lunedì 31 dicembre 2007

l’Unità 31.12.07
Un vescovo spagnolo: ci sono ragazzini che provocano i pedofili
Family day a Madrid: parte la campagna elettorale della Chiesa contro Zapatero
di Franco Mimmi


Ormai apertamente trasformata in un partito politico (di destra, naturalmente), la conferenza episcopale spagnola ha portato una volta di più la gente in piazza per protestare contro il governo di José Luis Zapatero, considerato colpevole, in quanto laico, di dirigere il Paese «alla dissoluzione della democracia».
Lo ha affermato, nel corso della manifestazione «Per la famiglia cristiana» convocata ieri a Madrid, il cardinale Agustín García-Gasco, arcivescovo di Valencia, per il quale «la cultura del laicismo è una frode», che «solo porta alla disperazione per il cammino dell’aborto, del divorzio express e delle ideologie che pretendono di manipolare l’educazione dei giovani». Nulla ha detto, invece, della cultura religiosa del suo collega Bernardo Álvarez, vescovo di Tenerife, il quale, a proposito della pederastia, giorni prima aveva commentato: «Ci possono essere minori che consentono gli abusi, vi sono adolescenti di 13 anni che sono minori e sono del tutto d’accordo e in più lo desiderano, e anzi, se non stai attento, ti provocano».
Migliaia di persone, quasi un milione, sono scese ieri in piazza (con tanto di collegamento tv con il Vaticano per trasmettere l’Angelus) per rispondere all’appello della Chiesa più retriva, che agli ordini del cardinale Rouco Varela, arcivescovo di Madrid, sta valicando tutti i limiti della convivenza e del rispetto per le idee altrui in vista delle elezioni generali del 9 marzo prossimo. Il grande nemico è il governo di Zapatero, sotto il quale, ha dichiarato Rouco, «l’ordinamento giuridico spagnolo ha fatto marcia indietro rispetto alla Dichiarazione Onu dei diritti umani».
I movimenti cattolici più radicali - dall’Opus Dei ai Legionari di Cristo (il cui fondatore, il sacerdote messicano Marcial Maciel Degollado, fu discretamente allontanato perché accusato di pederastia), dal Movimiento Camino Neocatecumenal ai Voluntarios de Misión – sono il braccio che la Conferenza episcopale arma contro il governo socialista, accusato di «sette peccati capitali»: aborto, divorzio, eutanasia, cellule staminali, matrimonio omosessuale, educazione e finanziamento della Chiesa. Opinioni a parte, nella maggior parte dei casi è pura menzogna. Per esempio, il governo nulla ha cambiato (nè pensa di cambiare, in parole dello stesso Zapatero) della già esistente legge sull’aborto, ma i movimenti antiabortisti sono stati scatenati in una serie di manifestazioni davanti a cliniche dove si pratica l’interruzione di gravidanza. Neppure rientra nel programma del governo una legge sull’eutanasia. E quanto alle «banche» di cellule staminali, che il governo ha voluto non a fini di lucro, la cattolicissima Esperanza Aguirre, presidente della regione Madrid, si è invece preoccupata di favorire la creazione di «banche» private in vista degli affari che ne deriveranno. Insegnamento della religione: è stata soppressa l’obbligatorietà (che il governo di destra di Aznar aveva reintrodotto con una legge più retriva di quella vigente ai tempi del franchismo), ma è rimasta obbligatoria l’offerta della materia, e i 15 mila professori di religione, che l’episcopato sceglie (e a volta licenzia, contro lo statuto dei lavoratori) a suo piacimento, sono pagati dallo Stato. Quanto al finanziamento, il governo ha elevato dallo 0,52 allo 0,70 la quota Irpef che il contribuente cattolico può destinare alla Chiesa.
Insomma: allo stesso modo del Partido popular, votato a una opposizione senza argomenti ma a tutto campo, anche la Chiesa spagnola è avviata verso una pericolosissima radicalizzazione che può portare, questa sì, «alla dissoluzione della democracia». Ovviamente non è tutta la Chiesa, però, come ha detto Carlos García de Andoin, coordinatore di Cristiani Socialisti, «il nucleo più conservatore sta ottenendo la nomina di giovani vescovi neotradizionalisti, e già vi sono prelati della Conferenza episcopale che formano parte di Comunione e Liberazione». Il problema, sottolinea Gregorio Peces-Barba, uno dei padri della Costituzione spagnola del 1978, è che «non accettano la distinzione pubblico-privato che sta nell’articolo 27 della Carta Magna, e nel fondo continuano a pensare come nel XIX secolo, quando dicevano che la libertà di coscienza era un errore pestilente».

l’Unità 31.12.07
Anno 2008: conosceremo l’origine dell’universo?
di Pietro Greco


I FISICI si attendono grandi cose da LHC. l’acceleratore di particelle più grande del mondo che tra qualche mese entrerà in funzione al Cern. E la rivista Science consiglia di tenere d’occhio la macchina...

La notizia scientifica più attesa per il 2008 è, certo, quella che verrà - tra maggio e giugno - da Ginevra, non appena sarà entrato in funzione LHC, l’acceleratore di adroni. O, detta fuori dal gergo dei fisici, la macchina più grande e potente mai costruita dall’uomo.
Il gigantismo tecnologico ha certo il suo fascino. Alla macchina del Cern (l’Organizzazione europea per la ricerca nucleare) da 7 TeV (migliaia di miliardi di elettronvolt) e da qualche miliardo di euro, lavoreranno alcune migliaia di esperti provenienti da 111 diversi paesi. Confermando all’Europa una primazia importante, in un mondo della ricerca scientifica sempre più ricco e multipolare. Tuttavia l’attesa maggiore è per i risultati scientifici che la Grande Macchina produrrà. Il più atteso è il rilevamento del «bosone di Higgs» l’unica particella prevista e non ancora trovata dal Modello Standard della Fisica delle Alte Energie. Se verrà trovata, come tutti si aspettano, avremo capito cos’è che conferisce una massa alla materia e trovato l’ultimo tessera mancante nel puzzle che ha unificato l’interazione debole e l’elettromagnetismo, ovvero due delle quattro forze fondamentali della natura.
La filosofia della Grande Macchina è piuttosto brutale. Accelero particelle grasse, come protoni o addirittura ioni pesanti; le faccio sbattere a una velocità molto prossima alla velocità della luce le une contro le altre, le annichilo e dal «grande vuoto» nascono, come comanda la meccanica quantistica, sciami di nuove particelle. Incluso il «bosone di Higgs», alla cui caccia si scateneranno sofisticati rivelatori che dovranno visionare in tempi rapidi una quantità enorme di tracce. Il che, per inciso, ha obbligato i fisici del Cern a escogitare nuove diavolerie informatiche per aumentare la memoria e la velocità dei loro computer.
Se poi la caccia si dovesse rivelare infruttuosa, beh allora - questo è il bello - alcuni decenni di ricerca di successo in fisica teorica sarebbero da riscrivere. È per questo, forse, che tutti mostrano grande fiducia: il «bosone di Higgs» c'è ed LHC, la prossima primavera, lo troverà.
La gran parte degli esperti, anzi, pensa che LHC saprà andare «oltre il Modello Standard» e troverà le prove decisive della cosiddetta «supersimmetria», che consentirà un ulteriore passo in avanti verso l’unificazione delle forze, con la scoperta della particelle supersimmetriche (ogni particella nota ha una particella supersimmetrica). Se questo si verificherà avremo la prova sperimentale della fondatezza della teoria che unifica l’interazione elettrodebole e l’interazione forte.
Al test partecipano, con una certa trepidazione, anche i cosmologi. Già, perché se proviamo l’esistenza delle particelle supersimmetriche abbiamo buone possibilità di rispondere alla domanda che riguarda l’universo intero: perché il cosmo pesa più della materia nota che contiene? La risposta in questo caso sarebbe: perché contiene altra materia che finora non abbiamo visto. Una risposta che appagherebbe anche i teorici, consentendo loro di salvare un altro Modello Standard, quello della cosmologia.
Ancora una volta, se LHC non dovesse trovare prove dell’esistenza di SUSY (la supersimmetria) dovremmo rimettere mano a molte pagine della fisica scritte negli ultimi anni e persino negli ultimi decenni. Non sarebbe un disastro, per i fisici. Non per quelli dei nostri giorni, almeno. Perché la ricerca in questa che è considerata la disciplina fondamentale delle scienze naturali ripartirebbe alla grande. Cosicché non sono pochi coloro che sperano che LHC fallisca: o meglio, che non trovi l’atteso. E magari scovi l’inatteso.
Diciamolo subito, questa eventualità è difficile che si verifichi. Anche se, ovviamente, non impossibile.
Molto più controversa è, infine, l’ultima missione affidata alla Grande macchina: fornire la prova sperimentale della validità della cosiddetta «teoria delle stringhe», nota anche come «teoria del tutto», perché unificherebbe in un solo e unitario quadro teorico tutta la fisica, unificando la gravità con le altre tre forze fondamentali della natura. Secondo alcuni LHC potrebbe trovare un certo modo di diffondersi di alcune particelle, note come bosoni W, quando colpiscono un oggetto che è previsto dalla teoria ultima. Il test potrebbe essere l’unico modo, in questo momento, per falsificare nei termini previsti da Popper una teoria che è molto sofisticata dal punto di vista matematico. Non tutti concordano sulla adeguatezza del test. Per cui anche se LHC certamente non metterà la parola fine alla ricerca della «teoria del tutto», certo accenderà la discussione. Il che, a ben vedere, non è davvero poco.

Repubblica 31.12.07
Pablo Picasso. Le mille vite di un genio
È uscito negli Stati Uniti l'ultimo volume della biografia di Richardson
Intervista di Antonio Monda


NEW YORK. L´uscita del terzo volume della monumentale biografia di Picasso ad opera di John Richardson è stato accolto negli Stati Uniti come un grande evento culturale: alla copertina del New York Times Book Review, a cui è stato dato il titolo "The Colossus", ha fatto seguito un lungo saggio sul New York Review of Books, una serie di articoli su tutte le principali pubblicazioni americane, ed infine una recensione osannante a firma di un critico ostico come Michiko Kakutami sul New York Times. Il nuovo testo, a cui farà seguito nei prossimi anni un volume conclusivo, è stato pubblicato da Knopf (pagg. 592, $ 40) ed ha per sottotitolo The Triumphant Years 1917-1932. Nel periodo in cui conviveva con il critico e collezionista Douglas Cooper, Richardson ha frequentato regolarmente Picasso, ed in questo nuovo capitolo della biografia utilizza al meglio il suo rapporto privilegiato: l´importanza del testo è nella perfetta miscela di un´erudizione autentica con il piacere dell´aneddoto e della testimonianza personale.
Richardson è uno scrittore di piacevolissima lettura, felice di essere uno degli ultimi depositari di una miniera di vicende passate alla storia, che ha scelto di importare il suo approccio divulgativo sulla leggerezza ed il riferimento per pochi eletti. Mi accoglie nella sua sontuosa casa nella parte Sud della Quinta Avenue, dove, tra le molte opere di Picasso, c´è il ritratto dell´artista scelto per la copertina del libro. «E´ una foto scattata da Valentine Hugo», racconta mentre si aggira tra le opere d´arte nel suo studio tra le quali campeggia anche un suo ritratto a firma di Lucien Freud. «Era la nipote dello scrittore, che ebbe una relazione con Picasso e lo immortalò in questa immagine sulla quale lui ha aggiunto dei disegni simili a quelli di Guernica».
In una conversazione con Francoise Gilot, Picasso definì Dio come un artista, che ha creato animali bizzarri come la giraffa e l´elefante, senza un vero e proprio stile.
«E´ evidente che Picasso parli implicitamente di se stesso, aggiungendo, a proposito del Padreterno, che "continua a tentare cose diverse". Picasso era consapevole di essere un genio. Ed era un artista anche sentiva l´esigenza di cambiare e sperimentare continuamente. Si considerava in primo luogo uno sciamano ed un esorcista, e chi lo conosciuto di persona sa quanto fosse capace di atteggiamenti sorprendentemente contraddittori».
A cosa si riferisce?
«Ad esempio alla differenza di atteggiamento che aveva nei confronti delle donne e degli amici. Con le donne è stato ripetutamente crudele, mentre con gli amici si è distinto spesso per lealtà e generosità. Ma questo è un elemento da approfondire: nei quadri in cui dipingeva la prima moglie Olga voleva a mio avviso esorcizzarne la malattia mentale. Combatteva il male con il male, utilizzando immagini crudeli che sono rimaste sulla tela».
Nel suo libro racconta di numerosi gesti di arroganza e crudeltà anche nei confronti di Cocteau.
«Si tratta di un caso particolare: a mio avviso Cocteau aveva nei confronti di Picasso un rapporto che sfiorava il masochismo e sembrava che facesse di tutto per irritarlo e scatenare in lui reazioni violente. Me lo ha confermato anche Claude Arnaud, che su Cocteau ha scritto una splendida biografia. Ho assistito a scene terribili, ma il bello è che dopo pochi giorni i due tornavano ad essere amici come se nulla fosse».
Lei attribuisce al viaggio in Italia fatto dai due amici una fondamentale importanza per l´arte futura di Picasso.
«E´ il viaggio in cui Picasso rimane affascinato dalle grandiose figure classiche e si trova costretto a confrontarsi con il classicismo. E´ dopo il soggiorno a Roma e a Napoli che elabora un passaggio in avanti rispetto al cubismo, forma espressiva con la quale ha raggiunto risultati straordinari e nella quale tuttavia cominciava a sentirsi limitato in particolare per via delle dimensioni.
Uno dei capitoli più appassionanti è quello che riguarda il rapporto con Diaghilev e Massine all´epoca di Parade: ritiene che queste frequentazioni nel mondo del balletto abbiano avuto un´influenza sull´arte di Picasso?
«Non direi. Pensando a quel periodo mi viene in mente semmai la relazione artistica con Stravinskj. Entrambi cercavano di rivoluzionare nello stesso periodo il loro mezzo espressivo, riflettendo sul classicismo. Il periodo del matrimonio con Olga rappresenta anche il momento più borghese della vita di Picasso. Visse quegli anni, che definì "Il Periodo Duchessa" con sincerità, e, per un breve tempo, anche con un senso di appagamento. Esistono delle foto dell´epoca sorprendenti che lo ritraggono come un perfetto signore che esibiva un cappello elegante e perfino delle ghette. Picasso aveva conosciuto la povertà ed ora, improvvisamente, si trovava ad avere un castello con maggiordono, autista, cuoco. Ma durò poco: il richiamo della vita artistica e del fascino bohemienne riapparvero nello stesso periodo in cui si innamorò a 45 anni della diciassettenne Marie Therese Walter. Fu una passione dionisiaca che si oppose alla relazione più tradizionale ed apollinea che aveva con Olga».
Va aggiunto anche che in Picasso queste due anime rimasero vive sino alla fine, anche se nel suo studio di Parigi fece scrivere «Je ne suis pas un gentleman» e raccontò di preferire un pasto di fagioli allo champagne e al caviale.
«Si tratta di una delle sue tante contraddizioni, che a livello artistico diventarono una caratteristica del suo genio. Altri personaggi chiave della sua biografia sono Gerald and Sara Murphy. Si tratta dei due personaggi che ispirarono Scott Fitzgerald per Tenera è la notte». Insieme a loro Picasso convinse il proprietario dell´Hotel Du Cap a tenere l´albergo aperto anche d´estate consacrando la moda della Riviera. Nei Murphy Picasso vedeva degli spiriti liberi, ed un´affascinante impersonificazione del modernismo americano, così diverso dalla rigidità della classe intellettuale parigina. Era conquistato dal loro atteggiamento da bohemienne chic, e ritrasse Gerald nella Dance, ma nego, come hanno raccontato in molti, che fosse innamorato di Sara».
Dal suo libro risulta evidente che invece non amasse troppo Scott e Zelda Fitzgerald, né Hemingway.
«Il problema principale era quello alcoolico. La sua preferita era Zelda, ma al di là della stima che poteva avere per gli scrittori, non sopportava il fatto di trovarli sempre ubriachi, e vederli lasciarsi andare a scenate imbarazzanti».
La biografia affronta anche il rapporto con il surrealismo.
«Ritengo che Picasso inorridirebbe all´idea che sono state organizzate mostre sul suo periodo surrealista. Cercò sempre di resistere al tentativo di coinvolgimento da parte di Breton e visse quella breve esperienza come un modo per dare alle immagini un grado più elevato di realtà. Del surrealismo non digeriva il rapporto con il mondo onirico e con le teorie di Freud e Marx. In quel momento della sua vita Picasso era apolitico, e potrà sorprendere scoprire che nel 1934 partecipò ad un banchetto in suo onore organizzato dai Falangisti su invito di Jose Antonio Primo de Rivera. Scoprì quasi immediatamente che tentavano di strumentalizzarne la presenza, ma la sua attenzione ritornò unicamente alla libertà dell´arte».

