sabato 19 novembre 2011

l’Unità 19.11.11
Indagine dell’Arci sui giovani immigrati in Italia dalla nascita o da molti anni. Le loro risposte
Il peggio accade sui mezzi pubblici: «Lì i cittadini danno il peggio, ci guardano come ladri»
Il razzismo raccontato dalla seconda generazione «Insultati e discriminati»
Sentinelle dell’integrazione, i giovani immigrati raccontano un razzismo all’italiana, che si manifesta a scuola come sul lavoro, al Nord come al Sud. Oggi in tutta Italia la raccolta firme per la legge di cittadinanza.
di Mariagrazia Gerina


«Appena ti avvicini sui mezzi ti guardano male, forse pensano che vuoi rubargli qualche cosa», racconta Luana, 21 anni, brasiliana di Milano. «Ad una fermata un vecchietto mi ha chiamata: “straniera di merda”», le fa eco Sonia, 21 anni anche lei, egiziana di Messina: «Però mi dà fastidio fino a un certo punto». «I bambini italiani a volte dicono che noi stranieri puzziamo», riferisce, dall’alto dei suoi 15 anni M., messinese venuto dalla Cina. Ragazzi di seconda generazione si raccontano. E le loro storie di discriminazione quotidiana, raccolte dall’indagine Arci-Unar Spunti di Vista, diventano uno specchio del paese che «non ha ancora pienamente accettato il suo ruolo di terra di immigrazione». E allora discrimina. Un razzismo all’italiana, che si manifesta a scuola come al lavoro. Sul treno, come alla fermata dell’autobus. Al Nord, come al Sud.
Il luogo dove più di ogni altro si manifesta la banalità della discriminazione sono proprio i mezzi pubblici. Le due città prese a campione, Milano e Messina, su questo concordano. La metà circa degli intervistati (quasi 500 ragazzi di seconda generazione, nati in Italia o arrivati da piccoli, ma anche giovani immigrati) conferma che è soprattutto sui mezzi pubblici che gli italiani sfogano i peggiori istinti.
NEL LABIRINTO ITALIA
Subito dopo, però, viene la questura. Molti, in attesa che il paese in cui vivono o sono nati riconosca loro la cittadinanza, raccontano le «attese fuori dall’edificio» sotto la calura o al gelo, i rinvii da un appuntamento all’altro, la mancanza di spiegazioni. E poi i documenti, chiesti per strada «solo perché sei straniero». A Messina, dove la maggior parte dei ragazzi è arrivata per ricongiugersi alla famiglia, si fa sentire di più la precarietà lavorativa, a Milano, dove sono di più i ragazzi arrivati per lavorare, quella “giuridica” di chi fatica ad avere il permesso di soggiorno. Anche i luoghi di svago marcano una differenza: a Messina il 49% li indica come spazi di discriminazione, a Milano solo il 16%. Ma il dato più preoccupante riguarda la scuola. Il 29% degli intervistati, a Milano come a Messina, la indica come teatro di discriminazioni personalmente subite. «Alle medie ero trattato come un pirla del terzo mondo, che non poteva imparare un ca...», racconta A., 16 anni, nigeriano di Milano. «Non ti metto la sufficienza perché sei straniera», si è sentita dire dalla prof di storia Maria, di origine albanese: «Alla fine la preside l’ha cacciata».
Ragazzi che si sentono «guardati male». Insultati: «schiavo», «straniera di merda». Che si sono visti lanciare sassi, tirare dietro bottiglie. E che quando diventano un po’ più grandi si vedono discriminati anche sul lavoro. Mai pagato o pagato meno che ai colleghi italiani: «Tanto voi siete già poveri». Alcuni hanno interiorizzato lo schema . «Posso capire che si sentano minacciati e abbiano paura che prendiamo il loro lavoro», dice Sonia, 21 anni, messinese di origine egiziana. «Non è razzismo, forse è fare attenzione», si lancia in ipotesi Lux, che invece vive a Milano, raccontando di quelle signore che «quando ti vedono con la faccia scura, si tengono la borsa più stretta». Microstorie del paese visto dai ragazzi «G2», sentinelle dell’integrazione. Alcuni di loro hanno anche preso anche in mano la telecamera. Ne è nato un lungometraggio. Si intitola «Libera tutti». Prodotto dall’Arci che oggi organizza una nuova giornata di raccolta firme per il riconoscimento della cittadinanza ai giovani G2 e del voto amminsitrativo.

La Stampa 19.11.11
Porti il burqa? Non puoi vivere in Italia
di Giovanna Zincone


La Carta dei valori ribadisce la pari dignità e l’uguaglianza di diritti della donna e il divieto di coercizione: chi non li accetta non può avere il permesso di soggiorno
I treni superveloci devono fare poche fermate e stare attenti anche alle piccole sbandate. L’osservazione si applica ovviamente al governo Monti. Deve evitare di perdere tempo su questioni marginali e spinose. Purtroppo non sempre potrà scegliere, perché dalla società civile, dal Parlamento, dalla magistratura qualche problema minore, qualche sasso sulle rotaie gli verrà piazzato. È utile che sia pronto a toglierlo di mezzo senza sbandare, senza abbracciare posizioni partigiane, un governo di larghe intese non può permetterselo.
Faccio un esempio di questioni oggi non in cima all’agenda politica, ma destinate a creare qualche fastidioso inciampo. Il velo islamico che fascia solo la testa è stato recentemente bandito da un tribunale torinese. Un testo base, approvato in Commissione e in arrivo in aula prima della caduta del governo Berlusconi, si occupava di vietare altri abbigliamenti: il niqab che copre tutto il corpo lasciando libera una fessura per gli occhi e il burqa che cela con una retina anche quella rischiosa fonte di ammiccamenti. È bene non confondere le due questioni: foulard e burqa non sono la stessa cosa. Equiparandolo al velo delle suore, due circolari nel 1995 e nel 2000 hanno esplicitamente consentito il foulard. Il solo articolo 129 del codice di procedura civile a cui si è appigliato il puntiglioso giudice subalpino continua a pretendere il capo scoperto nelle aule dei tribunali. Tuttavia non solo suore, ma anche carabinieri ed ebrei con la kippà non hanno mai subito questa ingiunzione. Del caso si occuperà il Consiglio Superiore della Magistratura. Speriamo che dia il buon esempio: il velo è già abbastanza diffuso e una sua superficiale repressione può creare seri problemi. Quanto al burqa e al niqab, partiamo da una constatazione di fatto: quante donne totalmente velate si vedono in giro? Anche in futuro è improbabile che frotte di involucri neri emigrino in luoghi abitati da impudiche cristiane. Non siamo dunque di fronte a un’emergenza, ma c’è chi si diverte a inventarne di finte anche quando ce ne sono fin troppe di vere. Perciò è meglio affrontare tempestivamente la questione con un approccio morbido. E questo invita a ragionare di tolleranza.
Tollerare significa consentire idee e comportamenti che non piacciono per niente. Questo principio cardine dei regimi liberali è una virtù difficile da praticare. D’altra parte, uno Stato che accetti solo credenze e pratiche gradite alla maggioranza si può forse definire democratico (se si regge sul libero consenso), ma non certo liberale. I regimi liberali sono dunque obbligati ad un’estrema pazienza, che però non è infinita. Anche i fautori della tolleranza mettono dei paletti.
Locke giustificava l’esclusione dei cattolici prevista dal Toleration Act del 1689 perché questi, più leali al Papa che alla Corona, erano possibili alleati di potenze straniere. Qui il paletto era la sicurezza dello Stato. Un altro illustre maestro della tolleranza, John Stuart Mill, ne ha piantato un altro: non provocare danni a terzi. Teorici piuttosto generosi della tolleranza non accettano neppure danni a carico di membri della stessa minoranza. Il principio è stato applicato nelle sentenze che hanno costretto Testimoni di Geova ad accettare trasfusioni necessarie alla sopravvivenza o al benessere dei figli. Libertà delle minoranze e vincoli sono iscritti in Convenzioni e Costituzioni, ma questo non risolve i conflitti. La loro interpretazione non è univoca e muta nel tempo. Le decisioni pratiche su dove piazzare i paletti restano quindi opinabili.
Anche oggi in Italia chi vuole vietare e chi vuole consentire il velo integrale si basa su valide motivazioni e su norme in vigore. I primi propongono di estendere alle coperture di origine etnica il divieto che già riguarda caschi e passamontagna, quando rendono difficoltosa l’identificazione. A rinforzare questa ragione di ordine pubblico torna la tesi di Locke: indossare niqab e burqa indica un’appartenenza a comunità potenzialmente sleali. Inoltre chi vuole metterli al bando rileva una forte lesione della parità di genere.
D’altra parte, chi vuole tollerarli si rifà al principio di Mill, quando osserva che non producono danni a terzi. A differenza di chi si copre il volto durante le manifestazioni per poter indulgere in azioni violente, nella velatura totale delle donne manca l’intenzione di nuocere, né è stata mai utilizzata di fatto allo scopo (almeno in Occidente). I critici del progetto di legge restrittivo sostengono, inoltre, che il danno che deriverebbe alle donne dal divieto sarebbe ben più grave di quello originato dal velo integrale: resterebbero recluse in casa. I contrari fanno pure osservare che, se è vero che Francia e Belgio hanno di recente messo al bando burqa e niqab, la Gran Bretagna si ostina a non farlo perché lo considera un divieto, secondo le dichiarazioni del ministro Greene, unbritish, cioè non consono alle tradizioni liberali del Paese. Le ragioni pro e contro appaiono dunque bilanciate e i riferimenti a principi e norme fondamentali insufficienti a dipanare la matassa. Se cerchiamo una soluzione di compromesso dobbiamo spostarci su un altro terreno e in un altro territorio.
Teorie della tolleranza più avanzate suggeriscono di evitare imposizioni. Meglio ricercare il dialogo, strategia ritenuta possibile dal momento che tutte le religioni contengono qualche principio liberale e di tutela della dignità femminile. Basterebbe farli emergere e lavorarci su per trovare una base comune, l’overlapping consensus, le aree di sovrapposizione dei valori di cui parla Rawls. L’invito al dialogo viene oggi dal presidente dell’Ucoii, la principale associazione musulmana. È forse la via da seguire per coloro che già risiedono stabilmente in Italia. In generale, purtroppo, la ricetta del dialogo per essere praticata richiede una condizione fondamentale: che la distanza culturale tra i dialoganti non sia abissale. Se invece l’abisso esiste, che fare? Reprimerli, se si tratta di abitanti stabili, costituisce un trauma sia per chi subisce il divieto, sia per lo Stato liberale che lo impone. Meglio traslocare il problema al momento del rilascio del permesso di soggiorno.
A torto o a ragione sempre più spesso i Paesi d’immigrazione cercano di anticipare le politiche d’integrazione, selezionando soggetti ipoteticamente più integrabili. Si tratta di una tecnica spesso inefficace e talvolta persino lesiva dei diritti umani, ma in questo caso potrebbe funzionare: se non troviamo un accordo sul fissare o meno il paletto burqa entro le nostre frontiere, proviamo a spostarlo fuori. È già in vigore in Italia l’Accordo di Integrazione in base al quale il permesso di soggiorno viene concesso solo a chi accetta la Carta dei valori condivisi, una carta elaborata nel 2007 su sollecitazione di Giuliano Amato, allora ministro dell’Interno. Tra i valori citati dalla carta si ribadisce in più punti la pari dignità e l’uguaglianza di diritti della donna dentro e fuori della famiglia, e il divieto di coercizione in tutti gli ambiti. Mi pare chiaro che chi imponga o indossi burqa e niqab dimostra di non accettare questi valori della carta, e quindi non possa ottenere un permesso di soggiorno. Non vedo come questa constatazione possa dividere destra e sinistra. Non reprime nulla, pone semplicemente una condizione che si può consapevolmente accettare o respingere. Basta dunque renderla più esplicita, come si è fatto con la poligamia.

Corriere della Sera 19.11.11
Profughi ignoti
La storia degli albanesi spariti nel Canale d'Otranto In un libro la richiesta insoddisfatta di giustizia
di Corrado Stajano


Alle 18,57 del 28 marzo 1997 una motovedetta albanese, la «Kater i Rades», fu speronata nel Canale di Otranto da una corvetta della Marina militare italiana, la Sibilla. Ottantuno i morti, ventiquattro i dispersi, trentaquattro i salvati. Chi lo ricorda più, nell'ecatombe che in questi anni ha riempito il Mediterraneo di cadaveri, migranti fuggiti negli anni Novanta dall'Albania e nel nuovo secolo dall'Africa e dall'Asia, per sfuggire alla fame e alle persecuzioni politiche? Sarebbero diciottomila i morti nel tentativo di raggiungere l'Europa. Ma sono probabilmente di più perché i conteggi sono approssimativi, gli Stati fanno di tutto per minimizzare quel che succede, o per enfatizzarlo, se fa politicamente comodo, l'Europa non ha affrontato il problema nella sua gravità e l'Italia, antico paese di emigranti, ha promulgato leggi inadeguate, razziste, prive non solo di umanità, ma di senso comune.
Perché dunque dedicare un libro, Il naufragio (Feltrinelli), a quel dramma di quattordici anni fa? L'ha scritto Alessandro Leogrande, autore di narrazioni di grande impegno che dovrebbero far capire a tanti scrittori alla ricerca di ispirazione, presi dal fascino delle loro storie condominiali, come la realtà, per chi sa raccontarla, è davvero una madre prolifica.
Quel che accadde nel pomeriggio del Venerdì Santo 1997 nel Canale di Otranto, mentre a Taranto era in corso la processione dei Misteri, coi penitenti scalzi e incappucciati che portano sulle spalle le statue di legno della Via Crucis, fa da tragico simbolo a tanti altri fatti accaduti, più gravi — il DC 9 dell'Itavia, il 27 giugno 1980 — o forse ancora più vergognosi, nel Canale di Sicilia, il giorno di Natale del 1996, quando trecento clandestini muoiono per l'affondamento di una «carretta del mare», nel più assoluto silenzio delle autorità, rotto, anche in quel caso, da un bel libro, I fantasmi di Portopalo, di Giovanni Maria Bellu.
Perché la catastrofe della «Kater» è, come scrive Leogrande, «una pietra di paragone» su quanto continua ad accadere, e il problema degli immigrati non trova una soluzione giuridica e politica. E anche perché quel naufragio coinvolge gli stati e la società, la giustizia, la Marina militare, la legge del mare e quella semplicemente umana.
Che cosa è dunque successo quel Venerdì Santo del 1997?
Una motovedetta albanese senza bandiera, in pessimo stato, venti metri di lunghezza, cinquantasei tonnellate, un solo motore, dodici nodi di velocità, parte da Valona con centoventi persone a bordo che hanno pagato ognuna a trafficanti di mestiere dal mezzo milione al milione di lire di allora. La motovedetta avrebbe potuto per lo più imbarcare una ventina di passeggeri e invece è stracolma di donne e di bambini ammucchiati in tre piccole cabine sottocoperta, gli uomini sul ponte, quasi come nel film di Gianni Amelio, «Lamerica». L'Italia è un miraggio, le nostre tv hanno propagandato la bella vita, i lustrini dell'esistenza, i nani e le ballerine. Leogrande inquadra il suo racconto-verità: fa capire le ragioni della fuga, dopo la folle dittatura di Hoxha, il caos del regime di Sali Berisha, la guerra civile, il disordine, la miseria.
La motovedetta «Kater» si imbatte un'ora e mezzo dopo la partenza nella mastodontica fregata «Zeffiro». Poi, all'orizzonte, spunta un'altra nave italiana, la corvetta «Sibilla», ottantasette metri di lunghezza, velocità ventiquattro nodi, 1285 tonnellate, pluriarmata. C'è poco da fuggire per la «Kater», la sua velocità è minore della metà di quella della Sibilla.
La parola chiave, essenziale per comprendere la politica nei confronti dei battelli clandestini, è Harassment: intimazione e disturbo con «azioni cinematiche et di interposizione». In che modo non è chiaro.
La «Kater» viene dunque inseguita, sempre più da vicino. Gli albanesi, spaventati, levano anche una specie di bandiera bianca, ma la «Sibilla» è sempre più addosso. Poi il tremendo urto sulla fiancata destra della «Kater», che affonda rapidamente. Leogrande racconta con una scrittura chiara la tragedia. Ha ascoltato i superstiti, i familiari dei morti, i testimoni avvicinabili, ha visto i luoghi, ha studiato i documenti, ha seguito i processi.
La narrazione appassionata del disastro, minuziosamente documentata, appare persino paradossale. Nel mare di Otranto, quel pomeriggio, navigano dieci navi italiane e tre ammiragli di grado elevato sono affannosamente impegnati sulla sorte della piccola corvetta albanese. Una guerra, sono pronti anche i marinai della San Marco.
I capitoli più emozionanti e dolorosi del libro sono quelli che ricostruiscono il pomeriggio degli ammiragli, i loro ordini, la loro ansia. Manca un vertice responsabile, non esiste un coordinamento tra il comando della squadra navale a Nord di Roma e l'Ammiragliato di Taranto. Le competenze sono ambigue, come le leggi e i regolamenti.
Ai processi, poi, si potrà verificare lo scaricabarile di cui restano vittime i più deboli, il cumulo di bugie, l'intralcio alla giustizia, l'incapacità di uno Stato di processare se stesso. La tesi della Marina attribuisce ogni colpa alla «Kater» che, inseguita, avrebbe fatto una manovra suicida virando contro la «Sibilla». I brogliacci, per prudenza, sono stati depurati, mancano gli appunti presi nei minuti della tragedia, le bobine delle comunicazioni radio sono state ritoccate — non c'è nulla tra le 18,32 e le 18,57 —, un filmato di pochi minuti si interrompe proprio prima dell'impatto.
Ma come sempre in Italia ci sono anche gli altri. Il capitano di corvetta Angelo Luca Fusco, della base di Taranto, che ha ricevuto l'ordine per «un'azione più decisa finanche quasi a toccare il bersaglio», si ribella, in nome della verità. Tra «la nausea e la paura» racconta al pubblico ministero Leonardo Leone de Castris tutto quanto ha visto e sentito.
Il magistrato sobbalza e avvia l'azione penale. Difficile perché mancano le prove materiali. Sarà condannato, in primo e in secondo grado, il più incolpevole, il comandante della corvetta «Sibilla» che ha ubbidito solo agli ordini ricevuti e il timoniere della «Kater», Namik Xhaferi.
Il capitano di corvetta Angelo Luca Fusco non ha fatto carriera.

Corriere della Sera 19.11.11
Il sogno delle «Meriche» che ha cambiato l'Italia
Trionfi e dolori degli emigranti in Argentina, Brasile e Usa
di Gian Antonio Stella


«Una notte la sentii gemere, sudava freddo, tremava; cercai di scaldarla e tenermela vicino, ma all'improvviso smise di tremare. Era morta. Morta. Forse perché non c'erano medicine, forse perché il medico non c'era; non so. Forse aveva preso una febbre mortale. Me la strapparono dalle braccia, la fasciarono stretta stretta da capo a piedi e le legarono una grossa pietra al collo; di notte, alle due di notte, con quelle onde così nere, la calarono giù, in mare. Io urlavo, urlavo, non volevo staccarmi da lei, volevo annegare con la mia piccola… Quel tonfo in acqua, non posso dimenticarlo».
Amalia Pasin, che nel 1923 partì per il Brasile e avrebbe raccontato la sua tragedia a Francesca Massarotto Raouik, non poteva immaginare che tante altre donne avrebbero rivissuto il suo strazio sui barconi diretti verso l'Italia che lei aveva lasciato. Come la giovane liberiana che nel 2004 raccontò la sua storia alla «Mobile» di Siracusa: «Eravamo imbarcati da un paio di giorni. Alla partenza, in Libia, ci avevano fatto portare solo una bottiglia d'acqua a testa. La sete, la fame, il sole. Un inferno che si è portato via il mio unico figlio, un maschietto di un anno. È stato tra i primi a morire. Non c'è stato niente da fare. Io e mio marito lo abbiamo sollevato e adagiato in mare…».
I dolori dell'una e l'altra madre e di tanti uomini e donne partiti in cerca di fortuna e finiti a «campar d'angoscia in lidi ignoti», per dirla con Edmondo De Amicis, solo celebrati finalmente da un grande museo italiano.
Nella scia del successo della mostra «La Merica!» sui viaggi da Genova a New York dal 1892 al 1914, anni dell'emorragia migratoria italiana, il MuMa, il Museo del mare e della navigazione di Genova ha aperto il MeM, «Memorie e Migrazioni».
Un percorso straordinario, che si apre con la ricostruzione di una stamberga come quelle descritte dalla commissione parlamentare di Stefano Jacini: «Nelle valli delle Alpi e degli Appennini, ed anche nelle pianure, specialmente dell'Italia meridionale, e perfino in alcune province fra le meglio coltivate dell'Alta Italia, sorgono tuguri ove in un'unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame».
Dalla «Merica», raccontano lettere che un affascinante gioco elettronico permette di aprire, leggere e ascoltare, arrivavano notizie di fortune stupefacenti, mangiate pantagrueliche… Le contrade, scrisse padre Pietro Maldotti, erano battute da ciarlatani che tuonavano «intorno alle ricchezze straordinarie, alle fortune colossali preparate a coloro che si fossero diretti in America». Come potevano non sognare di andarsene? Vendevano tutto, mettevano poche cose in un fagotto e partivano.
Prima tappa, per quanti sognavano le Americhe e venivano dal centro-nord: Genova. Dove andavano a ficcarsi, scrisse «Il Caffaro», in locande spesso «oscure e fetenti con letti di una sporcizia inaudita». Nella piazzetta Vittorio Emanuele ricostruita al MeM, rivive grazie a un attore Gerolamo Caselli, il padrone dell'Albergo del Nuovo Porto, chiuso nell'aprile del 1894 perché, dice il rapporto delle guardie sanitarie, aveva la licenza per tenere 29 ospiti ma ne aveva 134 «coricati per terra e in camere mancanti d'aria e latrine guaste piene d'escrementi umani».
«Gli emigranti fecero la fortuna di molti genovesi — spiega Pierangelo Campodonico, il curatore del museo — Dagli albergatori ai bottegai, dagli agenti di viaggio agli armatori, che sparagnini avevano continuato a insistere sui velieri quando già gli altri puntavano sul vapore e solo grazie al traffico di "tonnellate umane" ebbero la possibilità di riconvertire le loro flotte».
Superato il posto di controllo col «tuo» passaporto utile a ricostruire attraverso giochi multimediali le storie di una ventina di emigranti realmente vissuti (gente comune o celebre come Rodolfo Guglielmi alias Rodolfo Valentino), al MeM ci puoi salire su una di quelle navi, «La città di Torino». Sederti in una camerata di terza classe ricostruita in ogni dettaglio. Dare un'occhiata all'infermeria. Guardare il mare scorrere dagli oblò. E sbarcare infine in tre delle principali destinazioni degli italiani.
La prima è una capanna di una fazenda brasiliana, dove i nostri contadini («se proprio non è dotato di una grande sveglianza d'ingegno o se manca completamente d'istruzione», diceva una relazione consolare parlando del veneto, «è però laborioso, sobrio, onesto, tranquillo») furono importati a sostituire i neri dopo la fine della schiavitù. La seconda è un vicolo della Boca di Buenos Aires, dove i liguri di Varazze costruirono le prime casupole col legno delle barche dismesse dai colori sgargianti. La terza è Ellis Island, dove chi visita il museo può affrontare i famigerati test di intelligenza che costarono cari a tanti nostri nonni: il puzzle, il «Cubo di Knox», le prove di lettura dagli stampati originali che falciavano gli analfabeti. Metteva spavento, Ellis Island. Bastava poco per essere ributtati indietro. Come successe a Lorenzo di Renzo, che dopo essere stato respinto, scrive l'italiano Edoardo Corsi, negli anni Trenta direttore del centro di selezione, «disse ai compagni che avrebbe voluto morire piuttosto che ritornare in Italia dopo le promesse che avrebbe avuto successo in America. Dopo aver detto così premette il grilletto e pose fine alla sua vita».
La visita al MeM è un bellissimo viaggio multimediale attraverso i sogni, le angosce, i successi, i lutti dei nostri nonni. Rivissuti dai protagonisti dell'ultima sezione, gli immigrati che da una quarantina di anni (è solo nel 1976 che gli immigrati sono uno in più degli emigranti) vengono a cercare fortuna da noi. Un passaggio naturale e insieme scioccante, che non piacerà a chi cocciutamente rifiuta ogni parallelo ma del tutto naturale e obbligatorio. È una barca, il cuore di questa sezione. Una barca vera, vecchia e sgangherata, portata qui dopo un delirio burocratico («Ne siamo usciti solo grazie alla nostra testardaggine», dice Maria Paola Profumo, presidente del MuMa) da Lampedusa dove aveva deposto il suo carico di umanità ammaccata e sognante. Il giusto suggello per legare la «loro» migrazione alla nostra, unite dalle stesse speranze, le stesse fatiche, le stesse tragedie. Come ricorda il «gioco» più affascinante che chiude il percorso museale: la cabina di un piroscafo dove il visitatore può mettersi alla ruota del timone e pilotare la nave, grazie alla simulazione di enormi schermi digitali, rivivendo l'ingresso nel porto di New York, il passaggio di Gibilterra, lo scontro con l'iceberg del Titanic, il tragico affondamento del Sirio sugli scogli di capo Palos. Quello ricordato in una canzone struggente: «E da Genova il Sirio partivano / per l'America, varcare, varcare i confin / Ed a bordo cantar si sentivano / tutti allegri del suo, del suo destin / Urtò il Sirio un orribile scoglio / di tanta gente la misera fin…».

