sabato 14 luglio 2007

l’Unità 14.7.07
Intervista al Presidente Fausto Bertinotti «Non c’è alternativa a questa maggioranza» di Simone Collini


«Non ci sono alternative a questo governo e a questa maggioranza», dice Fausto Bertinotti. E però la «fragilità» dell’esecutivo consente una «crescente pressione» verso un orientamento che sostiene di muoversi nel campo delle riforme ma che in termini classici «si chiamerebbe conservatore». Il presidente della Camera lamenta il fatto che prima di affrontare il nodo dello scalone previdenziale non si sia aperta una discussione approfondita sul «rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita» e che per «limitare il danno» ora è inevitabile «avere una pluralità di uscite dal mercato del lavoro». E se Epifani ha chiesto al Prc di fermarsi un attimo per consentire un clima sereno, Bertinotti difende l’autonomia del sindacato, aggiungendo però: «Non si può chiedere ai partiti, specie se della sinistra, di tacere su grandi questioni che riguardano l’economia e il lavoro».
Parlando con l’Unità, qualche mese fa, disse che il governo le sembrava come quei malati sempre pieni di problemi che però non muoiono mai. E oggi, presidente Bertinotti?
«Continuo a pensarla così. Anch’io qualche volta, come osservatore non protagonista, sono indotto a pensare che sia evidente lo stato di crisi. Salvo poi constatare che importanti proposte di legge compiono la loro strada fino all’approvazione. E poi, ancora, di nuovo predomina l’incertezza. La metafora ancora regge».
Ultimamente appaiono però elementi nuovi, anche nelle discussioni interne al centrosinistra.
«Sì, ma si tratta di elementi disomogenei, non mi pare cioè che possano iscriversi in un processo tendenziale. Quel che si può invece vedere, lavorando però per induzione, è che di fronte alla persistente fragilità del governo c’è una pressione crescente attorno ad un orientamento politico-programmatico che in termini classici si chiamerebbe conservatore, e che oggi prende invece il nome del campo delle riforme».
Definisce conservatori quelli che oggi parlano di riforme?
«Sto ai fatti. Una volta si chiamavano conservatori quelli che si proponevano di non determinare un’evoluzione dei rapporti sociali. Vogliamo guardare alle riforme di cui più si parla oggi? Restringere lo stato sociale, bandire ogni intervento dello Stato nell’economia, far valere la rigidità dei parametri di Maastricht».
Chi sono i protagonisti di questa operazione?
«Poteri consistenti, grandi organi d’informazione. Abbiamo parlato diffusamente dell’intervento del presidente di Confindustria, che ha costituito la punta della lancia di questa proposizione di una politica come oggettivamente sovradeterminata dal paradigma dell’impresa e del mercato. Che si propone non più come una parte della società, ma come il misuratore dell’efficienza del sistema. E dunque come il protagonista dell’indicazione programmatica nei confronti della politica, la quale come intendenza dovrebbe seguire, secondo la formula di De Gaulle».
Questa pressione è secondo lei finalizzata a determinare un diverso schieramento?
«Innanzitutto, bandiamo preliminarmente ogni idea di complotto e anche di una concertazione occulta. Dopodiché, secondo me va bandita anche l’idea che ci sia una possibile convergenza di forze verso un assetto politico diverso da quello attuale».
Per quale ragione?
«Perché, semplicemente, manca l’oggetto della possibile convergenza, cioè un altro assetto di governo, una diversa maggioranza. Questo oggetto, allo stato attuale, non c’è, non esiste in natura».
Quale sarebbe allora lo sbocco di questa pressione?
«Determinare una riconduzione delle politiche del governo dentro un orizzonte conservatore. E questo senza farsi carico di cosa succederebbe nel caso in cui questa pressione invece che portare un condizionamento del governo su questa linea, ne provocasse un elemento di rottura».
Vede questa eventualità?
«Certo, dal momento che esiste il problema del consenso. Esiste per qualunque coalizione e a maggior ragione per il governo Prodi, che si regge su una coalizione molto larga e che nasce sulla base di una richiesta di una svolta rispetto alle politiche del governo Berlusconi. È evidente che sul programma con cui l’Unione si è presentata alle elezioni e su quella discontinuità si sono determinate forti attese. Corrispondere ad esse è un problema ineludibile».
Bisogna tener conto del consenso ma anche di altri fattori, non crede? Sulla riforma delle pensioni, per esempio, di quanto sostenuto dagli organismi internazionali.
«Quando il Fondo monetario o gli uomini di Bruxelles dicono che è necessaria per il paese la riforma delle pensioni intendono due cose: una è la riduzione della spesa previdenziale dentro un campo considerato compatibile con il rientro dell’Italia nei criteri di risanamento del bilancio previsti; l’altra un aumento dell’età pensionabile sulla base di un assunto secondo cui in maniera indifferenziata e prescindendo da ogni collocazione sociale l’aumento dell’attesa di vita deve dar luogo a un aumento dell’età lavorativa. Ma che connessione ha tutto questo con un’idea generale di politica o di società? Nessuna. E quando viene trovata, lo si fa ex post, e con una filosofia il cui intento giustificativo è fin troppo evidente: il conflitto di generazioni. Ma la tesi secondo cui un giovane avrebbe un contratto a tempo determinato perché un lavoratore di Mirafiori con 36 anni di lavoro alle spalle va in pensione, francamente, non la capisco».
Qual è la tesi allora?
«Resto lontanissimo dalla trattativa, la seguo come testimone, e però quello che noto, e che lamento, è che prima non ci sia stata una discussione approfondita sul rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita. Questa è una discussione che va fatta, perché contrariamente a quello che si dice in termini di denuncia, io non ho visto nessuno difendere l’esistente, avanzare solo dei no, dire che la situazione “deve rimanere così com’è”. Ed anzi le organizzazioni sindacali e le realtà politiche della sinistra hanno tutte fatto un discorso articolato».
Questo per dire cosa?
«Intanto, che non si può parlare di contrapposizione tra un partito dell’innovazione e chi invece va avanti a colpi di niet, perché tutti i soggetti in campo si sono mostrati per l’innovazione. E poi per ribadire che ora bisogna provare a ragionare sul fatto che c’è stato in questi anni un mutamento rilevantissimo della composizione sociale del lavoro. E che è entrata prevalentemente nel mercato del lavoro una categoria fino a non molto tempo fa sconosciuta: la precarietà. Di fronte a questa fisionomia frammentata del mondo del lavoro, oltre a porsi il problema della lotta contro la precarietà, si deve ripensare complessivamente il rapporto tra lavoro e pensione a partire da un punto, e cioè che mentre nella formazione precedente valeva l’idea di avere sostanzialmente un’età unica per cui andare in pensione, l’analisi sull’oggi ci dice che bisogna avere una pluralità di uscite dal mercato del lavoro. Sono quelli che si dicono per le riforme che propongono un modello unico ed autoritario. Io dico flessibilizziamo, articoliamo».
Sulla base di che cosa?
«Sulla base dell’età reale degli individui, che nel momento in cui l’articolazione lavorativa diventa così forte non coincide più per tutti con l’età anagrafica. Io o un professore universitario abbiamo un aspetto fisico a 60 anni che è visibilmente diverso da una persona che ha lavorato 35 anni in una fonderia o, se non vogliamo arrivare all’estremo, in una catena di montaggio. L’esigenza di una diversificazione nell’andata in pensione, quindi, non risponde a un principio classista ma al riconoscimento delle diversità e delle diseguaglianze sociali che il sistema ha prodotto. In questa vicenda, i cosiddetti riformatori hanno perso un’occasione. Sono arrivati a ridosso della trattativa sullo scalone facendo il fuoco con la legna che c’era a terra, invece che con una accumulazione di un dibattito pubblico sul rapporto tra il lavoro e la vita».
Al di là di come andrà avanti la trattativa, secondo lei qual è a questo punto la necessità?
«Ridurre il danno. Ogni provvedimento che venga adottato in riferimento allo scalone tenga conto di questa differenza e sia in grado di apprezzarla. Non si può dire che nella notte tutti i gatti sono grigi e quindi proporre stessa soluzione per tutti i lavoratori. Perché non è così. Vi sono grandi aggregati di popolazione lavorativa operaia a cui si deve riconoscere che non può essere aumentata l’età pensionabile».
È quello che sostiene anche Walter Veltroni, per il quale è necessario un patto tra generazioni? Che ne pensa?
«Condivido il fatto che non si possa chiedere di restare sul mercato del lavoro più a lungo a chi ha svolto per anni un lavoro usurante, a chi è stato alla catena di montaggio o in una fonderia, a chi ha fatto turni di notte, come ha recentemente sostenuto».
E sul rapporto tra generazioni? Serve un patto dove oggi rischia di aprirsi un conflitto?
«L’esigenza di un patto è giusta, l’idea del conflitto invece mi sembra malriposta. A parte che questo mi sembra un elemento arbitrario, che si tira fuori per interdire una rivendicazione o addirittura per mettere in discussione un diritto acquisito: pensiamo a tutta la discussione sull’articolo 18. Ma bisogna dimostrare l’elemento causale. Mentre al contrario è dimostrato che il fenomeno sociale più inquietante per le nuove generazione è la precarietà. E io vorrei capire, prima di arrivare al rapporto tra generazioni, il rapporto tra l’organizzazione dell’economia e la precarietà. Non c’è forse qualche rapporto tra la legge 30 e la precarietà prima ancora che tra il lavoratore che deve andare in pensione e il giovane che ha un contratto a tempo determinato? Mi sembra insomma che siano in altri luoghi gli impedimenti al patto generazionale».
Epifani ha lanciato un altolà a Rifondazione comunista: fermatevi un attimo.
«Continuo a pensare che l’autonomia del sindacato sia un elemento indispensabile all’arricchimento della vita democratica e che ogni forma di collateralismo sia un elemento di impoverimento. L’antica formula di Di Vittorio è buona ancora oggi: il sindacato è autonomo dai padroni, dal governo, dai partiti. Unica cosa, penso che l’autonomia non sia racchiudibile in una sfera entro cui non c’è rapporto con altri soggetti, dalla Confindustria ai partiti. Allora, non credo che si possa chiedere ai partiti, specie della sinistra, di tacere su grandi questioni che riguardano l’economia e il lavoro. Un partito di sinistra che non si occupi di salari e pensioni si nega come tale. Naturalmente, gli va richiesto di non proporsi di ledere l’autonomia del sindacato nello specifico negoziale. Però non di tacere».
Perché sulle pensioni ancora si discute all’interno dell’Unione?
«Perché fin qui non c’è stata una piattaforma comune. O meglio, la piattaforma comune era quella del programma. Poi, rispetto al modo concreto di affrontare il tema del superamento dello scalone ci sono state posizioni che si sono diversificate. Abbiamo parlato di un lato della coalizione, ma ce n’è stato un altro che è sembrato proporre sostanzialmente o lo scalone o il suo equivalente».
La sinistra può contrastare meglio la “pressione conservatrice” se dà vita a quella “massa critica” di cui lei parlava qualche tempo fa?
«C’è questo, ma c’è anche che oggi c’è la necessità storica acuta, matura e persino drammatica - perché il rischio di una scomparsa della sinistra in Europa è reale - della costruzione in Italia di un’aggregazione a sinistra unitaria e plurale».

Repubblica 14.7.07
Nasce una strana alleanza tra la Uil e Rifondazione contro l'ipotesi degli scalini e delle quote Angeletti e il Prc, attrazione fatale e i riformisti: non tirate la corda di Roberto Mania


Il leader sindacale è visto dal governo come il vero "sabotatore" Ds e Margherita: la previdenza non può mangiarsi tutte le risorse per lo sviluppo

ROMA - A Palazzo Chigi hanno cominciato a chiamarlo «il sabotatore, quello che mette le mine su tutti i terreni dove passa». Luigi Angeletti, segretario generale della Uil, fa spallucce mentre se ne va a Terracina per trascorrere il weekend, con nessuna intenzione di tornare nella Capitale per parlare di pensioni. «Io ho sempre detto le stesse cose. Li ho sempre messi in guardia: non firmerò mai un accordo basato sulla bugia di una presunta emergenza previdenziale». Lui non la pensa proprio come i riformisti del nascituro Partito democratico che ieri hanno imposto lo stop a una proposta di Prodi che si profilava troppo filo-Rifondazione. «Non possiamo dare l´impressione - ragionavano i ministri ulivisti - di una soluzione troppo squilibrata a sinistra». Cioè poco rigorosa e piena di incognite sul versante dei risparmi con il rischio di bruciare anche le risorse destinate allo sviluppo.
L´altolà non ha scosso Angeletti che, infatti, passo dopo passo ha costruito la sua strana alleanza con Rifondazione comunista di Franco Giordano. Il sindacato laico e socialista (come si sarebbe detto un tempo), il più piccolo della triade, a braccetto con il partito dei massimalisti della maggioranza, quelli che ancora inneggiano alla falce e martello. Imbarazzi? «Nessuno», risponde Angeletti, già Psi ma oggi senza tessera. «Rifondazione comunista - dice - ha la posizione più ragionevole. A parte le sue radici ideologiche, per una volta è l´unico partito che prova a fare i conti davvero. E i conti non sono quelli di Tommaso Padoa-Schioppa». Né quelli dei riformisti D´Alema o Rutelli: «Non so quanto siano in buona fede, ma partono tutti da un assunto sbagliato secondo il quale la previdenza non sarebbe in equilibrio. Ma noi i bilanci degli enti li conosciamo bene. Noi sindacalisti stiamo nei Civ, i consigli di indirizzo e vigilanza e sappiamo che le entrate sono sufficienti a pagare le pensioni».
E allora, mentre nella sede dell´Arel, il sottosegretario Enrico Letta e il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, provano per tutta la giornata un po´ con gli sherpa di Cgil, Cisl e Uil un po´ con i tecnici di Rifondazione («il quarto sindacato», per ammissione di un autorevole membro del governo), a trovare una via d´uscita tra scalini e quote, lui - "il sabotatore" - rilancia gli incentivi per andare in pensione volontariamente dopo 35 anni di versamenti. «La strada più intelligente - sostiene - per innalzare l´età pensionabile». E gli scalini? Le quote? «I primi sono ottusi, stupidi; meglio, nel caso, le quote». «Comunque è sempre stato Prodi a parlare di libertà di scelta nel lasciare il lavoro. E quella notte, prima della rottura, c´era l´accordo proprio sugli incentivi». Finché la Ragioneria, di Tommaso Padoa-Schioppa, non fece i conti dimostrando che quel sentiero avrebbe portato a risparmi aleatori. «Macché! Sono pronto a sfidare chiunque, dati e calcolatrice alla mano. Fissiamo come obiettivo l´età effettiva di pensionamento della Germania, cioè 61,4 anni. Poi verifichiamo se in tre anni non la raggiungiamo attraverso gli incentivi. Se non ce la si fa scatta l´aumento automatico a 61,4. Padoa-Schioppa può dire tutto ciò che vuole, ma anche io. Bisogna smetterla di offrire una rappresentazione falsata del nostro sistema previdenziale».
La tesi del "sabotatore" è che i contributi siano sufficienti a pagare le pensioni e che i trasferimenti annuali dello stato all´Inps servano a pagare prestazioni di natura assistenziale. D´altra parte Rifondazione docet. Parlano la stessa lingua. Antonino Regazzi, segretario generale dei metalmeccanici (non Giorgio Cremaschi della Fiom) dice che «le proposte del governo sullo scalone sono inaccettabili e che se si continua così lo sciopero sarà inevitabile».
Conclude Angeletti: «Ci hanno già fregati con la Finanziaria. Dov´è finito il taglio del cuneo fiscale a favore dei lavoratori? Nessuno l´ha visto. Questa volta non ci sto!». Puntate a far cadere il governo Prodi? «Fantapolitica», risponde "il sabotatore" mentre intravede la prima striscia di mare di Terracina.