Corriere della Sera 31.12.07
Su «l'Unità»: Bondi e le lodi a Reichlin «Avrei scritto le stesse cose»


ROMA — Sandro Bondi si complimenta con Alfredo Reichlin sulle pagine dell'Unità. Giovedì scorso il presidente della commissione per la Carta dei valori del Partito democratico aveva parlato, sul giornale diretto da Antonio Padellaro, della «impresa di dar vita non a un altro partitino, ma a un grande inedito partito della nazione, cementato da una comune idea dell'Italia e del mondo del 2000».
Ieri l'Unità ha pubblicato la lettera del coordinatore di Forza Italia: «Avrei voluto scrivere le stesse cose parlando del nascente movimento politico del Popolo della libertà, che rappresenta il corrispettivo del Pd sul versante del cosiddetto centrodestra». Consonanza ma anche differenze: «Questo non significa — scrive Bondi — che siamo d'accordo sulle soluzioni da dare ai problemi del Paese. Vuol dire però che siamo d'accordo sulla necessità di edificare una democrazia forte e vitale».

Corriere della Sera 31.12.07
I segreti di Caravaggio rivelati da Federico Zeri
di Stefano Bucci


Quarantaquattro capolavori «letti» dal genio, trasgressivo e raffinato, di Federico Zeri (1921-1998) ovvero uno dei più grandi storici dell'arte italiani. Non esattamente lezioni da accademia, ma conversazioni registrate per la radio tra il 1997 e il 1998 (Zeri morirà il 5 ottobre dello stesso anno); un tono colloquiale per raccontare i segreti del Compianto sul Cristo Morto di Giotto, della Danza di Salomè di Filippo Lippi, della Morte della Vergine del Mantegna, dell'Autoritratto di Schiele, delle Muse inquietanti di De Chirico. La nuova edizione curata da Marco Carminati (riveduta, corretta, amplificata) restituisce il fascino di un divulgatore ironico e al tempo stesso appassionato che di ogni personaggio e di ogni opera riesce a ritrovare il particolare o la curiosità capace di conquistare l'ascoltatore.
Ecco così che, nelle parole di Zeri, Caravaggio viene paragonato a Pasolini (cattolico ed eretico al tempo stesso), David viene bollato come «peloso adulatore di Napoleone», Michelangelo diventa responsabile di un errore (nella disposizione dell'intonaco) che danneggerà irreparabilmente la «sua» Sistina mentre in tempi più recenti la Danza di Matisse rivela il segreto della sua forza («i colori erano così vivaci perché dovevano illuminare una casa troppo scura e dovevano essere visti dal giardino»). Zeri è sempre capace di guardare ben oltre l'immagine: tanto che, grazie a lui, Gauguin diventa con quel suo rifiuto della società occidentale, addirittura «il primo alfiere delle culture minori».
Federico Zeri, Abecedario pittorico Longanesi pp.298 e 25

il Riformista 31.12.07
Il Pci dialogava con la Chiesa da pari a pari
di Paolo Franchi


Il cardinale Tarcisio Bertone teme che nel nascente Partito democratico i cattolici vengano mortificati, e ricerca il tempo perduto. «Il Pci di Gramsci, Togliatti e Berlinguer», sostiene, «non avrebbe mai approvato le derive (laiciste, ndr) che si profilano oggi». Sulla mortificazione cui rischierebbero di andare soggetti i cattolici nel Pd, trasecolo ma mi guardo bene dal commentare: ognuno giudichi per quel che vede, sa e può. Sul rimpianto di Sua Eminenza per il vecchio Pci, invece, qualche parola vorrei spenderla.
Gramsci, dice il cardinale. E ha perfettamente ragione. Spesso, non saprei dire perché, lo si dimentica. Ma il citatissimo articolo di Gramsci non si intitola, guarda caso, “La quistione cattolica”. Si intitola: “La quistione vaticana”. La differenza non è di poco conto. Sta a significare che cattolici, e più in generale cristiani, ce ne sono sotto ogni cielo di Europa: con la loro fede, con le loro chiese (in minuscolo, al plurale), con i loro rapporti più o meno risolti con lo Stato. E che invece in Italia, solo in Italia, c’è il Vaticano. Che il nostro, solo il nostro, è il Paese della questione romana. Che da noi, solo da noi, chi intenda porre mano alla costruzione di una grande forza nazionale, capace di esercitare egemonia, dovrà andare a scuola da Santa Madre Chiesa.
Togliatti, dice il cardinale. E ha ancora più ragione. Perché da Gramsci Togliatti (il Togliatti che torna in Italia da Mosca, nel ’44, a fondare il “partito nuovo”) ha appreso che senza una attenta «ricognizione della questione nazionale» non si va da nessuna parte, e che della questione nazionale la questione vaticana è parte rilevantissima. Il Pci vota l’articolo 7 della Costituzione perché considera un rischio gravissimo per la sua politica «turbare la pace religiosa degli italiani», e non deflette da questa posizione neanche negli anni successivi, nonostante papa Pacelli, nonostante la scomunica. Nel ’63, nella (allora) bianchissima Bergamo Togliatti individuerà nella lotta contro il pericolo atomico e per la pace un possibile terreno d’intesa per il lungo periodo tra marxisti e cattolici.
Berlinguer, dice il cardinale. E ha ragionissima. Il compromesso storico, il tentativo disperato di evitare il referendum sul divorzio, la lettera a monsignor Bettazzi: non c’è dubbio alcuno che, anche al netto dell’influenza di Franco Rodano e del cattocomunismo, al dialogo con i cattolici Berlinguer assegna un ruolo determinante nella battaglia per «salvare l’Italia» (anche dai pericoli della secolarizzazione) e portare a compimento «la seconda tappa della rivoluzione democratica e antifascista».
Ricapitolando: Bertone ha ragione da vendere su Gramsci, Togliatti e Berlinguer. Ai tre più eminenti leader del comunismo italiano, e di conseguenza al Pci, nulla fu più estraneo del laicismo. Eppure, con tutte le sue ragioni, Bertone ha torto. Perché azzarda un paragone tra il Pci e il Pd che, mi perdoni Sua Eminenza Eccellentissima, da qualunque parte lo si riguardi non sta letteralmente in piedi. Il Pci, nonostante le molte fesserie che si dicono in proposito, tutto era fuorché una setta. Vi aderirono molti cattolici, sia, sfidando la scomunica, negli anni della guerra fredda sia, in misura assai maggiore, nella stagione conciliare e postconciliare. Ma era un partito comunista: il più originale e “diverso” dei partiti comunisti, ma un partito comunista, nel quale, ovviamente, a nessuno poteva saltare in mente di mettersi in cerca di un comun denominatore sui valori sui princìpi tra laici e cattolici: con la Chiesa si dialogava, quando si crearono le condizioni per dialogare, con attenzione e rispetto, certo, ma da potenza a potenza. Di tutto questo (del comunismo italiano, ma pure della Chiesa giovannea, quella che distingueva tra l’errore e l’errante) ormai non c’è più traccia. Adesso al mio vecchio amico Alfredo Reichlin, tocca cercare mediazioni, per dire, tra la Binetti e Odifreddi: ne ha viste tante, non si spaventa. Personalmente non credo che la cosa sia possibile, e neanche particolarmente desiderabile. Ma gli faccio lo stesso gli auguri più affettuosi. Nella speranza che, se mai il suo tentativo andasse in porto, il cardinale possa trovare il risultato raggiunto all’altezza della lezione di Gramsci, Togliatti e Berlinguer.

Aprile on line 30.12.07
La sinistra che vorrei
di Carlo Patrignani


Dibattito. "Ho diffidenza verso le certezze infallibili che danno origine a veri e propri clericalismi, non importa se teologici o laici, e necessitano sempre - era la tesi di Lombardi - di un corpo, un organismo, o un uomo reclamanti l'infallibilità nell'interpretare il corso ‘vero' della storia"

Crollate le due fedi dottrinali del XX° secolo, l'Urss stalinista ‘patria' del socialismo realizzato e la Grande Crisi, il 1929, sempre dietro l'angolo come agonia finale del capitalismo mondiale, la sfida per la ‘Sinistra Arcobaleno' è creare la nuova Utopia, l'Umanesimo Socialista del XXI° secolo, mettendolo al riparo dalle varianti degenerative e patologiche: il nazional-socialismo e il comunismo.

E' un errore ritenere che l'avvento di Stalin sia stato un caso sfortunato, un incidente di percorso, che si sarebbe anche potuto non verificare o evitare. Stalin, non può esser disgiunto dal comunismo, fermo restando che si può sempre sperare nel futuro. Ed in questo sta la differenza tra comunismo e nazional-socialismo, o altrimenti nazi-fascismo: i disastri provocati da fascismo e nazismo esprimono, sono una fine, una chiusura; quelli provocati dal comunismo, certamente non minori, anzi per durata e natura maligna maggiori, possono esprimere un'apertura, un nuovo cominciamento, possono essere una promessa per l'avvenire.

In attesa allora di sciogliere il dilemma se debbano cambiare prima gli individui per poi cambiare la società o viceversa, si tratta di formare una ‘massa critica', un numero sufficiente di persone in sintonia ‘con e per' determinare il cambiamento della società: ad innescare processi di riforma e/o di rivoluzione culturale, del resto, non sono state mai le forze al potere ma quelle oppositive, della società civile, dei movimenti, delle realtà territoriali. Spinte dal basso che, per esser indispensabili al cambiamento, vanno non solo approvate, incoraggiate, registrate ma incanalate e realizzate: almeno, per coerenza, ci si provi fino in fondo per non deludere.
Voglio dire che se si è approvata la lotta contro la base militare Dal Molin manifestando con la popolazione di Vicenza, non si può, per coerenza, non votare contro l'avvio dei lavori. In ballo ci sono grandi valori insopprimibili: la pace opposta alla guerra, la non violenza alla violenza, il rispetto al sopruso, il dialogo alla prevaricazione. Poi altri, l'impatto e la sicurezza ambientali.