l’Unità 19.11.11
Il museo dei naufraghi dimenticati
Ieri gli italiani stipati sui bastimenti, oggi i clandestini sulle carrette della speranza. Quindicimila morti negli ultimi anni. Non lasciano ricordi ma relitti che Genova ora ha raccolto in un museo
di Claudio Fava


Tra i furti di memoria ci sono la vita e la morte dei quindicimila immigrati (probabilmente molti di più... ) precipitati in fondo al Mediterraneo in questi anni di traversate a nuoto, di barche di cartapesta, di schiavisti e di becchini. Viaggi in mare che hanno spesso ridotto le speranze in disperazione trasformando quel braccio d’acqua che separa la Sicilia dall’Africa nella più grande fossa comune a cielo aperto. Quindicimila ma la cifra, ripetiamo, è abbozzata per difetto vissuti e crepati senza lasciare traccia. Adesso un primo segno di quelle storie si potrà ritrovare a Genova, al Galata Museo del Mare che ospita da ieri la mostra Memoria e migrazioni, il racconto dell’immigrazione italiana sui bastimenti (ventinove milioni d’italiani che presero la via delle Americhe) e di quella straniera, cominciata nell’estate di molti anni fa con l’arrivo di ventimila albanesi nel porto di Bari, stipati come chiodi su un mercantile arrugginito, e tutti accolti a casa nostra, in una reazione d’umanità e di buon senso di cui s’è persa ormai ogni memoria.
Dal 1994 a oggi si calcola che siano arrivati in Italia, su canotti e barconi, almeno 350mila persone. Di questo esodo da decine di paesi d’Africa e d’Asia fino a ieri non restava traccia né notizia: partiti, annegati, sbarcati, espulsi, accolti... Comunque sia andata, sono tutti destini smarriti. Destini che l’esposizione di Genova tenta di ricostruire, recuperando e mostrando certi dettagli materiali, come la zattera su cui l’11 febbraio scorso sbarcarono a Lampedusa undici poveracci dopo sei giorni di navigazione delle coste della Libia. La prefettura di Agrigento, con zelo burocratico, voleva rottamarla: adesso è nel museo del mare e racconta, come solo i relitti sanno fare, cosa furono quei giorni, quanta tenacia e quanto dolore contennero.
La mostra di Genova prova a rimediare a un furto di memoria che, negli anni, è diventato un furto di identità. Ancora adesso in Tunisia, in Marocco, in Libia ci sono migliaia di famiglie che non hanno mai ricevuto notizia dalla loro gente partita per l’Italia: non sanno se siano mai arrivati vivi e poi si siano smarriti in quella nuova vita, se siamo morti in mare, se si siano semplicemente dimenticati di far sapere di loro. Non esiste un’anagrafe dei morti, dei dispersi, dei caduti in mare. Nessuno ha pensato di recuperare e conservare nomi e volti di quelle donne, di quei padri, di quei bambini, tutti militi ignoti, scomparsi senza nemmeno concedere la consolazione del lutto alle loro famiglie.
Certo, non saranno alcuni relitti o alcune foto a restituirci per intero questa memoria. Ma almeno ci dicono quanta violenza ci sia in quella parola, clandestini, che doveva indicare solo uno status giuridico e ha finito per raccontare il modo silenzioso, clandestino, con cui i migranti hanno attraversato la soglia tra la vita e la morte, risparmiandoci perfino il turbamento che quei quindicimila corpi umani avrebbero preteso da noi.
Non so quanto durerà il governo del professor Monti, e nemmeno se nel profilo tecnico e istituzionale che s’è dato ci sarà posto per qualcosa in più d’una correzione ai conti dello Stato. La settimana scorsa ricordavamo il debito di verità che l’Italia ha accumulato in questi vent’anni, e che dovrebbe essere un naturale impegno di qualsiasi governo affrontare e risolvere. Ma la verità è parola lieve, troppo astratta per stare nel programma d’un nuovo esecutivo. Invece l’immigrazione, la sorte dovuta alle migliaia di forestieri che cercheranno nell’Italia il diritto a una speranza, la risposta che questo paese darà a ciascuno di loro, tutto questo è un tema più tangibile. Forse il puntiglio con cui il governo Berlusconi-Maroni ha considerato la fuga dalle guerre civili nel Maghreb solo una pratica d’ordine pubblico che andava evasa alla svelta con norme e procedure più punitive, oggi andrebbe corretto. I centri di detenzione in cui sono stati trasformati i vecchi Cpt e la pratica diffusa dei respingimenti collettivi meritano se non una menzione nelle dichiarazioni programmatiche almeno un gesto che ponga rimedio.
C’è un buon ministro, Riccardi, che all’ascolto di quei popoli e alla sofferenza di quei luoghi ha dedicato, con la comunità di Sant’Egidio, molti anni del proprio lavoro. Sarebbe bello se andasse a Genova, come primo atto del suo nuovo mestiere, a rendere omaggio a quel relitto su cui hanno attraversato il Mediterraneo.

l’Unità 19.11.11
Il leader Pd invita Monti a non essere timido sui grandi patrimoni
Sfida a Pdl e Lega: «Non scaricate sul governo le vostre colpe»
Bersani: sì senza paletti «Ma le nostre idee restano in campo»
Il segretario Pd: «Vi sosterremo lealmente», ma il Pd lo farà difendendo «con orgoglio» le proprie idee. Come la patrimoniale e la legge sulla cittadinanza. Insorge la Lega, applausi da Pd-Idv Terzo Polo.
di Maria Zegarelli


L’Aula semivuota ma sempre chiassosa durante le dichiarazioni di voto si ripopola quando è il turno di Pier Luigi Bersani e Angelino Alfano, i segretari dei due partiti maggiori. Saranno i loro discorsi lo snodo politico di questa giornata di fiducia bulgara senza precedenti ad un governo che non conosce precedenti nella sua formulazione. Il segretario Pd parla a Monti, al suo elettorato, alla Lega e al Pdl: questa non è una grande coalizione, ci sono partiti distanti e differenti che appoggiano questo governo restando distanti e differenti. Sfida leghisti (che sperano dall’opposizione di risalire la china dei sondaggi) e piedillini sul terreno del confronto parlamentare in questa inedita stagione politica. Conferma il sostegno leale, «senza paletti» a Monti e senza rinunciare «alle nostre idee».
NESSUNA TIMIDEZZA
Il Pd gioca una partita delicatissima in uno scenario in continua evoluzione e Bersani chiarisce che non starà a bordo campo: «Anche oggi lei ha dimostrato dice rivolgendosi al “premier professore” di non avere timidezze e questo ci fa molto piacere e così come non ne ha avute nominando le pensioni, sono sicuro che, qualora venisse il caso, non ne avrebbe neanche per nominare, per esempio, i grandi patrimoni immobiliari». Sintomi di orticaria nel Pdl, rumors dalla Lega. Eppure è questo il terreno del confronto tra i due po-
li: patrimoniale, Ici, pensioni, riforme istituzionali. È su questi temi che si gioca la durata del governo e se il Pd ha condiviso «in larghissima parte» il discorso di Monti al Senato, ne ha apprezzato, «lo stile» e «senza giri di parole» oggi annuncia una fiducia «senza asticelle, senza paletti, senza termini temporali» è pur vero che non rinuncerà a «suggerire» le proprie ricette.
Bersani rivendica il suo ruolo e quello del suo partito: hanno lavorato affinché «la svolta ci fosse» e un nuovo governo potesse nascere, «lo abbiamo fatto con onestà» e ora l’impegno è quello di «tutelarlo» verso «chiunque volesse scaricare su di esso responsabilità che non ha». Si rivolge al capogruppo padano Reguzzoni (ma vale anche per il Pdl): «Mi auguro che non sia così, perché se così fosse sia chiaro che noi non stiamo zitti, perché loro sono lì da un giorno, noi siamo qui da tre anni, vi abbiamo visto all’opera negli ultimi otto anni su dieci e conosciamo la colla dei manifesti».
Governo di «impegno nazionale», come lo chiama il premier, non vuol dire grande coalizione e se qualcuno deciderà di far saltare il tavolo allora se ne dovrà assumere la responsabilità. Non sarà il Pd, dice il segretario: «Vi sosterremo lealmente e lo faremo però con l’orgoglio della nostre idee, con la bussola delle nostre idee». Nessuna richiesta di miracoli, quanto piuttosto di sobrietà, «verità e fiducia perché la fiducia nasce solo dalla verità», dice tra gli applausi dei suoi e i volti tirati dell’ex maggioranza. Ci vuole fiducia, ma la vera «ricostruzione democratica e sociale» ha una strada obbligata: «La spinta di una grande consultazione popolare». E ci si dovrà arrivare avendo fatto quelle riforme su impulso del governo e per iniziativa parlamentare» sui «temi elettorali, istituzionali, della sobrietà e della politica» in grado di riportare l’Italia al «suo posto in Europa con la dignità di un Paese fondatore».
Bersani ripercorre buona parte della piattaforma programmatica del Pd per dire cosa crescita: diseguaglianze sociali e territoriali, dequalificazione, declassamento del lavoro e della conoscenza, eccesso di precarizzazione, rendite amorfe, posizioni di rendite corporative, pletora della pubblica amministrazione, la sottovalutazione dei temi ambientali. Non è crescita l’egoismo sociale, la vergognosa infedeltà fiscale. «Basta con l’egoismo sociale», dice tra gli applausi del suo gruppo, del Terzo Polo e dell’Idv. «Il Pd non metterà condizioni, ma non ne accetterà» e stavolta «chi è stato disturbato di meno deve essere disturbato di più». Insofferenza nel Pdl, sollevazione tra i padani quando il leader Pd ricorda ai «cari leghisti» che c’è una legge che si potrebbe approvare subito. Quella sulla cittadinanza, che riguarda migliaia di figli di immigrati che pagano le tasse, parlano italiano ma non sono italiani. «Non possiamo parlare solo alle tasche degli italiani, dobbiamo parlare anche al cuore degli italiani e al nostro stesso cuore, che si è addormentato dopo la vostra cura». Urla leghiste e disorientamento quando Bersani cita la svolta degli ultimi dieci giorni: «Non so in quanti altri posti al mondo, in analoghe condizioni, compresi i paesi che ci fanno la lezione, sarebbe stato possibile tutto questo. Questo significa che alla fine siamo italiani e ancora in grado di stupire». La Lega fraintende, grida «elezioni, elezioni». Impassibile il premierprofessore. Non si stupisce. È abituato agli schiamazzi in aula.

Repubblica 19.11.11
Bersani e Casini sigillano il patto "Fiducia piena, ricuciamo il Paese"
Il leader pd avvisa la Lega: non scaricherete le vostre colpe
di Giovanna Casadio


Il leader dell´Udc: "Non ci possiamo più nascondere dietro Berlusconi" Di Pietro: "Fiducia sì, ma vogliamo vedere i fatti"

ROMA - Fa il giro di Facebook. Diventa una specie di nuovo tormentone del vocabolario bersaniano. È l´affondo del segretario del Pd nell´aula di Montecitorio contro la Lega, durante la dichiarazione di fiducia al governo Monti. Bersani si rivolge al capogruppo lumbàrd: «Sia chiaro, caro Reguzzoni, vi abbiamo visto all´opera negli ultimi 8 anni su 10, conosciamo la colla dei manifesti... «. Significa: vi conosciamo bene, niente trucchetti. «Noi tuteleremo il governo - prosegue - lo difenderemo da chiunque voglia scaricare su di lui colpe che non ha». E a Monti: «Vi sosterremo lealmente ma con l´orgoglio delle nostre idee». Le idee democratiche sono presto dette, a partire da quell´invito al neo premier sulla patrimoniale: «Lei non ha avuto timidezze, presidente. Ci fa piacere, e come non ne ha avute sulle pensioni siamo sicuri che non ne avrà neppure per nominare i grandi patrimoni immobiliari».
Il Pd e il Terzo Polo confermano la fiducia e il sostegno senza paletti, asticelle, limiti temporali. Casini, il leader dell´Udc, scandisce in aula: «Ci siamo nascosti tutti dietro Berlusconi, ora niente alibi, la storia è destinata a cambiare, non vogliamo mettere nessuna spada di Damocle sulla testa del governo. Ricuciamo il paese, dobbiamo trovare un minimo denominatore per le riforme condivise». L´appello alla responsabilità vale per l´oggi e prefigura il domani: «Nasceranno o meno in questo anno e mezzo - aggiunge - alleanze politiche e matureranno sintonie». A vedere l´avvio di questa Terza Repubblica, l´asse è tra Pd e Terzo Polo. Mentre Di Pietro si smarca. Idv vota la fiducia ma vuole vedere i fatti e l´ex pm incalza: «Ministro Guardasigilli, lei ha tutte le carte in regola, ma farà da spalle alle richieste di Berlusconi sulle intercettazioni? Lei, ministro Passera, i pochi soldi che avrà li spenderà per fare il Ponte sullo Stretto o per difendere il territorio che sta letteralmente franando?». Ne ha anche per Clini, il ministro dell´Ambiente: «Non trovava niente di meglio da fare che andare a "Un giorno da pecora" a dire che vuole il nucleare?».
Tuttavia in aula la bagarre esplode durante il discorso di Bersani. I leghisti scandiscono "elezioni, elezioni". Il segretario del Pd vede realizzata una speranza («Bene molto bene professor Monti, che noi riprendiamo il nostro posto tra i primi tre paesi dell´Europa»); si augura la fine dell´egoismo sociale («Se resta un euro la spenda per i servizi ai disabili; chi ha di più deve dare di più»). Sempre rivolto al Carroccio: «Cari leghisti abbiamo centinaia di migliaia di figli di immigrati che pagano le tasse, vanno a scuola e che non sono né immigrati né italiani, non sanno chi sono». La morale del leader democratico è che «non possiamo parlare solo alle tasche degli italiani, ma anche al cuore, che si è addormentato dopo la vostra cura». Standing ovation delle opposizioni per Bersani; e contestazioni dagli scranni del centrodestra quando conclude: «In 10 giorni abbiamo cambiato universo, questo vuol dire che siamo italiani e siamo ancora in condizioni di stupire, solo se abbiamo fiducia in noi stessi». Su twitter Dario Franceschini, il capogruppo Pd, scrive: «8-18 novembre "I dieci giorni che sconvolsero il mondo". Ci siamo ispirati a John Reed». Si apre il dibattito sulla cittadinanza ai bambini immigrati. Su twitter Roberto Rao, udc, indica la distinzione tra ius soli e ius sanguinis. Andrea Sarubbi, pd, autore della proposta di legge bipartisan, ne accenna a Monti. Sono norme scritte con la Comunità di Sant´Egidio, fondata da Andrea Riccardi, neo ministro all´Integrazione.

l’Unità 19.11.11
Fare riforme col Pdl non può diventare la nostra identità
Sosteniamo l’esecutivo con le nostre idee Ma sapendo che non è il governo del Pd
di Stefano Fassina


Grazie all’appassionata e magistrale regia del Presidente Napolitano, l’Italia, portata sull’orlo del baratro da un ventennio di populismo dai tratti eversivi, ha incominciato a girare una triste pagina della sua storia e si avvia a una ricostruzione non solo economica, ma morale, civile e democratica. Consapevole della fase, il Pd ha votato in modo convinto la fiducia al governo Monti. Il senso politico del nostro voto è stato indicato dal segretario Bersani ieri alla Camera: «Vi sosterremo lealmente e lo faremo però con l’orgoglio delle nostre idee, con la bussola delle nostre idee».
Ecco il punto politico: la bussola delle nostre idee deve orientare la rischiosissima, ma decisiva, rotta del Pd a sostegno del governo Monti. Per navigare dobbiamo ricordare che questo non può essere e non è il governo del Pd. Il governo Monti è il «governo di impegno nazionale», sostenuto da forze politiche alternative per riferimenti valoriali, paradigmi culturali, interessi materiali rappresentati e, quindi, soluzioni programmatiche. L’alternatività, dentro una cornice costituzionale condivisa, è sostanza etica della politica. L’emergenza non cancella la natura politica delle scelte. Anzi. Nessuna soluzione ai problemi della polis è tecnica. L’estraneità dei protagonisti del governo Monti al circuito politico è condizione fondamentale per individuare soluzioni bilanciate per impatto sugli interessi rappresentati dalle forze politiche. I tecnici sono stati chiamati in quanto estranei al circuito dei partiti, non in quanto portatori di verità oggettive e di soluzioni necessitate prive di dimensione politica. Insomma, l’identità programmatica del Pd non può coincidere con il programma di un governo sostenuto da una forza politica radicalmente alternativa al Pd. L’identità programmatica del Pd non si può definire pienamente all’interno dei confini del paradigma liberale, pur declinato nella versione illuminata dell’economia sociale di mercato. Il Pd, per adempiere al suo compito storico di valorizzazione della persona che lavora, deve avere il coraggio etico e intellettuale di andare oltre. In una fase sempre più difficile per l’area euro, in quanto segnata dal «trionfo delle idee fallite» (Paul Krugman), dovremmo leggere le riflessioni comuni a tutte le forze politiche e sociali progressiste europee. Quanti considerano i partiti di matrice socialista pezzi da museo, dovrebbero prestare attenzione alle ripetute e non improvvisate riflessioni della chiesa cattolica.
Ad esempio, per meglio valutare le scelte da fare sul lavoro, sarebbe utile ricordare un passaggio della recente nota del Pontificio consiglio della giustizia e della pace, redatta per il G20 di Cannes: «Per interpretare con lucidità l’attuale nuova questione sociale, occorre senz’altro evitare l’errore, figlio dell’ideologia neo-liberista, di ritenere che i problemi da affrontare siano di ordine esclusivamente tecnico. Come tali, essi sfuggirebbero alla necessità di discernimento e di una valutazione di tipo etico. (...) La chiusura a un oltre, inteso come un di più di rispetto alla tecnica, non solo rende impossibile trovare soluzioni adeguate per i problemi, ma impoverisce sempre più, sul piano materiale e morale, le vittime della crisi».
In conclusione, è anzitutto il bilancio del trentennio alle nostre spalle, la consapevolezza dei drammatici squilibri sociali e una visione aperta della storia e della politica a richiedere autonomia culturale al Pd nel sostegno leale e responsabile al governo Monti. È la ricostruzione della fiducia dei cittadini, in particolare delle generazioni più giovani, nella politica e nelle istituzioni della nostra sfibrata democrazia a imporre al Pd di essere responsabile senza smarrire la propria identità programmatica.

il Fatto 19.11.11
Anche la Cgil va in pace: salta la manifestazione del 3 dicembre


L’apprezzamento espresso dalla Cgil nei confronti di Monti ha come prima conseguenza l'annullamento della manifestazione nazionale già convocata dal sindacato per il prossimo 3 dicembre. Per quella data era prevista una convocazione importante in piazza San Giovanni a Roma che, nell'ipotesi iniziale della Cgil, doveva essere riempita nuovamente dal movimento sindacale dopo i fatti del 15 ottobre. E invece dietrofront, la manifestazione è annullata e al suo posto ci sarà l'assemblea nazionale dei delegati e delle delegate al Palalottomatica (il palazzetto dello sport di Roma). Un appuntamento da 15 mila persone, assicura la Cgil, molto al di sotto dello sforzo organizzativo previsto per la piazza. La rimodulazione della giornata del 3 dicembre è ovviamente legata all'attesa per le prime mosse del nuovo governo a cui, in ogni caso, la Cgil ha dato il via libera dopo l'iniziale incertezza e la propensione per le elezioni anticipate. Nel giorno del suo discorso al Senato, infatti, dalla sede di Corso Italia è giunto l'apprezzamento per il nuovo presidente del Consiglio, per il suo "forte senso delle istituzioni" e per “il senso di una inversione di tendenza rispetto all'impostazione del governo precedente”. La Cgil non si appiattirà certamente su Monti anche se sul nodo pensioni è già avviata una discussione per un accordo con la nuova ministra Elsa Fornero a partire dalla richiesta di considerare l'introduzione del sistema contributivo per tutti. Qualcuno in Cgil dice che già nel 1995, all'epoca della riforma Dini, se n'era parlato e quindi se ne può discutere. Più difficile il nodo dell'articolo 18; la Cgil non potrà avallare una riforma dello Statuto dei lavoratori e avrà difficoltà a digerire due tipologie contrattuali diverse nella stessa aziende, almeno senza garanzie certe sulla riduzione della precarietà. Maggiore disponibilità, invece, c'è sulla riforma degli ammortizzatori sociali. La Cgil, in ogni caso, insiste sulla necessità di una patrimoniale sulle grandi ricchezze (mentre non gradisce l'Ici) per avere “una base più solida di equità, su cui fondare un nuovo patto di cittadinanza”.