Repubblica 14.7.07
Da Medea a Clitennestra, un libro di Eva Cantarella Storie antiche di Siegmund Ginzberg


Gli antichi greci avevano molte più cose da raccontare, in cielo e in terra, su amore, sesso, passioni, diritto di famiglia, di quanto noi immaginiamo, con le nostre povere discussioni su family day, dico e non dico, e dintorni. Così mi verrebbe da parafrasare, quel che Shakespeare fa dire ad Amleto, dopo aver letto L'amore è un dio, "il sesso e la polis", di Eva Cantarella, pubblicato da Feltrinelli (pagg. 184, euro 13).
Malgrado il titolo, non è un romanzo alla Liala o alla Susanna Tamaro. Eppure si legge d´un fiato, quasi lo fosse. Non è un intervento sulle polemiche di oggi, anche se non è un mistero come la pensi chi lo scrive. E non è un saggio accademico, benché l´autrice, docente di diritto greco, sia una degli studiosi più affermati nel mondo.
Il libro parla di personaggi e storie antichissime. Alcune delle quali sono state raccontate tante volte, nel corso di millenni, e tante volte sono state dimenticate; ma raccontate, e dimenticate, ogni volta in modo diverso. La storia di come i greci si inventarono Eros, un dio capriccioso, irresistibile, dolcissimo e tremendo, che non conosce e non rispetta regole, e molti altri miti (mythos significa appunto «favola», «racconto») che hanno a che fare con l´amore. Una sfilza di storie di amori con conclusione tragica, gli stessi su cui si è fondata quasi tutta la fiction occidentale. L´amore visto dai filosofi, da Socrate e Platone. E poi verbali dei tribunali ad Atene, non più «miti» ma processi veri, a personaggi diventati «mitici», ma solo in quanto «celebrità».
Chi si aspetta di sentirsi ripetere cose già sapute e risapute dovrà ricredersi. Ci sono madri assassine, anzi serial killer, come Medea, su cui si scoprono però «attenuanti» più convincenti di quelle concesse ad Annamaria Franzoni. Viene fuori che Clitennestra, anche agli occhi del pubblico antico, aveva molte più ragioni che solo il proprio adulterio per avercela con Agamennone (quello le aveva «sacrificato» la figlia Ifigenia). E viene fuori che nelle molte versioni della storia di Edipo che ammazza il padre e sposa la madre c´è qualcosa di diverso, e, ad ogni modo, molto più di quello che vi aveva visto Sigmund Freud (ad esempio la nascita del diritto e dei tribunali, perché nemmeno la dea Atena se la sente di giudicare arbitrariamente una storia così complessa). Così come ci viene ricordato che la storia di Antigone ebbe molte «riscritture» dopo quella di Sofocle, e fu usata per giustificare i nazisti occupanti quanto la resistenza. Ci sono vallettopoli come quelle che portarono in tribunale Aspasia, e il suo amante Pericle al colmo del suo prestigio, e il processo alla bella Frine, che si fa assolvere denudandosi un seno. Le cose non sono come può sembrare a prima vista: l´accusa non è di prostituzione, è di essersi fatti sposare illecitamente (agli ateniesi era proibito il matrimonio con straniere), o di «empietà».
Sono tutte storie che precedono di millenni quelle della New York di Sex and the City, la fortunatissima serie televisiva ispirata del romanzo di Candace Bushnell. Sono storie di gente lontana, molto diversa per morale e abitudini: figuratevi, i greci, e i loro filosofi, che sono rimasti i maestri del nostro pensiero, trovavano normale amare i ragazzi, avevano idee tutte diverse delle leggi e della famiglia. Eppure, a riascoltare quelle storie, hanno un suono familiare, viene da pensare che qualcosa con le storie d´oggi c´entrano, eccome, e comunque ci riguardano, sono storie di famiglia, della nostra famiglia europea. Fanno parte del nostro bagaglio, sono entrate nel nostro dna culturale. Questi vecchi miti i molti di noi le avevano orecchiate a scuola, spesso senza capirli, come succede ai bambini per i discorsi degli adulti.
Temo che i più giovani non abbiano avuto neanche questa fortuna. Di Achille resta la fama di feroce guerriero, e fa un po´ senso che ora venga da immaginarselo con la faccia di Brad Pitt. Meno sicuro è che si ricordi che la ragione per cui nell´Iliade, sbollita l´iniziale ira funesta, torna a combattere, non è una sua «fedeltà all´Occidente», ma l´uccisione di Patroclo. Nessuno pretende di unirli in matrimonio, e all´epoca non i diritti civili per le coppie, ma che Achille e Patroclo fossero amanti non destava scandalo per i greci. Buffo che nel Medioevo lo si potesse dire addirittura più esplicitamente di oggi: Dante Achille lo mette non tra gli eroi e nemmeno tra i violenti, ma accanto a Paolo e Francesca, come uno che «con amore al fine combatteo». M´è venuto in mente, assistendo all´esilarante lettura che ha fatto Benigni del V canto dell´Inferno sotto la tenda di Piazzale Clodio a Roma.
Ci sono storie che hanno ancora moltissimo da dire. Se poi sono raccontate bene, come fanno Eva Cantarella nel suo libro e Roberto Benigni nel suo Tuttodante, rileggerle e riascoltarle diventa un piacere, un godimento. Quasi erotico, mi viene da dire.

Corriere della Sera 14.7.07
Distrutto nella provincia dell'Hubei un complesso architettonico del terzo secolo. Le autorità: tutta colpa della speculazione Cina, le ruspe contro un tempio millenario di Fabio Cavalera


PECHINO — «Via di qua». Gli operai e le ruspe sono arrivati nella notte fra il 6 e il 7 luglio. C'erano due monache a presidiare le vecchie mura. Le hanno incatenate con un cavo e trascinate fuori. Hanno detto loro: «Ci dispiace ma noi dobbiamo eseguire gli ordini». E in quindici minuti il tempio buddista della città di Xiangfan è venuto giù. Terminato il lavoro gli stessi operai hanno slegato le due religiose che si sono attaccate al telefono e hanno raccontato a un blogger — che si è preso il nome di fantasia di Lu Men Zi — quanto era appena avvenuto. «Poveretti piangevano anche loro e non sapevano che cosa avevano combinato». Il tam-tam via Internet alla fine ha raggiunto un giornale, il Southern Metropolis, e la vergogna è stata scoperta.
Il tempio è caduto dopo mille e 800 anni di vita. Risaliva, il nucleo originario, all' epoca in cui la Cina settentrionale era divisa in tre Stati, nel secondo secolo, il regno di Wei, il regno di Shu Han e il regno di Wu. Poi la dinastia Ming, fra il quattordicesimo e il sedicesimo secolo, aveva edificato un padiglione esterno, splendente quanto il primo. Accrescendo la solennità e l'importanza del luogo. Lì, c'è ora un cumulo di macerie. Lo documentano le foto che sono circolate, nonostante le censure. La sorte del tempio Hansheng era segnata e nessuno nella provincia Hubei, dove il fatto è avvenuto, ha voluto o è riuscito a impedire lo scempio. Tutti hanno giocato a scaricare la responsabilità. Chi ha permesso la demolizione? Dove sono i documenti con le licenze? L'amministrazione di Xiangfan ha spedito un suo funzionario sul posto che, come ha poi scritto il quotidiano cinese, si è limitato a questa affermazione: «Proviamo compassione e pietà ma non sono affari nostri è colpa del boss della società immobiliare». La società immobiliare sostiene il contrario. In Cina funziona così: lontano dal potere centrale la legge non ha valore. Il risultato è che, un pezzo alla volta, una delle rare testimonianze storiche risparmiate dalla furie delle guerre e delle rivoluzioni è stata sbriciolata per il diktat di una società immobiliare (con il via libera delle autorità locali) che ha progettato di costruire nuove case, nuovi centri commerciali.
Una brutta vicenda che diventa un simbolo: il patrimonio artistico e culturale della Cina ha sofferto la violenza dei conflitti e continua a soffrire la violenza e l'insensibilità di chi interpreta la corsa alla modernizzazione come una selvaggia distruzione. Gli appelli del governo per una crescita rispettosa e moderata incontrano ostacoli enormi in ogni angolo del Paese. Quella del tempio millenario è stata un'agonia lenta, cominciata addirittura nel 1985 quando il padiglione anteriore era venuto giù perché pericolante e le statue trafugate. Anziché procedere a un' opera di restauro la struttura è rimasta in condizione di semiabbandono. E nel 1998 un'altra ala ha dato segni di cedimento. Pareva che qualche intervento potesse essere programmato per conservare l'edificio. In verità le trattative per trasferire i «diritti d'uso» sul monumento si stavano concretizzando in un contratto, saltato adesso fuori dai cassetti, fra l'Ufficio degli affari amministrativi della città e un' azienda immobiliare. Valore: 750 mila yuan, 75 mila euro. La società ha versato la somma ed è diventata «padrona» del tempio. Naturalmente ha preferito aspettare prima di abbattere, in quanto i prezzi salivano, centuplicavano quell'investimento iniziale. Nove anni più tardi le voci si sono intensificate. «Stanno per distruggere il tempio », diceva la gente. «Non è vero», replicavano le autorità. E mostravano un documento ufficiale, numero 75 del 2006, timbrato dalla Provincia Hubei: «Hansheng è un patrimonio storico artistico importante. A nessuna unità di lavoro e a nessun individuo è permessa la demolizione ». Infatti. La notte fra il 6 e il 7 luglio ecco le ruspe. Al mattino un dirigente dell' Ufficio del patrimonio cittadino accompagnato da un paio di segretari è venuto a raccogliere qualche pietra, le poche rimaste. Forse le avrà sistemate nel salotto di casa.

Corriere della Sera 14.7.07
Durante il nazismo le opere liriche più ascoltate in Germania erano italiane Hitler amava Wagner, i tedeschi Leoncavallo I preferiti: Mascagni, Puccini e il maestro de «I pagliacci» di Paolo Valentino


BERLINO — Quale fu l'opera più rappresentata nei teatri tedeschi nella stagione 1938-39, l'apogeo del nazismo? Certamente una di Wagner, penserà il lettore, tirando poi a indovinare sul titolo: L'oro del Reno? Il crepuscolo degli dei? Parsifal? Nulla di tutto questo. La risposta esatta è: I pagliacci di Leoncavallo, seguiti a ruota da
Cavalleria rusticana di Mascagni e da Madama Butterfly di Giacomo Puccini. Per trovare il Lohengrin, la più gettonata delle opere wagneriane fra i sovrintendenti teutonici di allora, bisogna scendere fino al dodicesimo posto.
Dimenticate Wagner. Dimenticate la mitologia popolare, che voleva migliaia e migliaia di tedeschi, sera dopo sera, durante gli anni della dittatura nazionalsocialista, sciamare verso i teatri dell'opera in ogni angolo della Germania, per godersi la musica del «maestro» e palcoscenici popolati di valchirie, fanciulle renane ed eroi purissimi in cerca di draghi. È vero il contrario: sotto Hitler, il musicista del regime perse addirittura parte della sua popolarità. E ai tedeschi del Reich millenario sfiziava molto di più commuoversi per il melodramma italiano o condividere l'ossessione di don José per la bella e sfrontatissima Carmen, nell'opera di Bizet. Pulsioni non esattamente in linea con la mistica nazista.
Tant'è. Secondo lo storico inglese Jonathan Carr, la passione travolgente di Hitler per la musica di Wagner non trovava riscontro nella maggioranza dei suoi connazionali né, fatto ancora più singolare, fra i gerarchi e i militanti del suo partito, la Nsdap. «Ci hanno sempre raccontato che, non appena Hitler giunse al potere, i tedeschi cominciarono ad affollare le case d'opera per ascoltare Wagner. È vero il contrario», scrive Carr nel libro The Wagner Clan, in uscita a settembre in Inghilterra, per i tipi di Faber and Faber.
Che Hitler fosse Wagner-dipendente, è un fatto. La musica del compositore di Lipsia fu per il dittatore una sorta di religione, al punto da farne l'autentica colonna sonora del suo regime. Fu lui a insistere perché il 21 marzo 1933, il giorno di Potsdam, dove si inaugurava il nuovo Reichstag, venisse concluso con una rappresentazione de I maestri cantori di Norimberga. Molto prima di Apocalypse Now, gli attacchi degli aerei tedeschi durante la guerra venivano accompagnati dalla Cavalcata delle Valchirie. L' ouverture del Rienzi segnava l'inizio di molte cerimonie ufficiali. Mentre ogni morte eccellente, compresa quella del Führer nell'aprile 1945, veniva annunciata con le note della morte di Sigfrido dal Crepuscolo degli dei.
Come spiega la storica Brigitte Hamann, Hitler si identificava pienamente con l'uomo Wagner, «l'outsider, il rivoluzionario diventato grande contro ogni avversità». Di più, dice Carr nel suo libro, Hitler come Wagner capiva il potere di seduzione dello spettacolo e nell'opera del «maestro» cercava anche ispirazione per la propria personale messa in scena, ingrediente essenziale del regime nazista.
Ma se la volontà di rappresentazione del Führer mostrava di funzionare alla perfezione, Wagner e la sua musica non erano accolti con altrettanto entusiasmo. In primo luogo nei ranghi del partito. Come ha raccontato nelle sue memorie Albert Speer, architetto e favorito di Hitler, i gerarchi nazisti, non propriamente dei raffinati intellettuali con l'eccezione di Speer appunto, erano atterriti e annoiati a morte dalla prospettiva di star per quattro o cinque ore seduti a seguire un'opera di Wagner, come accadeva a ogni congresso o anniversario di partito. Speer ricorda che nel 1933, a Norimberga, a una rappresentazione dei Maestri cantori, si presentarono in così pochi, che Hitler furioso mandò in giro per la città pattuglie di SA, per tirare fuori i funzionari nazisti da birrerie e bordelli, trascinandoli a teatro.
Ma, soprattutto, era il pubblico tedesco a snobbare o quasi le opere di Wagner. La ricerca statistica di Carr su quelle rappresentate in Germania durante gli anni Trenta parla chiaro: nella stagione 1932-33, vigilia della presa del potere da parte di Hitler, al primo posto nei teatri tedeschi fu la Carmen di Bizet, seguita da Il franco cacciatore
di Weber e quindi da quattro opere wagneriane. Ma l'anno dopo, come abbiamo visto, bisognava cercare il Lohengrin alla dodicesima posizione. Quanto agli anni di guerra, il compositore più eseguito nei cartelloni teutonici fu Giuseppe Verdi.
Eppure, proprio in quegli anni, un piccolo studente di musica di nome Claudio Abbado si vide arrivare la Gestapo nella sua casa di Milano perché aveva scritto sui muri «Viva Verdi». Lo avevano fatto oltre ottant'anni prima i giovani patrioti del Risorgimento, intendevano dire «Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia». E gli occupanti pensarono fosse un gesto rivoluzionario. Ma il giovane Abbado voleva proprio dire quello, Viva Verdi. Ora sappiamo che, in fondo, anche i tedeschi erano d'accordo.

Corriere della Sera 14.7.07
Il Negri non violento che seduce i francesi di Antonio Carioti


Il capitalismo? In via d'estinzione, perché nell'economia attuale «non c'è più bisogno del capitale ». La rivoluzione? È già avvenuta, anche se molti vecchi barbagianni sono tanto ottusi da non accorgersene. L'uomo nuovo? Non è una promessa inadempiuta né un sogno lontano, anzi: «Noi siamo già uomini nuovi».
Parole di Toni Negri, che nei panni accattivanti di filosofo postmoderno così pontificava su Le Monde di ieri, candidandosi a ideologo dei movimenti unificati dallo slogan «un altro mondo è possibile». Il professore padovano ha scoperto che «nessuno vuole più lavorare in officina come suo padre» e ne ha dedotto la discesa in campo di un «nuovo proletariato cognitivo», che non ha più in comune la schiavitù della catena di montaggio, ma «la sua intelligenza, i suoi linguaggi, la sua musica ». Il tono diventa estatico: «È questa la nuova gioventù! ». E gli scenari futuribili si tingono di rosa, tanto che Negri si domanda «se la grande trasformazione che viviamo non sia una transizione estremamente possente verso una società più libera, più giusta, più democratica».
L'intervistatore, Jean Birnbaum, lo ascolta incantato. In Francia queste analisi possono in effetti apparire molto sofisticate e originali, anche se suonano come un abile riciclaggio in chiave globalista delle ben note riflessioni di Negri sull'«operaio sociale». Ma soprattutto in Francia l'ex capo dell'Autonomia padovana può rivendicare senza rossori una pretesa «ripugnanza riguardo alla violenza e alle sue teorizzazioni » che in Italia, con il suo passato, nessuno potrebbe mai riconoscergli.

