sabato 4 ottobre 2014

il Fatto 4.10.14
A chi appartengono i morti di Lampedusa?
di Ascanio Celestini

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il Fatto 4.10.14
La scomparsa delle notizie
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, ho l’impressione che accadono solo eventi che riguardano poche persone che tornano continuamente come in un incubo. Chi ha portato via le notizie?
Renato

NON È UNA boutade da conversazione. Gran parte delle notizie sono scomparse sia nei Tg "”servizio pubblico” sia nei Tg privati. Esempio. La mattina del 23 settembre ho sentito (Rai 3, “tutta la città ne parla”) ascoltatori che raccontavano di un tornado violentissimo che il giorno prima aveva scoperchiato tutte le case e messo fuori uso tutte le auto di un centro di 2500 abitanti vicino a Firenze, e la notizia non era stata raccolta da alcuna fonte. Ma subito dopo e subito prima ci scaricavano addosso tutti gli umori (le non notizie) del Parlamento che non vuole votare certi nomi, tutti i dettagli della fronda infinita dentro il Pd sull’articolo 18, con citazioni di Civati e repliche brusche di Serracchiani, le disavventure di Verdini, le euforie e poi le depressioni nel campo di Berlusconi sulla Corte dei Diritti dell’uomo che accetta e poi non accetta il ricorso di Berlusconi contro la nota sentenza. Aggiungere le frasi, non sempre memorabili, dette da Renzi in America, anche se non è chiaro perché la sua riforma del lavoro dovrebbe essere “violenta”. È vero, seguono notizie anche tragiche del mondo. Ma senza alcun rapporto con il pacco di notizie della prima, lunga parte di tutti i nostri notiziari. Pare che quelli del Califfato vogliano portare la loro bandiera nera a Roma. Ma poiché l'evento non inciderebbe sulla mancata elezione di Violante alla Corte Costituzionale non c’è né commento né dibattito. In Africa ci sarebbero stati due importanti attentati: è stato ucciso il primo ministro somalo e il capo del gruppo terroristico Boko Haram. Però i due eventi non rispondono al dubbio se Violante, dopo la caduta di Bruno, continuerà a essere il candidato Pd per la Consulta, e perciò le due notizie passano sotto la porta, così come ce la danno le agenzie. Inutile ricordare che mancano due ragazze ventenni, ostaggio chissà dove e chissà di chi, in Siria, che manca una decisione del ministro della Difesa Pinotti e del doppio ministro degli Esteri Mogherini (Italia più Europa) sul che fare per rispondere all’appello di Obama, e una decisione di qualcuno sullo status dell’altro fuciliere di Marina lasciato solo e senza decisioni (né prigioniero né libero) in India. Però si può sempre ricominciare su pil e debito pubblico italiano, chiamando nuovi e non ancora logorati economisti da confrontare con gli stranoti e strausati e da lasciar cadere subito se incominciano male dicendo: “Siamo sulla strada sbagliata”. Le pagine dei grandi giornali con pesanti consigli di amministrazione, hanno come fonte esclusiva da scoop soltanto ministri attendibili (Padoan, Alfano) e poi, per chiudere, una sorprendente battuta di Renzi. I cittadini possono attendere. C’è già troppa carne al fuoco.

La Stampa 4.10.14
Allarme di Bersani: senza iscritti, addio al Pd
L’ex segretario attacca dopo i dati sugli iscritti in calo. Guerini: «Notizie infondate»
Ma la minoranza Pd rilancia la sfida con Fassina: «Degradati a comitato elettorale»

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Corriere 4.10.14
I renziani, i numeri dei tesserati e i timori per la segreteria
di Monica Guerzoni


La minoranza non aspettava altro. La notizia di un brusco calo dei tesserati, per quanto smentita dal Nazareno, è stata accolta da Bersani e compagni come la conferma che il Pd ha urgente bisogno di un tagliando. La sinistra si è scagliata contro il partito «degradato a comitato elettorale» e ha chiesto una grande assemblea per discutere di identità e modello organizzativo. Colpi che per i renziani hanno il sapore di un attacco studiato, concepito per far risaltare plasticamente la differenza tra il PDR (il partito di Renzi) e la «ditta» di Bersani. Non a caso D’Attorre ammonisce il segretario, ricordandogli di «avere ereditato un bene che ha il dovere di trasmettere a quelli che verranno dopo di lui». La ditta, appunto: che gli ex Ds si sono fatti sfilare dai «neofiti» fiorentini e che adesso, sospettano nell’entourage del premier, vorrebbero riprendersi. Ecco perché, quando l’ex segretario dice no alla scissione per restare nel Pd «saldamente con tre piedi», al Nazareno suona l’allarme. I renziani sono notoriamente immuni dalla sindrome del nemico a sinistra e mostrano di temere la nascita di un nuovo partitino meno dell’assalto alla segreteria. Davide Faraone già alza le barricate: «Non molleremo mai».
  
il Fatto 4.10.14
Pd, crolla il tesseramento. Bersani: “Senza iscritti non è un partito”
La previsione per la fine dell'anno è quella di raccogliere circa 100mila tessere (erano 539.354 nel 2013). E dopo il flop alle primarie dell'Emilia Romagna di domenica 28, crescono le preoccupazioni dei dirigenti

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Repubblica 4.10.14
Pd, lite sul crollo degli iscritti Bersani: così il partito muore
Renzi: ma abbiamo il 41%
La segreteria dei dem non fornisce cifre ma Guerini fissa l’obiettivo: “Puntiamo a 300mila tessere vere”
D’Alema: con Matteo democrazia più debole
di F. Bei


ROMA Dopo la rivelazione su Repubblica sui dati sul tesseramento (a stento 100mila contro gli oltre 500mila del 2013), la secchiata gelata investe in pieno il Pd. E la minoranza ne approfitta per aprire un altro fronte contro il leader. Inizia l’ex segretario Bersani: «Lo Statuto dice che il Pd è un partito ‘di iscritti e di elettori’. Ovviamente, se diventasse solo un partito di elettori diventerebbe un’altra cosa». Invece Cuperlo invoca «una discussione seria su quale idea di partito abbiamo in mente», mentre Civati evoca di nuovo la scissione, da parte però dei militanti: «Non sono io a volerla, ma la condotta di Renzi». Di un partito in «stato di semi abbandono» parla Fassina. In serata, infine, rincara la dose D’Alema: «Renzi si è posto nella scia della personalizzazione della politica. Ma così la politica si indebolisce, la riflessione collettiva viene meno e non credo che la democrazia ne esca rafforzata».
È Matteo Renzi a rispondere a muso duro all’opposizione interna. «A qualcuno piace il Pd che ha 400mila iscritti ma prende il 25%, a qualcun altro invece piace quello che prende il 40% e vince la partita delle idee». Sugli iscritti invece il compito di precisare è lasciato a Guerini: «L’andamento del tesseramento per il 2014 procede naturalmente e i numeri sono in linea con gli anni precedenti».
L’obiettivo «è superare i 300mila iscritti a fine anno, veri». Coda velenosa sulla precedente gestione: «Tra l’altro, i dati del 2013, sono in corso di verifica». ( f. bei)

Repubblica 4.10.14
Ugo Sposetti
“Non resta più niente i militanti se ne vanno”
intervista di Giovanna Casadio

ROMA «Il PdR, il Pd di Renzi? Il partito personale non crea iscritti». Ugo Sposetti, il compagno tesoriere dei Ds, senatore dem, fa un’analisi spietata.
Sposetti, pochi iscritti dem, di chi è la colpa?
«Lo chieda agli attuali dirigenti. A me fa pure male saperlo, mi dà sofferenza. Ma la responsabilità è evidentemente di chi dirige. E comunque il Pd non è più un partito».
Lei è della “vecchia guardia”.
«Vecchia guardia saranno loro! È un modo spregiativo usare toni come questo, ovvio che scompaiono i militanti. Un partito è un’altra cosa. Un partito senza iscritti, senza risorse, senza rispetto della vita democratica interna, cos’è?».
Cos’è?
«Non lo so, ma di certo non è più un partito».
Servono ancora i partiti?
«I partiti sono stati scuola, comunità, famiglia. Poi nella Prima Repubblica è successo quel che è successo, ma dovrebbe esserci il senso di comunità».
Quindi cosa resta?
«Non resta più niente se, ad esempio, uno esprime dissenso come hanno fatto alcuni dirigenti nell’ultima Direzione del Pd sull’articolo 18, e chi dovrebbe tenere insieme tutti, fa attacchi abbastanza volgari. Ecco quindi che un partito non diventa più una comunità: è un’altra cosa. È come se in una famiglia uno non potesse esprimere più un pensiero che ... pah, gli arriva uno schiaffone».
La minoranza, di cui lei fa parte, nell’ultima direzione è stata asfaltata?
«Asfaltata?! Ma chi ha fatto marcia indietro sull’articolo 18 è il presidente del Consiglio. Tutti al Senato aspettiamo l’emendamento al governo che corregge il governo, cioè quell’emendamento che recepisce le modifiche della Direzione. Siamo in trepidante attesa».
Lei vuole bene al Pd?
«Guardi, hanno cambiato il nome alle feste dell’Unità sette anni fa, e io dissi: “È un errore. vi pare che si cambia il marchio alla Nutella?”. Non fui ascoltato. Ora il brand Festa dell’Unità è stato riscoperto. Allora si è posto il problema del logo. Ma se non ci fosse stato un idiota che risponde al nome di Ugo Sposetti, che ha registrato e pagato per sette anni il dominio Festa dell’Unità, non si sarebbe potuto usare. Il Pd sta in 1.800 circoli di proprietà del famigerato Pci-Pds-Ds, e non paga né Tarsu né Imu né condominio. Sono sedi che vengono dal lavoro e dalla fatica di centinaia di militanti comunisti. Non mi sembra che a dirigere il Pd oggi ci siano grandi manager che possano gestire questo patrimonio. Quindi le cose restano come sono».

Repubblica 4.10.14
E il premier insiste: “Voglio una cosa nuova aperta a tutti e senza signori delle tessere”
di Goffredo De Marchis


«NON esiste più quel modello in cui o hai la tessera o non sei nessuno e ti escludono dal gioco politico. Per me il Pd non è questo». Matteo Renzi aveva anche accarezzato, tempo fa, l’idea di una conferenza sul partito, il suo programma, il suo statuto, la sua identità aggiornata al nuovo secolo. Ma poi lo scontro con la minoranza interna e la possibilità di ridare fiato alla vecchia guardia lo aveva fatto desistere. «Come è il Pd che voglio io? Molto semplice. Un partito che vince e non che perde, che parte dai territori
e va verso il centro».

ROMA «Non esiste più quel modello in cui o hai la tessera o non sei nessuno e ti escludono dal gioco politico. Per me il Pd non è questo». Matteo Renzi aveva anche accarezzato, tempo fa, l’idea di una conferenza sul partito, il suo programma, il suo statuto, la sua identità aggiornata al nuovo secolo. Ma poi lo scontro con la minoranza interna e la possibilità di ridare fiato alla vecla chia guardia lo aveva fatto desistere. «Come è il Pd che voglio io? Molto semplice. Un partito che vince e non che perde, che parte dai territori e va verso il centro non viceversa come accadeva con Bersani. Dove, soprattutto, anche se non sei iscritto puoi discutere e partecipare. E tra il partito dei voti e il partito delle tessere, preferisco il primo». Non c’è solo il 40,8 per cento da sbandierare. «Penso a come ci siamo comportati nei territori. Lasciando la massima autonomia. Basta guardare l’Emilia. Si puntava a un candidato unitario poi lì hanno deciso diversamente e li abbiamo lasciati liberi. È successo in Abruzzo, in Piemonte. Dove il Pd ha stravinto».
Dunque, non solo non ci sarà un’assemblea dei circoli, come chiede Stefano Fassina, per discutere del crollo delle tessere e del futuro di largo del Nazareno, ma nessuno si azzardi a contestare eventi come la Leopolda che quest’anno si svolgerà dal 24 al 26 ottobre. Senza il simbolo del Pd anche se a guidarla è il segretario di quella forza politica. «Non vi preoccupate, il Pd ci sarà. C’è sempre stato», rivendica Renzi. Quello vero, quello che parla al popolo degli elettori e non soltanto degli iscritti. Un Pd diverso dal passato, aperto, liquido, non in mano ai vari signori delle tessere: questo è il ragionamento del premier. «La spinta di cambiamento di Matteo coinvolge il modo di fare politica e anche il Partito democratico», segnala il sindaco di Firenze Dario Nardella. «Una trasformazione che non va vissuta in negativo, prevede un nuovo modello di membership che non esclude gli iscritti. Alla fine vedrete saranno molti più di 100 mila», insiste Nardella.
Parliamone, è la riposta della minoranza interna. Con alcuni guanti di sfida. Il bersaniano Alfredo D’Attorre chiede al segretario di sconvocare la Leopolda e fare un’altra cosa con le bandiere del Pd. «Andava bene quando Matteo faceva lo sfidante. Adesso che senso ha? Sei il numero uno di una forza politica. Parla nelle sedi del Pd». Il succo è che non se non si vede il Pd, la base si allontana, scompare, si volatilizza. Bersani ha sintetizzato: «Così il partito non esiste più». Nei giorni della Leopolda, poi, potrebbe andare in scena platealmente la frattura interna al Nazareno. I renziani a Firenze e alcuni dissidenti in piazza con la Cgil che si mobilita il 25. «Dipende come si sviluppa la discussione sulla riforma del lavoro», dice Fassina. Ovvero: se prevale lo scontro e la «politica di destra» di Sacconi, la partecipazione di alcuni dirigenti del Pd alla manifestazione sindacale va messa nel conto. L’ipotesi di una fiducia sulla legge delega, per esempio, riaprirebbe il solco, come fa capire il gruppetto di senatori guidati da Cecilia Guerra con l’hashtag #nofiducia. «Sarebbe davvero il colmo rinunciare anche alla discussione dei nostri emendamenti», dicono.
Lo strappo non avverrà sul crollo degli iscritti. Gli oppositori escludono di organizzare una contromanifestazione sabato 25 contro la Leopolda. «Vogliamo un appuntamento del Pd semmai», ripete D’Attorre. Sul tavolo resta la proposta, anche spostata nel tempo, di una conferenza sulla forma- partito. Il presidente del Pd Matteo Orfini dice di «non conoscere i numeri del tesseramento », ma è anche convinto che una «riflessione potrebbe essere utile». Cioè se mutazione genetica dev’essere, che sia discussa e portata nel dibattito dei militanti.
Se il mondo è cambiato, sostiene la minoranza, è il caso di un confronto vero. Perché il mondo, anche quello dei partiti, è davvero cambiato, osservano i renziani, pur scommettendo su 300 mila tessere alla fine dell’anno. Il Psoe pagnolo sperimenta nuove forme di associazione, il Labour ha 200 mila aderenti. Solo l’Spd tedesca continua a coltivare il suo “esercito” di 400 mila tesserati. Su una base, però, di 80 milioni di abitanti.

Repubblica 4.10.14
La Ditta sciolta nel partito liquido
di Concita De Gregorio


QUATTRO mesi fa, a maggio, in questo Paese 11 milioni, 203mila e 231 persone hanno votato il Partito democratico portandolo al 40,8 per cento e facendo di Matteo Renzi il più giovane leader del più grande partito socialdemocratico europeo. Il precedente più prossimo, per un partito della sinistra italiana, è il leggendario sorpasso del Pci sulla Dc.
IL SORPASSO avvenne alle europee il 17 giugno del 1984, sei giorni dopo la morte di Enrico Berlinguer. Il nome del segretario appena scomparso era ancora capolista sulle schede: 33,3 per cento, primo partito. Con 7 punti e mezzo in più rispetto a quel Pci, a quel lutto e a quel tributo, a quell’Italia di un secolo fa, Matteo Renzi governa oggi il Paese. La notizia di ieri, anticipata da Repubblica, è che il Pd — erede (anche) del Pci — conta a meno di due mesi dalla fine dell’anno 100 mila iscritti. Cioè: ogni centodieci persone che hanno votato Renzi solo una è iscritta al Pd.
Proviamo a visualizzare centodieci persone: un’aula universitaria, un meganegozio di elettronica di un centro commerciale nell’ora di punta del sabato. Proviamo a immaginarli tutti elettori del Pd. Proviamo a segnalare, nella foto, l’unico iscritto al Pd con l’evidenziatore giallo. Ora occupiamoci degli altri 109. Chi sono? Perché non sentono il bisogno di far coincidere il loro voto per il Pd al gesto dell’iscriversi al partito? La risposta sta nei fatti, nelle cose: chi vive nel mondo la conosce. Il Pd — la Ditta, direbbe Bersani — è lo stesso partito che ha trattato Renzi come un estraneo e come un nemico fino ad un momento prima che vincesse. Un ragazzotto ambizioso, un democristiano 2.0, uno svelto di lingua e di modi, irrispettoso dei padri, un rottamatore. Non uno di noi. Uno che ci vuole far fuori. Questo spiega perché Renzi, che è diffidente di natura, diffidi della nomenklatura e non gli si può dar torto. “Io penso al paese, non ai dirigenti del Pd. Ogni volta che D’Alema parla mi regala un punto”, ha detto l’altro giorno. E prima ancora aveva scritto una lettera sul sito del Partito tutta contro la vecchia guardia, e prima ancora aveva detto “Fassina chi?” del braccio destro di Bersani. Sottotesto: io con questi non c’entro, io sono oltre. La responsabilità dell’aver ignorato l’astensione crescente e la rivolta nascente è tutta di chi oggi si proclama all’opposizione interna, a sinistra — per così dire — di Renzi. Avrebbero potuto fare, se solo avessero ascoltato il mondo intorno: non hanno ascoltato né fatto. Per sovrapprezzo c’è il tema della leadership, dell’uomo solo al comando, l’uomo della Provvidenza: un’antica abitudine italica radicata in un paio di ventenni, diremmo un’attitudine, da Berlusconi cavalcata e coltivata a meraviglia fin qui. I frutti del “ghe pensi mi” sono sotto i nostri occhi.
Oggi il tema all’ordine del giorno è la scomparsa dell’ultimo grande partito italiano. Crollo di iscritti, nemmeno in Emilia vanno più ai gazebo. Disintegrazione. Polverizzazione. Il Pd trasformato in un comitato elettorale, in un autobus per Palazzo Chigi che quando si arriva si parcheggia fuori, pazienza per la ruggine. Ma quel partito, quell’idea di partito, non corrisponde più al sentire comune aizzato e fomentato negli anni dall’inerzia e dagli errori di chi poteva e doveva alimentare l’identità e l’appartenenza, premiare la lealtà e non fedeltà devota e riconoscente, infine dallo tsunami dell’anticasta: tutti corrotti, tutti uguali, non c’è più destra e sinistra, solo conservazione o innovazione — ha scritto Renzi nella prefazione del libro di Bobbio, “Destra e sinistra”. Solo stagnazione o movimento: cosa scegliete?
Ha ragione, Renzi. Il Novecento è finito. Non ci sono più i telefoni fissi, le cabine a gettoni, il cercapersone. Non ci sono più nemmeno i partiti, il Pd era l’ultimo. Quei centomila iscritti sono i funzionari nazionali e locali e i loro amici intimi, i loro familiari. Nemmeno tutti, fra i familiari. Sono anziani, in maggioranza, o personalmente interessati alla causa, o — in una minima parte — giovanissimi in cerca di casa, destinati presto a scontarsi con le logiche mefitiche e asfittiche delle appartenenze, nei circoli. A vedere andare avanti chi “appartiene” a qualcuno piuttosto che chi sa e vuole fare qualcosa. “Io parlo al Paese”. Perfetto, è la cosa giusta. Infatti vince. Ma presto o tardi arriverà il momento in cui l’assenza di una struttura che non sia solo liquida e virtuale, non viaggi solo sui “like” della rete e sulle comparsate in bomber in tv, si ritorcerà contro chi ha pensato di poter fare a meno di un luogo dove le idee diverse — le idee diverse dalle sue — si confrontino e si misurino nel gioco della parola e della democrazia. Un luogo fisico, concreto, reale, che sappia mediare fra la pancia e la testa, che trasformi in progetto politico il desiderio e il bisogno. Nella vita vera tutto ciò che piace anche a volte un po’ dispiace. Non basta fare like a una rivoluzione, bisogna esserci di persona. Non basta votare un leader carismatico. Bisogna sostenerlo nella buona e nella cattiva sorte, come quando ci si sposa e si prova a convivere, e a volte è dura ma è un progetto, si discute, si soccombe, ci si arrabbia poi si prova ancora perché comunque è meglio che stare da soli, ciascuno in compagnia virtuale di tutto quello che manca. Tutto quello che “non mi piace”. Renzi è stato il primo degli scissionisti del Pd. Il primo che ha mostrato di poter fare senza l’apparato, fare contro. Ora ha l’80 per cento in direzione e il 41 nel paese: ha vinto. Bonifichi i pozzi, segni la rotta. Se non vuole quel partito, vecchio come un telefono a gettoni, ne costruisca un altro. Dia un posto ai milioni di ragazzi che non hanno dove andare e provi a fare quello che non hanno saputo fare molti, troppi prima di lui: pensi alle sorti dell’Italia fra trent’anni, quando anche lui sarà vecchio, più vecchio di D’Alema adesso. Pensi a un posto dove i suoi figli bambini possano costruire la democrazia, lo faccia adesso. Alla generosità siamo così disabituati, sarebbe una rivoluzione.