il Fatto 19.11.11
Al Pd rimane un solo nemico: la Lega
di Wanda Marra


“Anch’io oggi ho parlato a lungo con il ministro del Welfare”. È ancora in corso il voto di fiducia e Cesare Damiano, seduto su un divanetto della Camera, raccoglie le forze. Sa di avere davanti a sé un momento “molto complicato”. L’altroieri Pietro Ichino in Senato si muoveva praticamente come ministro in pectore. E Damiano (che il ministro del Lavoro l’ha fatto) ribadisce che le posizioni del governo non andranno nella direzione voluta da Ichino (grande flessibilità all’entrata e possibilità di licenziare nei primi anni, con tutele che crescono nel tempo). “Quelle posizioni sono minoranza nel partito. L’articolo 18 non si tocca. Dovremo ragionare, lavorare”. Come? “Lo vedremo, renderemo più caro il lavoro flessibile”, dice senza sbottonarsi. Però, rivendica antiche conoscenze con la Fornero: “Il ministro sta ascoltando tutti. E io la conosco benissimo: siamo stati compagni di scuola, a Torino”.
La questione lavoro, comunque, proietta una nuvola nera sul Pd nel giorno della fiducia. Anche perché, Stefano Fassina, responsabile Economia e fedelissimo di Bersani rappresenta invece l’ala ultra-radicale del partito. Piaccia o no, per cambiarlo ci vorrebbe un congresso. Spiega Matteo Orfini, anche lui in segreteria, a proposito degli “ichiniani”: “Sanno di non essere maggioranza nel partito, e vogliono far passare l’idea che l’appoggio al governo significa che la linea del governo è quella del Pd”. Lo sa bene anche Pier Luigi Bersani che ieri in aula ha fatto un intervento pieno di orgoglio: “Noi nonpretenderemomaididettarvi i compiti e neanche ci aspettiamo che voi facciate, su tutto, quello che faremmo noi; vi sosterremo lealmente, ma con la bussola delle nostre idee”. Non a caso, però, non ha mai citato la parola lavoro. Piuttosto ha scelto di puntare sull’immigrazione. Almeno in questo caso, il nemico è chiaro. Ieri la Lega di lotta e di opposizione ha esordito a pieno titolo nel nome del federalismo, ma anche dei risparmiatori, dei lavoratori, delle imprese (il capogruppo Reguzzoni ha tuonato invocando “un'Europa dei popoli e non dei finanzieri”) e della difesa degli italiani contro gli immigrati (“Mi dispiace di aver sentito oggi, al primo punto dell'esposizione del capogruppo del Pd, il diritto di cittadinanza per gli immigrati”). “Cari leghisti, vi dico dove ci avete portato con un esempio solo: abbiamo centinaia di migliaia di figli di immigrati che pagano le tasse e lavorano, che stanno andando a scuola, che parlano l'italiano e che non sono né immigrati né italiani, non sanno chi sono”. Una cosa di sinistra anche se Casini tra un abbraccio a Berlusconi e un richiamo alla “pacificazione nazionale” che fa tanto statista, ha tirato fuori una lettura che sospettano in molti: “È finita l’epoca degli ideologismi. Destra, sinistra e centro non sono più rappresentativi di nulla”.
ANTONIO Di Pietro, invece, è andato sul concreto. Esordendo come partito di governo nel segno del controllo: “fiducia non in bianco”. E dunque: il ministro dell'Ambiente “non trovava niente di meglio da fare che dire che ci vogliono le centrali nucleari? ” Passera? “Verificheremo come si comporterà”. E che dire delle perplessità di un ministro della Giustizia sulle “intercettazioni telefoniche e l'uso dei pentiti? ”. Mentre inizia il voto, i Democratici Giovanna Melandri e Andrea Orlando non perdono tempo e vanno a parlare con Monti. Sono andati a chiedergli di occuparsi dell’alluvione in Liguria, ma l’immagine è proprio quella di due parlamentari in atteggiamento richiedente rispetto al “loro” premier. Facile per Vendola marcare il territorio come unico partito di sinistra e non di governo: “Sono deluso”.

il Riformista 19.11.11
Dove porta la svolta
L’incertezza, la democrazia
di Emanuele Macaluso


Silvio Berlusconi, imitando Giuliano Ferrara, ha detto che «la democrazia è stata sospesa» e trascura il fatto che lui, votando il governo, frutto «velenoso» di quella sospensione, contribuisce in modo determinante a spegnere la luce della democrazia.
Se il suo Pdl avesse deciso di non votare il governo Monti, il presidente della Repubblica avrebbe dovuto sciogliere le Camere e indire le elezioni. O il Cavaliere ha, forse, deciso di votare per il governo perché temeva che una parte consistente del suo Pdl non avrebbe ubbidito e molti deputati e senatori avrebbero sostenuto Monti? Berlusconi continua a bluffare sostenendo che solo lui può staccare, quando vuole, la spina al governo. Non è vero: la sua è una pistola scarica perché ancora una volta la decisione è nelle mani dei parlamentari, anche di quelli che sono, per più motivi, contro le elezioni.
Ho fatto questa premessa per dire che un Berlusconi che si presenta ancora come padrone del suo Pdl non consentirà a questo aggregato di diventare un partito con un gruppo dirigente frutto di una vera democrazia interna e non di nominati dal padrone, e con una politica non subordinata agli interessi privati e personali di Berlusconi.
Attenzione, non ho la pretesa sciocca di suggerire l’emarginazione di Berlusconi, il quale ha fondato il Pdl, ed è stato per tanti anni presidente del Consiglio e leader riconosciuto del centro destra. La mia domanda è rivolta a chi ha interesse politico a costruire in Italia una destra europea, e chiedo se l’attuale ruolo di padre-padrone che esercita Berlusconi nel Pdl sia compatibile con questo obiettivo.
Sollevo la questione perché il sistema politico italiano non è più quello della prima Repubblica e nemmeno quello che abbiamo visto nella seconda; c’è un vuoto, un’incertezza sul futuro della democrazia italiana, e una frantumazione che può anche accentuarsi. Sul terreno più squisitamente politico, la separazione tra il Pdl e la Lega non può non riflettersi nel modo d’essere dei due partiti e nel sistema politico. Su un altro versante, il Pdl e il Pd debbono prendere atto del fatto che in questi mesi il Centro è cresciuto, non solo per il fatto che in quello spazio politico si è collocato il partito di Fini e la piccola formazione di Rutelli, ma sul terreno politico.
La crisi del Pdl, le difficoltà in cui opera il Pd, e il rinnovato impegno del mondo cattolico nell’agone politico, allargano lo spazio del Centro. Come si riorganizzeranno queste forze non è ancora chiaro. Ma il fatto c’è.
Queste considerazioni mi servono per dire che la presenza di questo governo e i mesi che ci separano dalla fine della legislatura, possono consentire a tutte le forze politiche di riorganizzare se stesse e di ripensare al sistema politico che può assicurare al meglio lo sviluppo della democrazia italiana. E in questo quadro che i partiti dovrebbero discutere serenamente la riforma della legge elettorale. Parole al vento? Spero di no.

il Riformista 19.11.11
Giulio Giorello
Tutti ai remi con Keynes e Dylan Dog
di Cinzia Leone


Il filosofo della scienza e matematico Giulio Giorello, con l’aiuto di paradigmi scientifici, e dei personaggi dei fumetti, ci aiuta a decodificare la crisi.
Mikey Mouse è l’eroe popolare della crisi del ‘29. Per quella del 2011?
In un Dylan Dog del 2009, un piccolo errore provoca il fallimento di un’azienda e, a catena, il crollo dei mercati. È lui l’eroe di questa crisi. Ha a che fare con incubi e paure, è sempre in procinto di essere sfrattato, gli pignorano il clarinetto e il suo assistente si chia-
ma Marx: anche se Groucho e non Karl. Profetico.
La crisi un concetto filosofico: ha una ricetta?
Keynesiana. Dopo tanto liberismo strombazzato, e non praticato, stile Chicago boys, bisogna cambiare. Ridurre gli sprechi e investire nell’ambiente e nei servizi sociali. E nella cultura. Soprattutto quella tecnico scientifica: la linfa vi-
tale del paese. Nella cultura greca, ma anche in quella cinese: crisi vuol dire anche opportunità, ma bisogna avere l’intelligenza di saperla cogliere. Auguri al collega universitario Mario Monti: prudente, intelligente e equilibrato.
Cosa se n’è va con Berlusconi, e cosa arriva con Monti?
Con Berlusconi, se n’è andato Berlusconi. Ed è già tanto. Insieme pressappochismo, ignoranza e volgarità. Con Monti ritornano, mi auguro, sobrietà e cultura. Non è una condanna totale dell’ex maggioranza: ma è interesse di una sinistra intelligente avere una destra decente.
I professori, meglio dei politici?
Quando si entra in un governo si diventa un politico comunque. In una rivoluzione che voleva essere culturale come quella cinese, alcuni capi erano della classe colta come il raffinatissimo ex mandarino Chou En-lai. Al contrario dei cinesi di Mao, alcuni politici pensano che la cultura sia una perdita di tempo.
Per affrontare la crisi, meglio le élites?
Il precedente era forse un governo popolare? Espresso dal popolo, certo, ma il popolo può anche sbagliare. Adolf Hitler, quel pittore fallito che Brecht chiamava l’“imbianchino”, è andato al potere democraticamente. La Thatcher, eletta con regole democratiche, ha dato duri colpi alla libertà britannica e perseguitato i patrioti irlandesi. Se elegge un governante inadeguato, il popolo che lo ha scelto ne è duramente responsabile.
Siamo diventati post-democratici?
Se è accaduto, non si tratta della malattia, ma del sintomo. La malattia è una democrazia reale sempre meno adeguata agli ideali della tradizione liberal-democratica. Basta pensare alle tendenze autoritarie nella comunicazione di massa, alla condizione delle carceri (onore a Marco Pannella che se ne occupa) e al degrado dell’assistenza sanitaria: persino in Lombardia, dove sarebbe il fiore all’occhiello della regione a sentire il governatore.
Il modello post-democratico contagierà altri paesi?
Le regole della nostra democrazia hanno funzionato perfettamente: il garante dell’operazione Monti è stato il presidente della Repubblica. Una manovra? Non è la prima. Stiamo cercando di uscire da una crisi economica e dal crollo della credibilità di quella che ormai si chiama la “casta”.
Se l’economia è una scienza esatta, perché siamo messi così male?
Non lo è. E nemmeno la fisica e la matematica applicata. Usiamo approssimazioni continue: in economia una piccola diversità dell’input porta a output diversi, e un solo piccolo errore può provocare un cambiamento dei mercati. Come diceva Lenin: «Una scintilla può incendiare una prateria».
Regole, previsioni e margine di errore: validi anche per il clima politico?
Pascal diceva che «se il naso di Cleopatra fosse stato un po’ più corto sarebbe cambiata la storia». E se Cesare avesse guardato prima le suppliche, tra le quali c’era una che lo avvertiva dell’attentato, chissà... Disse «le guardo dopo», ma non c’è stato un dopo.
Tutta colpa della globalizzazione...
Qualunque globalizzazione comporta una crisi. Il cristianesimo ha prodotto una globalizzazione che ha messo in crisi l’impero romano. In un momento delicato per la geopolitica del mediterraneo, l’Italia sarebbe l’interlocutore naturale delle nuove élites dei paesi arabo-islamici: giuristi sottili, storici della scienza, scrittori sontuosi e femministe coraggiose con cui interagire. Un errore gravissimo aver sbattuto in faccia alla Turchia la porta dell’Europa. Con la Turchia, in passato, Francia e Inghilterra hanno costruito politiche di alleanza, o di non belligeranza. E Venezia e la spregiudicata repubblica di Genova, legata alla Spagna della Controriforma, hanno flirtato con la “sublime porta”.
Una risposta autarchica alla crisi globalizzata?
L’Inghilterra senza l’euro si illude, ma se salta l’economia europea a Londra non se la passeranno così bene. Ciascuno deve fare la propria parte: le istituzioni e la società civile. Non come i due vogatori del famoso apologo filosofico di Hume: ambedue si rifiutano di remare pensando che debba farlo l’altro. Ragionano in modo simmetrico ma così la barca rimane ferma. Bisogna remare tutti.
È una crisi o passaggio epocale?
Lo diranno i posteri: meglio ancora i postumi. Come disse Chou En-lai quando gli chiesero cosa ne pensava di Mao: «Un po’ presto per dare un giudizio, stiamo cominciando adesso a capire qualcosa di come è andata la rivoluzione francese». La penso come lui.
Il dio mercato è il vitello d’oro di fine secolo?
Gesù scacciò a frustate i mercanti dal tempio. E Mosè quando trovò il suo popolo in adorazione del vitello d’oro, ne uccise uno su tre. Quelli del vitello d’oro se la videro molto ma molto brutta.

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il Riformista 19.11.11
Borsino
L’indice azionario delle anime del Pd
Su Letta e Veltroni. Giù i bersaniani
di Ettore Maria Colombo


Facile, ma non semplice, compilare il “chi sale, chi scende” rispetto al governo Monti, dentro il Pd.
Chi sale. Enrico Letta e i lettiani. «Mario, quando vuoi dimmi forme e modi con cui posso esserti utile dall’esterno. Bersani mi chiede di interagire sulla questione dei vice. I miracoli esistono!». Recita così il bigliettino che il vicesegretario del Pd voleva far recapitare in via del tutto privata e confidenziale a Mario Monti, seduto sui banchi del governo dell’aula di Montecitorio mentre si votava la fiducia, ma che è stato colto e rivelato dai potenti obiettivi dei fotografi assisi sulle Tribune di Montecitorio, dove sedeva pure un altro Letta, Gianni. Più tardi, Letta, pressato da torme di giornalisti, se ne attribuirà la paternità: «Certo che il biglietto è mio. Ed è la dimostrazione che in privato diciamo le stesse cose che diciamo in pubblico». Sarà, certo è che la gaffe è rivelatrice: il principale interlocutore di Monti, nel Pd, si chiama Enrico Letta. Con Letta Enrico ci sono i lettiani: Francesco Boccia, braccio destro economico di Letta, è amico personale di alcune figure chiave nello staff del neo-premier e ieri ha lungamente parlato con loro. Pure Mosca, Ginefra, Meloni e Viola sono messi bene. Poi c’è il pacchetto di mischia degli “economici”, e cioè dei deputati e senatori del Pd che capiscono di economia, finanze, tributi, pensioni et similia: alla Camera Pier Paolo Baretta (Franceschini), Cesare Damiano e Michele Ventura (dalemiano), al Senato Paolo Giaretta (Modem) ed Enrico Morando (liberal). Felici come bambini che scartano i regali di Natale sono, come è ovvio, i veltroniani (ieri, Walter Veltroni, ha offerto diversi caffè, alla buvette, persino ai giornalisti). Il pacchetto di mischia è composto dai senatori Ceccanti e Tonini, teste d’uovo della (vicina?) riforma elettorale assieme al deputato Gianclaudio Bressa (Area dem), fan della prima ora del governissimo, più Passoni (ex Cgil) e i deputati Verini, Martella, Vassallo. Anche gli Ecodem (Ferrante, Della Seta, Realacci) sono contenti, Paolo Gentiloni gode discreto, mentre Beppe Fioroni e i suoi Pop-Dem (spiccano, per solidità, Gero Grassi e Gianluca Beneamati) non stanno più nella pelle per la felicità. Del resto, i rapporti privilegiati di Fioroni coi neo-ministri spaziano da quattro a sei. Tra i franceschiniani, quelli messi meglio sono Ettore Rosato, Antonello Giacomelli (bracci sinistro e destro del capogruppo), ma anche la giovane onorevole Pina Picierno. Anche la Bindi sale, grazie all’ottimo rapporto con il neoministro alla Salute, e pure i bindiani: il calabrese Gigi Meduri, un uomo/un mito per chiunque frequenti il Transatlantico, è tra i papabili sottosegretari. Come pure un prodiano di ferro come il lucano Giampaolo D’Andrea, mentre Sergio D’Antoni, gettonatissimo, nel Pd filo-montiano, piazzerebbe il suo Luigi Cocilovo, siculo. Salgono, naturalmente, i due capigruppo, Franceschini e Finocchiaro, e i loro vice, Sereni e Zanda.
Stabili. Massimo D’Alema, Matteo Renzi (scalpita, il sindaco di Firenze, perché ha visto sfumare le elezioni, ma almeno avrà più tempo per prepararsi) e Nicola Zingaretti. Il presidente della Provincia di Roma ora punterà dritto dritto al Campidoglio, in tandem, ormai sicuro, con il quasi certamente nuovo segretario del Pd laziale, Enrico Gasbarra.
Chi scende. Pier Luigi Bersani. Lo scrivono e lo dicono tutti i cronisti di Palazzo. Si vedrà. Nel frattempo, però, la vittoria di Monti è pure la sua e il bigliettino di Letta lo testimonia. Senza il suo impegno, e il suo Pd, oggi non ci sarebbe un nuovo governo. Scendono, bersagliati a colpi di articoli dai principali giornali “montiani” (Corriere e Stampa, soprattutto), i giovani della segreteria bersaniana: Stefano Fassina, da tempo la bestia nera del Corsera, Matteo Orfini e gli altri, molto meno noti. Scende anche la Sinistra interna (Nerozzi, Vita), l’area Marino-Meta e il senatore Nicola Latorre: «Se vogliono li insolentisce un lettiano possono sempre iscriversi a Sel».

Corriere della Sera 19.11.11
Prodi, Amato e gli altri. Quelle ambizioni frustrate
di Francesco Verderami


Eccoli i rottamatori della Seconda Repubblica: «questo è un governo a cui la politica non potrà dare del tu» dice Silvio Berlusconi. E certo servirà del tempo per capire fino a che punto si avvererà la priofezia del Cavaliere. Ma non c’è dubbio che l’avvento dei tecnici a Palazzo Chigi oltre a segnare la fine del berlusconismo rischia di provocare anche la fine di quanti l’hanno avversato.
Il disorientamento si scorge dietro le granitiche certezze di chi fa mostra di disegnare nuovi scenari. In realtà c'è una distanza siderale tra quanti siedono sugli scranni dell'Aula di Montecitorio e quanti occupano i banchi del governo, quelli a cui «la politica non potrà dare del tu». Nel giorno in cui Mario Monti riceve la fiducia della Camera, l'abbraccio tra antichi avversari testimonia infatti la comune preoccupazione per un futuro incerto. È vero, Berlusconi è lo sconfitto, ma a perdere non è solo lui, «ha perso il partito del voto», spiega Marco Follini. E tutti a quel tavolo avevano fatto la loro puntata: Pier Luigi Bersani ci ha rimesso forse più di altri, ma anche Pier Ferdinando Casini aveva scommesso delle fiches. E ci sarà un motivo se il leader del Pd e il capo dell'Udc sembrano aver costituito una sorta di «patto di sindacato» con Angelino Alfano, se Gianfranco Fini ha inviato degli ambasciatori dal segretario del Pdl per dirgli che «dobbiamo stare tutti uniti». Di profezia in profezia, il timore è che si inveri quella pronunciata da Casini un anno fa, quando sussurrò che «appresso a Silvio rischiamo di finire tutti sotto le macerie».
La fine del berlusconismo ha già fatto alcune vittime anche nel campo avverso, non è un caso se l'inventore del Terzo polo, ascoltando la lista, ha modo di assentire con il suo silenzio: Romano Prodi e Giuliano Amato sono tagliati fuori dalla corsa al Colle, Luca di Montezemolo pare escluso dalla partita per Palazzo Chigi. Solo quando gli viene fatto il nome di Bersani ha una reazione: «No, Pier Luigi no. Lui è in gioco, a parte che è un amico». Il fatto è che insieme al Cavaliere tramonta il bipolarismo, così come la Seconda Repubblica l'ha conosciuto. Perciò il Professore che fu alla guida dell'Ulivo è escluso dalla lista dei possibili successori di Giorgio Napolitano: sarebbe stato il favorito se si fosse andati alle elezioni, visto che il centrosinistra era in testa nei sondaggi. «Ora per il Quirinale c'è un solo concorrente, ed è Monti», secondo il segretario del Pri, Francesco Nucara. «E in fondo Prodi è stato accontentato», aggiunge l'udc Pierluigi Mantini: «Basta scorrere la lista dei ministri...». Ma non sono solo le vecchie generazioni a correre il rischio di essere travolte. Matteo Renzi, per esempio, da rottamatore potrebbe finire rottamato, dato che il nuovo esecutivo — a cui Bersani dà l'appoggio — si propone di innovare. Eppure il sindaco di Firenze avrebbe un modo per tornare in gioco, almeno così dice Roberto Maroni, secondo il quale «questo governo mira a trasformare completamente il quadro politico. E Corrado Passera lavora in prospettiva a guidare un nuovo blocco, assemblando pezzi di centro, di destra e di sinistra». A detta del dirigente leghista, il neosuperministro dello Sviluppo è il potenziale candidato premier di questo futuro rassemblement: «Per riuscire nel progetto avrà bisogno di una nuova legge elettorale, di nuovi attori politici a supporto, come per esempio Renzi, e di una forte azione di governo. Disponendo del dicastero che dovrà far ripartire le opere pubbliche in sinergia con le banche, avrà i mezzi per centrare l'obiettivo». «O Monti o Passera», replica il democratico D'Antoni: «Che tutti e due arrivino in porto, conquistando il Quirinale e Palazzo Chigi, mi sembra impossibile. Non è che Bersani e Casini staranno a guardare. Quanto ad Alfano, spetterà a Berlusconi decidere se lanciarlo definitivamente o meno, altrimenti — avanti di questo passo — finirà per affossarlo».
È evidente come la politica non dia del «tu» a questo governo e giochi sulla difensiva: c'è chi — come il segretario del Pdl — faticherà a traghettare il berlusconismo sulle spiagge della Terza Repubblica, e chi — come Rosy Bindi — intravede gli scogli a pelo d'acqua anche per il Pd: «Vigileremo in Parlamento», dice. Più chiaro di così. Beppe Fioroni fa la lista senza nome di «quanti pensavano di lucrare politicamente dal clima di rissa», contrapponendoli alle nuove leve. E citando «il gruppo di Todi», ricorda il recente seminario dove si è discusso sul ruolo dei cattolici e a cui hanno partecipato tre esponenti del nuovo gabinetto: Andrea Riccardi, Lorenzo Ornaghi e appunto Passera.
Certo, la politica è dinamica, e ha ragione Follini a sottolineare come «sarà l'agenda di governo a modellare i futuri partiti». Così come vanno messe in preventivo alcune incognite. Quella evocata da Umberto Bossi, secondo cui «questo governo andrà avanti finché la gente non si incazza». Nulla è scontato. L'ex ministro Gianfranco Rotondi è convinto infatti che Montezemolo sia «ancora in gioco, visto che ha avuto un peso nell'operazione che ha portato alla caduta di Berlusconi».
La verità è che ad aver perso non sono solo quelli che sono stati sconfitti ma anche quelli che oggi appaiono vincitori. «Tutta la politica è perdente», dice Denis Verdini: «Fin dal giorno in cui Monti è stato nominato senatore a vita. D'altronde, se è vero che ci vogliono tre mesi per istruire una simile pratica, com'è possibile che tutto sia stato completato in tre ore? Allora era da mesi che andava avanti l'operazione».

l’Unità 19.11.11
«Montezemolo e Renzi sconfitti»


Con la nascita del governo Monti i principali sconfitti dal punto di vista politico sono due: Matteo Renzi e Luca Cordero di Montezemolo. Parola di Pierferdinando Casini. Il leader Udc lo ha detto in modo chiaro nel corso di uno dei tanti incontri avuti in questi giorni per accompagnare al successo il nuovo esecutivo che, sono sempre parole del politico centrista, ha visto invece in positivo due protagonisti su tutti: lui stesso e Pier Luigi Bersani.
Nell’analisi dell’ex presidente della Camera, infatti, il rinvio delle elezioni anticipate e la costruzione di un clima diverso, volto ad assicurare al Paese un periodo di risanamento e crescita economica, di fatto ha sterilizzano i progetti politici di chi aveva puntato tutto sul fallimento dell’attuale sistema dei partiti, su cui i due volevano lanciare un’o.p.a. ostile dall’esterno. Tant’è che il sindaco di Firenze ha cercato di esorcizzare la propria sconfitta dando per già morto il tentativo di approvare riforme nella parte finale della legislatura, da lui giudicato un’ipotesi inesistente, come se quella di ieri fosse stata una giornata qualunque e non caratterizzata dalla nascita di un esecutivo con un sostegno senza precedenti e che potrà anche aiutare lo
stesso Parlamento a fare la propria parte. A partire dalla riforma della legge elettorale, prima che si giunga al referendum sul quale nei primi giorni di gennaio si pronuncerà la Corte Costituzionale impegnata nel vaglio di ammissibilità. Quanto all’iniziativa di Montezemolo, a Casini sta particolarmente a cuore l’aver potuto riaffermare, grazie al ruolo svolto nel propiziare la nascita del nuovo governo, la centralità del suo Udc e della propria leadership centrista, riferimento di quell’area alla quale intendeva rivolgersi proprio l’ex presidente di Confindustria che, per espressa ammissione confidata nelle scorse settimane a diversi addetti ai lavori dalla sua portavoce, era ormai pronto scendere in campo, «questione di giorni».

l’Unità 19.11.11
Il presidente Idv: «Valuteremo provvedimento per provvedimento»
Il leader di Sel incontra De Magistris: «Basta scippi al Mezzogiorno»
Di Pietro e Vendola criticano il governo ma non rompono
Entrambi da Napoli, anche se a due iniziative diverse, Vendola e Di Pietro criticano il governo Monti, ma non rompono. Vendola si dice «deluso», Di Pietro lo incalza, entrambi assicurano che lo giudicheranno dai fatti.
di Virginia Lori


Non c’è nessuna nuova foto, non andavano a braccetto ieri Antonio Di Pietro e Nichi Vendola mentre facevano dichiarazioni sul governo Monti, anche se tutti e due parlavano da Napoli. Vendola dal convegno organizzato dalla Fiom sul Mezzogiorno e Di Pietro da un altro convegno, sempre sul Sud, ma dell’Idv.
Di Pietro è arrivato a Napoli dopo la sua dichiarazione di voto per la fiducia al governo tecnico. E ha spiegato i termini del suo sostegno all’esecutivo dei professori. Ha cioè ribadito di aver votato la fiducia al Governo Monti, «che sul piano professionale è più competente del precedente, fatto di nani e ballerine». Ma proprio perché ci sono «tante professionalità», ha aggiunto, se non dovesse riuscire «a risolvere i problemi» sarebbe ancora più grave. L’ex pm si attende «risposte immediate su sviluppo e lavoro, soprattutto per i giovani disoccupati e precari». Nessuna fiducia al buio, da ora in avanti, ma solo «provvedimento per provvedimento».
«Vediamo cosa sapete e potete fare», insiste. Attende al varco soprattutto la ministra Paola Severino, della quale dice «conosciamo bene la professionalità ma non sappiamo in concreto cosa vuol fare per sistemare la giustizia», in particolare sulle intercettazioni e l’uso dei pentiti.
Vendola non deve giustificare alcun voto in parlamento ma anche lui dice: «Giudicheremo il governo Monti a seconda dei nostri rispettivi ruoli a partire dalle misure, gli atti e dalle iniziative che sceglierà di mettere in campo». La cartina di tornasole per il leader di Sinistra ecologia e libertà sarà il Mezzogiorno. Il presidente della Regione Puglia è su questo in piena sintonia con il sindaco di Napoli Luigi De Magistris. I due si sono visti all’ora di pranzo in un tête-à-tête da cui è emersa una dichiarazione congiunta.
LA CRESCITA
«Il Sud chiede di essere al centro delle politiche di rilancio del lavoro, soprattutto per i giovani e per le donne, chiede una crescita ambientalmente sostenibile e di non essere più scippato delle proprie risorse», spiega Vendola. Serve una politica industriale per il Sud, insomma, a partire dalle vicende dei cantieri navali, della Irisbus, vertenze da cui emerge un Sud produttivo «umiliato da una classe dirigente piena di odio». Rispetto alle attese di un cambiamento di rotta il leader di Sel non cela «sentimenti di grande delusione» per i primi passi annunciati dall’esecutivo Monti. «L’abito buono, decoroso non basta». Con De Magistris preme per risorse straordinarie per riattivare la crescita del Sud. E perciò «serve rivedere il Patto di Stabilità».