Corriere della Sera Milano 14.7.07
I viaggi di Mozart in Lombardia tra teatri, conventi e locande Ma nessuno gli offrì un lavoro A Lodi il primo quartetto, a Milano conobbe l'amore di Armando Torno


I tre soggiorni ricostruiti nel volume di Alberto Basso

Tra la fine del 1769 e il marzo 1773 il giovane Wolfgang Amadeus Mozart e papà Leopold fecero tre viaggi in Italia. La città ove soggiornarono di più — un anno circa — fu Milano.
Per il teatro Ducale del capoluogo lombardo il musicista compose la sua prima opera lirica, il Mitridate Re di Ponto. A Milano Mozart pare si sia innamorato per la prima volta; qui conobbe lo stile italiano che allora faceva scuola. Arrivò anche a Roma e incontrò il Papa, eccolo a Bologna dove prese lezioni dal grande padre Martini, soggiornò a Venezia, a Torino, a Napoli, in numerose altre città. Milano e la Lombardia restano però luoghi privilegiati dei suoi viaggi italiani. E ora di essi, grazie a un magistrale lavoro di Alberto Basso dal titolo I Mozart in Italia (appena pubblicato dall'Accademia di Santa Cecilia, costa 77 euro) sappiamo tutto.
Certo, sappiamo quanto le lettere e gli appunti dell'attento Leopold ci rivelano. I cambi delle monete (in Lombardia c'era il forte gigliato), come si viaggiava (non in carrozza, che era per ricchi, ma con «la sedia»: una specie di calesse coperto, tirato da due cavalli, che utilizzerà anche Goethe), le condizioni delle taverne e il vitto, i pidocchi, la polvere, gli spettacoli. A Mantova, nel gennaio 1770 — siamo nel primo viaggio — i Mozart dormono alla locanda Croce Verde, a Bozzolo si fermano all'Albergo della Posta, a Cremona alla locanda Colombina e a Lodi in quella «della Gatta». A Milano invece sono ospiti del plenipotenziario austriaco, il conte di Firmian, nel Convento di San Marco: occupano un appartamento della foresteria con camino. Qui quasi sicuramente dormì due secoli e mezzo prima Martin Lutero, che fece sosta durante il viaggio a Roma. Oggi sull'antico luogo c'è il liceo Parini.
Parlando con Alberto Basso, conosciamo meglio gli spettacoli che i Mozart frequentarono e che il musicologo ha ricostruito grazie ai documenti: «A Mantova, al Regio Ducale Teatro Vecchio, assistono al Demetrio di Hasse; a Cremona, al Teatro Nazari, è la volta di una Clemenza di Tito del napoletano Michelangelo Valentini; a Brescia, al Teatro Grande, vedono il Carnovale di Venezia con le musiche di Antonio Boroni ». Ma il soggiorno lombardo è fecondo per il giovane maestro. Oltre le innumerevoli accademie che tiene a Milano (una senz'altro a palazzo Clerici, altre a palazzo Melzi, distrutto nell'ultima guerra) vi sono le composizioni che qui prendono vita. E non soltanto. Sottolinea Basso: «Dopo i primi tre mesi di soggiorno milanese, i Mozart si dirigono verso Sud e dormono a Lodi: in una locanda Wolfgang compone i tre movimenti iniziali del primo quartetto del suo catalogo». Non soltanto: «A Milano il musicista non fu soltanto un compositore, ma anche uno spettatore importante. Qui conobbe Parini e qui vide il Ruggero di Hasse durante il suo secondo soggiorno».
Insomma, dobbiamo immaginare papà e figlio passeggiare per la città, assistere al carnevale ambrosiano, prepararsi per i concerti, ma pensarli anche su quella scomoda «sedia» in viaggio per Venezia o per Torino (in tal caso sono passati dal ponte di Boffalora, dove hanno dovuto pagato un pedaggio). E poi gli spostamenti erano dei veri e propri calvari: cibo scarso e sovente disastroso, inoltre «nelle locande di allora — ricorda Basso — si dovevano quasi sempre portare le lenzuola, o si era costretti a dormire sulla paglia o sui tavolacci, comunque in compagnia di animaletti fastidiosi ». Certo, nei periodi di baldoria si era quasi ripagati. «Durante il secondo soggiorno milanese — prosegue Basso — quando va in scena la sua opera Ascanio in Alba,
egli assiste ai numerosi spettacoli e prende parte alle feste per le nozze arciducali. Durano una quindicina di giorni. Banchetti sontuosi, balli, corse di cavalli, sfilate, gare. Ai Mozart capita anche di osservare dalla strada al crollo di una tribuna, fatto che provoca la morte di due persone e il ferimento di una cinquantina di altre».
Che aggiungere? A Milano Wolfgang sperava di trovare una sistemazione, ma l'arciduca — per il divieto di Maria Teresa — non assumerà il giovane musicista. All'inizio del 1773 vediamo Leopold attendere, attendere, ma nessuna vera proposta arriva. A gennaio di quell'anno il conte di Carlo Ercole di Castelbarco regala a Mozart un orologio d'oro con annessa catena; le gazzette lo lodano, ma il posto fisso non c'è. I due riprenderanno la via del ritorno. Carichi di allori ma senza uno stipendio.

l’Unità 14.7.07
Argentina. Crimini contro l’umanità la Corte suprema annulla l’indulto a ex generale della dittatura


BUENOS AIRES La Corte Suprema argentina ha ratificato ieri, con la maggioranza dei voti dei suoi sei membri, una sentenza della Corte d’appello che stabilisce la incostituzionalità dell’indulto concesso a suo tempo dall’ex presidente Carlos Menem all’ex generale Santiago Omar Riveros, accusato di crimini contro l’umanità durante la passata dittatura (1976-1983). La decisione apre così la strada per la revoca degli indulti concessi da Menem nel 1989 ad altri numerosi ex capi militari, tra i quali gli ex generali Jorge Videla, Emilio Massera, Leopoldo Galtieri, Cristino Nicolaides e Juan Bautista Sasiain. Il generale Santiago Omar Riveros, 84 anni, diresse durante la dittatura (1976-1983) i potentissimi «Institutos militares» di Campo de Mayo. Insieme all’altro generale Carlos Guillermo Suarez Mason, conosciuto come «Pajarito» (Uccellino) ed ora defunto, è stato condannato definitivamente all’ergastolo in contumacia nel 2003 dalla giustizia di Roma per responsabilità nella scomparsa di otto cittadini italiani. Sotto la sua responsabilità era la «zona 4» dove vivevano alcune delle vittime-desaparecidos del processo di Roma, fra cui Martino Mastinu e Mario Marras, oltre ad altri italiani pure scomparsi, come Domenico Mena e Anna Maria Lanzillotto. Nel processo istruito in Argentina dal giudice Adolfo Bagnasco, il generale è stato incriminato e messo agli arresti domiciliari per la sorte di numerosi bambini che, sottratti alle loro madri torturate e uccise, furono affidati a militari senza figli.

Liberazione 14.7.07
Il presidente ad Ancona. Allarme su morti bianche e precarietà
Bertinotti: «Preoccupante l'oscuramento della questione del lavoro»
di Alessandro Antonelli


«Presidente, ma allora l'Unione esiste ancora? Cos'è questa storia delle alleanze variabili? E cosa succede con le pensioni?». «Non c'entra con la sicurezza sul lavoro». «Già, ma con la sicurezza del governo sì...». Un sorriso.
Fausto Bertinotti è prudente. Resiste, si trattiene. Concede poco ai cronisti che provano a scucirgli un commento sul delicato momento politico. Riserbo comprensibile, con l'esecutivo in fibrillazione e i temi caldi - dalla giustizia alle pensioni - ad agitare le acque della maggioranza. Non si sa se sia preoccupato. La risposta sembra darla quella lieve turbolenza a bordo del Falcon 900 che da Ancona, dove è appena intervenuto ad una riunione straordinaria del consiglio regionale sui temi del lavoro, lo riporta a Roma.
Sulla riforma della previdenza solo brevi cenni, nel solco di quanto ripetuto in questi giorni: l'età pensionabile non può essere uguale per tutti, perché «l'uguaglianza tra diseguali aumenta la disuguaglianza». Insomma, cresce sì l'aspettativa di vita, ma «un professore universitario e un operaio siderurgico invecchiano diversamente». Stop.
Accantonata per un momento la partita pensioni, che si gioca nelle stanze di palazzo Chigi, il presidente della Camera arriva ad Ancona per onorare il suo impegno, insieme alle rappresentanze sindacali, al presidente del consiglio regionale Bucciarelli e al governatore Spacca: spostare i riflettori sulle vere piaghe che affligono il mondo del lavoro, infortuni e precarietà. Questi i temi su cui per Bertinotti occorre una «inversione di tendenza». E l'assemblea aperta al Teatro delle Muse, nel pieno centro del capoluogo marchigiano, è l'occasione per lanciare un doppio segnale contro l'insicurezza. Quella "sul" lavoro («forse il problema più drammatico del Paese») e quella "del" lavoro, con migliaia di persone costrette a barcamenarsi tra disoccupazione, impieghi atipici e temporanei. E con i «figli che oggi stanno peggio dei padri». Due declinazioni della parola precarietà, entrambi sintomi di una questione lavoro trascurata. Anzi: «oscurata». Con i suoi protagonisti reali, i lavoratori, diventati «invisibili», «variabili dipendenti», schiacciati sotto il peso delle trasformazioni «gigantesche» che non sono in grado di comprendere e governare. Una crisi che Bertinotti individua vieppiù nel segmento critico del «lavoro manuale», che nell'epoca dell'economia della conoscenza subisce una «svalutazione intollerabile».
Non è un caso che si parta da qui, dal paradigma culturale. Perché è proprio quella «svalutazione» a produrre insicurezza e precarietà. Per questo nel suo intervento la terza carica dello Stato si rivolge alla platea di amministratori locali, sindacati e imprese, per sollecitare un'«inversone di tendenza», una riappropriazione della questione del lavoro. Sforzo che certo, deve promanare dalle istituzioni, ma che ha bisogno anche di una spinta dal basso, dell'apporto e l'impegno dei territori e delle comunità locali.
Esplicito il richiamo alla sicurezza sui luoghi di lavoro. Prima del suo intervento Bertinotti ha incontrato fuori dal teatro una rappresentanza di Rls e ha ribadito che a loro deve essere riconosciuto un ruolo da protagonisti. «C'è bisogno di uno sforzo che restituisca valore pieno a quei testimoni attivi che sono i delegati della sicurezza sul lavoro. Altrimenti - ha rimarcato - rimane un vuoto».
Infortuni, malattie, disagio. E morti. Tre, quattro morti al giorno. «La punta dell'iceberg - ragiona Bertinotti - una situazione intollerabile, anche perché non si riesce a comprimere questo indicatore e l'esposizione al rischio non è cancellata in modo significativo dalla ripresa economica». Segno che le imprese (non tutte per fortuna) vedono ancora nel "costo del lavoro" la prima voce da sacrificare sull'altare del risparmio e del profitto.
Altrettanto esplicito il richiamo alla necessità di licenziare in fretta la nuova legge sulla tutela della sicurezza e la salute dei lavoratori, già approvata in Senato. La speranza è che il testo riesca ad ottenere il via libera entro la fine di luglio, prima che le camere chiudano i battenti. Ma sarà difficile trovare spazio nella fittissima agenda di Montecitorio. L'importante - fa notare Bertinotti - è che si proceda nella direzione giusta: reprimere il lavoro nero e premiare le imprese che investono sulla qualità e sulla riduzione dei rischi.
All'uscita del teatro c'è tempo anche per un breve scambio di battute con una rappresentanza di operai della Fincantieri, contrari alla quotazione in borsa dell'azienda: «Ho ascoltato le loro preoccupazioni con molta attenzione e rispetto».

venerdì 13 luglio 2007

Repubblica 13.7.07
Fausto Bertinotti e la riforma previdenziale


la lettera
Caro Direttore, Eugenio Scalfari sostiene che non voglio "scalini e scalette al posto dello scalone" e che dello scalone vorrei l´abolizione pura e semplice, indifferente al conseguente disastro finanziario e alla messa sotto accusa dell´Italia da parte della Commissione Europea. Semplicemente non è vero. Ho sempre sostenuto la necessità di differenziare l´andata in pensione tra chi ha diversi percorsi di lavoro (e dunque ha età reali molto diverse tra loro) e di non obbligare chi è segnato da un lungo periodo di lavoro faticoso e usurante, come i turnisti, coloro che sono sottoposti a lavori vincolati, gli operai, ad un prolungamento della vita lavorativa che sarebbe, secondo me, socialmente intollerabile e per nulla vantaggioso per le imprese. Chi fosse stato interessato alla mia reale opinione avrebbe potuto trovarla, ne La Repubblica del 6 luglio 2007, molto attentamente e fedelmente illustrata, cosa di cui ancora lo ringrazio, dal Suo Massimo Giannini con il quale ho avuto modo di intrattenermi in una lunga e approfondita conversazione.

Fausto Bertinotti
Presidente della Camera dei deputati

L´onorevole Bertinotti in queste ultime settimane ha fatto numerose dichiarazioni sul tema della riforma pensionistica e dello «scalone» della legge Maroni. Del colloquio con Massimo Giannini mi limito a riportare l´inizio: «Dopo un lungo colloquio con il Presidente della Camera, si capisce che il pericolo di crisi di governo è reale. Rifondazione comunista (di cui Fausto il Rosso resta il faro, nonostante il riserbo istituzionale che s´è imposto) non può accettare nè lo "scalone" di Maroni, né lo "scalino" di Damiano. Non può accettare nessun innalzamento "in corsa" dell´età pensionabile per la categoria degli "ultimi nella moderna gerarchia sociale": gli operai. Quelli che "hanno lavorato duro per una vita"».
A rigore di logica e di lessico si dovrebbe concludere che il Presidente della Camera non accetta né lo «scalone» né gli «scalini» e in particolare quelli destinati agli operai sottoposti al lavoro usurante. Sono tuttavia lieto e prendo atto della sua precisazione e cioè che la sua preoccupazione maggiore ed anzi esclusiva è quella che riguarda l´esenzione degli operai dall´innalzamento dell´età pensionabile. E´ una precisazione importante, in contrasto tuttavia con quanto continua a sostenere il segretario di Rifondazione, Franco Giordano.
(e. s.)

Repubblica 13.7.07
Sabato il comitato politico. Il premier alla ricerca di un'intesa preventiva con i sindacati
È resa dei conti dentro il Prc Giordano apre, l'ala dura non ci sta
di Roberto Mania


ROMA - «Tutti gli scenari sono possibili», continua a ripetere il leader della Cgil, Guglielmo Epifani. E, al di là dell´ottimismo che trapelava ieri sera da Palazzo Chigi, sulle pensioni non è esclusa davvero alcuna ipotesi: l´accordo, la rottura, il rinvio a settembre, fino al congelamento per un anno dello scalone di Maroni. Perché la querelle previdenziale si intreccia con la nascita del Pd, la crisi profonda di Rifondazione comunista, l´affanno dei sindacati. Oltreché - ça va sans dire - essere lo specchio dello scontro nella maggioranza tra riformisti e massimalisti e della fragilità del centrosinistra tra i banchi di Palazzo Madama. Tutto ciò è diventata la vertenza-pensioni. In gioco c´è il futuro del governo Prodi.
Al Consiglio dei ministri di questa mattina, il premier illustrerà le linee generali della proposta che sta ancora mettendo a punto. Parlerà di scalini, "quote" e lavori usuranti. Non dovrebbe entrare nei dettagli. Potrebbe farlo subito dopo, però, convocando i leader di Cgil, Cisl e Uil, Epifani, Bonanni e Angeletti. Un passaggio solo apparentemente semplice perché Prodi non può rischiare di ricevere un altro "no" dai sindacati. Dunque dovrà avere un sostanziale via libera da loro prima di convocarli formalmente. Questo perché si dà per molto probabile il ricorso ad un "lodo", prendere o lasciare, da parte del presidente del Consiglio. E per poter andare alla verifica conclusiva con Rifondazione comunista Prodi non può prescindere dall´assenso delle tre confederazioni.
A quel punto il destino dello scalone, ma anche del governo, sarà tutto in mano ai comunisti di Rifondazione. Fa parte della strategia di Palazzo Chigi. Da ieri gli sherpa del Prc hanno cominciato ad essere meno pessimisti. Le aperture ci sono già state da parte di Franco Giordano e dei suoi, a cominciare dalla disponibilità ad accettare lo scalino da 57 a 58 anni per la pensione di anzianità, escludendo coloro che svolgono attività usuranti e anche chi matura 40 anni di contributi. Ma questa è la Rifondazione-dialogante, l´altra, quella "comunista-comunista", è pronta a dare battaglia già al Comitato politico convocato per sabato e domenica. "L´Ernesto", una delle minoranze del partito, ha annunciato che presenterà un ordine del giorno nel quale si chiede «di non cedere sulla cancellazione dello scalone, anche se questo dovesse comportare la crisi di governo». Fosco Giannini è un senatore, il suo sarà uno dei voti decisivi: «O si cancella lo scalone o è crisi. Io sono d´accordo con la Fiom». Che, in questo caso è la Fiom di Giorgio Cremaschi, il dissidente per antonomasia, minoranza nella Cgil e ora anche in Rifondazione, dopo essere stato considerato il delfino di Fausto Bertinotti. Andrà anche lui al Comitato politico e ha deciso di parlare perché - dice - «siamo di fronte al totale fallimento di un gruppo dirigente e della sua linea politica. Al punto in cui siamo Rifondazione non è in grado di rompere perché andrebbe in crisi il governo, né di fare l´accordo perché i militanti non capirebbero. Che farà Rifondazione?». Lo scontro nel partito di Bertinotti è radicale e questo aiuta a capire la crescente insofferenza della Cgil nei confronti dei veti che arrivano da Via del Policlinico, dove sta la sede del Prc. «Rifondazione sta in piedi - dicono a Corso d´Italia - solo perché ha alzato la bandiera dello scalone».
Dunque si devono studiare altre vie di fuga, considerando che un accordo che possa piacere alla minoranza di Prc non avrebbe l´assenso di Lamberto Dini e degli altri senatori moderati. E allora non si può escludere il rinvio a settembre, anche perché lo scalone finirà comunque nella Finanziaria. Nelle discussioni, poi, torna a fare capolino l´ipotesi di un congelamento per un anno (la proposta è del bertinottiano Alfonso Gianni) della contestata norma di Maroni, ma anche l´ultimo drammatico scenario: lo scalone resterà.