Corriere 4.10.14
Nel Pd il patrimonio è un caso
Assedio alle 57 fondazioni ex Ds
Le richieste di Orfini e Bonifazi. No di Sposetti: materia che non conoscono
di Alessandro Trocino


ROMA — Il due di picche di Ugo Sposetti, condito dalla sua abituale ironia, se lo aspettavano. Nessuno credeva al beau geste , invocato da Matteo Orfini. Ma il braccio di ferro tra il tesoriere dei Ds e i dirigenti del Pd è solo all’inizio. Oggetto del contendere, il convitato di pietra (anzi, di mattoni) che siede al tavolo del partito fondato da Walter Veltroni: il patrimonio immobiliare dei Ds, che nel 2007 fu conferito a una miriade di 57 fondazioni sul territorio. E lì giace. Un ordigno inesploso, che se non si troverà un accordo potrebbe deflagrare in un partito sull’orlo di una crisi di nervi. Anche perché il Pd ha sete di risorse. Lo stop al finanziamento e il crollo dei tesserati lo ha messo in ginocchio, nonostante i successi elettorali. E il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi ha fretta di recuperare questo patrimonio. Ma non ha nessuna intenzione di andare allo scontro e dimostra un incrollabile ottimismo: «La risposta di Sposetti è anche troppo scontata. Io so quanto è affezionato al passato Ugo, ma sono sicuro che lo è anche al futuro. E ci darà una mano».
La diplomazia di Bonifazi si scontra con la tenacia di Sposetti, che pare tetragono a ogni lusinga e a ogni invocazione: «Pensino ai lavoratori, innanzitutto. E non si occupino di cose che non sanno. Mi occupo dei neutroni io? Lascino perdere, che non sanno la differenza tra codice civile e codice della strada. Questi hanno cancellato tutto. Se non ci fosse stato Sposetti a registrare, per anni, il marchio della Festa dell’Unità e il dominio Internet, ora non avremmo neanche più quello. Ha visto quanti iscritti ci sono? Hanno abbassato a 20 euro la quota del tesseramento: una vergogna. Io sono iscritto, ma verso molti più soldi».
Ieri Repubblica ha raccontato la «fuga degli iscritti», per un partito «senza più base»: «Solo 100 mila tessere in un anno, persi 400 mila iscritti». Numeri ridimensionati dal vicesegretario Lorenzo Guerini: «Il tesseramento è iniziato solo il 25 aprile, l’obiettivo sono 300 mila tessere». Ma la crisi c’è, il Pd è cambiato. Pier Luigi Bersani è critico: «Un partito fatto solo di elettori e non più di iscritti, non è più un partito». E D’Alema aggiunge: «Con l’avvento di Renzi, il partito viene visto come un peso e la democrazia non ne esce rafforzata».
Il tema si incrocia con le risorse. E qui si torna al patrimonio Ds. Orfini insiste: «Quando nacque il Pd, si volevano tagliare le radici, ma ora siamo in una fase diversa. C’è una riappacificazione con il nostro immaginario, vedi ritorno delle Feste dell’Unità. Siamo anche entrati nel Pse. Non c’è ragione perché il patrimonio dei Ds resti lì». Tra i motivi per cui si scelsero le fondazioni, nel 2007, c’era il retropensiero di un eventuale fallimento del Pd. Per questo si «privatizzò» il patrimonio: un tesoretto da tenere in sicurezza, anche dalle banche, visti i debiti. Tesoretto che può venire utile, in caso di scissione?
Il meccanismo delle fondazioni è paradossale. Non tutti i Ds sono entrati nel Pd: alcune sono gestite da dirigenti vicini a Sel e Rifondazione. Nelle fondazioni, inoltre, vale il metodo della cooptazione: i presidenti possono cedere il posto e nominare chi vogliono. Con il risultato di cambi al vertice con dirigenti che non hanno nessun legame né con il Pd né con la sinistra (in Toscana una sede è entrata nell’orbita 5 Stelle). Progressivamente, la galassia rischia di allontanarsi dal sistema solare del Pd.
E i debiti (pare si aggirino intorno a 150 milioni di euro)? Orfini apre: «Il Pd potrebbe farsene carico». Bonifazi è molto più cauto, se non contrario. Non è escluso che si provi a fare una compensazione tra patrimonio sul territorio (c’è chi parla di un miliardo) e debiti romani. L’ex tesoriere Antonio Misiani è scettico: «È una vicenda che non si può affrontare con superficialità. La prima cosa da fare è che si siedano a un tavolo. Ma vedo difficile compensare il macigno dei debiti con il patrimonio».

il Fatto 4.10.14
Rendinconto 2013, “costi eccessivi per la segreteria”
di Wanda Marra


QUASI 11 MILIONI di euro. È la perdita di esercizio del Pd, secondo l’ultimo bilancio approvato, quello del 2013. La prima causa del disavanzo è la riduzione del finanziamento pubblico. Ma pesano anche altri fattori, almeno stando al tesoriere Francesco Bonifazi, che nella direzione del giugno scorso parlò di “eccessiva onerosità dei servizi e delle forniture” e “l’eccessivo costo della politica e dei servizi connessi”. Tra le voci di spesa più forti, le consulenze (a suo dire, costate un milione e 149mila euro) e gli affitti dei locali a Roma in via Tomacelli e in via del Tritone, “peraltro scarsamente utilizzati”.

PD, RENZI ALLA GUERRA DEI CONTI: “HO TROVATO UN BILANCIO IN ROSSO”
LA MINORANZA ATTACCA SUL CROLLO DELLE TESSERE, IL PREMIER RISPONDE SULLA GESTIONE: “EREDITATI PROBLEMI” E I SUOI: “CON BERSANI IN 2 ANNI 17 MILIONI DI DEFICIT”

Ci siamo trovati un po’ di problemini nel bilancio del partito. Ma siccome siamo gente seria i panni sporchi si lavano in casa”. Dal palco del festival di Internazionale a Ferrara, Matteo Renzi non perde l’occasione di tirare la vera stilettata alla minoranza Dem. Per tutta la giornata impazza la polemica sul calo dei tesseramenti nel Pd, con lui segretario, scatenata da un articolo di Repubblica. Ma è proprio Renzi a spostare l’attenzione sui soldi, sui buchi lasciati dalla precedente gestione della ditta. “C’è un gruppo di persone che dice: ‘Mamma mia da quando c’è segretario Renzi, il Pd perde iscritti’”. A questi “vorrei semplicemente far notare che il Pd ha preso il 40,8 per cento, 16 punti in più delle ultimi elezioni”. E dunque, “ a qualcuno piace il Pd che ha 400mila iscritti e però perde le elezioni e prende il 25 per cento, a me quello che vince e che riconquista le Regioni”. Renzi puntualizza. Ad ora, le tessere sarebbero meno di 100mila. Un dato allarmante, che ha scatenato la reazione dei vecchi “proprietari” della ditta. Con Bersani che si è messo l’elmetto (“Senza iscritti, addio al Pd”) e Stefano Fassina in prima linea (“Non siamo un partito, siamo un comitato elettorale. Ma Renzi fa la Leopolda per i fedelissimi. ”). Per i renziani è toccato al vicesegretario, Lorenzo Guerini confutare questa lettura: “Sono dati imprecisi. Il nostro obiettivo è superare i 300mila”. L’affondo: “Stiamo controllando anche le tessere dell’anno scorso”. Per dirla ancora con Renzi, “L’anno scorso c’era il congresso. A me piace l’idea che la tessera sia un valore, ma non quando c’è da votare per un segretario, ma perché c’è un'idea”. Il sottotitolo è chiaro: lui ha i voti, del partito tradizionale gliene importa ben poco.
LA POLEMICA sul Pd che non è più il Pd, sul leader senza base, sul premier che non fa il segretario va avanti ormai da mesi, con i “grandi vecchi” del partito all’attacco. Ma a questo punto sembra aver imboccato una strada di non ritorno. Niente tessere vuol dire anche meno soldi. Ed è proprio sui soldi che si consuma il secondo round. “Il Pd di Renzi non ha un euro in cassa. E loro, che fanno? Organizzano cene”. È un bersaniano di ferro che parla. Il problema è incontestabile: il bilancio del 2013 è stato chiuso con 10 milioni e 800mila euro di rosso. E nel 2013 il finanziamento pubblico era di 24 milioni di euro. Saranno 13 per il 2014: 11 in meno. Altro che rosso, allora. Dai vertici del Nazareno è arrivato l’invito a tutti i parlamentari a partecipare a delle cene (2 o 3, sicuramente al nord, ma forse anche al centro e al sud), che si faranno a novembre. Ciascuno è tenuto a portare 5 imprenditori, che dovranno versare 1000 euro ciascuno. Se anche l’operazione dovesse andare liscia come l’olio, con 400 parlamentari all’opera nelle casse del Nazareno arriverebbero 2 milioni di euro. Poca cosa. “Ma con che coraggio parlano? Sono loro che hanno creato questa situazione”, si sfogano i renziani, ricordando che tra il 2012 e il 2013 il rosso creato dalla gestione Bersani si assomma a 17 milioni. Il tesoriere Bonifazi ha annunciato per il 2014 il pareggio, lo stesso Renzi ha sottolineato che nessuno è stato licenziato. Operazione difficile. “Noi stiamo cercando di riparare ai loro danni”, spiegano. E allora, ecco che sfoggiano una gestione più oculata del partito: tagli alle consulenze e alle collaborazioni, fine dei contratti di affitto di locali diversi da Sant’Andrea delle Fratte, ridimensionamento di Youdem, spostamento di alcuni dipendenti dal partito ai gruppi di Camera e Senato. Basterà? Sperano in un trattamento migliore dalle banche. Poi, c’è tutto il capitolo sprechi.
ALCUNI membri della segreteria Bersani avevano uno stipendio (ora non è così), il partito pagava loro appartamenti a Roma, auto, rimborsi vari. E non solo. “La segretaria di Bersani costava un milione di euro l’anno”, denunciano i renziani. Lo stesso ex segretario in direzione ha parlato di “metodo Boffo” usato nei suoi confronti. E la fedelissima Chiara Geloni spiegava: “Non fanno altro che dire che lui sprecava i soldi del Pd”. I dossier più circostanziati i dirigenti dem dell’epoca Renzi ce li hanno nel cassetto. Non a caso, ogni tanto lanciano lì qualche cifra e qualche indizio. Una pistola carica, ma che per ora non viene scaricata: i voti delle minoranze con l’arrivo in Senato della riforma del lavoro servono. Meglio dire e non dire. E intorno a tutto questo ruotare di pallottole, aleggia il fantasma scissione. Ieri Matteo Orfini ha chiesto a Ugo Sposetti, storico tesoriere dei Ds, di passare al Pd il patrimonio rimasto alla Quercia. Ma lui non ci pensa proprio: “Quegli immobili, che abbiamo noi, come li ha la Margherita, sono il frutto del nostro lavoro. Mica è un matrimonio, che dobbiamo portarli in dote”. C’è chi dice che quei soldi potrebbero servire a fare un altro partito, magari con D’Alema a capo. Anche su questo Sposetti è categorico: “Non esiste”. Ma comunque, “chiedete a D’Alema”.

il Fatto 4.10.14
Renzi, fischi e uova a Ferrara contro il premier: “Rispondo col sorriso”
Poi parla del patto del Nazareno: "Non è segreto. Dovevo incontrare B. in streaming? Cultura della sinistra italiana è quella del sospetto". A una contestatrice: "Se non vuole gli 80 euro me li renda"

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il Fatto 4.10.14
A Ferrara
Palco difficile: uova e domande su B.
Un gruppo lo contesta, la stampa straniera gli chide del Nazareno. E lui si irrigidisce
di Wa. Ma.


Un uovo rotto resta lì, sul palco, mentre Matteo Renzi viene intervistato a Internazionale a Ferrara. Gliene tirano tre, mentre arriva. Ed è la prima volta che gli succede da quando è presidente del Consiglio. “Credo che tante persone sono qui non per farsi una frittatina o una omelette ma per ragionare: a chi non ha altri argomenti che le uova, noi continuiamo a rispondere con un sorriso”, replica. Tra il pubblico del Festival c’è un gruppo di Cinque Stelle che fischia e protesta. Certo, si prende anche tanti applausi. Ma da Ferrara arrivano altre critiche. L'intervista è condotta da tre giornalisti stranieri, Irene Hernandez Velasco di El Mundo, Michael Braun di Die Tageszeitung, Ferdinando Giugliano del Financial Times. LaVelasco gli chiede degli incontri segreti con Berlusconi. Lui risponde un po’ piccato: “Il Patto del Nazareno riguarda solo le riforme costituzionali. C’è una cultura della sinistra italiana e non solo italiana che è ispirata dalla cultura del sospetto. Ma come faccio a negare una cosa che non esiste? Faccio finta di no, ma leggo tutti gli editoriali e mi rode perché io vorrei discutere di scuola e non del patto del Nazareno. Prova a spostare l’interesse: “Volevo darvi una notizia sulla legge elettorale. Nessuno neanche raccoglie. Braun: “Noi abbiamo un problema a spiegare perché un condannato in via definitiva scriva la Costituzione italiana”. Il pubblico applaude con calore. Renzi prova a sminuire: “Potete anche applaudire ma finché ha i voti, io parlo con lui. Per vent’anni abbiamo parlato male di Berlusconi e ha governato lui. Io parlo dell’Italia e ho preso il 40,8%”. Annuncia l’incontro con i sindacati per martedì, risponde a chi gli urla che gli 80 euro non sono per tutti, si fa un bagno di folla (in piazza del Municipio ci sono 3000 persone), e se ne va. Ma la stampa straniera l’asse con B. non l’ha capito.

«non mi piace l’idea di essere governato da un Mussolini minore»
Corriere 4.10.14
Poche chiacchiere servono i fatti
di Piero Ostellino


Deve essere stata una bella soddisfazione — per molti italiani — apprendere che Renzi «alza la voce con la Merkel». Hanno certamente provato un brivido d’orgoglio — «finalmente gliele abbiamo cantate chiare» — pur augurandosi, lo spero, non si riveli analogo a quello provato dai loro nonni ai tempi in cui il capo del governo proclamava «spezzeremo le reni alla Grecia»; salvo prenderle, poi, di santa ragione persino dalla piccola Grecia. Io, che sono sufficientemente vecchio per ricordare sia le rodomontate del duce, sia, per averle vissute, le «dure repliche della storia» subite dall’Italia fascista e parolaia, non sono entusiasta di Renzi, come non lo ero, per tradizione familiare, di Mussolini. Resto dell’opinione che il ragazzotto fiorentino sia una sorta di Mussolini minore, tanto parolaio e velleitario quanto impotente. Matteo Salvini, il segretario della Lega, dice che, se a Renzi non piace l’austerità imposta dalla Merkel all’Europa — incidentalmente, nell’interesse della Germania — o la ritiene sbagliata, deve evitare di adottarla. Il presidente del Consiglio, però, replica che, anche se la politica della Merkel fosse sbagliata, l’Italia la seguirebbe per dimostrare la propria coerenza. Ahimè, un’altra affermazione mussoliniana: «l’Italia andrà, coerentemente, fino in fondo». E, infatti, siamo affondati…. Per tradizione antifascista della mia famiglia, e per formazione culturale, non mi piace l’idea di essere governato da un Mussolini minore. Caro Renzi, lasci perdere le affermazioni tipo «l’Italia farà sentire la sua voce» — tra l’altro, questa, una fissazione della nostra politica estera — e vada al sodo. Sono disposto a credere che lei stia facendo, come dice Panebianco, un’operazione culturale — ciò che i suoi critici definiscono chiacchiere — prima che fattualmente riformista per cambiare la sinistra. Poiché sostengo da sempre che la nostra sinistra è culturalmente vecchia e, in quanto tale, di danno al Paese, approvo, caro Renzi, persino questo suo «riformismo da convegno». Di solito, in questi convegni, i politici dicono ciò che essi stessi dovrebbero fare, ma poi non fanno. Le auguro ugualmente di avere successo. Realisticamente, però, mi piacerebbe che lei facesse ciò che le suggerisce Salvini. Dica che «questa Ue» non le piace; che ne sogna un’altra — possibilmente, non una parodia dell’Unione Sovietica come l’attuale —, ne proponga la riforma e faccia in modo che l’Italia sia, europeisticamente, meno coerente, ma, machiavellianamente, più concreta. Se ha letto Machiavelli al liceo, ma se lo è scordato, almeno da fiorentino, lo rilegga. Male non le farà.

Corriere 4.10.14
La Cassazione: «Augurarsi la morte di qualcuno non è reato»
Assolti un uomo e una donna che avevano pronunciato l’augurio di vedere morire in un incidente il proprio avversario processuale

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il Fatto 4.10.14
Conflitto interessi: Fi scrive, Pd vota
M5s: “Legge incompleta, sanzioni non chiare”
Il disegno di legge arriverà alla camera l'8 ottobre
di Martina Castigliani

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il Fatto 4.10.14
Consulta, Violante ineleggibile? Lui e il Pd tacciono. E i dubbi restano
Gli interessati si guardano bene dal rispondere ufficialmente, anche dopo il precedente di Teresa Bene al Csm
Alla base, la mancanza dei requisiti previsti dalla Costituzione
di Mario Portanova

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Corriere 4.10.14
I patti che non reggono
Conseguenze di troppi voti ribelli
di Massimo Franco

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Repubblica 4.10.14
Quei patti segreti che proteggono il regime televisivo
di Giovanni Valentini


ALLA persistenza della centralità della televisione e della telepolitica nella dieta elettorale degli italiani fa da contraltare un progressivo disinvestimento in termini quantitativi e qualitativi, che riguarda in prima battuta la tv commerciale, e infine la tv pubblica.
(da “Le sorti della videocrazia” di Christian Ruggiero — Mondadori, 2014 — pag. XV)
* * *
Non c’è bisogno di ipotizzare “effetti collaterali” del cosiddetto patto del Nazareno per dire che il maxisconto sul canone d’affitto delle frequenze, deliberato dall’Autorità sulle Comunicazioni a favore di Rai e Mediaset, è l’ennesimo scandalo di una telenovela infinita sul regime televisivo. Un munifico “cadeau” destinato ai detentori del duopolio tv che così risparmierebbero rispettivamente circa 15 e 10 milioni di euro all’anno, mentre ai cittadini italiani vengono imposti nuovi aumenti delle tasse e delle bollette in nome dell’austerità.
Allo stato degli atti, non sappiamo se Matteo Renzi abbia assunto o meno un impegno con Silvio Berlusconi per perpetuare quel regime televisivo che i suoi predecessori, alla guida del Pd-Ds-Pds-Pci, hanno contributo a difendere da lungo tempo. Ma ora il presidente del Consiglio ha la possibilità, se vuole, d’intervenire con la rapidità e la determinazione che gli sono abituali, in modo da impedire un tale misfatto.
Su pressione del componente dell’Agcom indicato dal Partito democratico, Antonio Nicita, l’Authority ha rimesso infatti una decisione finale al ministero dello Sviluppo economico. A questo punto il sottosegretario Antonello Giacomelli, responsabile del settore Comunicazioni, ha la facoltà — anche qui, se vuole — di presentare un decreto per correggere gli effetti della delibera. E se non vuole, dovrà assumersene la responsabilità.
La soluzione più ragionevole, come lo stesso Nicita suggerisce, sarebbe quella di fissare una sorta di “equo canone” per l’affitto delle frequenze e poi aggiungere un’aliquota progressiva in rapporto al volume d’affari di ciascun broadcaster. Ma evidentemente non si può dimezzare l’importo complessivo rispetto a quello attuale, pari a un misero 1% del fatturato. L’etere è un bene pubblico che appartiene allo Stato, e quindi a tutti gli italiani, sul cui sfruttamento le aziende televisive realizzano ogni anno ingenti incassi: circa 2,5 miliardi di euro la Rai e circa 2 miliardi Mediaset. Qui non si tratta di punire nessuno, ma piuttosto di tutelare l’interesse generale dei cittadini e dei contribuenti.
A questa situazione siamo arrivati a causa di una lunga serie di compromessi e accomodamenti che hanno segnato purtroppo la storia della televisione in Italia dalla metà degli anni Ottanta. L’esempio più recente è stato l’incauto accordo raggiunto da Pierluigi Bersani con Pierferdinando Casini, proprio sulla composizione di questa Authority, per cedere all’Udc uno dei cinque membri dell’Agcom in cambio di un’alleanza politica contro l’ultimo governo Berlusconi. È stato infatti Francesco Posteraro a far prevalere una maggioranza di centrodestra all’interno dell’Autorità, mettendo in minoranza il presidente Angelo Marcello Cardani e il commissario Nicita, in modo da predisporre il generoso sconto ai “signori dell’etere”.
Già in precedenza, come si ricorderà, era toccato a Massimo D’Alema sottoscrivere nel ‘97 il “patto della crostata” in una cena a casa di Gianni Letta, con l’impegno a non spingere sulla legge sul conflitto d’interessi per ottenere un appoggio sulla Bicamerale che avrebbe dovuto varare le riforme istituzionali. Fu lo stesso D’Alema, appena uscito da palazzo Chigi, a dichiarare “coram populo” nel 2000 alla Festa dell’Unità di Roma a Caracalla che un provvedimento del genere sarebbe stato “liberticida”. E allora aveva al suo fianco, come braccio destro o sinistro, Gianni Cuperlo.
Non è cominciata dunque in via del Nazareno, dov’è oggi la sede del Pd, la pratica dei patti più o meno segreti per proteggere il regime televisivo. Da vent’anni a questa parte, come qui abbiamo scritto tante volte, il duopolio Rai-Mediaset ha condizionato la vita pubblica italiana, influendo sull’orientamento e sulle scelte del corpo elettorale. È tempo, quindi, che la politica recuperi interamente la propria autonomia e la propria autorità.

il Fatto 4.10.14
F-35, la Pinotti non dimezza

Anzi annuncia: ne compero subito altri due
di Toni De Marchi

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Corriere 4.10.14
Vigili, asili, strade. Tutti gli sprechi
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella


Roma ha più uomini di Milano ma fa meno multe Il paradosso di Lamezia virtuosa: non offre servizi Com’è possibile che Roma, proprietaria di un immenso patrimonio edilizio comunale, spenda per le sedi dei vigili canoni d’affitto 117 volte superiori a quelli di Milano? Eccolo qui, un esempio clamoroso per capire quanto servano le tabelle sui «fabbisogni standard»: i cittadini possono vedere, confrontare, rendersi conto. E decidere chi premiare e chi punire.
Era ora, che qualcosa cominciasse a filtrare, di quella massa enorme di dati. Eppure sono così tante, per ora, le contraddizioni che occorre prendere quei numeri con le molle. Sennò si rischia di spacciare Casal di Principe, per decenni regno dei Casalesi, udite udite, per un municipio virtuoso.
Son passati 32 anni da quando il pci Lucio Libertini, parlando dei trasporti, propose di fissare dei «costi standard»: trentadue. E da allora l’invocazione è stata ripresa da tutti. A destra e sinistra. Un tormentone. Finché nel 2010 la Sose, una società per l’89% del Tesoro e per l’11 della Banca d’Italia, ha cominciato a raccogliere a tappeto, con l’aiuto dell’Ifel (il centro studi dell’Anci) una miriade di numeri su sei comparti dei bilanci comunali: burocrazia interna, polizia locale, istruzione pubblica, territorio e viabilità, ambiente e rifiuti e politiche sociali, compresi gli asili nido.
I risultati ufficiali saranno messi a disposizione fra un mese. Potete scommetterci: scoppierà un putiferio. Tanto più se il governo decidesse di tagliare o premiare sulla base delle cifre nude e crude. Piero Fassino, presidente dell’Anci, l’ha già detto: «I dati sono del 2010, mentre l’incidenza maggiore sulla spending review arriva dal triennio 2011-2013 segnato da drastici tagli: raccomando al governo di non prendere provvedimenti in base a quelle tabelle».
Ci abbiamo messo il naso in quel rapporto stilato, è bene precisarlo, su numeri forniti dagli stessi Comuni. Trovando dati che gridano vendetta. Ma anche incoerenze che danno ragione alla tesi su lavoce.info di Massimo Bordignon e Gilberto Turati: «Usare questi numeri per separare gli “spendaccioni” dai “risparmiosi”, senza tenere conto di quantità e qualità dei servizi offerti, può generare disastri. Si rischia cioè di identificare tra i risparmiosi quelli che non offrono i servizi e tra gli spendaccioni quelli che invece i servizi li offrono». Un solo esempio: possibile che la Calabria, che secondo uno studio di Stefano Pozzoli in quel 2010 aveva, rispetto agli abitanti, un quattordicesimo dei posti negli asili rispetto all’Emilia possa essere considerata «risparmiosa» perché mancano le scuole materne e le maestre?
Di più: è inaccettabile che da questo «pattugliamento» a tappeto sui conti dei Comuni siano stati esclusi quelli delle Regioni speciali. Hanno diritto a gestire i soldi in autonomia? D’accordo. Ma possiamo sapere «come» li spendono, i soldi degli italiani? Detto questo, evviva: il monitoraggio capillare, da completare con la definizione di alcuni servizi minimi, è un passo avanti enorme. Che comincia a far chiarezza sull’anarchia dei bilanci.
Il record negativo in Umbria
La prima cosa che balza all’occhio è il presunto record di virtuosità dei Comuni calabresi, che spendono il 10,65% in meno del fabbisogno standard complessivo al quale avrebbero diritto. Cioè della somma che, tenendo conto di un mucchio di fattori più o meno penalizzanti (esempio: solo chi sta in montagna può capire il peso sociale, scolastico, economico di certe nevicate) viene indicata come necessaria perché tutti i cittadini siano sullo stesso piano. Per contro, la peggiore risulta essere, nonostante un livello dei servizi superiore, la rossissima Umbria, dove i Comuni spendono il 9,71% più del fabbisogno calcolato. Di più: la Calabria sembra addirittura meno sprecona del Veneto, del Piemonte e delle Marche.
Dice tutto il confronto fra Perugia e Lamezia Terme. La prima, bella, dolce e benestante, è la città con oltre 70 mila abitanti che ha la peggiore performance in assoluto, con una spesa che nel 2010 ha superato del 31% il fabbisogno standard. La seconda batte tutti sul fronte opposto: nel 2010 ha speso il 41% in meno.
Come mai? Forse perché spendeva pochissimo per funzioni essenziali quali la riscossione dei tributi (35 mila euro contro un fabbisogno di 446 mila), gli asili nido (641 mila euro contro 930 mila) e il «sociale»: 2 milioni 522 mila contro 7 milioni 439 mila. Scelte imposte dal peso esorbitante di servizi burocratici come l’anagrafe, lo stato civile e il servizio elettorale: 1.162 mila contro un fabbisogno tre volte più basso, 468 mila. Il contrario di Perugia, più parsimoniosa nelle spese per la burocrazia ma assai più esposta sul fronte dell’ambiente (36,2 milioni contro i 6,2 stimati come fabbisogno standard), dello smaltimento dei rifiuti (31,7 milioni contro 22,5) e dei trasporti pubblici (25,3 milioni contro 4).
Il Sud risparmia (sui servizi)
Numeri in linea con una tendenza generale: le regioni meridionali, spiega la Sose, «da un lato risultano spendere più dello standard nel settore dei servizi generali di amministrazione e controllo», cioè per i burocrati e i dipendenti in genere, «e dall’altro spendere meno dello standard nel settore dei servizi sociali».
Bologna, ad esempio, figura sì in «zona rossa» con una spesa 2010 superiore del 4,76% allo standard, ma si tratta di una scelta precisa: investe nell’istruzione 60,4 milioni, contro i 37,5 previsti da Sose. Giusto? Sbagliato? I risultati, scommettono gli emiliani, si vedranno più in là. Così come scommettono su se stessi i Comuni veneti (Vicenza su tutti), che a dispetto dei servizi buoni e a volte eccellenti riescono a spendere, come notava Albino Salmaso sul Mattino di Padova , il 7% in meno della media italiana.
Un dato lusinghiero. Purché, in attesa della seconda parte del monitoraggio sul livello dei servizi, venga preso comunque con le pinze: i numeri possono essere bugiardi. Avete presente Casal di Principe, la cittadina della «Terra dei fuochi» tenuta in ostaggio per decenni dai Casalesi ed espugnata a giugno dal sindaco antimafia Renato Natale? Risulta tra i municipi più virtuosi della Campania. Basta dire che la sua spesa 2010 era inferiore al fabbisogno standard del 41,6%. Ma se andiamo a vedere come spendeva quell’anno i denari pubblici, scopriamo che per gli uffici preposti a raccogliere le tasse comunali, c’erano briciole. Fabbisogno stimato da Sose: 113.242 euro. Euro impiegati: 167. Cioè 678 volte di meno: perché mai infastidire i compaesani chiedendo loro le tasse? Quanto all’ambiente, devastato dai veleni scaricati perfino nel cortile della ludoteca, il fabbisogno stimato era di 445.949: ne spesero un quarto. I denari servivano per la burocrazia municipale. Costosissima.
I fabbisogni standard e il contesto
Assurdo. Certo è che la Provincia di Caserta, la più avvelenata dagli scarichi industriali di tutta l’Italia, dimostra una volta di più come gli stessi «fabbisogni standard» abbiano sì un senso, ma debbano tener conto del contesto. Nel 2010 l’ente provinciale casertano spese il 35% in più del previsto investendo nel settore ambientale 57 milioni: cinque volte più del fabbisogno standard calcolato da Sose: 11 milioni 581.147 euro. Spreconi? Dipende da come sono stati investiti soldi. Ma che quella terra sventurata abbia bisogno di più quattrini per il risanamento di ogni ipotetica media nazionale è fuori discussione.
Così come è complicato calcolare lo «standard» per località turistiche che a seconda delle stagioni possono moltiplicare la popolazione di tre, cinque, dieci volte. Al Nord e al Sud. Il fabbisogno finanziario teorico di Cortina d’Ampezzo sarebbe inferiore del 52% alla spesa reale, quello di Capri del 39,6, di Ischia del 42,6, del Sestrière del 52,4, di Gallipoli del 38,6. Spreconi? O piuttosto inchiodati dall’obbligo a mantenere dei servizi decenti?
Non mancano, nelle realtà più piccole, esempi di virtuosità stupefacente. Il record spetta a un paesino bergamasco, Blello, che ha un fabbisogno teorico del 108,9% superiore a quello che il municipio spende in realtà: i 79 abitanti si sanno accontentare. O si sono rassegnati. Così a Cartignano, 180 residenti, nel cuneese, dove il differenziale è del 108,4%. O nella salernitana Omignano, dove lo «standard» sarebbe più alto del 97,2. Ma sono tutti «risparmiosi» o costretti a far buon viso a cattiva sorte a causa della marginalità?
Risultati simili, nelle metropoli, sono impensabili. A Roma nel 2010 ogni cittadino spendeva per i servizi fondamentali 1.695 euro, dei quali 400 per mantenere i dipendenti municipali. A Milano 1.830: 441 per il personale. A Napoli 1.416 euro: per i «comunali» 477. Ma quanto valgono questi numeri se non si tiene conto del divario, qua e là abissale, dei servizi forniti?
Polizia locale e multe a confronto
I tre Comuni allo specchio dicono tutto delle differenze fra i diversi pezzi d’Italia. Basti prendere il costo della funzione forse più sensibile per un Comune, quello della polizia locale. Il fabbisogno standard di Roma è fissato in 323 milioni: nel 2010 spese il 14,5% in più. All’opposto Milano, che sborsò per i vigili il 38,3% in meno ma anche Napoli, che «risparmiò» il 29%. Eppure il Campidoglio, in quel 2010 preso in esame, fornisce ai cittadini in qualità e quantità molto meno di Palazzo Marino. Per carità, le multe stradali sono forse un indicatore anomalo, ma i dati sono interessanti: i 5.998 vigili di Roma elevavano manualmente 929.442 contravvenzioni (154 a testa: tre a settimana), i 3.179 colleghi milanesi 1.178.780: 370 pro capite, più di una al giorno. Per non parlare delle 79.870 sanzioni di diverso genere fatte a Milano contro le 27.990 di Roma e le appena 963 di Napoli. O dei 255 arresti effettuati dai «ghisa» ambrosiani a fronte dei 110 dei «pizzardoni» capitolini e dei 64 dei «caschi bianchi» partenopei.
Per non dire degli affitti di cui scrivevamo. Nonostante fosse proprietario di 59mila immobili, storicamente gestiti assai male, il Comune di Roma in mano alla destra dopo anni di giunte di sinistra, pagava nel 2010 per i locali occupati dalla polizia municipale canoni per tre milioni e mezzo contro i 30.017 euro di Milano: 117 volte di più. Una spesa mostruosa. Che costringeva il Campidoglio a risparmiare su tutto il resto. Comprese le tecnologie indispensabili per amministrare meglio una realtà complicata quale quella capitolina. Solo 2,9 milioni di euro investiti contro i 6,4 di Palazzo Marino. Con riflessi clamorosi sul controllo territoriale. I questionari compilati dai rispettivi Comuni e aggiornati al primo agosto di quest’anno dicono che a Milano la polizia locale dispone, per un territorio di 181 chilometri quadri, di 1.359 telecamere. A Napoli, dove i chilometri quadrati comunali sono 1.117, i vigili ne hanno 100. E a Roma? Il Comune con la superficie più vasta d’Italia, 1.285 kmq, di telecamere ne ha solo 45. Cioè una ogni 48 chilometri.

il Fatto 4.10.14
La trattativa
Riina, processo a rischio per i capricci di re Giorgio
Il nodo del rifiuto di deporre per evitare il capomafia
Ma se la Corte lascuiasse a casa il boss imputato il procedimento potrebbe azzerarsi
di Bruno Tinti


Io ho studiato diritto penale sul miglior manuale che ci sia mai stato: quello del prof. Francesco Antolisei. Faceva sembrare facili le cose difficili, il che è prerogativa esclusiva di chi sa davvero quello che dice. Ed era solito utilizzare esempi, allegorie e metafore (spesso caratterizzate da un humour inaspettato) che scolpivano l’argomento. Fra queste, una è conosciuta da tutti: “Non si possono raddrizzare le gambe ai cani”. Intendeva dire che, presa una strada sbagliata, non c’è modo di farla sembrare giusta.
Nel 1990 il giudice veneziano Felice Casson invitò il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga a testimoniare nel processo Gladio. Cossiga rifiutò e Casson rinunciò. Il giudice aveva alcune alternative. Poteva sollevare conflitto di attribuzioni avanti alla Corte Costituzionale; poteva ordinare formalmente a Cossiga di indicare una data in cui fosse possibile sentirlo presso il Quirinale; e perfino ordinarne l’accompagnamento coattivo (sempre presso il Quirinale). La legge, insomma, obbligava il Presidente della Repubblica a testimoniare; ma il giudice decise di non iniziare una guerra che, probabilmente, temeva di non poter vincere. Il potere della forza ebbe la meglio sul potere della legge.
La stessa cosa è successa quando Napolitano ha preteso la creazione di un nuovo codice di procedura penale, costruito apposta per lui dalla Corte Costituzionale, per evitare che vi fosse il pericolo che taluno (giudici, avvocati, cancellieri, poliziotti), infrangendo la legge, rendesse noto il contenuto delle sue imprudenti telefonate con l’indagato/imputato Mancino (processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia). E adesso aspetto con ansia (e solidarietà per i miei ex colleghi) quello che succederà se Napolitano, citato come testimone avanti alla Corte di Assise di Palermo (mediante audizione presso il Quirinale), si rifiuterà di deporre.
IL RISCHIO C’È perché, dopo un tira e molla francamente poco dignitoso, affidato a volenterosi portavoce ufficiosi, sembrava che il Presidente avesse deciso di deporre. Le sue resistenze rendono legittima la supposizione che questa disponibilità derivasse più da una (corretta) valutazione delle conseguenze negative del rifiuto sul piano politico e della pubblica opinione che da un istituzionale rispetto delle norme di legge.
Ora però Napolitano si trova in una situazione che – pare – non gli piace per nulla. Totò Riina, imputato nel processo in questione, ha maliziosamente fatto sapere che intende presenziare all’udienza in cui il Presidente sarà sentito in video conferenza. È stato quasi sempre presente, è un suo diritto esserlo; avrebbe anche potuto non dire nulla e attendere il giorno dell’udienza per presentarsi in aula “frisco come un quarto di pollo”, secondo la fantastica prosa di Camilleri. Invece ha anticipato le sue intenzioni. Il che significa che i suoi avvocati parteciperanno all’udienza e, sempre come prevede la legge, avranno il diritto di interrogare il Capo dello Stato. Elementi concreti non ce ne sono; ma, se tanto mi dà tanto, che Napolitano sopporti che i legali di Riina gli pongano domande pare difficile. Da qui la possibilità che ricalchi le orme del suo poco illustre predecessore e si rifiuti di deporre con la ben nota motivazione del “io so’ io e voi …”.
GLI SPAZI a sua disposizione per evitare un simile arrogante affronto alle istituzioni repubblicane (non gli piacerà, ma la Corte di Assise di Palermo è tra queste) sono in effetti inesistenti. In particolare Napolitano non può pretendere che Riina non sia presente in udienza, (seguendo la deposizione in video conferenza) né che i suoi avvocati omettano di fargli domande. L’imputato ha diritto di essere presente al suo processo (art. 484 e 420 bis codice di procedura) e se, essendo detenuto, vuole presenziare e non lo portano in aula, si verifica una nullità assoluta (art. 178): processo da rifare.
Ed è qui che torna a proposito Antolisei. In un Paese come il nostro, l’esercizio illegale del potere ha successo. Però, proprio come un cane, ha le gambe storte; fuor di metafora, è ingiusto.

La Stampa 4.10.14
Dramma (e rivolta) degli orchestrali “Se l’avesse fatto Alemanno...”
I musicisti annunciano: “Faremo ricorso, l’articolo 18 esiste ancora. Per poco”
di Maria Corbi

qui

La Stampa 4.10.14
Marino: “Sì, licenziare è di sinistra: così rifondiamo l’Opera”
“Nessun desiderio di applausi a buon mercato Ma una scelta di responsabilità: rifondare con il merito”
intervista di Fabio Di Martini


Nel suo meraviglioso studio in cima al Campidoglio, il sindaco di Roma ammette che non è stata una decisione facile, perché il licenziamento dalla sera alla mattina di 182 musicisti impiegati è una roba che non si era mai vista prima in Italia, eppure se si chiede ad Ignazio Marino se quella possa passare alla storia come una decisione di “sinistra”, lui annuisce senza esitazioni: «Sì, l’unica azione veramente di sinistra era proprio questa: rifondare l’Opera. Non liquidare il Teatro e neanche chiamare una star come rattoppo. Una decisione a prima vista choccante. ma che potrà far rinascere il Teatro». In un Paese che scopre di aver vissuto per decenni sopra le proprie possibilità e che non sprofonda grazie alle riserve accumulate nelle famiglie, tocca ad uomini della sinistra - Renzi a palazzo Chigi, Marino al Campidoglio, alcuni sindaci in giro per l’Italia - tagliare, scontentare, affrontare decisioni complicate. 
In queste ore prevalgono gli applausi di chi dice, così non poteva andare avanti così: la sua è una scelta che “chiama” consenso? Come in tutte le crisi, non c’è il rischio di assecondare il bisogno collettivo di capri espiatori?
«No, guardi in un momento così drammatico nella nostra storia, da parte nostra non c’è alcun desiderio di applausi a buon mercato. Ma una scelta di responsabilità: un anno fa, dopo aver preso atto dei debiti immensi tollerati nel passato, abbiamo subito ridotto i contributi (che sono restati comunque i più alti rispetto agli altri Teatri italiani) e le spese, riuscendo ad aumentare gli spettacoli, ma il buco di bilancio restava grave e ci siamo anche trovati anche nell’imbarazzo internazionale di spettacoli cancellati...».
Uno “sciopero selvaggio”...
«Posso immaginare una persona che, un anno prima, aveva acquistato un biglietto a Sidney per venire a Roma e godersi uno spettacolo a Caracalla. Arriva con questa emozione in un luogo nel quale la storia della lirica vive dentro la storia dell’archeologia. E poi, lo dico con grande rispetto, alle 21 vede salire sul palco Carlo Fuortes che dice: scusate questa sera non c’è l’orchestra, ci sarà soltanto il pianoforte. Quattromila persone, metà straniere, ricevono questo schiaffo in faccia: un brutto segnale per la Capitale d’Italia».
Ma davvero l’unica soluzione era licenziare? 
«Avevamo tre strade: trovare un rattoppo attraverso una grande figura che assumesse la direzione, ma così avremmo lasciato marcire i problemi. Potevamo chiudere il teatro, ma sarebbe stato ancora più drammatico. Per tanti motivi. Per dirne uno: nel teatro sono custoditi 60.000 costumi catalogati dal 1920, indossati da personaggi come la Callas...». 
E invece sono scattati i licenziamenti...
«Sì, alla fine l’unica possibilità era intraprendere un’ azione veramente di sinistra: rifondare tutto sulla cultura del merito».
Che significa?
«Sono sicuro che ora potrà nascere un’associazione degli stessi orchestrali e coristi e da altri che vogliano concorrere per avere un contratto col teatro dell’Opera. Si chiama esternalizzazione, sembra una brutta parola ma non lo è: significa che il Teatro selezionerà i migliori e lo farà sulla base di un contratto con tutte le protezioni per chi vi lavora. Una scelta fatta sul merito, come è accaduto in altri capitali europee: a Vienna, Londra, Parigi, Madrid».
Una scelta di razionalizzazione: perché di sinistra?
«Perché una amministrazione di sinistra non deve cercare di sopravvivere, ma cercare di migliorare le strutture che amministra. E quindi vanno prese decisioni che possono apparire drastiche, però possano far rinascere un Teatro che continui ad essere motivo di orgoglio» 
Una decisione, la sua, che un anno fa sarebbe stata inimmaginabile...
«In questo Paese i tempi della cronaca sono così veloci che portano un po’ di nebbia nella memoria. Nel 2009 mi candidai un po’ temerariamente alle Primarie del Pd contro Pier Luigi Bersani. Dissi in tutto il Paese, tra l’altro, che non bisognava conservare l’articolo 18, ma puntare su uno Statuto dei lavori, per non mantenere diritti speciali ad alcuni lavoratori, ma allargando i diritti a tutti i lavoratori precari. Allora quella visione ottenne il 14%, oggi con Renzi questa impostazione è largamente maggioritaria».

La Stampa 4.10.14
Le reazioni politiche


Cgil, Cisl e Uil tentano di marciare uniti sul caso del Teatro dell’Opera di Roma, ma i sindacati sono spaccati sul licenziamento di orchestra e coro deciso dal Cda. E la Cisl attacca duramente la Cgil: «colpa anche dei vostri scioperi». Dunque per ora si manifesterà divisi, in attesa del coordinamento nazionale di lunedì dei lavoratori degli Enti lirici. Intanto il ministro della Cultura Dario Franceschini torna a difendere il sovrintendente Carlo Fuortes e la drammatica decisione dei licenziamenti che ora rischia di scuotere anche la maggioranza che sostiene Ignazio Marino: Sel infatti condanna la decisione del Cda. Il Day After della lirica capitolina è una ridda di dichiarazioni delle tante sigle sindacali in campo, già divise sul piano di rilancio di Fuortes e sul relativo referendum tra i lavoratori, vinto dal sì. «L’apertura della procedura di licenziamento collettivo dei lavoratori di orchestra e coro è inaccettabile», scrivono i segretari del Lazio di Cgil, Cisl e Uil. Ma la Cisl accusa la Cgil: «L’atteggiamento tenuto nei mesi scorsi da parte della Cgil e dei sindacati autonomi con gli scioperi in occasione della stagione estiva di Caracalla e la decisione di non firmare il piano di risanamento, ha danneggiato il teatro e ogni iniziativa sindacale intrapresa». Al fianco del sovrintendente si schiera di nuovo il ministro Franceschini. «Fuortes sta da mesi facendo un lavoro positivo e importante con la situazione più difficile rispetto a tutte le altre. Andrà avanti nel suo lavoro. Anche perché la scelta l’ha fatta con il pieno sostegno dei consiglieri di amministrazione e dei soci che questi rappresentano». Non è d’accordo il presidente del partito di Franceschini, Matteo Orfini, che twitta: «Se davvero per l’Opera l’unica soluzione è questa, il sovrintendente che non ne ha trovate altre dovrebbe condividere il destino dei lavoratori».

