La Stampa 9.2.17
Il flop del Bonus Cultura
I diciottenni hanno speso il 6,3% dei soldi stanziati
I ragazzi faticano a ottenere le credenziali per la card In 7 Comuni su 8 né musei né negozi convenzionati
Il
Bonus Cultura naviga in brutte acque. Anzi, rischia il naufragio. Al
centro del dibattito politico per settimane, tra il governo Renzi che
prometteva soldi ai neodiciottenni per la loro crescita culturale e
l’opposizione che parlava di «mancetta elettorale», il provvedimento è
sparito dai radar. Ma in questi mesi, in redazione, hanno continuato a
piovere lettere di maggiorenni freschi di compleanno alle prese con il
farraginoso meccanismo burocratico studiato per permettere ai ragazzi di
ottenere gli agognati 500 euro governativi.
Prima l’attribuzione
dell’identità digitale. Quindi l’iscrizione al portale 18App. Infine la
ricerca affannosa di enti culturali e punti vendita che, nel proprio
comune, avessero aderito all’iniziativa. L’iter imposto ai
neomaggiorenni italiani sembrava più doverli preparare all’impatto con
la burocrazia italica, piuttosto che ampliare i loro orizzonti
culturali.
Il risultato: il governo è stato costretto a prolungare
la scadenza dei termini di iscrizione - inizialmente prevista per il 30
gennaio scorso - fino al 30 giugno 2017 nella speranza di far decollare
l’iniziativa. Al 17 gennaio scorso, in teoria ad appena due settimane
dal precedente termine per iscriversi, i diciottenni erano riusciti a
spendere appena il 6,3% di quanto stanziato. Dove si è inceppata la
macchina?
Il nuovo Spid
Ottenere l’identità digitale era il
primo passaggio per arrivare ad avere il Bonus Cultura. Lo Spid, per
inteso, serve anche ad altro e sicuramente il miraggio dei 500 euro ha
spinto molti diciottenni a registrarsi al nuovo servizio. Ma avere lo
Spid non è così semplice come appare, ci scrivevano i diciottenni. E in
effetti le difficoltà emergono dai dati. Per l’Istat al 1° gennaio 2016
in Italia c’erano 572.437 diciassettenni (che, per logica matematica,
sarebbero diventati maggiorenni entro l’anno). Secondo i dati che ci ha
fornito l’Agid, l’Agenzia per l’Italia Digitale che gestisce lo Spid, al
17 gennaio però i diciottenni con identità digitale erano 286.095:
esattamente la metà.
L’App del governo
Il secondo passaggio
era l’iscrizione a 18App, la piattaforma online studiata appositamente
per il Bonus Cultura. Qui i numeri si restringono ulteriormente. Sempre
al 17 gennaio, secondo la Presidenza del Consiglio, erano 230.000 gli
iscritti, ovvero circa il 40 per cento degli aventi diritto.
Spesa deludente
È
guardando agli esiti finali, però, che si ha la percezione che davvero
qualcosa non ha funzionato. Sempre secondo i dati della Presidenza del
Consiglio a metà gennaio erano stati staccati 200.000 coupon per negozi
fisici e 350.000 per rivenditori online per una spesa totale
rispettivamente di 6 e 12,5 milioni. Un po’ pochini considerando i 290
stanziati. Da Palazzo Chigi spiegano: «Riteniamo questo dato normale: da
quello che leggiamo sui social molti sono in attesa della stagione
estiva per i concerti o di settembre per l’acquisto di libri
scolastici». L’impressione, tuttavia, è un’altra e se ne trovano indizi
proprio nella sproporzione tra gli acquisti online e sul territorio.
La mancata copertura
Empiricamente,
dalle lettere arrivate, l’inghippo ci sembrava piuttosto la scarsità di
adesioni all’iniziativa da parte di librerie, cinema, teatri, musei,
negozi musicali e rivenditori di biglietti. Molti diciottenni, pur
avendo superato le prime fasi burocratiche, si lamentavano di un’unica
cosa: «Non sappiamo dove spenderli». Tanto che qualcuno ha cominciato a
«rivendersi» il bonus in cambio di soldi.
Per capire se le cose
stavano così abbiamo chiesto alla Presidenza del Consiglio di inviarci
l’elenco completo dei negozi fisici aderenti all’iniziativa, comune per
comune. Non l’abbiamo ottenuto. Ci è stato però fornito un dato di
massima: 7000 punti vendita. Era una cifra plausibile? Abbiamo
verificato lanciando un software che ha interrogato la piattaforma 18App
per ognuno degli 8000 comuni italiani. Abbiamo fatto svolgere una
controprova da un informatico esterno al giornale. I nostri dati sono
coerenti, ma non con quelli della Presidenza: il 24 gennaio sulla
piattaforma si potevano trovare solo 4270 negozi fisici e concentrati
nelle città. In pratica in 7 comuni su 8 non c’era un solo esercizio
aderente. Prolungare i termini di scadenza è certamente utile. Ma se non
si vuole che il Bonus Cultura sia un totale flop sarà necessario
implementare la rete dei rivenditori.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
giovedì 9 febbraio 2017
La Stampa 9.2.17
“Queste rivolte favoriscono Le Pen
Il suo partito può vincere le elezioni”
Lo storico Le Bras: ma se perde il Front National si spaccherà
di Francesca Paci
Da quasi mezzo secolo Hervé Le Bras indaga il tessuto sociale della sua Francia che rifiuta le differenze etnico-religiose nel nome della République ma torna ciclicamente a farci i conti. Come in queste calde settimane che ci separano dalle elezioni presidenziali.
Gli scontri in banlieue seguiti alle violenze sul giovane Théo gonfieranno il gradimento di Marine Le Pen come nel 2005?
«È possibile ma è possibile anche il contrario. Per ora la Le Pen non vola, è cresciuta molto all’inizio del mandato di Hollande passando dal 18,5% al 28%, ma con l’ingresso sulla scena di Fillon è scesa al 23% e ora è tornata al 25,5%. La situazione è fluida anche perché su di lei pesano le inchieste, le tasse non pagate, ombre che non influenzano i suoi fedelissimi ma gli indecisi forse sì».
Quanto pesano le banlieue nella campagna elettorale?
«È un peso percepito più che reale, un peso ideologico. Le roccaforti dell’ultradestra non sono nelle grandi città o nei quartieri a ridosso delle banlieue ma nella Francia periurbana, più remota, dove il consenso del Front National è inversamente proporzionale al numero dei migranti».
La Francia potrebbe seguire le orme degli Stati Uniti, dove Trump ha potuto contare sul revanscismo dei bianchi?
«Direi di no perché in Francia il razzismo è meno diffuso, non ci sono per esempio statistiche etniche. Al netto di molti problemi d’integrazione - sociale più che etnica - la Francia ha il numero di coppie miste più elevato d’Europa. Inoltre si parla sempre dei momenti di rottura ma è un fatto che tra le seconde e le terze generazioni c’è sempre più classe media e che i migranti in arrivo oggi sono assai più scolarizzati di 30 anni fa».
Due anni di terrorismo non hanno esacerbato gli animi?
«In parte sì, ma il terrorismo ha radici complesse. L’attentatore del Louvre veniva dalla borghesia egiziana, aveva studiato, era figlio di un ufficiale».
Da cosa dipende allora il successo che accompagna la Le Pen?
«C’è una profonda frustrazione sociale, molti francesi oggi hanno studiato ma diversamente dai genitori non hanno una posizione equivalente al proprio titolo di studio. Nell’82 solo un disoccupato su 4 era diplomato oggi lo sono almeno 4 su 5. Lo scandalo Fillon, che ha assunto il figlio spiegando che era bravo, è sintomatico della malattia della Francia: più che la discriminazione pesano le relazioni sociali, a parità di preparazione conta il network e i network sono sempre gli stessi».
Fillon è ancora in corsa?
«In teoria no ma la destra non ha un piano B e Fillon usa questo argomento, l’unico che ha. Certo se si ritirasse, se le rivelazioni indebolissero Macron...»
Insomma, Marine può vincere?
«Finora era impossibile. Nel libro “La République des idées. Tripartisme contre démocratie” spiego che in una Francia con due grandi partiti, destra e sinistra, non c’è spazio per le ali estreme ma che con un terzo partito tutto sarebbe diverso».
Siamo a quel punto?
«Mancano due mesi e tutto può capitare. Credo però che la Le Pen possa vincere solo in caso di ballottaggio con Hamon. Se invece dovesse perdere o prendere meno del 28% il Front National potrebbe spaccarsi: oggi è compatto intorno alla chance di vincere ma, dalla vecchia guardia di Jean-Marie Le Pen ai “liberal” di Philippot, tiene insieme anime diversissime».
“Queste rivolte favoriscono Le Pen
Il suo partito può vincere le elezioni”
Lo storico Le Bras: ma se perde il Front National si spaccherà
di Francesca Paci
Da quasi mezzo secolo Hervé Le Bras indaga il tessuto sociale della sua Francia che rifiuta le differenze etnico-religiose nel nome della République ma torna ciclicamente a farci i conti. Come in queste calde settimane che ci separano dalle elezioni presidenziali.
Gli scontri in banlieue seguiti alle violenze sul giovane Théo gonfieranno il gradimento di Marine Le Pen come nel 2005?
«È possibile ma è possibile anche il contrario. Per ora la Le Pen non vola, è cresciuta molto all’inizio del mandato di Hollande passando dal 18,5% al 28%, ma con l’ingresso sulla scena di Fillon è scesa al 23% e ora è tornata al 25,5%. La situazione è fluida anche perché su di lei pesano le inchieste, le tasse non pagate, ombre che non influenzano i suoi fedelissimi ma gli indecisi forse sì».
Quanto pesano le banlieue nella campagna elettorale?
«È un peso percepito più che reale, un peso ideologico. Le roccaforti dell’ultradestra non sono nelle grandi città o nei quartieri a ridosso delle banlieue ma nella Francia periurbana, più remota, dove il consenso del Front National è inversamente proporzionale al numero dei migranti».
La Francia potrebbe seguire le orme degli Stati Uniti, dove Trump ha potuto contare sul revanscismo dei bianchi?
«Direi di no perché in Francia il razzismo è meno diffuso, non ci sono per esempio statistiche etniche. Al netto di molti problemi d’integrazione - sociale più che etnica - la Francia ha il numero di coppie miste più elevato d’Europa. Inoltre si parla sempre dei momenti di rottura ma è un fatto che tra le seconde e le terze generazioni c’è sempre più classe media e che i migranti in arrivo oggi sono assai più scolarizzati di 30 anni fa».
Due anni di terrorismo non hanno esacerbato gli animi?
«In parte sì, ma il terrorismo ha radici complesse. L’attentatore del Louvre veniva dalla borghesia egiziana, aveva studiato, era figlio di un ufficiale».
Da cosa dipende allora il successo che accompagna la Le Pen?
«C’è una profonda frustrazione sociale, molti francesi oggi hanno studiato ma diversamente dai genitori non hanno una posizione equivalente al proprio titolo di studio. Nell’82 solo un disoccupato su 4 era diplomato oggi lo sono almeno 4 su 5. Lo scandalo Fillon, che ha assunto il figlio spiegando che era bravo, è sintomatico della malattia della Francia: più che la discriminazione pesano le relazioni sociali, a parità di preparazione conta il network e i network sono sempre gli stessi».
Fillon è ancora in corsa?
«In teoria no ma la destra non ha un piano B e Fillon usa questo argomento, l’unico che ha. Certo se si ritirasse, se le rivelazioni indebolissero Macron...»
Insomma, Marine può vincere?
«Finora era impossibile. Nel libro “La République des idées. Tripartisme contre démocratie” spiego che in una Francia con due grandi partiti, destra e sinistra, non c’è spazio per le ali estreme ma che con un terzo partito tutto sarebbe diverso».
Siamo a quel punto?
«Mancano due mesi e tutto può capitare. Credo però che la Le Pen possa vincere solo in caso di ballottaggio con Hamon. Se invece dovesse perdere o prendere meno del 28% il Front National potrebbe spaccarsi: oggi è compatto intorno alla chance di vincere ma, dalla vecchia guardia di Jean-Marie Le Pen ai “liberal” di Philippot, tiene insieme anime diversissime».
La Stampa 9.2.17
Molotov, auto in fiamme e arresti
Quarta notte di guerriglia a Parigi
Non si placa la violenza dopo il pestaggio del giovane Théo da parte di 4 poliziotti
Il Parlamento annuncia il pugno duro: punizioni esemplari agli agenti responsabili
di Paolo Levi
Il caso del giovane picchiato e sodomizzato con il manganello da una pattuglia di quattro agenti della Police Nationale continua a infiammare la Francia. «Stop alla guerra in banlieue»: l’appello di Theo ha solo in parte contribuito a placare la rabbia delle periferie parigine. Per la quarta notte consecutiva è continuata la guerriglia, dopo gli incidenti e le accuse di violenza alla polizia nei confronti de ventiduenne di Aulnay-sous-Bois. Per la prima volta da giovedì scorso la situazione è stata più calma soltanto ad Aulnay, la cittadina del ragazzo nel nord di Parigi. «Amo la mia città, vorrei ritrovarla come l’ho lasciata», aveva chiesto ai concittadini, nell’appello dal suo letto d’ospedale. Ma in diversi comuni limitrofi della Seine-Saint-Denis ci sono stati ancora disordini, con lanci di bottiglie incendiarie, cassonetti e auto dati alle fiamme. La polizia ha arrestato 17 persone. I pompieri sono intervenuti per un inizio di incendio in una scuola, l’autista di un autobus è rimasto ferito in modo leggero dal lancio di una molotov. Ieri in serata cinque giovani sono stati condannati per direttissima a 6 mesi di carcere, per le violenze urbane a a Aulnay.
Dopo la visita a sorpresa del presidente Hollande al capezzale della vittima col volto ancora tumefatto, il premier Bernard Cazeneuve ha rivolto un nuovo messaggio di vicinanza: «A nome del governo voglio rivolgere a questo ragazzo, attualmente nel suo letto d’ospedale, il nostro profondo rispetto e la nostra solidarietà». Un riferimento, in particolare, all’appello alla calma lanciato dalla vittima alle periferie. Parole - le ha definite Cazeneuve in Parlamento - di «grande responsabilità e dignità che hanno una forza repubblicana» e che meritano il plauso della nazione. «Non si possono tollerare violenze da parte della polizia», ha poi concluso il premier, incassando l’applauso dei deputati all’Assemblée Nationale. A meno di tre mesi dal voto per l’Eliseo, tutta la classe politica, a eccezione di Marine Le Pen (candidata Front National), chiede punizioni esemplari contro i quattro poliziotti, di cui uno indagato per stupro e gli altri tre per violenze di gruppo.
Diverse associazioni anti-razzismo, tra cui Sos Racisme, vogliono un incontro con i più alti vertici dello Stato. «Quello che è successo a Aulnay - affermano in una missiva - è grave. In questa circostanza la violenza della polizia ha preso un carattere sessuale e razzista. Chiediamo di essere ricevuti dal presidente della Repubblica per garantire l’attuazione di soluzioni concrete». Il fermo era avvenuto giovedì scorso, nei pressi della casa del ragazzo, dove i quattro agenti lo avrebbero inseguito e picchiato durante un controllo di identità degenerato per un diverbio. Il poliziotto accusato di stupro si è difeso evocando un «incidente».
Ma l’aggressione è avvenuta sotto l’occhio delle telecamere e la diagnosi dei medici non sembra lasciare dubbi: «Ferita longitudinale del canale anale». Nell’immagine che ha fatto il giro del mondo il ragazzo divenuto simbolo di quelle periferie dell’emarginazione per le quali l’ex premier Valls parlò di «apartheid» appare a letto, ancora intubato al fianco di Hollande, con indosso una maglia dell’Inter. Ieri il club nerazzurro lo ha invitato ufficialmente a Milano. «Abbiamo contattato Théo per dirgli che, quando starà bene, sarà nostro ospite a San Siro», scrive il club su Twitter. Il ragazzo ha fatto sapere che italiano è anche il suo calciatore preferito: Cassano.
Molotov, auto in fiamme e arresti
Quarta notte di guerriglia a Parigi
Non si placa la violenza dopo il pestaggio del giovane Théo da parte di 4 poliziotti
Il Parlamento annuncia il pugno duro: punizioni esemplari agli agenti responsabili
di Paolo Levi
Il caso del giovane picchiato e sodomizzato con il manganello da una pattuglia di quattro agenti della Police Nationale continua a infiammare la Francia. «Stop alla guerra in banlieue»: l’appello di Theo ha solo in parte contribuito a placare la rabbia delle periferie parigine. Per la quarta notte consecutiva è continuata la guerriglia, dopo gli incidenti e le accuse di violenza alla polizia nei confronti de ventiduenne di Aulnay-sous-Bois. Per la prima volta da giovedì scorso la situazione è stata più calma soltanto ad Aulnay, la cittadina del ragazzo nel nord di Parigi. «Amo la mia città, vorrei ritrovarla come l’ho lasciata», aveva chiesto ai concittadini, nell’appello dal suo letto d’ospedale. Ma in diversi comuni limitrofi della Seine-Saint-Denis ci sono stati ancora disordini, con lanci di bottiglie incendiarie, cassonetti e auto dati alle fiamme. La polizia ha arrestato 17 persone. I pompieri sono intervenuti per un inizio di incendio in una scuola, l’autista di un autobus è rimasto ferito in modo leggero dal lancio di una molotov. Ieri in serata cinque giovani sono stati condannati per direttissima a 6 mesi di carcere, per le violenze urbane a a Aulnay.
Dopo la visita a sorpresa del presidente Hollande al capezzale della vittima col volto ancora tumefatto, il premier Bernard Cazeneuve ha rivolto un nuovo messaggio di vicinanza: «A nome del governo voglio rivolgere a questo ragazzo, attualmente nel suo letto d’ospedale, il nostro profondo rispetto e la nostra solidarietà». Un riferimento, in particolare, all’appello alla calma lanciato dalla vittima alle periferie. Parole - le ha definite Cazeneuve in Parlamento - di «grande responsabilità e dignità che hanno una forza repubblicana» e che meritano il plauso della nazione. «Non si possono tollerare violenze da parte della polizia», ha poi concluso il premier, incassando l’applauso dei deputati all’Assemblée Nationale. A meno di tre mesi dal voto per l’Eliseo, tutta la classe politica, a eccezione di Marine Le Pen (candidata Front National), chiede punizioni esemplari contro i quattro poliziotti, di cui uno indagato per stupro e gli altri tre per violenze di gruppo.
Diverse associazioni anti-razzismo, tra cui Sos Racisme, vogliono un incontro con i più alti vertici dello Stato. «Quello che è successo a Aulnay - affermano in una missiva - è grave. In questa circostanza la violenza della polizia ha preso un carattere sessuale e razzista. Chiediamo di essere ricevuti dal presidente della Repubblica per garantire l’attuazione di soluzioni concrete». Il fermo era avvenuto giovedì scorso, nei pressi della casa del ragazzo, dove i quattro agenti lo avrebbero inseguito e picchiato durante un controllo di identità degenerato per un diverbio. Il poliziotto accusato di stupro si è difeso evocando un «incidente».
Ma l’aggressione è avvenuta sotto l’occhio delle telecamere e la diagnosi dei medici non sembra lasciare dubbi: «Ferita longitudinale del canale anale». Nell’immagine che ha fatto il giro del mondo il ragazzo divenuto simbolo di quelle periferie dell’emarginazione per le quali l’ex premier Valls parlò di «apartheid» appare a letto, ancora intubato al fianco di Hollande, con indosso una maglia dell’Inter. Ieri il club nerazzurro lo ha invitato ufficialmente a Milano. «Abbiamo contattato Théo per dirgli che, quando starà bene, sarà nostro ospite a San Siro», scrive il club su Twitter. Il ragazzo ha fatto sapere che italiano è anche il suo calciatore preferito: Cassano.
