sembra proprio che Ratzinger voglia fare sul serio. Perché allora continua a occultare la verità sul passato e ha messo online un falso?
di Paolo Flores d’Arcais

Contro la pedofilia dei suoi preti, sembra proprio che Papa Benedetto XVI voglia fare sul serio. Perché allora continua a occultare la verità sul passato e ha messo online un falso?
Padre Federico Lombardi, infatti, non agisce di testa propria, è il portavoce della Santa Sede, e inoltre è persona di squisita gentilezza. Se dunque non ha risposte alle “quattro domande cruciali” che con una mia lettera aperta questo giornale gli ha rivolto una settimana fa non è perché non ha voluto, è perché non poteva: non aveva la “licenza de’ superiori”.
Avesse potuto, infatti, avrebbe dovuto confessare quanto segue: la frase chiave “Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte” contenuta nelle famose “linee guida” sulla pedofilia, messe online sul sito ufficiale del Vaticano lunedì 12 aprile, e presentate da padre Lombardi come “disposizioni diramate fin dal 2003” (sito dell’Avvenire, quotidiano della Cei) non risale affatto al 2003 ma è stata coniata nuova di zecca nel weekend del 10-11 aprile. Al responsabile dell’autorevolissima agenzia internazionale “Associated Press”, Victor Simpson, che chiedeva lumi sulla posizione della Chiesa in fatto di pedofilia, padre Lombardi inviava infatti il venerdì 9 aprile un documento in inglese identico a quello messo online il lunedì successivo, tranne la frase chiave di cui sopra, che non compariva. E che perciò è stata partorita durante il weekend.
Come altro si può chiamare in buon italiano una manipolazione del genere se non un “falso” (“falso: non corrispondente al vero in quanto intenzionalmente deformato”, Devoto-Oli)? Perché tutto l’interesse di quel documento si concentrava nella famosa frase chiave, che non a caso è stata sbandierata come la dimostrazione di una volontà della Chiesa – da anni – di collaborare con le autorità civili, rispettandone le leggi anche quando esse impongono a un vescovo di denunciare alla magistratura inquirente il suo prete sospetto di pedofilia.
E’ dunque falso, assolutamente falso, che la Chiesa cattolica gerarchica avesse già nel 2003 fatto obbligo ai suoi vescovi e sacerdoti di “dare seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”. All’epoca era vero, anzi, il tassativo obbligo opposto: tacere assolutamente alle autorità civili, in ottemperanza al “segreto pontificio”, che comporta addirittura un giuramento al silenzio fatto solennemente sui vangeli, la cui formula terribile abbiamo riportato in un precedente articolo (cfr. Il Fatto del 10 aprile).
E’ perciò altrettanto falso quanto ha sostenuto mons. Scicluna nei giorni scorsi, secondo cui “accusare l’attuale pontefice [per quando era cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede] di occultamento è falso e calunnioso (...) in alcuni paesi di cultura giuridica anglosassone, ma anche in Francia, i vescovi, se vengono a conoscenza di reati commessi dai propri sacerdoti al di fuori del sigillo sacramentale della confessione, sono obbligati a denunciarli all’autorità giudiziaria”. Questa non è la dichiarazione di un carneade qualsiasi, perché, come spiega il suo intervistatore Gianni Cardinale “monsignor Charles J. Scicluna è il ‘promotore di giustizia’ della Congregazione per la Dottrina della Fede. In pratica si tratta del pubblico ministero del Tribunale dell’ex sant’Uffizio”. Che l’affermazione di monsignore sia falsa lo prova ad abundantiam la testimonianza dei giorni scorsi del cardinale Dario Castrillon Hoyos, tuttora tra i più stretti collaboratori di Papa Ratzinger, che ha ricordato come fosse stato Giovanni Paolo II in persona a fargli scrivere una lettera di solidarietà e sostegno a un vescovo francese che per il rifiuto a testimoniare contro un suo prete pedofilo era stato condannato a tre mesi con la condizionale. Padre Federico Lombardi ha opposto un “no comment” alle affermazioni (palesemente inoppugnabili) del porporato colombiano, ma ha aggiunto che l’episodio “dimostrava e dimostra l’opportunità della unificazione delle competenze in capo alla Congregazione per la Dottrina della Fede”. Non rendendosi conto che tale “unificazione” avviene nel maggio del 2001, mentre la lettera del cardinale, per volere di Papa Wojtyla, è del settembre dello stesso anno, dunque è successiva, e conferma l’unica interpretazione che di quella “unificazione” si può dare: il più assoluto segreto era assolutamente centralizzato per renderlo ancora più catafratto. Perché perciò tutto questo sabba di menzogne, visto che Benedetto XVI sembra davvero intenzionato a cambiare atteggiamento, e a non occultare più alle autorità secolari i casi di pedofilia ecclesiastica (il vescovo di Bolzano e Bressanone ha inviato in procura le prime denunce)?