Repubblica 13.7.07
Il leader della Cgil a "Repubblica Tv": anche imprese e banche sono contrarie allo scalone, impedisce il ricambio
"Rifondazione si fermi un attimo"
Epifani: con un clima più sereno l'accordo è possibile
Ci sono due strade per un compromesso intelligente: gli incentivi a restare o l'innalzamento graduale, esclusi i lavori usuranti
di Edoardo Buffoni


ROMA - «L´accordo sulle pensioni si può fare, noi della Cgil lo vogliamo fare, ma è tutto nelle mani di Prodi. Aspettiamo da giorni la sua proposta. E sulla trattativa, invito Rifondazione Comunista a fermarsi un attimo, c´è bisogno di un clima più sereno». Il segretario generale Cgil, parla a Repubblica Tv, in uno dei momenti più delicati della vicenda-pensioni.
Epifani, a che punto siamo con la trattativa?
«Di fatto, siamo fermi da giorni e giorni. In attesa che Prodi faccia il suo passo. Il presidente del Consiglio ha detto che si assumeva la responsabilità di fare una proposta, e ora dipende tutto da lui. Se vuol fare davvero l´accordo sulle pensioni, può darsi che lo si riesca a fare prima della pausa estiva».
Cosa impedisce di trovare un accordo?
«Prima di tutto il metodo: questa trattativa viene condotta in modo convulso, viene fatta sui giornali, con un continuo susseguirsi di proposte senza fondamento economico. Io ricordo la vecchia trattativa fatta con Dini: lavorammo per due mesi vedendoci tre volte alla settimana in un luogo riservato. Solo così si arriva a risultati concreti».
La Cgil non sente l´interferenza della sinistra radicale in una trattativa che dovrebbe essere solo tra voi, il governo e la Confindustria?
«Io ho chiesto a tutti i partiti di fare un passo indietro in questa fase delicata. Rifondazione ci ha chiesto un incontro, per una questione di cortesia lo abbiamo fatto. Certo, la loro è un´attività molto intensa in questa fase…»
Ma vi sentite "scavalcati" a sinistra?
«Prima Rifondazione ha detto: per noi va bene ciò che fa il sindacato, poi a un certo punto ha cambiato idea. Adesso spero che sia tornata all´idea originale. Il mio invito a Rifondazione è di fermarsi un attimo, perché se dobbiamo provare a fare l´accordo, ci vuole un quadro più rasserenante».
Nel merito, che soluzione siete disposti ad accettare sull´età pensionabile?
«Ci sono due strade per arrivare a un compromesso intelligente. La prima è quella degli incentivi, ma incentivi veri, senza la tagliola di un altro scalone in futuro, altrimenti nessuno si fermerà a lavorare più anni. La seconda è l´innalzamento graduale dell´età della pensione. Con quali tempi e con quali limiti, è materia di discussione. Noi siamo pronti a trattare, conti alla mano e senza spirito di corporazione. Tanto più che le imprese la pensano come noi».
Ne è sicuro? Le imprese sono contro lo scalone?
«Non faccio che incontrare industriali, banchieri, piccoli e grandi, che mi dicono: tenete duro, avete ragione voi. Perché, come dice anche Walter Veltroni, quando c´è una crisi o il dipendente arriva a 50 anni, le imprese preferiscono mandarlo via e sostituirlo con un giovane magari precario per risparmiare sui costi. Lo scalone in molti casi impedirebbe questo ricambio. Ma Confindustria non può dire una cosa e le imprese fare il contrario. Non è onesto».
Lei ha citato la lettera di Veltroni a "Repubblica". In quella lettera c'è l´idea di un patto tra le generazioni. Che ne pensa?
«Noi condividiamo le proposte di Veltroni, sono già nell´idea di solidarietà che ha il sindacato, di equità tra le generazioni, tra i giovani e i lavoratori che stanno per andare in pensione. C´è però anche il tema dell´equità dentro la stessa generazione. Perché magistrati e diplomatici devono avere un trattamento pensionistico migliore degli altri lavoratori? Perché le pensioni dei dirigenti d´azienda devono gravare sui conti dell´Inps? E chi le paga? Il fondo dei precari e dei parasubordinati».
All´accusa di corporativismo cosa risponde?
«Per noi la lotta alla precarietà dei giovani è una costante degli ultimi anni: legge 30, contratti atipici, coefficienti. E lo dimostra il fatto che tutti i nuovi iscritti alla Cgil sono giovani, altro che pensionati. Il corporativismo può nascere in quelle categorie, penso agli operai, a cui non viene riconosciuto più un valore sociale».
Quello degli operai è un lavoro usurante? Nel loro caso si può alzare l'età della pensione?
«Dipende dai casi. Ci sono operai che possono benissimo continuare dopo i 57 anni. Altri no, come una donna che ho conosciuto alle carrozzerie di Mirafiori, che non ce la fa più. Io fisso due criteri: non va alzata l´età della pensione a chi fa un lavoro vincolato, tipo catena di montaggio, e a chi fa sistematicamente il turno di notte. Quanti siano questi lavoratori lo stiamo calcolando in questi giorni».
E le donne? Rutelli ha proposto l'innalzamento a 65 anni insieme agli uomini.
«Tempo fa ero d´accordo, poi ho cambiato idea. Le donne vanno in pensione con meno anni di contribuzione e stipendi minori degli uomini. Questa è la vera disuguaglianza. Innalzare ora l´età pensionabile mi sembra una cattiveria inutile».
Faccia un pronostico: l'accordo si farà?
«La Cgil ha chiaro in mente cosa vuole. Io voglio fare questo accordo, perché un sindacato che non fa l´accordo è un sindacato che perde».

Repubblica 13.7.07
Il manifesto del leader Dl firmato da personalità come Chiamparino, Follini, Cipolletta, Bobba
Rutelli sfida la sinistra radicale "Alleanze diverse se fermate le riforme"
di Giovanna Casadio


Nuovo conio. Il Partito Democratico dovrà proporre una alleanza di centrosinistra di nuovo conio
Cambiare rotta. Il Pd deve aiutare il governo a cambiare rotta e rivolgere un messaggio chiaro al Paese
Neo umanesimo. L´ambiente, in primo luogo, è il terreno del nuovo umanesimo del XXI secolo
Ritorno alla crescita. La missione di questi anni per l´Italia è il ritorno alla crescita. Ridurre la pressione fiscale

ROMA - Sette punti, tre paginette e mezzo ma dirompenti. Il "Manifesto per il coraggio delle riforme" è stato limato fino a tarda notte da Francesco Rutelli e dagli «amici di sempre». Pensata e ripensata la frase con cui si conclude: «La maggioranza che ha vinto le elezioni deve governare i cambiamenti. Sappiamo che potrà essere confermata solo se soddisferà le attese degli elettori. Altrimenti il Partito democratico dovrà proporre un´alleanza di centrosinistra di nuovo conio».
Dovrà quindi il Pd, «per non riconsegnare l´Italia alle destre e soprattutto per non essere imprigionati dal minoritarismo e dal conservatorismo di sinistra, nè dalla paralisi delle decisioni», avere anche il coraggio di nuove alleanze. Come dire, sarà necessario fare a meno della sinistra massimalista, Rifondazione in testa, se impedirà le riforme, dalle pensioni alle liberalizzazioni. Del resto, il Manifesto di Rutelli - di appoggio a Walter Veltroni alla guida del Pd -disegna profilo e compiti del partito nuovo: primo fra tutti, «aiutare il governo a cambiare rotta». Anche perché il rapporto con l´opinione pubblica è critico; la missione di questa legislatura non si può «esaurire» solo nel risanamento economico; la delusione tra i ceti popolari va combattuta; l´insofferenza dei ceti medi – piccoli imprenditori, commercianti, professionisti, artigiani - cresce e «l´eccesso di adempimenti fiscali e amministrativi rende mal difendibile la sacrosanta azione contro l´evasione fiscale». Un elenco incalzante nel Manifesto di Rutelli, un invito affinché il Partito democratico provochi «un sano shock politico e progettuale» che vira infine verso una semplice considerazione: se la maggioranza delude, occorre una nuova alleanza.
Piace a molti. A Marco Follini, ad esempio. L´ex leader dell´Udc approdato saldamente nel Partito democratico, lo trova «innovativo e non all´acqua di rose». Perciò firma il manifesto dei "coraggiosi" e spiega che «il voto per Veltroni prevede un forte vincolo di mandato, ci impegna e lo impegna a una rotta più innovativa». Lo sottoscrivono nella Margherita, i rutelliani doc Paolo Gentiloni, Linda Lanzillotta, Donato Mosella, Renzo Lusetti, Ermete Realacci, Rino Piscitello però anche i teodem Gigi Bobba, Paola Binetti, Emanuela Baio, Antonio Polito e, nello spirito dello sparigliamento, i ds Enrico Morando e Franco Bassanini, il sindaco di Torino Sergio Chiamparino il presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati. Adesioni da imprenditori (Innocenzo Cipolletta e Gianfranco Imperatori), esponenti delle associazioni cattoliche (Andrea Olivero delle Acli), attori (Michele Placido e Pamela Villoresi).
Il vice premier è dunque ufficialmente in campo e il manifesto, che doveva essere la base di una sua lista per la Costituente del 14 ottobre, è diventato la piattaforma per un´area riformista del nuovo Partito democratico. Dario Franceschini, il vice in pectore di Veltroni (che non l´ha firmato) fa sapere però di apprezzarlo: «Da quello che ho letto mi sembra un manifesto intelligente, molto riformista e innovatore come dice il titolo». Glissa sull´ipotesi "mani libere" per nuove alleanze: «Nel Pd dobbiamo fare una sintesi delle varie idee che vengono messe in campo e per fare sintesi occorre che qualcuno produca idee, posizioni e contenuti». Beppe Fioroni - il ministro della Margherita che sta organizzando l´area cattolica del Pd - è molto tiepido: «Se l´attuale coalizione si sfascia, allora il dovere del Partito democratico è quello di creare una nuova prospettiva. Però il Pd nasce per sostenere e stabilizzare l´azione del governo Prodi. Non credo che Francesco intenda dire qualcosa di diverso».
In concreto. Le riforme coraggiose che invoca Rutelli riguardano «sette programmi prioritari», ovvero l´ambiente che è «terreno del nuovo umanesimo»; la modernizzazione; la coesione sociale che si traduce nella «tutela del potere d´acquisto di stipendi e pensioni e nel migliorare i servizi per le persone»; l´etica pubblica della responsabilità mentre oggi in Italia «chi delinque è premiato»; le imprese, che hanno bisogno di «una burocrazia più snella, subito, di liberalizzazioni in economia con la totale separazione tra la politica e gli affari; potere alla creatività dei giovani; quindi l´Italia nel mondo. Su questi assi si muove la svolta che il vice premier si augura e che fa salire la tensione con la sinistra ma anche con gli ulivisti prodiani. Massimo Cacciari, il sindaco di Venezia si dichiara d´accordo con «la linea di fondo» ma ancora non firma.

Repubblica 13.7.07
Il documento non piace al presidente del Consiglio: così la maggioranza va in fibrillazione
Il "nuovo conio" allarma premier e Prc
di g.c.

ROMA - Pennette al pomodoro e polpette. Nella cena a casa di Francesco Rutelli all´Eur, mercoledì sera, i «fedelissimi» - Paolo Gentiloni, Ermete Realacci, Renzo Lusetti e Luigi Zanda - se lo sono detti: «Questo Manifesto per il Partito democratico creerà casino». Non che sia piovuto come un fulmine a ciel sereno. Ne era stato informato Franco Marini, il presidente del Senato. Una copia è stata inviata a Walter Veltroni, un´altra a Piero Fassino.
Che avrebbe provocato la sollevazione della sinistra radicale, Rifondazione in testa, era scontato. Forse però i "riformisti coraggiosi" non hanno valutato bene l´effetto su Prodi. L´ipotesi di nuove alleanze allarma il presidente del Consiglio. A dirlo a chiare lettere è il ministro della Difesa, Arturo Parisi: «Nuove alleanze? Nuove alleanze, nuove elezioni». Una frase lapidaria, che nasconde un ragionamento: se si invocano maggioranze di «nuovo conio» si manda in fibrillazione l´Unione. È un modo per «destabilizzare» il governo nel momento delicato della trattativa sulle pensioni e in vista del Dpef.
La fila degli scontenti si è andata ingrossando mano a mano che la frase fatidica - a conclusione del Manifesto - emergeva in tutta la sua inequivocabile chiarezza. Franco Giordano, il segretario del Prc bolla tutta la faccenda come «il segno evidente di una svolta moderata». «Il Manifesto è semplicemente pessimo - commenta Giordano - Come sempre si dimostra che la partita interna al Partito democratico si riflette sulla maggioranza e si scarica sulla tenuta del governo. Mi pare che anche questa volta il tentativo sia quello di ipotecare la trattativa in corso con le organizzazioni sindacali sulle pensioni spingendo verso un esito moderato gli assetti di maggioranza e di governo».
Chiaro che Rifondazione non è disposta a cedere. «Si vogliono gettare le basi in questo modo per un diverso quadro politico. Per noi la soluzione è definire le condizioni di una trattativa sulla previdenza nel segno del programma condiviso, in modo unanime, dal centrosinistra e sulla base di un´intesa con i sindacati». La «forzatura moderata» di Rutelli indispone il Pdci e i Verdi. Mira a «tagliare le ali estreme» della coalizione: è il leit-motiv. Però nella sinistra radicale, circola anche un´altra riflessione: finisce che Rutelli ci fa un favore, dopo avere messo in difficoltà Prodi.
Nell´entourage del vice premier si nega che il "Manifesto per le riforme coraggiose" possa essere interpretato come un atto contro l´attuale governo. Casomai, è la richiesta di un cambio di passo, la consapevolezza (condivisa anche da Prodi), che sulle pensioni ad esempio, non si può portarla per le lunghe né essere ostaggio dei massimalismi e del "partito del no". Il "Manifesto" rutelliano vola alto sul profilo del Partito democratico e poi vira nel concreto dei passaggi politici, delle alleanze. Marco Follini l´ex leader Udc, adesso nel centrosinistra, lo trova perfetto: innovatore e «non all´acqua di rose», quel che andava detto in vista di una scommessa moderata.

l'Unità 13.7.07
Via i Dico, ecco i Cus
Niente più anagrafe basta il giudice di pace
Il contratto di unione solidale di Salvi diventa testo base. Pollastrini: buona mediazione
di Eduardo Di Blasi


LA TUTELA DELLE CONVIVENZE ha trovato al Senato una nuova formulazione di legge. Dopo i Pacs (Patto Civile di Solidarietà) e i Dico (Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi), ecco il Cus (Contratto di Unione Solidale). Sarà su questo «testo base», presentato ieri dal Presidente della Commissione Giustizia di Palazzo Madama Cesare Salvi, che quella Commissione inizierà a discutere nelle settimane a venire (l’iter in Commissione dovrebbe terminare per settembre).
Il Cus è una forma di mediazione tra la proposta governativa dei Dico (che a Palazzo Madama non sembrava poter raccogliere la maggioranza dei voti), e la proposta di «unione solidale» del senatore forzista Alfredo Biondi, per la quale il riconoscimento giuridico dell’unione civile andava formalizzato davanti a un notaio. Il Cus prevede infatti una «dichiarazione congiunta davanti al giudice di pace o ad un notaio». E specifica: «Qualora l’atto sia stipulato dal notaio, questi deve trasmetterlo entro dieci giorni all’ufficio del giudice di pace competente per territorio per l’iscrizione nel registro». A differenza dei Dico, quindi, il «registro» non sarà in capo all’anagrafe comunale, ma all’ufficio del giudice di pace. Il Cus non potrà essere stipulato «da persona minore d’età; da persona interdetta per infermità di mente; da persona non libera di stato; tra due persone che abbiano vincoli di parentela in linea retta o collaterale entro il secondo grado, o che siano vincolate da adozione, affiliazione, tutela, curatela o amministrazione di sostegno; da persona condannata per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra o sulla persona con la quale l’altra conviveva». I conviventi avranno «gli stessi diritti e doveri spettanti ai parenti di primo grado in relazione all’assistenza e alle informazioni di carattere sanitario e penitenziario». Potranno subentrare nell’affitto in caso di decesso dell’altro. Accedere all’eredità «dopo nove anni dalla registrazione del contratto» e alla pensione in base al futuro riordino del sistema previdenziale. Il Cus potrà essere modificato dai contraenti con una dichiarazione comune davanti al giudice di pace o al notaio. Viene sciolto: «Per comune accordo delle parti; per decisione unilaterale di uno dei due contraenti; per matrimonio di uno dei due contraenti; per morte di uno dei due contraenti». Il ministro delle Pari Opportunità Barbara Pollastrini, dopo aver rilevato che la proposta Salvi prende «punti qualificanti della nostra proposta» è ottimista sull’iter intrapreso: «Ci sono le condizioni per giungere a una mediazione». E rivendica: «Resto convinta che senza i Dico e l’atto del governo, anche solo affrontare la questione nelle aule parlamentari sarebbe stato più difficile». Dal punto di vista parlamentare il lavoro è appena iniziato. Incassato l’ok del senatore Antonio Del Pennino, che milita nel centrodestra e che auspica maggioranze trasversali, di Alfredo Biondi e del Dc Rotondi, il testo raccoglie diversi «no» nel centrodestra, e l’apprezzamento da parte del centrosinistra, che anche nelle sue componenti più radicali ritiene che il testo base sia un buon primo passo. A favore si pronunciano Vittoria Franco, Franco Grillini, Vladimir Luxuria, Titti De Simone, il Verde Bulgarelli (anche se Pecoraro Scanio parla di «piccolo passo avanti»). Contro il Cus si scagliano i promotori del Family Day Eugenia Roccella e Savino Pezzotta. La senatrice Teodem Paola Binetti annuncia: «I Dico erano un testo inemendabile, vedremo se se sarà possibile accettare la struttura dei Cus e poi pensare a proporre emendamenti...».