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Repubblica 19.11.11
Il gran ritorno dei cattolici
di Adriano Prosperi


"Siamo passati dal Carnevale alla Quaresima": lo ha detto il neoministro Andrea Riccardi ma lo abbiamo pensato in molti. Il passaggio è stato brusco e totale. Un governo sottoposto a una cura dimagrante da cavallo nei numeri, sullo sfondo di scenari austeri.
Senza la profusione di colori e i sontuosi sfondi rinascimentali delle conferenze stampa d´una volta; e non parliamo della sobrietà e della severità quasi luttuosa dei discorsi e dei rituali. È finito il ciclo carnevalesco delle feste in ville e palazzi, del "bunga bunga", della carnalità traboccante e colorata, del corteggio di nani e ballerine che circondava, seguiva, abbracciava un re Carnevale in doppiopetto. Qualcuno un giorno rievocherà forse con nostalgia i nostri ruggenti anni dieci del secondo millennio, con quelle donne belle ed eleganti dai soprannomi ammiccanti, dalle professioni surreali – l´Ape regina, l´igienista dentaria, le escort – introdotte nel sacrario del potere col solo compito di far sentire amato il padrone.
Ma ecco, appunto, la Quaresima che irrompe sulla scena e sconfigge re Carnevale: ancora una volta si affaccia sulla società italiana una immagine antica, legata come poche altre alla cultura popolare del nostro paese, elevata a chiave di lettura della storia d´Italia da chi, come Francesco De Sanctis , vide la Controriforma come una Quaresima piombata sul Carnevale italiano del Rinascimento cancellando con una maschera di finta devozione la vera modernità, quella che si riassumeva per lui nel nome di Machiavelli. Oggi l´immagine coniata dal liberale e anticlericale De Sanctis, vero maestro intellettuale dell´Italia, che non ebbe simpatia né per il Carnevale né per la Quaresima viene usata da uno storico cattolico che proprio in quanto cattolico impegnato nei problemi del mondo è stato chiamato a far parte del nuovo governo. E si levano toni trionfalistici dal mondo dei cattolici impegnati in politica: si afferma così negli storici del presente la tesi secondo cui il grande rivolgimento nell´assetto governativo a cui assistiamo sarebbe stato concepito nel recente convegno tenutosi nel convento di Montesanto presso Todi. Il suo atto di fondazione sarebbe dunque l´invito del cardinal Bagnasco ai laici cattolici a portare nella società i principi della dottrina sociale della Chiesa. Mentre ci chiedevamo perché le autorità ecclesiastiche fossero così reticenti davanti alle voci critiche che si levavano dal mondo dei cattolici italiani, in realtà quelle stesse autorità stavano preparando il mutamento di cavalli. La questione merita una qualche attenzione perché non c´è dubbio che la componente culturalmente più significativa di questo governo appena nato è quella di un cattolicesimo di alta qualità, nutrito di impegno sociale e culturale, che rappresenta qualcosa di molto remoto dai "laici devoti" e dai "convertiti" dell´apparato berlusconiano.
Ma intanto andrà detto prima di tutto che senza l´iniziativa politica assunta in prima persona dal Presidente della Repubblica, interprete straordinariamente lucido delle necessità primarie del Paese che in lui si è riconosciuto, questo cambiamento - tanto urgente nella realtà quanto remoto dalla mente di Berlusconi e della sua maggioranza – non sarebbe avvenuto e adesso, nella migliore delle ipotesi, staremmo assistendo a una campagna elettorale lacerante e affondando sempre più in una crisi devastante. Ma se è vero che una parte del mondo cattolico – la più consapevole e seria – si è resa disponibile per prendere il timone degli affari italiani, bisognerà ricordare che è stata la cultura laica italiana a battere sul chiodo costituzionale della necessità di stili di vita adeguati da parte dei rappresentanti eletti del popolo italiano: sul bisogno di trasparenza nell´intreccio tra affari e politica: sul fatto che gli uomini delle istituzioni devono essere rispettabili se vogliamo che le istituzioni siano rispettate: sul fatto che la sopraffazione dei diritti e delle leggi esercitata dalla ricchezza e dal potere scardina l´ordinamento democratico.
Il disvelamento delle macchine del fango nelle inchieste giornalistiche di Giuseppe D´Avanzo, la lucida difesa delle regole contro il malaffare e l´illegalità da parte di Stefano Rodotà, la testimonianza di Roberto Saviano sono stati contributi di una cultura che ha difeso i diritti di tutti e ha richiamato al rispetto dei principi consacrati nella nostra Costituzione, contro il mantra dell´intoccabilità del potere di chi ha avuto la maggioranza dei voti. Non si tratta di spartirsi i meriti di una svolta che per ora è solo annunciata e che non sarà facile portare a buon fine. Né è il caso in questo momento di ricordare la distrazione, i silenzi e talvolta gli sghignazzi che hanno accolto i "moralisti": la parola stessa è stata usata come un insulto, una gogna. Fa bene Rodotà a rigraduare il valore della parola professandosi moralista incallito e non pentito nel suo magnifico "Elogio del moralismo"(Laterza). Il problema è un altro: ai cattolici che caratterizzano con la loro presenza il nuovo governo si deve chiedere conto di come intendono interpretare la loro appartenenza religiosa. Abbiamo alle spalle un governo dove l´alleanza con la Chiesa è stata pagata coi diritti dei cittadini, delle donne, dei malati, degli studenti della scuola pubblica. Non è quella l´interpretazione della testimonianza di fede che può andare d´accordo con la costituzione. Ma non possiamo dimenticare che a Todi il cardinal Bagnasco ha indicato ai cattolici in politica l´obbligo di difendere alcuni punti, dove sarebbero in gioco valori definiti con aggettivi assai robusti - "essenziali, nativi, irrinunciabili, inviolabili, inalienabili, indivisibili, e dunque non negoziabili". E quei principi sarebbero in gioco laddove si discute dell´inizio e della fine della vita, del matrimonio come legame tra un uomo e una donna, della libertà religiosa ed educativa. Il futuro prossimo chiarirà se quelli che sono entrati nel governo e lo caratterizzano sono dei "cattolici adulti" oppure no.

il Riformista 19.11.11
SuperMario va dal Papa
di Francesco Peloso


Il suo governo non era stato ancora promosso dal voto di fiducia della Camera, che il neo premier aveva già avuto l’opportunità di incontrare il Papa. Benedetto XVI, infatti, ieri mattina doveva partire per l’Africa diretto in Benin, dall’aeroporto di Fiumicino; prassi vuole che, in simili circostanze, un rappresentante del governo accompagni il Pontefice nel momento in cui si appresta a lasciare il Paese. Ed è lì che ha fatto la sua comparsa Mario Monti, prontamente immortalato dai fotografi e finito per questo sulla prima pagina dell’Osservatore romano. Nella foto, per altro, occhieggia sullo sfondo anche il Segretario di Stato Tarcisio Bertone. Il giornale vaticano dava poi notizia del faccia a faccia con dettagli precisi e vagamente demodé, un po’ in stile Istituto Luce: «Il capo del Governo ha accolto il Pontefice ai piedi della scaletta dell’elicottero proveniente dal Vaticano. Dopo una calorosa stretta di mano, i due hanno camminato fianco a fianco conversando cordialmente e familiarmente per circa tre minuti lungo il tragitto fino ai piedi dell’aereo. Nell’occasione Benedetto XVI ha fatto gli auguri al nuovo premier». L’Osservatore sottolineava inoltre come già il giorno prima il presidente del Consiglio «aveva manifestato la sua intenzione di recarsi a salutare il Papa in partenza per l’Africa».
Dunque ieri è finita la lunga supplenza svolta dal sottosegretario Gianni Letta, uomo in ottimi rapporti con la Santa Sede ma che negli ultimi due anni ha avuto anche il compito di sostituire e rappresentare un capo del governo la cui immagine era stata devastata dagli scandali e dalle inchieste giudiziarie. Nei sacri palazzi, infatti, da tempo era stata presa la decisione di non permettere a un leader così compromesso di avere un incontro ravvicinato con il Papa. La Santa Sede non doveva essere associata a Berlusconi, il rischio era quello di accreditare un presunto favore della massima autorità della Chiesa a un premier in crisi che, al contrario, aveva bisogno di dare sostanza alla propria credibilità anche attraverso il rapporto con il Vaticano. E sebbene quest’ultimo in più occasioni abbia dimostrato una certa consonanza con il Cavaliere, bisognava comunque tenere il Papa al riparo dal vortice mutevole della politica italiana. Era poi lo stesso Benedetto XVI, in un messaggio indirizzato a Napolitano lo scorso settembre, a far capire come la pensava. Alla vigilia della partenza per la Germania, Ratzinger auspicava senza indugio «un sempre più intenso rinnovamento etico per il bene della diletta Italia».

La Stampa 19.11.11
La visita in prima pagina
Grande foto sull’Osservatore Anche la Santa Sede apprezza


Anche l’Osservatore Romano, giornale ufficiale della Città del Vaticano, ha dato risalto all’incontro avvenuto in aeroporto tra il Papa e il nuovo presidente del Consiglio italiano con una grande foto in prima pagina. Il giornale della Santa Sede riferisce degli auguri del Pontefice a Mario Monti. «Dopo una calorosa stretta di mano - riferisce l’Osservatore Romano - i due hanno camminato fianco a fianco conversando cordialmente e familiarmente per circa tre minuti lungo il tragitto fino ai piedi dell’aereo. Nell’occasione Benedetto XVI ha fatto gli auguri al nuovo premier». L’incontro è stato commentato positivamente. «È stato un gesto apprezzato che il premier sia andato a salutare il Papa all’aeroporto in un momento così impegnativo» ha commentato il direttore della sala stampa della Santa Sede, il gesuita Lombardi.

Repubblica 19.11.11
Il premier incontra il Papa "Provo a far ripartire l´Italia"
E Bagnasco rilancia: la vita valore non negoziabile
Incontro a Fiumicino prima del viaggio del Pontefice in Africa
Il capo della Cei: "I cattolici in politica s´impegnino con sobrietà"
di Marco Ansaldo


ROMA - «Santità, stiamo provando a far ripartire il Paese». Con le mani intente a disegnare scenari, mentre parla camminando fianco a fianco del Papa, Mario Monti spiega al Pontefice quel che sta facendo e quali sono gli obiettivi della sua azione di governo.
È la prima volta in assoluto che il nuovo presidente del Consiglio incontra Benedetto XVI, mai incrociato prima anche se fonti interne alla Santa Sede avevano subito parlato, al momento della nomina di Monti accompagnato da un stuolo di ministri di provenienza cattolica, della soddisfazione del Papa. I due si sono visti ieri mattina alle 8.42, quando l´elicottero con Joseph Ratzinger è atterrato nell´area internazionale dell´aeroporto di Fiumicino, proprio davanti all´AZ 700 "Giotto" dell´Alitalia che avrebbe portato Benedetto a Cotonou, in Benin, nella seconda visita in Africa del suo pontificato.
Quando il Papa è sceso dal velivolo, il presidente del Consiglio, con a fianco l´ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Francesco Maria Greco, gli è andato incontro e gli ha stretto a lungo e calorosamente la mano. Quindi i due hanno preso a camminare lentamente uno accanto all´altro. E nel breve tragitto, poche decine di metri, fra l´elicottero e la scaletta dell´aereo, Monti ha soprattutto parlato, mentre il Papa ascoltava.
Tre minuti di colloquio. Incentrati particolarmente sull´economia. Il capo del governo ha spiegato per sommi capi qual è il suo piano d´azione e come intende portarlo avanti. Le difficoltà e le attese. Il tutto nel suo stile composto, agitando solo le dita delle mani per far comprendere meglio al Pontefice il quadro della situazione. Ratzinger lo ha interrotto due volte, e gli ha posto una domanda. E Monti, alla fine, concludendo la sua esposizione, gli ha detto: «In sostanza, Santità, stiamo cercando di far ripartire al meglio il Paese». Un´altra forte stretta di mano e uno scambio di reciproci auguri: il Pontefice per il «nuovo incarico», e il presidente del Consiglio «per il viaggio».
«È stato un gesto apprezzato che il premier sia andato a salutare il Papa all´aeroporto», ha poi detto in volo il portavoce della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi. La cerchia intorno al Santo Padre loda il fatto che Monti abbia voluto incontrare Benedetto XVI di persona, appena nel terzo giorno in cui l´ex commissario europeo guida l´esecutivo italiano. Un atto non dovuto. Secondo la prassi diplomatica, al momento di una sua partenza, il Pontefice viene salutato dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. «Il nuovo capo del governo - ha spiegato anche il direttore dell´Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian - ha esposto i punti chiave del suo impegno». Il quotidiano della Santa Sede ha raffigurato l´incontro nell´edizione uscita nel pomeriggio con una grande foto in prima pagina del Papa e di Monti insieme.
Il Vaticano apprezza lo stile del premier. Ieri il Sir, l´agenzia di stampa della Conferenza episcopale italiana, ha scritto che il governo Monti «incassa una fiducia plebiscitaria» ottenuta in Parlamento. Con l´invito-auspicio a tradurre questa spinta «in un´iniezione di fiducia per il Paese tutto», «parlando chiaro agli italiani» e mantenendo «rigore e serietà». Già l´altro giorno il Sir parlava di «curriculum impeccabili» per i nuovi ministri. Un chiaro via libera, insomma, anche dai vescovi. Il cardinal Bagnasco, ieri al convegno nazionale di Scienza&Vita, al quale hanno partecipato Alfano, Bersani, Casini, ha ricordato ai cattolici di farlo con «onestà, spirito di sacrificio e stile sobrio». «Bisogna difendere i valori costitutivi dell´umano» e «tra questi la vita umana, dal suo concepimento alla fine naturale, è certamente il primo».

Repubblica 19.11.11
"Il governo Monti segna il risveglio dei cattolici in politica"
Ornaghi: non è più il momento delle deleghe
Non si può dire che il premier abbia pescato dal convegno di Todi Ma il significato mi pare evidente
di Goffredo De Marchis


ROMA - C´è un "potere forte" che si svela e punta a rioccupare lo spazio perduto: la Chiesa. «Questo governo segna il risveglio dei cattolici in politica. Il senso della nostra presenza è chiaro». Parla Lorenzo Ornaghi, neo ministro della Cultura. Nel cortile di Montecitorio, in una pausa dei lavori, Ornaghi si concede una sigaretta e viene avvicinato da alcuni deputati che gli segnalano i problemi del loro territorio. L´ex rettore della Università Cattolica risponde con cortesia, ma rinvia, prende tempo, accenna un «vedremo». Quando avrà chiaro cosa lo aspetta al ministero risponderà a tutti. Ha già un´idea, invece, del peso che avranno i ministri cattolici militanti: lui, Andrea Riccardi, Renato Balduzzi. Soprattutto i primi due, ribattezzati dalle gerarchie «I cavalieri del Vaticano nel governo». «Non è più il momento delle deleghe - spiega Ornaghi violando con un sussurro la consegna del silenzio imposta ai membri dell´esecutivo - . Non le diamo più a nessuno».
Il professor Ornaghi è uno dei relatori del seminario di Todi (17 ottobre) che chiuse la stagione del rapporto tra la Chiesa e il governo di centrodestra. Con un termine che non piace al premier, quel giorno, dopo che il presidente della Cei Angelo Bagnasco aveva condannato i costumi di Berlusconi, fu staccata la spina. Il nuovo titolare dei Beni culturali fu protagonista di quella svolta. Della squadra cattolica infatti è quello con maggiore sensibilità politica. Riccardi lo supera nella rete di relazioni. Ma Ornaghi è stato allievo di Gianfranco Miglio e oggi siede sulla sua cattedra di Scienza politica, ha avuto un lungo sodalizio con Camillo Ruini, grazie alla sua moderazione è diventato l´uomo di cerniera tra Ruini e Martini quando nel 2002 fu eletto per la prima volta alla guida dell´ateneo milanese. I due cardinali-nemici scelsero Ornaghi per bloccare gli appetiti sul fiore all´occhiello della cultura cattolica, quelli di sinistra e quelli di Comunione e Liberazione. «Il presidente Monti ha scelto in un´area di competenze. Non si può dire che abbia pescato dal convegno di Todi. Ma il significato dell´operazione mi pare evidente», spiega adesso Ornaghi. La Santa sede ha offerto più di una sponda al berlusconismo, ma non ha retto di fronte agli scandali, all´immobilismo, al tramonto di un´epoca che ormai si reggeva su Scilipoti. Oggi però è venuto il tempo di incarnare i valori della religione con rappresentanti sicuri. Senza deleghe.
Ornaghi, persona specchiata a detta di tutti, teorizzò a Todi il big bang del sistema attraverso la «scomposizione e la ricomposizione» degli schieramenti. Nel cortile della Camera ora si schermisce: «È la mia posizione. Ma non potrò occuparmene neanche da lontano per un anno e mezzo. Devo svolgere un altro lavoro». Sarà ma forse proprio il governo sarà la palestra di un nuovo assetto e di un nuovo protagonismo dei cattolici. Ornaghi sorride e si allontana per gettare la sigaretta nel posacenere.
Dicono che la pattuglia di Todi può rafforzarsi nella tornata di viceministri e sottosegretari. Carlo Dell´Aringa, un altro professore della Cattolica, sarebbe pronto a entrare nella squadra dopo essere uscito dal gruppo dei ministri per il veto della Cgil. Il governo Monti deve in particolare tamponare la crisi economica. Ma all´ombra dell´emergenza, farà anche politica. Al convegno di Scienza e Vita, Bagnasco, davanti a Casini, Bersani e Alfano, disegna una sorta di programma etico. E il segretario del Pd viene chiamato a tenere il punto della laicità: «La tecnica non è contro l´umanità, il relativismo non è nichilismo. Offendete i non credenti se pensate che a noi non appartiene un umanesimo forte».

l’Unità 19.11.11
Il presidente della Cei al seminario dell’Associazione Scienza e Vita indica i paletti
L’impegno dei cattolici per una società più solidale deve rispettare il magistero della Chiesa
Bagnasco: non si tratta sui valori. Ma nel dopo Berlusconi c’è più dialogo
È alla politica che parla il cardinale Bagnasco al seminario di Scienza e Vita. Nel dopo Berlusconi invoca la «laicità positiva» e la difesa della vita. Indica l’agenda della Cei sulla quale i cattolici non possono mediare.
di Roberto Monteforte


La vita va difesa dal concepimento sino alla morte naturale. E non solo per verità di fede, ma per quel rispetto del diritto naturale che dovrebbe essere guida per l’individuo e per le società. Un punto fermo per la Chiesa e soprattutto non negoziabile. È tornato a ribadirlo ieri il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco con la prolusione con cui ha aperto il convegno «Scienza e cura della vita: educazione alla democrazia», organizzato dall’Associazione Scienza e Vita. Indica quale debba essere «il livello umano di convivenza». Il presidente della Cei è tornato a richiamare la supremazia del Magistero quando sono in gioco valori come il rispetto assoluto della vita e della persona. Invoca un «umanesimo integrale» in risposta al vincente «modello individualista». È stato più di un contributo alla discussione interna al mondo cattolico più che mai impegnato nella ricerca di nuove forme di presenza in politica. Per due significative particolarità. È nel giorno in cui il governo Monti ottiene la fiducia delle Camere che Bagnasco rilancia il suo messaggio alla politica. Lo fa intervenendo nella fase nuova che si è aperta dopo la caduta del governo Berlusconi.
LA CHIESA PARLA ALLA POLITICA
Che l’intento sia quello di comunicare direttamente alla politica è confermato dalla tavola rotonda che è seguita alla sua prolusione, con a confronto i leader di Pd, Pdl, Lega e Udc Bersani, Alfano, Maroni e Casini, moderati dal direttore di Avvenire, Marco Tarquinio. È a loro che con puntigliosità il presidente dei vescovi ricorda quale sia il terreno di una «laicità positiva» e sino a dove possa spingersi l’autonomia e la mediazione dei cattolici impegnati in politica. Invoca un «livello umano di convivenza» e mette i piedi nel piatto, ben sapendo che toccare temi scomodi, come cosa sia il rispetto della «vita umana», possa dividere. Su queste verità fondamentali la Chiesa non può tacere. Senza chiarezza su questi punti non reggerebbe neanche quell’etica sociale, indispensabile per affrontare i «grandi problemi dell’economia e della finanza, del lavoro e della solidarietà, della pace e dell’uso sostenibile della natura» che «attanagliano pesantemente persone, famiglie e collettività, specialmente i giovani. È l’«attenzione alla vita umana», alla sua difesa in particolare nelle condizioni di «maggiore fragilità e pericolosa esposizione» sulla quale insiste. Lo fa criticando le derive del relativismo, del materialismo e la visione consumistica. Occorrono verità oggettive e riferimenti etici precisi. Oggi, osserva, richiamare una verità «valida per tutti» fa scattare la preoccupazione di una minaccia alla libertà personale. Ma si chiede quale libertà è quella che è sciolta da vincoli e da norme ed è indipendente dalla verità di ciò che sceglie?
E se la Chiesa richiama le «ragioni ultime» dell’esistenza non lo fa per «arroganza, ingerenza o intransigenza», ma per «fedeltà a Dio e agli uomini». È il suo contributo alla costruzione della civitas terrena. Parla di «sana laicità». Non basta il «riconoscimento della rilevanza pubblica delle fedi religiose». Deve misurarsi con l’uomo e con la sua natura, con l’«umanesimo integrale». Questo è il terreno dell’impegno dei cristiani «come cittadini». Stile sobrio, spirito di servizio e di sacrificio, competenza insieme a onestà. Ma non basta. Non si possono accantonare le indicazioni del Magistero. Per non restare sul generico va al punto Bagnasco: al chi può decidere quando «un individuo è già persona» o «ancora persona». Siamo ai valori non negoziabili. Al no assoluto all’aborto, all’ eutanasia e alla manipolazione genetica. «Non si tratta di voler imporre la fede e i valori che ne scaturiscono, ma solo di difendere i valori costitutivi dell’umano». Il messaggio è chiaro.