Ancora: sette giovani sono morti per gravi ustioni nell'acciaieria Thyssenkrupp il cui ad Harald Espenhahn è indagato ora per mancato rispetto di norme riguardanti la sicurezza sul lavoro: erano alla 13esima, 14esima ora di lavoro. Che coerenza è commemorare la morte dei sei giovani, per il settimo morto proprio oggi non c'è stato tempo, e contemporaneamente approvare con il protocollo sul welfare le misure che incentivano il ricorso allo straordinario avendo abolito la sovracontribuzione sulle ore di straordinario? Che coerenza passa tra la giusta constatazione del Presidente della Camera Fausto Bertinotti che la politica si è separata, staccata dalla vita e togliere la sovracontribuzione alle ore di straordinario che in sostanza significa permettere alle imprese di ricorrere più facilmente agli straordinari per gli assunti a termine, invece di fare nuove assunzioni? Se ne ricava che le ragioni, produttività, profitto, del più forte, l'impresa, prevalgono sulle ragioni, sicurezza del e sul lavoro, per il più debole, il lavoro e i lavoratori. Se si può, allora, essere d'accordo che lo sviluppo non c'è senza il capitalismo, è vero anche che non c'è sviluppo, umano, senza l'anticapitalismo, senza cioè porre un freno alla logica delle ‘mani libere' su tutto, anche sulla ‘vita' delle persone. Per cui ci si deve porre nell'ottica di "cambiare i pezzi del motore senza fermare la macchina: non si può immaginare di fermare, neanche per un momento, la macchina produttiva per farne una diversa, ma dobbiamo modificarla mantenendola in vita". Non c'è da dichiarar guerra al capitalismo, ai ‘big-players' dell'economia e della finanza, ma accrescere il controllo pubblico, che non è statalismo, ma, come si tentò negli anni '60, programmazione economica, pianificazione delle risorse, selezione delle produzioni tra beni di uso collettivo (università, scuola, ospedali) e di uso privato, come i beni di consumo (auto, telefonini, computer) che sin autoalimentano.

"Essere di sinistra e socialisti significa innanzitutto essere galantuomini", diceva un inascoltato riformatore oggi tornato d'attualità. Irrefrenabile nella passione politica, alto, magro, un po' curvo, la testa incassata fra le spalle ossute, l'ingegner Riccardo Lombardi contestava "l'esistenza di una razionalità della storia, di una storia cioè eterodiretta da un elemento che le da' significato e ne assegna la finalità: sia che il suo corso sia indirizzato verso la pienezza dello stato costituzionale per gli hegeliani; verso il comunismo per i marxisti; verso il regno per i cristiani; nulla toglie alla comune radice idealistica e platonico-cristiana: tali considerazioni - notava - non sono affatto esercitazioni intellettualistiche su astrazioni, esse hanno implicazioni di grandissimo momento sulla pratica giacché se si crede che la storia sia guidata da una sua risposta ragione verso una sua finalità considerata salvifica e se si reputa tale corso e finalità siano scientificamente fondati, siano cioè non un'ipotesi ma la certezza, ci vorrà bene qualcuno corpo, uomo, partito, chiesa, abilitato e legittimato a interpretare il corso della storia". E siccome questa, evidenziava, è la radice teorica di ogni dispotismo, la ‘Sinistra Arcobaleno' ha un vantaggio: sa da cosa deve guardarsi per non cadere in quella trappola mortale per cui si condanna Stalin e lo stalinismo ma si salva o almeno si tenta di salvare quel comunismo. "Ho diffidenza verso le certezze infallibili che danno origine a veri e propri clericalismi, non importa se teologici o laici, e necessitano sempre - era la tesi di Lombardi - di un corpo, un organismo, o un uomo reclamanti l'infallibilità nell'interpretare il corso ‘vero' della storia", e rivendicava "una pratica politica democratica: democratica perché egualitaria, non elitaria, non gerarchica, e non contraddittoria con il principio autentico della scienza, cioè il processo per tentativi e per errori, una pratica non soltanto tollerante perché riconosce ai dissenzienti il diritto all'errore, ma perché rivendica per sé stessa il diritto di sbagliare".

Rosso di Sera 30.12.07
La Sinistra alla prova di un anno cruciale
Walter De Cesaris, Piero Di Siena, Pietro Folena e Rocco Giacomino


Scelte impegnative, passaggi difficili, la pace nel mondo, il lavoro e l’ambiente, la costruzione di un nuovo soggetto politico unitario

A fine anno si ricorre agli oroscopi. Ci sono perfino calendari spcializzati. Poi c’è una miriade di maghe e maghi che dagli schermi delle tv commerciali, locali, di strada, a pagamento raccontano il nostro futuro. Non c’è bisogno di tutto questo. Basta guardare l’eredità che ci consegna l’anno che se ne va, una eredità terribile segnata dall’assassinio di Benazir Bhutto, per definire le linee di marcia di una Sinistra che ha bisogno di ricostruire una sua unità, per affrontare i compiti gravosi che la situazione richiede. L’anno in arrivo viene definito in molti modi: difficile, pesante, tremendo, decisivo, cruciale. A noi sembra che la parola cruciale ben si adatti alla vera e propria sfida cui si trovano di fronte le forze della sinistra , Rifondazione, Sinistra democratica, Verdi, Comunisti Italiani, che hanno deciso di dar vita ad una federazione, insieme a movimenti, associazioni fra le quali Uniti a Sinistra, Rossoverdi - Sinistra europea, Associazione per il Rinnovamento della Sinistra. Un passaggio importante per la costruzione di un nuovo soggetto politico unitario. Ad esponenti di queste forze abbiamo chiesto di guardare al 2008.

Walter De Cesaris
Coordinatore segreteria nazionale Rifondazione Comunista-SE

Siamo chiamati ad affrontare un anno tremendo, per noi, per la sinistra italiana, quella che vogliamo unire. Un anno decisivo nel quale dare corso agli impegni che ci siamo presi, dare concretezza a quello che ci siamo detti, in particolare nell’assemblea dell’8-9 alla Fiera di Roma. Il contesto internazionale, con l’assassinio di Benazir Bhutto, non facilita certo il nostro compito. Lo rende più gravoso, ma ci deve anche dare una spinta a fare sempre più forte e più unitaria la lotta per la pace. In questo scenario, ripeto, tremendo per la drammaticità dei problemi aperti, nella situazione italiana si intrecciano grandi questioni non più rinviabili, questioni economiche e questioni sociali, salario e sicurezza sul lavoro. Un operaio, un lavoratore deve avere la certezza che va a lavorare e non a mettere a rischio la propria vita. Un giovane non può diventare anziano passando, nel migliore dei casi, da un posto di lavoro ad un altro, sempre precario. Ci sono due grandi punti interrogativi, due grandi problemi irrisolti, che esigono una risposta. Si chiamano questione sociale e complessiva riforma del paese. Si era accesa una grande speranza che non si è realizzata. La battaglia per noi non è chiusa. Questa sinistra, con il soggetto politico e unitario che vogliamo costruire, non va da nesuna parte se non si affrontano questi problemi, se non si pone al centro della nostra politica, della nostra iniziativa la questione del lavoro. Siamo in presenza di un mondo fatto di milioni di operai e di lavoratori, che non ha una sponda politica all’altezza dei problemi da affrontare e risolvere. Noi, la sinistra che si vuole unire, deve porsi l’obiettivo di rappresentare questo mondo, di esserne il referente politico. Questa è la sfida che ci attende nel prossimo anno. Auguriamoci di esserne all’altezza.

Piero Di Siena
Presidente Associazione Rinnovamento della Sinistra

Un anno che si annuncia con il terribile assassinio di Benzir Bhutto, non può che essere cruciale per la pace nel mondo. Si impone una svolta o una catastrofe sarà inevitabile. Non è più rinviabile da parte della comunità internazionale la presa di coscienza che è necessario lasciarsi alle spalle il periodo aperto dall’11 settembre e dalla guerra senza fine dichiarata da Bush.Si tratta di un obiettivo indifferibile se vogliamo che il mondo non sia travolto da una inarrestabile spirale di violenza.
L’ombra lunga di questo infausto periodo della storia mondiale ha lasciato dappertutto le sue tracce.Anche nel nostro Paese l’esperienza di governo del centrosinistra si è trovata come di fronte a tanti nodi giunti al pettine e si è infranta di fronte a uno spirito pubblico e a condizioni materiale di vita che sembrano non essere in grado di investire sul futuro. Si è come prodotta una sorta di corto circuito che ha interrotto la “ coesione sentimentale” tra politiche democratiche e Paese. Populismo e xenofobia ne sono i figli degeneri. Per tutto questo è indispensable che nel 2008 la Sinistra mantenga la promessa fatta al suo popolo l’8-9 dicembre di quest’anno, che ci lascia dando vita ad un nuovo soggetto politico unitario. Non si tratta solo di un bisogno immediato di sicurezza, di retribuzioni dignitose, moralità pubblica. Si tratta anche di ritrovare il bandolo, che a volte sembra smarrito, di un percorso di invilimento fondato sulla libertà di tutte e di tutti. E solo una sinistra nuova può dare il contributo decisivo per rintracciarlo.

Pietro Folena
Presidente associazione Uniti a Sinistra

Tre buoni propositi che il governo dovrebbe fare per il nuovo anno:
1) Affrontare con serietà i problemi del lavoro: sicurezza, precarietà, salari. Non è più consentito a nessuno alcun ritardo. Se non si dà una risposta a questo, è meglio dichiarare il fallimento del governo per incapacità;
2) Non tagliare neppure un centesimo a scuola, università e ricerca, ma anzi aumentare i fondi. Si tratta di investimenti strategici per il futuro. Ma vedo che a pochi interessa. Vogliamo essere un paese del Terzo Mondo in piena Europa?
3) Fare la legge di riforma della tv. Senza di quella non possiamo neppure degnamente sedere tra i Paesi liberi.

Rocco Giacomino
Portavoce associazione Rossoverde-SE

Spero che l’anno nuovo ridia speranza e fiducia ai tanti che sentono l’urgenza di un mondo migliore e più giusto. Dopo decenni di conquiste e di nuovi diritti, le ragioni del lavoro sembrano cancellate e negate. Superato il compromesso sociale che era stato fattore di civilizzazione per tanti popoli europei, il capitale impone le sue politiche neoliberiste ed il lavoro, precarizzato e ridotto a merce, appare muto e privo di un'adeguata rappresentanza politica. Il nostro pianeta ha superato il suo limite di carico e non regge più uno sviluppo ad altissimo tasso di inquinamento e in crisi energetica per via dell’esaurimento delle fonti fossili. Ridare dignità e valore al lavoro, progettare un modello economico e sociale in armonia con gli equilibri naturali, è questa la missione per una sinistra nuova del terzo millennio, per il socialismo del ventunesimo secolo. Spero che nel 2008 questa sinistra diventi più concreta, un progetto credibile e praticabile. Intanto buon anno a tutte e a tutti.

Liberazione 30.12.07
Valore del lavoro al centro, unità senza esitazioni
Ingrao: «La fine del mio Pci e la Sinistra di domani...»
di Corradino Mineo*


Questa intervista, gentilmente concessa dall'autore, è andata in onda venerdì 28 dicembre, su RaiNews24 nella trasmissione "Il Caffé" in onda ogni giorno, dal lunedì al venerdì, alle 7 del mattino, su satellite, digitale terrestre e su Rai3 . La versione video è vedibile su www.rainews24.rai.it

Un'intervista di "RaiNews24" con l'ex-presidente della Camera e grande leader della sinistra che racconta le ragioni della fine del Pci, gli errori di Occhetto,
il moderatismo del Pd di Veltroni, la necessità per i giovani e la Sinistra di mettere al centro il lavoro e di unirsi, in maniera rigorosa, senza mezze misure