La Stampa 4.10.14
Cosa succederà ora ai 184 musicisti e coristi?


Quanti musicisti sono coinvolti?
Sono 184 i musicisti dell’orchestra e del coro, che saranno esternalizzati. Dunque via al licenziamento collettivo.
Che cosa li aspetta nelle prossime settimane?
Il primo passo sarà che entro 45 giorni sindacati e teatro di dovranno confrontare sulla legge 223, attivata dal cda del Teatro dell’Opera.
Esisterà una trattativa?
Sono previsti trenta giorni per provare a mediare, una trattativa che avrà un tavolo aperto al ministero dei Beni Culturali.
Quando diventeranno effettivi i licenziamenti collettivi, secondo la norma?
Ci vogliono 75 giorni prima che scattino i licenziamenti collettivi annunciati l’altro ieri al termine del board.
Quale potrebbe essere la soluzione più probabile a breve termine?
Da gennaio orchestra e coro si unirebbero sotto forma di cooperativa esterna, e saranno rimessi sotto contratto, a tempo indeterminato
Cosa fanno gli altri grandi teatri?
L’unico grande esempio di teatro lirico che non abbia un’orchestra stabile in Europa è il Real di Madrid. Per il resto dal Metropolitan di New York al Covent Garden di Londra, dall’Opera di Parigi, ai teatri di Lione, Barcellona, San Francisco, Sidney, hanno tutti orchestra e coro stabili.
Le altre grandi orchestre come Berliner e Wiener come funzionano?
I primi sono organizzati in una Fondazione, proprietaria del Teatro. Nel cda entrano anche i musicisti. Gli sponsor principali sono Deutsche Bank e Allianz. Gli 80 elementi dei Wiener, invece, sono finanziati dal Teatro di Vienna. Hanno un numero di rappresentazioni superiore alla media italiana, e esiste una formazione bis per esibizioni in altre sale.
Adesso il teatro rischia di chiudere?
I musicisti sostengono che senza la prima dell’Aida prevista a novembre il teatro «sarà morto per sempre». Dal mondo della musica arrivano molti messaggi di solidarietà (tra i primi quelli dei colleghi del Regio di Torino). Esistono molti dubbi che possa realmente funzionare un’orchestra esterna in una città dove è già presente una delle orchestre più importanti d’Italia come quella di Santa Cecilia. Il supercommissario alle fondazioni liriche, Pierfrancesco Pinelli, incaricato del loro risanamento, dice che il decreto Valore Cultura del 2013 non prevede il licenziamento dei dipendenti «semmai la loro messa in mobilità e la destinazione ad altri incarichi». L’orchestra del Teatro dell’Opera sta continuando le prove della Cenerentola di Prokofiev: potrebbe essere un segnale di speranza.

Corriere 4.10.14
I licenziati dell’Opera: tutti pronti a fare ricorso
Prima protesta davanti al Campidoglio. Il giuslavorista: lo scontro penalizza tutti
di V. Ca.


Si preparano le carte, si consultano gli avvocati. Quando arriveranno le lettere di licenziamento, i sindacati chiederanno il primo tavolo entro sette giorni. Intanto partiranno i primi ricorsi dei 182 orchestrali e coristi dell’Opera di Roma. La conflittualità sindacale ha provocato un ulteriore buco economico di 4 milioni e 200 mila euro, e l’addio di Riccardo Muti. Il sindacato si è spaccato sul piano di risanamento, indispensabile per non chiudere il teatro e avere i fondi «speciali» del governo. Ma la maggioranza dei dipendenti favorevole all’accordo, che appartiene alla Cisl e alla Uil, stamane davanti al teatro terrà una manifestazione di solidarietà nei confronti dei «ribelli» della Cgil e della Fials. La Cgil ha anche chiesto alle altre sigle di fare fronte comune, ricevendo un secco «no»: solidarietà ai colleghi licenziati e basta. Ieri alcuni occupanti del cinema America, a un mese dallo sgombero, hanno consegnato al sindaco una lettera di vicinanza ai lavoratori dell’Opera. Il capogruppo capitolino di Sel Gianluca Peciola dice: «È l’esportazione del modello cinese».
È la giornata dei paradossi. Il centrodestra si schiera con la Cgil (Maurizio Gasparri: «A Roma c’è sbando totale, quella dell’Opera è solo l’ultima folle decisione»); il centrosinistra appoggia compatto il sindaco Marino e il sovrintendente Fuortes. Compatto tranne il presidente del Pd Matteo Orfini, che in un tweet scrive: «Se l’unica soluzione è questa, il sovrintendente che non ne ha trovate altre dovrebbe condividere il destino dei lavoratori». E Luigi De Magistris, sindaco di Napoli sospeso dalle funzioni, a orchestra e coro romani offre un imprecisato «asilo culturale». Il giudice del Lavoro dà ragione alla Cgil nella sentenza in cui si stigmatizza la condotta antisindacale «per aver usato musica preregistrata al balletto Il Lago dei cigni allo sciopero proclamato in dicembre dall’orchestra».
Sul licenziamento collettivo, primo caso in Italia, il giuslavorista Michele Tiraboschi dice: «È la fotografia di un Paese che non riesce a fare le cose col buon senso e va al muro contro muro. Da una parte c’è l’esigenza di cambiare in modo morbido rispetto alla tradizione e allo stato sociale che non va smantellato; dall’altra, se si rifiuta il cambiamento e si tira la corda, arriva chi ordina di ripartire da zero. E alla fine sono tutti sconfitti».

il Fatto 4.10.14
Gli orchestrali della Cgil
“Impugneremo le decisioni del Cda”

”Valuteremo la possibilità d’impugnare le decisioni del Cda in sede legale, oltre che sindacale”. È quanto minaccia Pasquale Faillaci, rappresentante sindacale della Cgil all’Opera di Roma. “La scelta assunta non è certo la soluzione per un teatro che, solo fino a pochi mesi fa, era ritenuto uno dei migliori del mondo sotto la guida del maestro Muti”, spiega uno dei sindacalisti additati come responsabili della situazione. Secondo Faillaci le decisioni prese rappresentano “il fallimento culturale dell’Istituzione, cioè della missione dei teatri. Liquidare i complessi artistici corrisponde alla dismissione del core business del teatro”. Rispetto alle polemiche relative allo scontro sindacale dei mesi passati, il sindacalista ribadisce la necessità di “un confronto sereno, come abbiamo auspicato e chiesto da sempre e che mai siamo riusciti ad avere”. Per Faillaci, infatti, la questione principale è stata la mancanza di un confronto: “Abbiamo sempre appreso le cose attraverso i giornali e tramite comunicazioni ufficiali. Hanno sempre preso delle decisioni senza mai misurarsi con il sindacato”.

il Fatto 4.10.14
Via il Coro, il suo direttore resta pagato 99mila euro
Addio all’orchestra, si salvano 248 persone tra tecnici impiegati e dirigenti con stipendi alti
Rimane anche il capo ufficio stampa: per lui 80mila euro l’anno
di Emiliano Liuzzi


All’azzeramento dell’Opera di Roma manca solo un’immagine: quella della violinista di Atene che suona con le lacrime agli occhi per l’ultima volta, prima di perdere il lavoro. Nella distanza tra Grecia e Italia poco cambia: 182 orchestrali che forse non suoneranno neppure l’ultima. Perché è assai difficile che l’Aida, prevista per il 27 novembre, vada in scena: mancano gli orchestrali e i coristi, cacciati con un tweet, e manca un direttore che da Chicago, dove guida la Filarmonica, ha fatto sapere di non essere più disponibile per Roma. “Causa mancanza di serenità”, firmato Riccardo Muti. Dieci giorni dopo l’Opera è stata azzerata. Via il cuore, restano i dirigenti: non c’è chi fa volare gli strumenti, ma un plotone di impiegati e dirigenti che mantengono saldo il loro posto. Illogico, se vogliamo. Ma gli impiegati a cottimo non esistono ancora, i musicisti sì. Chissenefrega se poi sono bravi o meno, se rappresentano un’eccellenza: la cultura viene evocata in campagna elettorale, poi si applica un po’ alla buona.
DECISIONE sofferta, come dicono il ministro Dario Franceschini, il sindaco Ignazio Marino, il soprintendente Carlo Fuortes. “Con Muti sono fuggiti gli sponsor”, spiegano, “le casse sono vuote”. Ma più che vuote sembrano svuotate: 30 milioni di euro è il buco certificato, nonostante sia stato tenuto nascosto per anni. Non sappiamo come il vecchio e nuovo Consiglio d’amministrazione non se ne fossero accorti. Trenta milioni. “Avevano bisogno di un colpevole, lo hanno trovato in noi”, spiega una musicista, nascosta dall’anonimato per evitare “ulteriori ritorsioni”, dice lei. “Io guadagnavo 1600 euro al mese. Mi sembra che un addetto stampa ne prenda 80 mila all’anno, di euro. E il loro posto non è stato toccato”.
Il vertice, a parte il soprintendente, che ha un rimborso spese di 13 mila euro l’anno, e il Cda, che si riunisce per prestigio, ma senza nessun gettone di presenza, costa qualcosa come un milione di euro all’anno. Poi c’è lo stipendio per gli impiegati, in totale 248, che non verranno licenziati. Per ora. Anche perché più che di crisi quella in scena a Roma assomiglia molto a una bancarotta, visto che il teatro romano ha accumulato nel tempo più di trenta milioni di debiti, apparsi da un giorno all’altro, e che, nel gioco dello scaricabarile, vengono imputati alla precedente amministrazione. Più di 30 milioni di debiti e un deficit calcolato in 12 milioni.
IMPIEGATI da pagare. E dirigenti. Se Riccardo Muti aveva accettato a costo zero, sono 95 mila gli euro che percepisce ogni anno Alessio Vlad, direttore artistico. Roberto Gabbiani, invece, direttore di un coro che non c’è più, di euro ne percepisce 99 mila, Stefano Bottaro, direttore delle risorse umane, poi, è sotto contratto a 90mila euro l’anno. Maurilio Fraboni, direttore dei servizi generali, è a circa 93mila. E, non ultimo, il capo ufficio stampa, Filippo Arriva, che costa all’Opera 80mila euro l’anno. Stipendi elevati se si considera che, mediamente, uno strumentista costa dai 38mila ai 42mila euro l’anno, quasi la metà dei dirigenti. Il risparmio, con l’operazione licenziamenti, è calcolato in 3 milioni e spiccioli, ma la gestione del personale, nel totale, ne costa almeno 9. E senza il sipario che si alza saranno guai per tutti. “In realtà”, spiega Simona Marchini, membro del Cda, “gli spettacoli si faranno. E si faranno con gli orchestrali che erano assunti a tempo indeterminato. Questa è una condizione che abbiamo posto in maniera netta”.

il Fatto 4.10.14
L‘ex sindacalista
Sergio Cofferati “Volevano aprire ai privati, hanno fatto un disastro”
intervista di Sal. Can.


Una sera, all’Opera di Roma, anche Sergio Cofferati fu contestato. “C’era la prima di Prova di Orchestra di Giorgio Battistelli. Gli Amici dell’Opera, capitanatti da Silvana Pampanini, avevano organizzato la contestazione contro un’opera moderna che per loro costituiva una provocazione. E trattandosi, come nel film di Fellini, di una rappresentazione in cui il sindacalista aveva un ruolo negativo, gli insulti non mi risparmiarono”. Cofferati, famoso melomane, sa di cosa parla quando parla di teatro e lirica. E non ci sta a scaricare tutto sulle spalle dei lavoratori.
Cosa non funziona in questa vicenda?
I problemi nascono in prevalenza dalla legge che ha istituito le fondazioni. Sono state prese a modello le fondazioni anglosassoni. Obbedendo all’ideologia – perché sempre di questo si tratta – secondo cui esiste il primato dei privati, al loro ingresso nel Cda non è corrisposto un investimento finanziario.
Privati spilorci?
A differenza del mondo anglossassone la legge italiana non offre adeguati vantaggi fiscali a chi investe. Per cui il loro contributo è stato irrilevante. Sul piano della certezza degli investimenti si è tradotto in un vero dramma. Il pubblico ha continuato a fare la parte primaria ma le risorse sono progressivamente calate. Gli equilibri nella gestione sono diventati sempre più difficili.
Il problema, quindi, non è solo Roma?
Ci sono almeno sette-otto fondazioni che si trovano sull’orlo del baratro. Il caso di Roma però dice che di fronte a un dramma che incombe non si affrontano i problemi nell’ordine giusto. Ma dalla coda. Si stritola l’anello più debole.
Ma i lavoratori non se la sono cercata?
No, si è voluto caricare sulle loro spalle la decisione del maestro Muti di andarsene. Ma nella sua lettera non c’è riferimento al sindacato. Secondo me, invece, ha capito che l’istituzione stava crollando e se ne è andato.
La vicenda romana dimostra che in Italia si può licenziare?
Dimostra soprattutto che se non ci fosse stata la discussione sui licenziamenti e la teorizzazione che è giusto che un’impresa faccia quello che vuole, il Cda dell’Opera non avrebbe preso la decisione che ha preso.
Colpa di Renzi?
Quando si crea un clima in cui il tema del licenziamento viene affrontato dando la colpa ai lavoratori e in cui tutti i problemi si possono risolvere dicendo che si può licenziare, i risultati sono questi.
C’è una precisa responsabilità del sindaco Marino?
Il Cda deve prendersi le sue responsabilità, non può scaricarle. Se il teatro va male la colpa non è mica del coro. Può costare troppo, può essere un problema nell’equilibrio dei conti ma non sono gli orchestrali a gestire il teatro. Se il teatro è stato portato al collasso ci sono responsabilità.
Del Cda e del suo presidente, che è il sindaco Marino?
Certo, anche del suo presidente.

il Fatto 4.10.14
Come le suonano ai lavoratori
Il caso di Roma dimostra che in Italia è possibile licenziare, eccome
Nel 2013 la mobilità è aumentata del 39%
Secondo l’Ocse la protezione degli occupati è in caduta libera
di Salvatore Cannavò


I 182 licenziamenti annunciati dall’Opera di Roma dimostrano quanto la polemica sull’articolo 18 sia strumentale. In Italia, infatti, licenziare è possibile. La vicenda dell’Opera, così, potrebbe essere riassunta nell’articolo 182: “Licenzia quando vuoi, come vuoi, quanto vuoi”. A ogni difficoltà economica, prima di ogni ristrutturazione importante, le aziende possono infatti mandare via i lavoratori in eccesso.
LA LEGGE che consente il meccanismo infernale, quella invocata dal Consiglio di amministrazione dell’Opera, è la 223 del 1991 applicabile per motivi di crisi, di ristrutturazione aziendale o di chiusura dell’attività nelle aziende sopra i 15 dipendenti. L’azienda, in questo caso, deve informare le rappresentanze sindacali, rivolgersi alla Direzione provinciale del lavoro e specificare i motivi che hanno portato alla decisione del licenziamento. Indicare, poi, le misure con cui intende ridurre l’impatto di tali licenziamenti. I sindacati, entro sette giorni, hanno la facoltà di esaminare la richiesta e tentare di trovare un accordo, con il quale si possono individuare, sulla base della legge, i criteri del licenziamento. Questa prima fase può durare 45 giorni al massimo dopo la quale si apre una seconda fase, presso la Direzione provinciale del lavoro che, a sua volta, dura al massimo 30 giorni. Ci sono quindi 75 giorni per concludere la vicenda romana. Una volta definite le procedure di licenziamento, occorre individuare i criteri con cui licenziare i lavoratori. La legge 223 stabilisce alcuni paletti: i carichi di famiglia, l’anzianità del lavoratore, le esigenze tecniche, produttive e organizzative dell’impresa. Le parti possono derogare dai principi di legge ma senza alcuna discriminazione e con “razionalità”. I lavoratori licenziati sono iscritti nelle liste di mobilità e hanno diritto alla speciale indennità, che però è stata eliminata dalla Fornero e sostituita, dal 2017 in poi, dall’Aspi. La pratica dei licenziamenti collettivi è abbastanza diffusa e si è ampliata maggiormente dopo la riforma del 2012 nota per le modifiche della Fornero all’articolo 18. La legge 92/2012, infatti, ha allentato alcuni vincoli della vecchia 223 rendendo più semplice il ricorso al licenziamento collettivo. Il risultato è quello rilevato dal recente Rapporto sul mercato del lavoro pubblicato pochi giorni fa dal Cnel. Se, fino al 2008, l’indice Ocse che misura il grado complessivo di protezione dell’occupazione, era rimasto in Italia stabile a 4,13 (il massimo è 6 per una protezione completa mentre zero indica una flessibilità assoluta), da allora in poi è sceso drasticamente a 3,75. “Considerando congiuntamente – scrive il Cnel - il grado di protezione fornito nel caso dei licenziamenti individuali e collettivi attualmente l’Italia risulta essere addirittura più flessibile della Germania, al cui modello la riforma Fornero si era all’epoca ispirata”. La libertà di licenziare, quindi, è stata al centro delle riforme già avvenute nel mercato del lavoro e i suoi effetti si sono già fatti sentire.
LA CONFERMA è fornita dai numeri Inps relativi alle indennità di mobilità. Come abbiamo visto, la mobilità è la speciale indennità che si concede a quei lavoratori licenziati nei procedimenti collettivi. È pari all’80% della retribuzione teorica lorda comprensiva solo delle voci fisse in busta paga. Dopo il primo anno, scende all’80% dell’indennità percepita nel primo anno e dura da 12 mesi a 48 mesi a seconda dell’età o della collocazione di un’azienda nel Mezzogiorno. Per il 2013 l’Inps ha speso circa 2 miliardi di euro per finanziare questo ammortizzatore sociale oltre a 1,390 milioni per i contributi figurativi. Più importante, però, è il dato relativo alle domande presentate: 217.597 che rappresentano un balzo del 39% rispetto al 2012. Un vero e proprio boom che riguarda, soprattutto il Sud d'Italia, con il 38% dei beneficiari, seguiti da quelli del Nord-Ovest con il 26%. In Italia si può licenziare. E infatti si licenzia. Il costo è a carico dello Stato.

il Fatto 4.10.14
Campidoglio Tevere controcorrente
Lo vedi, ecco Marino contro il primoviolino
di Antonello Caporale


A nessun altro sindaco sarebbe venuto in mente di licenziare in tronco gli orchestrali del teatro dell’Opera. Magari ha torto marcio anche questa volta. Magari avrebbe fatto meglio a risolvere le impuntature dei primi violini e dei secondi e dei terzi e concedere i 190 euro al giorno di diaria (oltre le spese) per le trasferte, contro i 160 (più spese) offerti e rifiutati. E richiedere al governo di ripianare i 30 milioni di euro di buco accumulati in questi decenni sbarazzini. Ma si è presentato a Roma con la sua faccia, ha firmato lui, non si è nascosto dietro un drappo di velluto.
IL SINDACO Ignazio Marino sarà pure un signore eccentrico, un pedalatore peripatetico, un medico dal carattere permaloso, astronauta della politica che non conosce il valore della prudenza e il senso della complessità della sua funzione di sindaco. Lo si accusa di essere incompetente almeno quanto sprovveduto, e lunatico, inconsistente, forse fanatico, accentratore, sicuramente unfit per il governo della Capitale d’Italia.
Non c’è un solo vivente di Roma, nativo o di passaggio, che gli risparmi qualcosa. Roma fa schifo, Marino pure. Di lui sono stufi i vigili urbani e i costruttori, gli intellettuali e i tassisti, i borgatari e i residenti del centro storico, i commercianti, gli studenti, i rom di periferia e i senzatetto storici, Renzi e Alemanno. Anche volendo prendere in considerazione tutto il male che Marino si fa da solo, spesso con dichiarazioni e provvedimenti avventati, sembra troppo. Questo sindaco ha trovato il Campidoglio sepolto da una coltre di debiti, commissariato dal governo e coperto dalla vergogna di avere un esercito di dirigenti macchiati dalla corruzione (ieri l’ultima visita della Guardia di finanza per sospette tangenti di ex assessori), con le società partecipate sull’orlo del fallimento: all’Atac, la società dei trasporti, s’inguattavano i biglietti venduti, a Roma Metropolitane si giocava a flipper invece di controllare i lavori per la nuova linea della Metro C, l’Ama non raccoglieva i rifiuti ma espandeva Malagrotta, il centro nevralgico della munnezza finanziaria, il numero dei funzionari infedeli faceva paura, come pure quello dei commercianti evasori, dei costruttori affamati, dei controllori estorsori, dei vigili addormentati, della criminalità di strada e di Palazzo.
E SI PUÒ DIRE, con tutto il demerito che si vuole, che abbia almeno tentato di ripulire il volto sporco della Capitale. Marino non sarà un gigante e ha iniziato col piede sbagliato e forse continua col piede sbagliato. Ma se non avesse, come primo atto, chiuso al traffico veicolare i Fori Imperiali (e grande è stato lo scandalo!), adesso che i cantieri occupano metà della carreggiata quel luogo sarebbe divenuto una ciminiera caput mundi.
Ha cambiato tutti i dirigenti delle società partecipate, magari incompetenti ma ancora non disonesti, garantito al bilancio comunale una via d’uscita anche se i soldi servono a coprire i buchi più che a sviluppare gli investimenti.
HA PRESO di petto le bande criminali che hanno l’appalto dei tavolini all’aperto del centro storico, interessato tra l’altro a un vasto piano di ammodernamento della rete dei servizi, ha risolto con il minimo (e resta ugualmente ingiusto) dei danni economici la vertenza della Metro C che finalmente fa intravedere una data di fine lavori, ha chiuso Malagrotta, grazie alla Regione sta restituendo un futuro al muro urbano di Corviale, l’altra vergogna della periferia.
Sarà pure sbrindellato, ma non ha finora fatto marachelle con i costruttori, ha tenuto a distanza i mezzadri delle clientele, i dispensatori di favori a la carte. È solo e ha davanti a sé a una crisi economica che riempie gli animi di collera e mangia ogni civile convivenza. Fa poco, che è quasi niente, ma a lui per la verità non hanno dato un euro bucato in mano. Gli altri, quelli che profittavano dei debiti per fare altri debiti, invece dove sono, cosa fanno? C’è qualcuno che chieda conto?

il Fatto 4.10.14
L’ex sindaco Alemanno
“La sinistra voleva più cultura?”