il Fatto 19.11.11
A Roma. Convegno della Cei su “Scienza e vita”
La politica bipartisan accorre all’ombra di Bagnasco
di Marco Politi


Nel fortilizio degli intransigenti, di fronte al cardinal Bagnasco, tra le schiere del movimento “Scienza e Vita” che mandò a vuoto il referendum sulla fecondazione artificiale, Pierluigi Bersani invita a riaprire il discorso sul testamento biologico. La brutta legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, che espropria il paziente di ogni autodeterminazione, è quasi in dirittura di arrivo, ma il segretario del Pd esorta a non spaccare l’Italia, a “non dividere le famiglie”.
Dice Bersani: “Ragioniamo insieme, l’eutanasia non c’entra, cerchiamo di salvaguardare libertà e dignità. In questa nuova situazione politica discutiamo in modo più aperto e sincero”.
L’occasione è speciale. Scienza e Vita ha organizzato una tavola rotonda sul proprio manifesto “Scienza e cura della vita: educazione alla democrazia” con l’obiettivo – spiega il copresidente Lucio Romano – di “riconoscere la centralità di ogni essere umano, di ogni persona, il rispetto della sua intrinseca dignità indipendentemente da qualsiasi giudizio sulle sue condizioni esistenziali”. I segretari dei partiti, che sorreggono il governo Monti, sono stati invitati. Anche Maroni e Di Pietro, che però non si sono affacciati. I fotografi si accalcano per immortalare la nuova triade con Alfano e Casini, che sembra sovrastare la foto di Vasto.
Il cardinal Bagnasco tiene una lectio magistralis e mette sul tavolo del nuovo governo i valori non negoziabili. Ancora una volta il punto è l’interpretazione della tutela della persona “dal concepimento fino alla sua morte naturale”.
C’ è un doppio registro nell’intervento del presidente della Cei Bagnasco, svolto affidandosi ad uno stile pacato. Da un lato il richiamo a riscoprire l’esigenza della cura dell’altro, a non lasciarlo mai solo, a non abbandonarlo ad un destino di monade imprigionata in se stessa, a sostenerlo soprattutto nei suoi momenti di fragilità e sofferenza.
D’altro canto il capo dei vescovi ribadisce che la libertà deve riferirsi ad una verità ancorata alla natura e alla ragione. Che la Chiesa salvaguarda. Poi il monito politico: i valori non negoziabili “appartengono al Dna di ogni persona (e quindi) non possono essere conculcati né parcellizzati o negoziati attraverso mediazioni, che pur con buone intenzioni, li negano”.
Presente, risponde Alfano a nome del Pdl. Provoca un brivido sentirlo mentre proclama che il suo partito rappresenta la “coerenza senza fratture tra ideali e prassi, tra ciò che si dice e ciò che si fa”. (E forse ha ragione: il bunga bunga con crocifisso è certamente sintesi armonica del pensiero e dell’azione dell’ex premier B.) In ogni caso Alfano recita: “La vita la dà e la toglie Qualcuno che non è il Parlamento”. La famiglia è tra un uomo e una donna. La scuola privata non va penalizzata. Viva ciò che ha fatto il governo Berlusconi nel caso Eliana e riguarda alla pillola abortiva e al divieto della selezione genetica degli embrioni.
Bersani parte dal filosofico, la necessità che una comunità poggi su valori condivisi (senza relativizzare tutto), per approdare sul concreto. Il compito della politica è di trovare, negoziando, soluzioni ai problemi urgenti. “Attenti – avverte – mentre qui si litiga, altrove Paesi spendono cifre enormi in ricerche che producono tecnologie che il mercato poi diffonde”. C’è necessità di trovare soluzioni italiane. E rispetto al testamento biologico come non accorgersi che oggi la paura è di “perdere la propria dignità in un letto irto di tubi”. Si ragioni, si tenga insieme cura e dignità.
Chiude Casini gettando ponti al centro-sinistra. Non va persa, afferma, l’occasione del clima frutto del governo Monti. “Perché quando queste questioni vengono affrontate solo con l’intento di creare maggioranze di fatto, non si consolidano nella gente”. Miope, sottolinea il leader del Terzo Polo, è chi usa certi temi per dividere. Al contrario bisogna cercare una base di condivisione sempre più larga.
Il primo round sul testamento biologico nella stagione “d’intesa” si chiude così.

l’Unità 19.11.11
E Casini apre al Pd: si può fare insieme la legge sul fine-vita
Confronto sui temi etici tra i segretari di Pd, Pdl e Udc, Bersani, Alfano e Casini. Ciascuno con i suoi punti fermi ma anche reciproche aperture. Nel nuovo clima potrebbe profilarsi un rinvio sul biotestamento.
di Simone Collini


Il governo Monti potrebbe anche favorire l’approvazione di una diversa legge sul biotestamento, rispetto a quella targata Pdl approvata alla Camera a luglio e ora in attesa del sì definitivo al Senato. Questo è emerso ieri al convegno di Scienza e Vita a cui hanno partecipato Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini. Che sono sì l’Abc della politica, come dice scherzosamente il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio aprendo la tavola rotonda che segue la lectio magistralis del cardinale Angelo Bagnasco, ma sono anche i leader delle forze della nuova maggioranza che si è formata in Parlamento (l’invito al convegno, circa un mese fa, era arrivato anche al leghista Roberto Maroni, che però ha dato forfait). Come dice Alfano, «questo governo giustamente non ha assunto impegni programmatici sui temi dell’agenda bioetica». Ma questo non significa che nei prossimi mesi le Camere discuteranno soltanto di economia, occupazione, risanamento e sviluppo.
SLITTAMENTO SIGNIFICATIVO
Anzi, il fatto che al Senato la proposta di legge sul fine vita, che doveva essere calendarizzata per i primi di dicembre per l’approvazione finale, proprio in questi giorni stia subendo slittamenti è significativa. Da un lato c’è la volontà trasversale di non mettere subito il governo di fronte a un tema che può provocare fibrillazioni nella nuova maggioranza. Dall’altro, c’è la volontà da parte degli stessi centristi (fondamentali ora che la Lega si è smarcata) di rivedere l’impianto di quella legge che insieme al centrodestra pure hanno votato: insomma il ritardo non è casuale e qualcuno sta verificando la possibilità di approvarla con una maggioranza più ampia, tale da mettere la nuova legge al sicuro anche per le prossime legislature.
Lo dice esplicitamente Casini, che pur confessando di sentirsi meno «in sintonia» con Bersani sui temi eticamente sensibili e di condividere di più le parole di Alfano («la vita ce la dà e ce la toglie qualcuno e quel qualcuno non è il Parlamento»), poi è proprio al segretario del Pd che tende la mano quando arriva al sodo: «Sul fine vita c’è un’amplissima maggioranza e in questa legislatura la legge è assicurata. Però bisogna stare attenti, abbiamo l’interesse a consolidare il consenso per evitare che si cambi ad ogni legislatura. Non perdiamo l’occasione irripetibile che abbiamo oggi». Casini avrà «più condiviso, per ovvie ragioni», come dice lui, le parole di Alfano, però sembra riferirsi proprio al Pdl quando dice che bisogna guardarsi da chi parla dei temi eticamente sensibili «cercando la divisione pregiudiziale e non lavorando per dare una base di condivisione sempre più larga».
«NON POSSIAMO RIFIUTARCI»
Bersani, da «laico adulto e orgoglioso», è pronto al confronto: «Non è che possiamo rifiutarci di parlare di questi temi perché sono divisivi, ma gli esiti non devono essere divisivi». Dopo che il presidente della Cei ha insistito sui «valori non negoziabili» («tra questi, la vita umana, dal suo concepimento alla sua fine naturale, è certamente il primo»), il leader del Pd dice che non può esserci «negozio di valori», ma la necessità di ricercare un «compromesso» di fronte a «problemi che urgono», sì: «Un compromesso, come ha detto Papa Ratzinger, un promettere assieme una soluzione, perché le nuove tecnologie impongono una riflessione, perché per secoli il morire è stato un rito domestico e la paura maggiore era di una morte improvvisa, nella notte, mentre per molti oggi è la paura di una morte irta di tubi. Non per la sofferenza ma per la perdita della dignità».
FUORI I RADICALI
Fuori dalla sede dell’emittente dei cattolici italiani “Tv2000”, che ospita il convegno, protestano i Radicali e l’associazione Luca Coscioni. Dentro, Casini è raggiante mentre scattano i flash sull’inedito trio, Bersani spalla a spalla con Alfano sorride meno che nella foto di Vasto. Il segretario del Pd ribadisce in ogni occasione che questo non è un governo di larghe intese ma di «emergenza e di transizione» e che altra cosa è l’alleanza tra progressisti e moderati. Il leader dell’Udc vuole approfittare della situazione per dar vita a quella “coesione nazionale” che insegue da tempo per lasciare alle spalle il bipolarismo di questi anni. «Destra, sinistra e centro non sono più rappresentativi di nulla dice il leader Udc dal modo in cui verrà sostenuta l’azione dell’esecutivo si delineerà il futuro, nasceranno o meno nuove alleanze politiche». Trovare un’intesa su temi che finora hanno diviso più di tanti altri è una bella scommessa per entrambi.

il Riformista 19.11.11
Unità nazionale anche in bioetica?
Scienza e Vita. Convegno con Bagnasco, Alfano, Bersani e Casini. «Nuova situazione politica, si può parlarne con più serenità».
di Ubaldo Casotto

Roma. Prove tecniche di nuove maggioranze bioetiche ieri al convegno di Scienza & Vita. Che l’intenzione dell’evento fosse dialogica lo si evinceva dagli invitati alla tavola rotonda che seguiva la lectio magistralis del presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco; coordinati dal direttore di Avvenire Marco Tarquinio dovevano dibattere Angelino Alfano, Pierluigi Bersani, Pier Ferdinando Casini e Roberto Maroni. L’ex ministro leghista si è sfilato, come a voler segnalare anche in questa circostanza la scelta di campo del suo partito: l’opposizione. Che l’intenzione dialogica sia maturata in volontà unitiva lo si è capito dal singolare ritardo con cui sono iniziati i lavori. Di solito i riti ecclesiali hanno un orario di inizio fisso, chi c’è c’è. Alle 16 Bersani era già in sala, Casini stava scendendo le scale, mancava Alfano. A un certo punto i leader di Pd e Udc, insieme a Tarquinio e a qualche prelato sono usciti, evidentemente “convocati” dal cardinale che li attendeva in una sala riservata, e sono rientrati alle 17 con un sollevato direttore di Avvenire che diceva: «Finalmente ci siamo tutti, anche Alfano». Solo allora Bagnasco ha fatto il suo ingresso in sala.
La lectio del cardinale ha ricordato che il tema della vita umana non è eludibile solo perché «divisivo»; che il parlarne, essendo «la questione sociale diventata radicalmente questione antropologica» (Benedetto XVI), non può essere un confronto di pure libertà sciolte dal problema della verità sull’uomo; ha invitato a parlarne laicamente ammonendo che «l’assolutismo di una libertà individualistica» può essere una «prigione» più chiusa di quella dell’«assolutezza della verità», perché la laicità non può essere solo una «procedura» indifferente al contenuto, alla natura dell’uomo; spiegando che una certezza sui diritti della persona, fondati su qualcosa che non è solo convenzione, è raggiungibile anche «fuori da un’ottica religiosa». I tre politici, dopo le relazioni di Lucio Romano e di Luciano Eusebi di Scienza & Vita, sono intervenuti in rigoroso ordine alfabetico e di esigenze logistiche (aerei e altri appuntamenti). Alfano ha ricordato l’agenda bioetica del governo Berlusconi incentrata su vita, persona e famiglia, spiegando che questi valori diventano prassi politica attraverso il principio di sussidiarietà («l’idea più moderna di libertà») che implica «più società e meno Stato». Bersani ha rilanciato il dialogo tra credenti e non credenti, finalizzandolo a «una base comune di umanesimo pre-politica», ha speso parole di interesse per il pensiero di Ratzinger, sottolineando il suo apprezzamento per gli agnostici, ha riconosciuto che l’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma come base della cultura occidentale è un dato di fatto non discutibile e s’è detto d’accordo che debbano esistere valori non negoziabili, pena il venir meno di qualunque aggregato sociale: «E vero, il diritto non è pura convenzione», ma ha attaccato chi non riconosce la capacità di giungere a questa affermazione anche da parte di chi non crede: «Se non lo riconoscete, ci offendete». La politica ha aggiunto non farà negozio dei valori, ma deve cercare il «compromesso» di fronte a problemi che urgono, anche sul terreno antropologico e bioetico. «Parliamone, parliamone di più ora che c’è una nuova situazione politica» ha detto voltandosi verso Casini. Il leader dell’Udc ha colto la palla al balzo, dopo essersi detto «più vicino» alle argomentazioni di Alfano, ha osservato con piacere che «questo governo non ha un’agenda bioetica», quindi possiamo discuterne con più libertà, ha detto che Scienza & Vita non poteva scegliere giorno più significativo per parlare di queste cose, sulle quali si è fatto spesso un «contenzioso permanente dettato da interessi partitici», mentre questo momento politico è una grande opportunità per trovare, anche su questi temi, un «consolidamento» del consenso che è già maggioranza nel Parlamento (in tal senso si è detto pronto ad approvare la legge sul fine vita): «Allarghiamo la base di condivisione della legge su questi valori, difendiamoci da chi li usa per dividere; noi non siamo come altri Paesi europei, abbiamo una Chiesa più forte che è l’anima di questo Paese e ha un ruolo unitivo, noi cattolici abbiamo questa stessa responabilità». Alfano e Bersani non c’erano. Ad ascoltarlo, in prima fila, il cardinale Bagnasco.

il Fatto 19.11.11
Schifani e l’antitrust di famiglia
A vigilare sul conflitto di interessi del Caimano arriva il fido Pitruzzella
di Carlo Tecce


L’avvocato Giovanni Pitruzzella, 52 anni di Palermo, è il nuovo presidente dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, meglio conosciuta come Antitrust. È il successore di Antonio Catricalà, andato a Palazzo Chigi come sottosegretario di Ma-rio Monti. L'investitura è ufficiale: scelta, come da regolamento, dei presidenti Re-nato Schifani (Senato) e Gianfranco Fini (Camera), stretta di mano, ampi sorrisi e fotografie istituzionali al Quirinale. Non male per il governo Monti di larghe intese. L'uomo che dovrebbe tra le altre cose vigilare sul conflitto d'interessi di Silvio Berlusconi e di numerosi emuli italiani è un amico di Schifani al cubo: consigliere, avvocato, socio di famiglia.
Consulenze a raffica
Forse il governo Monti crede che per gestire il conflitto d'interessi sia necessario incarnarlo. Per conto di Schifani, offeso per una battuta di Marco Travaglio a Che tempo che fa, Pitruzzella ha chiesto al giornalista un milione e 750 mila euro, ottenendo dal giudice 16 mila euro. L'atto di citazione fu firmato da Pitruzzella e da Giuseppe Pinelli. Pinelli è il figlio di Nunzio Pinelli, che assieme al padre è socio di uno studio legale di rampolli con Roberto Schifani.
Pitruzzella è un concentrato di consulenze perché insegna Diritto costituzionale a Palermo. È consulente giuridico di Raffaele Lombardo, governatore siciliano. Per Lombardo ha curato un parere su nove assunzioni in Regione ricevendo un compenso di 31 mila euro. E per la Regione Sicilia vanta un mucchio di incarichi: presidente in Commissione paritetica, consulente per la riforma dello Statuto speciale, consulente in Commissione bicamerale per le questioni regionali del Parlamento italiano. Non finisce qui. Fino a pochi giorni fa, Pitruzzella era consulente giuridico anche per il ministero della Salute di Ferruccio Fazio: incarico dal 14 gennaio 2010, 60 mila euro. E soprattutto, in carriera per gradoni, dal settembre 2009 è presidente di garanzia per la Commissione scioperi, ovviamente scelto dalla coppia Schifani-Fini. Prima di diventare presidente, tanto per cominciare, mentre il governo di B. si scioglieva, nel 2006 debuttò nella Commissione scioperi con una nomina last minute accompagnata dalle proteste dei sindacati: “Giudichiamo la scelta del tutto discutibile”.
L’onore di Cuffaro
A parte l'amicizia di Schifani, l'avvocato in Cassazione è stato per anni consulente del governatore Salvatore “Totò” Cuffaro, attualmente in carcere per i suoi rapporti con la mafia. Non si limitava a suggerire leggi e riforme, ha anche scritto un libro con Totò che pensava di candidarlo per le provinciali. Pitruzella&Cuffaro hanno dato alle stampe Il coraggio della politica. Mezzogiorno, federalismo e democrazia.
Non è mancato coraggio a Schifani e Fini per indicare Pitruzzella, adorato a destra, apprezzato a sinistra. È stato anche l'avvocato in Sicilia di Vincenzo Visco, temuto ministro delle Finanze di Romano Prodi. Quando la Finanziaria nazionale obbligava i consiglieri palermitani di circoscrizione a ridursi il gettone – da 1.200 euro ai più modesti 500 – l'avvocato Pitruzzella è intervenuto con un mega-esposto per 67 di loro.
Il professore è in costante viaggio fra Palermo e Roma, amici politici di là, amici politici di qua. È socio di Magna Carta, la fondazione del senatore Gaetano Quagliariello (Pdl). Ed è proprio Quagliariello a vincere la corsa ai complimenti&congralutazioni, precedendo di un attimo Enrico La Loggia. Seguono a ruota: Confindustria, Regione Sicilia, Pdl, Api ma anche il Pd.
Indipendenza cercasi
Soltanto l'ex ministro Paolo Gentiloni si lascia sfuggire un dubbio: “Mi auguro che abbiano fatto la scelta più opportuna anche sotto il profilo dei requisiti necessari per un incarico così rilevante”. Siamo sicuri? La legge che istituisce l'Autorità (n. 287 del 1990) prevede che il presidente sia “scelto tra persone di notoria indipendenza che abbiano ricoperto incarichi istituzionali di grande responsabilità e rilievo”. Non parliamo della “notoria indipendenza”. Escluse le consulenze, il curriculum di Pitruzzella è quello che è. Sarà il successore di Francesco Saja, ex presidente della Corte costituzionale; di Giuliano Amato, ex presidente del Consiglio; Giuseppe Tesauro, ex avvocato generale presso la Corte di giustizia europea. Proprio Tesauro concluse un'indagine sul dominio televisivo di Mediaset, prontamente dimenticata da Catricalà. Chissà se Pitruzzella aprirà quel cassetto.

Corriere della Sera 19.11.11
«Se vince il buon senso per noi dal nuovo governo una boccata d'ossigeno»
Pier Silvio Berlusconi: volevo assumere Floris
di Daniele Manca


«Se devo essere sincero questo governo Monti per noi di Mediaset potrebbe rappresentare una boccata d'ossigeno, a patto ovviamente che prevalga il buon senso. Può apparire un paradosso considerando che il premier uscente è anche l'azionista di Mediaset. Ma le assicuro che, al di là delle mie idee politiche e dell'ammirazione e dell'amore che nutro per mio padre, forse adesso si capirà quanto ci danneggia il clima di ostilità attorno alla nostra azienda. Si rende conto che ogni cosa che facciamo fino a oggi è stata letta con la lente distorta della politica? Per motivi ideologici o di bottega, c'è chi ha sempre avuto interesse a confondere Mediaset col governo e viceversa». Pier Silvio Berlusconi appare tranquillo, nei suoi uffici di Cologno Monzese sta seguendo uno dei tanti dossier difficili, quello del riassetto di Endemol, una delle maggiori società creatrici di format televisivi e contenuti al mondo.
Suo padre non sarà molto contento di questo suo sollievo...
«E perché? Penso che anche lui sia ben consapevole delle ingiuste accuse rivolte a Mediaset per motivi politici. Intendiamoci, personalmente ho provato una grande amarezza per quello che è accaduto sabato».
Si riferisce all'assedio di sabato scorso a palazzo Grazioli al momento delle dimissioni?
«A quello, ma anche al fatto che mio padre negli ultimi mesi ha subito attacchi mai visti e inaccettabili per un Paese civile».
Per forza, l'Italia di Berlusconi è stata accusata di essere concausa di una crisi dell'euro...
«Esagerazioni senza senso. Già in questa ultima settimana penso che in molti si siano ricreduti. Ha avuto la forza di lasciare il governo senza una sfiducia parlamentare e si sta dimostrando il sostenitore più forte di Monti. Più di così...».
Il titolo Mediaset stava crollando in Borsa...
«Ma andiamo... Uno lascia il governo perché in Borsa un giorno Mediaset ha perso più del 10%? In Europa tutto il settore tv ha visto dimezzarsi nel 2011 le proprie capitalizzazioni. Le aziende dei media sono colpite non solo dalla crisi ma dal fatto che la rivoluzione tecnologica ha moltiplicato all'infinito la concorrenza e minaccia di far saltare gli editori, gli unici che rischiano davvero investendo in contenuti. Quello che temo è che in una situazione di mercato così delicata, una classe politica ideologica possa utilizzare trovate regolamentari per danneggiare un'industria italiana che si fa onore anche all'estero».
Ma non è che dice queste cose per ingraziarsi il nuovo governo?
«Bastasse un'intervista a superare quella che viene considerata una macchia, il peccato originale di essere stati fondati da Silvio Berlusconi. Monti ha una squadra di livello elevato e spero che riesca, oltre ad attraversare l'emergenza economica dell'Eurozona, anche a far superare quel clima d'odio che si è alimentato in Italia in questi anni. Insomma, che prevalga il buon senso».
Ma cosa teme?
«Ho letto interviste come quella di De Benedetti. Chiaro, è liberissimo di dire quello che vuole, ma non vorrei che le sue parole coagulassero visioni distorte più per interessi personali di business che per l'interesse del Paese. Se fosse così il timore di scelte insensate e ostili a Mediaset è lecito».
Ma non è che scambia l'ostilità con una normale concorrenza?
«No, affatto. Ho letto dichiarazioni riferite a Mediaset in cui si sosteneva che non è normale avere il 30% di ascolti e una quota più alta dei ricavi pubblicitari tv. A parte che i nostri ascolti sono intorno al 40% nonostante tutta la nuova concorrenza, ma che ragionamento è?».
È l'effetto concreto del conflitto di interessi.
«Macché, un manager del nostro settore sa benissimo che c'è una bella differenza tra gli ascolti generici e i contatti pubblicitari che vengono acquistati dagli investitori. E i nostri contatti pubblicitari sono perfettamente allineati alla nostra quota di mercato. La verità è che anche in un momento di grande cambiamento Mediaset ha saputo mantenere ascolti unici. Si pensa davvero che i telespettatori improvvisamente abbiano i telecomandi bloccati sui nostri canali? O che Sky, che ha alle spalle il maggior editore mondiale, dorma? Chi sostiene questo fa davvero un torto agli italiani».
Beh, le notizie che arrivano sul fronte del «beauty contest» per le frequenze televisive che a voi arriveranno gratis indica che qualche vantaggio lo avrete.
«Questa è un'altra favola. Se ottenessimo quelle frequenze dovremmo cominciare a spendere mettendoci contenuti altrimenti sarebbe come non averle. E visto che siamo in giornata di paradossi ne segnalo un altro: se l'assegnazione delle frequenze dovesse avvenire con un'asta a rilanci, vorrei vedere quale operatore tv sarebbe disposto a partecipare davvero».
Però col digitale avete potuto fare la pay tv Premium. Tutto vostro vantaggio.
«A vantaggio dell'Italia direi. Ora abbiamo concorrenza anche nella tv a pagamento e i prezzi per i telespettatori sono calati. Sfidare un monopolista ha significato grandi investimenti e grandi rischi da parte nostra. Tenga anche conto che, oltre ai 3 miliardi investiti sul digitale investiamo oltre un miliardo di euro all'anno solo in contenuti prodotti qui in Italia, perché nel nostro settore, a differenza di altri, non è possibile delocalizzare. E questo è un altro pregiudizio: si tende a vedere Mediaset e il suo lavoro come qualcosa di superfluo e non come un'azienda privata che più di tutte alimenta una vera industria, quella della comunicazione».
A proposito di comunicazione, non può negare che i suoi Tg siano stati filogovernativi. Vogliamo parlare del tg di Emilio Fede?
«Sapevo che si andava a finire lì. A parte che Fede è esplicito e se non interessa il suo punto di vista basta cambiare canale, i nostri tg le notizie le danno tutte e in più stiamo lanciando anche una rete all news che darà prova di obiettività. Non solo, quando sembrava che la Rai non rinnovasse il contratto a Giovanni Floris l'avrei preso al volo. E lui lo sa».
Mi scusi, ma davvero sembra che Silvio Berlusconi fosse un ingombro per Mediaset...
«Ma quale ingombro. L'ha fondata lui e a lui dobbiamo tutto. Ma di sicuro, il conflitto di interessi per noi è sempre stato un peso. Silvio Berlusconi è mio padre, io sono io e Mediaset è Mediaset. Con il 60% del capitale in mano al mercato. È così oggi e lo era anche prima. Spero solo che da ora Mediaset sia valutata realmente per i suoi meriti e i suoi errori, e non con il pregiudizio che tutto sia merito o colpa non di chi ci lavora ma di qualcun altro».