Perché scegliendo la Verità dovrebbe riconoscere che il suo predecessore aveva ribadito come dovere sacrosanto l’omertà rispetto a magistrati e polizia, e difficilmente dopo tale ammissione potrebbe elevare Karol Wojtyla all’onore degli altari. Perché dovrebbe confessare Urbi et Orbi che la svolta è di questi giorni, e che egli stesso, come cardinale Prefetto (e in larga misura anche nei primi anni del Pontificato) non ha trovato il coraggio di chiedere coram populo (non sappiamo cosa pensasse in interiore homine) una politica della trasparenza e della denuncia ai tribunali, contribuendo con ciò all’impunità di un numero angoscioso di pedofili, che se prontamente messi in condizione di non nuocere avrebbero risparmiato la via crucis di migliaia di vittime. Perché dovrebbe ammettere che a tutt’oggi il suo portavoce si è prodigato in un lavoro di raffinata disinformacija, e consentirgli (o intimargli: non sappiamo se padre Lombardi soffra per quanto ha dovuto manipolare) di cambiare registro. Perché...

Repubblica 28.4.10
Tutti pazzi allo stesso modo
Un libro denuncia l'omologazione dei disagi psichici
di Massimo Ammaniti

Per gli antropologi la malattia mentale è sempre molto influenzata dalla cultura del luogo
In nome della scienza la psichiatria occidentale impone invece i suoi modelli in tutto il mondo

In una novella del 1922 Stefan Zweig racconta la follia omicida che esplode nelle popolazioni del sud est asiatico, l´Amok, che dà anche il titolo al libro. Come racconta il medico protagonista del racconto: «è più che ebbrezza… è una follia rabbiosa, una specie di idrofobia… un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun´altra intossicazione alcolica». Come l´amok altri disturbi psichici colpiscono gli uomini del sud est asiatico, come ad esempio il koro che comporta la certezza che i genitali si possano ritrarre all´interno del proprio corpo oppure lo zar nel Medio Oriente che provoca la convinzione di essere posseduti dagli spiriti con episodi dissociativi di risa e di grida.
A questo proposito antropologi ed etnopsichiatri hanno ampiamente documentato come le malattie mentali nel loro sviluppo e nella loro espressione siano fortemente influenzate dall´ethos della cultura del luogo, come hanno dimostrato anche gli studi di Ernesto De Martino nel sud dell´Italia secondo cui il disturbo psichico costituirebbe una crisi della "presenza" all´interno della propria cultura. E come le malattie mentali assumono fisionomie diverse nelle varie culture, così possono cambiare nel corso del tempo, ad esempio la grande crisi isterica che si osservava ai tempi di Jean-Martin Charcot in Francia oggi è praticamente assente nella popolazione psichiatrica.
Ma come la globalizzazione influisce sui comportamenti e sui valori collettivi, creando una sorta di omogeneizzazione dei vari gruppi umani, succede la stessa cosa per le malattie mentali? E´ stato da poco pubblicato un libro di un giornalista americano Ethan Watters Crazy like us: The Globalization of the American Psyche ("Pazzi come noi: la globalizzazione della psiche americana"; Free Press, USD 26), che racconta come gli occidentali abbiano diffuso aggressivamente nel mondo modelli e conoscenze psichiatriche ormai da tempo. In nome della scienza si è imposto un modello della malattia mentale che si basa su un´alterazione biologica del cervello e che serve a sconfiggere convinzioni prescientifiche addirittura animistiche, secondo cui la persona affetta da disturbi psichici sarebbe posseduta da spiriti maligni che si sono impadroniti della sua anima. Da una concezione quasi magica o addirittura etica della malattia, considerata come la giusta punizione per dei comportamenti iniqui o disdicevoli, si è passati ad una concezione scientifica che classifica il malessere psicologico attraverso una serie di sintomi, che possono essere riconosciuti con precise procedure valutative.