La Stampa 9.2.17
Esplode la rivolta nel Pd
Renzi userà il congresso per evitare la scissione
di Carlo Bertini
Dopo giorni di rancori soffocati e tempesta incombente, esplode la rivolta nel Pd: «Sta franando tutto», scuote la testa sconsolato uno dei renziani più fedeli al capo. Si può immaginare cosa dicano gli altri. Gli eventi precipitano e sintomo della crisi che sembra mettere una pietra tombale sulla corsa alle urne è la lettera di 41 senatori, tra cui Chiti, Manconi, Tocci, in cui si chiede di sostenere il governo e di «non concedere più nulla alle pulsioni dell’antipolitica». Una dura critica all’assenza di analisi, «le amministrative, il risultato del referendum, il cambio di leadership governativa aspettano ancora una ragione interpretativa. E serve un tempo ragionevole», per capire cosa proporre prima di andare al voto. Nella war room renziana vengono scannerizzati i nomi e si vede che dodici firmatari sono di area Franceschini, otto attribuibili a Orlando. Se ai 41 si aggiungono i 20 bersaniani, la metà del gruppo Pd del Senato è fuori controllo. Ma la vera svolta è la crisi che investe la maggioranza renziana: per due giorni con interruzioni solo per votare la fiducia, in Senato va in scena uno psicodramma impensabile fino a due mesi fa, una rivolta di franceschiniani e renziani vari della seconda ora. «Qui siamo in mezzo alle macerie», dicono i fedelissimi alla fine. Sconcertati dopo aver sentito senatori fino a ieri allineati scaricare sul luogotenente di Renzi, il toscano Andrea Marcucci, una valanga di recriminazioni, con una violenza verbale inusitata. Accusando Renzi di ogni cosa, dalla «sua assenza», alla questione dei vitalizi, al parlare solo di data di elezioni. Un conto salatissimo, messo in carico al leader anche da quelli di Franceschini. Con i renziani presenti imbarazzati al punto che l’intervento finale di Marcucci per parare i colpi riceve un’accoglienza tiepida pure dai suoi.
Renzi è infuriato e lancia la sua cavalleria contro Bersani che gli intima di piantarla con i giochetti, ma sa che sta sfumando il suo progetto di votare a giugno. Idea che malgrado tutto ancora accarezza, cercando di convincere - tramite ambasciatori - pure Berlusconi che se si voterà a febbraio 2018 anche lui potrebbe restare invischiato nell’effetto Monti, per via delle prese in carico di responsabilità nazionale che potrebbe richiedere la manovra lacrime e sangue di autunno. Ma è il Pd il suo fronte più debole, l’ex Cavaliere lo sa e per questo lo lascia cuocere nel suo brodo.
Il partito di governo infatti è una barca che fa acqua, al punto che il segretario sta pensando, consigliato dai suoi, di usare il congresso anticipato come arma per mettere a tacere la rivolta. Mettendo in mora la strategia dei «compagni». Che sarebbero costretti a rinunciare alla scissione. «Meglio, per me lasciare il Pd sarebbe una scelta drammatica, per altri forse no», ammette Miguel Gotor. Se fosse tolto dal tavolo il voto a giugno, sarebbero convocate le assise per la sfida della leadership come chiede Bersani. Il quale ritiene che comunque Renzi parta favorito, tanto che i «compagni» saranno costretti a puntare su un unico «cavallo» per non indebolirsi con più candidati. Oggi Roberto Speranza riunirà la corrente in ebollizione. Ma è indubbio che con il congresso tutto il cantiere della scissione guidato da D’Alema verrebbe messo in crisi, tanto che in camera caritatis anche dirigenti di Sinistra Italiana ammettono di fare il tifo per il voto a giugno, perché la forzatura di Renzi agevolerebbe loro il compito di svuotare il Pd. Insomma col congresso a giugno da chiudere con le primarie a ottobre si riaprirebbero i giochi.
Esplode la rivolta nel Pd
Renzi userà il congresso per evitare la scissione
di Carlo Bertini
Dopo giorni di rancori soffocati e tempesta incombente, esplode la rivolta nel Pd: «Sta franando tutto», scuote la testa sconsolato uno dei renziani più fedeli al capo. Si può immaginare cosa dicano gli altri. Gli eventi precipitano e sintomo della crisi che sembra mettere una pietra tombale sulla corsa alle urne è la lettera di 41 senatori, tra cui Chiti, Manconi, Tocci, in cui si chiede di sostenere il governo e di «non concedere più nulla alle pulsioni dell’antipolitica». Una dura critica all’assenza di analisi, «le amministrative, il risultato del referendum, il cambio di leadership governativa aspettano ancora una ragione interpretativa. E serve un tempo ragionevole», per capire cosa proporre prima di andare al voto. Nella war room renziana vengono scannerizzati i nomi e si vede che dodici firmatari sono di area Franceschini, otto attribuibili a Orlando. Se ai 41 si aggiungono i 20 bersaniani, la metà del gruppo Pd del Senato è fuori controllo. Ma la vera svolta è la crisi che investe la maggioranza renziana: per due giorni con interruzioni solo per votare la fiducia, in Senato va in scena uno psicodramma impensabile fino a due mesi fa, una rivolta di franceschiniani e renziani vari della seconda ora. «Qui siamo in mezzo alle macerie», dicono i fedelissimi alla fine. Sconcertati dopo aver sentito senatori fino a ieri allineati scaricare sul luogotenente di Renzi, il toscano Andrea Marcucci, una valanga di recriminazioni, con una violenza verbale inusitata. Accusando Renzi di ogni cosa, dalla «sua assenza», alla questione dei vitalizi, al parlare solo di data di elezioni. Un conto salatissimo, messo in carico al leader anche da quelli di Franceschini. Con i renziani presenti imbarazzati al punto che l’intervento finale di Marcucci per parare i colpi riceve un’accoglienza tiepida pure dai suoi.
Renzi è infuriato e lancia la sua cavalleria contro Bersani che gli intima di piantarla con i giochetti, ma sa che sta sfumando il suo progetto di votare a giugno. Idea che malgrado tutto ancora accarezza, cercando di convincere - tramite ambasciatori - pure Berlusconi che se si voterà a febbraio 2018 anche lui potrebbe restare invischiato nell’effetto Monti, per via delle prese in carico di responsabilità nazionale che potrebbe richiedere la manovra lacrime e sangue di autunno. Ma è il Pd il suo fronte più debole, l’ex Cavaliere lo sa e per questo lo lascia cuocere nel suo brodo.
Il partito di governo infatti è una barca che fa acqua, al punto che il segretario sta pensando, consigliato dai suoi, di usare il congresso anticipato come arma per mettere a tacere la rivolta. Mettendo in mora la strategia dei «compagni». Che sarebbero costretti a rinunciare alla scissione. «Meglio, per me lasciare il Pd sarebbe una scelta drammatica, per altri forse no», ammette Miguel Gotor. Se fosse tolto dal tavolo il voto a giugno, sarebbero convocate le assise per la sfida della leadership come chiede Bersani. Il quale ritiene che comunque Renzi parta favorito, tanto che i «compagni» saranno costretti a puntare su un unico «cavallo» per non indebolirsi con più candidati. Oggi Roberto Speranza riunirà la corrente in ebollizione. Ma è indubbio che con il congresso tutto il cantiere della scissione guidato da D’Alema verrebbe messo in crisi, tanto che in camera caritatis anche dirigenti di Sinistra Italiana ammettono di fare il tifo per il voto a giugno, perché la forzatura di Renzi agevolerebbe loro il compito di svuotare il Pd. Insomma col congresso a giugno da chiudere con le primarie a ottobre si riaprirebbero i giochi.
La Stampa9.2.1
“Liberi di uscire dall’Islam”, svolta storica del Marocco
Nessuna condanna a morte per l’apostata, e libertà di scelta per chi vuole abbracciare altre fedi: così si è espresso per la prima volta il Consiglio superiore degli Ulema in Marocco, aprendo la strada al riformismo dell’Islam
di Karima Moual
Nessuna condanna a morte per l’apostata e libertà per coloro che dall’Islam vogliono uscire e abbracciare altre fedi. E’ una posizione storica, quella assunta dalla massima rappresentanza religiosa del Marocco, il Consiglio superiore degli Ulema, che continua coraggiosamente ad aprire la strada al riformismo in casa Islam - almeno la propria - senza ombre o ambiguità. Si punta dunque su un livello alto della discussione, anche facendo un passo indietro rispetto al passato. Il Consiglio infatti rigetta una sua precedente fatwa del 2012 secondo la quale i marocchini colpevoli di apostasia avrebbero un unico destino: la morte. Una regola comune per tutti i Paesi musulmani, ma prevista in varie forme dalle norme giuridiche in vigore. In Marocco, per esempio non è contemplata la pena di morte, ma il codice penale parla di detenzione per l’apostata che può arrivare fino a 3 anni.
Una posizione, però, che già all’epoca aveva fatto discutere molto in un Paese che del pluralismo religioso ha fatto il proprio fiore all’occhiello, e che più di altri vi presta attenzione e porta avanti un lavoro immenso per difendere la propria posizione e visione di un «Islam moderato». Il Consiglio degli Ulema dunque, cerca di tracciare una linea chiara su un tema di grande attualità, politicamente e socialmente scomodo e che in futuro si potrebbe presentare come una trappola micidiale perché nel Paese si sono rivelati, senza più filtri, abitanti passati dal sunnismo allo sciismo (si sono aperti solo lo scorso anno i primi centri sciiti) così come al cristianesimo o, addirittura, all’ateismo. Voci che nell’ultimo periodo sono uscite dalla clandestinità sfidando l’ipocrisia di chi li conosce, ma non li vuole riconoscere.
Con la questione “apostasia”, il consiglio degli Ulema affronta un punto da sempre pressoché intoccabile nel dibattuto interno all’Islam, ma difficile da controbattere ufficialmente nella sua interpretazione. Eppure nel Corano non si parla direttamente di apostasia, si rimproverano più volte coloro che rinnegano l’Islam, ma non si prevede per loro alcun castigo terrestre per altrui mano. Certo, Dio promette un grande castigo a chi abbandona la religione, ma un castigo - come nelle altre religioni peraltro - che avverrebbe nell’aldilà e non certamente in Arabia Saudita e per mano di un boia, come vuole l’Islam più oscurantista che trova appoggio in certe interpretazioni della Sunna.
Il nodo infatti è contenuto in un famoso hadith che sentenzia «chi cambia religione uccidetelo». Quanto basta per far giungere la condanna di morte agli apostati sino ai nostri giorni. Non più per gli Ulema del Marocco, che argomentano così la loro nuova fatwa: «La comprensione più accurata, e la più coerente con la legislazione islamica e la Sunna del Profeta, è che l’uccisione dell’apostata significava l’uccisione del traditore del gruppo, l’equivalente di tradimento nel diritto internazionale, gli apostati in quell’epoca rappresentavano i nemici della Umma proprio perché potevano rivelare segreti agli avversari». Insomma, un contesto bellico e ragioni più politiche che religiose alla base della ferma condanna per apostasia.
Tutti riferimenti che, ancora di più, fanno emergere questa fatwa come un passo inedito e sono incoraggianti perché contestualizzano storicamente un fatto, rivalutandolo nel nostro presente. Se l’Islam ortodosso, in tutti gli angoli del mondo, procedesse nell’analisi e nell’interpretazione su questa linea, si farebbero molti passi in avanti di cui i musulmani hanno urgente bisogno, oggi più che mai.
“Liberi di uscire dall’Islam”, svolta storica del Marocco
Nessuna condanna a morte per l’apostata, e libertà di scelta per chi vuole abbracciare altre fedi: così si è espresso per la prima volta il Consiglio superiore degli Ulema in Marocco, aprendo la strada al riformismo dell’Islam
di Karima Moual
Nessuna condanna a morte per l’apostata e libertà per coloro che dall’Islam vogliono uscire e abbracciare altre fedi. E’ una posizione storica, quella assunta dalla massima rappresentanza religiosa del Marocco, il Consiglio superiore degli Ulema, che continua coraggiosamente ad aprire la strada al riformismo in casa Islam - almeno la propria - senza ombre o ambiguità. Si punta dunque su un livello alto della discussione, anche facendo un passo indietro rispetto al passato. Il Consiglio infatti rigetta una sua precedente fatwa del 2012 secondo la quale i marocchini colpevoli di apostasia avrebbero un unico destino: la morte. Una regola comune per tutti i Paesi musulmani, ma prevista in varie forme dalle norme giuridiche in vigore. In Marocco, per esempio non è contemplata la pena di morte, ma il codice penale parla di detenzione per l’apostata che può arrivare fino a 3 anni.
Una posizione, però, che già all’epoca aveva fatto discutere molto in un Paese che del pluralismo religioso ha fatto il proprio fiore all’occhiello, e che più di altri vi presta attenzione e porta avanti un lavoro immenso per difendere la propria posizione e visione di un «Islam moderato». Il Consiglio degli Ulema dunque, cerca di tracciare una linea chiara su un tema di grande attualità, politicamente e socialmente scomodo e che in futuro si potrebbe presentare come una trappola micidiale perché nel Paese si sono rivelati, senza più filtri, abitanti passati dal sunnismo allo sciismo (si sono aperti solo lo scorso anno i primi centri sciiti) così come al cristianesimo o, addirittura, all’ateismo. Voci che nell’ultimo periodo sono uscite dalla clandestinità sfidando l’ipocrisia di chi li conosce, ma non li vuole riconoscere.
Con la questione “apostasia”, il consiglio degli Ulema affronta un punto da sempre pressoché intoccabile nel dibattuto interno all’Islam, ma difficile da controbattere ufficialmente nella sua interpretazione. Eppure nel Corano non si parla direttamente di apostasia, si rimproverano più volte coloro che rinnegano l’Islam, ma non si prevede per loro alcun castigo terrestre per altrui mano. Certo, Dio promette un grande castigo a chi abbandona la religione, ma un castigo - come nelle altre religioni peraltro - che avverrebbe nell’aldilà e non certamente in Arabia Saudita e per mano di un boia, come vuole l’Islam più oscurantista che trova appoggio in certe interpretazioni della Sunna.
Il nodo infatti è contenuto in un famoso hadith che sentenzia «chi cambia religione uccidetelo». Quanto basta per far giungere la condanna di morte agli apostati sino ai nostri giorni. Non più per gli Ulema del Marocco, che argomentano così la loro nuova fatwa: «La comprensione più accurata, e la più coerente con la legislazione islamica e la Sunna del Profeta, è che l’uccisione dell’apostata significava l’uccisione del traditore del gruppo, l’equivalente di tradimento nel diritto internazionale, gli apostati in quell’epoca rappresentavano i nemici della Umma proprio perché potevano rivelare segreti agli avversari». Insomma, un contesto bellico e ragioni più politiche che religiose alla base della ferma condanna per apostasia.
Tutti riferimenti che, ancora di più, fanno emergere questa fatwa come un passo inedito e sono incoraggianti perché contestualizzano storicamente un fatto, rivalutandolo nel nostro presente. Se l’Islam ortodosso, in tutti gli angoli del mondo, procedesse nell’analisi e nell’interpretazione su questa linea, si farebbero molti passi in avanti di cui i musulmani hanno urgente bisogno, oggi più che mai.
mercoledì 8 febbraio 2017
La Stampa 8.2.17
Addio al filosofo Tzvetan Todorov
Celebrò l’uomo contro i totalitarismi
Nato a Sofia, allievo di Barthes, difese i valori dell’Illuminismo dagli oscurantismi e indagò l’universo concentrazionale
di Massimiliano Panarari
Uno studioso versato negli attraversamenti disciplinari e predisposto alla contaminazione. Un profondo «umanista contemporaneo» (come è stato definito in Francia) e un indomito intellettuale pubblico, europeista convinto. Ecco l’identikit del teorico della letteratura, storico delle idee («etichetta» che lui stesso preferiva a quella di filosofo) e saggista Tzvetan Todorov, nato a Sofia nel marzo del 1939 e scomparso ieri a Parigi all’età di 77 anni. Una figura, insignita di molti premi e riconoscimenti per le scienze sociali, votata alla rottura degli steccati tanto nel sapere quanto nel modo di pensare le società e l’umanità.
Todorov cominciò a muovere i suoi passi sulla scena intellettuale internazionale, dopo la laurea in filologia in patria, con il trasferimento nel ’63 per il dottorato a Parigi, dove fu allievo del celebre semiologo Roland Barthes, e approdò al Cnrs (il Centre national de la recherche scientifique), intraprendendo una brillante carriera che lo porterà a diventare direttore del Centre de recherches sur les arts et le langage presso l’Ecole des hautes études en sciences sociales. Fuoriuscito da uno dei Paesi più «osservanti» e liberticidi del blocco del socialismo reale, di cui descrisse in varie occasioni la perversa capacità di annullamento dei valori (e del valore) dell’individuo, Todorov svolse un ruolo essenziale nell’importazione nell’Europa occidentale della metodologia di analisi dei testi letterari sviluppata dalla scuola del formalismo russo degli Anni Venti (di cui curò una famosa antologia, pubblicata in Italia nel ’68 da Einaudi). Una proposta culturale che incontrò gli immediati favori dello strutturalismo transalpino, verso il quale si orientò da subito il lavoro di Todorov, con la sua ricerca di una scienza della letteratura (la «poetica») in grado di formalizzare le norme astratte e le leggi fondamentali della narrazione. Una visione, appunto, tipicamente strutturalista, veicolata anche attraverso la rivista di teoria letteraria Poétique da lui fondata, nel 1970, insieme a Gérard Genette, ma che saprà rendere via via meno ortodossa nel corso del decennio; in seguito, l’entrata in crisi della critica di impronta semiologica lo indurrà a spostare l’asse della ricerca verso il simbolismo linguistico e una concezione del testo in cui la centralità della «struttura» (e del «sistema») lasciava progressivamente il passo a una sua visione più «dialogica», fondata sulla consapevolezza della rilevanza della molteplicità delle influenze culturali e del confronto tra gli autori (documentata già da un libro come l’Introduzione alla letteratura fantastica, Garzanti).
Il congedo dall’approccio strutturalista lo conduce, negli Anni Ottanta, al nuovo periodo del lavoro sulla storia delle idee, costellato di saggi quali La conquista dell’America (uscito in Italia nel 1984 sempre da Einaudi, e dedicato all’annullamento delle culture indigene amerindie nel nome della colonizzazione) e Noi e gli altri sulle riflessioni, nel pensiero francese tra Settecento e Novecento, intorno al tema della diversità umana. Un’analisi incrociata e comparata, come d’abitudine, che ha fornito il sostrato per la sua nozione, basata su un’idea di moderazione e sulla razionalità, di un «umanesimo ben temperato».
Queste posizioni lo porteranno, negli Anni Duemila, a individuare ne Lo spirito dell’Illuminismo (Garzanti, 2007) il lascito migliore della storia europea e il solo antidoto al dilagare dell’irrazionalismo e del revanscismo neoidentitario e xenofobo. L’intellettuale franco-bulgaro era entrato da qualche tempo nella sua fase di pensatore morale ed etico, che si era cimentato, nel volume Di fronte all’estremo (Garzanti, 1992), con l’abisso concentrazionario e il progetto di disumanizzazione attuato dai totalitarismi (che non è archiviato una volta per tutte, metteva in guardia, perché l’orrore rimane sempre in agguato sotto altre spoglie).