Marco Revelli qualche giorno fa diceva che gli operai sono diventati invisibili e che ci accorgiamo di loro solo quando esplode un'acciaieria a Torino e muoiono cinque operai. Come mai? Cosa è successo? Perché il mondo del lavoro è diventato così poco importante?
Perché c'è stata una sconfitta. Una grande sconfitta di fine secolo del movimento operaio. Perché questo è stato, io credo, il crollo dell'Urss. In Urss il punto in cui la sconfitta è stata attiva e palese è stato l'Afghanistan è lì che la crisi che già c'era a lungo precipita e presto si arriva alla sconfitta. E' abbastanza singolare che in italia questo si ripercuote un po' più avanti ed è la faccenda di Occhetto...
Però, dalla Bolognina in poi e dalla decisione di cambiare il nome del partito e non tanto la ragione sociale, da lì comincia una strana transizione italiana. Ricordo una cosa che dicevano i dirigenti del partito comunista, non lei, a quel tempo. Dicevano che il partito era come una piramide rovesciata, la base era più lontana dal popolo italiano di quanto non fosse il vertice, questo tipo di descrizione del vertice vicino al sentire del popolo italiano che poi ha animato la svolta, non è tipico di un certo modo di essere del Pci?
La considerazione può essere valida e contiene elementi importanti, però io sto per il modo in cui vissi anche tutta la questione a una spiegazione più elementare: è troppo stretta la vicinanza tra il crollo di Mosca e contemporaneamente l'operazione che viene fatta in Italia che era forse già preparata, perché insomma dietro la mossa di Occhetto c'erano tutte una serie di relazioni che lui aveva avuto allora con il mondo diciamo di Scalfari, per fare un nome esemplificativo. Però l'origine principale era già palese, la fine era dichiarata e aveva camminato lentamente. Ad esempio in quel promemoria di Togliatti che scrisse quando stava a Yalta c'erano le premesse e non furono affrontate, si lasciò aggravare la frattura con la Cina e con tutto l'enorme mondo dell'Asia e non utilizzò nemmeno tutta la comunicazione che si era creata con il mondo occidentale.
Ingrao è stato dirigente del partito comunista e talvolta critico nei confronti dell'Unione Sovietica. Probabilmente anche Togliatti si rendeva conto degli errori e degli orrori staliniani... Ma voi eravate comunisti?
Sì. Le parole poi bisogna prenderle per quelle che sono, è stata una grande parola. Sappiamo anche l'autore, chi l'ha scritta, quel tale Carlo Marx...
Però poi nei decenni che il sistema socialista realizzato portasse con sé una profonda ingiustizia è cosa che voi vedevate, non avete tardato molto a rompere i legami?
Noi lo vedevamo ma non avevamo la forza. La strada, mi sembra, che aveva tentato e preso Togliatti con luci e ombre era quella di mantenere e marcare dentro questo legame con il grande iniziatore sovietico una autonomia e una differenza.
Come la scelta di Occhetto di chiudere l'esperienza del periodo comunista interagisce con la sconfitta del movimento operaio?
Secondo me è una delle conseguenze di quella sconfitta e anche della controffensiva che viene dal mondo borghese occidentale. Non bisogna dimenticarlo. C'è l'Afghanistan e la sconfitta dell'Urss con il crollo del mondo sovietico e questo senza dubbio è il fatto essenziale. Contemporaneamente in occidente comincia di fatto la Trilateral ovvero l'offensiva della borghesia occidentale. Il grande capo italiano della Fiat ne ha a che fare in modo diretto. Diciamo che si sono dati da fare. Si era arrivati al punto dello scontro delle armate contro le armate.
Lei citava Marx, Lenin, non è che si può riproporre quel mondo, quali sono i valori secondo Ingrao che possono permettere ai giovani di contare di più agli operai di non essere invisibili, insomma una ripresa di quel movimento o uno sviluppo delle forze produttive che non sia angusto perché anguste sono le regole che gli si impongono.
Il valore del lavoro. Il valore del lavoro.
Dopo la Bolognina, dopo la nascita del Pds comincia una strana transizione italiana che in questi giorni si dice non solo incompiuta ma caratterizzata da errori di fondo, come la scelta del maggioritario per far funzionare ciò che non andava della repubblica ereditata dal '48. Questi ultimi quindici anni come li vede, una transizione incompiuta, un grave errore?
Prima di tutto c'è stato il modo disastroso, senza fare alcune offesa, con cui Occhetto ha condotto la rottura, quello ha pesato molto...
Alcuni dei collaboratori di Occhetto dicono che la colpa fu di Ingrao perché minacciando una rottura del partito comunista gli impedì di fare quello che avrebbe voluto fare ossia qualcosa di simile al partito democratico che nasce oggi.
Ma la questione parte prima. L'iniziativa è proprio di Occhetto e senza fare nomi, di quel mondo che lo stimola in quella direzione. Citiamo un giornale, Repubblica, quellaè la fonte che lo spinge e lo porta alla Bolognina, Occhetto è convinto - aveva avuto molte varianti, ce l'ha ancora adesso - lui è convinto che Berlinguer purtroppo si è spento. C'è una curiosa situazione, un curioso impatto allora in Italia e io lo vissa da lontano. Intanto scompare Berlinguer e questo incide su un corpo come il partito comunista italiano, poi c'era Craxi, era dilagata la sua iniziativa con la combinazione con la destra democristiana. Noi disperatamente e ostinatamente avevamo cercato di impedire questa operazione, avevamo soprattutto cercato di scartare puntando sulla "carta Moro" che si era spinta molto avanti io mi ricordo i colloqui che non solo Botteghe oscure ma che io stesso ebbi con Moro con il suo mondo da cui veniva sempre la risposta, "è troppo presto, bisogna andarci piano, bisogna aspettare". Noi allora eravamo orientati con Berlinguer e dopo la frase sul compromesso storico, a trovare il contatto con il mondo cattolico o democristiano, quel contatto che avevamo avuto in modo molto frammentato prima ma mai in modo compatto. Mentre Craxi e Forlani si mettono subito d'accordo.
Oggi, c'è questo tentativo avviato di costruire il Pd che ha nel gruppo dirigente alcune persone che sono cresciute nella storia del Partito comunista italiano ed altri che sono cresciuti nell'ambito della Democrazia cristiana, questo in fondo si potrebbe presentare come un intesa fra comunisti o post comunisti e sinistre democristiane ma tutto è cambiato intanto o no?
Se parliamo di D'Alema e Veltroni, leviamole queste parole, non solo non sono comunisti, ma hanno rotto da tempo il legame e sdono anche nella loro dislocazione storica sono dei moderati che hanno compiuto il passo che volevano compiere, può essere che trattano anche con Berlusconi, questo non lo so dire come andrà, ma diciamo che sono una forza moderata che si schiera. Poi c'è in questa vicenda tutta un'ala e una componente come Mussi, Bandoli e tanti altri che non accetta questo chiaro passaggio sulla spunta moderata.
Ingrao consiglierebbe o no di discutere con Silvio Berlusconi per avere una riforma elettorale che permetta di riprendere il cammino del nostro percorso costituzionale che si è interrotto 14 anni fa con il maggioritario che era diverso dallo spirito della Costituzione del '48; lei sarebbe a favore di questo confronto con Berlusconi o no?
Io con Berlusconi non so che dirgli. Con lui no, non solo perché è il classico reazionario, non so immaginare un'operazione con un reazionario come lui, non mi fido nemmeno, non mi dà certezza... e mi pare che la cosa è confermata anche dal fatto che con la coalizione che si era creata con Fini con Casini la crisi sia palese ed evidente. Non so rispondere alla domanda... A me interessa di più quello che fa la sinistra.
E allora parliamone, della "cosa rossa"...
C'è un'ala che viene dal ceppo antico comunista, facciamo un esempio, Veltroni, che è un moderato, legittimamente un moderato, e quindi fa la sua iniziativa politica ha i suoi rapporti con tutto un mondo che riguarda anche la chiesa cattolica da cui spera molto, e poi c'è una parte che si dice di sinistra di centro sinistra, che ha detto di no ed è Mussi, Bandoli eccetera. E' anche una costellazione. Non possono tardare e prolungare a lungo e in modo così faticoso l'operazione che bisogna fare che è quella di unirsi a sinistra. Volere i partitini, i mezzi partiti, i partiti che hanno solo un leader e neanche un iscritto - e non voglio fare nomi, li puoi immaginare - mi sembra poca cosa rispetto a realizzare l'intesa chiara, limpida e netta con Rifondazione comunista.
I suoi nipoti, i giovani di oggi come li vede. Mancano di ideali?
Non è vero che mancano di ideali né di passioni, sono delusi e non hanno accettato e non accettano una cosa che invece la mia generazione accettò, che cambiare il mondo che hanno intorno, o fanno quello che vedo fare anche intorno a me, si prendono un mestiere cercano di guadagnare dei soldi... se vogliono incidere sul mondo e sui valori c'è poco da fare, hanno bisogno di organizzarsi e di organizzarsi a livello di massa in modo abbastanza rigoroso.
*Direttore RaiNews24

Liberazione 30.12.07
Le "sfere separate" e la politica come mediatrice
Cosa è di Cesare e cosa di Dio. Il vero "nomos" della laicità
di Fausto Bertinotti