Watters viaggiando dalla Cina alla Tanzania ha indagato come è avvenuto in questi ultimi decenni il contagio, che come un virus ha piegato le difese antropologiche delle comunità di molte regioni del mondo. E´ quello che è successo in passato con i missionari, ma oggi la penetrazione avviene attraverso altre strade. Un esempio particolarmente emblematico è quello che si è verificato dopo lo tsunami nei paesi del sud est asiatico. Operatori medici e psichiatrici sono intervenuti in queste zone per aiutare le popolazioni portando nuove etichette psichiatriche, come il disturbo post-traumatico da stress per designare le sofferenze psicologiche delle vittime dello tsunami. Non più un´esperienza soggettiva di preoccupazione, di tensione oppure di terrore ma un´etichetta neutrale di un disturbo che spiega tutto e che può essere curato nella maggior parte dei casi con la somministrazione di psicofarmaci. E gli anticorpi naturali della comunità, ossia quell´insieme di comportamenti e di aiuti spontanei che si attivano attorno alle persone in difficoltà da parte di familiari, amici e vicini vengono scoraggiati dalle categorie psichiatriche che affidano agli operatori sanitari la soluzione della sofferenza personale.
Ma le vie di penetrazione possono essere anche più drastiche; come racconta Watters, una delle grandi compagnie farmaceutiche ha tentato di modificare la percezione e la stessa esperienza della depressione nel mondo giapponese attraverso una campagna multimilionaria di marketing. Un´altra osservazione di prima mano sul contagio occidentale è quella di Sing Lee, uno psichiatra dell´Università di Hong Kong, che durante gli anni ´80 e ´90 aveva studiato una forma rara e specifica del mondo cinese di anoressia, che non comportava diete insistenti oppure la paura di diventare grassi. E mentre stava per pubblicare i suoi dati e le sue osservazioni scientifiche avvenne ad Hong Kong un evento che oscurò completamente il lavoro di Sing Lee: un´adolescente anoressica morì per strada in seguito ad un collasso. I giornali che ne diedero la notizia si rifecero ai Manuali Diagnostici occidentali, utilizzando anche il parere di molti psichiatri, che non erano in grado di riconoscere la specificità della sindrome cinese.
Si tratta di un´operazione di "bulldozing" ossia di stravolgimento della psiche umana, che va ben aldilà del disturbo psichico ma che investe la stessa esperienza personale di sofferenza e di conflittualità psicologica. E questa operazione è iniziata negli ultimi 50 anni da parte degli operatori psichiatrici, una sorta di alfabetizzazione medica che ha introdotto una concezione della malattia mentale nella quale il malato non ha una responsabilità personale. Si potrà obiettare che questa concezione scientifica potrebbe sconfiggere lo stigma e la vergogna sociale dal momento che tutto dipende da un´alterazione del cervello.
Uno studio effettuato nell´Università di Auburn non sembra tuttavia confermare che la narrazione medica del disturbo psichico sia più positiva per i familiari rispetto alla narrazione psicologica legata ad eventi traumatici del passato, perché la prima porta con sé la convinzione che nel disturbo psichico ci sia qualcosa di alterato in modo irreversibile e che non può essere sanato in alcun modo. D´altra parte nella storia occidentale si è già percorsa questa strada con lo psichiatra Philippe Pinel, che durante la Rivoluzione Francese liberò i malati mentali dalle catene che li tenevano legati al mondo del crimine e del vagabondaggio per ridare loro il nuovo statuto di malati, ma senza che questo evitasse lo stigma sociale e l´emarginazione.
Le conclusioni di Watters sono piuttosto sconfortanti, c´è il rischio che i modelli psichiatrici importati creino un disorientamento nelle concezioni di sé strettamente legate alla cultura dei luoghi accelerando il disorientamento personale che costituisce il nucleo del malessere psicologico.