Il Todorov degli ultimi due decenni è stato il fiero avversario della dottrina dello scontro di civiltà di Samuel Huntington, la firma di Libération che interveniva in maniera «militante» sui temi dell’attualità, e la voce coraggiosa che si faceva puntualmente sentire in questa nostra epoca di pruriti neototalitari rossobruni e di populismi, avendo – lui che disvelò la protervia e il «nichilismo» del comunismo della cortina di ferro – i titoli esemplari per farlo.
Todorov è stato anche lo studioso multidisciplinare di Benjamin Constant e di Rembrandt, lo storico delle idee che ha rivendicato fortemente la tesi per cui il pensiero non è appannaggio esclusivo dei filosofi, ma viene espresso dagli artisti come dai teorici politici. E da tutti coloro che, di fronte alle minacce alla libertà e alla dignità degli individui, sono capaci di testimoniare e resistere, come i grandi Resistenti (da Pasternak a Luther King ed Etty Hillesum) del suo ultimo libro.
Addio al filosofo Tzvetan Todorov
Celebrò l’uomo contro i totalitarismi
Nato a Sofia, allievo di Barthes, difese i valori dell’Illuminismo dagli oscurantismi e indagò l’universo concentrazionale
di Massimiliano Panarari
Uno studioso versato negli attraversamenti disciplinari e predisposto alla contaminazione. Un profondo «umanista contemporaneo» (come è stato definito in Francia) e un indomito intellettuale pubblico, europeista convinto. Ecco l’identikit del teorico della letteratura, storico delle idee («etichetta» che lui stesso preferiva a quella di filosofo) e saggista Tzvetan Todorov, nato a Sofia nel marzo del 1939 e scomparso ieri a Parigi all’età di 77 anni. Una figura, insignita di molti premi e riconoscimenti per le scienze sociali, votata alla rottura degli steccati tanto nel sapere quanto nel modo di pensare le società e l’umanità.
Todorov cominciò a muovere i suoi passi sulla scena intellettuale internazionale, dopo la laurea in filologia in patria, con il trasferimento nel ’63 per il dottorato a Parigi, dove fu allievo del celebre semiologo Roland Barthes, e approdò al Cnrs (il Centre national de la recherche scientifique), intraprendendo una brillante carriera che lo porterà a diventare direttore del Centre de recherches sur les arts et le langage presso l’Ecole des hautes études en sciences sociales. Fuoriuscito da uno dei Paesi più «osservanti» e liberticidi del blocco del socialismo reale, di cui descrisse in varie occasioni la perversa capacità di annullamento dei valori (e del valore) dell’individuo, Todorov svolse un ruolo essenziale nell’importazione nell’Europa occidentale della metodologia di analisi dei testi letterari sviluppata dalla scuola del formalismo russo degli Anni Venti (di cui curò una famosa antologia, pubblicata in Italia nel ’68 da Einaudi). Una proposta culturale che incontrò gli immediati favori dello strutturalismo transalpino, verso il quale si orientò da subito il lavoro di Todorov, con la sua ricerca di una scienza della letteratura (la «poetica») in grado di formalizzare le norme astratte e le leggi fondamentali della narrazione. Una visione, appunto, tipicamente strutturalista, veicolata anche attraverso la rivista di teoria letteraria Poétique da lui fondata, nel 1970, insieme a Gérard Genette, ma che saprà rendere via via meno ortodossa nel corso del decennio; in seguito, l’entrata in crisi della critica di impronta semiologica lo indurrà a spostare l’asse della ricerca verso il simbolismo linguistico e una concezione del testo in cui la centralità della «struttura» (e del «sistema») lasciava progressivamente il passo a una sua visione più «dialogica», fondata sulla consapevolezza della rilevanza della molteplicità delle influenze culturali e del confronto tra gli autori (documentata già da un libro come l’Introduzione alla letteratura fantastica, Garzanti).
Il congedo dall’approccio strutturalista lo conduce, negli Anni Ottanta, al nuovo periodo del lavoro sulla storia delle idee, costellato di saggi quali La conquista dell’America (uscito in Italia nel 1984 sempre da Einaudi, e dedicato all’annullamento delle culture indigene amerindie nel nome della colonizzazione) e Noi e gli altri sulle riflessioni, nel pensiero francese tra Settecento e Novecento, intorno al tema della diversità umana. Un’analisi incrociata e comparata, come d’abitudine, che ha fornito il sostrato per la sua nozione, basata su un’idea di moderazione e sulla razionalità, di un «umanesimo ben temperato».
Queste posizioni lo porteranno, negli Anni Duemila, a individuare ne Lo spirito dell’Illuminismo (Garzanti, 2007) il lascito migliore della storia europea e il solo antidoto al dilagare dell’irrazionalismo e del revanscismo neoidentitario e xenofobo. L’intellettuale franco-bulgaro era entrato da qualche tempo nella sua fase di pensatore morale ed etico, che si era cimentato, nel volume Di fronte all’estremo (Garzanti, 1992), con l’abisso concentrazionario e il progetto di disumanizzazione attuato dai totalitarismi (che non è archiviato una volta per tutte, metteva in guardia, perché l’orrore rimane sempre in agguato sotto altre spoglie).
Il Todorov degli ultimi due decenni è stato il fiero avversario della dottrina dello scontro di civiltà di Samuel Huntington, la firma di Libération che interveniva in maniera «militante» sui temi dell’attualità, e la voce coraggiosa che si faceva puntualmente sentire in questa nostra epoca di pruriti neototalitari rossobruni e di populismi, avendo – lui che disvelò la protervia e il «nichilismo» del comunismo della cortina di ferro – i titoli esemplari per farlo.
Todorov è stato anche lo studioso multidisciplinare di Benjamin Constant e di Rembrandt, lo storico delle idee che ha rivendicato fortemente la tesi per cui il pensiero non è appannaggio esclusivo dei filosofi, ma viene espresso dagli artisti come dai teorici politici. E da tutti coloro che, di fronte alle minacce alla libertà e alla dignità degli individui, sono capaci di testimoniare e resistere, come i grandi Resistenti (da Pasternak a Luther King ed Etty Hillesum) del suo ultimo libro.
La Stampa 8.2.17
Pestato e violentato dai poliziotti
Rivolta nelle banlieue di Parigi
Il ragazzo aggredito: ora basta alla violenza. Hollande: la giustizia andrà fino in fondo
di Paolo Levi
Massacrato dalla polizia nella Patria dei Diritti umani. La paura di una nuova rivolta nelle banlieue di Francia dopo le violenze di quattro poliziotti ai danni di Théo, il ventiduenne di colore fermato, pestato e, secondo le accuse, sodomizzato con un manganello, irrompe nella campagna presidenziale francese. «La giustizia andrà fino in fondo», garantisce François Hollande, che ieri - nel tentativo di riportare la situazione alla calma dopo tre notti di proteste, con auto incendiate e danneggiamenti nella periferia di Aulnay-sous-Bois - è andato personalmente a trovare il ragazzo nella stanza d’ospedale in cui è ricoverato. Nella visita a sorpresa il capo dello Stato ha reso omaggio al «comportamento esemplare» di Théo, che - sono le sue parole - ha reagito con «dignità e responsabilità» dopo le violenze subite dai quattro agenti indagati, di cui uno per stupro e gli altri tre per violenze di gruppo.
Nell’immagine Hollande stringe la mano della vittima divenuta in poche ore il simbolo di quelle periferie dell’emarginazione per le quali l’ex premier Manuel Valls parlò di apartheid. Théo è disteso a letto, con il volto tumefatto, indossa una maglia dell’Inter. Ora la speranza è che quella foto del presidente al suo capezzale possa contribuire a sedare la rabbia delle periferie insieme con l’appello, commovente, rivolto dal ragazzo ai concittadini di Aulnay. «So quello che sta accadendo. Amo la mia città e quando tornerò vorrei ritrovarla come l’ho lasciata. Quindi, ragazzi, stop alla guerra. Pregate per me». «Grazie per questo messaggio - gli ha risposto Hollande - per questa fiducia e per l’amore per la tua città». Poco prima, davanti alle telecamere, il capo dello Stato era stato chiaro: «La giustizia è garante delle libertà e i cittadini devono capire che è la giustizia che li protegge se i loro diritti sono stati violati, se la loro integrità fisica non è stata rispettata, anche se da parte delle forze dell’ordine».
Il fermo era avvenuto giovedì, vicino casa sua, dove i quattro agenti lo avrebbero inseguito, picchiato e usato violenza contro di lui durante un controllo di identità degenerato, pare, per un diverbio. Il poliziotto accusato di stupro si è difeso evocando un «incidente». Ma l’aggressione è avvenuta sotto l’occhio di una telecamera, il video diffuso ha suscitato indignazione in tutto il Paese, il primo ministro Bernard Cazeneuve ha chiesto «fermezza», mentre il candidato socialista alle presidenziali del 23 aprile e del 7 maggio, Benoit Hamon, ha denunciato fatti «inammissibili». Diversa la posizione di Marine Le Pen,la leader del Front National che ieri era in commissariato per solidarizzare con le forze dell’ordine. «Il mio principio di base - ha detto - è prima di tutto sostenere polizia e gendarmeria, almeno fino a quando i giudici non avranno dimostrato che è stato perpetrato un crimine o un delitto».
La diagnosi dei medici sembra non lasciare dubbi: «Ferita longitudinale del canale anale», «lacerazione del muscolo sfintere». L’altroieri si era svolta a Aulnay una marcia di sostegno al ragazzo e di protesta contro la polizia, ieri le madri del quartiere hanno chiesto che le forze dell’ordine non tengano più d’assedio la zona.
Pestato e violentato dai poliziotti
Rivolta nelle banlieue di Parigi
Il ragazzo aggredito: ora basta alla violenza. Hollande: la giustizia andrà fino in fondo
di Paolo Levi
Massacrato dalla polizia nella Patria dei Diritti umani. La paura di una nuova rivolta nelle banlieue di Francia dopo le violenze di quattro poliziotti ai danni di Théo, il ventiduenne di colore fermato, pestato e, secondo le accuse, sodomizzato con un manganello, irrompe nella campagna presidenziale francese. «La giustizia andrà fino in fondo», garantisce François Hollande, che ieri - nel tentativo di riportare la situazione alla calma dopo tre notti di proteste, con auto incendiate e danneggiamenti nella periferia di Aulnay-sous-Bois - è andato personalmente a trovare il ragazzo nella stanza d’ospedale in cui è ricoverato. Nella visita a sorpresa il capo dello Stato ha reso omaggio al «comportamento esemplare» di Théo, che - sono le sue parole - ha reagito con «dignità e responsabilità» dopo le violenze subite dai quattro agenti indagati, di cui uno per stupro e gli altri tre per violenze di gruppo.
Nell’immagine Hollande stringe la mano della vittima divenuta in poche ore il simbolo di quelle periferie dell’emarginazione per le quali l’ex premier Manuel Valls parlò di apartheid. Théo è disteso a letto, con il volto tumefatto, indossa una maglia dell’Inter. Ora la speranza è che quella foto del presidente al suo capezzale possa contribuire a sedare la rabbia delle periferie insieme con l’appello, commovente, rivolto dal ragazzo ai concittadini di Aulnay. «So quello che sta accadendo. Amo la mia città e quando tornerò vorrei ritrovarla come l’ho lasciata. Quindi, ragazzi, stop alla guerra. Pregate per me». «Grazie per questo messaggio - gli ha risposto Hollande - per questa fiducia e per l’amore per la tua città». Poco prima, davanti alle telecamere, il capo dello Stato era stato chiaro: «La giustizia è garante delle libertà e i cittadini devono capire che è la giustizia che li protegge se i loro diritti sono stati violati, se la loro integrità fisica non è stata rispettata, anche se da parte delle forze dell’ordine».
Il fermo era avvenuto giovedì, vicino casa sua, dove i quattro agenti lo avrebbero inseguito, picchiato e usato violenza contro di lui durante un controllo di identità degenerato, pare, per un diverbio. Il poliziotto accusato di stupro si è difeso evocando un «incidente». Ma l’aggressione è avvenuta sotto l’occhio di una telecamera, il video diffuso ha suscitato indignazione in tutto il Paese, il primo ministro Bernard Cazeneuve ha chiesto «fermezza», mentre il candidato socialista alle presidenziali del 23 aprile e del 7 maggio, Benoit Hamon, ha denunciato fatti «inammissibili». Diversa la posizione di Marine Le Pen,la leader del Front National che ieri era in commissariato per solidarizzare con le forze dell’ordine. «Il mio principio di base - ha detto - è prima di tutto sostenere polizia e gendarmeria, almeno fino a quando i giudici non avranno dimostrato che è stato perpetrato un crimine o un delitto».
La diagnosi dei medici sembra non lasciare dubbi: «Ferita longitudinale del canale anale», «lacerazione del muscolo sfintere». L’altroieri si era svolta a Aulnay una marcia di sostegno al ragazzo e di protesta contro la polizia, ieri le madri del quartiere hanno chiesto che le forze dell’ordine non tengano più d’assedio la zona.
La Stampa 8.2.17
Volontari e deputati
Le truppe di Emiliano per sfidare Renzi
Il governatore a caccia di 19 mila firme per il congresso
di Amedeo La Mattina
L’uomo macchina di Michele Emiliano si chiama Domenico De Santis, il giovane consigliere del governatore pugliese che si occupa dei rapporti con il governo, gli enti locali e i sindacati. Ma in queste settimane è super impegnato a coordinare la raccolta delle firme per i due referendum tra gli iscritti del Pd: uno per chiedere il congresso prima delle elezioni, il secondo per aprire una discussione sul programma elettorale tra iscritti ed elettori. Ce ne vogliono circa 19 mila (il 5% degli scritti secondo lo statuto) per costringere Renzi a convocare queste consultazioni. «E quelle che stiamo raccogliendo - spiega De Santis - sono tutte firme vere e autenticate. Chi si iscrive alla nostra piattaforma primailcongresso.it scarica il modulo e lo fa firmare. Stanno arrivando adesione da tutta l’Italia».
La rete di Emiliano comincia a prendere forma. Lui rifiuta di chiamarla componente o, peggio ancora, corrente. Rimane il fatto concreto che il governatore pugliese, che sta sfidando Renzi su una posizione politica molto a sinistra, sta organizzando le sue truppe. Indipendentemente da D’Alema, Bersani e Cuperlo e Speranza.
Alla Camera sono schierati dalla sua parte Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio, Dario Ginefra e Francesco Laforgia, ex area Cuperlo di Milano. Raccolgono firme anche molti deputati che fanno capo all’ex ministro Giuseppe Fioroni come Simone Valiante. Altri starebbero arrivando alla spicciolata e senza dirlo pubblicamente aiutano a raccogliere le firme nelle loro città attraverso i volontari che si sono iscritti alla piattaforma e hanno scaricato il modulo. Sono 2500 questi volontari, fino ad oggi: se ognuno di loro riuscirà a raccogliere 10 firme autenticate, ne verranno portate sul tavolo di Renzi 25 mila, molto di più di quelle necessarie per indire un referendum e chiedere il congresso.
«Ci sono consiglieri comunali, regionali, semplici cittadini, ex iscritti al Pd che vogliono ritornare ad impegnarsi nel partito», dice Emiliano che domenica sarà a Firenze insieme al presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, anche lui pronto a candidarsi alla segretaria contro Renzi. I due però stanno unendo le forze e domenica prossima saranno insieme nel capoluogo toscano dove verranno raccolte altre adesioni. Lì il punto di riferimento è la consigliere regionale Serena Spinelli, anche lei una volta vicina a Cuperlo.
Anche in Piemonte c’è movimento tra amministratori comunali e regionali, in tutto una trentina. Tra questi una collaborazione con Emiliano l’ha iniziata il consigliere di Torino Enzo Lavolta, vicepresidente del consiglio comunale e secondo tra i più votati in città. A Reggio Emilia il consigliere comunale Dario di Lucia ha già raccolto 56 firme in due giorni. In Basilicata è attivo il consigliere regionale Pietro Lacorazza. Poi i circoli del Pd, come quello in Lombardia di Prato-Bicocca, nel Lazio di Monterotondo.
De Santis racconta che in questo suo lavoro di coordinamento e di organizzazione in giro per l’Italia ha scoperto uno stato comatoso del partito. E questo rende difficile la raccolta delle firme, perchè in alcune realtà non ci sono iscritti. «Il Pd è commissariato in Veneto, Sardegna, Liguria. Lo stesso in molte federazioni provinciali. In alcune città non è possibile iscriversi nemmeno on line. Abbiamo ricevuto lettere di ex iscritti che vorrebbero rinnovare la tessera e non sanno come fare. A Reggio Calabria c’è un gruppo che si è avvicinato a noi che non riesce a iscriversi dal 2013».
Volontari e deputati
Le truppe di Emiliano per sfidare Renzi
Il governatore a caccia di 19 mila firme per il congresso
di Amedeo La Mattina
L’uomo macchina di Michele Emiliano si chiama Domenico De Santis, il giovane consigliere del governatore pugliese che si occupa dei rapporti con il governo, gli enti locali e i sindacati. Ma in queste settimane è super impegnato a coordinare la raccolta delle firme per i due referendum tra gli iscritti del Pd: uno per chiedere il congresso prima delle elezioni, il secondo per aprire una discussione sul programma elettorale tra iscritti ed elettori. Ce ne vogliono circa 19 mila (il 5% degli scritti secondo lo statuto) per costringere Renzi a convocare queste consultazioni. «E quelle che stiamo raccogliendo - spiega De Santis - sono tutte firme vere e autenticate. Chi si iscrive alla nostra piattaforma primailcongresso.it scarica il modulo e lo fa firmare. Stanno arrivando adesione da tutta l’Italia».
La rete di Emiliano comincia a prendere forma. Lui rifiuta di chiamarla componente o, peggio ancora, corrente. Rimane il fatto concreto che il governatore pugliese, che sta sfidando Renzi su una posizione politica molto a sinistra, sta organizzando le sue truppe. Indipendentemente da D’Alema, Bersani e Cuperlo e Speranza.
Alla Camera sono schierati dalla sua parte Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio, Dario Ginefra e Francesco Laforgia, ex area Cuperlo di Milano. Raccolgono firme anche molti deputati che fanno capo all’ex ministro Giuseppe Fioroni come Simone Valiante. Altri starebbero arrivando alla spicciolata e senza dirlo pubblicamente aiutano a raccogliere le firme nelle loro città attraverso i volontari che si sono iscritti alla piattaforma e hanno scaricato il modulo. Sono 2500 questi volontari, fino ad oggi: se ognuno di loro riuscirà a raccogliere 10 firme autenticate, ne verranno portate sul tavolo di Renzi 25 mila, molto di più di quelle necessarie per indire un referendum e chiedere il congresso.
«Ci sono consiglieri comunali, regionali, semplici cittadini, ex iscritti al Pd che vogliono ritornare ad impegnarsi nel partito», dice Emiliano che domenica sarà a Firenze insieme al presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, anche lui pronto a candidarsi alla segretaria contro Renzi. I due però stanno unendo le forze e domenica prossima saranno insieme nel capoluogo toscano dove verranno raccolte altre adesioni. Lì il punto di riferimento è la consigliere regionale Serena Spinelli, anche lei una volta vicina a Cuperlo.