"A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio". Dietro l'apparente semplicità di questa risposta del Cristo, c'è non solo una straordinaria complessità, ma anche una difficoltà di interpretazione delle sue parole. Se non si parlasse del Cristo, si potrebbe dire che nella sua risposta c'è una malizia.
Forse allora non si può dire così, ma certo è evidente che c'è un elemento difensivo, un elemento con il quale egli si propone di non cadere in una trappola tesagli da parte di chi, e del resto è Luca a scriverlo, intendeva consegnarlo all'autorità e al potere del governatore.
Quindi si può dire che la trappola era così manifesta da essere evidente al testimone. Non cadere nella trappola era dunque la molla primitiva della risposta che, tuttavia, la trascende. La trascende in una formulazione che credo dissimuli, mentre rivela, e costringe perciò ad un grosso lavoro interpretativo.
Il lavoro interpretativo è tanto più impegnativo perché investe certo non quel che viene detto, ma anche ciò che su quella base accadrà all'interno della storia del cristianesimo e del rapporto tra il cristianesimo e la politica. Si può infatti aggiungere che non solo ci sono possibili interpretazioni diverse delle frase, ma ci sono stati tempi storici diversi nei quali si sono prodotte interpretazioni diverse.
Tempi diversi rispetto al rapporto tra religione e politica hanno influenzato il prevalere, per quel determinato periodo, di una interpretazione su altre di questa stessa formula così ricca e complessa.
Vi chiedo scusa perché, approfittando dell'amicizia e del luogo, azzarderò, come sentirete, delle cose di cui non mi sento affatto sicuro, anche per la modestia dei miei canoni interpretativi. È davvero l'azzardo di un lettore qualunque, non di chi possiede, in termini approfonditi, l'intelaiatura teologica necessaria.
Proporrei di liberarci subito, lo dico perché faccio questo di mestiere, da un uso troppo corrente della formula, cioè della sua precipitazione hic et nunc nella politica, e in particolare in uno dei suoi aspetti, la questione delle tasse. Penso che i problemi del fisco, delle tasse, non abbiano bisogno per essere risolti nella sfera della politica di ausili esterni, né della fede né del ricorso a Dio. Non c'è bisogno alcuno, per questo versante, della religione. La questione delle tasse è certo una questione fondativa della politica moderna, dai coloni americani si può dire che la questione si è legata a quella così impegnativa della cittadinanza. Per difendere vecchi interessi, antichi e nuovi privilegi, si possono sostenere anche tesi grossolane altrimenti indicibili, ma rimane il fatto che non si dà lo Stato moderno senza una politica delle tasse. Non si dà uno Stato moderno senza lo Stato sociale, senza la costruzione dello Stato sociale e senza un'idea di redistribuzione della ricchezza che si proponga, almeno, di attenuarne le diseguaglianze più impresentabili socialmente e senza che, almeno nelle dichiarazioni, si proponga di lenire, fino a ridurre, eliminare le povertà. Con tutta evidenza, la tassazione è un elemento necessario alla costruzione dello Stato sociale, un elemento di tutela della cittadinanza ed è un elemento di redistribuzione della ricchezza in termini di giustizia e di tutela dei più deboli. Almeno configura una possibilità che così accada.
Come abbiamo imparato nella realtà, per esempio del nostro paese, la tassazione medesima ha invece incorporato un elemento di ingiustizia con cui ha addirittura, essa stessa, aggravato le disuguaglianze. Ma il suo fondamento, ciò che la giustifica socialmente, resta legato a quei due elementi. L'articolo 3 della Costituzione italiana non potrebbe essere stato scritto senza l'assunzione piena di una equa politica fiscale proprio laddove recita che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che si frappongono al libero sviluppo della personalità umana. Liberare lo sviluppo della personalità umana da questi ostacoli vuol dire avere una capacità di intervento anche economico oltre che legislativo in grado di determinare il perseguimento dell'obiettivo. Si potrebbe dire che il terreno delle tasse - così chiudiamo questa breve parte - si configura come un terreno della organizzazione della solidarietà statuale. E vorrei ricordare a questo proposito la brillante formula di padre Marie-Dominique Chenu, che diceva essere la solidarietà un punto di congiunzione tra l'idea di carità (cristiana) e l'idea di eguaglianza (marxiana). Appunto, la solidarietà come cardine della società richiede una determinata politica fiscale, essa stessa coerente con questo assunto e capace sia di intervenire sul terreno del prelievo, su chi pesare e come, sia di intervenire sulla direzione della redistribuzione della ricchezza. Ma, ripeto, su questi problemi francamente non dovremmo scomodare Gesù Cristo.
L'autonomia della politica
Ci sono invece molte altre questioni assai rilevanti che si pongono proprio in rapporto alla politica nella formula che siamo chiamati a discutere. Io penso che siano giuste le cose che ha scritto nella presentazione di questa iniziativa Nino Fasullo. E cioè che, nello sviluppo della tradizione, la fase caratterizzata dall'ispirazione messianica, non solo non comprende l'intera storia delle relazioni tra cristianesimo e politica, ma anzi ne racchiude parti assai limitate. Ciò che la tradizione nel suo sviluppo, dunque in un lungo periodo di tempo, ha fissato nella formula "date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio", è la qualità stessa della politica moderna, cioè la laicità. Per dirlo un po' più forzatamente: nella formula c'è il principio fondativo dell'autonomia della politica. Anche nell'autonomia si può avere bisogno dell'altro, come si sa. Ma è un bisogno che si manifesta in termini che non possono mai essere sostitutivi della tua autonoma capacità di darti conto di quello che fai, del suo senso generale e di fondare la progettazione del tuo agire in una sfera autonoma che, se non mi piace chiamare di valori, è certamente di grandi coordinate etiche e politico-programmatiche. La stessa costruzione delle costituzioni moderne nasce così. Il processo costituzionale è l'ambizione della politica a costruire la sua autosufficienza, che, naturalmente, non vuol dire autarchia, non vuol dire incapacità di relazione, di dialogo. Il processo costituente è l'idea che un soggetto, il popolo, conquista la sua sovranità attraverso la costituzione di una propria soggettività, come entità storica, fondata su una determinata idea di organizzazione sociale e civile rispondente, a sua volta, ad un preciso rapporto tra i principi e la prassi. In questo processo costituente la libertà e la responsabilità umane costituiscono le fondamenta della costruzione storica della repubblica, i suoi principi irrevocabili e non sostituibili.
I due poteri
In questo senso penso che l'alta formula di cui discutiamo chiede in primo luogo di non confondere le cose che sono di Cesare con le cose che sono di Dio. E so bene che si può obiettare che non è facile stabilire il confine tra le une e le altre e che neppure si può, per le ragioni prima ricordate, far ricorso ad una cattedra per stabilirlo. E tuttavia si tratta di un "tendere a", di un disporsi a fare "come se" per determinare, sulle cose di Cesare, una sovranità degli uomini. Riconosco, nella tradizione c'è l'affermazione del tempo lungo contro il tempo breve. Questo è il tempo della secolarizzazione, accettata dallo stesso percorso religioso, anche se, come vediamo bene in moltissime insorgenze attuali, si verifica la tentazione proprio in questo nostro tempo di mettere in discussione questa conquista che si esprime nel moderno. Non vedo niente di buono in questo mettere in discussione l'idea della laicità dello Stato. So che è un'idea che richiede l'accettazione della modestia del tempo lungo a cui non va contrapposta la grandezza, che può farsi esponenzialmente crescente, del tempo dell'avvento, del tempo breve che resta. Fuori da quest'ultimo occorre organizzare una convivenza tra due poteri, due poteri di natura diversa, ma sempre poteri. A meno di non voler ricorrere all'idea attribuita a Stalin secondo cui ci si sarebbe dovuti fare la domanda su quante divisioni disponesse il pontefice. Se si esce dalla rozzezza di questa interpretazione, bisogna pensare necessariamente a due poteri di influenza, e quindi alla costruzione dell'autonomia per evitare un conflitto distruttivo. E come Fasullo ha ricordato correttamente, tra questi due poteri c'è sempre la possibilità del dominio, precisamente del dominio dell'uno sull'altro (e di entrambi sulla persona e sulla società). Oppure si può dare una capacità egemonica, per usare un termine in questo contesto discutibile, che lascierebbe l'apparenza dell'autonomia ma ne corroderebbe la sostanza. E' possibile, cioè, che si determini una condizione nella quale le apparenze sono quelle della convivenza dei due poteri, ma la sostanza è quella della manomissione dell'uno a vantaggio dell'altro. Nella storia nostra tante volte è accaduto. Penso che questa condizione, quando si determina, sia una perdita per entrambe le sfere.
Le intuizioni di Giovanni XXIII
Credo che il punto più alto che abbiamo conosciuto in questo sviluppo della civiltà dei due, o dei molti, poteri e culture conviventi sia stata la stagione del Concilio Vaticano II. Non mi riferisco soltanto a ciò che ha determinato nell'ecclesia, ma alla stagione tout court. Penso che quello sia stato il punto più alto del dialogo. Non sempre, come sappiamo, la storia procede per evoluzioni, anzi quasi mai. Bisogna arrendersi all'idea che si può arretrare drammaticamente, che gli scacchi che subisce la storia, nel processo di costruzione del progresso sociale e della civiltà, possono essere così rilevanti da indurci ad abbandonare la stessa nozione di progresso come possibilità interpretativa del corso della storia. Il Concilio Vaticano II secondo me è stato il punto più alto di una storia. E lo è stato, scusate se mi addentro in terreni che davvero non mi sono propri, anche di più dal punto di vista di una rottura nella storia della Chiesa e nella costruzione teologica. Non c'è bisogno di essere particolarmente esperti per riconoscere a due intuizioni di Giovanni XXIII il significato di una straordinaria invenzione di futuro, di una geniale invenzione di futuro. Una è la formula degli "uomini di buona volontà", rottura epistemologica, di linguaggio, di cultura che per la prima volta ci fa toccare con mano l'idea che non ci sono mondi separati tra credenti e non credenti e tra le diverse fedi, ma che invece gli uomini si affratellano secondo la buona volontà. Torneremo poi su questo punto che a me sembra essenziale.
Il secondo elemento è l'ingresso nella teologia della categoria di "popolo", connesso a quelli degli "uomini di buona volontà", e la ricostruzione, anzi la considerazione di un popolo, del popolo, come fondamento anche della ricerca di Dio e della fede. Si è posta così una revisione, se posso usare questo termine preso in prestito dalla politica, nella teologia di grandissimo rilievo e si è avviata la fondazione di una teologia politica aperta a un incontro di umanità, nell'orizzonte di un nuovo umanesimo, se si può usare con una formula così mal definita.
In esso il cristiano non si separa, ma si propone come lievito, come sale della costruzione di una nuova umanità. C'è qui una rottura radicale, con ogni propensione integrista e integralista, intendendo per integrismo, nel rapporto interno al fenomeno religioso, quel che gli dà la propensione a ritenere la sua proposta indispensabile al prodursi della buona politica, e per integralismo il comando della religione che viene organizzato sulla politica medesima. C'è una rottura grande su entrambi i terreni. E c'è la promozione, da parte della Chiesa, dell'umano come orizzonte comune, per il credente e per il non credente, in una condizione in cui il fine della promozione umana, fino al suo compimento terreno, può essere il compito degli uomini di buona volontà, sia credenti che non credenti. C'è lì l'idea più alta, secondo me, elaborata dentro la Chiesa cattolica, del rapporto tra fede, religione e politica, ed essa, a sua volta, incontra uno dei punti più alti della politica. Senza che questo determini la statica appartenenza ideologica, la fissità di un modello di trasformazione, penso anch'io come Franco Rodano che la politica ha toccato il suo punto più alto con la nozione di rivoluzione, se per rivoluzione si intende l'assunzione della prospettiva di liberazione delle donne e degli uomini da ogni forma di sfruttamento e di alienazione.
Il balzo di tigre
Capisco che con ciò la politica, anch'essa, si espone alla possibilità del passaggio dal tempo lungo al tempo breve. Nel momento in cui la politica si porta su questo terreno, che è quello della sua più grande ambizione, che è appunto la rivoluzione, anch'essa entra in contatto con un orizzonte escatologico. E anch'essa può interpretarsi non più secondo i tempi e il ritmo del tempo che scorre, bensì sulla base dell'attesa del tempo che resta, del tempo che resta all'avvento rivoluzionario. Proprio su questo Walter Benjamin scrive le sue pagine più travolgenti, secondo me assolutamente straordinarie nella storia del pensiero. Nelle sue famose tesi l'elemento messianico torna costantemente come un punto di svolta. In esso si colloca ciò che chiama il "balzo di tigre", cioè quel tornare indietro sui punti, sugli snodi della storia, dove gli uomini che volevano un destino diverso hanno perso per ritrovare nella storia dei vinti i brandelli possibili di un futuro. Ricordate bene l'immagine così intensa di quell'angelo, l' Angelus Novus , che viene sospinto dai venti della storia del progresso in avanti, mentre il volto si torce a vedere le macerie di cui è disseminata la storia dell'umanità. Bene, lì c'è tutta la più grande esposizione a un tempo difficile e cruciale. Riconosco che persino in Karl Marx, che ha posto il tema nella storia moderna, questo problema è irrisolto. Nel senso che ci sono due Marx (come in tutti i grandi, di possibili letture ce ne sono sempre almeno due). Ce n'è uno, quello maturo, quello del Capitale, quello dei Gründisse, che ha ben presente il limite della politica. La sua concezione della rivoluzione non è rivolta alla fine della storia, non è la creazione di un ordine altro fuori dalla storia e di un uomo nuovo totalmente altro da quello che abbiamo fin qui conosciuto. Un'idea prometeica che invece c'è nel Marx giovane, in alcuni passi del Marx giovane, in cui sembra che la politica si configuri come una potenza illimitata, ponendosi così al confine con certe ispirazioni presenti nella teologia politica, quasi proponendo una liberazione che pone l'uomo fuori della storia. Nella versione maturata sulla critica allo sfruttamento e all'alienazione dell'uomo nel capitalismo, nella secolarizzazione della ipotesi di Marx in lotta di classe, nella versione secondo cui la politica alta è quella della rivoluzione, quella che rimuove la causa, il capitalismo che impedisce lo sviluppo della personalità umana, (una concezione che quindi ha presente il confine nella storia e il limite dell'uomo), in quella concezione che assegna alla rivoluzione il compito storico di eliminare la causa dello sfruttamento c'è la possibilità di incontrare precisamente quella teologia politica rivista, di cui parlavo riferendomi al Concilio e a Giovanni XXIII, che non casualmente proclama che il più grande peccato dell'umanità è "lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo".
La teologia di Paolo
Queste convergenze, pur nell'autonomia delle sfere, possono configurare un'idea della laicità che a me sembra quella più alta e più adeguata di quella della semplice separazione delle sfere. Un'idea che andrebbe riproposta o, almeno, reindagata. Secondo questa concezione, la politica può svolgere da sola il suo compito, anche quello più alto, quello della promozione dell'umano. A questo stesso compito possono concorrere, come lievito e sale, fedi e religioni che, al di là del compimento di questo compito storico e mondano, trovano il loro cammino proprio proponendo all'umanità la liberazione trascendente e definitiva dell'uomo dal peccato nell'incontro con Dio. Su questo limite comincia un'interrogazione su cui finisco il mio intervento, e che mi affascina molto. Il Paolo di cui qui si parlava è interno alla esegesi, alla lettura che qui dibattiamo del "date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio", oppure va oltre? La teologia politica di san Paolo, specie quella che emerge nella Lettera ai Romani, credo vada al di là di ciò che pure concorre a determinare, cioè, la migliore delle letture della formula del Cristo. È sulla base di questa ispirazione che lavora a rimuovere, intervenendo sulla causazione ideale, le basi dell'antropologia signorile, per metterle in discussione fin nelle sue fondamenta.
C'è un sovrappiù, credo, rispetto alla formula "date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio", c'è qualcosa che lì non è compreso. Quando nel tempo lungo della storia e nella dimensione del nostro vivere quotidiano, dunque anche nella povertà oltre che nella grandezza dell'ambizione di questo essere umano, si fa strada la dimensione messianica ed escatologica, e il tempo che resta prende il posto del tempo che passa, allora la teologia politica di Paolo si colloca contro Cesare, la sua teologia politica si erge contro Cesare. Jacob Taubes dice a questo proposito, secondo me, delle cose molto convincenti. Mi appello a un'autorità per dare forza alla tesi che sostengo, me ne scuso, però Taubes dice cose davvero molto convincenti. La teologia di Paolo è contro la legge. Siccome spesso viene usata contro questa interpretazione del suo pensiero, il realismo di Paolo, debbo dire che l'osservazione non mi sembra efficace. Quando ci si riferisce alla lettera con cui Paolo dice del ritorno dello schiavo alla sua condizione: non si può non vedere l'essenziale, la già citata demolizione della sua legittimazione. C'è la questione della mancata sollecitazione alla rivolta contro l'impero romano. Secondo me c'è una risposta molto convincente che spiega questo atteggiamento, che non è per nulla, come diremmo oggi con il linguaggio della politica, opportunistico. Se uno ritiene che l'apocalisse è prossima, che l'ora della verità si avvicina, se il tempo che resta è breve, perché dovrebbe impicciarsi dell'impero romano? Perché dovrebbe perdere il suo tempo, che è breve, a occuparsi di una cosa così circoscritta e mondana quando il problema che si pone drammaticamente e con urgenza spasmodica è quello della liberazione dell'uomo dall'alienazione originale, non dall'alienazione congiunturale, storica, definita, bensì da quella primigenia e fondativa? Del resto l'universalità e la storicità di Paolo c'è pure, la vedo anch'io, ma passa per il crocifisso, e non anche, ma interamente e solo per il crocifisso.
Quando Paolo di Tarso dice che il nomos non è l'imperatore ma chi è crocifisso, non alza una temperata critica alla legge, propone il rovesciamento del paradigma della legge. La legge non è più l'imperatore ma il crocifisso: è la fuoriuscita dall'imperatore e dalla legge. Non ci potrebbe essere rovesciamento più radicale. Ed è con questo rovesciamento, che diversamente da Mosè, il quale accetta la continuità del popolo ebraico, che Paolo rompe con essa e fonda l'idea della costruzione del nuovo popolo. Perché sceglie il Cristo risorto piuttosto che l'insorgere contro il malvagio impero romano. C'è lì una scelta di fondo, che non è né una scorciatoia né un approccio opportunistico. Ma allora qui, secondo me, possiamo vedere una diversità, non col messaggio evangelico di Cristo, ma tra la formula "date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio" e questa lettura paolina. C'è, a me pare, una differenza. Il "date a Cesare quel che è di Cesare", secondo me, non casualmente, semina i germi che danno luogo alla migliore tradizione del rapporto, nella storia, tra la religione e la politica ai tempi lunghi, alla laicità. Laddove la formula, la teologia politica di Paolo propone l'irruzione nella storia del momento messianico come rottura e lacerazione della storia medesima, come sradicamento da quella storia e come precipitazione apocalittica nella sua versione di attesa dell'evento e della resurrezione. E così si propone una comunità terza che è fuori dalla comunità etnica del popolo ebraico ma è fuori anche dall'ordinamento giuridico romano. Si tratta, secondo me, lo ripeto ancora per dare concreto senso del mio limite di conoscenza, di una teologia politica negativa. Negativa non vuol dire che porta con sé un segno di negatività. Teologia negativa nel senso di essere portatrice della contestazione che scardina ogni ordine terreno, che mina la funzione della legge come ordinamento politico ed ecclesiastico naturale, perché nega in principio la legge in quanto ordinamento, perché la parola messianica, la sospensione del tempo storico, prende il posto della storia. Il "date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio", che è anche la maliziosa risposta di un uomo che prima di risorgere viveva totalmente la sua umanità, viene superata dalla crocifissione che può dar luogo anche al superamento di quella formula in una teologia politica contro i Cesari, cioè contro tutti i poteri.
*Questo testo, che pubblichiamo per concessione della rivista "Segno", è tratto da un intervento del Presidente della Camera pronunciato durante le "Settimane Alfonsiane" a Palermo

domenica 30 dicembre 2007

l’Unità 30.12.07
Cattolici, ora il cardinal Bertone rimpiange il Pci...
Attacco al Pd: «Non mortifichi i nostri valori»
Tonini: siamo nati per far convivere culture diverse
di Giuseppe Vittori