Repubblica 28.4.10
Stalin. Gioventù di un dittatore
Il suo migliore amico era uno psicopatico
Simon Sebag Montefiore indaga sull´esilio e le prime attività rivoluzionarie, incendi, rapine, cospirazioni. Ma anche sulle sue doti di cantante. E sulle ossessioni che lo accompagneranno per la vita
di Sandro Viola

Alla fine del 1913 Stalin fu di nuovo esiliato in Siberia, oltre il Circolo polare artico, in un villaggio che si chiamava Kurejca: otto isbe in tutto, e una settantina di abitanti. La notte, i lupi s´avvicinavano al villaggio. E quando Stalin doveva andare nella latrina di fianco alla sua isba, sparava in aria un colpo di fucile per tenerli lontani. L´esiliato Josif Djugashvili aveva all´epoca 35 anni, e veniva da tre lustri d´attività rivoluzionaria. Incendi di uffici pubblici, battaglie di strada contro i cosacchi a cavallo, furti alle banche per finanziare il partito bolscevico, organizzazione di scioperi, arresti e interrogatori da parte dell´Ochrana (la polizia politica zarista), molti mesi nella prigione di Batumi. E un precedente esilio in Siberia, da cui era presto riuscito a fuggire.
A Kurejca stette per qualche settimana in una stessa isba con Jakov Sverdlov, che sarebbe diventato con la rivoluzione d´ottobre, anche prima di Stalin, uno dei massimi esponenti del partito. Poi - Sverdlov non gli andava a genio - affittò una stanza puzzolente nell´isba della famiglia Pereprygin. E lì, passati pochi giorni, si portò a letto la minore delle orfane Pereprygin, Lijdia, che non aveva ancora compiuto i 14 anni. Vestito di pelli di renna dalla testa ai piedi, di giorno (nei quattro mesi scarsi in cui a Kurejka la notte artica cedeva il passo alla luce del sole) Stalin andava a caccia di pernici nella tundra. E a volte veniva attaccato da un branco di lupi, contro i quali - se s´avvicinavano troppo alla sua slitta - doveva sparare altre fucilate.
In questo suo ultimo libro, Il giovane Stalin (pubblicato da Longanesi nell´eccellente collana storica diretta da Sergio Romano, pagg. 554, euro 29), Simon Sebag Montefiore scrive che «i branchi di lupi - i nemici che accerchiavano perennemente la sua casupola siberiana - entrarono nella psiche del dittatore sovietico. Li disegnava sui documenti durante le riunioni, specialmente verso la fine della vita, mentre orchestrava l´ultima campagna del Terrore contro la cosiddetta congiura dei camici bianchi». Il segno che l´ossessione ormai paranoica dei complotti, una "konspiracija" contro la sua vita e il suo potere, lo portava ad accomunare i sospetti avversari politici a "lupi idrofobi".
La memoria dell´esilio siberiano, durato quattro anni, non lo abbandonò mai. Per l´agitatore bolscevico che dai vent´anni in poi non aveva mai smesso di tramare contro le polizie zariste, contro i ricchi petrolieri di Baku (sequestrandoli, o sequestrandone i figli piccoli, per ottenere un riscatto), e contro i dirigenti menscevichi che egli sospettava lo volessero consegnare all´Ochrana, l´inerzia forzata sulle rive d´uno dei più maestosi fiumi russi, l´Enisej, ghiacciato da ottobre a maggio, rappresentò infatti un castigo durissimo. E per questo, più di trent´anni dopo, ancora incancellabile.
A Kurejka, Stalin studiava un po´ d´inglese e di tedesco, e soprattutto scriveva sul problema delle nazionalità, che sarebbe divenuto il suo primo incarico politico quando entrò, dopo la rivoluzione, nel Politburo del partito. La sera partecipava alle festicciole dei giovani del luogo. Cantava bene (da giovanissimo, a cavallo dei suoi anni di seminario in Georgia, aveva anche guadagnato qualche soldo cantando ai matrimoni), e beveva molta vodka senza ubriacarsi. Intanto era divenuto padre, perché Lijdia aveva partorito un bambino. E quando pochi mesi dopo il bambino morì, Lijdia era a 15 anni di nuovo incinta d´una bambina, uno dei vari figli illegittimi che Stalin si lasciò alle spalle prima di divenire il capo indiscusso della Russia sovietica.