Anche in Piemonte c’è movimento tra amministratori comunali e regionali, in tutto una trentina. Tra questi una collaborazione con Emiliano l’ha iniziata il consigliere di Torino Enzo Lavolta, vicepresidente del consiglio comunale e secondo tra i più votati in città. A Reggio Emilia il consigliere comunale Dario di Lucia ha già raccolto 56 firme in due giorni. In Basilicata è attivo il consigliere regionale Pietro Lacorazza. Poi i circoli del Pd, come quello in Lombardia di Prato-Bicocca, nel Lazio di Monterotondo.
De Santis racconta che in questo suo lavoro di coordinamento e di organizzazione in giro per l’Italia ha scoperto uno stato comatoso del partito. E questo rende difficile la raccolta delle firme, perchè in alcune realtà non ci sono iscritti. «Il Pd è commissariato in Veneto, Sardegna, Liguria. Lo stesso in molte federazioni provinciali. In alcune città non è possibile iscriversi nemmeno on line. Abbiamo ricevuto lettere di ex iscritti che vorrebbero rinnovare la tessera e non sanno come fare. A Reggio Calabria c’è un gruppo che si è avvicinato a noi che non riesce a iscriversi dal 2013».
La Stampa 8.2.17
Un resort di lusso o un polo museale cancellano il passato che imbarazza
Il sindaco: presenza penalizzante. La direttrice: ospiti iniziative sociali
di Flavia Amabile
L’ultimo paziente internato dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino è andato via alle undici meno un quarto. Sono venuti in auto da Umbertide per portarlo in una comunità.
Non era la libertà totale che l’uomo avrebbe voluto ma non è nemmeno più la detenzione nell’edificio dall’architettura austera e un po’ sinistra, schizofrenico anche nella sua storia. E’ stata la preferita delle ville di campagna di Ferdinando I dei Medici. Ma è stato anche il primo manicomio criminale d’Italia e ha continuato a esserlo anche quando ormai formalmente era stato trasformato in ospedale psichiatrico giudiziario.
Tutti sapevano delle condizioni in cui i pazienti detenuti tra le mura dell’antica villa medicea erano costretti a vivere: sette persone in una cella, le urla, la sporcizia, i casi più difficili legati mani e piedi alle sbarre di un letto. Fu la commissione del Senato presieduta da Ignazio Marino a denunciare la situazione nel 2011. Da allora per l’opg di Montelupo Fiorentino è iniziata un’era diversa. Antonella Tuoni, la nuova direttrice, dopo una lunga battaglia è riuscita ad abolire la contenzione dei malati e ha provato anche a portare un lato umano all’interno dell’ospedale con letture, teatro, film, attività di recupero dell’edificio rimesso a posto dai detenuti.
Quella che si è lasciato alle spalle con un sorriso l’ultimo internato è una struttura molto diversa da quella raccontata da Marino e dagli altri componenti della commissione. Le celle superaffollate si sono trasformate in stanze dove al massimo convivono in due, mentre i cento e oltre malati presenti ancora fino a due anni fa venivano lentamente trasferiti altrove. I pavimenti, i bagni, le pareti: tutto quello che si poteva rifare è stato rifatto per una spesa di oltre sette milioni di euro.
Ieri è stato l’ultimo giorno della reggia di Montelupo Fiorentino come ospedale psichiatrico giudiziario ma la struttura resta in funzione come luogo di detenzione per condannati che mentre erano in carcere hanno sviluppato disagi, problemi mentali e per altri che invece hanno commesso reati contro familiari, contro minori, o che non sono tollerati dagli altri detenuti. In totale a Montelupo sono in nove in queste condizioni. Si stanno cercando delle soluzioni ma nel frattempo la vita va avanti come sempre. Biagio, il detenuto cuoco, prepara ogni giorno pranzo e cena nella cucina e porta le pietanze nelle celle con un carrello. Massimo, un ex pugile, pensa alla figlia di dodici anni e si mantiene in allenamento con le corse e le passeggiate nel giardino.
Il paese non vede l’ora di sbarazzarsi anche di loro. Il sindaco ha più volte ripetuto che la presenza di «una struttura carceraria sia incompatibile con il recupero di un pezzo importante di città». Ci sono molti progetti: si parla di un resort di lusso, di un polo museale o per convegni. La direttrice del carcere non è d’accordo e ha espresso il suo dissenso in diverse occasioni: «Non comprendo come mai si debba chiudere un istituto perfettamente ristrutturato che potrebbe da domani accogliere 160 persone decongestionando le altre carceri toscane e migliorandone così le condizioni di vita». Non solo. «Non comprendo - aggiunge - perché non si possa fare la manutenzione della villa medicea e sfruttarne la potenzialità quale polo museale, espositivo e convegnistico impiegando manodopera detenuta».
È una vera battaglia fra chi vuole conservare la vocazione sociale dell’edificio e chi vuole renderlo un reddito per il pubblico o il privato. Nel frattempo ieri sera i nove detenuti rimasti hanno mangiato la pasta e fagioli cucinata da Biagio e ai fornitori che arrivavano chiedendo se era finita, in portineria la risposta era una risata: «Finché siamo qui noi tutto va avanti come sempre». Per quanto ancora resisteranno?
Un resort di lusso o un polo museale cancellano il passato che imbarazza
Il sindaco: presenza penalizzante. La direttrice: ospiti iniziative sociali
di Flavia Amabile
L’ultimo paziente internato dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino è andato via alle undici meno un quarto. Sono venuti in auto da Umbertide per portarlo in una comunità.
Non era la libertà totale che l’uomo avrebbe voluto ma non è nemmeno più la detenzione nell’edificio dall’architettura austera e un po’ sinistra, schizofrenico anche nella sua storia. E’ stata la preferita delle ville di campagna di Ferdinando I dei Medici. Ma è stato anche il primo manicomio criminale d’Italia e ha continuato a esserlo anche quando ormai formalmente era stato trasformato in ospedale psichiatrico giudiziario.
Tutti sapevano delle condizioni in cui i pazienti detenuti tra le mura dell’antica villa medicea erano costretti a vivere: sette persone in una cella, le urla, la sporcizia, i casi più difficili legati mani e piedi alle sbarre di un letto. Fu la commissione del Senato presieduta da Ignazio Marino a denunciare la situazione nel 2011. Da allora per l’opg di Montelupo Fiorentino è iniziata un’era diversa. Antonella Tuoni, la nuova direttrice, dopo una lunga battaglia è riuscita ad abolire la contenzione dei malati e ha provato anche a portare un lato umano all’interno dell’ospedale con letture, teatro, film, attività di recupero dell’edificio rimesso a posto dai detenuti.
Quella che si è lasciato alle spalle con un sorriso l’ultimo internato è una struttura molto diversa da quella raccontata da Marino e dagli altri componenti della commissione. Le celle superaffollate si sono trasformate in stanze dove al massimo convivono in due, mentre i cento e oltre malati presenti ancora fino a due anni fa venivano lentamente trasferiti altrove. I pavimenti, i bagni, le pareti: tutto quello che si poteva rifare è stato rifatto per una spesa di oltre sette milioni di euro.
Ieri è stato l’ultimo giorno della reggia di Montelupo Fiorentino come ospedale psichiatrico giudiziario ma la struttura resta in funzione come luogo di detenzione per condannati che mentre erano in carcere hanno sviluppato disagi, problemi mentali e per altri che invece hanno commesso reati contro familiari, contro minori, o che non sono tollerati dagli altri detenuti. In totale a Montelupo sono in nove in queste condizioni. Si stanno cercando delle soluzioni ma nel frattempo la vita va avanti come sempre. Biagio, il detenuto cuoco, prepara ogni giorno pranzo e cena nella cucina e porta le pietanze nelle celle con un carrello. Massimo, un ex pugile, pensa alla figlia di dodici anni e si mantiene in allenamento con le corse e le passeggiate nel giardino.
Il paese non vede l’ora di sbarazzarsi anche di loro. Il sindaco ha più volte ripetuto che la presenza di «una struttura carceraria sia incompatibile con il recupero di un pezzo importante di città». Ci sono molti progetti: si parla di un resort di lusso, di un polo museale o per convegni. La direttrice del carcere non è d’accordo e ha espresso il suo dissenso in diverse occasioni: «Non comprendo come mai si debba chiudere un istituto perfettamente ristrutturato che potrebbe da domani accogliere 160 persone decongestionando le altre carceri toscane e migliorandone così le condizioni di vita». Non solo. «Non comprendo - aggiunge - perché non si possa fare la manutenzione della villa medicea e sfruttarne la potenzialità quale polo museale, espositivo e convegnistico impiegando manodopera detenuta».
È una vera battaglia fra chi vuole conservare la vocazione sociale dell’edificio e chi vuole renderlo un reddito per il pubblico o il privato. Nel frattempo ieri sera i nove detenuti rimasti hanno mangiato la pasta e fagioli cucinata da Biagio e ai fornitori che arrivavano chiedendo se era finita, in portineria la risposta era una risata: «Finché siamo qui noi tutto va avanti come sempre». Per quanto ancora resisteranno?
La Stampa 8.2.16
Abbandonati o in strutture inadeguate
Il futuro degli internati resta difficile
Molti sindaci si oppongono all’apertura delle residenze speciali
Gli psichiatri: c’è il rischio che diventino luoghi di detenzione
di Paolo Russo
«S’unn a finisci ti mannu a Barcellona». Al manicomio criminale. Ieri ha chiuso l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. «Tra una decina di giorni trasmigreranno in comunità terapeutica anche gli ultimi 13 internati rimasti», assicura Nunziante Rosania, direttore dell’ex Opg di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Ignazio Marino, prima di indossare la fascia tricolore a Roma, mostrò all’Italia le immagini di uomini e donne legati in letti di contenzione tra escrementi e sporcizia. Un’interrogazione parlamentare del Ds Michele Anzaldi, chiede conto di una ritardata chiusura giudicata «scandalosa». Tra pochi giorni si chiuderà un’era. Una lunga marcia iniziata nel ’78 con la legge Basaglia che decretava la fine dei manicomi. Arrivò però solo vent’anni dopo, quando l’allora ministro della sanità, Rosy Bindi, firmò la chiusura degli ultimi rimasti. Mentre per gli Opg bisognò aspettare il 2015.
«Missione compiuta», dichiara soddisfatto il commissario di governo per la chiusura degli ex manicomi criminali, Franco Corleone. «In poco più di un anno abbiamo ricollocato 601 internati nelle Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria, ndr), che hanno un massimo 20 letti e abrogano il regime di detenzione ma forniscono assistenza psichiatrica. Hanno lavorato bene: lo dimostrano i 222 pazienti dimessi perché guariti», dichiara anticipando i dati della relazione che presenterà al Parlamento dopo la scadenza del suo mandato, il 16 febbraio.
Gli psichiatri la vedono diversamente. «Un po’ per carenza di risorse, un po’ per l’opposizione di tanti sindaci, i posti nelle Rems sono insufficienti. Così tanti ex internati sono finiti abbandonati a loro stessi ai domiciliari o alloggiati in comunità terapeutiche non attrezzate per il disagio mentale, a contatto con persone che hanno magari problemi di tossicodipendenza e che finiscono così per non essere a loro volta seguire come si dovrebbe», spiega Bernardo Carpiniello, Presidente eletto della Società italiana psichiatria. Che però punta l’indice anche contro la magistratura, colpevole «di intendere le Rems come luoghi detentivi alternativi agli Opg anziché di cura, dove il paziente rimane per il periodo stabilito dalla Sanità anziché dalla Giustizia». E che anche questa sia la causa dei 200 ex internati in lista d’attesa per le Rems lo conferma il commissario Corleone, che per risolvere il problema chiede «maggior coordinamento tra Sanità, Giustizia, Regioni e rappresentati di Rems e detenuti». Che le cose non siano andate tutte per il verso giusto lo racconta proprio l’ex Opg di Barcellona, che tra i suoi “ospiti” ha chi nel 2009 prese a martellate due anziani riducendoli in fin di vita. «A parte un caso, qui rimasti sono tutti pazienti che non danno particolari problemi e che possono essere accolti nelle comunità terapeutiche che nella provincia hanno già dato la loro disponibilità», assicura il direttore. Ma un operatore dell’ex Opg che vive ogni giorno a contatto con i 13 superstiti racconta di «ex internati usciti dalla porta e rientrati dalla finestra come detenuti comuni in osservazione psichiatrica dopo aver commesso reati come violenza domestica e in qualche caso carnale».
Questo perché chi è uscito non ha trovato l’assistenza di cui aveva bisogno. Anche se ora il direttore Rosania annuncia di aver firmato un protocollo d’intesa con l’Asl di Messina per migliorare l’assistenza psichiatrica dei nuovi detenuti che continueranno ad arrivare in osservazione.
Abbandonati o in strutture inadeguate
Il futuro degli internati resta difficile
Molti sindaci si oppongono all’apertura delle residenze speciali
Gli psichiatri: c’è il rischio che diventino luoghi di detenzione
di Paolo Russo
«S’unn a finisci ti mannu a Barcellona». Al manicomio criminale. Ieri ha chiuso l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. «Tra una decina di giorni trasmigreranno in comunità terapeutica anche gli ultimi 13 internati rimasti», assicura Nunziante Rosania, direttore dell’ex Opg di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Ignazio Marino, prima di indossare la fascia tricolore a Roma, mostrò all’Italia le immagini di uomini e donne legati in letti di contenzione tra escrementi e sporcizia. Un’interrogazione parlamentare del Ds Michele Anzaldi, chiede conto di una ritardata chiusura giudicata «scandalosa». Tra pochi giorni si chiuderà un’era. Una lunga marcia iniziata nel ’78 con la legge Basaglia che decretava la fine dei manicomi. Arrivò però solo vent’anni dopo, quando l’allora ministro della sanità, Rosy Bindi, firmò la chiusura degli ultimi rimasti. Mentre per gli Opg bisognò aspettare il 2015.
«Missione compiuta», dichiara soddisfatto il commissario di governo per la chiusura degli ex manicomi criminali, Franco Corleone. «In poco più di un anno abbiamo ricollocato 601 internati nelle Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria, ndr), che hanno un massimo 20 letti e abrogano il regime di detenzione ma forniscono assistenza psichiatrica. Hanno lavorato bene: lo dimostrano i 222 pazienti dimessi perché guariti», dichiara anticipando i dati della relazione che presenterà al Parlamento dopo la scadenza del suo mandato, il 16 febbraio.
Gli psichiatri la vedono diversamente. «Un po’ per carenza di risorse, un po’ per l’opposizione di tanti sindaci, i posti nelle Rems sono insufficienti. Così tanti ex internati sono finiti abbandonati a loro stessi ai domiciliari o alloggiati in comunità terapeutiche non attrezzate per il disagio mentale, a contatto con persone che hanno magari problemi di tossicodipendenza e che finiscono così per non essere a loro volta seguire come si dovrebbe», spiega Bernardo Carpiniello, Presidente eletto della Società italiana psichiatria. Che però punta l’indice anche contro la magistratura, colpevole «di intendere le Rems come luoghi detentivi alternativi agli Opg anziché di cura, dove il paziente rimane per il periodo stabilito dalla Sanità anziché dalla Giustizia». E che anche questa sia la causa dei 200 ex internati in lista d’attesa per le Rems lo conferma il commissario Corleone, che per risolvere il problema chiede «maggior coordinamento tra Sanità, Giustizia, Regioni e rappresentati di Rems e detenuti». Che le cose non siano andate tutte per il verso giusto lo racconta proprio l’ex Opg di Barcellona, che tra i suoi “ospiti” ha chi nel 2009 prese a martellate due anziani riducendoli in fin di vita. «A parte un caso, qui rimasti sono tutti pazienti che non danno particolari problemi e che possono essere accolti nelle comunità terapeutiche che nella provincia hanno già dato la loro disponibilità», assicura il direttore. Ma un operatore dell’ex Opg che vive ogni giorno a contatto con i 13 superstiti racconta di «ex internati usciti dalla porta e rientrati dalla finestra come detenuti comuni in osservazione psichiatrica dopo aver commesso reati come violenza domestica e in qualche caso carnale».
Questo perché chi è uscito non ha trovato l’assistenza di cui aveva bisogno. Anche se ora il direttore Rosania annuncia di aver firmato un protocollo d’intesa con l’Asl di Messina per migliorare l’assistenza psichiatrica dei nuovi detenuti che continueranno ad arrivare in osservazione.
La Stampa 8.2.17
Addio agli ultimi manicomi criminali
Si svuotano le celle che hanno ospitato finti pazzi e veri boss
Il complesso è diventato casa circondariale
Anche il capoclan Buscetta riuscì a entrare
di Laura Anello
Da queste celle con le porte blu sono passati pazzi e finti pazzi, nella Sicilia pirandelliana dove il confine è sottile. Finti pazzi come i superboss Tommaso Buscetta, Tano Badalamenti, Stefano Bontade, arrivati grazie a giudici compiacenti per ottenere sconti di pena. Ma pure il primo pentito di mafia, Leonardo Vitale, che non fu creduto e finì ricoverato. E pazzi veri. Assassini e ladri di galline, criminali e povere anime perse. Adesso, nell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario più grande d’Italia con oltre 600 internati negli anni di pienone, ne sono rimasti 13 Gli ultimi tredici rimasti dalla grande dismissione iniziata qui due anni fa, con il trasferimento progressivo verso le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria) o verso le Comunità terapeutiche, i due destini disegnati per gli ospiti che hanno finalmente lasciato queste celle. Le prime riservate a chi è considerato socialmente pericoloso, le seconde per persone con maggiore autonomia e libertà di movimento.
È stato l’ultimo, questo ospedale psichiatrico, a chiudere i battenti, dopo un lungo passaggio di consegne tra i ministeri della Giustizia e della Salute. Eppure è quello da cui tutto è partito, quando nel 2009 Ignazio Marino, allora presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, venne qui e trovò un uomo con le mani e i piedi legati con garze, sopra un letto di ferro arrugginito con un buco per le feci e l’urina. Da quella visita nacque il disegno di legge che prevedeva la chiusura dei sei ospedali psichiatrici giudiziari d’Italia. Chiusura fu la parola d’ordine. E chiusura è stata anche qui.
Oggi questo complesso di quasi sessantamila metri quadrati nel cuore di Barcellona Pozzo di Gotto, quaranta chilometri da Messina, è diventata una casa circondariale - un carcere normale, cioè - dove sono reclusi duecentotrenta detenuti. E dove sopravvive però anche un reparto (per la burocrazia si chiama “articolazione della tutela della salute mentale”) in cui sono ricoverati i malati psichiatrici, «gente che si è ammalata durante la detenzione», spiega il direttore Nunziante Rosania, un omone grande e grosso al timone dell’istituto dal lontano 1989: in questo momento ne sono ricoverati settantadue, sessanta uomini e dodici donne tra cui anche i tredici “residui manicomiali”, seguiti da due psichiatri e da un pugno di infermieri, nell’attesa che la Regione metta a disposizione operatori socio-sanitari e tecnici della riabilitazione.
«I tredici vecchi internati - aggiunge Rosania - avrebbero dovuto essere trasferiti in una Rems a Caltagirone non ancora completata. Ma abbiamo trovato una soluzione, visto che tutti, tranne uno, alla luce di una verifica della loro condizione psichiatrica, sono risultati in condizione di transitare nelle comunità terapeutiche. Tra poco saranno dimessi». Gli altri duecentoquaranta che hanno lasciato queste sbarre, sono distribuiti tra Rems e comunità di tutta Italia, «e da lì mi scrivono, mi mandano gli auguri per il compleanno, chiedono e danno notizie». Qui, in questo enorme complesso costruito nel 1925 come manicomio criminale, dei sei reparti disposti a pettine in mezzo a uno spazio verde dove c’è pure un teatro spesso aperto alla città, ne sono attivi tre, uno per i detenuti in attesa di giudizio, gli altri due per i “definitivi”. L’altra metà del carcere è in ristrutturazione, e a lavorarci sono in gran parte proprio i carcerati, «almeno ottanta che vengono regolarmente pagati, alcuni anche del settore psichiatrico», aggiunge Rosania. E per chi vuole c’è anche la band musicale del cappellano. «Non esageriamo, la strada da fare è ancora lunga».