Corriere della Sera 19.11.11
I redditi dei ministri finiranno sulla Rete
La decisione: pubblici anche rapporti professionali e interessi patrimoniali Trasparenza e redditi
di Sergio Rizzo


La decisione, ci dicono, sarebbe stata già adottata. Il governo di Mario Monti avrebbe dunque raggiunto la determinazione di rendere pubblici e trasparenti, come ha sollecitato ieri il Corriere, redditi, interessi patrimoniali e rapporti professionali (quelli passati e quelli interrotti dall'ingresso nel governo) dei suoi ministri. Benissimo. Siamo adesso in attesa della pubblicazione su Internet, che speriamo assolutamente sollecita, di tutte queste informazioni: tanto più doverose perché si tratta di un esecutivo i cui componenti hanno ricoperto ruoli di spicco in settori economicamente rilevanti, come le banche e le grandi aziende pubbliche e private.
Una tale iniziativa, assolutamente inedita (e aggiungiamo coraggiosa) per un Paese come il nostro, avrebbe quindi anche il pregio di sgombrare il campo da sospetti e dicerie che inevitabilmente rischierebbero di entrare in circolo vista la caratura e la storia di alcuni componenti dell'esecutivo. Evitando inoltre che possano essere male interpretate alcune larvate indiscrezioni di cui già si parla, come quella secondo la quale nella prima versione del discorso programmatico del premier sarebbe stato contenuto un riferimento preciso al problema della trasparenza degli interessi e dei patrimoni dei politici. Riferimento poi risultato assente nella versione definitiva.
Crediamo che sul fronte del conflitto d'interessi nessun governo, in un momento come questo, possa concedersi passi falsi. Ciò vale a maggior ragione per chi, dopo una stagione politica fallimentare pure a causa di quella pesante ipoteca che ha trascinato con sé l'inquinamento affaristico, ha il compito di rimettere la barca sulla giusta rotta. Puntando proprio su un elemento prezioso che finora è mancato al cospetto dei mercati come di fronte ai cittadini: la credibilità. E la miglior polizza assicurativa non può essere che la trasparenza.
Analoga attenzione, ci permettiamo di osservare, deve essere posta alle questioni di opportunità (oltre che ovviamente alla qualità e alle capacità delle persone) nell'assegnazione degli incarichi collaterali. Sappiamo che i partiti, costretti a una ritirata in questo frangente dalle circostanze, non si rassegneranno. E torneranno alla carica, come già hanno tentato di fare. Per Monti, un altro banco di prova cruciale.
S. Riz.

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l’Unità 19.11.11
ANPI
Domani 130 piazze per il tesseramento e la Costituzione


«Una grande giornata per rafforzare le fila dell’antifascismo e il futuro della democrazia». L’Anpi lancia domani la sua campagna di tesseramento in 130 piazze di tutta Italia.
L’obiettivo è quello di «suscitare fiducia, per offrire uno spazio di partecipazione, per fare dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia un punto di riferimento, ancora più largo e forte, per tutti coloro che intendono assumere un impegno di responsabilità per il Paese».
In altre parole, si tratta di rilanciare le “radici” della Repubblica: antifascismo, Resistenza, Costituzione, «per tornare a incontrarsi intorno a quei capisaldi della democrazia che hanno permesso al Paese di condurre una esistenza civile per oltre 60 anni e che oggi si vorrebbero far passare per “vecchi”, quindi da stravolgere se non cancellare».
Nelle piazze dell’Anpi sarà ribadito il «no a chi sta togliendo dignità all’Italia e speranza in un futuro migliore ai cittadini». Sarà insomma «una giornata per le italiane e gli italiani e per la Costituzione».

l’Unità 19.11.11
Spese militari: ecco il codice etico firmato Veronesi
A Milano la terza conferenza mondiale del movimento “Science for peace” di Umberto Veronesi, promotore del Codice etico sul finanziamento all’industria delle armi. Interessate anche Intesa, Unicredit e Ubi Banca
di Luigina Venturelli


Messa alle strette dall’emergenza, forse la finanza pubblica riuscirà a fare quello che non è mai stata in grado di fare finora: avviare un processo di razionalizzazione e di generale ripensamento delle spese militari. Per il momento, l’enorme flusso di denaro dalle casse degli Stati al settore degli armamenti ha risentito ben poco della crisi: nel 2010 le spese militari mondiali hanno superato per la prima volta i 1.600 miliardi di dollari complessivi, con una crescita in termini reali dell’1,3% rispetto al 2008 e del 50% nel decennio iniziato nel 2001.
Tutto questo mentre continuano a diminuire gli investimenti per la ricerca scientifica e i fondi effettivamente spesi per la lotta alla povertà: secondo dati Ocse, ad esempio, nel 2010 le nazioni più sviluppate hanno stanziato meno di 130 miliardi di dollari in aiuti allo sviluppo. E L’Italia non fa differenza. «A causa della crisi economica, a fine 2011 probabilmente si registrerà una contrazione anche delle spese militari» spiega Francesco Vignarca, coordinatore della Rete italiana per il disarmo «ma come semplice frutto di tagli lineari, non di una riorganizzazione ragionata». Così la compressione delle risorse disponibili porterà Finmeccanica a tagliare 1.200 posti di lavoro nella controllata Alenia, mentre Fincantieri, prima dello stop sindacale, aveva annunciato ben 2.500 esuberi. «Eppure numerose ricerche internazionali dimostrano che la riconversione civile delle industrie militari farebbe da volano all’economia e all’occupazione» sottolinea ancora Vignarca.
IL RUOLO DELLE BANCHE
Per questo Science for Peace il movimento per la pace fondato da Umberto Veronesi, che ieri ha inaugurato la sua terza conferenza mondiale con 37 relatori provenienti da 15 Paesi diversi, tra cui quattro premi Nobel ha promosso l’elaborazione del primo Codice etico di responsabilità sul finanziamento all’industria degli armamenti. Un testo che fornisce strumenti e procedure per valutare le operazioni relative al settore, con particolare attenzione ai Paesi di destinazione delle armi, alla tipologia delle aziende produttrici, ed anche all’attività di supporto bancaria. E che finora, oltre all’adesione di gran parte delle organizzazioni non governative di solidarietà e cooperazione internazionale, ha convinto importanti gruppi bancari come Intesa Sanpaolo, UniCredit e Ubi Banca a «condividerne i principi e gli obiettivi» e a continuare la partecipazione al tavolo di lavoro «per l’evoluzione futura delle proprie procedure e la conseguente rendicontazione».
Il che, se ancora non vuol dire adesione piena, promette nel tempo da parte degli istituti di credito politiche più trasparenti e responsabili in merito ai finanziamenti nel settore degli armamenti. E se come sostiene lo stesso Veronesi il codice «si diffonderà a macchia d’olio» anche grazie alla collaborazione dell’Abi, in futuro si potrà sapere quale banca ha finanziato armamenti, con quanti soldi e in che momento, in totale trasparenza sia verso gli investitori che verso l’opinione pubblica.

Repubblica 19.11.11
Cambiare il mondo a Zuccotti Park
"Io, tra gli indignati i ragazzi di Wall Street più forti del potere"
di Roberto Saviano


"Oggi parlerò a Zuccotti Park. So che sarà un´esperienza del tutto nuova. La forza del movimento è centrifuga: unisce l´obiettivo, non la visione del mondo" "Qui, nella Gomorra finanziaria d´America, migliaia si stanno riappropriando della democrazia e stanno difendendo le sue regole"

NEW YORK. Quando ho ricevuto l´invito di Occupy Wall Street per parlare a Zuccotti Park, sono stato subito sicuro di una cosa: avrei partecipato a qualcosa di totalmente diverso da quello che ero abituato a vivere in Europa. Questo movimento conserva solo da lontano le sembianze di una protesta sociale come le abbiamo viste negli ultimi vent´anni.
Osservando i volti, le parole, le scelte, i comportamenti, ci si accorge che questa mobilitazione è del tutto nuova. Mantiene al proprio interno un legame necessario con tutto quello che è stata la storia dei movimenti sociali americani, ma c´è qualcosa di diverso che sta cambiando per sempre la sintassi della protesta nel mondo. La sua forza è centrifuga, ciò che unisce è l´obiettivo, non la visione del mondo.
Sono molto diversi i cuori che sincronizzano i loro battiti a Zuccotti Park, le menti di coloro che si ritrovano per ragionare insieme. Alcuni sono liberali, alcuni anarchici, altri si dichiarano socialisti, libertari, ambientalisti, democratici, e ci sono persino ragazzi che si definiscono repubblicani. Troviamo ragazze e ragazzi atei e molti credenti. Ci sono musulmani, ebrei, indù, buddisti e cristiani. Molti ventenni, ma tanti manifestanti sono più maturi. Ci sono studenti e disoccupati, però la maggior parte di chi protesta ha un lavoro: insegnanti, consulenti finanziari insoddisfatti, istruttori di Pilates, infermieri. Questa è la prima grande differenza che ho incontrato. Tutti cercano di dare risposte a domande che si pongono milioni di persone. Perché se studio molto non riesco a trovare lavoro? Perché se sono bravo sul lavoro non riesco a guadagnare di più? Perché non posso permettermi una scuola decente e cure mediche adeguate? Perché la finanza sta creando ricchezza ma non sviluppo? Perché anche quando sbagliano i finanzieri non pagano mai? Perché i broker hanno bonus milionari anche quando hanno guadagnato solo da speculazioni?
I ragazzi di Occupy ti dicono che se senti tue quelle domande, puoi provare a rispondere insieme a loro. A Zuccotti Park ci si incontra e si discute per vedere se è possibile trovare le ragioni per impegnarsi in una protesta condivisa. Occupy Wall Street vuole comunicare un concetto semplice e immediato: tutto questo vi riguarda. Riguarda voi e le vostre vite. Riguarda i vostri figli, i vostri genitori e i vostri nonni. Riguarda i figli che non farete se le condizioni non cambieranno.
Questa fiducia in un movimento capace di includere è il contrario di quanto ho visto spesso in Italia, dove si sottolineano le differenze per non aggregarsi, dove si dibatte su chi ha tradito, dove ci si isola andandone fieri perché il vicino è sempre troppo moderato o troppo radicale, o è amico del nemico. Invece a Zuccotti Park non c´è la gara per chi dev´essere incoronato re degli oppositori, non si cercano i depositari più autentici dei sentimenti critici dei cittadini. Per cogliere appieno questa diversità molteplice che è stata in grado di farsi movimento, invito tutti a guardare le foto, i video, e leggere cosa dicono i manifestanti. Lì risiedono i loro programmi. Non sono trattati di economia, né manifesti politici. Sono riflessioni possibili che sgorgano dalla condivisione di singole esperienze.
Un ragazzo sorridente tiene in mano il suo cartello su cui c´è scritto: «I media tradizionali vogliono farvi credere che io sia un punk disoccupato anarchico che sostiene il comunismo. La verità è che sono uno studente universitario di 19 anni che fa due lavori per potersi permettere un´istruzione esageratamente cara. Sto inseguendo i miei sogni mentre Wall Street continua a speculare sul mio futuro. Se non vado bene nello studio, vengo cacciato dall´università. Se non faccio bene il mio lavoro, vengo licenziato. Quando quelli che lavorano a Wall Street mentono, imbrogliano e rubano, ricevono stipendi da record e bonus enormi. Mi rifiuto di stare zitto mentre i miei concittadini soffrono per le azioni incaute e irresponsabili di qualcuno nella nostra economia. Io sono la maggioranza. Io sono il 99%. Sorrido perché so che il potere delle persone è molto più forte delle persone al potere».
È questo il linguaggio con cui Occupy Wall Street si batte contro la disuguaglianza economica e sociale sviluppatasi soprattutto a seguito della crisi del 2008, dopo la quale è stato riservato un diverso trattamento ai debiti delle grandi finanziarie e a quelli dei cittadini. Chiedono più lavoro e lavori migliori, una più equa distribuzione della ricchezza, riforme bancarie e una diminuzione dell´influenza delle aziende sulla politica. Ma lo fanno con ciascuna delle loro voci singole, come un coro polifonico, e con ciascuno dei loro corpi accampati nei parchi o altrove, come una ripresa delle prime pratiche della democrazia, quando l´agorà era il centro della polis. Occupy Wall Street è fermamente antigerarchica: non ha costruito un leader, né un portavoce, anche perché finora il movimento si è rifiutato di avanzare rivendicazioni specifiche – questa di solito l´accusa che gli viene mossa dai suoi oppositori. Il motivo per cui sono stato invitato è quello di innescare una riflessione su quanto tutto questo abbia a che fare con l´Italia, dove la crisi è arrivata in maniera durissima e dove si sta radicando una protesta simile per slogan e identica per motivazioni a quella che da Zuccotti Park ha cominciato a dilagare negli Stati Uniti.
A Zuccotti Park andrò a parlare di come le mafie si stanno mangiando l´economia, perché la crisi innescata dalla speculazione finanziaria, creando problemi di liquidità alle banche, ha aperto enormi territori d´azione ai mafiosi di tutto il mondo che invece dispongono di liquidità inimmaginabili. Si comincia dal semplice strozzinaggio per chi non riesce a pagare un mutuo e si arriva alla possibilità di comprarsi imprese, immobili, quote societarie e infiltrarsi ovunque.
Il fatto curioso è che il movimento aveva ricevuto una delle spinte iniziali dal gruppo canadese di attivisti Adbusters che a luglio invitava a occupare «il più grande corruttore della nostra democrazia: Wall Street, la Gomorra finanziaria d´America». Avevo usato la stessa metafora per descrivere il potere della camorra, ora invece la città biblica è divenuta simbolo del potere distruttivo della finanza. Lo slogan "Noi siamo il 99%", si riferisce alla differenza negli Stati Uniti tra l´1% dei ricchissimi e il resto della popolazione. Secondo il Congressional Budget Office, dal 1979 al 2007 il reddito del 90% delle famiglie è diminuito di 900 dollari, mentre quello dell´1% è cresciuto di più di 700mila dollari. Dopo la Grande Recessione iniziata nel 2007, la percentuale di ricchezza totale detenuta da quell´1% della popolazione è addirittura passata dal 34,6% al 37,1% e il gap tra l´1% e il 99% si è ampliato ulteriormente. Una disparità mostruosa che, mancando la volontà di intervenire, sembra destinata a non subire modifiche. Volevano occupare Wall Street per due mesi e ci sono quasi riusciti. Dal 17 settembre fino a pochi giorni fa i dimostranti non hanno mai abbandonato l´accampamento di Zuccotti Park, nonostante la neve. La piazza è stata attrezzata con una cucina che fornisce pasti gratuiti – ha dato una mano persino l´ex chef di un grande albergo – punti informazione, bidoni per la spazzatura differenziata, una biblioteca con libri donati, un pronto soccorso, un media center dove è possibile usare il proprio laptop e attaccarsi a una spina. Inizialmente la corrente veniva da un generatore a gas, ma da quando i Vigili del Fuoco lo rimossero per pericolo d´incendio, per produrre l´energia vengono usate biciclette collegate con un motore e un diodo a senso unico.
A Zuccotti Park ci sono psicologi che forniscono assistenza ai disoccupati, una cassetta delle lettere che riceve un continuo flusso di corrispondenza e pacchi dono con gli oggetti più disparati – dalle batterie per fare foto e video a barrette di cereali e spazzolini. C´è persino chi, in tutto il paese, paga con propria la carta di credito il cibo da far consegnare dai fast-food e dalle pizzerie vicine. Ogni giorno si tengono due assemblee generali, ma siccome a New York occorre un permesso anche per un megafono e Occupy Wall Street non è autorizzata, i contestatori si sono inventati il "microfono umano". La persona che sta facendo un discorso si ferma, lasciando che le persone vicine ripetano quel che ha detto, e questo produce un ulteriore effetto aggregante. Tra le 100 e le 200 persone hanno dormito ogni notte a Zuccotti Park, e anche i loro sacchi a pelo sono spesso donati. Secondo alcune fonti, fino al 27 ottobre 2011, hanno ricevuto circa 500mila dollari in donazioni.
Tutto questo però è stato smantellato. All´una di notte del 15 novembre Zuccotti Park è stato sfollato. Ma i manifestanti non si sono persi d´animo e hanno deciso di spostarsi a Foley Square, poi a Duarte Square, infine verso il ponte di Brooklyn. Il metodo del movimento è straordinario. Sanno che i media si occupano delle proteste quando ci sono scontri, violenze e arresti. Ma sanno anche che quando i media si occupano degli scontri, spariscono le idee e le critiche che la protesta esprime.
I metodi della non violenza e della disobbedienza civile sono abbracciati e divulgati in tutti i loro aspetti. Vorrei dire a questi ragazzi che stanno facendo molto. Stanno riappropriandosi della democrazia e stanno difendendone le regole, difendendo l´assunto che l´economia debba sottostarvi. Ma cercherò soprattutto di sentire un calore speranzoso che ho perso da molto tempo e che sento sempre meno in Italia, quello espresso dal ragazzo sorridente e dal suo cartello. Sorrido perché so che il potere delle persone è molto più forte delle persone al potere.

Repubblica 19.11.11
Barack si affida a Michelle, la "motivatrice in capo"


WASHINGTON - Toccherà a Michelle tirare la volata al marito per la corsa alla Casa Bianca. Jim Messina, responsabile di "Obama for America", l´organizzazione elettorale che lavora per una seconda vittoria del presidente in carica, ha detto ieri al quotidiano The New York Times: «La First lady ha il potere di giocare un ruolo unico come ambasciatrice del presidente. Ha ottenuto grandi successi quando seguì Obama lungo tutto il Paese, nella campagna elettorale del 2008, e ci aspettiamo che la sua presenza sia di nuovo decisiva in vista del voto del 2012». Il sorriso di Michelle e la sua popolarità, ottenuta grazie all´impegno in alcune battaglie di successo quali quelle contro il bullismo e la bulimia, secondo Messina sono fondamentali per «dare energia allo staff presidenziale» e «parlare alle mamme americane».

il Fatto 19.11.11
La cultura, città invisibile
di Antonio Tabucchi


È da oggi in libreria il volume Saudade di libertà, che raccoglie alcune conversazioni di Antonio Tabucchi con Marco Allioni. Proponiamo un’anticipazione dal capitolo “La letteratura va a un altro passo. Pensiero dominante logiche editoriali
Tabucchi, come la mettiamo con la contestazione in un contesto come quello consumistico, in cui tutto sembra equivalersi? Dove cioè il mercato accoglie tutto e il contrario di tutto, e ogni critica ricade nel grande calderone delle idee (equivalenti proprio perché equiparate a qualsiasi altro prodotto)?
Il pensiero dominante non è necessariamente imposto da ideologie, può anche essere imposto da costumi, o da tradizioni, o da ciò che si suole chiamare il “senso comune”, ecc. Tutto sommato le leggi che produciamo, quelle che strutturano una società, derivano da una collettività che esprime, nella sua maggioranza, una certa forma di pensiero: e proprio da qui nasce quel famoso articolo del Codice che dice di una determinata cosa che va contro il cosiddetto “senso comune”, ad esempio “il comune senso del pudore”.
Ma vede, il problema è che il “senso comune” si riassume in un articolo del Codice rimasto indietro rispetto all’evoluzione dei costumi sociali; e se noi potessimo misurarlo con uno strumento approssimativo per difetto (un referendum, per esempio) ci accorgeremmo che tra il “senso comune” come era inteso in Italia nel 1950 e l’idea che i cittadini ne hanno oggigiorno c’è un’enorme differenza. Del resto i referendum degli anni Settanta in Italia sul divorzio e sull’aborto lo hanno dimostrato. C’è dunque un’evoluzione nel cosiddetto “senso comune”. Ma anche nelle abitudini, nel modo di essere, nella visione della vita. Spesso la letteratura è in anticipo rispetto a tale evoluzione, e ciò può turbare o disturbare. Non è una legge ferrea, la letteratura può anche essere in armonia con il “senso comune”, però quasi sempre arriva prima. È pioniera, e in quanto tale Enzensberger ha ragione a definirla “contestazione in sé”.
È OVVIO che una contestazione “artificiale”, cioè priva di sostanziale contestazione, diventa un atteggiamento analogo a quello del pensiero dominante, una forma di consumismo delle idee che si confronta con il cosiddetto mercato culturale con gli stessi criteri. Ma se dovessimo misurare la funzione o l’efficacia della letteratura da questo punto di vista la letteratura sarebbe perdente in partenza. Sull’immediato, nello spazio del consumo, chi vince è evidentemente il mercato: i media, la televisione, i giornali, i best-seller. Se uno scrittore pensa di competere con tutto questo è stritolato, se si adegua diventa come loro. È un po’ come alle Olimpiadi, la letteratura non può competere sui cento metri, sui cento metri perde, è bruciata. La letteratura va a un altro passo, semmai quello della maratona: l’efficacia di un libro si misura anche dopo anni, è fatta di attesa (...).
Il problema del libro di consumo non è che è cattivo in sé, è che se esso diventa preponderante soffoca i libri migliori, toglie loro lo spazio, perché una casa editrice più di tanto non può pubblicare. Credo comunque che in Italia ci sia ancora un’editoria che lascia un certo spazio: certi piccoli editori (e sono numerosi), e anche editori più grandi che hanno una programmazione intelligente. Comunque a me è capitato di dover consigliare dei dattiloscritti che mi erano parsi di valore o dei libri stranieri che mi erano piaciuti e di sentirmi rispondere che non c’era spazio. Del resto i miei contatti con il mondo editoriale sono sempre stati insignificanti. Mantengo ovviamente un buon rapporto con il mio editore, ma è un fatto del tutto privato, io non ho mai lavorato per l’editoria, come Pavese e Vittorini o Calvino o la Ginzburg, ho sempre fatto esclusivamente il professore universitario. E francamente non so se oggi l’editoria avrebbe bisogno di Calvino o della Ginzburg.
In una situazione come quella attuale, dove l’autorità degli scrittori sembra ormai subordinata a questo tipo di politiche editoriali, a chi possono fare ancora paura gli intellettuali e la letteratura?
Se la letteratura e gli intellettuali possono far paura? Ma chi vuole che abbia paura di Virginia Woolf?
LA NOSTRA classe politica non ha certo bisogno degli intellettuali o della letteratura, e del resto si vede. Figuriamoci se ne hanno paura. Hanno eventualmente paura degli show-men, dei presentatori televisivi, vogliono le loro lodi e temono le loro critiche. E infatti i programmi televisivi li conoscono bene.
Quanto all’altro potere in Italia, la Chiesa, a parte rare eccezioni (certi prelati colti, certi intellettuali come il cardinal Martini o il cardinal Tonini) non direi che questa istituzione abbia bisogno di letterati o di intellettuali. E neppure di scienziati. È una vecchia consuetudine italiana. Oggi la parola intellettuale è usata quasi come un’ingiuria. Gli intellettuali sono sempre stati odiati. Durante il fascismo sappiamo perché, e nel dopoguerra le cose non migliorarono di molto se gli intellettuali o gli scrittori non ubbidivano ai comandamenti dell’altra madre Chiesa italiana, il Pci. Quando Vittorini lasciò il partito Togliatti scrisse: “Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato! ”. Ricorderà la definizione che in quell’occasione diede degli intellettuali: “Pidocchi nella criniera del cavallo”. Credo che il cavallo italiano oggi abbia scosso tutti i pidocchi dalla propria criniera. E galoppa verso il futuro con la criniera al vento, come si può vedere.