”In questa vicenda cade miseramente tutta la retorica della sinistra a favore degli investimenti sulla cultura” dichiara l’ex sindaco Gianni Alemanno. “Dove è finita l’indignazione di fronte alle sciagurate frasi di Tremonti secondo cui ‘con la cultura non si mangia’”?

Repubblica 4.10.14
Opera di Roma, tutti contro tutti sit-in contro i licenziamenti ma sindacati e Pd si spaccano
La rabbia dei dipendenti in piazza: “Andremo in tribunale” Il sovrintendente prova a mediare con l’appoggio del governo
di Giovanna Vitale


ROMA Fellini aveva previsto ogni cosa. Con quasi quarant’anni d’anticipo aveva raccontato nel suo Prove d’orchestra il caos, l’anarchia, il tutti contro tutti che oggi regna in un Teatro dell’Opera sconvolto dal licenziamento di 182 musicisti. Che il giorno dopo restituisce echi di battaglie future e tentativi di riconciliazione.
Ci prova per primo il governatore del Lazio Zingaretti, socio della fondazione lirica, a rassicurare: «Non c’è nessuna volontà di chiudere il teatro né tantomeno di lasciare qualcuno a casa. Al contrario, rispetto all’ipotesi del fallimento, la scelta è quella di rilanciare l’Opera con un nuovo modello». È il sovrintendente Fuortes a indicare tempi e modi: «Le buste paga saranno assicurate fino a Natale e intanto si andrà avanti con le procedure di legge, compresa l’apertura di un tavolo di mediazione coi sindacati». Dopodiché, dal 1° gennaio, si potrà partire con orchestra e coro esterni, ma legati al teatro da «contratti quadriennali prorogabili. Saranno i musicisti a decidere in quale forma mettersi insieme, se cooperativa o associazione. E l’organico potrebbe essere anche uguale a quello attuale », precisa il sovrintendente, calcolando il risparmio in 3,4 milioni.
Ma i 92 orchestrali e i 90 coristi colpiti dalla “cura Fuortes” non si fidano. Convocati in Campidoglio da Sel (che al grido di «Roma non sia il laboratorio per l’articolo 18» minaccia di uscire dalla giunta Marino) o riuniti in assemblee volanti, annunciano azioni legali che però al ministero della Cultura hanno già studiato come neutralizzare: cancellare coro e orchestra dalla pianta organica del Costanzi impedirebbe il reintegro del giudice del lavoro. Mentre i sindacati continuano a litigare fra loro: «Gli scioperi a Caracalla voluti da Cgil e autonomi ha danneggiato il teatro e i lavoratori» tuona la Fistel-Cisl che per oggi annuncia insieme alla Uil un sit in davanti al Teatro dell’Opera.
Una baraonda che finisce per spaccare il Pd. «Se davvero per l’Opera l’unica soluzione è questa, il sovrintendente che non ne ha trovate altre dovrebbe condividere il destino dei lavoratori», il tweet di Matteo Orfini, rilanciato dall’ex segretario Cgil Cofferati che parla di «liberismo senza freni». Attacchi contro cui scende in campo il ministro Franceschini: «Fuortes sta facendo un lavoro importante e sono certo andrà avanti con il pieno sostegno dei soci». Consenso che però lascia fredde le altre fondazioni d’Opera: «Quello di Roma è un modello non esportabile, non è la soluzione ai nostri problemi, i grandi teatri hanno tutti orchestre stabili» reagisce Walter Vergnano, presidente dell’associazione lirici italiani e sovrintendente al Regio di Torino, i cui dipendenti hanno solidarizzato coi colleghi del Costanzi. Che a sera incassano la condanna della Fondazione lirica per comportamento antisindacale: il 21 dicembre Fuortes non poteva, per dribblare lo sciopero dell’orchestra, far danzare il Lago dei Cigni su una base preregistrata. «E speriamo sia solo la prima».

Repubblica 4.10.14
Il violinista
Parla uno degli orchestrali messi alla porta “Non chiamateci privilegiati, volevano farci fuori ci hanno teso una trappola e ci siamo cascati”
“Sì, prendiamo anche la diaria per l’umidità ma basta darci dei ladri ora siamo sulla strada”
Il contratto è basso, all’estero prendono il triplo. Ora a cinquanta anni continuerò a suonare da precario
intervista di Anna Bandettini


ROMA «Non so che pensare né cosa fare. Così vado in teatro e suono come ho sempre fatto. La lettera di licenziamento non l’ho ricevuta, ma io non sono un sindacalista e dunque non me ne intendo, non conosco le procedure. Devo aspettare la lettera? Devo andare subito da un avvocato? Ma con cosa? A me nessuno ha detto niente, la notizia dei licenziamenti l’ho letta ieri su internet, tutti sulla strada». È un violinista dell’orchestra che parla, spaesato, arrabbiato, incapace di adattarsi a ciò che pareva sicuro e oggi invece non conta più. Piange e si arrabbia, si arrabbia e piange. Chiede l’anonimato, perché non vuole ritorsioni, «anche se tanto ormai, è tardi».
È tardi anche per pentirsi. Lei era tra quelli che hanno scioperato?
«Sì».
Mai pensato che questo vi avrebbe portato ai ferri corti con la dirigenza del teatro, che era meglio trattare?
«Sì, visto come sono andate le cose, siamo caduti in una trappola. Fuortes ha buttato benzina sul fuoco, aizzando le divisioni interne all’orchestra, e da lì noi abbiamo cominciato a fare cose sconclusionate».
Che cose sconclusionate?
«I tre scioperi a Caracalla si sono rivelati controproducenti».
Controproducenti anche i sindacati che non si sono seduti al tavolo delle trattative e che ancora due settimane fa boicottavano il referendum tra i lavoratori sul piano industriale?
«Quando è stato chiaro che i conti non tornavano, che c’erano i buchi e che dovevamo aderire alla legge Bray, una parte del sindacato chiedeva come garanzia la pianta organica, per sapere i numeri del personale. Ma sui fogli presentati non c’erano mai. Lì è iniziato il braccio di ferro».
Le assemblee durante le prove con il maestro Muti, l’assalto al suo camerino...
«Le giuro davanti a mia figlia che non c’è mai stato assalto al camerino di Muti. È propaganda, davanti a cui non c’è modo di difendersi. E quanto all’assemblea era regolarmente chiesta».
E l’affronto del Giappone: trenta orchestrali che non vanno in una tournée voluta da Muti.
«Le garantisco che io sarei andato. È stato il sovrintendente a decidere che 30 di noi non dovevano andare. Io ero uno di questi. Sono testimone in prima persona».
Parliamo delle vostre famose indennità.
«È una diaria che spetta a tutti per contratto ».
Indennità mensa.
«Sono 7 euro al giorno per mensa o vestiario. Sa quanto costa un frac? Anche mille euro».
Indennità strumento.
«Lo strumento è tutto a carico del lavoratore. Se lei suona un fagotto o un controfagotto può anche pagare 70mila euro. Con l’indennità ci pago a stento la manutenzione. È poca roba».
La più astrusa: l’indennità Caracalla per l’umidità?
«Basta passare per ladri. Certo può essere una indennità assurda perché la prendono anche gli impiegati, ma per chi suona all’aperto è importante: c’è chi si è comprato uno strumento apposta per non rovinare quello personale. E basta davvero passare per privilegiati. Il contratto nazionale è basso, i sindacati lo hanno firmato lasciando ai contratti integrativi gli incentivi per arrivare a uno stipendio normale. All’estero prendono il triplo. Guadagno 40mila e rotti euro l’anno con le indennità e 12 scatti di anzianità che corrispondono a 2200 euro mensili».
Ma quanti giorni lavora? Il primo violino suona 65 giorni in un anno.
«Lavoro sei giorni a settimana, 28 ore a settimana. Lavoro per quanto programma la direzione, se non programmano non è colpa mia. Per contratto io devo suonare, come in tutte le orchestre del mondo, il 50 per cento sulle produzioni e 50 per cento essere a disposizione ma con parti studiate. È ovvio uno dice lavori solo il 50 per cento... Ma provi a suonare un violino che dopo venti minuti o va dal fisioterapista o sta male col collo. Non è giusto? Ma è così».
Lavorare la metà in un anno per 2400 euro al mese è un privilegio.
«Ma ripeto sono contratti nazionali, non nostre richieste. Magari Fuortes ha ragione: l’orchestra non è sostenibile per un teatro, ma tanto valeva dirlo subito, avrebbe evitato di dividerci, avrebbe evitato di arrivare a questa cosa umiliante, Secondo me era tutto preordinato».
Preordinato?
« A posteriori mi sembra un disegno preparato. I soldi per mantenere l’Opera ai livelli che voleva Muti non ci sono. Tanto vale fare in modo che il maestro se ne andasse e addossare la colpa agli scioperanti. Ci siamo cascati tutti, forse anche Muti. Sapeva che non avremmo mai fatto sciopero sulle sue produzioni. Se ne è andato perché ha capito che in un teatro di serie B lui che è il numero uno non poteva starci».
Che clima c’è a casa da ieri?
«Mia moglie piange sulla mia spalla. I miei genitori dicono che mi aiuteranno. Ma a 50 anni... Farò l’orchestrale in una cooperativa lavorando quando mi chiamano. Un precario in un’orchestra in cui Muti non metterebbe mai piede».

Repubblica 4.10.14
Il direttore della Staatsoper di Vienna
“Muti s’è trovato davanti un muro ecco perché se ne è andato”
di Carlo Moretti


ROMA «In un teatro lirico importante, se si fanno più di 100 recite l’anno devi avere un’orchestra in casa, altrimenti non è possibile mantenere il livello qualitativo necessario». Dal 2010 sovrintendente della Staatsoper di Vienna, un teatro da 300 recite l’anno, il francese Dominique Meyer commenta così la decisione del Teatro dell’Opera di Roma di licenziare in tronco l’Orchestra e il Coro. Il Costanzi è proprio al limite: la scorsa stagione nel teatro di Roma le recite sono state 89 ma per il 2014-2015 il sovrintendente Carlo Fuortes aveva già annunciato il loro aumento a 115. Al Teatro dell’Opera di Roma dicono di aver voluto seguire il modello europeo dell’esternalizzazione di orchestra e coro, ma Meyer da Vienna offre un punto di vista diverso. «Nella maggior parte dei Teatri d’Opera in Europa le orchestre sono stabili: è così a Londra, a Parigi, a Vienna, a Berlino, a Monaco» dice. «Certo esistono anche altri esempi, come l’orchestra del Teatro degli Champs-Elysées a Parigi o come l’orchestra da Camera dell’Opera di Losanna, entrambe esterne, ma fanno un numero di recite decisamente inferiore. Il problema di un’orchestra esterna è la sua inaffidabilità quando si tratti di eseguire un programma diverso ogni sera. Per non parlare poi delle difficoltà di gestione del coro nel caso delle riprese di allestimenti».
Meyer dice che la sua reazione all’annuncio dei licenziamenti è stata di «tristezza di vedere un’istituzione così importante ridotta in questa situazione nel paese che ha inventato l’Opera. Muti ha lasciato Roma perché si è trovato di fronte a un muro. La cultura dello sciopero, certo, che danneggia tutti ma anche problemi di sistema: ricordo ancora l’impressione del discorso di Barenboim all’inaugurazione della Scala, quando disse che lo Stato deve sostenere i teatri» .

Repubblica Roma 4.10.14
Opera, scontro in Comune
Sel: stop ai licenziamenti o sarà crisi in maggioranza
Peciola: “No al laboratorio per l’abolizione dell’articolo 18”
Il Pd con Cosentino difende Fuortes: “Ha il nostro appoggio”
di Paolo Boccacci


È UNA bomba politica quella innestata dai licenziamenti all’Opera. E il segnale parte subito in mattinata. Sel contesta il provvedimento e minaccia di ritirarsi dalla maggioranza che sostiene la giunta Marino. Una posizione durissima: «Ritirare i licenziamenti dei componenti dell’orchestra e del coro dell’Opera e riaprire il confronto con i sindacati».
L’attacco va in scena al circolo del partito all’interno del Costanzi. «Marino, sindaco e presidente della Fondazione Teatro dell’Opera, non si è mai confrontato né con la maggioranza né con le forze sindacali» spiega il capogruppo in Campidoglio, Gianluca Peciola. «È un’iniziativa molto grave per gli effetti su 180 persone e le loro famiglie e per il valore simbolico. Non si era mai visto a Roma un licenziamento collettivo. La capitale non può essere il laboratorio del superamento dell’art.18 nella pubblica amministrazione, anche se si tratta di una fondazione ». Poi Imma Battaglia dà l’affondo: «La giunta di cui facciamo parte è a rischio per un sacco di cose» afferma. «Dovevano consultare noi consiglieri, che siamo stati eletti. Invece l’ho saputo dai giornali. Che ci stiamo a fare in questa maggioranza?».
Per il Pd ribatte il segretario romano Lionello Cosentino: «In un Paese civile non si sciopera a tutte le prime dell’Opera. Né si possono alzare le tasse e aumentare i finanziamenti del Comune per il teatro, quando si tagliano le linee dell’Atac in periferia. Esternalizzare orchestra e coro è una scelta coraggiosa che può servire a salvare l’Opera. Fuortes ha deciso la cosa giusta e ha tutto il mio sostegno ».
Tenta la mediazione il presidente della Regione, Nicola Zingaretti: «Non c’è nessuna volontà di chiudere il teatro, né tantomeno di lasciare qualcuno a casa. Al contrario, rispetto a una situazione drammatica e alla concreta ipotesi del fallimento, la scelta è quella di rilanciarlo rifondando il sistema delle relazioni e utilizzando un nuovo modo di lavorare che non intacchi gli artisti e i lavoratori. Anzi — aggiunge il presidente della Regione — nelle condizioni date è necessario dare a tutti una nuova speranza fondata sul rilancio. Chi l’ha fatto in Europa ha vinto. Ora ci sono 75 giorni per valutare e decidere sulle caratteristiche di questo nuovo rapporto che potrà e dovrà vedere gli artisti protagonisti».
Anche l’assessore capitolina al- la Cultura, Giovanna Marinelli, si schiera con il sovrintendente Fuortes. «Il risanamento dei conti e il rilancio, si partiva da un buco di 12 milioni, rischiavano di essere compromessi da una situazione di conflittualità e instabilità che è arrivata a determinare la rinuncia del maestro Muti. La strada scelta è certamente difficile ma è l’unica che possa far superare questi scogli e l’unica capace di mostrare una via di rilancio per il teatro».
Lapidario il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini: «Pieno sostegno a Fuortes, certo che il sovrintendente andrà avanti nel suo lavoro. Anche perché la scelta di queste ore l’ha fatta con il pieno sostegno dei consiglieri di amministrazione e dei soci che questi rappresentano».

Repubblica Roma 4.10.14
E ora i musicisti fanno mea culpa “Abbiamo sbagliato a tirare la corda”
Fuori dal Costanzi i lavoratori si sfogano “Ma è stato l’Ente a alzare sempre il tiro”
di Alessandra Paolini


IL TEMPO di fumare nervosamente una sigaretta e poi giù di nuovo in assemblea per parlare di un futuro che per ora sembra non esserci più. Coristi, orchestrali sindacalisti. Sul piazzale del Teatro dell’Opera c’è un cielo cupo che annuncia l’acquazzone che di lì a poco scenderà implacabile e violento.
Scenografia perfetta per un pomeriggio in cui tra lampi e nuvole c’è solo ormai lo spazio per la “resa”. Per la marcia indietro. Per i rimpianti. «Se avessimo immaginato che sarebbe finita così, con i licenziamenti, quest’estate non avremmo alzato il tiro. Ma noi volevamo un teatro all’altezza del maestro, per questo a Caracalla abbiamo scioperato». Fabio Morbidelli suona il controfagotto ed è uno dei pochi che sul piazzale ha voglia di parlare. Lui è una delle prime parti (primo musicista) della Cgil, uno di quegli orchestrali che ha preso parte alla battaglia contro Fuortes e la ristrutturazione del Costanzi. «Volevamo un teatro di Serie A - continua non abbiamo mandato a monte la Bohéme perché volevamo più soldi, ma solo un piano industriale all’altezza. Adesso, invece chi resterà, potrà giocare solo in serie B».
In assemblea si parla della paura del futuro. I volti sono tesi, e la rabbia di chi in tutti questi mesi ha contrastato la linea dura e quel maledetto piano lo ha firmato, fa recriminazioni. «Per colpa di pochi abbiamo pagato tutti - dice Denise Lupis del sindacato Libersind Confsal - La politica di Fials Cisal e Cigil è stata scellerata e ci ha portato a questo strazio. Il piano di Fuortes era “firmabilissimo”. Nessun teatro in Italia aveva un accordo così garantista. Nessuno veniva licenziato e lo stipendio restava integro fino a dicembre ».
Ora che fare? Armare una battaglia legale perché l’articolo 18 va rispettato e 180 persone non si possono licenziare dall’oggi al domani? Certo, l’assemblea è d’accordo. Ma se non funzionasse? Accettare l’ipotesi “cooperativa”? «Il Teatro non è un call center è fatto dall’amore di chi ci vive dentro», dice con tono severo un’altra “prima parte”. Qualcuno accarezza l’idea di andare all’estero. Anche in Cina magari «almeno lì i musicisti sono rispettati». Sono i più giovani a pensare di potersi lasciare tutto alle spalle. Ma al Teatro dell’Opera l’età media è alta. «E io a 50 anni dove vado?», si lamentano in tanti. Una cosa è certa. Le battaglie si vincono insieme. E pur di evitare i licenziamenti, i “buoni” e i “cattivi” stavolta sembrano pronti a ricompattarsi.
Non piove più. Fra un ora si alzerà il sipario della Cenerentola. Durante il balletto il maestro Nir Kabaretti prima di cominciare il secondo atto si rivolgerà al pubblico: «L’orchestra in questo momento così difficile mostra il suo attaccamento al teatro». Grandi applausi, lo spettacolo ripartirà.

il Fatto 4.10.14
Lavorare alle Camere: barba, capelli e privilegi
di Ezio Pelino


I Presidenti delle Camere, sotto la spinta dell’indignazione collettiva in tempo di crisi, si sono dati da fare. Il loro impegno ha prodotto una sforbiciata alle faraoniche retribuzioni dei dipendenti del Parlamento. Ma si è trattato solo di una sforbiciata, che non ha spazzato via i privilegi. Si sarebbe dovuto tagliare, per cominciare, il numero del personale. Sono 2.100, più di due per parlamentare. Una piccola città. Le nuove retribuzioni, poi, continuano a essere un privilegio di casta. Qualche esempio. Al vertice, il segretario generale, dagli attuali 480.000 euro passerà a 360.000, continuando a surclassare la più alta carica dello Stato, il Presidente della Repubblica, che con i suoi 240.000 euro annui dovrebbe rappresentare, per tutti, il tetto retributivo. Alla base, i tecnici, fra cui, inopinatamente, i barbieri. Ma perché i barbieri nel Parlamento, scarseggiano, forse, a Roma, le barberie? A loro la bella cifra di 99.000 euro annui. Non parliamo dei commessi che guadagnano molto più di un chirurgo di fama.
Stupefacente, poi, il comportamento dei sindacati confederali che, fieri “operaisti” nelle piazze, in Parlamento, sinceri alleati di una ventina di sindacatini corporativi, hanno difeso e continuano a difendere i privilegi con una lotta, come sempre, dura senza paura. Occorrerebbe una seria inchiesta che svelasse l’ “impazzire” delle retribuzioni e individuasse i partiti e i politici responsabili dello scandaloso fenomeno, per il quale, però, l’indignazione della gente non è quella che dovrebbe esserci. Il Parlamento, presidio della democrazia, è diventato luogo di privilegi, una bengodi per pochi, negazione della democrazia!