Addio agli ultimi manicomi criminali
Si svuotano le celle che hanno ospitato finti pazzi e veri boss
Il complesso è diventato casa circondariale
Anche il capoclan Buscetta riuscì a entrare
di Laura Anello
Da queste celle con le porte blu sono passati pazzi e finti pazzi, nella Sicilia pirandelliana dove il confine è sottile. Finti pazzi come i superboss Tommaso Buscetta, Tano Badalamenti, Stefano Bontade, arrivati grazie a giudici compiacenti per ottenere sconti di pena. Ma pure il primo pentito di mafia, Leonardo Vitale, che non fu creduto e finì ricoverato. E pazzi veri. Assassini e ladri di galline, criminali e povere anime perse. Adesso, nell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario più grande d’Italia con oltre 600 internati negli anni di pienone, ne sono rimasti 13 Gli ultimi tredici rimasti dalla grande dismissione iniziata qui due anni fa, con il trasferimento progressivo verso le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria) o verso le Comunità terapeutiche, i due destini disegnati per gli ospiti che hanno finalmente lasciato queste celle. Le prime riservate a chi è considerato socialmente pericoloso, le seconde per persone con maggiore autonomia e libertà di movimento.
È stato l’ultimo, questo ospedale psichiatrico, a chiudere i battenti, dopo un lungo passaggio di consegne tra i ministeri della Giustizia e della Salute. Eppure è quello da cui tutto è partito, quando nel 2009 Ignazio Marino, allora presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, venne qui e trovò un uomo con le mani e i piedi legati con garze, sopra un letto di ferro arrugginito con un buco per le feci e l’urina. Da quella visita nacque il disegno di legge che prevedeva la chiusura dei sei ospedali psichiatrici giudiziari d’Italia. Chiusura fu la parola d’ordine. E chiusura è stata anche qui.
Oggi questo complesso di quasi sessantamila metri quadrati nel cuore di Barcellona Pozzo di Gotto, quaranta chilometri da Messina, è diventata una casa circondariale - un carcere normale, cioè - dove sono reclusi duecentotrenta detenuti. E dove sopravvive però anche un reparto (per la burocrazia si chiama “articolazione della tutela della salute mentale”) in cui sono ricoverati i malati psichiatrici, «gente che si è ammalata durante la detenzione», spiega il direttore Nunziante Rosania, un omone grande e grosso al timone dell’istituto dal lontano 1989: in questo momento ne sono ricoverati settantadue, sessanta uomini e dodici donne tra cui anche i tredici “residui manicomiali”, seguiti da due psichiatri e da un pugno di infermieri, nell’attesa che la Regione metta a disposizione operatori socio-sanitari e tecnici della riabilitazione.
«I tredici vecchi internati - aggiunge Rosania - avrebbero dovuto essere trasferiti in una Rems a Caltagirone non ancora completata. Ma abbiamo trovato una soluzione, visto che tutti, tranne uno, alla luce di una verifica della loro condizione psichiatrica, sono risultati in condizione di transitare nelle comunità terapeutiche. Tra poco saranno dimessi». Gli altri duecentoquaranta che hanno lasciato queste sbarre, sono distribuiti tra Rems e comunità di tutta Italia, «e da lì mi scrivono, mi mandano gli auguri per il compleanno, chiedono e danno notizie». Qui, in questo enorme complesso costruito nel 1925 come manicomio criminale, dei sei reparti disposti a pettine in mezzo a uno spazio verde dove c’è pure un teatro spesso aperto alla città, ne sono attivi tre, uno per i detenuti in attesa di giudizio, gli altri due per i “definitivi”. L’altra metà del carcere è in ristrutturazione, e a lavorarci sono in gran parte proprio i carcerati, «almeno ottanta che vengono regolarmente pagati, alcuni anche del settore psichiatrico», aggiunge Rosania. E per chi vuole c’è anche la band musicale del cappellano. «Non esageriamo, la strada da fare è ancora lunga».
La Stampa 8.2.17
L’Onu a Israele: nuovi insediamenti violano il diritto internazionale
Guterres: “Superata la linea rossa”. Si allontana la soluzione dei due Stati
di Giordano Stabile
Israele «ha superato la linea rossa», punta «all’annessione» di parti della Cisgiordania e viola «il diritto internazionale». A dirlo è l’Onu, prima con il suo inviato in Medio Oriente Nicolay Mladenov e poi con lo stesso Segretario generale Antonio Guterres. Una presa di posizione dura, che arriva il giorno dopo l’approvazione da parte della Knesset del provvedimento per la legalizzazione di quattromila case costruite su terre private palestinesi.
La legge, voluta dall’ala destra del governo guidato da Netanyahu, va in senso contrario alla Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza, approvata lo scorso 23 dicembre, quella che chiedeva lo stop agli insediamenti nei Territori. Per questo le parole al Palazzo di Vetro sono pesanti. Guterres ha parlato di «violazione» che avrà «conseguenze legali di vasta portata» e ha invitato Israele a «evitare qualsiasi azione che possa far deragliare la soluzione dei due Stati».
«Due popoli, due Stati»
È proprio «due popoli, due Stati» - la formula che ha retto il processo di pace fra Israele e i palestinesi per 24 anni, dagli accordi di Oslo in poi - a essere in pericolo. I maggiori alleati di Netanyahu, Avigdor Lieberman e Nafatali Bennett, parlano apertamente di annessione di tutta o parte della Cisgiordania. L’ala destra del Likud ha presentato un mese fa un piano che lascerebbe all’Autorità palestinese solo il 39 per cento dei Territori.
L’archiviazione della formula era tabù fino a pochi mesi fa, ma ora, con Donald Trump alla casa Bianca, tutto è possibile. L’Amministrazione Usa ha criticato i «nuovi insediamenti» autorizzati da Netanyahu a partire dal 20 gennaio, oltre 6 mila nuove case, ma ha precisato che non ritiene «un ostacolo» quelli già costruiti. Netanyahu e Trump ne discuteranno a Washington mercoledì prossimo, il piatto forte del summit assieme al dossier iraniano. Il 23 dicembre, quando Obama non oppose all’Onu il veto americano alla risoluzione di condanna, sembra lontano ere geologiche.
I Paesi arabi e l’Ue
Fra i palestinesi e nei Paesi arabi c’è sconcerto e preoccupazione. Il presidente Abu Mazen ha parlato di «furto di terra», attraverso un provvedimento «inaccettabile», condannato anche da François Hollande, il più stretto alleato in Occidente, ma agli sgoccioli del suo unico mandato all’Eliseo. Il segretario generale della Lega araba Ahmed Abul Gheit ha puntato il dito su una legge che «riflette le reali intenzioni del governo israeliano e la sua posizione ostile verso la pace». Gran Bretagna, Francia, Giordania, Turchia, e l’Ue, hanno chiesto il ritiro del provvedimento.
La Corte Suprema
Ora la legge deve essere controfirmata dal presidente Reuven Rivlin. Ma si annuncia già una battaglia alla Corta Suprema. Le Ong di sinistra, come Peace Now e Yesh Din, sono pronte a presentare ricorso e contano su un alleato di peso, il presidente della Corte Avichai Mandelblit, che già aveva avvertito nelle scorse settimane sul rischio per lo Stato ebraico di dover comparire davanti al Tribunale dell’Aja in caso di annessioni.
Mandelblit è anche il giudice che ha ordinato lo sgombero dell’avamposto di Amona, eseguito una settimana fa. E ha fissato per il 2018 la demolizione di altre 17 case nell’insediamento ebraico di Tapuach, vicino a Nablus. Sono 97 gli «outpost» costruiti senza autorizzazione nei Territori. Ma almeno 600 mila israeliani vivono ormai in 140 insediamenti realizzati con l’approvazione del governo, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania.
L’Onu a Israele: nuovi insediamenti violano il diritto internazionale
Guterres: “Superata la linea rossa”. Si allontana la soluzione dei due Stati
di Giordano Stabile
Israele «ha superato la linea rossa», punta «all’annessione» di parti della Cisgiordania e viola «il diritto internazionale». A dirlo è l’Onu, prima con il suo inviato in Medio Oriente Nicolay Mladenov e poi con lo stesso Segretario generale Antonio Guterres. Una presa di posizione dura, che arriva il giorno dopo l’approvazione da parte della Knesset del provvedimento per la legalizzazione di quattromila case costruite su terre private palestinesi.
La legge, voluta dall’ala destra del governo guidato da Netanyahu, va in senso contrario alla Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza, approvata lo scorso 23 dicembre, quella che chiedeva lo stop agli insediamenti nei Territori. Per questo le parole al Palazzo di Vetro sono pesanti. Guterres ha parlato di «violazione» che avrà «conseguenze legali di vasta portata» e ha invitato Israele a «evitare qualsiasi azione che possa far deragliare la soluzione dei due Stati».
«Due popoli, due Stati»
È proprio «due popoli, due Stati» - la formula che ha retto il processo di pace fra Israele e i palestinesi per 24 anni, dagli accordi di Oslo in poi - a essere in pericolo. I maggiori alleati di Netanyahu, Avigdor Lieberman e Nafatali Bennett, parlano apertamente di annessione di tutta o parte della Cisgiordania. L’ala destra del Likud ha presentato un mese fa un piano che lascerebbe all’Autorità palestinese solo il 39 per cento dei Territori.
L’archiviazione della formula era tabù fino a pochi mesi fa, ma ora, con Donald Trump alla casa Bianca, tutto è possibile. L’Amministrazione Usa ha criticato i «nuovi insediamenti» autorizzati da Netanyahu a partire dal 20 gennaio, oltre 6 mila nuove case, ma ha precisato che non ritiene «un ostacolo» quelli già costruiti. Netanyahu e Trump ne discuteranno a Washington mercoledì prossimo, il piatto forte del summit assieme al dossier iraniano. Il 23 dicembre, quando Obama non oppose all’Onu il veto americano alla risoluzione di condanna, sembra lontano ere geologiche.
I Paesi arabi e l’Ue
Fra i palestinesi e nei Paesi arabi c’è sconcerto e preoccupazione. Il presidente Abu Mazen ha parlato di «furto di terra», attraverso un provvedimento «inaccettabile», condannato anche da François Hollande, il più stretto alleato in Occidente, ma agli sgoccioli del suo unico mandato all’Eliseo. Il segretario generale della Lega araba Ahmed Abul Gheit ha puntato il dito su una legge che «riflette le reali intenzioni del governo israeliano e la sua posizione ostile verso la pace». Gran Bretagna, Francia, Giordania, Turchia, e l’Ue, hanno chiesto il ritiro del provvedimento.
La Corte Suprema
Ora la legge deve essere controfirmata dal presidente Reuven Rivlin. Ma si annuncia già una battaglia alla Corta Suprema. Le Ong di sinistra, come Peace Now e Yesh Din, sono pronte a presentare ricorso e contano su un alleato di peso, il presidente della Corte Avichai Mandelblit, che già aveva avvertito nelle scorse settimane sul rischio per lo Stato ebraico di dover comparire davanti al Tribunale dell’Aja in caso di annessioni.
Mandelblit è anche il giudice che ha ordinato lo sgombero dell’avamposto di Amona, eseguito una settimana fa. E ha fissato per il 2018 la demolizione di altre 17 case nell’insediamento ebraico di Tapuach, vicino a Nablus. Sono 97 gli «outpost» costruiti senza autorizzazione nei Territori. Ma almeno 600 mila israeliani vivono ormai in 140 insediamenti realizzati con l’approvazione del governo, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania.
martedì 7 febbraio 2017
La Stampa 7.2.17
Nefertiti ultimo atto
È davvero sepolta dietro una parete della tomba di Tutankhamon?
La risposta verrà da un’équipe del Politecnico di Torino a cui l’Egitto ha affidato la mappatura geofisica della Valle dei Re
di Fabrizio Assandri
C’è qualcosa oltre quel muro? La parete Nord della camera funeraria di Tutankhamon potrebbe essere vuota e nascondere l’accesso alla tomba mai trovata della bellissima Nefertiti. Per lo meno, è quello che cercheranno di scoprire, una volta per tutte, gli studiosi del Politecnico di Torino. Con i georadar scandaglieranno la parete dove il faraone bambino è dipinto insieme col successore Ay, alla ricerca di un corridoio al di là del muro.
Quella torinese sarà la terza e si spera ultima analisi, dopo che due anni fa l’archeologo inglese Nicholas Reeves ipotizzò che la tomba della sposa di Akhenaton, il faraone che rese l’Egitto temporaneamente monoteista, padre di Tutankhamon, si trovi accanto a quella di quest’ultimo. La morte improvvisa del «faraone bambino» avrebbe impedito di costruire una tomba tutta per lui. Per questo sarebbe stata ricavata in un’anticamera della tomba di Nefertiti.
Un’ipotesi definita «audace» da Franco Porcelli, docente di Fisica al Politecnico, che ha lavorato come addetto scientifico all’ambasciata italiana del Cairo dal 2007 al 2015. Ha partecipato anche alla recente scoperta su uno degli altri misteri di Tutankhamon: un team italo-egiziano ha dimostrato che la lama del pugnale sepolto con la mummia era fatta di materiale proveniente da un meteorite.
Il progetto
Le nuove indagini metteranno fine alla discussione nata dopo l’ipotesi di Reeves. «Le analisi hanno dato risultati contraddittori e incompleti. Noi, in positivo o in negativo, chiuderemo una questione complessa», dice Porcelli. Potrebbe essere la scoperta o la delusione del secolo.
«I problemi della sicurezza e il caso Regeni hanno messo in crisi anche le collaborazioni scientifiche», racconta il professore, «ma il ministero delle Antichità egiziano a dicembre ci ha chiesto di dare un verdetto definitivo sulla tomba di Nefertiti. Useremo radar di ultima generazione: bucare la parete danneggerebbe gli affreschi».
Il progetto del Politecnico, che cofinanzia la missione, parte dal Dipartimento di Scienza applicata e Tecnologia diretto da Paolo Fino e coinvolge Luigi Sambuelli del Dipartimento di Ingegneria dell’ambiente. Ne fanno parte l’Università di Torino e alcune aziende, tra le quali la Geostudi Aster di Livorno, ed è sostenuto anche dalla Fondazione Novara Sviluppo. La ricerca della tomba di Nefertiti rientra in un ben più ampio progetto di archeoscienza: la mappatura geofisica di tutta la Valle dei Re a Luxor.
Analisi non invasive
Strumentazioni elettriche e onde elettromagnetiche permettono analisi non invasive: «Possiamo “vedere” fino a dieci metri sotto terra», spiega Porcelli, «La mappatura attuale risale agli Anni 80, fatta con tecnologie antiquate». Il nuovo atlante fornirà dati sulla composizione geologica e l’eventuale presenza di materiali ferrosi e resti archeologici nella necropoli, oltre a rilievi 3D e dati georeferenziati: tecniche usate anche per i recenti terremoti nel Centro Italia. «Cercheremo l’aiuto dell’Agenzia spaziale italiana per avere anche dati satellitari».
Di Nefertiti, la cui bellezza elegante e imperturbabile («la bella è arrivata» significa il suo nome) è immortalata nel celebre busto custodito a Berlino, non si conosce molto. Gli studiosi ritengono che sia stata reggente del trono tra la morte del marito e l’ascesa di Tutankhamon, intorno al 1330 a.C., durante la XVIII dinastia. Ritrovarne la tomba permetterebbe di far luce sulla sua vita e sul periodo.
Le due analisi scientifiche seguite all’ipotesi di Reeves hanno dato per ora risultati contraddittori. La prima, i cui esiti sono stati comunicati con enfasi dal governo egiziano, risale al 2015: lo specialista giapponese di radar Hirokatsu Watanabe sostenne di aver trovato stanze oltre il muro e il governo egiziano, desideroso di riportare i turisti nella Valle dei Re, disse che «al 90 per cento» era stata scoperta una nuova tomba. L’anno dopo esperti del National Geographic lo smentirono. Una controversia diventata anche un caso politico.
«Abbiamo motivo di ritenere», dice Porcelli, «che i dati siano stati interpretati in modo fantasioso. Serve un progetto di ricerca solido. Useremo georadar che coprono l’intero spettro di frequenze. Avremo i dati in una settimana di lavoro, per studiarli ne serviranno altre due. Stiamo aspettando le autorizzazioni della National Security egiziana, poi partiremo».
Nefertiti ultimo atto
È davvero sepolta dietro una parete della tomba di Tutankhamon?
La risposta verrà da un’équipe del Politecnico di Torino a cui l’Egitto ha affidato la mappatura geofisica della Valle dei Re
di Fabrizio Assandri
C’è qualcosa oltre quel muro? La parete Nord della camera funeraria di Tutankhamon potrebbe essere vuota e nascondere l’accesso alla tomba mai trovata della bellissima Nefertiti. Per lo meno, è quello che cercheranno di scoprire, una volta per tutte, gli studiosi del Politecnico di Torino. Con i georadar scandaglieranno la parete dove il faraone bambino è dipinto insieme col successore Ay, alla ricerca di un corridoio al di là del muro.
Quella torinese sarà la terza e si spera ultima analisi, dopo che due anni fa l’archeologo inglese Nicholas Reeves ipotizzò che la tomba della sposa di Akhenaton, il faraone che rese l’Egitto temporaneamente monoteista, padre di Tutankhamon, si trovi accanto a quella di quest’ultimo. La morte improvvisa del «faraone bambino» avrebbe impedito di costruire una tomba tutta per lui. Per questo sarebbe stata ricavata in un’anticamera della tomba di Nefertiti.
Un’ipotesi definita «audace» da Franco Porcelli, docente di Fisica al Politecnico, che ha lavorato come addetto scientifico all’ambasciata italiana del Cairo dal 2007 al 2015. Ha partecipato anche alla recente scoperta su uno degli altri misteri di Tutankhamon: un team italo-egiziano ha dimostrato che la lama del pugnale sepolto con la mummia era fatta di materiale proveniente da un meteorite.
Il progetto
Le nuove indagini metteranno fine alla discussione nata dopo l’ipotesi di Reeves. «Le analisi hanno dato risultati contraddittori e incompleti. Noi, in positivo o in negativo, chiuderemo una questione complessa», dice Porcelli. Potrebbe essere la scoperta o la delusione del secolo.
«I problemi della sicurezza e il caso Regeni hanno messo in crisi anche le collaborazioni scientifiche», racconta il professore, «ma il ministero delle Antichità egiziano a dicembre ci ha chiesto di dare un verdetto definitivo sulla tomba di Nefertiti. Useremo radar di ultima generazione: bucare la parete danneggerebbe gli affreschi».
Il progetto del Politecnico, che cofinanzia la missione, parte dal Dipartimento di Scienza applicata e Tecnologia diretto da Paolo Fino e coinvolge Luigi Sambuelli del Dipartimento di Ingegneria dell’ambiente. Ne fanno parte l’Università di Torino e alcune aziende, tra le quali la Geostudi Aster di Livorno, ed è sostenuto anche dalla Fondazione Novara Sviluppo. La ricerca della tomba di Nefertiti rientra in un ben più ampio progetto di archeoscienza: la mappatura geofisica di tutta la Valle dei Re a Luxor.