La Stampa TuttoLibri 19.11.11
A chi soffre tocca in sorte conoscere
di Alessandro Defilippi


Depressione L’«elogio» del male oscuro, passando da Leopardi a Jung a Melanie Klein
pAldo Bonomi, Eugenio Borgna ELOGIO DELLA DEPRESSIONE Einaudi, pp. 140, 6,99

Elogio della depressione è un titolo provocatorio e disturbante, che assegna una valenza positiva a quello che Giuseppe Berto definì il male oscuro. Il libro di Borgna e Bonomi, da poco pubblicato da Einaudi, è un testo bifronte: un capitolo scritto da un sociologo, Aldo Bonomi, e uno da uno psichiatra, Eugenio Borgna, con in conclusione un dialogo tra i due. Il saggio di Bonomi ci introduce, con linguaggio talora involuto, a una critica a quello che l’autore chiama biocapitalismo, in cui avviene la «diretta messa al lavoro della psiche umana», che è del tutto assorbita dai meccanismi capitalistici e da essi sfruttata, con «effetti tellurici sulle relazioni e sulla psiche stessa». Un mondo che produce un’«infelicità desiderante», nel quale viene a mancare l’incontro tra esseri umani intesi come soggetti. L’essere umano è ridotto a consumatore, non però in quanto soggetto del consumo, come ingannevolmente ci induce a credere la struttura capitalistica (tu consumi e quindi esisti, appaghi i tuoi desideri e fai funzionare l’economia), ma come oggetto della stessa struttura. O consumi, in quanto oggetto, oppure scivoli fuori dalla struttura e quindi dalla società. L’«egologia» - la centralità dell’Io affermata dalla contemporaneità - si fa «malaombra» nella quale scivolano i più vulnerabili. L’essere umano diviene un Io-oggetto, che passa dall’essere desiderante all’iperdesiderante, fino al desiderante senza limiti, condannandosi così all’infelicità. Il discorso di Bonomi, in questo senso, si avvicina a quello di Massimo Recalcati, nel suo Cosa resta del padre .
Recalcati, nel suo bellissimo libro, parla di «un’emarginazione del discorso amoroso», che in Bonomi si rintraccia nell’attuale prevalenza dell’«egologia» rispetto al Noi, e di un’assenza del limite, nella possibilità - illusoria - di avere tutto e subito. L’Altro non viene più visto, il Noi si cancella, ma in questa situazione di desiderio e di apparenti possibilità senza limiti, permane il dolore di esistere, ingannato dalla fede negli oggetti del consumismo.
Di questo dolore ci parla il testo di Borgna, uno dei grandi saggi della psichiatria italiana, che si apre a un discorso, emotivamente e intellettualmente coinvolgente, sulla natura delle emozioni e delle passioni. Partendo da Leopardi, Borgna ci ricorda come «le passioni, e la sofferenza è la prima delle passioni, sono forme della conoscenza». Se la sofferenza (qui Borgna cita S. Weil) è la prima delle passioni, quale sarà quindi il valore conoscitivo della depressione? Da questo punto di vista, Borgna non è certo isolato: «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto», scrive il vangelo di Giovanni. Lo stesso Jung, parlando della nigredo, lo scurirsi alchemico, il marcire, vede la depressione come uno stato del processo individuativo; e Melanie Klein ci mostra come la posizione depressiva (in cui il bimbo riesce a riunire in un’unica figura sia la madre buona che offre il seno sia la madre cattiva, che lo nega) sia un’evoluzione necessaria per accedere alla realtà. Si devono riscoprire, scrive Borgna, «i valori e i significati che nella depressione si nascondono». Borgna è qui molto attento nel distinguere i tre grandi tipi di depressione: quella psicotica, la «depressionemalattia», quella reattiva, conseguenza di eventi traumatici come perdite gravi, e quella esistenziale, che può cogliere ciascuno di noi, specie nelle grandi transizioni della vita, nei momenti di crepuscolo, quando percepiamo più chiaramente il rischio del non senso in ciò che viviamo e facciamo.
La depressione è però - può essere - anche uno strumento, una sorta di antenna, legata alla sensibilità e alla fragilità, la «premessa a ogni conoscenza intuitiva degli altri da noi». Quella che, in un suo saggio sulla psicoterapia e sull’essere psicoterapeuti, Aldo Carotenuto aveva chiamato la ferita-feritoia, attraverso la quale percepire e patire la sofferenza dell’Altro. Nella depressione e nella malinconia si colgono le tracce di «una profonda disposizione altruistica», che combatte contro l’indifferenza che pare essere la cifra distintiva del mondo contemporaneo. La depressione, al di fuori delle nosografie psichiatriche e al di fuori dei suoi tratti psicotici (in cui la totale abolizione del futuro conduce il paziente - colui che patisce - verso l’esclusione dell’Altro dal suo orizzonte esistenziale), diviene così autentico strumento di conoscenza di quello stesso Altro.
D’altro canto, come scrive Schneider, citato da Borgna, «ci dovremmo preoccupare non di essere stati depressi una volta in vita, ma di non esserlo stati mai». Perché, potremmo aggiungere, è attraverso la depressione che noi possiamo attingere alla nostra labile umanità. "Il sociologo Bonomi e lo psichiatra Borgna: il dolore di esistere, ingannato dalla fede nel consumismo"

La Stampa TuttoLibri 19.11.11
Alina Bronsky/Prima e dopo l’Urss
Con i piatti piccanti si digerisce il comunismo
di Nadia Caprioglio


I piatti più piccanti della cucina tatara di Alina Bronsky non è un libro di cucina. E' la storia tragicomica di tre generazioni di donne che nell'arco di trent'anni passano attraverso il comunismo, la povertà, l'emigrazione e vari traumi psicologici. Rosalinda, russa di origine tatara, è il capo della famiglia: matriarcale, invadente, crudele, tuttavia dotata di forte immaginazione e iniziativa, vive in un tipico appartamento sovietico con il marito, segretario del sindacato che sogna di liberare tutti gli uomini dalla discriminazione delle cosiddette «radici culturali», la figlia adolescente Sulfia, che Rosalinda considera «una canna al vento» stupida e deforme, e una coinquilina intrigante e sgradevole.
Ma forse Rosalinda non ha proprio tutto sotto controllo come crede: un giorno (siamo alla fine degli Anni 70 del secolo scorso) Sulfia le comunica di essere incinta, probabilmente «per aver sognato un uomo durante la notte». Il romanzo comincia in realtà da qui, dallo sgabello in cucina, per poi portare il lettore attraverso anni e paesi stranieri, catastrofi, matrimoni, scandali... Poiché né i senapismi bollenti, né il ferro da calza funzionano, viene alla luce una nipotina, una bambina sovietica senza nazionalità, chiamata Aminat come la nonna di Rosalinda nata nel Caucaso, che metterà a soqquadro la sua vita.
Non basterà la torta Napoleone, preparata per il compleanno, con i suoi dieci strati croccanti di pasta sfoglia, a rendere dolce e leggero il futuro di Aminat. L'esistenza quotidiana diventa una prova costante della capacità di sopravvivenza dei personaggi, mentre la storia attraversa momenti epocali. I piatti piccanti della cucina tatara che Rosalinda mette in tavola con orgoglio, sono in realtà piatti di sua invenzione, creati con gli unici alimenti reperibili all'epoca del ristagno brež neviano. Quando il vento cambia, poi, è ancora più difficile e per comprare un po' di pane e di patate Rosalinda deve riportare i vuoti delle bottiglie di latte racimolando le monete della cauzione. Infine, quando sia il paese che la sua città cambiano nome, spuntano ovunque «chioschi e banchi, con file di scatoloni pieni di generi alimentari», ma la gente è vestita male e ha la miseria negli occhi. Il suo maniacale istinto di sopravvivenza spinge Rosalinda a emigrare in Germania, «il paese che non ci ha sconfitto», anche a costo di rischiare per Aminat la sorte della Lolita nabokoviana.
I temi del romanzo di Alina Bronsky, nata in Russia ed emigrata in Germania, sono gli stessi del suo romanzo di esordio, La vendetta di Sasha: l'identità, l'amore, il fallimento, la perdita. Tuttavia, alla fine del romanzo, quando ormai non potrà più «rimediare agli errori degli altri», Rosalinda troverà il primo uomo nella propria vita da poter amare e rispettare, forse il suo primo amore: un gentleman inglese con un grande giardino e venti tipi di tè nella dispensa. Il tè era sempre stato la sua passione.
Alina Bronsky I PIATTI PIÙ PICCANTI DELLA CUCINA TATARA traduzione di Monica Pesetti edizioni e/o, pp. 253, 18

La Stampa TuttoLibri 19.11.11
“Ungà fumava erba, io curavo le sue poesie”
di Mirella Serri


Letterato e manager, è stato allievo di Ungaretti e ha avuto in mano le redini della Rai tra il ’60 e il ’70 mescolando rubriche di libri, Mike, e sorelle Kessler

«Caro Leone, qui ad Harvard mi considerano il maggior poeta vivente, incontro gli studenti e… le ragazze mi fanno le fusa! Una, ed è stata la prima domanda che mi è stata fatta, mi ha chiesto cosa ne pensassi dell’amore libero. E’ una domanda che mi conviene. Ti dirò un’altra cosa, a New York, con una bellissima ebrea e altri due amici, abbiamo fumato marijuana. Non mi ha fatto niente, assolutamente niente e non capisco perché la fumino. Ma la ragazza era voluttuosa». Così l’ottuagenario sbarazzino che si firma «Ungà» scrive nel 1969 all’allievo Leone Piccioni. Nello stesso anno il discepolo dà alle stampe il Meridiano con la raccolta delle poesie di Giuseppe Ungaretti, rafforzando il legame di complice amicizia, come testimonia la scintillante letterina ora pubblicata nell’ultimo libro di Piccioni, Vecchie carte e nuove schede. 1950 (Nicomp).
Notissimo critico letterario, nato a Torino, autore di saggi come Lavagna bianca eRitratto fuori moda, uomo di radio e di televisione, sempre nel ’69 Piccioni aveva preso le redini dell’azienda, al cui vertice stava Ettore Bernabei, con il ruolo di vicedirettore generale. Diventando il capitano di ventura di un’inedita pista intellettuale che si divideva tra Leopardi, Ungaretti, Carlo Bo, Montale, la dotta trasmissione «L’Approdo» e i numi dell’intrattenimento sul piccolo schermo, come Mike Buongiorno, Sandra Mondaini, le sorelle Kessler. «Sono stato molto legato non solo a Ungaretti ma anche al suo storico avversario Montale dice Piccioni -. Il poeta degli Ossi di seppia aveva fama di essere molto freddo, compassato e persino un po’ cinico ma io l’ho visto anche piangere. Era spiritosissimo. Non mi conosceva e chiese notizie su di me a Gadda. “Lavora con Ungaretti”, lo informò. E lui lapidariamente: “Poteva anche capitare peggio! ”».
Comunque Ungaretti è la pietra miliare nella sua vita di critico?
«Prima di arrivarci divoro libri su libri. Jack London, in primis: sposava la causa dei più poveri e mi conquistava. Faulkner con Luce d’agosto e il personaggio di Joanna, antischiavista segnata da un tremendo senso di colpa verso i neri, mi illuminava sull’America razzista. Negli anni in camicia nera furono finestre aperte su un mondo sorprendente e sconosciuto America primo amore di Mario Soldati che raccontava il suo viaggio negli Usa dal 1929 al 1931; America amara di Emilio Cecchi e Americana, l’antologia curata da Elio Vittorini. Questi libri mi accompagnarono nelle mie scoperte insieme ai calci nel sedere di un federale».
Cosa le capitò?
«Mio padre Attilio, destinato dopo la guerra a diventare vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, era un avvocato che aveva militato nel Partito popolare. L’aria di casa era di opposizione al regime e si tendeva a sottovalutarne i diktat. Un sabato andai alla manifestazione fascista non con i pantaloni alla finlandese, come voleva il nuovo regolamento, ma alla zuava. Un gerarchetto di provincia infierì colpendomi violentemente e fu tremendo».
Altri capisaldi del suo antifascismo?
«Benedetto Croce e il suo Perché non possiamo non dirci cristiani fu percepito come una rivelazione da un cattolico liberale come me. Erano idee e parole in cui mi riconoscevo. Poi iniziò la mia educazione sentimentale».
L’occasione?
«Dopo l’8 settembre 1943 tutta la famiglia fu costretta a rifugiarsi in montagna, nella canonica di un parroco amico. I fascisti mi cercavano perché non mi ero presentato alla leva secondo quanto prescritto dal bando Graziani. In quella solitudine ho divorato Tolstoj, Dostoevskij, Kafka, Cechov, Flaubert, Stendhal, Camus, Hemingway, Poe, Kafka. Leggevo e mandavo lunghe lettere di commento a De Robertis che mi rimproverava, mi diceva che ero confuso e mi raccomandava di concentrarmi su Foscolo e Petrarca».
Finita la guerra?
«Vengo assunto alla Rai. Tra i primi servizi seguo De Gasperi a Parigi dove pronuncia il discorso alla Conferenza per la Pace con il sublime inizio: “Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me... ”. Da far venire le lacrime agli occhi per la passione con cui si impegnò a ridar dignità al nostro Paese. Mio padre gli era molto vicino: quando nel gennaio 1947 partì per gli Stati Uniti, il presidente del Consiglio non aveva un cappotto presentabile e se lo fece prestare da lui. Altri tempi».
Anche per la Rai.
«Non si sentiva parlare di veline o di scambi sessuali per avere un posto. La professionalità veniva prima di tutto».
Però la mannaia della censura si accaniva sul piccolo schermo.
«Si è discusso molto della vicenda che mi ha opposto a Dario Fo e Franca Rame nell’edizione più burrascosa di Canzonissima del 1962. Avevo visto in anteprima lo sketch che i due conduttori proponevano su un costruttore edile che si rifiutava di dotare di misure di sicurezza la propria azienda. Mi consultai con il presidente Bernabei e si decise che non era compatibile con lo spirito della trasmissione. Troppo drammatico. Fo e la Rame abbandonarono e furono sostituiti da Sandra Mondani e Tino Buazzelli. Mi querelarono ma fui assolto perché il fatto non costituiva reato. Non mi sono mai pentito di aver esercitato quel diritto, la satira in quella maniera non aveva niente a che vedere con quel tipo di spettacolo».
Libri che l’hanno consolata in momenti difficili?
«Il periodo più nero è stato quello in cui mio fratello, musicista e jazzista, fu accusato di omicidio colposo. Fu coinvolto nella vicenda dell’uccisione di Wilma Montesi, il caso di cronaca nera più clamoroso degli Anni Cinquanta che fece versare fiumi di inchiostro. Nessuno riuscì a dimostrare che mio fratello conoscesse quella povera ragazza. La sua fidanzata, la bellissima Alida Valli, testimoniò che Piero, quel pomeriggio fatale, era con lei a Ischia. Fu assolto. Si trattò di una manovra all’interno della dc per mettere fuori gioco chi veniva visto come un prosecutore della politica di De Gasperi. Non lessi molti libri in quegli anni».
«Altri scrittori amici?
«Tanti. Raffaele La Capria, Landolfi, Flaiano, Moravia, Ortese, Parise. E poi Gadda, ineguagliabile con il suo humour. Mi ricordo quando lo conobbi a Firenze. Era prima della guerra e lui stava cambiando casa. I traslocatori che scendevano incontrarono quelli che salivano con la mobilia del nuovo inquilino. Una confusione! Imperturbabile commentò: “Talvolta la provvidenza mi riserva questi riguardi”». "«Soldati, Cecchi, Vittorini, durante il ventennio furono finestre aperte su un mondo sconosciuto» «Leggevo Tolstoj, Kafka, Flaubert: De Robertis mi rimproverava, dirottandomi su Foscolo e Petrarca» «Il periodo più nero quando mio fratello fu coinvolto nel caso di Wilma Montesi: i libri non consolavano»"

Repubblica 19.11.11
Il maestro ci parla del melodramma verdiano che dirigerà all´Opera di Roma dal 27 novembre Uno spettacolo bello e importante che ha debuttato in estate a Salisburgo con la regia di Peter Stein
"Così finiscono i dittatori che usano il potere per il male"
di Leonetta Bentivoglio


ROMA. Il Macbeth di Verdi che debutta all´Opera di Roma il 27 novembre (spettacolo bello e importante di Peter Stein, creato per Salisburgo l´estate scorsa, e ora riadattato al palcoscenico romano) vive in una scatola nera colma di formidabile tensione musicale. E´ una cupa voluttà di streghe e sangue, un incubo sulla brama del dominio, un luogo scivoloso, che glissa in zone di follia e morte. Dirige dal podio Riccardo Muti, che quest´opera la sente e conosce nel profondo. Verdiano di testa e di cuore, ha la sapienza e il controllo delle sue spire diaboliche. «E´ come se la musica di Macbeth gli scorresse nelle vene», ha detto Peter Stein.
Maestro Muti: lei dirige da anni opere verdiane, con passione immutata. Ogni volta le riscopre?
«Certo. Tornando a titoli come questo, di volta in volta io imparo, esploro, comprendo e plasmo la drammaturgia musicale sui nuovi interpreti. E nel trascorrere della vita, lo sguardo cambia, condizionato da ciò che accade intorno. La realtà è velocissima e assillante: siamo colpiti da informazioni sempre più violente, ignoriamo la direzione del futuro, assistiamo ai soprusi in tempo reale. Si può solo cercare di osservare, e di provare a capire, anche grazie a questi eterni capolavori. I giovani sono schiacciati dall´incertezza del lavoro e dal crollo dei valori. Per questo gridano, protestano, invocano… Intanto i cardini di un´identità secolare sono minacciati. L´ho detto mille volte, e non mi stancherò mai di ripeterlo: per operare con forza, e riportare la barca a superare il mare avverso, contano i valori culturali, che sono l´ossatura della società e rappresentano una fonte, un´ispirazione, una verità a cui attingere. Più che mai quando intorno preme il dramma…».
I giovani non seguono la lirica… Come spiegherebbe a loro i motivi per cui "Macbeth" è un´opera per nulla superata?
«Dicendo che parla delle conseguenze nefaste di una spasmodica bramosità di potere che travolge tutto, ogni sentimento, persino il rispetto dell´amicizia. L´opera narra come un uomo "grande" - nel senso di grandezza del comando - possa diventare preda del male. Che c´è di più attuale? Siamo bombardati da notizie in diretta sui crimini commessi dai dittatori».
In Verdi il personaggio di Macbeth è più "riscattato" rispetto a Shakespeare, e la vera esecutrice del male diventa Lady Macbeth.
«Verdi è chiarissimo nello stabilire le responsabilità di una tragedia omicida sospinta dalla sete di comando. E in tale quadro la Lady incarna il male assoluto e incondizionato. La sua vicenda si chiude con la famosa aria del sonnambulismo, in cui la donna ripercorre nebbiosamente l´accaduto, per poi scomparire nel nulla della mente e della vita che si estingue. Invece Macbeth, morendo, richiama un barlume di umanità, pentendosi e denunciando i crimini compiuti in nome della "vil corona". Noi, qui, usiamo la seconda edizione dell´opera verdiana, ma il finale, con la morte di Macbeth, appartiene alla prima edizione di Verdi, dalla quale recuperiamo solo questa scena, che restituisce dignità a un personaggio contrastato e di estrema complessità psicologica».
Lei è divenuto "direttore onorario a vita" dell´Opera di Roma. Perché, nonostante i suoi impegni internazionali, ha voluto continuare a lavorare in Italia, scegliendo un teatro "difficile" e sindacalizzato come questo?
«A Roma, negli ultimi anni, ho avuto esperienze positive. Vi ho diretto "Otello", "Ifigenia in Aulide" e "Nabucco", e fin dall´inizio mi sono reso conto che questa "casa" sarebbe potuta diventare il posto giusto a cui dare il mio contributo. L´orchestra ha calore e immediatezza nell´espressione, nel fraseggio e nell´accento. E lavorando qui continuo a percepire, in tutte le componenti del teatro, un desiderio autentico di costruire. Sono convinto che l´Opera di Roma possa essere una voce significativa nel mondo operistico, soprattutto per il repertorio italiano, da custodire con cura, perché riflette la nostra identità culturale. Non sono per il nazionalismo in musica, ma credo che sia fondamentale, nella lirica, un modus fortemente italiano. Verdi, facendo appello alla tradizione italica, sosteneva la necessità di una conoscenza profonda dell´anima di un popolo: una dimensione che l´interprete deve possedere e salvaguardare».
Come procederà in questo suo viaggio "romano"?
«I progetti sono numerosi. Nel 2013, anno di celebrazioni verdiane, ho in programma "Simon Boccanegra" e due riprese di titoli di Verdi, oltre al "Requiem". E nel ‘14 porterò il teatro in tournée in Giappone. Vorrei anche incrementare l´attività sinfonica dell´orchestra. Io ho davvero fiducia nelle potenzialità di quest´istituzione».
Lavorando tanto all´estero, non sente mai affiorare un certo sgomento per l´immagine che il nostro paese ha acquisito oltreconfine?
«Io credo molto nell´Italia, nonostante tutto. E mi sono sempre sentito fiero di essere italiano. Questo paese ha un´energia che circola nel mondo e che ci fa ancora rispettare, non solo in ambito culturale, ma in quello scientifico e dell´industria. L´Italia è una terra "drammatica", in senso alto. Ha una grandezza d´anima e di storia. Altro che caciaroni e folcloristici: gli italiani sono un popolo severo e antico, con un Sud nel quale, per certi versi, pulsa uno spirito teutonico. Lo sa che fu Federico II, creatore dell´Università di Napoli, a inventare le borse di studio per evitare la fuga di cervelli all´estero?».