Non previsto l’obbligo di alimenti
La dichiarazione di convivenza va fatta solo congiuntamente davanti al giudice di pace o al notaio (che deve però trasmettere il contratto all’ufficio del giudice di pace per la trascrizione nell’apposito registro). Non sono permesse dichiarazioni singole (di una sola delle parti). Il vincolo può essere sciolto anche per decisione unilaterale di uno dei due contraenti, senza prevedere, come fa notare il ministro Pollastrini, «l’obbligo alimentare». Rispetto ai Dico manca la riduzione dell’imposta di successione e la possibilità di “ricostruire” ex post la convivenza per i legalmente separati.

L’atto pubblico è in Comune
Due i modi previsti per la dichiarazione: o si va congiuntamente all’anagrafe del Comune di residenza di uno dei due facendo una dichiarazione, o può andare uno solo e dimostrare di aver avvisato l’altro con raccomandata con ricevuta di ritorno (sarà poi l’altro convivente a ricevere la comunicazione dell’avvenuta registrazione dell’atto). L’anagrafe fotografa la realtà, lo Stato civile segnerà invece il passaggio di status. In questo caso siamo davanti ad un rapporto pubblicistico. Il rapporto sottoscritto con il Cus resta invece nell’ambito del diritto privato.

l'Unità 13.7.07
«Ora fondi pubblici per tutte le staminali»
«Manifesto» sulle embrionali: basta no a una ricerca essenziale


L’ETICA è al centro della questione. Ieri, a Roma, si è svolto il 2° Congresso Nazionale per la «Ricerca su cellule staminali embrionali». E la domanda che è maggiormente circolata è stata quella sulla laicità di questo tipo di ricerca, definendo qual è lo status da assegnare alla staminale embrionale: è un «semplice» gruppo di cellule, o è il primo passo verso una futura vita? Secondo un nutrito gruppo tra i maggiori e più qualificati scienziati italiani che collaborano con la «Consulta di Bioetica», «l’Associazione Luca Coscioni», e «l’Associazione Rosa nel Pugno», la ricerca sulle cellule embrionali è «dovere morale», per proseguire nell’ampliamento della nuova frontiera perchè questo tipo di ricerche costituisce un passo necessario per lo sviluppo della conoscenza di come si formano i tessuti umani e di come si ammalano. Con la prospettiva, rosea, di disporre di una medicina «rigenerativa» in grado, in futuro, di permettere la ricostruzione e la sostituzione di un intero organo malato. Il problema, però, è che la maggior parte dei fondi pubblici sono dedicati alle cellule adulte: «L’Unione Europea - si rileva nel Manifesto del Congresso - ha finanziato ben 110 progetti sulle staminali adulte, solo sette che prevedono l’impiego anche delle embrionali, e uno solo interamente dedicato a queste. In Italia, poi, non sono previsti finanziamenti pubblici per le staminali embrionali umane». Una situazione contestata da Demetrio Neri, membro del Comitato Nazionale di Bioetica: «Non ho mai sentito uno scienziato chiedere lo smantellamento e la chiusura di una promettente linea di ricerca. Sarebbe come dire, si fa ricerca sul cuore, però non è lecita e consentita la ricerca sul ventricolo destro».
Un’idea contrastata dalla Chiesa e da altri ricercatori cattolici che ritengono l’embrione «intangibile» in ogni sua fase, anche quando è una cellula embrionale. «Il problema - conferma padre Maurizio Calipari, presente al Congresso - non è la ricerca sull’embrione, ma la distruzione degli stessi. Noi riconosciamo la bontà della ricerca; ma ciò non può legittimare l’atto». Si, perché la Chiesa ritiene doveroso non impedire il naturale sviluppo delle cellule, peccato, che molto spesso, vengono utilizzate cellule già esistenti, destinate altrimenti alla distruzione.
al.fer.

l'Unità 13.7.07
Cinema. Proposte trattabili...
Rifondazione: ecco la riforma. Ora l’accordo
di Gabriella Gallozzi


Una giornata per la cultura tra la nuova legge di riforma per il cinema e un convegno, punto di avvio, per una riflessione sul diritto d’autore. Il tutto in casa di Rifondazione comunista ospite ieri del Goethe Institut di Roma, di fronte ad una platea di addetti ai lavori ormai «ferratissimi» sulle diverse proposte di riforma del sistema cinema presentate dalle varie forze dell’Unione e che dovranno portare ad un unico testo. «La presenza di diversi progetti di legge aiuterà e non danneggerà il lavoro parlamentare», spiega Stefania Brai responsabile cultura per Rifondazione, con riferimento a quello dell’Ulivo depositato dalla senatrice diessina Vittoria Franco e da Colasio della Margherita. «Molti sono i punti in comune - precisa - : con Vittoria Franco abbiamo lavorato insieme al tavolo dell’Unione. Arriveremo ad una mediazione più alta». Soprattutto su alcuni punti cruciali. Come l’autonomia dalla politica del Centro nazionale per il Cinema (Cnc) a cui saranno affidate competenze e funzioni dell'attuale Direzione generale per il cinema del ministero per i Beni Culturali. «Noi pensiamo ad un Cnc - spiega Brai - che sia autonomo, con un direttore generale nominato dal cda e con maggiori rappresentanze del mondo del cinema. Nella proposta dell’Ulivo si parla invece di un direttore generale nominato direttamente dal ministro». Per Rifondazione, al Centro saranno anche affidati i finanziamenti pubblici: un fondo nel quale confluiscono oltre al Fus, Lotto e fiscalità generali, anche i proventi della tassa di scopo, imposta a tutti i «soggetti che usano il cinema». Alla produzione cinematografica andrebbe almeno il 60% del Fondo al sostegno selettivo e non oltre il 40% al sostegno automatico, che sale al 90% per le opere prime e seconde e per quelle con «particolari caratteristiche culturali e di ricerca». Ed è proprio qui l’altra differenza con l’Ulivo: «non condividiamo la percentuale del contributo selettivo pari a un terzo del costo di produzione del film, e quella del contributo automatico pari a due terzi» spiega Brai. Terzo punto di «distacco fondamentale, poi, è l’assenza dell’antitrust», sparito dal disegno Franco-Colasio, a fronte di una denuncia dell’Autority del 2003 (sarà presentata in un libro bianco dall’Anac) in cui si parlava di «cartelli» a proposito di Medusa, Fox, Warner e altri. Per Rifondazione ha posizione dominante chi ha un numero di schermi superiore al 20% del totale nazionale. La percentuale scende al 16% per chi è anche distributore. Le tv non possono controllare imprese di distribuzione e imprese che gestiscono sale cinematografiche, ma hanno l’obbligo di programmare film italiani ed europei. Previsti incentivi per sale che puntano su pellicole, corti e documentari italiani ed europei, come accade in Francia col «minimo garantito», sparito da noi da oltre trent’anni.

il Riformista 13.7.07
Strane idee. Conversazione con Fausto Bertinotti
Caro Emanuele, ma quanto è socialista il Pse
di Emanuele Macaluso


Il tema è classico, e forse eterno: l'identità, il passato, il presente e (se possibile) il futuro della sinistra italiana. Il modo in cui Il Riformista prova oggi ad affrontarlo è - crediamo - molto meno scontato: Emanuele Macaluso “intervista” per noi il presidente della Camera Fausto Bertinotti. Ecco la sintesi del faccia a faccia.

Macaluso: «Come sempre, la sinistra arriva agli appuntamenti decisivi senza un suo progetto. Proviamo a ragionare in termini generali. In Italia, lo Stato sociale non si è formato sulla base di un progetto. La Dc è sempre stata al governo, poi i socialisti hanno portato altre istanze, l'opposizione comunista altre ancora. E c'era un sindacato forte. Senza una strategia complessiva, è venuto fuori un Stato un po' sociale, un po' caratterizzato da forme di assistenza cui non corrispondo diritti. E oggi? Oggi la sinistra gioca di rimessa, perché un suo progetto di riforma non ce l'ha, proprio come quando era all'opposizione. Il suo deficit fondamentale è questo. Sei d'accordo? ».

Bertinotti: «Condivido l'istanza di fondo che tu proponi, la necessità di un progetto della sinistra in Europa per delineare il nuovo compromesso sociale, i guai che derivano dalla sua assenza. Ma non sono molto d'accordo con te sul fatto che la sinistra, nel dopoguerra, in Italia non abbia avuto una sua proposta. Lo Stato sociale ha avuto un elemento di ispirazione comune che si ritrova nel fondamento costituzionale nel primo e nel terzo articolo della Costituzione: la cittadinanza e il welfare dovevano essere costruiti sul lavoro, lungo un processo nel quale il riconoscimento dei diritti dei lavoratori tende a diventare universale. In realtà, ci sono tre compromessi che danno ragione del carattere empirico del nostro welfare che tu indicavi. Il primo: tra la cultura del movimento operaio e la cultura cattolica. Il secondo: tra il Nord e il Sud del Paese, anche sulla base, certo, di quella miscela di diritti e assistenza di cui tu parlavi. Il terzo: tra pubblico e privato. Naturalmente non è tutto così lineare. Un esempio: ancora negli anni Settanta c'era un sistema pensionistico duale tra pubblico e privato, nel pubblico si poteva andare in pensione dopo 15 anni, sei mesi e un giorno. Quindi è evidente che ci sono delle aporie in quella costruzione. Ma, sintetizzando, un lineamento progettuale c'era, aveva il suo perno nel rapporto tra lavoro e cittadinanza, viveva con l'idea dell'espansione dei diritti, cioè di un meccanismo inclusivo che aveva al centro la figura dei lavoratori. E lo dimostrano tanti passaggi, dal Piano del lavoro della Cgil al confronto sulle riforme di struttura allo Statuto dei diritti dei lavoratori. La sinistra era divisa, ma una forte esigenza di proposta la aveva. Questa capacità entra in crisi quando quella lunga stagione muore con una sconfitta: il ciclo economico fordista-taylorista arriva alla fine, finiscono le lotte operaie di massa che avevano contestato quel ciclo acquisendo potere contrattuale, e i rapporti politici del dopoguerra (quelli costituzionali fondati sulla grande forza del Pci, del Psi e della Dc) finiscono anche loro, grosso modo con l'assassinio di Moro. Quello che dici tu succede dopo questo crollo. Da quel momento non c'è più una capacità progettuale. E non c'è più, adesso lo so che tu mi sgridi, perché la progettualità viene sostituita dalle compatibilità. Non dico che il problema delle compatibilità non esiste. Dico che la sinistra comincia a litigare - quando litiga - sul grado di compatibilità da accettare. Questo ti fa apparire come la sinistra del no, quando esisti. E, quando non esisti, sembri un esercito di mandarini di Bruxelles, tanti Almunya, uno che dice: queste sono le mie tabelle e questo è il risultato, poco importa se le persone e le classi scompaiono. L'economia si riduce a compatibilità. E questo farebbe saltare sulla sedia non solo Bertinotti, ma anche un riformista come Federico Caffè. Come diceva Claudio Napoleoni, certo che c'è il vincolo esterno, la concorrenza, le compatibilità, il mercato. Ma ci deve essere anche il vincolo interno che sei tu a dover introdurre, con la politica»

Macaluso: «Non c'è dubbio che il riferimento alla Costituzione sia stato fondamentale, ma anche prima della Costituzione, penso alle grandi lotte per la terra messe in moto dai decreti Gullo del 1944, un'idea di Italia c'era. Bisognava cancellare i rapporti semifeudali nelle campagne certo per dare giustizia ai contadini e ai braccianti, ma anche per aprire la via alla modernizzazione. Io ho sempre rifiutato l'idea che quella stagione si sia conclusa con una sconfitta: quelle lotte diedero un colpo alla vecchia classe dirigente baronale, promossero un mutamento sociale, un avvento di nuove soggettività nella vita sociale e nella vita politica. Lo stesso miracolo economico degli anni Sessanta sarebbe stato impossibile senza la cancellazione di quegli elementi feudali. Ecco perché parlo di modernizzazione. Anche il Piano del lavoro era un progetto, e che progetto! Al congresso della Cgil del '49 Di Vittorio, rivolgendosi ai suoi braccianti pugliesi, diceva: “badate, se nel contratto otteniamo degli investimenti per la trasformazione delle terre possiamo cedere qualcosa sul salario”. Ed erano salari da fame. Ma, questo è il punto, Di Vittorio aveva una idea complessiva del lavoro e della società. Il problema si complica negli anni successivi. E riguarda le riforme di struttura come leva per il socialismo. Uno sviluppo guidato dallo Stato attraverso le nazionalizzazioni, il sostegno alla piccola e media industria in un progetto antimonopolistico: questa era, in sintesi, la via italiana al socialismo. Quindi le riforme erano funzionali a un progetto. Certo, non era tutta farina del sacco italiano: c'era una visione mondiale anticapitalista e antimperialista, l'Urss, per quanto potesse non piacerci, in questa lotta era comunque considerata un baluardo contro il capitalismo. La progettualità di cui tu parli viveva dentro questo schema. Ma, siccome questo mondo è crollato, io voglio porti due questioni. La prima: di fronte a tanti radicali mutamenti nel mondo (quelli che con una parola magica vengono chiamati globalizzazione), la sinistra ha riproposto una sua strategia dopo che è caduta quella di cui abbiamo parlato sin qui, e che pure i suoi risultati li aveva portati? Io, te lo dico molto brutalmente, penso di no, e il problema non riguarda solo te e Rifondazione comunista, ma tutta la sinistra, in primo luogo quella che ha avuto più responsabilità e della quale ho fatto parte. E aggiungo: qual è il ruolo dello Stato? Sparisce e tutto è affidato al mercato? Ma se non c'è lo Stato non c'è la politica, come diceva la buonanima di Gramsci. La seconda questione che voglio porti è questa: la mia generazione, quella che assunse la guida del Pci tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, ha una grande responsabilità. Dopo la Cecoslovacchia, avrebbe dovuto porre con una diversa energia il problema del rapporto con l'Urss. E non l'ha fatto non perché non avesse consapevolezza di cosa fosse l'Unione sovietica, ma perché, come ho detto, continuava a considerarla, con tutti i suoi limiti, un baluardo anticapitalista. Ora, Fausto, ti dico una cosa essenziale. Ho l'impressione che voi state commettendo lo stesso errore: un errore di tempi. Bada che se le svolte non si fanno in tempo si pagano, eccome, le conseguenze. Noi abbiamo pagato le nostre contraddizioni. Oggi, o si fa una sinistra di governo che per la sua forza o, come dici tu, per la sua massa abbia un progetto e sia in grado di imporlo, oppure non c'è speranza, nel senso che le forze liberiste, conservatrici domineranno. Sai che considero un errore il Partito democratico perché è una risposta sbagliata, anzi sbagliatissima, all'esigenza di costruire una autentica forza riformista. Ma mi preoccupa il quadro che si va delineando: da un lato il Pd che esce dal socialismo europeo e non rappresenta un soggetto riformista forte, ma solo una contraddizione forte, dall'altro quella che chiamano la sinistra radicale, anch'essa fuori dal socialismo europeo. Così si riproduce per l'ennesima volta l'anomalia italiana, che non è uno straordinario laboratorio di novità per l'Europa e per il mondo, ma un disastro. Il disastro di un Paese con una sinistra debole, e quindi subordinata, fuori dalla famiglia del socialismo europeo».