Analisi non invasive
Strumentazioni elettriche e onde elettromagnetiche permettono analisi non invasive: «Possiamo “vedere” fino a dieci metri sotto terra», spiega Porcelli, «La mappatura attuale risale agli Anni 80, fatta con tecnologie antiquate». Il nuovo atlante fornirà dati sulla composizione geologica e l’eventuale presenza di materiali ferrosi e resti archeologici nella necropoli, oltre a rilievi 3D e dati georeferenziati: tecniche usate anche per i recenti terremoti nel Centro Italia. «Cercheremo l’aiuto dell’Agenzia spaziale italiana per avere anche dati satellitari».
Di Nefertiti, la cui bellezza elegante e imperturbabile («la bella è arrivata» significa il suo nome) è immortalata nel celebre busto custodito a Berlino, non si conosce molto. Gli studiosi ritengono che sia stata reggente del trono tra la morte del marito e l’ascesa di Tutankhamon, intorno al 1330 a.C., durante la XVIII dinastia. Ritrovarne la tomba permetterebbe di far luce sulla sua vita e sul periodo.
Le due analisi scientifiche seguite all’ipotesi di Reeves hanno dato per ora risultati contraddittori. La prima, i cui esiti sono stati comunicati con enfasi dal governo egiziano, risale al 2015: lo specialista giapponese di radar Hirokatsu Watanabe sostenne di aver trovato stanze oltre il muro e il governo egiziano, desideroso di riportare i turisti nella Valle dei Re, disse che «al 90 per cento» era stata scoperta una nuova tomba. L’anno dopo esperti del National Geographic lo smentirono. Una controversia diventata anche un caso politico.
«Abbiamo motivo di ritenere», dice Porcelli, «che i dati siano stati interpretati in modo fantasioso. Serve un progetto di ricerca solido. Useremo georadar che coprono l’intero spettro di frequenze. Avremo i dati in una settimana di lavoro, per studiarli ne serviranno altre due. Stiamo aspettando le autorizzazioni della National Security egiziana, poi partiremo».
La Stampa 7.2.17
“Sono laica, i media mi nascondono”
Sono Sara Jbaria, studentessa universitaria 22 enne e cittadina italiana di origini marocchine. In quanto individuo avente doppia nazionalità sono conscia del fatto che come italiani arabi e laici siamo persistentemente emarginati non solo dalla politica ma anche dai media, che dipingono la religione in modo univoco. Il nostro Paese ha una presenza islamica importante con idee talvolta divergenti e diametralmente opposte e questo dovrebbe essere simbolo di ricchezza ed eterogeneità. Volutamente ignorata. Io sono una dei tanti musulmani che credono in una società democratica e laica per eccellenza, dove la religione non dovrebbe divenire «affare di Stato» o la prerogativa principale, ma dovrebbe rappresentare un nucleo portante di ciascun individuo coscienzioso della propria individualità, senza pubblicizzazione eccessiva e talvolta controproducente. Perché vogliono velare la mia esistenza?
“Sono laica, i media mi nascondono”
Sono Sara Jbaria, studentessa universitaria 22 enne e cittadina italiana di origini marocchine. In quanto individuo avente doppia nazionalità sono conscia del fatto che come italiani arabi e laici siamo persistentemente emarginati non solo dalla politica ma anche dai media, che dipingono la religione in modo univoco. Il nostro Paese ha una presenza islamica importante con idee talvolta divergenti e diametralmente opposte e questo dovrebbe essere simbolo di ricchezza ed eterogeneità. Volutamente ignorata. Io sono una dei tanti musulmani che credono in una società democratica e laica per eccellenza, dove la religione non dovrebbe divenire «affare di Stato» o la prerogativa principale, ma dovrebbe rappresentare un nucleo portante di ciascun individuo coscienzioso della propria individualità, senza pubblicizzazione eccessiva e talvolta controproducente. Perché vogliono velare la mia esistenza?
La Stampa 7.2.17
“La difficile scelta di non credere”
Mi chiamo Sodfa, ho 23 anni, nata e cresciuta qui in Italia. La mia fortuna più grande è stata quella di essere cresciuta influenzata da diversi credi e culture, frequentando la scuola cattolica e vivendo l’Islam tra quello che mi mostravano i miei genitori e quello dei miei familiari in Tunisia, apprezzando e criticando tutto ciò che mi capitava davanti. Con il tempo ho iniziato ad analizzare quella che era la mia religione e, pur sentendo tanta fede dentro di me, mi sentivo comunque stretta, non «a casa mia» fino ad arrivare alla scelta di lasciare l’Islam. Le reazioni alla mia decisione, al mio percorso, non sono state positive tra i miei familiari tunisini ma l’amore di mia madre, una donna musulmana, credente e praticante, mi hanno aiutata ad affrontare con sicurezza questo percorso, intraprendendo anche quello del dialogo inter-religioso.
“La difficile scelta di non credere”
Mi chiamo Sodfa, ho 23 anni, nata e cresciuta qui in Italia. La mia fortuna più grande è stata quella di essere cresciuta influenzata da diversi credi e culture, frequentando la scuola cattolica e vivendo l’Islam tra quello che mi mostravano i miei genitori e quello dei miei familiari in Tunisia, apprezzando e criticando tutto ciò che mi capitava davanti. Con il tempo ho iniziato ad analizzare quella che era la mia religione e, pur sentendo tanta fede dentro di me, mi sentivo comunque stretta, non «a casa mia» fino ad arrivare alla scelta di lasciare l’Islam. Le reazioni alla mia decisione, al mio percorso, non sono state positive tra i miei familiari tunisini ma l’amore di mia madre, una donna musulmana, credente e praticante, mi hanno aiutata ad affrontare con sicurezza questo percorso, intraprendendo anche quello del dialogo inter-religioso.
La Stampa 7.2.17
Israele, la Knesset approva la legge che regolarizza gli insediamenti in Cisgiordania
La Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato ieri a tarda sera, con 60 voti favorevoli e 52 contrari, la legge per la legalizzazione degli insediamenti ebraici su terre private palestinesi. Il provvedimento, che ha spaccato in due il Paese, arriva dopo il drammatico sgombero dell’avamposto di Amona, mercoledì scorso, dove 42 famiglie hanno dovuto lasciare le loro case per l’applicazione di una sentenza della Corte suprema di Gerusalemme.
Il provvedimento, spinto dai partiti di destra della coalizione al governo, in particolare Focolare ebraico del ministro dell’educazione Naftali Bennett, punta a prevenire altri sgomberi del genere, ma va contro la comunità internazionale, a partire dall’Onu, che vede negli insediamenti un «ostacolo» al processo di pace con i palestinesi. Il premier Benjamin Netanyahu ha comunque deciso di accelerare, ieri, al termine dell’incontro con il primo ministro Theresa May a Londra, dove fra l’altro ha discusso delle minacce missilistiche dell’Iran. In un primo momento, il premier sembrava deciso a rimandare il voto, ma fonti del suo partito hanno fatto sapere che la tempistica era legata al necessario coordinamento con gli Stati Uniti, anche in vista del vertice con Trump il 15 febbraio a Washington. Netanyahu, da Londra, ha specificato che gli Usa erano stati «avvertiti».
La legge si propone di «regolarizzare gli insediamenti in Giudea e Samaria (cioè la Cisgiordania) e consentire il loro continuo stabilirsi e sviluppo». Il provvedimento agisce in forma retroattiva, stabilisce un meccanismo di compensazione per i proprietari palestinesi dei terreni su cui sono stati costruiti insediamenti o case: potranno ricevere un pagamento annuale pari al 125% del valore dei terreni per 20 anni o, in alternativa, altri terreni a loro scelta dove è possibile. Ma il Procuratore generale Avichai Mandelblit, assieme ad altri, ha messo in guardia sul rischio che l’approvazione della legge possa portare Israele davanti alla Corte Penale dell’Aja su iniziativa palestinese.[gio. sta.]
Israele, la Knesset approva la legge che regolarizza gli insediamenti in Cisgiordania
La Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato ieri a tarda sera, con 60 voti favorevoli e 52 contrari, la legge per la legalizzazione degli insediamenti ebraici su terre private palestinesi. Il provvedimento, che ha spaccato in due il Paese, arriva dopo il drammatico sgombero dell’avamposto di Amona, mercoledì scorso, dove 42 famiglie hanno dovuto lasciare le loro case per l’applicazione di una sentenza della Corte suprema di Gerusalemme.
Il provvedimento, spinto dai partiti di destra della coalizione al governo, in particolare Focolare ebraico del ministro dell’educazione Naftali Bennett, punta a prevenire altri sgomberi del genere, ma va contro la comunità internazionale, a partire dall’Onu, che vede negli insediamenti un «ostacolo» al processo di pace con i palestinesi. Il premier Benjamin Netanyahu ha comunque deciso di accelerare, ieri, al termine dell’incontro con il primo ministro Theresa May a Londra, dove fra l’altro ha discusso delle minacce missilistiche dell’Iran. In un primo momento, il premier sembrava deciso a rimandare il voto, ma fonti del suo partito hanno fatto sapere che la tempistica era legata al necessario coordinamento con gli Stati Uniti, anche in vista del vertice con Trump il 15 febbraio a Washington. Netanyahu, da Londra, ha specificato che gli Usa erano stati «avvertiti».
La legge si propone di «regolarizzare gli insediamenti in Giudea e Samaria (cioè la Cisgiordania) e consentire il loro continuo stabilirsi e sviluppo». Il provvedimento agisce in forma retroattiva, stabilisce un meccanismo di compensazione per i proprietari palestinesi dei terreni su cui sono stati costruiti insediamenti o case: potranno ricevere un pagamento annuale pari al 125% del valore dei terreni per 20 anni o, in alternativa, altri terreni a loro scelta dove è possibile. Ma il Procuratore generale Avichai Mandelblit, assieme ad altri, ha messo in guardia sul rischio che l’approvazione della legge possa portare Israele davanti alla Corte Penale dell’Aja su iniziativa palestinese.[gio. sta.]
La Stampa 7.2.17
“Con questo accordo il prossimo settembre sarà ancora il caos”
Fabio Cannatà dirige il liceo Amaldi, oltre 1700 studenti, 75 classi e quasi 140 professori da gestire nella periferia di Roma. Quest’anno i problemi creati dalle novità introdotte dalla legge 107 non sono stati pochi. «Ma credo che l’anno prossimo la situazione sarà altrettanto complicata grazie alla nuova intesa raggiunta che vorrebbe semplificare la procedura. In realtà per noi dirigenti delle scuole rende il quadro ancora più difficile».
Che cosa non funzionerà? «La legge 107 ha tra i suoi obiettivi la continuità didattica per tre anni. Con l’intesa si introduce una deroga che fa venire meno la continuità, si offre una nuova possibilità agli insegnanti di trasferirsi. Si prevede la possibilità per i professori di dare 15 preferenze diverse, vuol dire un lavoro enorme per chi dovrà vagliarle. E si introduce una modifica attraverso un accordo che non si capisce come potrà avere maggiore valore di una legge dello Stato e quindi darà luogo a ricorsi che renderanno più complicata una situazione già non semplice. Dobbiamo prepararci purtroppo a un nuovo inizio di anno scolastico nella confusione. Lo scorso settembre abbiamo limitato a una decina le cattedre scoperte ma davvero non so più che cosa rispondere ai genitori che vengono a chiedermi perché ancora una volta i loro figli devono avere degli insegnanti diversi».
“Con questo accordo il prossimo settembre sarà ancora il caos”
Fabio Cannatà dirige il liceo Amaldi, oltre 1700 studenti, 75 classi e quasi 140 professori da gestire nella periferia di Roma. Quest’anno i problemi creati dalle novità introdotte dalla legge 107 non sono stati pochi. «Ma credo che l’anno prossimo la situazione sarà altrettanto complicata grazie alla nuova intesa raggiunta che vorrebbe semplificare la procedura. In realtà per noi dirigenti delle scuole rende il quadro ancora più difficile».
Che cosa non funzionerà? «La legge 107 ha tra i suoi obiettivi la continuità didattica per tre anni. Con l’intesa si introduce una deroga che fa venire meno la continuità, si offre una nuova possibilità agli insegnanti di trasferirsi. Si prevede la possibilità per i professori di dare 15 preferenze diverse, vuol dire un lavoro enorme per chi dovrà vagliarle. E si introduce una modifica attraverso un accordo che non si capisce come potrà avere maggiore valore di una legge dello Stato e quindi darà luogo a ricorsi che renderanno più complicata una situazione già non semplice. Dobbiamo prepararci purtroppo a un nuovo inizio di anno scolastico nella confusione. Lo scorso settembre abbiamo limitato a una decina le cattedre scoperte ma davvero non so più che cosa rispondere ai genitori che vengono a chiedermi perché ancora una volta i loro figli devono avere degli insegnanti diversi».
La Stampa 7.2.17
La Buona Scuola ha perso un pezzo
Con l’intesa siglata dal ministro con i sindacati salta l’obbligo per gli insegnanti di restare tre anni nella scuola assegnata
I docenti del Sud gioiscono sperando in sedi più vicine a casa, ma il prossimo anno non ci sarà più confusione?
La trattativa è ancora in corso ma una settimana fa al Miur un pezzo della Buona Scuola è stato demolito. È stata firmata una pre-intesa che impegna il ministero e i sindacati a trovare un accordo definitivo sulla mobilità dei docenti. Per la stagione 2017-2018 viene congelato l’obbligo di tutti gli insegnanti di restare per tre anni nella stessa sede. Vale a dire, per molti di loro, a centinaia di chilometri da casa. Si tratta di « una misura straordinaria», ha precisato la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. In realtà i tre anni erano già stati cancellati dai ricorsi vinti, dall’uso della legge 104 che permette di non spostarsi a chi ha parenti da assistere con problemi di disabilità. Soddisfatti i sindacati confederali che sanno di aver offerto una nuova opportunità a chi ne ha diritto di avvicinarsi alla famiglia. Contrarie due sigle. La Gilda ha partecipato alla trattativa ma non ha firmato. «Riteniamo che la Legge 107 vada cambiata - spiega il coordinatore nazionale Rino Di Meglio - Siamo contrari al passaggio della titolarità degli insegnanti dalla scuola all’ambito territoriale, e siamo contrari alla chiamata diretta da parte dei dirigenti scolastici. Sono norme che non condividiamo e non pensiamo che possano funzionare semplicemente con una modifica temporanea. Bisogna cambiare la legge altrimenti non ne veniamo fuori».
Contrario anche Marcello Pacifico, presidente nazionale dell’Anief: «Questa intesa viola i termini di legge. Non offre soluzioni ai problemi creati dalla chiamata diretta e continua a creare discriminazioni tra gli insegnanti. Si ledono i diritti di chi ha svolto servizio nelle paritarie come precario che non si vede e riconosciuto il lavoro svolto. Lo stesso per gli insegnanti di sostegno o per chi ha frequentato le scuole di specializzazione».
La Buona Scuola ha perso un pezzo
Con l’intesa siglata dal ministro con i sindacati salta l’obbligo per gli insegnanti di restare tre anni nella scuola assegnata
I docenti del Sud gioiscono sperando in sedi più vicine a casa, ma il prossimo anno non ci sarà più confusione?
La trattativa è ancora in corso ma una settimana fa al Miur un pezzo della Buona Scuola è stato demolito. È stata firmata una pre-intesa che impegna il ministero e i sindacati a trovare un accordo definitivo sulla mobilità dei docenti. Per la stagione 2017-2018 viene congelato l’obbligo di tutti gli insegnanti di restare per tre anni nella stessa sede. Vale a dire, per molti di loro, a centinaia di chilometri da casa. Si tratta di « una misura straordinaria», ha precisato la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. In realtà i tre anni erano già stati cancellati dai ricorsi vinti, dall’uso della legge 104 che permette di non spostarsi a chi ha parenti da assistere con problemi di disabilità. Soddisfatti i sindacati confederali che sanno di aver offerto una nuova opportunità a chi ne ha diritto di avvicinarsi alla famiglia. Contrarie due sigle. La Gilda ha partecipato alla trattativa ma non ha firmato. «Riteniamo che la Legge 107 vada cambiata - spiega il coordinatore nazionale Rino Di Meglio - Siamo contrari al passaggio della titolarità degli insegnanti dalla scuola all’ambito territoriale, e siamo contrari alla chiamata diretta da parte dei dirigenti scolastici. Sono norme che non condividiamo e non pensiamo che possano funzionare semplicemente con una modifica temporanea. Bisogna cambiare la legge altrimenti non ne veniamo fuori».
Contrario anche Marcello Pacifico, presidente nazionale dell’Anief: «Questa intesa viola i termini di legge. Non offre soluzioni ai problemi creati dalla chiamata diretta e continua a creare discriminazioni tra gli insegnanti. Si ledono i diritti di chi ha svolto servizio nelle paritarie come precario che non si vede e riconosciuto il lavoro svolto. Lo stesso per gli insegnanti di sostegno o per chi ha frequentato le scuole di specializzazione».
La Stampa 7.2.17
Un nuovo patto con il Pd Verdini: a noi la presidenza della commissione banche
Renzi vede sfumare l’ipotesi del voto a giugno
di Francesca Schianchi
L’allarme al Senato è scattato già da qualche tempo. Rischio di voti risicati, stallo totale sulla presidenza della Commissione Affari costituzionali, lasciata vacante dalla ministra Finocchiaro ormai quasi due mesi fa. Una preoccupazione che ha superato il livello di guardia la settimana scorsa, quando per eleggere il candidato dem per la Corte dei Conti, il professore messinese Antonio Saitta, molto stimato dalla Finocchiaro, sono mancati circa quaranta voti. La rinuncia a portare Denis Verdini e il suo gruppo Ala al governo pesa, e i democratici se ne stanno rendendo conto. Tanto da correre ai ripari: ieri, nel tardo pomeriggio, il capogruppo Luigi Zanda e il vicesegretario Lorenzo Guerini si sono incontrati con Verdini e il presidente del suo gruppo, Lucio Barani. Obiettivo, trattare una qualche forma di sostegno al governo Gentiloni, per garantirgli più stabilità lì dove, a Palazzo Madama, i numeri sono stati ballerini per tutti gli esecutivi fin dall’inizio della legislatura. La richiesta di Verdini e dei suoi, esclusi dalla squadra di governo, è stata precisa: la presidenza della futura Commissione d’inchiesta sulle banche, da destinare a Enrico Zanetti, già viceministro dell’Economia nel governo Renzi. Una richiesta che il Pd non pensa di accontentare, ma che negli ambienti renziani ha acceso una lampadina: «Se nasce, questa Commissione deflagra come una bomba», sussurrano. Perché sono convinti che non dovrebbe indagare solo sui casi più recenti di banche in difficoltà, ma andare indietro di molti anni, e in varie zone del Paese, dalla Puglia al Veneto. Risalire anche a operazioni vecchie di anni, su cui come la pensi Renzi non è un mistero: «Monte dei Paschi è stato ridotto così da una politica impicciona, che era la sinistra di questo Paese», disse qualche mese fa a «Porta a porta». E non solo: «Si vuole una Commissione – è tornato sul tema qualche giorno fa in un colloquio col «Corriere della Sera» – che usa come parafulmini Banca Etruria, Banca Marche e le Casse di Risparmio di Ferrara e di Chieti. Ma in realtà vedo un disegno forte per allargare il campo a Bankitalia e Consob», e per farlo in un anno particolare, visto che a novembre scade il mandato del governatore Visco. Si tratterebbe insomma di rovistare in operazioni vecchie e nuove, individuare responsabilità, denunciare colpe o omissioni, «e tanti avrebbero di che temere», sono certi i renziani. Un passaggio delicato che potrebbe spingere molti, secondo loro, a rinviare questo momento a dopo una campagna elettorale. E l’unico modo per farlo, ragionano, è andare a votare al più presto. E’ così che la singolare richiesta di Ala ha schiuso agli occhi del segretario e dei suoi un’inattesa speranza di voto anticipato, proprio nei giorni in cui l’ipotesi delle urne si sta inesorabilmente allontanando. Nonostante i contatti costanti degli ambasciatori renziani con gli altri pezzi di maggioranza – da Orlando a Franceschini – come di minoranza – Speranza ed Emiliano – così come con gli ambienti di Berlusconi, sta crescendo il timore di non farcela ad anticipare la chiamata al voto: «Una cosa è un’intesa sulla legge elettorale, altra cosa quella sui tempi del voto», ammetteva ieri sconsolato uno sherpa. Obbligatorio è tentare un’intesa in Parlamento - «se il Colle ti chiede di provarci e non lo fai, non va bene» - ma la sensazione del segretario è di essere sempre più solo, convinto com’è che il paletto messo dai grillini per votare l’Italicum ritagliato dalla Consulta anche al Senato (togliere i capilista bloccati) nasconda il timore di votare per non pagare il caso Raggi. Ora però, inaspettatamente si apre lo spiraglio della Commissione banche. «Per due anni il caso Banca Etruria ha coperto mediaticamente qualunque altro caso per via del caso Boschi: ma Banca Etruria è una piccola banca, vediamo cos’altro salta fuori», sibilano minacciosi dalle parti di Renzi. Convinti che il grimaldello per andare a votare possa averglielo fornito il vecchio amico Denis.