L’ITALIA NON È un Paese in declino, ma la troppa «litigiosità » frena le possibilità di crescita. Inoltre c’è un’Italia positiva, che lavora e s’impegna, del tutto ignorata dai mass media. Parole del segretario di Stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, che in un’intervista a tutto campo a Famiglia Cristiana riflette anche sugli attacchi alla Chiesa, sostenendo che «c’era più rispetto» ai tempi del Pci.
Bertone, nel numero del settimanale paolino in uscita il 6 gennaio, se la prende non solo con le inchieste tipo quella del «New York Times», ma anche con chi in Italia descrive un paese con toni da disfatta. «I profeti di sventura non mi piacciono - dice -. Vi sono critiche vere che vanno fatte, ma non si può presentare l’Italia sempre negativamente. È autolesionismo di fronte all’opinione pubblica internazionale e un danno per tutte quelle risorse vere, positive, per quell’Italia che resiste, che lavora, che s’impegna per gli altri».
Il cardinale ha fatto sapere di aver chiesto, nel recente incontro con Walter Veltroni, che «i cattolici non siano mortificati» nel Partito democratico. Con Veltroni, spiega il primo ministro del Papa, «ho auspicato che i cattolici non siano mortificati nel nascente Partito democratico e che ci si ispiri alla tradizione dei grandi partiti popolari, che avevano un saldo ancoraggio nei principi morali della convivenza sociale».
Quanto al più generale tema dei cosiddetti valori non negoziabilì, Bertone afferma: «È stato un anno molto impegnativo per i cattolici italiani. L’ultimo, diciamo, incidente di percorso è stato l’inserimento di una norma antiomofobia nel decreto sulla sicurezza, argomento del tutto diverso. La posizione della Chiesa non è partigiana, ma corrisponde al diritto naturale. Il partito comunista di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, non avrebbe mai approvato le derive che si profilano oggi. Grandi intellettuali comunisti e socialisti che ho conosciuto personalmente avevano una visione laica ma morale, cioè credevano in un progetto morale ed etico autentico».
I principi «non negoziabili» sono legittimi, ma «la politica è negoziato»: è in base a questo principio che, secondo il costituzionalista Stefano Ceccanti, va intesa la partecipazione dei cattolici nel Partito democratico. Come affrontare quelli che la Chiesa cattolica definisce principi non negoziabili? «La politica è negoziato», risponde uno dei giuristi più impegnati nell’elaborazione del ddl che il Governo presentò sulle coppie di fatto (Dico). «Ovviamente il negoziato ha sempre dei principi da cui si parte. Ma non si può chiedere a un partito politico pluralista che le sue posizioni coincidano con una delle posizioni di partenza. Si può invece chiedergli che non le ignori e che riconosca ad un persona il diritto a farle valere anche nel dissenso». Tra coppie di fatto e registri delle unioni civili, norme anti-omofobia e questioni bioetiche, secondo Ceccanti la strada da seguire è quella della sintesi tra culture.
Il Partito democratico nasce per «valorizzare l’apporto di culture diverse, e tra queste, in prima fila, c’è quella dei cattolici democratici impegnati in politica», sottolinea invece il senatore Giorgio Tonini, che, a commento delle dichiarazioni del cardinale Tarcisio Bertone sul Pd e i cattolici, concorda che «non è pensabile» un Pd che mortifichi i cattolici. «Non si può che convenire con l’appello del cardinale» e «la risposta è nelle cose stesse», aggiunge. Il consigliere di Walter Veltroni per i temi economici rifiuta le accuse del segretario di Stato Vaticano, secondo il quale «il partito comunista di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, non avrebbe mai approvato le derive che si profilano oggi». «Trovo che a volte da parte della Chiesa c’è un difetto di memoria», afferma Tonini. Tonini concorda che l’inserimento della norma anti-omofobia nel dl sicurezza sia stato un «incidente di percorso», come sostiene il primo ministro del Papa. «Quella espressa da Paola Binetti è una posizione cattolica molto autorevole, anche se non l’unica», rileva il senatore. «Nel Pd si lavora alla ricerca di una posizione comune e nessuno ha il diritto di ostracismo nei confronti degli altri, né il diritto di veto. Si tratta di ragionare insieme». Se nascesse una Cosa bianca e la Binetti vi convergesse semplificherebbe la vita del neonato partito? «Io ci tengo che la Binetti sia con noi», risponde Tonini. «Noi vogliamo fare un grande partito nazionale accogliente, che dialoghi col popolo del Family day così come in chi si è riconosciuto nelle battaglie di laicità. Vogliamo mettere insieme queste le storie». E sancire una disciplina di partito? «No - risponde Tonini - ma ricercare soluzioni condivise. È una ricerca che deve impegnare tutti. Bisogna lavorare per soluzioni condivise anche al di là degli schieramenti del bipolarismo italiano».

l’Unità 30.12.07
Quando le artiste dovevano pagare dazio
di Renato Barilli


L’ARTE DELLE DONNE documenta quattro secoli di pittura femminile, in un periodo nel quale la discriminazione impediva loro l’attività artistica: da Sofonisba Anguissola fino a Frida Khalo e Tamara De Lempicka

Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che la condizione umana è unica, dovunque e comunque venga manifestata, al di là delle differenze di sesso, di razza, di religione o altro. Non che sia indifferente recare i propri contributi dallo stato di uomo o di donna, o di ebreo o cristiano o maomettano. infatti sarebbe ugualmente pericoloso pretendere di annullare distinzioni del genere, che fanno tutt’uno con la personalità dei singoli, ma queste pur decisive modalità di essere non costituiscono di per sé il fine, l’oggetto dell’intervento culturale. Valgono in proposito certe similitudini offerteci dalla chimica, si pensi al ruolo enigmatico dei cosiddetti catalizzatori, che devono essere presenti, al compiersi delle grandi sintesi, per accelerarle o ritardarle, ma poi non se ne trova traccia nella composizione finale del prodotto. In parole povere, questo significa che non è indifferente giungere all’opera d’arte attraverso una sensibilità maschile o femminile, cristiana o ebraica, europea o asiatica, ma la si dovrà considerare come un coefficiente che facilita il compiersi di un certo processo; e tuttavia l’esito finale dovrà parlare a tutti, non restare appannaggio delle singole categorie da cui pure è venuto fuori.
Però, è anche vero che i fattori sociali ed economici hanno sempre agito potentemente di freno al darsi di questa ideale par condicio. Veniamo al tema che giustifica queste mie riflessioni di partenza, l’arte delle donne, che non per nulla è proprio il titolo di un’ampia mostra allestita al Palazzo Reale di Milano. Il lungo, secolare discrimine che ha pesato negativamente sulla condizione femminile in ogni aspetto dell’attività pubblica, professionale, si è fatto sentire non certo in misura più leggera per quanto riguarda l’arte, e dunque il numero delle donne artiste emerse, pur in un arco di grande sviluppo com’è stato quello dell’arte in Occidente, appare decisamente esiguo. In tal caso può essere lecito e utile aprire un dossier separato, mettere i paletti di un cordone doganale protettivo, agli sparuti apporti di questo settore di lavori, in modo da dargli un risalto particolare. Ma così come si mettono questi paletti protettivi, bisogna essere pronti a toglierli, non appena le condizioni di inferiorità vengano a cessare. Oggi la donna appare sempre più in grado di combattere ad armi pari con l’altro sesso, e dunque sarebbe fastidioso o addirittura dannoso mantenere le paratie stagne. Opportuno quindi il sottotitolo che delimita la mostra milanese, Dal Rinascimento al Surrealismo, cioè in sostanza dal Cinquecento alla metà del Novecento.
E anche nei quattro secoli circa di storia esaminati dalla rassegna si può notare un’accelerazione, nel senso che in partenza sono ben rari i casi di creatività al femminile coronati da successo, per il tardo Cinquecento non si va molto più in là di Sofonisba Anguissola e congiunte, o di Lavinia Fontana, per la quale scatta oltretutto un fattore che a quei tempi valeva a ridurre il peso discriminante a sfavore delle donne, la presenza di un genitore o di un nucleo familiare affermato. Il caso più alto di queste utili situazioni familiari lo si ha ai primi del Seicento tra un padre, Orazio Gentileschi, e una figlia, Artemisia, dove l’uno solleva l’altra ai migliori livelli. E anche la maturità della Scuola bolognese dà i suoi frutti, con Elisabetta Sirani, degna allieva dei Carracci e di Guido. Ma i casi recuperabili restano comunque rari, pur nel vasto ambito degli splendori dell’Occidente, anche se nel Settecento emergono le punte della Vigée Lebrun in Francia, e di Rosalba Carriera, a complemento della ricca situazione veneziana, mentre la prima delle rivoluzioni estetiche della contemporaneità, la sindrome tra Neoclassicismo e Romanticismo, ha la sua ninfa Egeria in Angelica Kauffmann. Anche nell’Ottocento trova conferma il fatto che solo là dove c’è maturità e ricchezza sociale, si aprono spazi agli apporti femminili, si vedano i casi di Berthe Morisot e di Mary Cassatt che entrano a far parte dell’Impressionismo, mentre nella più arretrata Italia, per tutto quel secolo, non riescono ad imporsi talenti di prim’ordine. La situazione si vivacizza con le avanguardie storiche, che non per niente hanno in genere nei loro programmi una revisione delle condizioni generali di vita, e come sempre è il nostro Futurismo a dare il giusto segnale, si veda il caso svettante di Benedetta, l’estrosa e dotata coniuge del capofila Marinetti. E c’è poi una ricca compagine presso le avanguardie sovietiche, dalla Gonciarova alla Exter. Ma è la larga condizione mentale dell’Espressionismo, a consentire una libera emersione dei talenti delle donne, che non solo pareggiano i conti con la controparte, ma talvolta vincono nei duetti stabiliti con i compagni di vita. La russa Werefkin appare più incisiva del coniuge Jawlenski, altrettanto si dica di Antonietta Raphaël nei confronti di Mario Mafai, la messicana Frida Kalho appare più acuminata e penetrante al confronto con Diego Rivera. Infine, proprio in occasione di una mostra al Palazzo Reale mi era già capitato di dire che Tamara De Lempicka batte ogni collega sul fronte del novecentismo. Man mano che si avanza verso l’oggi, gli apporti al femminile si infittiscono, infine, varcata la soglia del mezzo secolo, il cordone doganale non ha più molte ragioni di essere posto.

l’Unità lettere 30.12.07
La difficile battaglia contro l’anoressia


Cara Unità,
gli studi presentati nel congresso annuale della Eating Disorders Research Society e trattati nell’articolo di Paola Cicerone di lunedì scorso, forniscono a mio avviso un deludente quanto sconcertante quadro. Il termine anoressia deriva dal greco an orexsis che significa mancanza di desiderio e nello specifico, mancanza di desiderio alimentare. Ma nel villaggio globale urbanizzato sono presenti molteplici casi di anoressie, mancanza di desiderio culturale, di desiderio relazionale, di desiderio sociale, di sano desiderio sessuale, tutti indicatori di una società spenta senza valori se non il denaro. La psicoterapia comportamentale non può trattare l’anoressia alimentare, cercando di ristabilire un rapporto ottimale con il cibo, avulsa dal contesto della presenza delle altre mancanze di desiderio. È l’attuale modello urbano di società e del finto ed effimero benessere che deve essere messo in discussione. Dare valore alle idee, alla vita nostra e degli altri come momento magico e irripetibile, alla persona quale essere e non come Homo economicus destinato all’avere. Se l’Africa nera non è ancora stata contaminata da tali patologie le cause sono facilmente individuabili ma non così facilmente esportabili verso di noi!
Affrontare la complessità dell’esistenza nella nostra società di persone anoressiche che ritengo siano la maggioranza di noi, i timidi, gli umili, i fragili, con gli studi degli aspetti biologici e genetici o addirittura con terapie farmacologiche mi sembra un esercizio totalmente inutile.
Antonio Tagliaferri, Piacenza