Corriere 4.10.14
Il rapporto Eurydice
Stipendi insegnanti, monito Ue: «In Italia sono congelati»
Il rapporto sulla posizione dei docenti in 33 Paesi europei rileva: in 16 Paesi la busta paga degli insegnanti cresce, nel nostro resta ferma

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il Fatto 4.10.14
Magno Gaudio, il rettore è l’ombra di Frati
A La Sapienza di Roma finisce l’era del barone più discusso d’Italia, ma il nuovo Magnifico è un suo uomo di fiducia
di Carlo Di Foggia


Solo il tempo fugherà la sensazione che ieri aleggiava all’ombra della Minerva: come il Gattopardo, anche Sapienza cambia per non cambiare. Rispettati i pronostici della vigilia, l’Ateneo più grande d’Europa (103 mila iscritti) si affida nuovamente a un esponente dell’area medica: Eugenio Gaudio, preside della facoltà di Medicina, per vent’anni feudo del suo predecessore, il plurindagato (e spesso archiviato) Luigi Frati con cui ha condiviso 9 anni da vice negli uffici della presidenza.
La scelta non era ampia. Dopo il ritiro simultaneo di 4 candidati (su sei) già dopo il primo turno, Gaudio ha ottenuto poco meno del 60 per cento dei voti, battendo l’unico sfidante rimasto, il prorettore ed ex capo dipartimento di Fisica Giancarlo Ruocco. Non è un mistero che il preside di Medicina puntasse a un risultato ancora più netto e le 217 schede bianche uscite ieri dalle urne raccontano di un tentativo di prolungare i giochi. Non è servito: toccherà a questo 58 enne medico cosentino vicino all’Opus Dei e con ottimi sponsor nella pastorale universitaria guidata dal vescovo Lorenzo Leuzzi ricevere la pesante eredità dell’era Frati.
I LEGAMI con quest’ultimo sono noti. Nel 2000 Gaudio fu chiamato a Medicina proprio da Frati. Mentre il magnifico risanava i conti a suon di tagli e accorpamenti di facoltà, medicina è cresciuta: triplicandosi. Tutto, raccontano i maligni, per accontentare i fedeli Gaudio e Adriano Redler, ex assessore e consigliere regionale, poi forzista e candidato alle ultime Europee.
Come spesso accade nel primo ateneo romano, i legami si dispiegano in famiglia. Al dipartimento di Carlo Gaudio, fratello di Eugenio, il magnifico Luigi affidò il figlio Giacomo, cardiochirurgo nella stessa facoltà del padre, dove hanno trovato posto anche la moglie e l’altra figlia, Paola, laureata in giurisprudenza ma ordinario di medicina legale, che invece rientra proprio nel dipartimento di Eugenio. A maggio scorso, nella struttura, un concorso è stato annullato dal Tar del Lazio: quello per la cattedra di Medicina legale, affidata a Vittorio Fineschi, ma prima ricoperta da Paolo Arbarello, uno dei luminari della materia in Italia, scalzato dopo 16 anni di servizio per decisione “unilaterale” (si legge nella sentenza) del rettore e del Senato accademico. La causa? “Incompatibilità” con un altro incarico ricoperto dal docente, di cui però erano stati informati sia Frati che Gaudio. Insomma, una figuraccia. Negli ultimi tempi, il preside di medicina ha poi curato per conto del rettore le trattative con la Regione per risolvere la grana del Policlinico. “Gaudio ha preso il massimo dei voti degli studenti (l’80 per cento, ndr): questo è il segnale di un vero rinnovamento”, spiega il magnifico uscente. Vero, due delle più grandi sigle si erano da tempo schierate a favore del rettore di medicina, vuoi perché la più importante, “Vento di cambiamento”, è nata e cresciuta in seno alla facoltà, vuoi perché condivide con i vertici l’origine cosentina. E dalla Calabria proviene una cospicua fetta del personale de La Sapienza.
DAL CANTO suo, il neo rettore ha già fatto sapere di non voler parlare del suo predecessore. Il magnifico ha provato fino all’ultimo a guidare i giochi, cercando di convincere Gaudio ad accettare i voti, e un ruolo in rettorato, di Tiziana Catarci, l’altro candidato (poi ritiratosi). Nei corridoi dell’amministrazione raccontano di una riunione durata un’ora e iniziata poco dopo la chiusura dei seggi al primo turno: nulla da fare, Gaudio ha proseguito da solo. “Non farò l’ex, mi dedicherò ad altro” ha tagliato corto ieri Frati. Non è un mistero che l’ormai ex rettore ambisca alla guida della fondazione Sapienza, che incassa gli affitti del gigantesco patrimonio immobiliare dell’Ateneo e gestisce i lasciti testamentari, conservando il ruolo di direttore del prestigioso centro Neuromed del Molise. Più che il passato però, è il presente a porre le sfide più difficili. La cura Frati ha riportato in attivo i conti (da meno 60 a più 8,5 milioni nel 2013) ma in 10 anni Sapienza ha perso circa 40mila iscritti. Nel complesso Sapienza muove un volume di risorse che supera il miliardo di euro e tra docenti e personale amministrativo conta più di diecimila unità
Di certo, l’ambizione non manca. Durante la campagna elettorale Gaudio ha promesso l’impossibile: la promozione di tutti gli abilitati, scatenando in rete la presa in giro degli studenti.

il Fatto 4.10.14
Fiera dell’Innovazione
Giannini, balbettii hi-tech: fischiata

Alla giornata inaugurale della Maker Faire, la fiera-incontro della comunità digitale, c’era anche il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. Ma, interpellata da alcuni studenti universitari sulle politiche in materia di innovazione e sviluppo delle tecnologie digitali, la ministra non sapeva che dire. Un generico “ce la possiamo fare” non è bastato ai ragazzi, che hanno contestato la Giannini fischiandola durante i suoi interventi.

Repubblica Roma 4.10.14
Cinema America, l’appello degli Oscar “Basta perdere tempo la sala va riaperta”
La lettera firmata da trenta attori e registi
In campo da Bertolucci a Salvatores e Sorrentino
di Mauro Favale


«CON rispetto pedalando », sono partiti da via Natale del Grande, davanti al Cinema America sgomberato un mese fa, per arrivare in bicicletta fin sotto il Campidoglio, in una delle giornate più complicate per la cultura romana, 24 ore dopo la decisione dei licenziamenti collettivi all’Opera di Roma. Si sono mescolati con gli orchestrali che stavano protestando, hanno condiviso la piazza con gli ex occupanti del Valle che attendevano un segnale da parte del Comune sulle delibere di iniziativa popolare sugli spazi sociali firmate da 32mila persone, in una significativa coincidenza di appuntamenti.
Insieme alle biciclette, i ragazzi del Cinema America por- tavano una lettera indirizzata al sindaco Ignazio Marino e al presidente della Regione Nicola Zingaretti. Perché, al di là delle dichiarazioni d’intenti, trenta giorni dopo la chiusura della storica sala di Trastevere, «il sindaco ancora non si è espresso. Questa è una città in cui la cultura non vale nulla. Ne vogliamo una diversa, sociale», dice Valerio Carocci, anima dell’associazione che in queste settimane si è trasferita in un piccolo forno attaccato al vecchio cinema.
Una lettera per dare una scossa alle istituzioni, firmata dai più importanti attori e registi italiani, uniti nella battaglia per “salvare” la sala che, secondo il progetto della proprietà, dovrebbe lasciare spazio a una quarantina di miniappartamenti. Da Paolo Sorrentino a Toni Servillo, da Bernardo Berto- lucci a Francesca Archibugi, da Francesco Bruni a Gianluca Arcopinto. E poi, ancora, tra gli altri, Francesca e Cristina Comencini, Pappi Corsicato, Carlo Degli Esposti, Matteo Garrone, Alessandro Gassman, Elio Germano, Ugo Gregoretti, Luigi Lo Cascio, Valentina Lodovini, Daniele Luchetti, Mario Martone, Valerio Mastandrea, Giuliano Montaldo, Rocco Papaleo, Giuseppe Piccioni, Marco Risi, Alessandro Roja, Francesco Rosi, Gabriele Salvatores, Silvia Scola, Ettore Scola, Carlo Verdone, Daniele Vicari e Paolo Virzì.
«Il cinema America non può e non deve rimanere chiuso — scrivono — come lo è stato per 14 anni. L’importanza ed il valore sociale e culturale dell’esperienza sono stati riconosciuti da tutti, trasversalmente». E aggiungono: «Al di là della salvezza dell’immobile in quanto tale, l’enorme valore che va riconosciuto al cinema è proprio quello di luogo di socializzazione e crescita culturale collettiva, che l’esperienza attivata dai giovani ha consentito. Non possiamo accettare il temporeggiamento di chi su di esso vuole speculare cercando di alzare il prezzo. Per questo Marino e Zingaretti manifestino pubblicamente quali sono le intenzioni di Comune e Regione per garantire una veloce riapertura dell’America».

La Stampa 4.10.14
Svezia: riconosceremo lo Stato della Palestina
L’annuncio nel discorso al Parlamento del neo premier Loefven: «Il conflitto può essere risolto solo con una soluzione a due Stati»
di Monica Perosino

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Corriere 4.10.14
Stoccolma e quel «sì» alla Palestina


Il riconoscimento di uno Stato senza lo Stato è come bere acqua da un miraggio», commenta l’intellettuale arabo Khaled Diab. Eppure quell’illusione di una fonte nel deserto delle trattative di pace offerta dal nuovo governo svedese ha dissetato le esigenze diplomatiche di Abu Mazen. Davanti all’Assemblea generale dell’Onu, il presidente palestinese ha proclamato/minacciato che la sorgente dei negoziati è tappata, avrebbe cercato nuovi sentieri per arrivare a una nazione autonoma: le Nazioni Unite, l’abbraccio dei Paesi occidentali. Il nuovo premier svedese Stefan Lofven annuncia in Parlamento di voler riconoscere la Palestina, nell’Unione Europea l’hanno già fatto Malta e Cipro ma in anni lontani e diversi. Adesso Stoccolma potrebbe influire sulle scelte dell’Ue, seguita da altre capitali, spingere perché le pressioni su Benjamin Netanyahu diventino concrete: il premier israeliano ha dimostrato di non credere, commentano gli analisti, nei due Stati. Il rischio dell’isolamento potrebbe fargli cambiare idea.

La Stampa 4.10.14
Gaza, le ragioni di un conflitto infinito
Nuovo capitolo nello scontro Israele-Palestina: ma perché da oltre 60 anni vince la guerra?
di Enrico Caporale

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La Stampa 10.9.14
Non sono terroristi ma solo nemici
di Abraham B. Yehoshua

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Repubblica 4.10.14
L’Is prende Kobane, allarme dei curdi: “Sarà un massacro”
di Alberto Stabile


BEIRUT KOBANE è caduta, afferma la Cnn, o sta per cadere, dicono i suoi pochi, stremati difensori. Sottoposta da giorni al martellamento dell’artiglieria del Califfato, che l’accerchia su tre lati, la cittadina del Kurdistan siriano al confine con la Turchia implora l’intervento della Coalizione messa in piedi da Obama contro lo Stato Islamico. Ma finora ha ottenuto soltanto sporadici bombardamenti aerei che non hanno fermato l’avanzata dell’esercito jihadista. Per di più, paradossalmente, Kobane si ritrova al centro di una rischiosa contesa tra la Turchia e la Siria, dopo che il parlamento di Ankara ha autorizzato il governo ad intervenire militarmente in territorio siriano e il Ministero degli Esteri di Damasco ha tacciato la stessa decisione come «un atto d’aggressione ».
Oltre ad un dramma in fieri, che s’è già in parte consumato con l’esodo forzato di 160mila abitanti costretti ad abbandonare le loro case per rifugiarsi al di là del confine turco, la vicenda di Kobane offre un chiaro esempio della complessità del conflitto e dell’intreccio d’interessi politici e territoriali che frenano lo slancio della Coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Considerata dagli strateghi dello Stato Islamico un tassello essenziale per completare la conquista del Nord-Est della Siria, e per mettere un piede nel Kurdistan siriano per lanciare un’offensiva a tenaglia contro il Kurdistan iracheno, Kobane, è diventata suo malgrado un baluardo di resistenza contro l’avanzata degli uomini del Califfato. Lì, a Kobane, il regime di Damasco aveva rinunciato da tempo ad esercitare il suo dominio, offrendo alla popolazione curda una qualche autonomia in cambio di una sorta di non belligeranza, o non adesione alla rivolta anti-Assad.
Ma le milizie curde del YPG, o Unità di difesa popolare, raccolte sotto le insegne del Partito dell’Unione Democratica (PYD), non hanno le armi, i mezzi e le eventuali vie di fuga per opporsi efficacemente ai jihadisti. I quali a Kobane hanno fatto arrivare i carri armati, i blindati e l’artiglieria, in gran parte di fabbricazione americana che costituivano il bottino di guerra strappato all’esercito iracheno in rotta, durante la conquista di Mosul, nel giugno scorso. Inoltre, la frontiera turca può rappresentare, ed ha rappresentato, per i curdi siriani una valvola di sfogo umanitaria ma non una retroguardia. Tant’è che le forze armate di Ankara, dislocate al confine, si sono finora limitate ad accogliere i rifugiati e ad osservare l’assalto jihadista a Kobane, ma hanno impedito ai volontari curdi desiderosi di unirsi alla difesa della città assediata di attraversare la frontiera.
Adesso la resistenza di Kobane sembra giunta allo stremo. Dalle colline in territorio turco si possono vedere chiaramente gli sbuffi di fumo e polvere provocati dai colpi dell’artiglieria jihadista che s’abbattono sul centro abitato. «Siamo asserragliati in una piccola area assediata», ha gridato al telefono il comandante dei 300 uomini e donne rimasti a difender Kobane, Asmet al Sheikh. «Nessun rinforzo ci ha raggiunti e il confine è chiuso. I nemici sono a meno di un chilometro. Temo che ci sarà un massacro ».
Con l’aviazione della Coalizione concentrata su obbiettivi situati soprattutto nel Nord dell’Iraq, la pressione internazionale è cresciuta nei confronti della Turchia. Finora Ankara aveva evitato d’impegnarsi esplicitamente e concretamente a fianco della Coalizione. Temendo che la campagna decisa da Obama possa avvantaggiare Assad, il presidente Erdogan e il premier Davotoglu hanno ripetuto che i bombardamenti da soli non servono a battere lo Stato Islamico se non si stabilisce contemporaneamente una no-fly zone sulla Siria. Il che equivale a muovere guerra contro il regime di Damasco, dal momento che imporre la no-fly zone implica la necessità di neutralizzare militarmente la difesa anti aerea siriana. Un escalation che non sembra, allo stato attuale, fra le priorità di Obama.
Di più, Ankara respinge l’idea che ad avvantaggiarsi dei bombardamenti della Coalizione siano i curdi siriani del PYD, alleati del partito dei Lavoratori del Kurdistan, o PKK, che da trent’anni conduce una guerriglia per l’indipendenza del Kurdistan turco (anche se da un anno le due parti si sono impegnate in un lento processo di pace) e viene considerato dalla Turchia e dagli Stati Uniti un’organizzazione terroristica.
Così, quando il parlamento di Ankara ha approvato la mozione del governo, autorizzando incursioni militari in territorio siriano e il premier Davotoglu ha dichiarato che la Turchia avrebbe fatto tutto il possibile «per evitare la caduta di Kobane nelle mani dei jihadisti» (salvo a specificare che cosa) sono stati gli stessi curdi ad accusare il governo di Ankara di spargere parole al vento.

il Fatto 4.10.14
L’Isis più forte dei curdi e turchi messi insieme
Kobane, al confine tra Siria e Turchia, è nelle mani dei jihadisti
di Cosimo Caridi


Istanbul Nel buio della sera una fisarmonica, un liuto e due chitarre riempiono di suoni una piccola via a pochi passi dalla torre di Galata. Sono le note tristi di una, ormai vecchia, melodia della cantante libanese Fairouz o ‘Nostra ambasciatrice presso le stelle’ come è soprannominata nel mondo arabo. Una ventina di ragazzi seduti in terra cantano e si guardano, cercando conforto l’uno nell’altro. Come i genovesi che nel 1300 costruirono la torre, qui anche loro sono stranieri: sono siriani. “Questi sono giorni di festa, giorni da passare in famiglia. Nell’ultimo mese sono riuscita a parlare con mio padre solo una volta, mi ha detto di non tornare a casa”. Nada è arrivata a Istanbul un anno fa, ha studiato in Siria “ma la guerra ha portato via anche il lavoro, sono qui con mio fratello per cercare il nostro futuro”.
Oggi comincia l’Eid al-Ahda, festa islamica che ricorda il sacrificio dell’agnello immolato da Abramo al posto del figlio Isacco. Tutta l’orchestra improvvisata di Galata si ritrova davanti a una tavola imbandita, mangiano l’agnello della festa. Le stesse pietanze della tradizione sono consumate dalle centinaia di migliaia di siriani che vivono nei campi profughi nella zona meridionale della Turchia.
Dall’inizio del conflitto in Siria oltre 1,2 milioni di persone hanno cercato rifugio nel “sultanato” di Erdogan, tra questi almeno 900mila si trovano nelle zone di confine a sud del paese. Solo a settembre hanno attraversato la frontiera oltre 160mila profughi curdi, scappavano dall’avanzata del Isis. Kobane, la più grande città curda in Siria, a pochi centinaia di metri dal confine con la Turchia, è sotto assedio da 15 giorni.
Ieri i miliziani del califfato sono entrati in città, si combatte tra le case. Sono centinaia i curdi, anche turchi, che nelle ultime settimane si sono scontrati più volte con la polizia turca. Vogliono entrare in Siria per combattere contro l’Isis. Ankara ha intenzione arginare la minaccia del califfato, ma senza lasciare troppa forza alla minoranza curda.
AD AGOSTO ERDOGAN, subito dopo essere stato eletto presidente, aveva reso chiaro il suo progetto di ‘nuova Turchia’: aspira a farla diventare una “potenza umanitaria” per la gestione delle crisi della regione. A inizio settimana l’esercito turco, per numero di effettivi secondo solo a quello Nato, ha posizionato 10mila uomini al confine.
Le frontiere con Siria e Iraq, i due paesi in parte sotto il controllo del califfato islamico, sono lunghe oltre 1.200 chilometri, e per difenderle giovedì sera il parlamento turco ha dato il via libera a possibili azioni militari in “territorio straniero”. L’opposizione ha votato contro e da mesi denuncia l’operato di Erdogan accusato di aver giocato con il fuoco aiutando in Siria i gruppi armati jihadisti contro Bashar al Assad e contro i curdi-siriani.
Queste polemiche sembrano essere state spente ieri dal premier turco Ahmet Davutoglu “faremo tutto quanto in nostro potere per impedire che Kobane non cada” nelle mani dell’Isis. Per Damasco un possibile intervento militare turco in territorio siriano sarebbe considerato “un’aggressione”.
Sin dall’estate del 2011 Ankara si è schierata contro Assad, ma mai ha preso parte ad azioni militari contro il regime. In tutta la Turchia, ma soprattutto nelle zone turistiche, aumenta la paura della risposta a una possibile operazione militare in Siria. La minaccia peggiore non è però rappresentata dall’esercito di Damasco, ma da possibili attentati dell’Isis.

il Fatto 4.10.14
Non solo Isis: un mare di miseria ci farà affogare
di Massimo Fini


ALL’ASSEMBLEA delle Nazioni Unite il presidente Obama ha dichiarato che quella dell’Isis “non è una guerra di religione ma una guerra contro il Progresso”. L’ha seguito il presidente iraniano Rohani parlando di “guerra contro la civiltà”. Per una volta due leader mondiali sono riusciti a guardare un po’ più in là del proprio naso. Quella dell’Isis è, per dirla con Evola, “una rivolta contro il mondo moderno”, che per il momento ha connotazioni religiose e islamiche ma che in futuro potrebbe assumerne anche altre.
Il movimento è iniziato con l’avvento al potere in Iran, nel 1980, dell’ayatollah Khomeini. Uomo di raffinata cultura e di sottile intelligenza non rifiutava la modernizzazione, ma voleva che, sul piano del costume, la struttura tradizionale del suo Paese rimanesse intatta. Naturalmente il suo successo fu dovuto anche a ragioni economiche. Nell’Iran dello Scià c’era una sottilissima striscia di borghesia ricchissima (il 2% della popolazione), il resto viveva nella miseria. Oggi, grazie alla rivoluzione khomeinista, l’Iran è diventato una potenza economica e tecnologica e anche questo spiega la singolare convergenza fra Rohani e Obama. La via indicata da Khomeini è stata poi seguita, in modo più rozzo, dal Mullah Omar e i suoi Talebani. Omar, ragazzo di campagna, accettava le conquiste della modernizzazione occidentale solo in alcuni settori essenziali (sanità, energia, trasporti), ma sognava, e sogna, il ritorno a un modo di vivere antichissimo, più semplice e più sobrio. Lo disse, senza mezzi termini, il suo luogotenente Wakil Muttawakil: “Noi vogliamo vivere la vita come la viveva il Profeta millequattrocento anni fa. Noi vogliamo ricreare i tempi del Profeta”. Poi sono arrivati quelli dell’Isis il cui obbiettivo finale è evidente e dichiarato: distruggere l’Occidente, il suo modello di vita, le sue conquiste (anche se, sul piano mediatico, utilizzano proprio la tecnologia dell’Occidente per combatterlo). Se quella dell’Isis è una rivolta contro il mondo moderno il suo bacino d’utenza potrebbe essere vastissimo. Anche in Occidente ci sono sacche di disagio profonde ed estese, che più che economiche sono esistenziali. Noi tutti, ricchi e poveri, viviamo in una condizione permanente di stress, di angoscia oscillando fra nevrosi e depressione. Siamo bipolari. Come bipolare è la società che ci siamo organizzati. Dal punto di vista etico siamo apparentemente liberi di fare tutto, ma nel contempo lo Stato si introduce nelle pieghe più intime del nostro vivere, castrando anche gli istinti più elementari (in America dare un sacrosanto calcio a un gatto rompicoglioni costa un anno di galera). Gli americani, i canadesi, gli europei che, sia pur formalmente convertiti all’Islam, vanno ad ingrossare le file dell’Isis sono la punta di lancia di questo disagio esistenziale e, domani, potrebbero diventare un esercito.
INFINE non so fino a quando le centinaia di migliaia di migranti che vengono a morire sulle nostre coste accetteranno di essere ridotti a cadaveri, galleggianti o meno, e non si rivolteranno. Abbiamo creato un mondo dove ci sono Paesi ricchissimi, al cui interno peraltro esistono sperequazioni, economiche e di status (il matrimonio di mister Clooney), incolmabili, insultanti, inaccettabili proprio nell'epoca in cui, dalla Rivoluzione francese in poi, abbiamo proclamato l’uguaglianza (Stati Uniti, Cina, Russia ne sono l’esempio palmare), un mondo circondato da un mare di miseria che, prima o poi, per una ragione che oserei chiamare fisica, ci sommergerà. E di fronte a questa rivolta globale non ci sono droni e bombe che possono salvarci. Ce le butteremmo sui piedi.
Non credo che l’Isis sia la soluzione. Ma per rispondere a Obama e a tutti gli altri siamo davvero sicuri di rappresentare il Progresso e la Civiltà? Oppure, con l’ottuso e pericoloso ottimismo di Candide, nel tentativo di creare “il migliore dei mondi possibili”, abbiamo finito per partorirne uno dei più disumani?