Bertinotti: «Anche le parti del mio ragionamento che sono diverse dalle tue convergono su un punto che è, allo stesso tempo, una premessa analitica e un dover essere. Se le cose vanno avanti così, si rischia di non avere più una sinistra in Europa e in Italia. O meglio, si rischia di avere tante versioni che si dicono di sinistra e che però sono ininfluenti nei grandi processi, poiché sono o senza classi o senza voti. Chi ha i voti non ha come riferimento un'idea di società. Chi tenta una ricerca alternativa non ha il consenso. E quindi hai ragione tu: la subalternità è determinata dal fatto che o non ci sei o sei fuori gioco. Il problema della ricostruzione della sinistra in Italia c'è. Ripartiamo dalla scansione che hai usato. Io la forzo così, in tre grandi cicli della storia del dopoguerra italiano. Il primo ciclo è quello dell'uscita dall'arretratezza del capitalismo italiano. Hai ragione tu: le lotte sociali e le lotte di riforma contribuiscono, al di là dell'esito diretto della contesa, al processo di modernizzazione del Paese. Questo è possibile perché il Paese parte da una base di arretratezza del capitalismo e anche perché gli attori che entrano sulla scena - penso anche al protagonismo di una borghesia emergente soprattutto nel Nord che tende già a porsi fuori da questo quadro - hanno un orientamento comune. Le nuove classi dirigenti che escono dalla Resistenza hanno come tratto comune una politica keynesiana. Nel piano del lavoro se ne vedono bene le tracce. Ma io ricordo pure un libro di Fanfani, Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica dello spirito del capitalismo, in cui la critica al capitalismo è radicale fino al punto da configurare una incompatibilità tra il cattolicesimo e il capitalismo e da assumere la chiave di intervento keynesiano come possibilità della costruzione del compromesso. Il quadro cambia quando il capitalismo italiano si trasforma in quello che sarà chiamato neocapitalismo. Non possiamo rifare sul Riformista l'undicesimo congresso del Pci, tuttavia quel congresso illustra bene un simile passaggio. Le riforme di struttura ne costituiscono lo sfondo politico e culturale. C'è un grande ventaglio di posizioni, anche contrapposte. Ma è un grande confronto, che certo non si può comprendere se si guarda solo, o soprattutto, ai legami con l'Urss. Anzi, il tentativo è di tornare a pensare, gramscianamente, alla rivoluzione in Occidente. Bada: questo dibattito, in forme diversissime, si affaccia anche nelle socialdemocrazie. In Svezia il piano Meidner mette in discussione del primato della proprietà privata. In Germania, nonostante il Muro, Brandt dice che la socialdemocrazia non può essere considerata l'officina di riparazione del capitalismo. Quindi, nessun provincialismo. Ma che cosa accade? Quasi per eterogenesi dei fini, le riforme di struttura, impensabili senza il traguardo del socialismo, in Italia danno luogo, sostanzialmente, a un compromesso socialdemocratico. Con la nazionalizzazione dell'industria elettrica, la riforma della scuola media, il potenziamento dell'industria pubblica come laboratorio di innovazione si realizza qualcosa di molto simile a quello che si sta realizzando negli altri Paesi europei. E questa è la seconda fase, quella dell'età dell'oro, che vivrà tensioni anche durissime ma verrà definitivamente sepolta, con il crollo dei paesi dell'Est, da una grande sconfitta: la mondializzazione e la finanziarizzazione dell'economia, la crisi dei partiti e dei sindacati. È qui, secondo me, che si apre il terzo capitolo. Se chiamiamo “capitalismo arretrato” il primo, e “neocapitalismo” il secondo, il terzo lo possiamo chiamare, facendo nostra per comodità una formula ricorrente, “turbocapitalismo”. Il punto che ora ti vorrei proporre è questo. Nella prima fase innovazione e progresso stavano insieme. Perché Di Vittorio poteva dire una frase come quella che tu ricordavi malgrado le retribuzioni fossero così basse? Perché vedeva, nella crescita economica, la possibilità di un elemento redistributivo. Nella seconda fase, questa relazione comincia a entrare in dubbio. Nella terza, invece, è evidente che innovazione e progresso non stanno più insieme. Oggi, se non c'è la politica, l'innovazione produce diseguaglianza e crisi della coesione sociale. Non voglio ingigantire parlando di guerra e di terrorismo, ma l'innovazione è diventata levatrice di cose rischiose. E non voglio nemmeno passare per catastrofista, ma anche la catastrofe è nell'ordine delle cose possibili. Su questo dovrebbe misurarsi la politica. Ed è molto difficile, perché se ieri si poteva tenere la barra sul socialismo per fare il compromesso socialdemocratico (come diceva Vittorio Foa “bisogna essere rivoluzionari per poter fare le riforme”), oggi, se la sinistra non ha un progetto economico e sociale anche le operazioni redistributive diventano impossibili. Per rinascere, la politica deve organizzare un'idea di società. Capisco che la cosa dà i brividi, ma io penso che il tema della fuoriuscita dalla società capitalista nel tempo del “turbocapitalismo” è il tema ineludibile della politica. La seconda questione che tu poni è: sinistra di governo. Ma cosa vuol dire “di governo”? Per una forza politica che non voglia essere minoritaria il governo è una possibilità. Ma l'accesso al governo non può essere la variabile indipendente della sua esistenza. Tu parli del Partito socialista europeo. Io ti dico: Emanuele, guardiamoci attorno. Mentre si insiste sul Partito del socialismo europeo, si rafforzano le caratteristiche nazionali dei partiti socialisti. Anzi, mi verrebbe da dirti: guarda che il socialismo europeo ha avuto come locomotiva, negli ultimi anni, una cosa che è assai difficile chiamare socialista, la Terza via. Prima Blair, poi anche Schroeder, hanno introdotto una discontinuità radicale con la socialdemocrazia, la rottura con i sindacati. Nel momento in cui si esaurisce la Terza via, perché uno esce di scena e l'altro perde, vedo nascere sotto nomi diversi fenomeni non così dissimili. Siamo così sicuri che Ségolène Royal sia così diversa da Walter Veltroni dal punto di vista delle politiche proposte? Tu parli di socialismo europeo. Io vorrei capire di che si tratta, perché io vedo una propensione che qui prende la forma del Partito democratico ma che altrove continua a chiamarsi socialista ma che mette in discussione fortemente l'impianto socialdemocratico. Bada, io penso che i socialisti francesi abbiano perso malgrado Ségolène, non per colpa di Ségolène. Lei dal punto di vista elettorale ha funzionato: donna, immagine, ascolto, populismo dolce. Però la mancanza di una idea di società l'ha fatta perdere».

Macaluso: «Vorrei farti delle osservazioni. La prima è sul rapporto tra partito e movimenti, che riguarda il passaggio dalla seconda e la terza fase, ma anche l'oggi. Il Pci raccoglieva il consenso di quel mondo. Altrimenti non si spiega il 34 per cento del '76. Anche oggi questo tema, che a mio giudizio voi avete affrontato malissimo nel congresso di Venezia, pensando di fare il partito dei movimenti, è importante. È il problema dell'egemonia: ovvero se un partito è in grado o no di raccogliere le istanze dei movimenti e farle diventare interesse generale. Oppure se debba identificarsi con i movimenti. Io penso che in quella fase il Pci ebbe la capacità di tenere conto dei movimenti (né li respinse né si identificò in essi) e questo produsse un'avanzata. Quanto all'inconciliabilità tra innovazione e progresso che caratterizzerebbe il presente, la tua affermazione mi sembra schematica. Per me non è così. Perché qui entra, o dovrebbe entrare in ballo la politica, come hai detto anche tu. Ma se c'è un partito forte della sinistra con un progetto politico questa inconciliabilità può essere contrastata, altrimenti no. Io non penso, caro Fausto che il capitalismo sia l'ultimo capitolo della storia. Io non so quale sarà, l'ultimo capitolo. Penso però che la battaglia per la trasformazione o, per usare un altro termine, per la civilizzazione del capitalismo sia una sfida tuttora aperta. Il problema è la processualità, la gradualità dell'azione politica. D'altronde, non mi pare che siamo alla vigilia di una rivoluzione, e non lo pensi nemmeno tu: dunque, la processualità è la sostanza della politica riformista nel senso vero della parola, perché le riforme non sono una camicia di forza da mettere alla società, ma strumenti per risolvere i problemi. Veniamo al socialismo europeo. I partiti socialdemocratici non sono tutti uguali: una cosa è stato Blair, una cosa diversa è Brown, un'altra ancora sono Schroeder o Zapatero. E poi, questi partiti sono stati in grado di stare all'opposizione. Sono partiti di governo nel senso che governano quando hanno una proposta in grado di ottenere la maggioranza e quindi di coinvolgere anche forze di centro. E sono partiti in grado di governare società complesse e caratterizzate da forti disomogeneità, come quelle attuali. Non sono d'accordo con il nesso che stabilisci tra questi partiti e il Pd. Il Pd non riesce a trovare una posizione chiara su un punto cruciale: non c'è separazione tra i processi di liberalizzazione economica e i processi di liberalizzazione della società. Nei Paesi europei la sinistra si è fatta carico di diritti che la modernizzazione ha posto in termini diversi rispetto al passato. I partiti di Blair e di Zapatero, ma anche i socialisti francesi, o svedesi, hanno fornito delle risposte. Il Pd invece non potrà darle sui temi dei diritti. Ed è chiaro che sto parlando anche della laicità, che non c'entra nulla con il vecchio anticlericalismo ma riguarda istanze legate alla modernità».

Bertinotti: «Diversamente da te, penso che dobbiamo ereditare un elemento critico nel rapporto tra Pci e movimenti. È vero, come dici tu, che i movimenti hanno aiutato il Pci fino a fargli raggiungere il 34 per cento, ma secondo me non è vero che il Pci abbia aiutato i movimenti. Anzi, laddove questi andavano a sbattere direttamente sulle compatibilità sono stati frenati, o impediti, o non capiti. Pensa solo a un'esperienza come quella della Flm, a un grande sindacato operaio costruito su un'unità che ne cambiava la fisionomia organizzativa con i consigli, che è stato guardato con sospetto e frenato, sbarrando così l'unica via possibile per realizzare l'unità sindacale in Italia. E oggi? Si possono discutere le forme e i contenuti del movimento che i francesi chiamano altermondista, ma che questo sia il primo movimento post-novecentesco secondo me non c'è dubbio. Lo dico in modo rozzo: è evidente che la grande costruzione del rapporto tra partiti e movimenti che si inaugura con la crescita di potenti Stati nazionali, nel momento in cui una dimensione sovranazionale della politica diventa così rilevante in qualche modo deve cambiare. E questo movimento propone secondo me una critica non solo della globalizzazione capitalistica, ma anche delle forme della politica della sinistra. Scusa la formula: propone una uscita da sinistra alla crisi della sinistra. Questo è un problema che abbiamo da vent'anni. Si può dire che dalla Bolognina in poi, Bolognina compresa, la questione se da quella crisi bisognasse uscire da destra o da sinistra - anche qui: scusa la semplificazione - è un problema non risolto. E io penso che bisogna proporsi l'uscita da sinistra non per volontarismo, ma per la natura stessa dei processi di oppressione in atto. A questo punto torno a convergere con te. Anch'io, come te, non conosco l'ultimo capitolo della storia che, secondo me, semplicemente non c'è. E per dirti che qui c'è un punto di convergenza, non tiro in ballo Kautsky, il programma massimo e il programma minimo, ma provo a indicare una prospettiva che, secondo me, non può che fondarsi sull'idea di trasformazione della società. Lo dico sempre con rozzezza: l'idea dell'introduzione di elementi di socialismo mi sembra più interessante per l'oggi delle stesse riforme di struttura. Che cosa sono i beni comuni se non un elemento di socialismo? La questione dell'intervento pubblico nell'economia è ancora fondamentale. Allora ti propongo di assumere nella valutazione dei partiti socialdemocratici, invece che una sorta di pregiudiziale favorevole (non abbiamo mai avuto una socialdemocrazia in Italia, è ora di farla) un'analisi di come le diverse forze socialdemocratiche si sono venute evolvendo o involvendo. Mi chiedo se si possa davvero oggi parlare in Europa realmente di forze socialdemocratiche. Certo, tutte le formazioni socialiste e socialdemocratiche hanno un tratto in comune, l'importanza attribuita ai diritti delle persone non solo dal punto di vista della laicità ma prima ancora da quello dell'esistenza sociale dell'uomo moderno. Ma riconoscerai che questo elemento, seppure importante, non basta a definire una formazione politica di sinistra. Per essere di sinistra, come diceva Bobbio, non si può prescindere dall'uguaglianza…».

Macaluso: «Ma io sono d'accordo. Una forza di sinistra che non ha come bussola la tendenza all'uguaglianza non è una forza di sinistra. Anche questi diritti fanno parte di questo. Ripeto “anche”…».

Bertinotti: «Sì, ma il problema dell'uguaglianza si deve coniugare con il tema dell'altro, cioè con quello della condizione sociale. E su questo i partiti socialisti contemporanei sono di fronte a un fallimento evidente. Aggiungo: le società contemporanee oltre al tema della libertà e dell'uguaglianza pongono il tema della violenza, e in particolare di quelle forme estreme di violenza che sono la guerra e il terrorismo. Riconoscerai che Blair ha sì saputo cogliere l'elemento dei diritti della persona, ma è entrato in rotta di collisione con i movimenti pacifisti. Quindi continuo a ritenere, malgrado tutto, che un buon assetto per il futuro in Europa sia quello di pensare non a una ma a due sinistre in grado, allo stesso tempo, di competere e convergere. Due sinistre che siano in grado, anche nella sfida, di esplorare questi terreni nuovi. In questo senso penso che la sinistra di alternativa possa costituire un elemento importante non per puntare al massacro dei riformisti, che non solo non è pensabile ma non costituirebbe nemmeno un bene, ma per introdurre una dialettica diversa da quella che abbiamo conosciuto».