l’Unità 30.12.07
Cronaca di una paura immaginaria
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Alcuni quotidiani, nelle loro pagine online, hanno chiesto ai lettori di indicare la parola che più di altre descrive o riassume il senso dell’anno che sta per finire. Ed ecco saltar fuori il “bamboccioni” di Padoa Schioppa, la “casta” di Stella e Rizzo; e poi “mutui”, “clima”, “Rom”, “carovita” e altre ancora. Tentati dal giochino, con fini però poco ludici, crediamo che una parola che ben descrive i primi anni di questo millennio, nelle democrazie occidentali, possa essere “insicurezza”. Un termine questo che per molti aspetti include la maggior parte delle indicazioni venute dai frequentatori di quei siti; che per altri, ben più complessi, rimanda a questioni esistenziali e antropologiche; e che, sopra ogni cosa, spiega, e al contempo reclama interpretazione, di questo tempo fatto di ansie, minacce percepite, incertezze sull’oggi e sul domani.
L’insicurezza, come cifra emotiva di interpretazione della vita e della realtà, evidentemente, è sempre esistita: ha a che fare con la nostra condizione di finitezza. Oggi, su quella condizione, si addensano paure motivate e inconsistenti, si accumula un capitale personale e sociale di stress, così che la precarietà della condizione umana finisce per essere percepita più come minaccia immanente e forse imminente - proveniente dall’esterno - che come dato naturale. Facile, d’altronde, se i fattori ansiogeni, di minaccia (presunta o effettiva), naturali non sono.
Una recente ricerca, «Indagine sul sentimento e sul significato di sicurezza in Italia», realizzata dalla Demos e curata da Ilvo Diamanti, sottolinea una serie di dati interessanti: di come le nostre paure vengano sempre più frequentemente proiettate su fattori al di fuori della portata di controllo e intervento dell’individuo. E di come, parallelamente, si sia spaventati tanto da dinamiche globali quanto da minacce a noi potenzialmente molto prossime. Emerge che la distruzione dell’ambiente rappresenta l’angoscia maggiore per quasi il 60% degli italiani; e risulta come la paura per il futuro dei propri figli (46% degli intervistati) e la paura di attentati terroristici (quasi il 40%) siano poi gli altri principali fattori di insicurezza. A seguire, la paura della povertà e della malattia; e preoccupazioni, variegate per frequenza nelle diverse fasce anagrafiche e nei distinti gruppi sociali, come poter un giorno percepire una pensione.
E la paura della criminalità? Non è scomparsa, anzi. Crescono la paura di furti, rapine, borseggi; nove persone su dieci pensano che la criminalità in Italia sia aumentata (ma solo cinque su dieci che ciò sia avvenuto anche a livello locale, nel loro luogo di vita).
Insomma; cresce la percezione di paura, nel suo complesso, e si nutre di preoccupazione per i cambiamenti globali in corso (maggiormente sentiti nell’elettorato di centrosinistra) e per fattori di ordine economico e riguardanti l’incolumità fisica (questi ultimi più presenti nell’elettorato di centrodestra).
La ricerca in questione mette in luce alcuni comportamenti e orientamenti che sembrano direttamente correlati a tali percezioni. Ecco dunque che il 44% degli italiani ha già blindato porte e finestre della propria abitazione, e che un altro 10% conta di farlo presto; ecco che un italiano su tre difende la propria casa con sistemi di allarme (anche qui, un restante 14% vorrebbe installarne uno prossimamente); l’8% degli intervistati, poi, dichiara di possedere un’arma e un altro 4% vorrebbe acquistarla. E molti, più in generale, chiedono un maggior controllo delle città e del territorio: l’89% degli intervistati sarebbe d’accordo ad «aumentare la presenza della polizia nelle strade e nei quartieri»; l’86% è favorevole «all’aumento di sorveglianza degli spazi pubblici attraverso telecamere», che emergono come lo strumento di controllo più apprezzato. E sale la paura dello straniero: il 47% degli italiani (è il dato più alto registrato in tal senso negli ultimi 10 anni) vede negli immigrati una minaccia; il 55% guarda con favore alle ordinanze dei sindaci contro lavavetri e venditori abusivi; un italiano su quattro ritiene che i campi rom vadano «sgomberati e basta» (ovvero, evacuati senza bisogno di misure ulteriori di collocamento delle persone sfollate).
Siamo un Paese spaventato, dunque. Impegnativo, e tuttavia necessario, comprendere il perché. Certo esistono fattori concreti e tangibili, dalla precarietà nel mondo del lavoro al peggioramento della qualità ambientale, dal caro prezzi alla disoccupazione. Ma ci sono anche altre spiegazioni, che hanno a che fare con un intreccio perverso di informazione tutta giocata sui registri del noir (per così dire) e sull’azione, irruenta e costante, di una politica che fa della paura collettiva una risorsa elettorale, proprio come il mercato dei beni di consumo ne fa una risorsa economica.
Comprensibile, ad esempio, che il pensiero del terrorismo spaventi. Più difficile credere che questa paura sia giustificata in un paese in cui l’eversione nazionale è poca cosa; e in cui il terrorismo internazionale non ha mai colpito. Perché gli italiani non temono le morti sul luogo di lavoro o le morti da incidenti stradali, assai più prossime, possibili e ingenti, di qualsivoglia attentato? Cosa sta cambiando in un paese che si dice disposto persino a essere spiato, ripreso costantemente da telecamere in ogni dove, pur di sentirsi al sicuro? E perché si continua a vedere nella criminalità una marea montante e una minaccia sempre più diffusa? Basterebbe analizzare i dati presentati dall’ultimo rapporto del Viminale sulla sicurezza per comprendere che in Italia certi allarmi sono ingiustificati (ancorché, certamente, il numero dei reati registrati annualmente meriti di essere abbattuto). Basterebbe pensare a come si vadano divaricando i dati relativi ai reati commessi e la percezione collettiva dei fattori di rischio che vengono dal crimine per imporre una discussione non superficiale sui dati di questa e di altre ricerche. Nel 2006, ad esempio, gli omicidi commessi nel paese sono stati 621, mentre nel 1991 erano 1901; il tasso di omicidi nel nostro Paese, oggi, è sensibilmente più basso di quello registrato in Paesi come la Finlandia o l’Olanda; parimenti, in Italia si rubano meno veicoli a motore di quanti se ne rubino in Francia, Danimarca Svezia e Inghilterra; si registrano meno furti in appartamento di quanti se ne hanno in Svizzera, Danimarca, Francia, Belgio. L’elenco potrebbe continuare, lungo e forse sorprendente. Pure, il dato centrale è che dai primi anni 90 ad oggi va aumentando la percentuale di italiani che si sentono quotidianamente minacciati da una pluralità di fattori di allarme. Alcuni reali, altri remoti, taluni quasi immaginari. Un buona politica e una buona cultura sono quelle che riescono a ridurre al minimo almeno quest’ultima categoria.

Repubblica 30.12.07
Adesso qualcuno dall’alto aiuti Dini
di Eugenio Scalfari


Il 2007 si chiude. E´ stato l´anno del distacco. Se vogliamo sintetizzarne l´elemento dominante rispetto a tutti gli altri, questo si impone per la sua coralità, al Sud come al Nord, tra gli uomini e tra le donne, tra i giovani e i vecchi: distacco, indifferenza, riflusso.
Insicurezza. Precarietà psicologica prima ancora che professionale.
Sensazione di impoverimento, in basso come in alto. Perdita di senso.
Quando una società si ripiega su se stessa e si rifugia nel suo privato, scompare uno dei suoi requisiti essenziali che è appunto quello della socievolezza.
Subentra solitudine. La scelta di fare da sé alla lunga non paga se non c´è più lo sfondo pubblico entro il quale collocare il proprio talento e la propria intraprendenza.
L´anno che sta per chiudersi è stato terribile da questo punto di vista, ma ci consegna almeno quest´insegnamento: la dimensione privata distaccata da quella pubblica non produce ricchezza morale né materiale.
Siamo diventati amorali e asociali. Fiori finti invece che fiori freschi, senza profumo, senza polline, senza miele.
Penso e spero che nel nuovo anno la gente metta a frutto questa lezione; butti alle ortiche l´indifferenza, riacquisti l´impegno civile. Le nazioni prosperano quando hanno coscienza di sé, altrimenti declinano. Da questo stato larvale dobbiamo uscire. Sta a noi farlo, a ciascuno di noi, per ritrovare socievolezza, creatività, allegria.
Fiducia in se stessi e negli altri. Amore di sé e amore del prossimo.
Credetemi, non c´è altro modo per uscire dall´apatia della volontà, dalla bulimia delle richieste corporative, insomma dal pantano.

Ho ascoltato la conferenza di fine d´anno del presidente del Consiglio. Aveva la voce rauca per un´infreddatura di stagione. Che ha dato maggior risalto alla fermezza e al senso delle sue parole. Ha rivendicato i risultati raggiunti nell´anno e mezzo trascorso da quando il suo governo si è insediato.
Questi risultati ci sono, sul fronte dell´economia lo dimostrano le cifre che non sono opinioni ma fatti.
L´opposizione ripete ogni giorno che questo è stato il peggior governo dell´Italia repubblicana ma le cifre non dicono questo, dicono anzi il contrario. Il deficit che fu ereditato nel maggio 2006 era al 4,3 quando Prodi prese il posto di Berlusconi e Padoa-Schioppa quello di Tremonti; ci eravamo impegnati a portarlo quest´anno al 2,4 e siamo attualmente al 2, viaggiamo cioè con un anno di anticipo rispetto agli impegni presi con l´Europa.
Probabilmente il deficit nei prossimi mesi scenderà ancora. La spesa corrente è rallentata. La lotta all´evasione ha fruttato finora 20 miliardi di maggiori entrate.
Questi miglioramenti hanno già consentito una Finanziaria che ha avviato un processo di ridistribuzione del reddito e di rilancio della crescita. Nei prossimi mesi bisognerà fare di più. L´8 gennaio ci sarà il primo incontro con le parti sociali. Riprende la concertazione a tre, con i sindacati e la Confindustria. Per stipulare un patto, accrescere la produttività e il reddito, sostenere il potere d´acquisto dei ceti in sofferenza, chiudere i contratti di lavoro.
Eppure questi risultati non si sono tradotti in un ritorno di fiducia.
Il governo viaggia ancora con un consenso bassissimo, sotto al 30 per cento.
E´ esposto al rischio di crisi ogni giorno. Ma non cade malgrado i cupi vaticini dell´opposizione. Il prossimo appuntamento di questa «via crucis» lo avremo il 21 gennaio quando si voterà la mozione di sfiducia contro il ministro dell´Economia, colpito da due sentenze del Tar del Lazio, rispettivamente sulla revoca di un consigliere di amministrazione della Rai e del Comandante generale della Guardia di Finanza.
Ho già scritto domenica scorsa su queste inquietanti sentenze della giustizia amministrativa, ma voglio tornarci ancora perché esse sono rappresentative d´una palese distorsione d´un principio essenziale dello Stato di diritto e della divisione dei poteri.
La giustizia amministrativa è nata centotrenta anni fa per tutelare gli interessi dei cittadini nei confronti di eventuali decisioni arbitrarie del governo. Ma negli anni più recenti la debolezza politica dei governi ha incoraggiato i tribunali amministrativi a proclamare la propria competenza anche sugli atti politici.
Quest´interpretazione estensiva da parte dei tribunali amministrativi non ha alcun riscontro né nella Costituzione né nell´ordinamento giudiziario e crea una situazione abnorme: si sottopone a giudizio un atto politico, si invade la sfera politica, si vieta ad un ministro politicamente responsabile dell´operato di un corpo militare posto alle sue dipendenze di esonerarne il Comandante pro tempore che ha perso la sua fiducia.
La cosa ancor più paradossale è che l´opposizione parlamentare, anziché unirsi alla maggioranza per riportare le competenze dei tribunali amministrativo nel loro alveo naturale, ne tragga invece spunto per sfiduciare quel ministro accettando e strumentalizzando un´invasione di campo molto grave.
So che il governo non ha ancora deciso se ricorrere in appello contro il Tar del Lazio al Consiglio di Stato. Ma non è il Consiglio di Stato, a mio avviso, a dover essere interpellato con un ricorso poiché qui non si tratta di rivedere ed eventualmente correggere una sentenza, bensì di mettere sotto esame uno sconfinamento della massima gravità da parte della giustizia amministrativa. E´ dunque materia per un verso della Corte di Cassazione e per un altro della Corte Costituzionale per dirimere un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato.
* * *
Mi sono soffermato su questa inquietante vicenda perché essa è simbolicamente rappresentativa della devastazione avvenuta nella vita pubblica e nei rapporti tra i poteri costituzionali. Ma un altro esempio altrettanto simbolico lo si può ravvisare nel caso Alitalia.
Sappiamo quali siano stati i torti e gli errori dei governi succedutisi negli ultimi dieci anni per quanto riguarda la nostra ex compagnia di bandiera. Dieci anni fa l´Alitalia poteva ancora essere rilanciata, poteva unirsi in condizioni di forza con altre compagnie europee, poteva esser venduta a privati in grado di gestirla meglio. Non fu fatto allora né negli anni e dai governi successivi. I sindacati dell´azienda dal canto loro fecero la loro brava parte per appesantire il bilancio. Le società di gestione dei servizi aeroportuali fecero il resto sulla pelle degli utenti.
Adesso siamo arrivati al punto finale, il consiglio di amministrazione della società ha scelto all´unanimità l´Air France tra i contendenti rimasti in gara. Il governo dopo breve riflessione ha confermato quella scelta. Ci saranno ancora due mesi per metterne a punto le condizioni, ma la decisione è avvenuta e sembra la migliore. Air France è la più grande compagnia internazionale di trasporto aereo; l´Alitalia può trovare in quel quadro un suo ruolo, una sua vitalità e un suo rilancio.
A questo punto insorge la questione Malpensa che diventa una bandiera politica nelle mani di Bossi e di Formigoni.
Il capo della Lega, con la brutalità lessicale che gli è propria, minaccia insorgenza armata, blocchi stradali, occupazione di aeroporti in nome della Padania mortificata e offesa. Il governatore della Lombardia appoggia quelle minacce e mette il suo veto alla decisione del governo in nome della difesa di Malpensa.
Ma nessuno dei «protestanti» ricorda che il flop di Malpensa ha un nome ben preciso; si chiama Linate.
L´aeroporto di Malpensa ha perso ruolo e possibilità di successo in due fasi: la decisione, tutta lombarda, di conservare a Linate la tratta più redditizia del traffico aereo italiano, cioè Milano-Roma e, seconda fase, l´apertura e il potenziamento di decine di nuovi aeroporti proprio nella Padania a cominciare da Bergamo, da Padova, da Verona. Da questi aeroporti i passeggeri di voli intercontinentali partono a migliaia saltando Malpensa e dirigendosi direttamente a Parigi, a Francoforte, a Zurigo, dove trovano coincidenze in vari orari della giornata verso tutti gli scali del pianeta.
Chi ha vanificato gli investimenti fatti a Malpensa non è stata Roma, è stata Milano. Né Bossi né Formigoni misero un dito per contrastare quelle circostanze, a creare le quali hanno anzi collaborato per quanto stava in loro.
* * *
Dicevo che il governo ha dimostrato di voler rilanciare il proprio programma puntando sulla crescita senza abbandonare il rigore e discutendo questi suoi propositi con le parti sociali nei prossimi giorni. Ma si trova esposto continuamente al rischio d´esser battuto al Senato.
Lamberto Dini e una cinquina di senatori hanno ora lanciato l´ultimatum definitivo: elaboreranno un loro programma alternativo e lo presenteranno a Prodi; se lo accetterà integralmente, bene, altrimenti lo sfiduceranno unendo i loro voti a quelli dell´opposizione.
Qui si pone il tema (filosofico e psicologico), di interpretare il personaggio di Lamberto Dini.
E´ stato da giovane un brillante direttore del Fondo monetario internazionale. Stanco di vivere a Washington tornò in Italia dove entrò nella Banca centrale diventandone il direttore generale. Quando Ciampi lasciò l´Istituto, chiamato da Scalfaro alla presidenza del governo, Dini avrebbe voluto prenderne il posto, al quale tuttavia Ciampi non lo ritenne idoneo. Le ragioni non si sono mai sapute, ma debbono essere state piuttosto serie per indurre un personaggio come Ciampi a pronunciare il suo veto.
Si aprì allora per Dini la carriera politica che non fu certo avara nei suoi confronti: ministro del Tesoro con Berlusconi, fu autore della migliore riforma pensionistica tuttora in atto; poi presidente del Consiglio per due anni guidando un governo appoggiato dal centrosinistra e dalla Lega, che guidò con efficacia e discrezione. Eletto al Senato nelle liste dell´Ulivo è attualmente presidente della commissione Esteri. Ha 77 anni. Non li dimostra, ma li ha. Che cosa vuole Lamberto Dini? Pare che aspiri alla presidenza del Senato. Oppure al Tesoro. Oppure, a tempo debito cioè tra cinque anni, alla presidenza della Repubblica.
Ripercorrere il «cursus honorum» di Ciampi ad un´età ancora più tarda di lui: questo sembra il desiderio di Dini.
Desiderio arduo e tuttavia legittimo. Solo che la strada imboccata non è moralmente e politicamente la migliore.
Fabbricare a tavolino un programma quando si è stati eletti appena un anno e mezzo fa su un altro programma suffragato dal voto di molti milioni di elettori, è un comportamento bizzarro. Contrapporre il suo documento a quello che l´ha portato in Parlamento e che ha ottenuto risultati non disprezzabili, approvati anche dal Fondo monetario e dalle autorità europee, non dimostra doti di coerenza etica e logica, rivela anzi una subordinazione ai desideri berlusconiani. Subordinazione preoccupante dopo le notizie trapelate sulla compravendita di senatori da parte del Cavaliere.
Dini non fa parte (così si spera) della campagna acquisti di Berlusconi, ma dovrebbe preoccuparsi delle apparenze.
Non dovrebbe favorirne la circolazione facendosi lui promotore d´una crisi di governo qualora non sia approvato un testo da lui redatto e approvato da due senatori suoi amici. E´ ragionevole questo modo di procedere? Riapre la strada a cariche istituzionali?
Fossi in lui, manterrei più «aplomb», se mai cercherei di ottenere le preghiere della sua collega Binetti e l´intervento della Provvidenza per ascendere al Senato in una prossima legislatura. Abbia pazienza, senatore Dini.
Lei ha 77 anni ma, come ho già detto, non li dimostra.
Vedrà che dall´Alto qualcuno si muoverà in suo favore se lei troverà gli intermediari giusti. Come lei ben sa, è sempre questione di maniglie...