Un nuovo patto con il Pd Verdini: a noi la presidenza della commissione banche
Renzi vede sfumare l’ipotesi del voto a giugno
di Francesca Schianchi
L’allarme al Senato è scattato già da qualche tempo. Rischio di voti risicati, stallo totale sulla presidenza della Commissione Affari costituzionali, lasciata vacante dalla ministra Finocchiaro ormai quasi due mesi fa. Una preoccupazione che ha superato il livello di guardia la settimana scorsa, quando per eleggere il candidato dem per la Corte dei Conti, il professore messinese Antonio Saitta, molto stimato dalla Finocchiaro, sono mancati circa quaranta voti. La rinuncia a portare Denis Verdini e il suo gruppo Ala al governo pesa, e i democratici se ne stanno rendendo conto. Tanto da correre ai ripari: ieri, nel tardo pomeriggio, il capogruppo Luigi Zanda e il vicesegretario Lorenzo Guerini si sono incontrati con Verdini e il presidente del suo gruppo, Lucio Barani. Obiettivo, trattare una qualche forma di sostegno al governo Gentiloni, per garantirgli più stabilità lì dove, a Palazzo Madama, i numeri sono stati ballerini per tutti gli esecutivi fin dall’inizio della legislatura. La richiesta di Verdini e dei suoi, esclusi dalla squadra di governo, è stata precisa: la presidenza della futura Commissione d’inchiesta sulle banche, da destinare a Enrico Zanetti, già viceministro dell’Economia nel governo Renzi. Una richiesta che il Pd non pensa di accontentare, ma che negli ambienti renziani ha acceso una lampadina: «Se nasce, questa Commissione deflagra come una bomba», sussurrano. Perché sono convinti che non dovrebbe indagare solo sui casi più recenti di banche in difficoltà, ma andare indietro di molti anni, e in varie zone del Paese, dalla Puglia al Veneto. Risalire anche a operazioni vecchie di anni, su cui come la pensi Renzi non è un mistero: «Monte dei Paschi è stato ridotto così da una politica impicciona, che era la sinistra di questo Paese», disse qualche mese fa a «Porta a porta». E non solo: «Si vuole una Commissione – è tornato sul tema qualche giorno fa in un colloquio col «Corriere della Sera» – che usa come parafulmini Banca Etruria, Banca Marche e le Casse di Risparmio di Ferrara e di Chieti. Ma in realtà vedo un disegno forte per allargare il campo a Bankitalia e Consob», e per farlo in un anno particolare, visto che a novembre scade il mandato del governatore Visco. Si tratterebbe insomma di rovistare in operazioni vecchie e nuove, individuare responsabilità, denunciare colpe o omissioni, «e tanti avrebbero di che temere», sono certi i renziani. Un passaggio delicato che potrebbe spingere molti, secondo loro, a rinviare questo momento a dopo una campagna elettorale. E l’unico modo per farlo, ragionano, è andare a votare al più presto. E’ così che la singolare richiesta di Ala ha schiuso agli occhi del segretario e dei suoi un’inattesa speranza di voto anticipato, proprio nei giorni in cui l’ipotesi delle urne si sta inesorabilmente allontanando. Nonostante i contatti costanti degli ambasciatori renziani con gli altri pezzi di maggioranza – da Orlando a Franceschini – come di minoranza – Speranza ed Emiliano – così come con gli ambienti di Berlusconi, sta crescendo il timore di non farcela ad anticipare la chiamata al voto: «Una cosa è un’intesa sulla legge elettorale, altra cosa quella sui tempi del voto», ammetteva ieri sconsolato uno sherpa. Obbligatorio è tentare un’intesa in Parlamento - «se il Colle ti chiede di provarci e non lo fai, non va bene» - ma la sensazione del segretario è di essere sempre più solo, convinto com’è che il paletto messo dai grillini per votare l’Italicum ritagliato dalla Consulta anche al Senato (togliere i capilista bloccati) nasconda il timore di votare per non pagare il caso Raggi. Ora però, inaspettatamente si apre lo spiraglio della Commissione banche. «Per due anni il caso Banca Etruria ha coperto mediaticamente qualunque altro caso per via del caso Boschi: ma Banca Etruria è una piccola banca, vediamo cos’altro salta fuori», sibilano minacciosi dalle parti di Renzi. Convinti che il grimaldello per andare a votare possa averglielo fornito il vecchio amico Denis.
La Stampa 7.2.17
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Renzi vede sfumare l’ipotesi del voto a giugno
di Francesca Schianchi
L’allarme al Senato è scattato già da qualche tempo. Rischio di voti risicati, stallo totale sulla presidenza della Commissione Affari costituzionali, lasciata vacante dalla ministra Finocchiaro ormai quasi due mesi fa. Una preoccupazione che ha superato il livello di guardia la settimana scorsa, quando per eleggere il candidato dem per la Corte dei Conti, il professore messinese Antonio Saitta, molto stimato dalla Finocchiaro, sono mancati circa quaranta voti. La rinuncia a portare Denis Verdini e il suo gruppo Ala al governo pesa, e i democratici se ne stanno rendendo conto. Tanto da correre ai ripari: ieri, nel tardo pomeriggio, il capogruppo Luigi Zanda e il vicesegretario Lorenzo Guerini si sono incontrati con Verdini e il presidente del suo gruppo, Lucio Barani. Obiettivo, trattare una qualche forma di sostegno al governo Gentiloni, per garantirgli più stabilità lì dove, a Palazzo Madama, i numeri sono stati ballerini per tutti gli esecutivi fin dall’inizio della legislatura. La richiesta di Verdini e dei suoi, esclusi dalla squadra di governo, è stata precisa: la presidenza della futura Commissione d’inchiesta sulle banche, da destinare a Enrico Zanetti, già viceministro dell’Economia nel governo Renzi. Una richiesta che il Pd non pensa di accontentare, ma che negli ambienti renziani ha acceso una lampadina: «Se nasce, questa Commissione deflagra come una bomba», sussurrano. Perché sono convinti che non dovrebbe indagare solo sui casi più recenti di banche in difficoltà, ma andare indietro di molti anni, e in varie zone del Paese, dalla Puglia al Veneto. Risalire anche a operazioni vecchie di anni, su cui come la pensi Renzi non è un mistero: «Monte dei Paschi è stato ridotto così da una politica impicciona, che era la sinistra di questo Paese», disse qualche mese fa a «Porta a porta». E non solo: «Si vuole una Commissione – è tornato sul tema qualche giorno fa in un colloquio col «Corriere della Sera» – che usa come parafulmini Banca Etruria, Banca Marche e le Casse di Risparmio di Ferrara e di Chieti. Ma in realtà vedo un disegno forte per allargare il campo a Bankitalia e Consob», e per farlo in un anno particolare, visto che a novembre scade il mandato del governatore Visco. Si tratterebbe insomma di rovistare in operazioni vecchie e nuove, individuare responsabilità, denunciare colpe o omissioni, «e tanti avrebbero di che temere», sono certi i renziani. Un passaggio delicato che potrebbe spingere molti, secondo loro, a rinviare questo momento a dopo una campagna elettorale. E l’unico modo per farlo, ragionano, è andare a votare al più presto. E’ così che la singolare richiesta di Ala ha schiuso agli occhi del segretario e dei suoi un’inattesa speranza di voto anticipato, proprio nei giorni in cui l’ipotesi delle urne si sta inesorabilmente allontanando. Nonostante i contatti costanti degli ambasciatori renziani con gli altri pezzi di maggioranza – da Orlando a Franceschini – come di minoranza – Speranza ed Emiliano – così come con gli ambienti di Berlusconi, sta crescendo il timore di non farcela ad anticipare la chiamata al voto: «Una cosa è un’intesa sulla legge elettorale, altra cosa quella sui tempi del voto», ammetteva ieri sconsolato uno sherpa. Obbligatorio è tentare un’intesa in Parlamento - «se il Colle ti chiede di provarci e non lo fai, non va bene» - ma la sensazione del segretario è di essere sempre più solo, convinto com’è che il paletto messo dai grillini per votare l’Italicum ritagliato dalla Consulta anche al Senato (togliere i capilista bloccati) nasconda il timore di votare per non pagare il caso Raggi. Ora però, inaspettatamente si apre lo spiraglio della Commissione banche. «Per due anni il caso Banca Etruria ha coperto mediaticamente qualunque altro caso per via del caso Boschi: ma Banca Etruria è una piccola banca, vediamo cos’altro salta fuori», sibilano minacciosi dalle parti di Renzi. Convinti che il grimaldello per andare a votare possa averglielo fornito il vecchio amico Denis.
La Stampa 7.2.17
La Buona Scuola ha perso un pezzo
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La trattativa è ancora in corso ma una settimana fa al Miur un pezzo della Buona Scuola è stato demolito. È stata firmata una pre-intesa che impegna il ministero e i sindacati a trovare un accordo definitivo sulla mobilità dei docenti. Per la stagione 2017-2018 viene congelato l’obbligo di tutti gli insegnanti di restare per tre anni nella stessa sede. Vale a dire, per molti di loro, a centinaia di chilometri da casa. Si tratta di « una misura straordinaria», ha precisato la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. In realtà i tre anni erano già stati cancellati dai ricorsi vinti, dall’uso della legge 104 che permette di non spostarsi a chi ha parenti da assistere con problemi di disabilità. Soddisfatti i sindacati confederali che sanno di aver offerto una nuova opportunità a chi ne ha diritto di avvicinarsi alla famiglia. Contrarie due sigle. La Gilda ha partecipato alla trattativa ma non ha firmato. «Riteniamo che la Legge 107 vada cambiata - spiega il coordinatore nazionale Rino Di Meglio - Siamo contrari al passaggio della titolarità degli insegnanti dalla scuola all’ambito territoriale, e siamo contrari alla chiamata diretta da parte dei dirigenti scolastici. Sono norme che non condividiamo e non pensiamo che possano funzionare semplicemente con una modifica temporanea. Bisogna cambiare la legge altrimenti non ne veniamo fuori».
Contrario anche Marcello Pacifico, presidente nazionale dell’Anief: «Questa intesa viola i termini di legge. Non offre soluzioni ai problemi creati dalla chiamata diretta e continua a creare discriminazioni tra gli insegnanti. Si ledono i diritti di chi ha svolto servizio nelle paritarie come precario che non si vede e riconosciuto il lavoro svolto. Lo stesso per gli insegnanti di sostegno o per chi ha frequentato le scuole di specializzazione».
La Stampa 7.2.17
“Con questo accordo il prossimo settembre sarà ancora il caos”
Fabio Cannatà dirige il liceo Amaldi, oltre 1700 studenti, 75 classi e quasi 140 professori da gestire nella periferia di Roma. Quest’anno i problemi creati dalle novità introdotte dalla legge 107 non sono stati pochi. «Ma credo che l’anno prossimo la situazione sarà altrettanto complicata grazie alla nuova intesa raggiunta che vorrebbe semplificare la procedura. In realtà per noi dirigenti delle scuole rende il quadro ancora più difficile».
Che cosa non funzionerà? «La legge 107 ha tra i suoi obiettivi la continuità didattica per tre anni. Con l’intesa si introduce una deroga che fa venire meno la continuità, si offre una nuova possibilità agli insegnanti di trasferirsi. Si prevede la possibilità per i professori di dare 15 preferenze diverse, vuol dire un lavoro enorme per chi dovrà vagliarle. E si introduce una modifica attraverso un accordo che non si capisce come potrà avere maggiore valore di una legge dello Stato e quindi darà luogo a ricorsi che renderanno più complicata una situazione già non semplice. Dobbiamo prepararci purtroppo a un nuovo inizio di anno scolastico nella confusione. Lo scorso settembre abbiamo limitato a una decina le cattedre scoperte ma davvero non so più che cosa rispondere ai genitori che vengono a chiedermi perché ancora una volta i loro figli devono avere degli insegnanti diversi».
La Stampa 7.2.17
Israele, la Knesset approva la legge che regolarizza gli insediamenti in Cisgiordania
La Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato ieri a tarda sera, con 60 voti favorevoli e 52 contrari, la legge per la legalizzazione degli insediamenti ebraici su terre private palestinesi. Il provvedimento, che ha spaccato in due il Paese, arriva dopo il drammatico sgombero dell’avamposto di Amona, mercoledì scorso, dove 42 famiglie hanno dovuto lasciare le loro case per l’applicazione di una sentenza della Corte suprema di Gerusalemme.
Il provvedimento, spinto dai partiti di destra della coalizione al governo, in particolare Focolare ebraico del ministro dell’educazione Naftali Bennett, punta a prevenire altri sgomberi del genere, ma va contro la comunità internazionale, a partire dall’Onu, che vede negli insediamenti un «ostacolo» al processo di pace con i palestinesi. Il premier Benjamin Netanyahu ha comunque deciso di accelerare, ieri, al termine dell’incontro con il primo ministro Theresa May a Londra, dove fra l’altro ha discusso delle minacce missilistiche dell’Iran. In un primo momento, il premier sembrava deciso a rimandare il voto, ma fonti del suo partito hanno fatto sapere che la tempistica era legata al necessario coordinamento con gli Stati Uniti, anche in vista del vertice con Trump il 15 febbraio a Washington. Netanyahu, da Londra, ha specificato che gli Usa erano stati «avvertiti».
La legge si propone di «regolarizzare gli insediamenti in Giudea e Samaria (cioè la Cisgiordania) e consentire il loro continuo stabilirsi e sviluppo». Il provvedimento agisce in forma retroattiva, stabilisce un meccanismo di compensazione per i proprietari palestinesi dei terreni su cui sono stati costruiti insediamenti o case: potranno ricevere un pagamento annuale pari al 125% del valore dei terreni per 20 anni o, in alternativa, altri terreni a loro scelta dove è possibile. Ma il Procuratore generale Avichai Mandelblit, assieme ad altri, ha messo in guardia sul rischio che l’approvazione della legge possa portare Israele davanti alla Corte Penale dell’Aja su iniziativa palestinese.[gio. sta.]
La Stampa 7.2.17
“La difficile scelta di non credere”
Mi chiamo Sodfa, ho 23 anni, nata e cresciuta qui in Italia. La mia fortuna più grande è stata quella di essere cresciuta influenzata da diversi credi e culture, frequentando la scuola cattolica e vivendo l’Islam tra quello che mi mostravano i miei genitori e quello dei miei familiari in Tunisia, apprezzando e criticando tutto ciò che mi capitava davanti. Con il tempo ho iniziato ad analizzare quella che era la mia religione e, pur sentendo tanta fede dentro di me, mi sentivo comunque stretta, non «a casa mia» fino ad arrivare alla scelta di lasciare l’Islam. Le reazioni alla mia decisione, al mio percorso, non sono state positive tra i miei familiari tunisini ma l’amore di mia madre, una donna musulmana, credente e praticante, mi hanno aiutata ad affrontare con sicurezza questo percorso, intraprendendo anche quello del dialogo inter-religioso.
La Stampa 7.2.17
“Sono laica, i media mi nascondono”
Sono Sara Jbaria, studentessa universitaria 22 enne e cittadina italiana di origini marocchine. In quanto individuo avente doppia nazionalità sono conscia del fatto che come italiani arabi e laici siamo persistentemente emarginati non solo dalla politica ma anche dai media, che dipingono la religione in modo univoco. Il nostro Paese ha una presenza islamica importante con idee talvolta divergenti e diametralmente opposte e questo dovrebbe essere simbolo di ricchezza ed eterogeneità. Volutamente ignorata. Io sono una dei tanti musulmani che credono in una società democratica e laica per eccellenza, dove la religione non dovrebbe divenire «affare di Stato» o la prerogativa principale, ma dovrebbe rappresentare un nucleo portante di ciascun individuo coscienzioso della propria individualità, senza pubblicizzazione eccessiva e talvolta controproducente. Perché vogliono velare la mia esistenza?
La Stampa 7.2.17
Nefertiti ultimo atto
È davvero sepolta dietro una parete della tomba di Tutankhamon?
La risposta verrà da un’équipe del Politecnico di Torino a cui l’Egitto ha affidato la mappatura geofisica della Valle dei Re
di Fabrizio Assandri
C’è qualcosa oltre quel muro? La parete Nord della camera funeraria di Tutankhamon potrebbe essere vuota e nascondere l’accesso alla tomba mai trovata della bellissima Nefertiti. Per lo meno, è quello che cercheranno di scoprire, una volta per tutte, gli studiosi del Politecnico di Torino. Con i georadar scandaglieranno la parete dove il faraone bambino è dipinto insieme col successore Ay, alla ricerca di un corridoio al di là del muro.
Quella torinese sarà la terza e si spera ultima analisi, dopo che due anni fa l’archeologo inglese Nicholas Reeves ipotizzò che la tomba della sposa di Akhenaton, il faraone che rese l’Egitto temporaneamente monoteista, padre di Tutankhamon, si trovi accanto a quella di quest’ultimo. La morte improvvisa del «faraone bambino» avrebbe impedito di costruire una tomba tutta per lui. Per questo sarebbe stata ricavata in un’anticamera della tomba di Nefertiti.
Un’ipotesi definita «audace» da Franco Porcelli, docente di Fisica al Politecnico, che ha lavorato come addetto scientifico all’ambasciata italiana del Cairo dal 2007 al 2015. Ha partecipato anche alla recente scoperta su uno degli altri misteri di Tutankhamon: un team italo-egiziano ha dimostrato che la lama del pugnale sepolto con la mummia era fatta di materiale proveniente da un meteorite.
Il progetto
Le nuove indagini metteranno fine alla discussione nata dopo l’ipotesi di Reeves. «Le analisi hanno dato risultati contraddittori e incompleti. Noi, in positivo o in negativo, chiuderemo una questione complessa», dice Porcelli. Potrebbe essere la scoperta o la delusione del secolo.