La Stampa 4.10.14
Hong Kong, i filocinesi all’attacco
Gruppi di teppisti picchiano i manifestanti. Gli studenti: “Stop al dialogo. Li ha assoldati Pechino”
di Ilaria Maria Sala


«Non porteremo avanti il dialogo con il governo dopo che ha lasciato che venissimo attaccati dalla mafia»: è il duro messaggio della Federazione degli Studenti di Hong Kong a meno di 24 ore da quello che sembrava un momento di svolta.
Il capo dell’esecutivo Leung Chun-ying aveva affidato alla sua vice, Carrie Lam, il compito di aprire il dialogo con gli studenti. Ma dopo una notte di calma piena d’attesa i manifestanti sono stati attaccati da gruppi di uomini. Gli aggressori sarebbero bande filogovernative, e molti leader della protesta hanno minacciato di non presentarsi ai negoziati «se il governo non impedisce immediatamente gli attacchi organizzati»
Sugli studenti, da sei giorni e sei notti accampati per le strade di Hong Kong, pesa la stanchezza. Compaiono le prime fratture tra chi vuole occupare altre strade e chi non vuole dare motivo alla polizia di caricare per sgomberare. Ieri, come se non bastasse, l’Osservatorio di Hong Kong ha continuato ad emettere avvisi di maltempo: tempesta di fulmini, ha annunciato alle due del pomeriggio, piogge battenti.
Gli studenti si sono ritrovati in poco tempo a combattere anche con l’acqua, violenta e sferzante. E poi a intermittenza, il caldo soffocante e i temporali, che ora dopo ora hanno logorato sempre più la tempra di questi ragazzini. Nel pomeriggio le cose sono ancora peggiorate e Hong Kong, la pacifica Hong Kong che ha commosso il mondo con i suoi studenti che distribuiscono fiocchi gialli, separano la spazzatura per la raccolta differenziata, dormono sotto gli ombrelli, è stata devastata dalla violenza. Teppisti, alcuni con i tatuaggi che indicano l’appartenenza al crimine organizzato, si sono scagliati contro gli studenti che occupavano un incrocio a Mongkok, quartiere popolare dove le aggressioni delle Triadi (la mafia cinese) non è rara.
La violenza è continuata, sta continuando in queste ore. Studenti presi a calci, colpiti con catene, ragazze molestate sessualmente, e una forza di polizia incapace di difendere gli aggrediti dagli aggressori. Chi si è scagliato contro gli studenti? C’erano semplici cittadini, esasperati dai disagi portati da questa settimana di occupazione e disobbedienza civile, che hanno gridato insulti, e lasciato che la frustrazione si trasformasse in parole d’odio. E c’erano quelli che andavano verso le postazioni meno difese, per distruggere le tende dei ragazzi e picchiarli, con una meticolosità che parla di un’esperienza consolidata. Contemporaneamente altri gruppi si sono scagliati contro gli studenti a Causeway Bay, quartiere del commercio, e nella loro roccaforte a Admiralty.
«È un pessimo segno - dice Jean-Pierre Cabestan, professore di Scienze Politiche all’Università Baptist di Hong Kong -. Ed è tipico della strategia di Leung: da un lato, apre al dialogo, dall’altro assolda gli elementi violenti del Dab, il Partito pro-Pechino di Hong Kong. Sono agenti del Partito Comunista a Hong Kong, ora vedremo come reagiscono le forze democratiche». Parole che sembrerebbero eccessive, ma che invece sono le stesse di Martin Lee, ex-segretario del Partito Democratico, figura storica del movimento per la democrazia: «Sono teppisti assoldati. Ci attaccano sempre. Questo è chiaramente un attacco orchestrato dagli agenti del Partito Comunista, sono attivi a Hong Kong da diverso tempo». Da parte governativa, arriva un appello a «sgombrare e riportare l’ordine», e un’allarmante riluttanza a condannare la violenza. Il movimento degli studenti di Hong Kong ha incontrato il suo nemico più temibile.

il Fatto 4.10.14
La Cina (non) è vicina
A Hong Kong arrivano gli anti-Occupy
Scontri tra fazioni: gli studenti cancellano incontro col governo
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Hong Kong Mi preoccupa soprattutto la parte occidentale di Kowloon, per il potenziale di agitatori, di elementi delle triadi e di tutto il resto”, aveva dichiarato 4 giorni fa alla Reuters Steve Vickers, ex dirigente dell’ufficio di intelligence criminale della polizia di Hong Kong. E infatti. Se stamane gli studenti erano riusciti a segnare un ulteriore punto a loro favore impedendo ai funzionari pubblici di raggiungere le proprie scrivanie senza che si arrivasse alla violenza, nel tardo pomeriggio sono cominciati i tafferugli. E non con la polizia come tutti credevano, ma con quello che è stato immediatamente chiamato il movimento Anti-Occupy.
E NON NEL QUARTIERE della City e nemmeno di fronte agli edifici governativi, ma proprio dove indicava il poliziotto in pensione. A Mong Kok, nella parte occidentale di Kowloon appunto. Mong Kok è tutt’altro mondo rispetto allo scintillante skyline di Central e Admiralty. Qui le strade sono strette e buie. È il sovrappopolato quartiere del porto, pieno di localini dubbi spesso gestiti dalle triadi. Qui nella foresta di insegne al neon, si compra e vende di tutto. Qui, già martedì una Mercedes era stata guidata a tutto gas tra i manifestanti. Il conducente era stato arrestato e nessuno si era fatto male. Ma ieri sera sembrava proprio che il quartiere si fosse ribellato ai manifestanti.
Verso sera, complice l’apatia delle forze dell’ordine, Occupy e Anti-Occupy si fronteggiavano a Mong Kok e Causeway Bay, tanto che alle 19 e 30 i leader della protesta Benny Tai e Joshua Wong si trovavano costretti a richiamare i manifestanti invitandoli a raggiungerli nella più tranquilla Admiralty. Oggi avrebbero dovuto incontrare il numero due del governo Lam, ma ieri sera hanno annunciato di aver cancellato l’appuntamento. Non contribuiscono ad allentare le tensioni le continue voci di molestie sessuali che avrebbero subito diverse manifestanti nelle aree dove il confronto tra i due schieramenti è stato più acceso. E ormai Occupy ha fatto sprofondare Hong Kong nel caos. Era ciò che si aspettava Pechino, e in cui sperava il governatore Leung quando prevedeva che gli hongkonghesi sarebbero voluti tornare presto alla loro quotidianità, che il movimento avrebbe perso l’appoggio dell’opinione pubblica e tutto si sarebbe sgonfiato senza troppo clamore. “Se voglio mangiare, devo lavorare”, gridava inferocita un’impiegata pubblica agli studenti che le avevano impedito l’accesso all’ufficio. Ma ben più grave è che ieri mattina la borsa ha aperto ancora al ribasso (-1,6) nonostante l’andamento delle altre borse asiatiche. Diversi marchi del lusso (tra cui Prada) tra il 3 e il 5 %. Le proteste sarebbero costate 200 milioni di euro solo ai rivenditori di beni di lusso di Hong Kong. E l’ex colonia britannica rimane pur sempre il luogo in cui la Repubblica popolare incontra il mondo. Più tempo si ferma, più denaro manda in fumo.

Corriere 4.10.14
L’Islamismo in Cina Il caso dello Xinjiang
risponde Sergio Romano


È lecito domandarsi (e domandare) come mai i terroristi islamici minacciano di conquistare e di distruggere l’Occidente, ma non si permettono di rivolgere le stesse minacce anche alla Cina, per esempio?
Riccardo D’Auria

Caro D’Auria,
A nche in Cina esiste una questione musulmana. Nella provincia autonoma del Xinjiang, sulle frontiere occidentali della Repubblica popolare, vivono gli uiguri, discendenti delle antiche tribu turcomanne variamente presenti in quasi tutte le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale. Sono più di 8 milioni, rappresentano il 41% della popolazione, praticano l’Islam con gradi diversi di devozione e chiedono una autonomia che fu teoricamente concessa da Mao negli anni Cinquanta del secolo scorso, ma negata di fatto dal potere centrale negli anni seguenti. Vi sono stati sporadici atti di terrorismo, anche a Pechino, e vi sono stati sanguinosi scontri nel luglio del 2009 fra gli uiguri e i residenti cinesi di etnia Han quando le autorità hanno deciso la distruzione del centro storico di Kashgar, una delle maggiori città della provincia, per fare posto a un quartiere moderno. Occasionalmente appaiono notizie sulla presenza di qualche volontario uiguro nelle milizie islamiste che combattono in Afghanistan, Iraq e Siria. Ma i musulmani del Xinjiang, come quelli dell’Asia centrale, sembrano avere una connotazione religiosa molto più sfumata e distaccata di quella che caratterizza le società del grande Medio Oriente.
Più che confessionale, quindi, il problema sembra essere soprattutto identitario. Gli uiguri vogliono usare la loro lingua nelle scuole, nelle università, nei mezzi d’informazione e chiedono autogoverno. Pechino resiste alle loro richieste perché teme e combatte tutti i fenomeni potenzialmente separatisti. Il caso del Xinjiang, quindi, non è sostanzialmente diverso da quello del Tibet. Ma nel caso della provincia musulmana, i cinesi, secondo alcuni osservatori, si sono serviti dello spauracchio dell’islamismo radicale per meglio giustificare la durezza con cui trattano gli uiguri. In un articolo dell’International New York Times del 29 settembre, uno storico americano dell’Asia Centrale, James A. Millward, ha ricordato il caso recente di un intellettuale uiguro, Ilham Tohti, che è stato condannato all’ergastolo per «incitazione al separatismo». Ma Tohti, secondo Millward, chiedeva soltanto il rispetto delle promesse di Mao.
Quanto alla sua domanda, caro D’Auria (perché i terroristi islamici non minacciano la Cina?) la ragione è soprattutto storica. Il mondo arabo fu colonizzato dagli Stati europei, non dallo Stato cinese.

il Fatto 4.10.14
Dilma Rousseff al 40%, sfida aperta al ballottaggio
Domani 142 milioni di brasiliani al 1° turno delle presidenziali
di Giuseppe Bizzarri


Rio de Janeiro Se domenica Dilma Rousseff riuscirà a farsi rieleggere sarà una grande vittoria che neanche Lula aveva ottenuto. Ma gli ultimi sondaggi svelano colpi di scena inaspettati: Marina Silva, ex ministro dell’Ambiente ed eterna rivale della Rousseff, è stata raggiunta, nella guerra delle percentuali. Secondo Datafolha avrebbe il 24% delle preferenze e Aecio Neves, il candidato conservatore del Partido da Social Democracia Brasileira, la insegue con il 21%. Ma il 40% dei voti dei 142 milioni elettori, che voteranno non solo il presidente ma anche deputati, senatori e governatori, è saldo nelle mani del 36° Presidente del Brasile. La corsa elettorale è iniziata il 13 agosto dopo l’improvvisa morte di Eduardo Campos, l’uomo di punta, candidato alla presidenza con il Partido socialista brasilero. Marina Silva è passata così dal ruolo di vice a donna in lizza per la presidenza. La sua biografia assomiglia a un film: a 14 anni era collaboratrice domestica, a 16 ha imparato a leggere e si è laureata in Storia. Da donna che arrivava dalla miseria è diventata senatrice e poi ministro. Nulla a che vedere con il passato della Rousseff, figlia di un intellettuale comunista bulgaro arricchitosi in Brasile, che sposò una professoressa brasiliana di provincia. Lezioni di pianoforte e francese hanno accompagnato la gioventù della Rousseff, nei corridoi di una grande casa a Belo Horizonte dove la famiglia vestiva con griffes europee. Una vita comoda che abbandonò dopo il Golpe, entrando nella resistenza armata nei gruppi Colina e Var-Palmares. Arrestata dai militari nel 1970, ripetutamente torturata, “la guerrigliera” uscì dal carcere di Tirandentes con 10 chili in meno e una disfunzione alla tiroide. Dilma Rousseff si trasferì da donna libera a Porto Alegre, studiò economia e partecipò alla fondazione del Partido dos Trabalhadores. Ha ricoperto varie cariche pubbliche, prima di entrare nel governo Lula e oggi, con lo stesso partito, ha raggiunto la presidenza. Dilma e Marina sono rivali politiche di lunga data. Lo sono state anche nel 2010, quando la Silva, ottenendo inaspettatamente venti milioni di voti, fu la causa del ballottaggio presidenziale tra la Roussef e José Serra. La morte di Campos è stata per l’élite conservatrice una tragedia politica ed ora non rimane che puntare sulla carismatica Marina, per riprendere il potere che da 14 anni è nelle mani dei petisti. La “Terceira Via”, la terza via che avrebbe dovuto tracciare Campos è l’eredità che Marina Silva sta raccogliendo. Una direzione politica che una parte della società brasiliana vede come un complotto: il tentativo dell’alta finanza di infiltrarsi nei partiti storici della sinistra. C’è anche chi crede che il jet di Eduardo Campos sia stato sabotato con l’aiuto della Cia. Wayne Madsen, noto reporter americano, sostiene che una sconfitta della Rousseff rappresenterebbe una vittoria per Barack Obama che preferirebbe un clima meno progressista in America Latina. Fantapolitica, chissà, ma è anche vero che la scatola nera del jet di Campos, il giorno dell’incidente, era inspiegabilmente spenta. Un’altra ombra sull’elezione, oltre ai misteri, è quella della violenza che attraversa la società brasiliana. “Mi sembra che per certi versi la situazione sia simile a quella italiana: mafia e criminalità organizzata si celano dietro le organizzazioni e le istituzioni dello Stato”, ha spiegato al Fatto Quotidiano Livia de Tommasi , professoressa di sociologia all’Università Federale Fluminense di Nitero. La sociologa è preoccupata per l’onda di violenza che pervade la campagna elettorale carioca. A pochi giorni dal suffragio elettorale, i conflitti armati tra le fazioni di narcos, nelle favelas della Maré, Rocinha e Complexo do Alemão, si sono accentuati. L’appoggio dei narcos non è cosa da poco: l’accesso alle colline delle favelas che sono uno stato nello stato, è stato concesso, dai trafficanti, solo ad alcuni candidati.

Corriere 4.10.14
I volti della follia: prima di Basaglia venne la matita di Sambonet
Psichiatria e arte, la mostra da martedì 7 a MilanoErgastoli bianchi. L’artista visitò tra il 1951 e il ’52 l’ospedale brasiliano che ispirò la riforma del celebre medico
In 70 studi e 40 disegni testimoniò il disagio mentale
di Virginia Piccolillo


All’inizio fu un tratto di matita. Quei volti alienati. Silenti. Storditi. Disperati o giulivi, ma sempre altrove. A tratteggiare con quelle linee scarne, essenziali, semplici quanto profonde, gli internati di un manicomio giudiziario, prima e in modo più efficace di tanti reportage, fu un artista più conosciuto come eccellenza del design: Roberto Sambonet. Il suo viaggio nell’orrore nei reparti dell’ospedale di Juqueri, a cinquanta chilometri da San Paolo in Brasile, tra il ’51 e il ’52, cristallizzato in 70 studi e 40 disegni smosse le coscienze e preparò il terreno per il lavoro di Franco Basaglia, che quello stesso manicomio visitò, e mirato a far sì che non esistessero più «ergastoli bianchi».
Ma così non è. In Italia sono ancora 906 gli internati negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. La legge che ne stabiliva la chiusura è stata via via prorogata. Ultima scadenza il 31 marzo 2015. Per far si che venga rispettata, la «Società della ragione onlus» che sensibilizza sui temi del carcere e dei diritti umani e sociali, ha organizzato una mostra-denuncia, curata da Ivan Novelli e Franco Corleone, basata proprio su quei disegni che Sambonet accostò poi, in un volume dal titolo Della pazzia , a scritti di autori che avevano affrontato questo tema: da Voltaire a Edgar Allan Poe, da Friedrich Nietzsche a William Shakespeare.
La mostra si aprirà martedì 7 ottobre a Milano alla Fabbrica del Vapore.
È lo stesso curatore Ivan Novelli a sottolinearne l’importanza sociale: «Sono ancora sei gli ospedali psichiatrici giudiziari aperti in Italia. Lo stesso presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel messaggio di fine anno di dicembre 2012, li aveva definiti “luoghi orrendi, non degni di un Paese civile”. Sono tre anni che si proroga la scadenza. Ci aspettiamo che le Regioni si attrezzino affinché quella del 31 marzo 2015 sia finalmente rispettata». «Il nodo della psichiatria — aggiunge Franco Corleone — non si è risolto con la chiusura dei manicomi. Basti pensare al destino da sepolti vivi di chi è ricoverato nelle strutture private assolutamente incontrollate e nei reparti di diagnosi e cura, dove spesso regna la contenzione abusiva».
Ma quei ritratti a matita o a china non sono solo una straordinaria ricognizione emotiva sul disagio mentale. Ma opere intense che segnano la maturazione artistica di Sambonet. Nato a Vercelli nel 1924, si formò all’Accademia di Brera e partecipò attivamente alle avanguardie milanesi che si riunivano al bar Giamaica.
Affascinato dal linguaggio moderno, segnato da Guernica di Picasso, venne spinto proprio dalla ricerca di qualcosa di diverso a trasferirsi in Brasile, dove scoprì quella essenzialità di tratto che sarà il segreto del suo successo come designer.
Dopo la tappa milanese, la mostra sarà a Firenze, al Teatro Chille de la balanza, San Salvi Città Aperta, dal 2 al 18 dicembre, per chiudere poi a Roma, al Museo in Trastevere, dal 24 marzo al 3 maggio.

Corriere 4.10.14
Il cinico accordo tra Stalin e Hitler
di Antonio Carioti


Visto dall’Italia, il patto fra l’Unione Sovietica e il Terzo Reich siglato 75 anni fa, il 23 agosto 1939, può apparire una semplice parentesi, cancellata dalla successiva aggressione hitleriana del giugno 1941 contro la «patria del socialismo». Infatti Benito Mussolini rimase fuori dalla guerra fino al giugno 1940 mentre i comunisti italiani nel 1939 erano ridotti al lumicino e non dovettero affrontare gli enormi imbarazzi dei loro compagni francesi. Insomma, quel trattato non ebbe grandi ripercussioni dirette sul nostro Paese. Ma solo una visione provinciale può indurre a sottovalutare la portata dell’accordo che segnò la spartizione dell’Europa orientale, con un prezzo di sangue altissimo per le popolazioni coinvolte. I suoi vari aspetti geopolitici, diplomatici e culturali sono approfonditi nel volume Il patto Ribbentrop-Molotov, l’Italia e l’Europa (1939-1941) , edito da Aracne a cura di Alberto Basciani, Antonio Macchia e Valentina Sommella (pagine 450, e 27). Si tratta degli atti di un convegno internazionale tenuto a Roma nel 2012, dai quali emerge con chiarezza, come scrive lo storico polacco Marek Kornat, che l’intesa tra i due regimi fu possibile, nonostante la distanza ideologica, perché «Hitler trovò in Stalin un partner che ragionava per categorie affini alle sue».

il Fatto 4.10.14
Gli intellettuali (ahimè) ci sono
di Maurizio Viroli


Sarà contento Matteo Renzi – che or non è molto ha tuonato “basta con gli esperti e i professori professionisti della tartina che amano fare i pessimisti e ai convegni sono i primi a buttarsi sui buffet” – di apprendere dalle colonne de La Stampa pochi giorni fa a firma di Luigi La Spina, che l’Italia non ha più intellettuali.
Non solo, precisa l’autore, non si trovano “gli eredi di Croce e Gentile”, ma neppure quelli di Pasolini e delle sue “lucciaole”, di Sciascia contro i “professionisti dell’antimafia”, di Bobbio e delle sue polemiche con Togliatti, e via discorrendo. L’epidemia non ha badato agli schieramenti politici, e sono così caduti sia gli intellettuali organici e disorganici e gli “utili idioti” della sinistra, sia le “foglie di fico” dell’incolta destra. Una vera ecatombe. La via alle oscene riforme di Renzi, in fraterno sodalizio con Berlusconi, è aperta e luminosa.
Premetto che a mio parere sarebbe assai utile avere eredi di Croce ma del tutto deleterio avere eredi di Gentile perché sarebbero o mediocri studiosi o teorici dello stato totalitario o l’uno e l’altro, e proprio non se ne avverte la necessità. Né davvero arrecherebbero qualche bene allievi dello Sciascia che accusa di protagonismo Paolo Borsellino, mentre sarebbe una benedizione avere ancora il Bobbio che discute con Togliatti e anche il Bobbio che definisce Forza Italia un partito personale ed eversivo. Di quali intellettuali parla La Spina? Se si riferisce all’intellettuale cortigiano maestro nell’arte di adulare i potenti, allora altro che morte: ce ne sono a bizzeffe e scoppiano di salute ingrassati dai consigli di amministrazione, dai grandi giornali e dalle consulenze profumate.
DI QUELLA “razza dannata” come li apostrofava Rigoletto, nel nostro povero Paese, povero anche a causa loro, non c’è mai stata e mai ci sarà inopia. Se La Spina non ci crede legga sui giornali gli articoli di tanti suoi stimati colleghi grondanti di servo encomio all’apparire dell’astro Renzi, e prima ancora in occasione della rielezione di Giorgio Napolitano, e prima ancora quando Berlusconi regnava incontrastato. Per aiutarlo posso inviargli gli articoli di Marco Travaglio che raccolgono un florilegio di adulazioni davvero mirabile, se non fosse penoso. E La Spina è troppo colto per non sapere che gli editorialisti sono intellettuali a pieno titolo.
Se invece La Spina intende dire che non ci sono più intellettuali come Emile Zola che hanno il coraggio di denunciare la volgarità, la meschinità e l’arroganza dei potenti, allora non legge i libri che si stampano. Ci sono, eccome, studiose e studiosi giovani e vecchi che non hanno avuto e non hanno paura di smascherare e denunciare ieri il ripugnante sistema di potere di Berlusconi, oggi l’arroganza infantile di Renzi, le inaccettabili interferenze di Giorgio Napolitano sul Parlamento, il sistema della corruzione politica e gli intrecci fra la mafia e la politica, per citare soltanto alcuni dei problemi sui quali ancora intellettuali degni di rispetto scrivono. Non devono fuggire all’estero per sfuggire al carcere come Emile Zola, ma stai certo, caro La Spina, che gli intransigenti in Italia pagano in altri modi. Puoi disapprovare tutto ciò che scrivono, ma non dire che non ci sono più. Avresti dovuto trovare almeno una parola di rispetto.
SOTTOLINEA La Spina che gli intellettuali non hanno più la medesima incidenza sulla vita pubblica che avevano in passato. Non ne sarei così sicuro. Ho ascoltato la medesima considerazione anche trent’anni or sono, e proprio da Norberto Bobbio il più celebre e ascoltato dei nostri intellettuali del dopoguerra. Luigi Einaudi ha scritto Prediche inutili; data di pubblicazione: 1959. Verissimo che nei talk show buffoni e provocatori fanno miglior prova di chi offre dati seri e ragionamenti sensati. Ma allora il lamento va rivolto agli organizzatori di quelle indegne gazzarre, non agli intellettuali seri che o partecipano per avere una qualche sana incidenza o non partecipano per non abbassarsi a tanta volgarità.
Insomma, se siamo inutili, morti e sepolti perché il Presidente del Consiglio non perde occasione non per criticare i nostri argomenti, impresa per lui e i suoi troppo ardua, ma per sbeffeggiarci? O siamo morti, e allora lasciateci in pace; o siamo vivi e allora provate a discutere con un minimo di serietà. Mettetevi d’accordo.