Liberazione 13.7.07
Storia di 2 Scalfari che si odiano
Qual è quello vero?
di Piero Sansonetti


Domenica scorsa Eugenio Scalfari ha scritto un editoriale su Repubblica , intitolato "Quando il sindacato si accordò con Maroni". In questo editoriale Scalfari ha svolto una polemica feroce contro il sindacato e Rifondazione comunista - spingendosi fino a chiedere le dimissioni di Fausto Bertinotti dalla presidenza della Camera - colpevoli di non accettare oggi quello scalone (cioè l'innalzamento improvviso dell'età pensionabile) che tre anni fa avevano concordato con il ministro del Lavoro Roberto Maroni. Nessun dubbio sul senso dell'articolo di Scalfari. Solo qualche stupore per la violenza un po' grossolana della polemica e per la falsità del presupposto.
Immediatamente sono arrivate le smentite. Mai e poi mai i sindacati - e in particolare la Cgil - accettarono lo scalone. L'altro eri, su Liberazione, avevamo consigliato a Scalfari di ammettere l'errore e ritirare l'articolo, tutto qui. In modo da rendere più piana e comprensibile la discussione sulle pensioni, anziché complicarla e intorbidirla con inutili e incomprensibili grida. Ieri, invece, su Repubblica Scalfari ha scritto un articolo nel quale ammette che effettivamente il sì esplicito dei sindacati a Maroni non ci fu, però avanza l'ipotesi che in fondo fu un sì sottinteso, dimenticando completamente che in quei giorni - contro la politica "sindacale" del governo e del ministro Maroni - la Cgil, guidata da Sergio Cofferati, portò in piazza circa 3 milioni di persone, cioè organizzò la più grande manifestazione politico-sindacale di tutti i tempi. Altro che sì sottinteso...
Sempre nel suo articolo di ieri, Scalfari - polemizzando asperrimamente col segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano e con Liberazione - sostiene le seguenti due tesi. Prima tesi: lui non ha mai chiesto, in caso di caduta del governo, le dimissioni di Bertinotti; ha solo chiesto le dimissioni di Bertinotti in caso di caduta del governo dovuta a un voto di Rifondazione comunista. Ha scritto testualmente così. In genere, sul nostro giornale, in questi casi trascriviamo le frasi del dichiarante in prima pagina, senza commenti, e sotto questo titolo: "Infermieraaaa!!!". Evitiamo di farlo, stavolta, per il rispetto che nonostante tutto portiamo al fondatore di Repubblica.
La seconda tesi esposta nell'articolo di ieri è che non esiste uno Scalfari giovane e uno Scalfari vecchio, cioè non esiste una differenza di pensiero tra le varie fasi dello scalfarismo, come Franco Giordano e Liberazione avevano ipotizzato. Scalfari - dice Scalfari - è uno solo e il suo pensiero e le sue opinioni sono lineari e coerenti.
Su questa seconda affermazione ci permettiamo di dissentire, con qualche argomento. Abbiamo raccolto un paio di articoli che Scalfari scrisse quattro anni fa. Il primo è del 13 luglio del 2003 (oggi cade appena il quarto anniversario di quell'articolo) il secondo del 19 luglio. Ebbene, tutti gli argomenti usati in quei due articoli sono gli stessi, identici - probabilmente meglio sviluppati, cioè spiegati in modo più convincente - che oggi usiamo noi di Liberazione e che hanno usato i dirigenti di Rifondazione comunista. Se non ci credete, andateveli a leggere a pagina 2 (qui di seguito ndr:): li ripubblichiamo integralmente, perché sono molto interessanti, meritano. Qui voglio trascrivere solo due o tre frasi, le più eclatanti, quelle contro le quali Scalfari stesso (ma lo Scalfari 2) ha polemizzato in modo così sprezzante nei suoi articoli di domenica e di ieri. Leggete questa, per esempio: «Siamo di fronte a una massiccia disoccupazione giovanile che si stenta a far diminuire. Come si concilia questo fenomeno e la politica che tende combatterlo con la permanenza più lunga al lavoro dei già occupati? Non si danneggiano in questo caso i giovani favorendo i vecchi?...».
E poi leggete quest'altra farse, sempre scalfariana: «Cominciamo innanzitutto da una falsità sulla quale è stata costruita la leggenda metropolitana delle pensioni "rovinatutto": l'insostenibile disavanzo dell'Inps». Perché, forse non esiste un insostenibile disavanzo dell'Inps? - si chiede il lettore. «No», risponde Scalari, già dal titolo dell'articolo, che è di per sé, chiarissimo: «I conti truccati sull'allarme pensioni». Cioé, dice Scalfari, questo allarme pensioni è costruito ad arte e con argomenti falsi, da chi vuole tagliarle. Un po' la tesi di Giorgio Cremaschi...
Ora, che ci volete fare, ognuno ha diritto a cambiare idea tutte le volte che vuole, nella vita. Però sarebbe gentile se avvertisse i suoi lettori, specie quando le idee, anziché modificarle, le rovescia, e specie quando fornisce informazioni del tutto diverse da quelle fornite in precedenza, e su queste informazioni fonda le sue opinioni.
E' troppo antipatico credere che le oscillazioni di Scalfari siano in qualche modo legate alle oscillazioni di quel pezzo di borghesia italiana alla quale ha fatto sempre riferimento? Può darsi che sia antipatico, ma probabilmente non è infondato. Ed è esattamente questo - l'oscillazione dei grandi interessi che provoca oscillazioni delle grandi opinioni - quello che rende difficilissimo il dibattito politico in Italia. Ieri Scalfari suggeriva a Franco Giordano di chiedergli scusa, non si sa bene perché. Noi non suggeriamo a Scafari di chiedere scusa a nessuno, però se avesse voglia di rileggersi un paio di volte i suoi articoli del 2003, non per "punizione", così, per conoscenza...

Articolo apparso su "la Repubblica" del 13 luglio 2003
I conti truccati sull'allarme pensioni
di Eugenio Scalfari

Che il «Welfare» delle pensioni europee debba essere profondamente riformato è convinzione generale: ci obbliga a farlo la demografia, il crescente numero di anziani e di vecchi e l'insufficiente andamento delle nuove nascite. In Germania il cancelliere Schroeder vi ha finalmente messo mano con l'appoggio della Spd, il suo partito socialdemocratico finalmente convinto nella sua interezza a sostenerne la necessità. In Francia, dove la sinistra è all'opposizione, il presidente del Consiglio, Raffarin, ha anch'egli portato avanti la riforma nonostante le imponenti manifestazioni di piazza della «gauche» e dei sindacati.
Da noi la situazione politica è notevolmente diversa: non solo vi si oppongono la Cgil e tutta l'opposizione parlamentare sia pure con diverse sfumature, ma anche i sindacati «trattativisti» (Cisl e Uil), la Lega e settori consistenti di An e perfino dell'Udc di Follini. Il segretario della Cisl, Savino Pezzotta, sostiene che in Italia la riforma è stata già fatta nel '95 e ha dato buona prova rimettendo su basi solide il sistema pensionistico. Alcune (serie) difficoltà si preannunciano tra il 2013 e il 2030, dopodiché l'equilibrio sarebbe nuovamente garantito almeno fino alla metà del corrente secolo. Si tratterebbe quindi di affrontare a tempo debito le contromisure per superare l'ostacolo. Perciò nessuna urgenza attuale e se ne riparli tra nove anni.
Ma la Confidustria incalza giudicando il problema gravissimo e urgentissimo; le autorità economiche internazionali mettono fretta; il governo è incerto e diviso. Per quanto si riesce a capirne la riforma della riforma sarà ancora una volta rinviata di sei mesi, cioè dopo la fine del famoso semestre europeo di Berlusconi. Sono ormai infiniti gli appuntamenti rinviati al gennaio 2004: la vera verifica politica nella Casa delle libertà che andrebbe opportunamente ridefinita come la Casa delle risse; la «devolution» bossiana; i processi di Silvio Berlusconi; la legge Gasparri sul riassetto del sistema televisivo; le misure di finanza pubblica una volta esauriti tutti i condoni possibili e immaginabili; una nuova (?) legge elettorale; la riforma (?) della giustizia; le grandi opere pubbliche tuttora al palo; il «premierato» cioè una qualche forma di presidenzialismo. Tutto ciò a partire dal gennaio prossimo, cioè a due anni e mezzo dall'inizio di una legislatura che finora è stata quasi esclusivamente impegnata a tutelare gli interessi personali del presidente del Consiglio e del gruppo di potere che si è formato attorno a lui. Nessuno crede che un accumulo di problemi di queste dimensioni possa consentire soluzioni rapide ed efficienti, ma il catalogo comunque è questo. Chi vivrà vedrà. E' nostro fondato parere che rinviare di sei mesi (in pratica a tempo indeterminato per le ragioni sopra dette) la riforma della riforma pensionistica effettuata nel '95 sia un errore che dovrebbe essere evitato nell'interesse soprattutto dei giovani che hanno fatto o sperano di poter fare al più presto il loro ingresso nel mercato del lavoro. Ma va detto subito che l'intero tema delle pensioni ha dato vita ad una vera e propria leggenda metropolitana, alias ad una confusione di concetti e ad un polverone mediatico così fitto da nascondere la realtà dei fatti e la vera natura della questione. E' perciò mia intenzione cercar di diradare la nube di polvere e di chiacchiere, a crear la quale hanno in questi anni e in questi mesi contribuito alacremente molti belli ingegni, economisti esperti politici imprenditori in discorde concordia con l'obiettivo di trasformare il tema pensioni in un «marker» del tasso di riformismo presente nella società italiana. Dalla riforma della riforma questi «muezzin» che la invocano a gran voce dai vari minareti mediatici dei quali dispongono dicono infatti di aspettarsi: un nuovo «welfare» modellato sulla modernità, il riassetto economico del sistema secondo le esigenze della demografia italiana, il riassetto della finanza pubblica schiacciata dal disavanzo dell'Inps, il rilancio dell'economia, l'accrescimento della competitività, la nascita (finalmente) dei fondi pensione. Insomma un vero paese di Bengodi a portata di mano purché ci si convinca a mandar la gente in pensione qualche anno più tardi e ad applicare una energica terapia di dimagrimento alle pensioni di anzianità. La leggenda metropolitana consiste appunto in quest'elenco di benefici effetti che ci dovrebbero cadere in bocca come pere mature dall'albero della cuccagna e che invece ci sono preclusi dall'ostinazione incomprensibile di Epifani e Pezzotta, Fassino e Cofferati, Rutelli e Bertinotti, cioè dai comunisti ancora aggrappati alle loro impresentabili ideologie. Ebbene, le cose non stanno affatto così come andiamo a dimostrare.
Cominciamo anzitutto da una falsità sulla quale è stata costruita la leggenda metropolitana delle pensioni «rovinatutto»: l'insostenibile disavanzo dell'Inps che grava come un macigno sui conti dello Stato. Fino al 1999 i conti previdenziali dell'Inps erano in perfetto pareggio: tanto spendeva per pensioni e tanto incassava di contributi, ancorché alcune gestioni di lavoratori autonomi e professionisti, nate in epoche relativamente recenti, presentassero cospicui disavanzi. Ora le cifre aggiornate sono le seguenti: spese pensionistiche contributive 145 miliardi; entrate per contributi 134 miliardi; sbilancio 11 miliardi. Ma ecco l'inghippo: le uscite pensionistiche totali dell'Inps non sono di 145 bensì di 174 miliardi di euro. Lo sbilancio totale sale dunque a 40 miliardi. Di che si tratta? E' colpa dell'età pensionabile e troppo giovanile? E' colpa del sistema retributivo? E' colpa delle pensioni di anzianità? Niente affatto. Si tratta semplicemente del fatto che quei 29 miliardi di sbilancio (più gli 11 dovuti a disavanzo contributivo) sono da imputare non già al sistema della previdenza bensì a quello dell'assistenza sociale. E cioè: pensioni d'invalidità, pensioni sociali o di povertà, integrazioni al minimo. Questo robusto complesso di erogazioni non ha niente a che vedere con la previdenza. Se un lavoratore incorre in un incidente sul lavoro gli viene assegnato un vitalizio proporzionato all'età e alla natura dell'invalidità; l'Inps funge soltanto da sportello pagatore. Se un povero diventa vecchio gli viene assegnata una pensione sociale che lo tenga in vita; se la pensione di un anziano, a causa di scarse sue contribuzioni, è al di sotto del livello minimo di sussistenza, lo Stato integra la somma per portarla a un livello appena decente. Risulta evidente a tutti - e lo capirebbe anche un bambino - che queste spese sono di natura assistenziale e non previdenziale; infatti non hanno a fronte alcun contributo e debbono pertanto essere finanziate dalla fiscalità generale. Però passano attraverso l'Inps e quindi i nostri «muezzin» gracchiano che le pensioni creano un onere di 40 miliardi l'anno a carico del Tesoro, cioè di tutti noi. Falso, assolutamente falso. Il bello è che questa panzana è accreditata dall'autorevole (?) ministro del Tesoro che queste cose le dovrebbe sapere meglio di tutti. Il deficit falsamente attribuito alle pensioni contributive si ripercuote sull'incidenza della spesa pensionistica sul Pil. In effetti questo rapporto risulta essere tra i più alti d'Europa, pari al 13.80 per cento, inferiore soltanto all'Austria (14.50) e prossimo alla Grecia (12.60) alla Francia (12.10) alla Germania (10.80) ai Paesi scandinavi tutti posizionati attorno al 10 per cento. Se le cifre della gestione previdenziale fossero correttamente computate la loro incidenza sul Pil sarebbe non già del 13.8 ma dell' 11.4 per cento. Ancora più basso sarebbe il rapporto se la gestione contributiva non fosse stata aggravata dal passaggio all'Inps di tutto il personale ferroviario (in realtà pubblico impiego) che si è portato appresso un robusto disavanzo scaricato perciò dal Tesoro all'Istituto di previdenza. Si scenderebbe in tal caso sotto all'11 per cento a poca distanza cioè dalla media dell'Unione europea che incide sul Pil per il 10.40 per cento. Tutto ciò in anni di vacche magrissime per il Pil italiano. Se esso riacchiappasse sia pure il modesto tasso di crescita del 2 per cento l'incidenza del disavanzo pensionistico diminuirebbe ancora. In conclusione l'idea fissa che le pensioni schiaccino l'economia del nostro paese è una falsità cifre alla mano.
Ma è vero che i giovani lavorano per mantenere i vecchi. Tra pochi anni due giovani porteranno sulle spalle un vecchio. Fu Ugo La Malfa, se non ricordo male, a lanciare per primo questa plastica immagine per spiegare la nostra anomalia pensionistica e i suoi perversi effetti causati dalla senilità demografica del paese. Ferma restando l'esattezza dell'immagine lamalfiana invito a riflettere su un fenomeno di dimensioni ormai macroscopiche: la prolungata e spesso prolungatissima convivenza dei figli adulti in casa dei genitori, spesso anche da sposati e talvolta perfino con un nonno convivente. Questo fenomeno di massa, specie nel Centrosud, è dovuto a molti elementi tra i quali campeggia il reddito pensionistico del padre o della madre o del nonno o di tutti e tre. E' dunque senz'altro vero che i lavoratori giovani tengono sulle spalle i loro vecchi, ma è del pari vero il reciproco. Un'analisi attenta dovrebbe incrociare questi due fenomeni e vedere da quale parte inclina la bilancia. Ci potrebbero essere molte sorprese.
Mi hanno colpito due osservazioni di Luciano Gallino, che è uno dei massimi esperti su questi argomenti, contenute in un articolo pubblicato di recente su "Repubblica". Scrive Gallino che la produttività intesa come quota di Pil prodotto per ora lavorativa, aumenta mediamente di circa il 2 per cento l'anno. Cumulando questo aumento e proiettandolo al 2050 si registra un raddoppio di produttività. Ciò significa che se oggi quattro lavoratori portano sulle spalle un anziano e nel 2050 questa anomala portantina sarà diventata di due giovani lavoratori per ogni vecchio, la fatica dei due sarà però identica a quella dei quattro di oggi. Altra osservazione: una ricerca dell'università di Pavia ha calcolato inoltre 7 punti percentuali la quota Pil disponibile per i consumi delle famiglie negli anni Novanta. Nello stesso periodo la quota del monte retribuzioni lorde sul Pil è scesa dal 36 al 30 per cento. «Un taglio alle pensioni - scrive Gallino - aggiungerebbe a tali salassi già subiti dai redditi di lavoro un'altra sottrazione di diecine di miliardi di euro l'anno» . Vedete voi se conviene.
Penso, ciò nonostante, che sia utile decidere al più presto il passaggio di tutti i lavoratori dal sistema retributivo a quello contributivo. La stessa Cgil fin dal 1998 si dichiarò favorevole a questo cambiamento e spero che ancora lo sia. Se ne acquisterebbe in certezza del diritto e in solidità del sistema. Si tratta in altri termini di accelerare i tempi della riforma Dini di quattordici anni creando le condizioni per superare la «gobba» sfavorevole del 2013-2030. Ma questa riforma della riforma, che può coesistere con incentivi a restare al lavoro oltre i sessantacinque anni, è accettabile soltanto ad una tassativa condizione: che i risparmi così effettuati siano destinati interamente a creare il sistema di ammortizzatori sociali e tutele attualmente inesistente per gran parte dei lavoratori. A parole tutti sono d'accordo ma nessuno fin qui ha detto ciò che in molti pensiamo: essendo il governo Berlusconi largamente inaffidabile e ben collaudato in promesse non mantenute, il passaggio al sistema contributivo deve avvenire in una legge che provveda contestualmente alla nascita di un completo sistema di ammortizzatori sociali da discutere insieme alle parti sociali. O così o niente. Il lavoro italiano ha già dato molto e non può più regalare niente a nessuno. Soprattutto non può esser preso in giro con promesse da marinaio.