Repubblica 19.11.11
Esce una raccolta di storici scritti e saggi di Asor Rosa dal titolo "Le armi della critica"
Nudi, crudi e molto rudi. Quando la classe era operaia
di Marco Revelli


Questi testi ci riportano ad altri confronti culturali. Inimmaginabili oggi, in un´epoca in cui la rimozione del conflitto sociale si accompagna al ristagno dell´economia

Le armi della critica di Alberto Asor Rosa è una raccolta di saggi di critica letteraria di grande potenza analitica. Ma è anche una fonte storica: un´autobiografia culturale in cui l´autore si fa testimone del tempo, aiutandoci a capire l´Italia com´è stata e com´è diventata con molta maggior efficacia di tanta storiografia e sociologia professionali. Per la statura del suo autore, intellettuale che non si è rassegnato al silenzio. E per il carattere dei contributi qui riproposti.
Intanto per il periodo su cui i testi sono focalizzati: sono stati pubblicati tutti tra il 1960 e il 1970. Ci portano cioè in un punto seminale del nostro tempo, gli "anni Sessanta", quando l´Italia diventò quello che sarà, con uno strappo colossale e lacerante rispetto alla sua "tradizione", compiendo "la più ciclopica trasformazione… dai tempi della caduta dell´Impero romano in poi". Sono gli anni del passaggio, spaventosamente repentino, dall´arretratezza semi-agraria al neo-capitalismo della grande industria. Gli anni della migrazione biblica dalle estreme periferie del sud e della crescita impetuosa della classe operaia, giunta per la prima volta a una presa di parola autonoma. Sono dunque gli anni in cui conflittualità e sviluppo marciano insieme. Un concetto oggi inimmaginabile, in tempi in cui la rimozione del conflitto sociale dall´orizzonte mentale si accompagna al ristagno dell´economia.
Sono d´altra parte gli anni della grande crisi della sinistra comunista, quelli che seguono il XX Congresso del Pcus, l´invasione dell´Ungheria, la sconfitta della Fiom alla Fiat, l´estenuazione dell´egemonia togliattiana. Per questo Asor Rosa, allora venticinquenne (come buona parte dei giovani che parteciperanno del suo stesso percorso "operaista"), può scrivere oggi che "agli anni ´60 mi presentai, ci presentammo nudi e crudi, con un mondo immenso davanti ma senza granché alle spalle". Con la sensazione, cioè, della necessità di un taglio netto se si voleva stare dentro le cose, senza esser risucchiati nelle spire della modernizzazione integratrice cui il centro sinistra alludeva.
Ma gli anni Sessanta non sono solo questo. Sono anche gli anni della grande metamorfosi del lavoro intellettuale: della minaccia più radicale alla sua residua (e in parte illusoria) autonomia, con la riduzione della produzione culturale a lavoro "integrato", o comunque a funzione incasellata nel complesso sistema di ruoli predeterminati e formalizzati. Sono cioè gli anni in cui si estingue, definitivamente, la posizione autonoma della critica letteraria. O, meglio, il ruolo critico della letteratura, travolto dall´onnipotenza dell´industria culturale e da un più forte e sistematico "controllo borghese" del proprio mondo. E in questo sta il secondo elemento di interesse di questi scritti. Essi rappresentano infatti il resoconto fedele, perché generatosi in medias res, della riflessione di un gruppo di intellettuali sulla natura del proprio lavoro e sul destino di esso nel pieno di una cesura storica e sociale che ne decretava un cambiamento di stato tanto radicale da prospettarne la fine.
Si spiega così il tratto dominante – il vero fil rouge – che attraversa tutti i testi, con un´invadenza in qualche misura prepotente: il bisogno ossessivo di smarcarsi. L´ansia della secessione morale e culturale, della fuoriuscita da ogni condizione di continuità e di contiguità con un esistente considerato già perduto, spinta fino alla teorizzazione del "negativo" e all´abiura di ogni parentela anche con i più prossimi, con i Calvino e i Fortini, con la neo-avanguardia e la cultura antifascista e resistenziale, in una furia di distanziamento che assomiglia a un "si salvi chi può" perché tutto ormai, di quella cultura, rischia di transitare nell´ordine di un discorso che è ordine produttivo, razionalità di sistema, integrazione e alienazione.
Lungo questa traiettoria c´è l´incontro con la "classe operaia", intesa nella sua materialità selvaggia. Non la rappresentazione iconica della tradizione riformista, non il soggetto togliattianamente destinato a "raccogliere le bandiere lasciate cadere dalla borghesia", portatore di un universalismo umanistico, ma la "rude razza pagana". O meglio il suo "punto di vista" separato, "particolaristico", proprio di un´alterità assoluta, non integrabile, in forza della sua negazione del lavoro, e per questa ragione possibile riferimento per chi intendesse porsi fuori e contro: vale a dire per quell´intellettualità disponibile a tagliare i ponti con l´universalismo della propria cultura. E disponibile a pagarne per intero il prezzo: a farsi a sua volta "particolarità", nel rogo di tutti i suoi valori culturali.
Nasce di qui, da questo incontro nell´esodo, l´idea, del tutto originale, della necessità di una rivoluzione operaia pur in assenza di una rivoluzione democratica. Anzi, possibile proprio per quell´assenza. Un´idea capace di fare molta strada, assorbendo nel proprio percorso forme di pensiero eterogenee (dal Marx dei Grundrisse al Leopardi e al Nietzsche dell´illuminismo negativo, tutti allineati sulla linea dell´irriducibilità al dispotismo delle "cose"), per giungere infine a un duro contrasto con l´intera cultura democratica e progressista della generazione immediatamente precedente (strano destino per chi, sulle orme di Saba, auspicava per il proprio Paese l´abbandono della cattiva pratica "fratricida" in favore del più maturo "parricidio" dei popoli realmente rivoluzionari).
Su quell´idea si è strutturato uno dei pochi "paradigmi culturali" degni di questo nome nel secondo dopoguerra. Una "cultura" in grado di tenere il campo nel deserto culturale del tardo novecento, perché radicata davvero nella forza della vita. E tuttavia, nel contempo, testimone di un fallimento. Destinata – col suo soggetto sociale di riferimento - alla caduta esattamente come le eroiche personalità borghesi descritte nel magistrale saggio su Thomas Mann: uccise dalla stessa forza vitale che le animava. Dalla ferocia del proprio sguardo libero sull´esistente.

Repubblica 19.11.11
Siamo uomini o maschi?
Prima la propaganda, poi gli spot
Ecco chi ha inventato la virilità
di Simonetta Fiori


Dalle virtù muscolari create all´inizio del secolo scorso fino ai modelli più temperati, ascesa e tramonto di un concetto. In un saggio di Bellassai
Il femminismo sembra infliggere al gallismo il colpo finale, ma è una morte apparente
Negli ultimi anni l´esaltazione del sesso forte è rifiorita nella sua forma virtuale

Il virilismo classico? Morto, ma non ancora sepolto. Sandro Bellassai, storico sociale che insegna all´Università di Bologna, ci aiuta a capire perché in Italia il funerale del gallismo italico è stato annunciato, ma mai celebrato. «Oggi il suo spettro si aggira a inquietare il sonno degli orfani. E le conseguenze dei loro turbamenti le abbiamo sotto gli occhi ogni giorno». Una lunga transizione - anche qui! - dalla mascolinità tradizionale a quella virtuale, che ci rivela come sia difficile accomiatarci da un sistema culturale appartenente al passato. Forse perché il genere maschile appare tuttora largamente privilegiato. E potere e virilismo - argomenta storicamente questo saggio - si sono profondamente identificati l´uno con l´altro (L´invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell´Italia contemporanea, Carocci, pagg. 182, euro 17).
Come molte altre cose, anche il virilismo è un´invenzione, nata in funzione "difensiva" all´epoca della costruzione nazionale. Una risposta, in sostanza, alla temuta detronizzazione della figura maschile, minacciata dalla modernità nella seconda metà dell´Ottocento. «Le virtù apparentemente naturali del maschio», scrive Bellassai, «ossia forza, coraggio, sicurezza, onore, senso del comando e della superiorità, vennero amplificate retoricamente in un profilo severo, il virilismo appunto, e trasfuse in virtù politiche necessarie per l´ordine globale della società, della nazione, dello Stato». Questo modello, centrato sui principi dell´autoritarismo e della forza, fu reso in Italia particolarmente longevo dal prevalere delle culture imperialiste e razziste, fino all´apoteosi del ventennio nero, in cui «virile divenne sinonimo di fascista, e quindi di italiano». Del fascismo, dunque, il virilismo avrebbe dovuto condividere anche la medesima sorte rovinosa. E invece così non fu, sopravvivendo seppure in forme diverse nel nuovo contesto democratico.
Un destino ineluttabile? Bisogna aspettare la stagione del boom e le grandi trasformazioni sociali tra gli anni Cinquanta e Sessanta per cominciare a intravederne un´incrinatura. Una "svirilizzazione" complessiva, così la definisce Bellassai, che alle nuove generazioni di maschi - a differenza delle precedenti - non appariva come una catastrofe di dimensioni cosmiche. Il mutamento è documentato dai film-inchiesta di Pasolini come Comizi d´amore o dai dibattiti pubblici in cui i ragazzi lamentano le proprie difficoltà ad adeguarsi ai modelli maschili tradizionali. «Non so stare ai loro discorsi basati solo sullo sport, sui motori, sulle donne», confessa nel 1964 su Vie Nuove un giovane lettore. L´inizio di una svolta.
In quegli stessi anni anche la pubblicità introduce un nuovo linguaggio, che tenta di coniugare la virilità tradizionale con le caratteristiche moderne della mascolinità, più gentile e profumata. «Io devo radermi tutti i giorni (e la mia barba è forte)», sorride rassicurante nel 1963 il testimonial della Palmolive. L´uomo "nuovissimo" degli anni Sessanta doveva suggerire un profilo sessuato diverso da quello dei suoi predecessori, pur rimanendo sempre e comunque un uomo. «Il suo scopo», commenta Bellassai, «non era più quello di dare ordine al mondo, ma di traghettare ordinatamente la parte più perplessa del genere maschile nel mondo moderno». Le sue nuove virtù? Moderatamente liberale e tollerante verso le donne. Incline ai piaceri della vita e ai beni voluttuari. Narcisista e individualista. Brillante in società. Scettico e cinico quanto basta. Eccone un riflesso negli slogan dei cosmetici maschili. «La lozione dopobarba Victor vi dà quel tono di virile distinzione che è la chiave del successo per l´uomo moderno». «Il dopobarba Tarr è prettamente maschile perché ha un profumo discreto, non unge, non macchia, non copre la pelle». Il sesso forte, in altre parole, si prepara a deporre le armi. Nel cinema la resa è ancora più evidente. In pellicole come I mostri Tognazzi e Gassman mettono in scena la parodia umiliante del gallismo. Ma i nostalgici della "mascolinità classica" - avverte l´autore del saggio - non si danno per vinti. E l´ottimismo appare fuori luogo.
Se il decennio dei Settanta sembra infliggere al virilismo il colpo mortale, l´agonia è solo apparente. Certo le retoriche sulla superiorità maschile vengono bandite, il femminismo riduce gli enormi squilibri, ma le stanze del potere rimangono saldamente in mano agli uomini, spaventati da una libertà femminile avvertita come minacciosa. «Il virilismo nato nella fin de siècle abbandona la scena principale», sintetizza Bellassai, «ma le dinamiche culturali e politiche maschili che lo avevano prodotto non sono del tutto scomparse». Gli ultimi due decenni hanno finito per liquidare come "passato sconfitto" le culture politiche storicamente avversarie della mascolinità trionfante. E il virilismo è rifiorito nella sua forma virtuale, nell´immaginario televisivo o di recente nell´incredibile palcoscenico del bunga-bunga. «Il fantasma di una perduta potenza che genera fantasia di potenza», scrive Bellassai. Un virilismo "fantasmatico" che finisce per travolgere anche l´invenzione delle origini.
Di sicuro, conclude lo studioso, questo mortificante spettacolo italiano è la ripetizione apparentemente eterna di un copione mille volte rivisto, «una storia di insicurezze e di angosce maschili destinate a condizionare pesantemente i livelli di democrazia e libertà». Una storia non ancora conclusa, in cui è scritta tanta parte del nostro declino. Ma i segnali d´uno stile diametralmente opposto, maschile e femminile, illuminano oggi la scena pubblica. E la rinascita parte anche da qui.

Repubblica 19.11.11
Emma Bonino. La libertà è un dovere
Dagli anni ’70 all’Europa, quelle battaglie radicali
di Adriano Sofri


In un libro-intervista Emma Bonino ripercorre le lotte di una vita, che hanno segnato la sua storia e quella di tante donne nel Paese e nel mondo
Il dialogo con la giornalista Giovanna Casadio comincia con il tema delle carceri
Accanto alle idee i luoghi del suo impegno: da Kabul a Srebrenica, da Bruxelles al Cairo

Alzi la mano chi, interrogandosi sulla composizione imminente del governo Monti, non ha immaginato che ci entrasse Emma Bonino. Non ci è entrata. Niente di strano: non ci è entrato quasi nessuno. È un fatto però che Emma stia passando, rispetto alle cariche e soprattutto agli incarichi politici e istituzionali cui è di volta in volta candidata in petto, per un´emula del Borges col Nobel. Io stesso, anni fa ormai, la vidi così, come una candidata commissaria ad hoc per antonomasia, dove l´hoc poteva riguardare una gamma inesauribile di competenze: candidata, piuttosto che officiata, perché aveva finito per fare troppa ombra a concorrenti nazionali e mondiali. Però, all´indomani di questa apparente nomina mancata (nemmeno ventilata, del resto) ci ho ripensato.
Il connotato distintivo di Emma non è affatto di essere un´eterna candidata, benché lei stessa magari, a volte, sia tentata di immaginarsi così. Per esempio nel 2001, dopo una campagna elettorale che le era costata un digiuno prostrante, condotta a Milano accanto a Luca Coscioni, con la temeraria scelta di mettere al centro la malattia e la ricerca, «dal corpo dei malati al cuore della politica». Appena due anni prima, nel maggio del 1999, aveva preso l´8,5 per cento dei voti nelle elezioni europee, e questa volta non raggiunse il quorum, e restarono fuori, Luca e lei e quell´idea del rapporto fra la vita delle persone e la politica. Dalla quale si sentì respinta, rigettata, e ne pianse molto, e se ne andò, ad abitare al Cairo, a incontrare donne che andavano in galera per amore e apostasia, a imparare l´arabo e a rimettere insieme i cocci. Quando fu più a occhio asciutto, pronunciò quella nuova frase all´indirizzo dei tantissimi cittadini italiani che le manifestano un caldo affetto: «Amatemi di meno, e votatemi di più». Non era ambizione frustrata, era la sensazione che fosse misconosciuto, con lei, ciò che è più prezioso per tutti, perché Emma ha una dedizione agli ideali, e una gran voglia di realizzarli insieme agli altri. «Io credo nella nobiltà della politica, e non sono una demagoga».
Ora la sua conversazione con Giovanna Casadio, la giornalista di Repubblica che ne ha tratto un libro per Laterza, I doveri della libertà, è un compendio delle idee cui si è ispirata e delle cose che ha fatto. Non è sistematico, perché Emma non è sistematica, e ricapitola il radicalismo cui lei è fedele (fedeltà che coincide con quella, leggendaria e battagliera, a Marco Pannella), sulla scorta delle vicende di cui è stata attrice. Alla fine della lettura, anche chi, come me, pensa di "sapere tutto" di lei (noi pensiamo di sapere tutto di tutti, tranne che di noi stessi, ci risparmiamo), tira il fiato e cambia versione: non una sequela di candidature, ma una moltitudine di esperienze emozionanti e di realizzazioni.
Ora Emma è soltanto vicepresidente del Senato italiano, una bazzecola: non è che l´inizio, e ha alle spalle un atlante di luoghi e avvenimenti, da testimone o da protagonista, impressionante per una donna della generazione nata dopo la guerra. Dopo "la nostra" guerra, perché gli altri non hanno smesso per un momento di esserne travolti, e sul suo atlante una bandierina segna lo sterminio di Srebrenica, di cui fu fra i più vicini testimoni, e sperimentò l´orrore e la disperazione di non essere creduta; un´altra l´Afghanistan in cui è andata tante volte, da ispettrice del voto e prima, nel 1997, da commissaria agli Aiuti umanitari, quando fu arrestata dai talebani e promosse la campagna "Un fiore per le donne di Kabul".
Titolo degno di riflessione, e che riassume il senso ultimo dell´ispirazione di Emma. Il pensiero è ricorrente, la questione della primavera cui richiamava Majakovskij, il pane e le rose: per Emma è esattamente il rifiuto del luogo comune secondo cui la libertà e i diritti sono superflui per chi si misuri con la sopravvivenza, o comunque "vengano dopo". Valeva già, prima che lei arrivasse alla militanza – ci arrivò con l´aborto, e a cominciare da un suo aborto, e presto sperimentò la galera – per un obiettivo "borghese" come il divorzio: così appariva ai classisti come noi, che lo propugnammo più per un calcolo politico che per un´intelligenza dell´infelicità. Ho scritto "i diritti", e devo subito integrare, perché Emma si definisce "una doverista", mazzinianamente persuasa che il dovere sia davvero l´altra inscindibile faccia di ogni diritto. Casadio le ricorda la volta in cui, arrivata in anticipo a Napoli per un dibattito, nel 1981, guardò in terra e chiese: «C´è una scopa?» – aneddoto profetico, del resto.
Emma gira per il mondo, chiede se c´è una scopa, e giudica la democraticità di un paese dalla condizione delle donne. Il suo impegno di anni contro le mutilazioni femminili aspetta di essere coronato da una sanzione dell´Onu: ma la vittoria vera, dice, sta nel fatto che alla testa di quella mobilitazione si sono messe donne africane. Anche qui, le rose: «All´inizio il coro unanime era: "il problema dell´Africa è la povertà, questo è un tema elitario"».
Esce, il libro, in un momento che rende urgenti molti suoi capitoli. E un piccolissimo inciso, a proposito della dissipazione delle donne nel mondo, e in Italia in particolare. «Nessuna donna è a capo di una banca». Mi chiedo se, oltre che uno scandalo, non sia un buon segno. Emma è europeista, fedele alla profezia del Manifesto di Ventotene, e sa che adesso si corrono i due rischi opposti: una confisca della sognata federazione europea, della patria Europa, da parte di banche o summit francotedeschi o lettere supplenti, o da una rivalsa nazionalsovranista, l´Europa delle patrie per giunta inasprite. «Per non parlare dei 27 eserciti nazionali» – e sarebbe ora che ne parlassimo davvero. Il libro insegna molto sul bilancio da trarre dell´Unione e sull´imprevista attualità della questione. Se non si fa per scelta, bisogna farlo per necessità. E rivedere l´abitudine italiana a fare del Parlamento europeo un cimitero degli elefanti, o comunque una sontuosa collocazione periferica. O, ancora peggio, un fastidioso inciampo a una politica internazionale orientata su Putin e Lukashenko e Gheddafi e Nazarbayev.
Chi oggi, reduce dal più spensierato "euroscetticismo", variamente spinto dall´assedio finanziario, invoca gli eurobond o una Banca europea che batta moneta, non si accorge di mettere ancora una volta il sale sulla coda del problema, che non può che riportare invece alla costituzione e a un governo europeo eletto a suffragio universale. La Banca seguirà. Emma è convinta che la crisi sia "nel" mercato e non "del" mercato: un atto di fiducia difficile da condividere. Il libro dedica molto spazio alla vessata questione del liberismo, dell´ostilità radicale all´art.18 eccetera. La ritengo molto mutata, a cominciare dalla contrapposizione fra garantiti e no, che tarda a prendere atto della progressiva estinzione dei garantiti stessi.
Ho lasciato in fondo la questione della giustizia e delle carceri. Invece è la questione da cui il libro comincia. La più importante.

il Riformista 19.11.11
Torna la Galleria di Arte Moderna


(Ri)apre oggi la Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale, dopo un travagliato iter e varie chiusure, nell’antico monastero delle Carmelitane Scalze, a via Crispi. Accanto allo spazio ovoidale e uterino della sede romana della galleria Gagosian, in quella che fu una banca, (ora con una mostra della pittrice inglese Cecily Brown) si entra nelle strette stanzette conventuali dove si possono ammirare piccoli capolavori di De Chirico, Severini, Morandi, Savinio, Capogrossi, Carrà, Sironi, Manzù, ecc. Ora sono visibili fino ad aprile 140 opere sulle oltre 3000 della collezione, che verranno esposte a rotazione, compreso il pianterreno con il bel chiostro dedicato alla scultura ed una stanza dedicata alle opere grafiche. Ma l’assessore Gasperini e il sovrintendente Broccoli rivelano (futuri) piani di espansione negli spazi adiacenti di proprietà del comune.
Certo se si mette a paragone, come fa qualcuno, con il Pompidou o il Musée de la Ville di Parigi, lo spazio ne esce con le ossa rotte. Ma la Galleria offre una bella passeggiata nell’arte a cavallo tra Ottocento e Novecento e svela piccoli gioielli rimasti prima chiusi in un deposito. L’invito è quello di rendere più caldi e accoglienti questi spazi, che sono stati coperti da monacali mani di intonaco o pudici pannelli color crema quasi a nascondere la nudità di un’architettura che ha invece una sua personalità e che potrebbe dialogare di più con le opere. Così che il visitatore, sia invogliato di più ad andare, tornare e ancora ritornare.

il Fatto 19.11.11
Terra in rosso: chiude il quotidiano dei Verdi


 Terra, il quotidiano ecologista dei Verdi chiude, ma forse non chiude. In questa impasse dovuta a due questioni ufficiali una politica e una economica, si gioca il destino di 17 persone tra giornalisti e poligrafici.“Stiamoaspettandodisapereseunabancaciaprirà una linea di credito – spiega il direttore amministratore Luca Bonaccorsi – e comunque attendiamo il finanziamento pubblico di quasi 3 milioni di euro che dovrebbe arrivare entro la fine di dicembre”. Pertanto anche se Terra aveva sospeso già a gennaio la pubblicazione quotidiana e in seguito anche quella settimanale, potrebbe tornare in edicola il prossimo gennaio. Certo gli ultimi dati di vendita non sono confortanti visto che si registrano solo 613 copie quotidiane vendute in edicola (la redazione ne dichiara molte di più). Ma la momentanea chiusura di Terra non è dovuta solo al bilancio economico negativo. Nato nel 2009 come quotidiano dei Verdi, quando la leader era ancora Grazia Francescato, “avrebbe dovuto sì far conoscere la linea e i temi del movimento, ma senza essere un foglio propagandistico, come ora ci viene chiesto”. I giornalisti sostengono che con il cambio di dirigenza dei Verdi invece le cose sono cambiate. “I patti erano di fare un quotidiano di ecologia, inserendo anche le proposte dei militanti e dei dirigenti, però separate con assoluta chiarezza dalle inchieste di Terra” – lamenta Susan Dabbous, una delle giornaliste che non riceve lo stipendio da mesi – inoltre ci sono stati gravi problemi di tipo sindacale”. Insomma tutti contro tutti. Niente di nuovo sul pianeta Terra. Roberta Zunini