Repubblica 4.10.14
“Vietare gli Ogm è un grave danno. Non ci sono prove che siano nocivi”
Si continuano ad ignorare 15 anni di ricerche scientifiche e non ci sono evidenze sugli effetti dannosi degli organismi geneticamente modificati
Vandana Shiva? Non è una vera scienziata, le sue critiche sono vaghe e fuori luogo
di Elena Cattaneo


È OPPORTUNO e salutare, anche in funzione delle sfide che vengono dalla grave crisi economica del Paese, che si torni a parlare in dettaglio e con pacatezza di Ogm, tema controverso e vissuto a mio giudizio troppo emotivamente. È un fatto nuovo e che mi dà speranza.
Nel corso di un recente convegno organizzato a Mantova da Confagricoltura di Lombardia e Veneto si sono discusse le ragioni che impediscono di fare in Italia ciò che la Spagna fa con vantaggi per ambiente ed economia: coltivare (anche) mais migliorato con le biotecnologie. Moltissimi prodotti del made in Italy alimentare esistono grazie alla mangimistica Ogm, che importiamo dall’estero. Evidentemente non fa male né alla salute né tantomeno al gusto. Però fa molto male alle nostre tasche, visto che la bilancia agroalimentare è in deficit fisso per almeno 4 miliardi di euro all’anno da decenni. Questi sono dati certi e dimostrati.
Sono ancora in cerca di prove contro l’impiego di Ogm (mais, soia, cotone). Li sto studiando uno a uno. E’ un impegno. La letteratura scientifica è difficile, ma è pubblica e accessibile a tutti. Con l’aiuto di diversi colleghi ho capito che per alcuni Ogm, come il mais, le prove di sicurezza ambientale e per la salute umana sono esaustive e certificate. Per altri, come la colza, no. In questo caso c’è un rischio di commistione con piante affini. Tra pochi mesi scadrà anche il brevetto sul mais Ogm dopo che quello sulla soia resistente a un erbicida è appena scaduto. Alcuni Paesi si stanno organizzando per avvantaggiarsene ulteriormente. Noi no. Contro gli Ogm si ascoltano argomenti che sono gli stessi da almeno tre lustri. Mi chiedo come si possano ignorare quindici anni di prove e pubblicazioni scientifiche sulla sicurezza di piante come il mais o il cotone Bt, o la soia Ogm. Le critiche sono le solite. «Non sono sicuri». «Non sappiamo cosa possano fare nel lungo periodo». Ma questi sono giudizi vaghi. Opinioni o premonizioni. Intanto negli Stati Uniti (come in Spagna) li coltivano e, come noi, li consumano da oltre vent’anni. L’Agenzia che certifica la sicurezza ambientale e umana (Efsa di Parma), la Commissione Europea, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, e una moltitudine di scienziati abituati al confronto internazionale hanno controllato e concluso che, ad esempio, il mais Bt è sicuro. O meglio, che è più sicuro per l’ambiente e la salute umana del mais tradizionale irrorato da insetticidi o del mais biologico che presenta talvolta preoccupanti livelli di micotossine cancerogene. Possibile che tutti questi enti pubblici autorizzino cose pericolose? Se qualcuno ha dati diversi, e auspicabilmente non manipolati o artefatti, li deve mettere a disposizione affinché siano controllati.
Il Governo e la politica economica del Paese non possono basarsi sui “sentimenti” o sulle opinioni, invece che su fatti scientificamente validati. Nell’interesse del Paese le decisioni devono essere prese confrontando fatti, numeri e statistiche. Queste sono le regole del confronto scientifico, ma in ultima istanza anche democratico. Altrimenti è come se Galileo Galilei non fosse nemmeno nato e non avessimo ancora capito cosa ha permesso di triplicare l’aspettativa di vita, curare malattie, riscaldare le case, andare sulla Luna, etc.
Oggi si fa pagare caro il cosiddetto cibo biologico dando garanzie del fatto che sarebbe senza Ogm. Non mi pare onesto. Nessun italiano può aver certezza di aver mai mangiato, che so, un salame biologico proveniente da animali non alimentati con Ogm, né questa sicurezza ci sarà fino almeno al 2018 e forse oltre (come risulta dal Regolamento 836/2014 della CE, che rinnova l’ennesima deroga per i mangimi di polli e maiali biologici). Non mi interessa discutere se un mangime privo di Ogm sia meglio o peggio, anche se mi incuriosirebbe un esperimento per stabilire se qualcuno noterà mai una differenza nella “tipicità italiana” del salame ottenuto da animali nutriti con uno dei due mangimi. Mi preme discutere come stanno davvero le cose. Di quel che si può dimostrare. Non so che farci se sono una scienziata, ma il mio primo dovere è dire sempre e solo cosa è provato oggi, al meglio delle nostre conoscenze. Per contro chiedo altrettanto. Non opinioni.
Da vent’anni s’invoca il principio di precauzione contro gli Ogm. Da vent’anni li stiamo già sperimentando, nutrendoci indirettamente e vestendoci con cotone Ogm. E non capisco perché il principio di precauzione non dovrebbe valere per gli insetticidi, che da decenni due volte l’anno si spargono su centinaia di migliaia di ettari di mais con danni già visibili sia sulla perdita di biodiversità (farfalle, coccinelle, larve) sia per le intossicazioni umane riconosciute anche dall’Accademia Pontificia delle Scienze.
L’Italia “libera dagli Ogm” usa due volte e mezzo più pesticidi degli Stati Uniti, che coltivano sia Ogm sia prodotti biologici, senza integralismi, scegliendo caso per caso e non privandosi di nessun tipo di agricoltura. Noi scienziati non possiamo nemmeno studiarli. Non possiamo sperimentare per recuperare piante in estinzione come, ad esempio, il pomodoro San Marzano o il riso Carnaroli. Eravamo alla frontiera nelle biotecnologie vegetali. I progetti giacciono da 15 anni chiusi nei cassetti dei laboratori delle nostre università pubbliche (non di multinazionali). Singolare un Paese che uccide la propria innovazione agitando spauracchi privi di analisi approfondite dei rischi e dei benefici.
Non capisco nemmeno il silenzio di un governo di sinistra, che si disinteressa di quei milioni di cittadini costretti dalla crisi a ridurre la spesa alimentare e che non possono certo ricorrere al costoso biologico (ne fa uso il 2% della popolazione) — al quale, ripeto, non sono contraria.
Da ultimo, mi domando come sia possibile avere l’attivista politica Vandana Shiva come Ambassador di Expo2015. Anche dopo l’intervista pubblicata ieri su questo giornale, nella quale non confuta nessuno degli argomenti del New Yorker. Ammette di non avere un dottorato in fisica, ma solo un master e il dottorato in filosofia. Non è quindi una scienziata in ambito della fisica come aveva lasciato intendere. Non ripete più che i semi Ogm sarebbero sterili e rimane sul vago in merito ai suicidi dei contadini che lei attribuisce ai semi di cotone Ogm di Monsanto. Prima diceva che erano 280 mila. Anche le sue critiche ai brevetti sono del tutto fuori luogo. I contadini sono proprietari anche dei semi Ogm acquistati e li possono riseminare sui loro terreni tutte le volte che desiderano. Ma siccome tutti i semi ibridi, quindi anche non Ogm, se riseminati diventano meno produttivi, da sempre i contadini i semi (Ogm e non-Ogm) li riacquistano, e se conviene economicamente acquistano anche quelli brevettati. Grazie all’uso dei semi Ogm da parte dei contadini, l’India in pochi anni è diventata il secondo produttore di cotone al mondo ed il 93% dei contadini indiani ha scelto semi di cotone Ogm. Vogliamo dire che i contadini indiani sono passati tutti a comprare e coltivare semi Ogm perché rendevano di più? E come non essere solidali con i nostri agricoltori che chiedono un’eguale libertà d’impresa, cioè di poter coltivare (anche) mais modificato con lo stesso gene che ha reso vantaggioso il cotone indiano.
Concludo, esprimendo anche inquietudine per il fatto che 40mila aziende agricole, molte delle quali vorrebbero coltivare sia biologico sia Ogm, in tutta libertà e sicurezza (perché la coesistenza è possibile), chiudono ogni anno in Italia. Mentre apprendo che Coldiretti, contraria agli Ogm, vende e usa mangimi Ogm.
C’è qualcosa di profondo che non va nel nostro Paese. La vicenda degli Ogm è paradigmatica. Come lo sono il caso Stamina, la sperimentazione animale, i vaccini, etc. È la perdita del senso di cosa è “vero in modo accertabile”. La scienza cerca prove. I partiti cercano voti. Al Paese serve una visione e una cultura politica che torni a valorizzare i fatti e le competenze, come presupposto per recuperare la fiducia degli elettori.

Repubblica 4.10.14Benvenuti al Nobel degli erroriGrandi esclusi, ricerche sbagliate, scelte tardive
La vigilia dei premi i cui criteri restano un enigma
di Massimiano Bucchi


METTIAMO che qualcuno vi chieda a bruciapelo di pensare a uno scienziato e a una scoperta premiata con il Nobel, a chi pensereste in primo luogo? Probabilmente ad Albert Einstein e alla teoria della relatività, magari immaginandovi il grande fisico inchinarsi al Re di Svezia nell’atto di ricevere il prestigioso premio. Peccato che una simile scena non sia mai avvenuta. Einstein non ricevette il Nobel per la relatività, né andò mai a Stoccolma a ritirare il premio. In oltre un secolo di storia - la prima edizione fu nel 1901, l’ultima si svolgerà la prossima settimana - la sua è stata una delle tante assegnazioni sbagliate.
Fu il risultato di un lungo e rocambolesco percorso segnato dalle lotte interne al Comitato Nobel per la Fisica a cui compete la proposta per il voto finale dell’Accademia Reale Svedese delle Scienze. Il suo nome era comparso regolarmente sin dal 1910 nelle “nomination” che il Comitato riceve da un selezionato pool di studiosi di tutto il mondo ma fino al 1922 alcuni membri del Comitato si opposero strenuamente: in parte perché la forte enfasi del Comitato sugli aspetti sperimentali portava a considerare la relatività troppo speculativa, perfino “filosofica”; in parte perché difficile da comprendere per alcuni degli stessi esponenti del Comitato. Dopo le conferme sperimentali arrivate nel 1919 e la crescente popolarità e visibilità pubblica di Einstein la posizione del Comitato divenne sempre più difficile. Riuscì a sbloccarla il fisico svedese Carl Wilhelm Oseen, che propose di premiare Einstein nel 1922 (con il premio non assegnato nel 1921) ma non per la relatività, bensì «per la scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico».
Einstein, che mise a disposizione dell’ex-moglie Mileva Maric l’intero ammontare del premio (121.000 corone svedesi, equivalenti a dieci anni di stipendio di un professore universitario dell’epoca), ricevette la notizia nel novembre 1922, quando era in viaggio verso il Giappone e non poté quindi partecipare alla tradizionale cerimonia che si tiene a Stoccolma ogni 10 dicembre (anniversario della morte del fondatore Alfred Nobel). Perfino sul diploma, unico caso in tutta la storia del premio, fu aggiunto una sorta di disclaimer, ennesimo invito a maneggiare con cura la teoria della relatività. Einstein non sembrò darsene troppa pena quando finalmente tenne la sua “conferenza Nobel” l’11 luglio dell’anno successivo. Non a Stoccolma, ma nella sala dei concerti del parco Liseberg a Göteborg. In prima fila tra gli altri uno spettatore desideroso di imparare qualcosa sulla relatività: Re Gustavo V di Svezia.
Ma se il cammino di Einstein verso il Nobel fu tribolato, altri scienziati e scienziate furono ancora più sfortunati. Senza il contributo della biofisica e cristallografa Rosalind Franklin, come in seguito ammisero gli stessi colleghi James Watson e Francis Crick, «la comprensione della struttura del Dna sarebbe stata improbabile se non impossibile». Ma il suo nome non figura negli annali del premio. Esclusa dall’articolo che esponeva lo storico risultato, morì nel 1958 quattro anni prima che Watson, Crick e il loro collaboratore Maurice Wilkins ricevessero, nel 1962, il Nobel per la medicina.
La fisica austriaca Lise Meitner ebbe un ruolo decisivo nel chiarire il processo della fissione nucleare. Costretta a lasciare il proprio Paese in quanto ebrea, trasferitasi in Svezia, più volte nominata come possibile premio Nobel, fu vittima di tensioni tra fisici e chimici, ostilità personali da parte di influenti scienziati svedesi e scelte “politiche” legate alla delicata situazione internazionale al termine della Seconda guerra mondiale.
Altre scelte del Comitato si sono rivelate assai discutibili anche nella sostanza: il patologo danese Johannes Fibiger ricevette il Nobel 1926 in me- dicina per la scoperta del parassita Spiroptera carcinoma e del suo ruolo, poi smentito da successivi studi, in alcune forme di cancro. L’anno dopo il medico austriaco Julius Wagner-Jauregg fu premiato per i suoi tentativi di curare la dementia paralytica con inoculazioni malariche: una tecnica che aveva la lieve controindicazione di uccidere circa il 15 per cento dei pazienti.
A volte l’abbaglio è dei mezzi di informazione, magari fuorviati da diffuse indiscrezioni ed aspettative. Il 7 novembre 1915 il New York Times e numerose altre testate giornalistiche in tutto il mondo annunciarono trionfalmente l’assegnazione (mai realmente avvenuta) del premio Nobel per la fisica all’ingegnere, fisico e inventore serboamericano Nikola Tesla e all’inventore americano Thomas Alva Edison. Del resto, una svista degli organi di stampa contribuì alla stessa istituzione del premio da parte dello svedese Alfred Nobel (chimico, inventore e imprenditore, titolare di oltre trecento brevetti tra cui quelli della dinamite e della gelatina esplosiva). Scioccato dalla lettura del proprio necrologio - pubblicato per errore alla morte del fratello - che lo definiva «mercante di morte» e desideroso di essere ricordato in modo diverso, Nobel decise nel testamento (1895) di destinare gran parte del proprio patrimonio a premiare ogni anno le più importanti scoperte o invenzioni in campo fisico, chimico e medico; «l’opera letteraria più notevole di ispirazione idealistica«; «la personalità che avrà più contribuito al ravvicinamento tra i popoli».
Ma la grande visibilità ed autorevolezza del premio seduce e abbaglia anche il grande pubblico. Gli archivi dell’Accademia Reale Svedese delle Scienze custodiscono, oltre ai documenti ufficiali su proposte e decisioni relative al premio, una serie di voluminosi scatoloni. È “il lato B” del premio Nobel: lettere di sedicenti geni che reclamano il premio sulla base di rivoluzionarie e improbabili scoperte; corposi manoscritti illustrati contenenti clamorose rivelazioni suggerite talvolta da fonti aliene; cartoline i cui mittenti chiedono di essere contattati dalla segreteria per prendere accordi sulla consegna del riconoscimento. Una vertiginosa finestra sull’ambizione umana che a modo suo testimonia la popolarità del premio, l’ultima e forse la più grande invenzione del prolifico inventore Alfred Nobel.

Repubblica 4.10.14
Giordano Bruno
Se l’eresia è combattuta a tratti di corda
risponde Corrado Augias


Caro Augias, la crudele uccisione di Giordano Bruno, costituisce, senza dubbio, un punto oscuro nella storia della Chiesa, anche se il domenicano non era uno sprovveduto pensatore.
Era, senza dubbio, un eretico a tutto campo, le cui teorie non erano assolutamente compatibili con la dottrina della Chiesa. In altre parole, aveva sbagliato mestiere. Farne un eroe del libero pensiero, come ha fatto la massoneria in chiave antipapista dopo la presa di Roma, è veramente esagerato. Preferirei qualche dimenticato eroe del Risorgimento, semmai. Il gesuita Bellarmino, demonizzato dai fautori del libero pensiero, pur con i suoi umani limiti, si comportò santamente nella sua vita religiosa, dando le sue ricchezze ai poveri, e facendo tante altre cose positive. Anche se vulgata ne ha fatto il reale responsabile della morte di Giordano Bruno. (Papa Francesco l’avrebbe comunque ammirato). Il “libero pensiero”, lontano dalla Chiesa, non ha portato la pace nel mondo. Rivoluzioni, ideologie e guerre terribili. Fiumi di sangue. Pensiamo agli ultimi secoli.
Andrea Santini

Sull’ipotetica ammirazione di papa Francesco per un gesuita come Bellarmino ho molti dubbi. Non tanto perché abbia voluto mandare al rogo Giordano Bruno, quanto per la concezione politica che ebbe della sua missione. Bellarmino fu un combattente, si trovava a doversi opporre al dilagare della riforma luterana che aveva sottratto alla Chiesa di Roma buona metà dell’Europa settentrionale e convinto Enrico VIII allo scisma. Tanto è vero questo che Pio XI ha fatto proclamare il grande inquisitore prima santo (1930) quindi dottore della Chiesa Universale (1931), da venerarsi come patrono dei catechisti con questo epitaffio: «La mia spada ha sottomesso gli spiriti superbi». Come vede gentile Santini non si parla di misericordia ma di un’energica azione di difesa della fede. Vito Mancuso, teologo cattolico, lo ha definito «mandante di assassinio». Non è la vulgata anticlericale che lo ha fatto responsabile di quell’atroce esecuzione ma la sua ostinata, lucida, implacabile visione della fede; la stessa che verrà applicata, trentatré anni dopo il martirio di Bruno, anche nei confronti di Galileo. Bellarmino nel frattempo è morto ma la sua linea continua. Erano tempi quelli in cui le possibili eresie si combattevano con i tratti di corda non con la misericordia. Sia Bruno sia Galileo sostenevano verità che il progresso della scienza avrebbe dimostrato esatte. Un universo infinito di infiniti mondi per il primo, il sistema eliocentrico per il secondo. Avevano il torto quelle verità di contraddire le Scritture, la centralità della Terra e dell’uomo in essa. Leggere oggi la formula di abiura che Galileo dovette leggere, settantenne, in ginocchio, vestito del saio del penitente, dà i brividi.

Repubblica 4.10.14
Domeniche di carta: dopo i musei aprono anche biblioteche e archivi

ROMA Domani non saranno gratuiti solo musei, monumenti e siti archeologici statali: porte aperte anche per 46 biblioteche pubbliche e 135 istituti archivistici. La doppia apertura è possibile grazie all’iniziativa “Domenica al museo”, che si ripete una volta al mese come previsto dalla riforma tariffaria introdotta dal ministro Dario Franceschini, e alla manifestazione straordinaria “Domenica di Carta: la voce della storia e dei libri”. Quest’ultima prevede mostre, incontri, proiezioni, spettacoli teatrali e musicali, ma soprattutto visite guidate agli edifici di grande pregio architettonico dove sono conservati manoscritti, documenti, pergamene, libri, disegni, stampe, foto, carte geografiche e incisioni. A Roma saranno gratuiti tra gli altri l’Archivio centrale dello Stato, le biblioteche Angelica, Casanatense e quella di Archeologia e Storia dell’arte, oltre alla Biblioteca nazionale centrale e l’Alessandrina. Gratuiti anche Foro romano, Palatino e Colosseo. E poi la Gnam, Galleria Spada, le gallerie nazionali d’arte antica a Palazzo Barberini e Palazzo Corsini, l’istituto nazionale per la grafica e il Vittoriano. Il programma sul sito del Mibact (www. beniculturali. it).

La Stampa 4.10.14
OpenStreetMap, la geografia fai da te
Da dieci anni un gruppo di appassionati sta realizzando una mappa del mondo, cui tutti possono contribuire con dati e immagini, come su Wikipedia
di Lorenza Castagnese

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La Stampa 4.10.14
“Il cane? Quasi come un figlio, lo dice il cervello delle mamme”
Uno studio ha indagato su cosa accade nel cervello di alcune madri alle prese con immagini del proprio figlio o del proprio amico a quattrozampe

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