Articolo apparso su "la Repubblica" del 19 luglio 2003
A che cosa deve servire la riforma delle pensioni
di Eugenio Scalfari

Ho molta stima per le qualità di studioso di Tito Boeri, tanto che, prima di scrivere il mio articolo sul sistema pensionistico di domenica scorsa, mi premurai di cercarlo e parlarci il che avvenne in una lunga conversazione telefonica. Debbo dire che le opinioni e i dati che ci scambiammo mi indussero a ritenere che le nostre posizioni - per una quota marginale differenti - fossero largamente simili. Ma ho appreso leggendo il suo articolo di ieri su Repubblica congiuntamente firmato con Agar Brugiavini, che non era così.
Probabilmente avevo capito male (può succedere) oppure Boeri cambia tono e motivazioni secondo l'interlocutore (può accadere anche questo).
Comunque risponderò alle contestazioni di Boeri-Brugiavini con la stessa ruvida cortesia cui il loro pregevole testo è improntato. Lo farò procedendo per punti affinché la mia risposta risulti il più possibile chiara. Ma anzitutto una premessa: a me non piacciono le guerre tra poveri e tanto meno quelle tra generazioni. Sostenere una qualunque tesi in nome dei giovani contro i vecchi o viceversa mi è sempre parso un brutto esercizio retorico, spesso fondato su una distorta presentazione degli argomenti. Quand'anche vi siano iniquità generazionali, lo sforzo di chi affronta il problema mi sembra debba essere quello di risolverlo tenendo conto degli interessi di tutti contemperandoli nei limiti del possibile. Del resto la grande politica ha sempre obbedito a questo canone. In una democrazia ben funzionante i tecnici prospettano, i politici decidono. Se i tecnici pretendono d'esser loro a decidere vuol dire che in quella democrazia qualche cosa non funziona bene.
Fine della premessa e veniamo ai punti.
1. Il senso politico del mio articolo di domenica scorsa era la necessità di passare dall'attuale sistema ancora largamente retributivo al contributivo generalizzato e di incentivare i lavoratori a prolungare la loro permanenza al lavoro spostando dunque in avanti la loro uscita dal sistema. Mi era parso di capire che questi fossero anche gli obiettivi di Boeri, ma ora non ne sono più così sicuro. Comunque non mi sento affatto in mezzo al guado: contributivo generalizzato e allungamento volontario e incentivato dell'età lavorativa. Se bisognava scegliere una posizione, la mia è questa.
2. Ho soggiunto però che i risparmi nella spesa pensionistica così ottenibili non dovrebbero essere utilizzati al di fuori della spesa sociale complessiva la quale - è opportuno ricordarlo - è tra le più basse dell'Unione europea. Noi manchiamo quasi del tutto di ammortizzatori sociali e abbiamo un sistema di tutele sommamente carente che lascia scoperti alcuni milioni di lavoratori specie quelli regolati dalle normative sulla flessibilità. Il contributivo generalizzato dovrebbe servire secondo me a finanziare almeno in parte il sistema delle nuove tutele. Coloro che saranno penalizzati dall'estensione del contributivo avranno almeno la soddisfazione di poter costruire con il proprio sacrificio e la propria attiva partecipazione il nuovo welfare. Non ho però letto nulla in proposito nel testo Boeri-Brugiavini. Ne debbo dedurre che non sono d'accordo? Ne sarei assai stupito. In tal caso domanderei: perché?
3. Mentre mi dichiaro d'accordo - e l'ho già detto - con il prolungamento volontario e perfino incentivato dell'età di lavoro, pongo tuttavia una domanda a me stesso, ai responsabili politici del welfare e anche ai due insigni studiosi che sono in questa occasione i miei interlocutori: siamo di fronte in Italia, in Europa, in Usa, a una massiccia disoccupazione giovanile che si stenta a far diminuire. Come si concilia questo fenomeno e la politica che tende a combatterlo con la permanenza più lunga al lavoro dei già occupati? I due obiettivi - contenere la disoccupazione giovanile, prolungare la permanenza dei vecchi occupati - non sono palesemente contraddittori? Non si danneggiano in questo caso i giovani favorendo i vecchi? Vedete, cari Boeri-Brugiavini com'è facile rivoltare la frittata e dimostrare l'opposto di quanto era stato sostenuto appena due righe prima? Vedete come le verità che sembrano assiomatiche, specie in materie così opinabili, hanno più la fragilità del vetro che la durezza del diamante?
4. I miei interlocutori sostengono che il sistema pensionistico è già in grave squilibrio senza dovere aspettare la "gobba" del 2013-2030. Per sostenere quest'assunto essi negano che si possa distinguere tra previdenza e assistenza; in particolare per le pensioni d'invalidità, una parte delle quali è finanziata da contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro. Sono a dir poco stupefatto da queste affermazioni. La pensione non è, in sostanza, che salario differito, esattamente come la liquidazione. Non a caso infatti siamo stati tutti d'accordo, almeno a parole, di trasferire il trattamento di fine rapporto a un sistema di pensioni integrative. L'assistenza è certamente una spesa sociale ma nient'affatto previdenziale. Considero dunque una delle tante "furbate" del fisco quella di addossare ai lavoratori e ai datori di lavoro una parte del finanziamento delle pensioni d'invalidità: si sgrava il Tesoro e si manda in disavanzo l'Inps. E poi si scarica sui pensionandi l'onere di simili operazioni. Al mio paese questo si chiama il gioco delle tre carte.
Voi come lo chiamereste?
5. Non c'è dubbio che se un lavoratore si rompe una gamba sul lavoro o un cittadino italiano è privo di reddito al di sotto della pura sussistenza, la comunità deve intervenire per aiutarlo. Che cosa c'entra la previdenza? Previdenza significa risparmiare pensando alla propria vecchiaia. In pura teoria si possono abolire sia le pensioni che le liquidazioni (che in molti paesi infatti non ci sono) trattandosi di salari differiti si può renderli interamente attuali e affidarli oggi, non domani, al destinatario cioè al lavoratore. Tremonti ne sarebbe felice: molto meglio che ipotecare la casa per comprarsi il frigorifero. Vogliamo completare lo smantellamento del futuro che è già un pezzo avanti con i contratti di lavoro precari, e concentrare interamente sul presente la ricerca della felicità? È questa la vostra tesi?
6. Dicono i miei interlocutori che le pensioni hanno anche un contenuto redistributivo; se fossero soltanto il puro risultato dei contributi versati tanto varrebbe - essi sostengono - trasformarle in assicurazioni private. Io penso all'opposto che le pensioni non debbano avere alcuna funzione redistributiva; penso anche che la previdenza sia un obbligo, come l'assicurazione contro i sinistri automobilistici. Penso infine che l'obbligatorietà comporti una gestione pubblica e non una gestione privata.
L'obbligo crea infatti un monopolio nell'offerta o la collusione inevitabile tra i titolari dell'offerta; a situazione di questo genere si reagisce con la gestione pubblica dell'offerta del servizio. Si tratta di concetti elementari per chiunque abbia letto non Carlo Marx ma Luigi Einaudi o De Viti De Marco.
7. Il comune amico Vincenzo Visco, della cui scienza ho di solito piena fiducia, su questa materia coltiva una sua bizzarria. Se ho capito bene il suo pensiero, vorrebbe addossare tutto il complesso delle spese di assistenza e di previdenza alla fiscalità generale e abolire ogni contribuzione. L'idea ha una sua genialità. Personalmente se fosse attuata ne sarei atterrito. Mi piacerebbe conoscere in merito l'opinione di Boeri-Brugiavini.
8. Tagliare nel settore dei pubblici dipendenti qualche privilegio di troppo e qualche palese iniquità mi pare un sacrosanto obiettivo. Su questo punto sono del tutto d'accordo con i miei cortesi e dotti interlocutori. Anche qui però mi permetto d'attirare l'attenzione su un punto: centinaia di migliaia di pubblici dipendenti aspettano il rinnovo dei loro contratti da quasi due anni. Lo Stato ha mille ragioni per voler modernizzare le prestazioni e le normative degli statali, purché da parte sua non sia inadempiente. Altrimenti diventa un datore di lavoro inaffidabile.
Post scriptum. Considererei un obbrobrio giuridico ed etico chiudere o diminuire le cosiddette "finestre" di pensionamento nei prossimi dodici mesi come il ministro del Tesoro vagheggia. Spero che Tremonti non ci provi. Se ci provasse spero che sia battuto in Parlamento. Certamente lo sarebbe nel paese.

Liberazione 13.7.07
Per una costituente dal basso: aperta, trasparente, serena
La sinistra del XXI secolo
di Giovanni Berlinguer


Né i modi né i tempi sono indifferenti sull'esito del processo di unità/riaggregazione a sinistra. Ho percepito la rilevanza di questi elementi nelle assemblee cui ho partecipato, da Catanzaro e Pisa a Bruxelles, da Roma a Basilea. Intervengono ex iscritti ai Ds, e altri che affermano il bisogno di una politica nella quale le loro speranze e le loro domande abbiano davvero una possibilità di incidere. Esprimono una forte spinta alla partecipazione dal basso, positiva e non minoritaria, costruttiva e non settaria.
Sento che può crearsi un'area vasta, un arcipelago fatto di singole storie e percorsi individuali, di esperienze e movimenti collettivi, di gruppi spontanei o anche organizzati, pronti a mettersi alle spalle vecchie e nuove casacche. Parlo di persone non attratte dalle liturgie dei gruppi dirigenti nazionali, ma assai impegnate localmente a sviluppare pratiche di unità e nuove relazioni con chi é fuori dai soliti giochi della politica.
Sono accomunati, come i promotori del documento messo a punto a Firenze dal gruppo di lavoro "per la sinistra dell'Unione", dai valori della pace, del lavoro, dell'equità sociale, e dal desiderio che siano finalmente protagonisti della nuova stagione della sinistra i giovani, le donne e i lavoratori.
Lo chiedono quelli che avevano lasciato la militanza politica e quelli che non si arrendono alla scomparsa dei valori e delle idee della sinistra. Si avverte l'esigenza di dar vita a un numero più largo possibile di assemblee diffuse, una vera campagna di ascolto e coinvolgimento, l'individuazione di nuovi canali di partecipazione e consultazione, l'apertura di una fase costituente dal basso: aperta, trasparente, serena. Una pratica che abbatta steccati e stereotipie della politica, inaccettabili nella vita dei grandi partiti e risibili in quella dei partitini.
Una fase da guidare con generosità e lungimiranza, se fosse possibile con allegria, riprendendo il termine usato da Walter Veltroni al quale auguro le migliori fortune: per lui, per il Pd e per tutta l'Unione. L'estate e l'inizio dell'autunno possono essere utilizzati per sperimentare se funziona o meno l'idea che contenuti e contenitore vadano di pari passo e possano stare insieme. Anziché ratificare decisioni già prese, magari un simbolo unico tirato fuori a pochi mesi dalle elezioni, le persone devono essere chiamate a esprimersi non sul risultato finale, ma su tutti i passaggi del processo, non escludendo nessuno a priori, anzi impegnandosi al massimo per coinvolgere tutte le forze politiche interessate a questa decisione.
Alla fusione fredda tra Ds e Margherita non si può rispondere con percorsi e processi di eguale natura. Serve piuttosto intrecciare il dibattito tra i partiti con una chiamata a raccolta delle persone, delle idee e delle proposte che vengono dalle organizzazioni sindacali, dai movimenti e dall'associazionismo, dal mondo delle riviste, della cultura e delle professioni. A tutti si devono richiedere contributi e indicazioni sui temi caldi della sicurezza, dell'istruzione, del nuovo welfare, sulle differenze di genere, sull'ambiente e sulla laicità dello Stato.
I modi di questa partecipazione allargata, che conta, che sposta, che incide sugli esiti del processo in corso, che può e deve scavalcare gli equilibri già consolidati, gli unanimismi al ribasso, le convenienze d'apparato, diventano una sola cosa con la scelta delle priorità del "Programma comune della sinistra del XXI secolo". Diventano tutt'uno con il valore della scelta del governo e dell'Unione come orizzonte politico condiviso. Valori alti e partecipazione larga sono infatti l'unica risposta possibile a quei giovani che hanno tante cose da dire e da dirci, che ci pongono tante domande attraverso canali che molto spesso ignoriamo o non facciamo abbastanza perchè arrivino fino a noi. Troppe volte i nostri calcoli e le nostre sordità non hanno aiutato né loro né noi a costruire un futuro migliore.
*Europarlamentare, Sinistra democratica


il Riformista 13.7.07
INFLUENZE. IL LIBRO DELL’ARGENTINO JOSÈ PABLO FEINMANN 
L'insostenibile complicità col male
L’ombra di Heidegger racconta il suicidio di un intellettuale filonazista ucciso dai sensi di colpa
DI LIVIA PROFETI


Nel 1948, in Francia «tutti leggevano o cercavano di leggere L’être e le néant. Un libro dettato da Heidegger (…) che - dicevano molti - esprimeva lo spirito della resistenza francese. Quale miracolo aveva prodotto Sartre? Come aveva fatto ad esprimere lo spirito della resistenza francese partendo da un libro scritto da un nazista? ».
Così scrive al figlio, poco prima di suicidarsi, Dieter Müller, protagonista del romanzo L’ombra di Heidegger dell’argentino José Pablo Feinmann (Neri Pozza, pp. 181, euro 15). Allievo del filosofo, da questi attirato verso la «scelta autentica» di aderire al nazionalsocialismo, Müller fuggirà in Argentina alla fine della guerra e si toglierà la vita dopo che l’immagine di un deportato sulla soglia della camera a gas gli rivelerà di colpo la propria complicità intellettuale con i crimini inumani del Terzo Reich.
Come si legge nella postfazione di Antonio Gnoli e Franco Volpi, riportata anche su la Repubblica del 4 luglio scorso, da L’ombra di Heidegger emerge un giudizio netto sul filonazismo della filosofia heideggeriana che, lungi dall’essere separata dal coinvolgimento del suo autore nel nazionasocialismo, ne sarebbe al contrario la «condizione e preparazione sistematica». Il romanzo si inserisce quindi nella lunga questione intorno all’adesione del filosofo al regime di Hitler, tornata di recente alla ribalta con il lavoro del francese Emmanuel Faye Heidegger. L’introduction du nazisme dans la philosophie, che ha evidenziato i nessi esistenti anche se sapientemente celati, tra le opere “ufficiali” e gli enunciati nazisti dei corsi universitari e di altri scritti prima inediti.
L’attuale dibattito internazionale è incentrato quindi sul sospetto che l’intera opera heideggeriana sia fondata su presupposti “nazisti”, una questione ancora poco frequentata in Italia salvo che da il Riformista e dalla rivista Left, nonostante o forse proprio a causa del suo elemento perturbante, ovvero la grande influenza di Heidegger sulla cultura di sinistra degli ultimi decenni, riassunta da Feinmann con una sentenza fulminante sugli intellettuali del ’68: «hanno rimpiazzato Marx con Heidegger».
Docente di filosofia e scrittore di successo, l’argentino ha fuso le sue due anime in un romanzo filosofico i cui personaggi usano espressioni come «un SA è un Dasein che accetta il suo essere-per-morte. E questo lo differenzia dagli altri, dagli inautentici, dai mediocri», o anche: «un SS vestito di nero (…) è Mefistofele, lo spirito che tutto nega». Una storia nel cui intreccio sono rappresentati tutti gli enigmi del caso Heidegger, a partire dall’esaltata ambizione di diventare il “Führer filosofico” del regime sino al devastante rapporto con le donne.
La postfazione di Gnoli e Volpi rappresenta in parte una novità per i due studiosi che avevano sempre separato gli scritti del filosofo dalle sue vicende politiche mentre ora ammettono una certa «pericolosa ambiguità» del suo pensiero. In tal senso però il loro lavoro non è privo di contraddizioni che sembrano legate all’impostazione più generale del rapporto tra intellettuali e politica, considerato nei termini di «uno di quegli eterni problemi della filosofia che non hanno soluzione, ma solo storia ». Il duo affronta quindi la questione partendo dal presupposto di una separazione radicale tra pensiero - ritenuto «eterno» e dunque di origine sovraumana - e divenire storico in odore di insignificanza.
Una strada plurimillenaria senza uscita, per la quale la loro stessa domanda - «come è possibile, oggi, riconciliare filosofia e politica? » - rischia di diventare puramente retorica.
Dopo i fallimenti del ’900, il rapporto tra intellettuali e politica è invece da affrontare con un’impostazione concretamente e saldamente laica che si ponga l’obiettivo reale di superare la scissione tra pensiero e azione, perché parte dalla convinzione che siano entrambi umani. Una direzione di ricerca per la quale proprio il caso di José Pablo Feinmann potrebbe essere paradigmatico.
Nato a Buenos Aires nel 1943, il suo interesse per il nazismo si lega anche ai passati anni bui del suo paese, a quel Reich argentino che, «razionale come quello tedesco», era «arrivato ad installare 350 campi di concentramento» e praticava la tortura «come unico mezzo di intelligence »; per questa avevano «stabilito, rigorosi, precise relazioni tra voltaggio e peso corporeo» ed «agli scartati, a quelli che non avevano più niente da farsi strappare, facevano un’iniezione di pentotal, li mettevano su un aereo e li gettavano vivi nel Río de la Plata». Con queste parole terribili l’autore de L’ombra di Heidegger ci dice che, diversamente da ciò che comunemente si pensa, la razionalità non è estranea alla violenza più estrema che annulla l’identità umana. E da filosofo che non ha chiuso le porte alla fantasia, con la sua presa di posizione politica ci suggerisce, al contrario, che la coerenza “etica” tra pensiero e azione passa attraverso quella dimensione irrazionale umana che è anche il fondamento stesso dell’arte.