L´esilio al Circolo polare durò sino al ´17, quando le autorità zariste, di fronte alle continue diserzioni dei soldati al fronte, decisero di arruolare tutti gli oppositori inviati al confino. Ma Stalin non finì sotto le armi. Lo Stato zarista si stava disfacendo, nessuno pensava più di controllare cosa facessero gli ex esiliati. E lui raggiunse subito Pietrogrado, dove il governo provvisorio già barcollava sotto i colpi delle masse bolsceviche, e s´installò con gli altri capi del partito allo Smolnij, che era stato il collegio delle ragazze nobili.
Nel partito era conosciuto soprattutto per la sua attività di finanziatore clandestino. Innumerevoli erano state infatti le sue rapine alle banche, culminate nell´attacco del 1907, con bombe e fucileria, alla banca di Tbilisi, che fruttò in valori attuali poco meno di quattro milioni di dollari. Il danaro ricavato dalle rapine e dai sequestri andava interamente alla dirigenza bolscevica, e in parecchi casi nelle stesse mani di Lenin. Quanto a Stalin, egli continuava a condurre una vita misera e sempre gravida di rischi. Una sola volta - tornava da un congresso bolscevico a Londra - gli amici georgiani lo videro ben vestito: «un completo grigio scuro e un bel cappello gli davano un´aria europea che non aveva mai avuto».
Come il suo libro precedente, Gli uomini di Stalin, in cui rievocava le cene notturne al Cremlino negli anni del Terrore - la trivialità dei discorsi e dei lazzi, il grande consumo di alcolici -, anche Il giovane Stalin sorprende il lettore per la novità e abbondanza delle fonti (rinvenute negli archivi di Mosca, San Pietroburgo, Tbilisi, Gori, Baku, Batumi, Berlino, Londra, Parigi) e il talento narrativo dell´autore. Ecco gli anni del seminario di Tbilisi, dove l´adolescente Djugashvili divora i testi marxisti durante le funzioni religiose, la Bibbia sul banco e Marx sulle ginocchia. Gli scontri anche fisici con i monaci, la cacciata dal seminario, i legami con altri adolescenti ribelli, il più ardito e sanguinario dei quali, Kamo, è uno psicopatico, un pazzo. Poi, man mano, la vita dell´agitatore politico (in parte I demoni di Dostoevskij, in parte i romanzi di Jack London), che lo porterà nelle file del partito bolscevico aprendogli la strada del potere.
Benché piccolo di statura, il viso butterato dal vaiolo, con un braccio e le due gambe in parte impediti per essere finito sotto un carro da adolescente, Stalin piaceva alle donne. Della sua abilità nel canto, s´è detto: ma Soso, come si faceva chiamare da ventenne Djugashvili, sapeva anche ballare molto bene, scriveva poesie ispirate ai poeti romantici georgiani, e in più aveva l´aura dell´indomabile rivoluzionario. Donne ne ebbe quindi a sazietà. Senza amarne nessuna, tuttavia, salvo nel 1902 la sua prima moglie, Kato Semenovna Svanidze, che «per gli standard georgiani», scrive Sebag Montefiore, «era una donna istruita, emancipata, socialmente superiore a Stalin». E quando questi, decenni più tardi, ne parlò con la figlia Svetlana, disse che Kato «era molto dolce e bellissima, così che sciolse il mio cuore». Alla sua morte nel 1907,infatti,i parenti dovettero trattenere Soso che tentava di buttarsi nella fossa dove i becchini stavano calando la bara di Kato.
Il libro di Sebag Montefiore si ferma al 1917, agli inizi del potere bolscevico, quando si forma la triade Lenin-Trotskij-Stalin. Ma nelle ultime pagine, in forma d´epilogo, ci sono le giornate del tiranno, ormai prossimo alla morte, nella villa in Georgia sulla costa del Mar nero, la residenza che amava di più. Lì, «il vecchio Soso, sfinito da cinquant´anni di cospirazioni, da trenta di governo e cinque di guerra», convocava i suoi anziani amici di Gori e del seminario. Cibo e vini georgiani sui tavoli del giardino, e soprattutto ricordi. «La fede nella violenza, la vendicatività, l´assenza di pietà ed empatia» che avevano marcato l´intera vita di Stalin, sembravano essersi dissolte. Curava le rose, giocava a biliardo, leggeva sulla veranda, stappava le bottiglie di vino all´arrivo degli ospiti. E tentava di ritrovare, conversando con i suoi coetanei, il po´ di buono, di non sanguinario, che c´era stato all´inizio della sua vita.