«I problemi della sicurezza e il caso Regeni hanno messo in crisi anche le collaborazioni scientifiche», racconta il professore, «ma il ministero delle Antichità egiziano a dicembre ci ha chiesto di dare un verdetto definitivo sulla tomba di Nefertiti. Useremo radar di ultima generazione: bucare la parete danneggerebbe gli affreschi».
Il progetto del Politecnico, che cofinanzia la missione, parte dal Dipartimento di Scienza applicata e Tecnologia diretto da Paolo Fino e coinvolge Luigi Sambuelli del Dipartimento di Ingegneria dell’ambiente. Ne fanno parte l’Università di Torino e alcune aziende, tra le quali la Geostudi Aster di Livorno, ed è sostenuto anche dalla Fondazione Novara Sviluppo. La ricerca della tomba di Nefertiti rientra in un ben più ampio progetto di archeoscienza: la mappatura geofisica di tutta la Valle dei Re a Luxor.
Analisi non invasive
Strumentazioni elettriche e onde elettromagnetiche permettono analisi non invasive: «Possiamo “vedere” fino a dieci metri sotto terra», spiega Porcelli, «La mappatura attuale risale agli Anni 80, fatta con tecnologie antiquate». Il nuovo atlante fornirà dati sulla composizione geologica e l’eventuale presenza di materiali ferrosi e resti archeologici nella necropoli, oltre a rilievi 3D e dati georeferenziati: tecniche usate anche per i recenti terremoti nel Centro Italia. «Cercheremo l’aiuto dell’Agenzia spaziale italiana per avere anche dati satellitari».
Di Nefertiti, la cui bellezza elegante e imperturbabile («la bella è arrivata» significa il suo nome) è immortalata nel celebre busto custodito a Berlino, non si conosce molto. Gli studiosi ritengono che sia stata reggente del trono tra la morte del marito e l’ascesa di Tutankhamon, intorno al 1330 a.C., durante la XVIII dinastia. Ritrovarne la tomba permetterebbe di far luce sulla sua vita e sul periodo.
Le due analisi scientifiche seguite all’ipotesi di Reeves hanno dato per ora risultati contraddittori. La prima, i cui esiti sono stati comunicati con enfasi dal governo egiziano, risale al 2015: lo specialista giapponese di radar Hirokatsu Watanabe sostenne di aver trovato stanze oltre il muro e il governo egiziano, desideroso di riportare i turisti nella Valle dei Re, disse che «al 90 per cento» era stata scoperta una nuova tomba. L’anno dopo esperti del National Geographic lo smentirono. Una controversia diventata anche un caso politico.
«Abbiamo motivo di ritenere», dice Porcelli, «che i dati siano stati interpretati in modo fantasioso. Serve un progetto di ricerca solido. Useremo georadar che coprono l’intero spettro di frequenze. Avremo i dati in una settimana di lavoro, per studiarli ne serviranno altre due. Stiamo aspettando le autorizzazioni della National Security egiziana, poi partiremo».
Un nuovo patto con il Pd Verdini: a noi la presidenza della commissione banche
Renzi vede sfumare l’ipotesi del voto a giugno
di Francesca Schianchi
L’allarme al Senato è scattato già da qualche tempo. Rischio di voti risicati, stallo totale sulla presidenza della Commissione Affari costituzionali, lasciata vacante dalla ministra Finocchiaro ormai quasi due mesi fa. Una preoccupazione che ha superato il livello di guardia la settimana scorsa, quando per eleggere il candidato dem per la Corte dei Conti, il professore messinese Antonio Saitta, molto stimato dalla Finocchiaro, sono mancati circa quaranta voti. La rinuncia a portare Denis Verdini e il suo gruppo Ala al governo pesa, e i democratici se ne stanno rendendo conto. Tanto da correre ai ripari: ieri, nel tardo pomeriggio, il capogruppo Luigi Zanda e il vicesegretario Lorenzo Guerini si sono incontrati con Verdini e il presidente del suo gruppo, Lucio Barani. Obiettivo, trattare una qualche forma di sostegno al governo Gentiloni, per garantirgli più stabilità lì dove, a Palazzo Madama, i numeri sono stati ballerini per tutti gli esecutivi fin dall’inizio della legislatura. La richiesta di Verdini e dei suoi, esclusi dalla squadra di governo, è stata precisa: la presidenza della futura Commissione d’inchiesta sulle banche, da destinare a Enrico Zanetti, già viceministro dell’Economia nel governo Renzi. Una richiesta che il Pd non pensa di accontentare, ma che negli ambienti renziani ha acceso una lampadina: «Se nasce, questa Commissione deflagra come una bomba», sussurrano. Perché sono convinti che non dovrebbe indagare solo sui casi più recenti di banche in difficoltà, ma andare indietro di molti anni, e in varie zone del Paese, dalla Puglia al Veneto. Risalire anche a operazioni vecchie di anni, su cui come la pensi Renzi non è un mistero: «Monte dei Paschi è stato ridotto così da una politica impicciona, che era la sinistra di questo Paese», disse qualche mese fa a «Porta a porta». E non solo: «Si vuole una Commissione – è tornato sul tema qualche giorno fa in un colloquio col «Corriere della Sera» – che usa come parafulmini Banca Etruria, Banca Marche e le Casse di Risparmio di Ferrara e di Chieti. Ma in realtà vedo un disegno forte per allargare il campo a Bankitalia e Consob», e per farlo in un anno particolare, visto che a novembre scade il mandato del governatore Visco. Si tratterebbe insomma di rovistare in operazioni vecchie e nuove, individuare responsabilità, denunciare colpe o omissioni, «e tanti avrebbero di che temere», sono certi i renziani. Un passaggio delicato che potrebbe spingere molti, secondo loro, a rinviare questo momento a dopo una campagna elettorale. E l’unico modo per farlo, ragionano, è andare a votare al più presto. E’ così che la singolare richiesta di Ala ha schiuso agli occhi del segretario e dei suoi un’inattesa speranza di voto anticipato, proprio nei giorni in cui l’ipotesi delle urne si sta inesorabilmente allontanando. Nonostante i contatti costanti degli ambasciatori renziani con gli altri pezzi di maggioranza – da Orlando a Franceschini – come di minoranza – Speranza ed Emiliano – così come con gli ambienti di Berlusconi, sta crescendo il timore di non farcela ad anticipare la chiamata al voto: «Una cosa è un’intesa sulla legge elettorale, altra cosa quella sui tempi del voto», ammetteva ieri sconsolato uno sherpa. Obbligatorio è tentare un’intesa in Parlamento - «se il Colle ti chiede di provarci e non lo fai, non va bene» - ma la sensazione del segretario è di essere sempre più solo, convinto com’è che il paletto messo dai grillini per votare l’Italicum ritagliato dalla Consulta anche al Senato (togliere i capilista bloccati) nasconda il timore di votare per non pagare il caso Raggi. Ora però, inaspettatamente si apre lo spiraglio della Commissione banche. «Per due anni il caso Banca Etruria ha coperto mediaticamente qualunque altro caso per via del caso Boschi: ma Banca Etruria è una piccola banca, vediamo cos’altro salta fuori», sibilano minacciosi dalle parti di Renzi. Convinti che il grimaldello per andare a votare possa averglielo fornito il vecchio amico Denis.
La Stampa 7.2.17
La Buona Scuola ha perso un pezzo
Con l’intesa siglatadal ministro con i sindacati salta l’obbligo per gli insegnanti di restare tre anni nella scuola assegnata
I docenti del Sud gioiscono sperando in sedi più vicine a casa, ma il prossimo annonon ci sarà più confusione?
La trattativa è ancora in corso ma una settimana fa al Miur un pezzo della Buona Scuola è stato demolito. È stata firmata una pre-intesa che impegna il ministero e i sindacati a trovare un accordo definitivo sulla mobilità dei docenti. Per la stagione 2017-2018 viene congelato l’obbligo di tutti gli insegnanti di restare per tre anni nella stessa sede. Vale a dire, per molti di loro, a centinaia di chilometri da casa. Si tratta di « una misura straordinaria», ha precisato la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. In realtà i tre anni erano già stati cancellati dai ricorsi vinti, dall’uso della legge 104 che permette di non spostarsi a chi ha parenti da assistere con problemi di disabilità. Soddisfatti i sindacati confederali che sanno di aver offerto una nuova opportunità a chi ne ha diritto di avvicinarsi alla famiglia. Contrarie due sigle. La Gilda ha partecipato alla trattativa ma non ha firmato. «Riteniamo che la Legge 107 vada cambiata - spiega il coordinatore nazionale Rino Di Meglio - Siamo contrari al passaggio della titolarità degli insegnanti dalla scuola all’ambito territoriale, e siamo contrari alla chiamata diretta da parte dei dirigenti scolastici. Sono norme che non condividiamo e non pensiamo che possano funzionare semplicemente con una modifica temporanea. Bisogna cambiare la legge altrimenti non ne veniamo fuori».
Contrario anche Marcello Pacifico, presidente nazionale dell’Anief: «Questa intesa viola i termini di legge. Non offre soluzioni ai problemi creati dalla chiamata diretta e continua a creare discriminazioni tra gli insegnanti. Si ledono i diritti di chi ha svolto servizio nelle paritarie come precario che non si vede e riconosciuto il lavoro svolto. Lo stesso per gli insegnanti di sostegno o per chi ha frequentato le scuole di specializzazione».
La Stampa 7.2.17
“Con questo accordo il prossimo settembre sarà ancora il caos”
Fabio Cannatà dirige il liceo Amaldi, oltre 1700 studenti, 75 classi e quasi 140 professori da gestire nella periferia di Roma. Quest’anno i problemi creati dalle novità introdotte dalla legge 107 non sono stati pochi. «Ma credo che l’anno prossimo la situazione sarà altrettanto complicata grazie alla nuova intesa raggiunta che vorrebbe semplificare la procedura. In realtà per noi dirigenti delle scuole rende il quadro ancora più difficile».
Che cosa non funzionerà? «La legge 107 ha tra i suoi obiettivi la continuità didattica per tre anni. Con l’intesa si introduce una deroga che fa venire meno la continuità, si offre una nuova possibilità agli insegnanti di trasferirsi. Si prevede la possibilità per i professori di dare 15 preferenze diverse, vuol dire un lavoro enorme per chi dovrà vagliarle. E si introduce una modifica attraverso un accordo che non si capisce come potrà avere maggiore valore di una legge dello Stato e quindi darà luogo a ricorsi che renderanno più complicata una situazione già non semplice. Dobbiamo prepararci purtroppo a un nuovo inizio di anno scolastico nella confusione. Lo scorso settembre abbiamo limitato a una decina le cattedre scoperte ma davvero non so più che cosa rispondere ai genitori che vengono a chiedermi perché ancora una volta i loro figli devono avere degli insegnanti diversi».
La Stampa 7.2.17
Israele, la Knesset approva la legge che regolarizza gli insediamenti in Cisgiordania
La Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato ieri a tarda sera, con 60 voti favorevoli e 52 contrari, la legge per la legalizzazione degli insediamenti ebraici su terre private palestinesi. Il provvedimento, che ha spaccato in due il Paese, arriva dopo il drammatico sgombero dell’avamposto di Amona, mercoledì scorso, dove 42 famiglie hanno dovuto lasciare le loro case per l’applicazione di una sentenza della Corte suprema di Gerusalemme.
Il provvedimento, spinto dai partiti di destra della coalizione al governo, in particolare Focolare ebraico del ministro dell’educazione Naftali Bennett, punta a prevenire altri sgomberi del genere, ma va contro la comunità internazionale, a partire dall’Onu, che vede negli insediamenti un «ostacolo» al processo di pace con i palestinesi. Il premier Benjamin Netanyahu ha comunque deciso di accelerare, ieri, al termine dell’incontro con il primo ministro Theresa May a Londra, dove fra l’altro ha discusso delle minacce missilistiche dell’Iran. In un primo momento, il premier sembrava deciso a rimandare il voto, ma fonti del suo partito hanno fatto sapere che la tempistica era legata al necessario coordinamento con gli Stati Uniti, anche in vista del vertice con Trump il 15 febbraio a Washington. Netanyahu, da Londra, ha specificato che gli Usa erano stati «avvertiti».
La legge si propone di «regolarizzare gli insediamenti in Giudea e Samaria (cioè la Cisgiordania) e consentire il loro continuo stabilirsi e sviluppo». Il provvedimento agisce in forma retroattiva, stabilisce un meccanismo di compensazione per i proprietari palestinesi dei terreni su cui sono stati costruiti insediamenti o case: potranno ricevere un pagamento annuale pari al 125% del valore dei terreni per 20 anni o, in alternativa, altri terreni a loro scelta dove è possibile. Ma il Procuratore generale Avichai Mandelblit, assieme ad altri, ha messo in guardia sul rischio che l’approvazione della legge possa portare Israele davanti alla Corte Penale dell’Aja su iniziativa palestinese.[gio. sta.]
La Stampa 7.2.17
“La difficile scelta di non credere”
Mi chiamo Sodfa, ho 23 anni, nata e cresciuta qui in Italia. La mia fortuna più grande è stata quella di essere cresciuta influenzata da diversi credi e culture, frequentando la scuola cattolica e vivendo l’Islam tra quello che mi mostravano i miei genitori e quello dei miei familiari in Tunisia, apprezzando e criticando tutto ciò che mi capitava davanti. Con il tempo ho iniziato ad analizzare quella che era la mia religione e, pur sentendo tanta fede dentro di me, mi sentivo comunque stretta, non «a casa mia» fino ad arrivare alla scelta di lasciare l’Islam. Le reazioni alla mia decisione, al mio percorso, non sono state positive tra i miei familiari tunisini ma l’amore di mia madre, una donna musulmana, credente e praticante, mi hanno aiutata ad affrontare con sicurezza questo percorso, intraprendendo anche quello del dialogo inter-religioso.
La Stampa 7.2.17
“Sono laica, i media mi nascondono”
Sono Sara Jbaria, studentessa universitaria 22 enne e cittadina italiana di origini marocchine. In quanto individuo avente doppia nazionalità sono conscia del fatto che come italiani arabi e laici siamo persistentemente emarginati non solo dalla politica ma anche dai media, che dipingono la religione in modo univoco. Il nostro Paese ha una presenza islamica importante con idee talvolta divergenti e diametralmente opposte e questo dovrebbe essere simbolo di ricchezza ed eterogeneità. Volutamente ignorata. Io sono una dei tanti musulmani che credono in una società democratica e laica per eccellenza, dove la religione non dovrebbe divenire «affare di Stato» o la prerogativa principale, ma dovrebbe rappresentare un nucleo portante di ciascun individuo coscienzioso della propria individualità, senza pubblicizzazione eccessiva e talvolta controproducente. Perché vogliono velare la mia esistenza?
La Stampa 7.2.17
Nefertiti ultimo atto
È davvero sepolta dietro una parete della tomba di Tutankhamon?
La risposta verrà da un’équipe del Politecnico di Torino a cui l’Egitto ha affidato la mappatura geofisica della Valle dei Re
di Fabrizio Assandri
C’è qualcosa oltre quel muro? La parete Nord della camera funeraria di Tutankhamon potrebbe essere vuota e nascondere l’accesso alla tomba mai trovata della bellissima Nefertiti. Per lo meno, è quello che cercheranno di scoprire, una volta per tutte, gli studiosi del Politecnico di Torino. Con i georadar scandaglieranno la parete dove il faraone bambino è dipinto insieme col successore Ay, alla ricerca di un corridoio al di là del muro.
Quella torinese sarà la terza e si spera ultima analisi, dopo che due anni fa l’archeologo inglese Nicholas Reeves ipotizzò che la tomba della sposa di Akhenaton, il faraone che rese l’Egitto temporaneamente monoteista, padre di Tutankhamon, si trovi accanto a quella di quest’ultimo. La morte improvvisa del «faraone bambino» avrebbe impedito di costruire una tomba tutta per lui. Per questo sarebbe stata ricavata in un’anticamera della tomba di Nefertiti.
Un’ipotesi definita «audace» da Franco Porcelli, docente di Fisica al Politecnico, che ha lavorato come addetto scientifico all’ambasciata italiana del Cairo dal 2007 al 2015. Ha partecipato anche alla recente scoperta su uno degli altri misteri di Tutankhamon: un team italo-egiziano ha dimostrato che la lama del pugnale sepolto con la mummia era fatta di materiale proveniente da un meteorite.
Il progetto
Le nuove indagini metteranno fine alla discussione nata dopo l’ipotesi di Reeves. «Le analisi hanno dato risultati contraddittori e incompleti. Noi, in positivo o in negativo, chiuderemo una questione complessa», dice Porcelli. Potrebbe essere la scoperta o la delusione del secolo.
«I problemi della sicurezza e il caso Regeni hanno messo in crisi anche le collaborazioni scientifiche», racconta il professore, «ma il ministero delle Antichità egiziano a dicembre ci ha chiesto di dare un verdetto definitivo sulla tomba di Nefertiti. Useremo radar di ultima generazione: bucare la parete danneggerebbe gli affreschi».
Il progetto del Politecnico, che cofinanzia la missione, parte dal Dipartimento di Scienza applicata e Tecnologia diretto da Paolo Fino e coinvolge Luigi Sambuelli del Dipartimento di Ingegneria dell’ambiente. Ne fanno parte l’Università di Torino e alcune aziende, tra le quali la Geostudi Aster di Livorno, ed è sostenuto anche dalla Fondazione Novara Sviluppo. La ricerca della tomba di Nefertiti rientra in un ben più ampio progetto di archeoscienza: la mappatura geofisica di tutta la Valle dei Re a Luxor.
Analisi non invasive
Strumentazioni elettriche e onde elettromagnetiche permettono analisi non invasive: «Possiamo “vedere” fino a dieci metri sotto terra», spiega Porcelli, «La mappatura attuale risale agli Anni 80, fatta con tecnologie antiquate». Il nuovo atlante fornirà dati sulla composizione geologica e l’eventuale presenza di materiali ferrosi e resti archeologici nella necropoli, oltre a rilievi 3D e dati georeferenziati: tecniche usate anche per i recenti terremoti nel Centro Italia. «Cercheremo l’aiuto dell’Agenzia spaziale italiana per avere anche dati satellitari».
Di Nefertiti, la cui bellezza elegante e imperturbabile («la bella è arrivata» significa il suo nome) è immortalata nel celebre busto custodito a Berlino, non si conosce molto. Gli studiosi ritengono che sia stata reggente del trono tra la morte del marito e l’ascesa di Tutankhamon, intorno al 1330 a.C., durante la XVIII dinastia. Ritrovarne la tomba permetterebbe di far luce sulla sua vita e sul periodo.
Le due analisi scientifiche seguite all’ipotesi di Reeves hanno dato per ora risultati contraddittori. La prima, i cui esiti sono stati comunicati con enfasi dal governo egiziano, risale al 2015: lo specialista giapponese di radar Hirokatsu Watanabe sostenne di aver trovato stanze oltre il muro e il governo egiziano, desideroso di riportare i turisti nella Valle dei Re, disse che «al 90 per cento» era stata scoperta una nuova tomba. L’anno dopo esperti del National Geographic lo smentirono. Una controversia diventata anche un caso politico.
«Abbiamo motivo di ritenere», dice Porcelli, «che i dati siano stati interpretati in modo fantasioso. Serve un progetto di ricerca solido. Useremo georadar che coprono l’intero spettro di frequenze. Avremo i dati in una settimana di lavoro, per studiarli ne serviranno altre due. Stiamo aspettando le autorizzazioni della National Security egiziana, poi partiremo».