Repubblica 30.12.07
Il pd, la laicità e la vergogna
di Piergiorgio Odifreddi


Caro direttore, nel suo editoriale "Non nominate il nome di Dio invano" del 27 dicembre 2007, Eugenio Scalfari ha ampiamente commentato "pensieri e parole" della senatrice Paola Binetti, citando in particolare il dialogo che ella aveva tenuto con me su "La Stampa" del 23 dicembre.
Il giornale indicava nei titoli lei e me come, rispettivamente, "l´anima teodem e quella atea del Partito Democratico", e l´espressione "anima atea" andrebbe forse sottolineata. Anzitutto, perché costituisce un ossimoro positivo e virtuoso da contrapporre, assieme ad "anima laica", a quelli negativi e viziosi di "ateo devoto" e "ateo in ginocchio". E poi, perché il suo singolare suggerisce e richiama, a differenza delle espressioni appena citate, la situazione di isolamento o di minoranza in cui si trovano nella nostra società odierna coloro ai quali essa viene applicata. Nella fattispecie, le anime laiche e atee non sembrano effettivamente essere molte nel Partito Democratico in generale, e nella Commissione dei Valori in particolare. Sembra infatti che la laicità e l´ateismo, che costituiscono una sorta di nudità teologica naturale, siano diventate quasi una vergogna da nascondere sotto i variopinti paramenti delle fedi e dei credi.
Non sono stati molti i commissari che hanno reagito alla prima bozza del Manifesto dei Valori del Partito Democratico, stilata dal filosofo cattolico Mauro Ceruti, che a proposito della laicità partiva dicendo che essa «è un valore essenziale del Pd», per continuare: «Noi concepiamo la laicità non come un´ideologia antireligiosa e neppure come il luogo di una presunta e illusoria neutralità, ma come rispetto e valorizzazione del pluralismo degli orientamenti culturali e dei convincimenti morali, come riconoscimento della piena cittadinanza – dunque della rilevanza nella sfera pubblica, non solo privata – delle religioni». Ora, io non mi sento di sottoscrivere nessuna di queste affermazioni. E poiché la Binetti mi aveva già accusato di avere dei pregiudizi nei confronti dei cattolici, ho ribadito alla Commissione di non credere di averne, così come non credo di averne nei confronti degli astrologi o degli spiritisti: semplicemente, mi limito a constatare che essi hanno visioni del mondo antitetiche a quella scientifica, e più in generale alla razionalità, e ne deduco che sarebbe bene che esse rimanessero confinate nel campo individuale. E, così come non propongo l´abolizione degli oroscopi, non propongo neppure di impedire le prediche: mi sembra sensato, però, pretendere che non sia sulla base di queste cose che vengano prese le decisioni politiche dei nostri governanti e del nascente partito.
Apriti cielo! Il deputato Francesco Saverio Garofani, membro del coordinamento nazionale del Pd, ha subito inveito sul sito del partito contro le mie "provocazioni" e la mia "idea caricaturale della laicità". E Ceruti gli ha subito fatto eco, affermando: «Odifreddi non si può nemmeno definire un laico. Diciamo che non è proprio interessato all´incontro con una cultura spirituale. Laicità per lui è sinonimo di diniego assoluto della religione. Ma il suo è un retaggio del passato».
Sarebbe troppo facile ribattere che se un diniego è retaggio del passato, a maggior ragione dovrebbe esserlo ciò che viene negato, che per forza di cose deve precedere la propria negazione. Mi sembra più costruttivo cercare invece di espellere una certa confusione di idee a proposito della laicità e dintorni, che sembra albergare nelle menti dei cattolici citati. Compresa la Binetti, che nel nostro dialogo ha ribadito più volte non solo di considerare se stessa laica, ma anche che la laicità è uno dei valori fondamentali predicati dal fondatore dell´Opus Dei: quel Josemarìa Escrivà de Balaguer, alla cui beatificazione in Piazza San Pietro hanno assistito il 31 maggio 2001 sia Veltroni sia D´Alema. A questo proposito la Binetti ha dichiarato, nel nostro colloquio su "La Stampa": "La circostanza che Veltroni e D´Alema apprezzino Balaguer è il segno che viene compresa la santificazione del lavoro promossa dall´Opus Dei". A me, invece, questo atto pubblico da parte del sindaco di Roma e dell´allora presidente dei Ds sembrano un perfetto esempio di come un politico laico non dovrebbe comportarsi, qualunque siano le sue credenze, secondo la mia definizione di laicità: agire come se la religione e la Chiesa non ci fossero, senza naturalmente far nulla affinché non ci siano. Questa posizione è un compromesso tra i due estremi del clericalismo e dell´anticlericalismo. Il primo va inteso come la pretesa di agire, e far agire, in ossequio alla volontà della religione e della Chiesa, e io non saprei trovarne una formulazione migliore dell´Articolo 7 della Carta delle Finalità del Campus Biomedico di Roma: "L´Università intende operare in piena fedeltà al Magistero della Chiesa Cattolica, che è garante del valido fondamento del sapere umano, poiché l´autentico progresso scientifico non può mai entrare in opposizione con la Fede, giacché la ragione (che ha la capacità di riconoscere la verità) e la fede hanno origine nello stesso Dio, fonte di ogni verità". A scanso di equivoci, questa non è un´invenzione di Borges: il Campus esiste veramente, in esso lavora la Binetti.
Non c´è bisogno di battersi in Italia contro l´anticlericalismo, che va inteso come la pretesa di agire per far sì che la religione e la Chiesa non ci siano: questi sì che sarebbero i veri retaggi del passato, dalla Rivoluzione Francese alla Guerra Civile di Spagna, ma per fortuna oggi nessuno li propone seriamente. Proprio per questo, però, la posizione intermedia del laicismo rimane scoperta sul fianco sinistro e viene percepita come un estremismo, quando invece essa è già il compromesso razionale tra le due opposte irrazionalità di coloro che vorrebbero imporre agli altri le loro credenze da un lato, e le loro avversioni a queste dall´altro. Naturalmente, non è affatto anticlericalismo, ma laicismo allo stato puro, rifarsi al motto risorgimentale della "libera Chiesa in libero Stato". Che la religione e il Vaticano abbiano la massima libertà di parola e di azione, senza che lo Stato interferisca né con l´una, né con l´altra. Ma che le stesse libertà le abbia anche lo Stato, senza dover essere costretto a subire la pressione ufficiale e ufficiosa delle gerarchie ecclesiastiche, a legiferare in ossequio alle loro credenze, e a pagare di tasca propria per la propaganda e gli affari altrui: in particolare, tra le tante revisioni costituzionali mettiamo mano anche all´Articolo 7, per ridare all´Italia la libertà che Mussolini e Togliatti le hanno tolta. Questo dovrebbe fare un partito democratico, e questo mi auguro che faccia il Pd nel nuovo anno.

Repubblica 30.12.07
La rivolta dei fuoricasta
India ancestrale


La recente marcia su New Delhi dei dalit, gli intoccabili, e degli adivasi, gli aborigeni, che formano un quarto della popolazione indiana e che rivendicano terre e diritti, è la manifestazione-simbolo della complessa guerra di tutti contro tutti che da anni dilania il paese dei bramini
Nonostante le numerose leggi garantiste e il sistema delle quote per pubblico impiego e università centinaia di milioni di cittadini sono ancora discriminati
Nel 2005 il ministero dell´Interno ha contato ventiseimila casi di violenze commesse contro le caste inferiori: case distrutte, omicidi, stupri

È la rivolta degli intoccabili. Erano più di ventimila nelle strade di New Delhi, qualche settimana fa, i manifestanti arrivati alla meta dopo quasi un mese di marcia. Migliaia e migliaia di dalit, gli intoccabili fuoricasta, e adivasi, gli aborigeni delle tribù cacciati in gran numero dalle terre e dalle foreste ancestrali per far posto a industrie, dighe, ferrovie e autostrade della moderna, «incredible India». Erano partiti da Gwalior, nel Madhya Pradesh, e lungo tutti i trecento chilometri del percorso avevano gridato sempre lo stesso slogan: «Hal karo, bhai, hal karo, zameen ki samasya hal karo!», risolvete, per favore risolvete il problema delle terre.
In un paese ormai abituato a rivolte, proteste e manifestazioni quotidiane di milioni di esclusi dal boom tecnologico, ben pochi giornali e tv hanno riferito di questa satyagraha su modello gandhiano dei poveri tra i poveri, giunti da tredici diversi stati della grande federazione. Nemmeno quando il 19 ottobre tre partecipanti, membri della tribù sahariya, sono stati investiti e uccisi da un camionista ubriaco. Forse qualche titolo in più l´avrebbero guadagnato assaltando per protesta autobus, posti di polizia o uffici pubblici, come è successo altrove. Ma, fedeli ai principi non violenti, hanno sepolto i loro morti, gli hanno reso un omaggio commosso e si sono rimessi in cammino verso la capitale.
La marcia Gwalior-Delhi è solo l´ultima delle clamorose iniziative prese "dal basso" per tentare di risollevare le sorti di centinaia di milioni di cittadini inesorabilmente legati a uno status sociale che ha matrici religiose antiche e, evidentemente, ancora indelebili nonostante la miriade di leggi garantiste scaturite dalla nobile Costituzione scritta sessant´anni fa dallo storico leader dei dalit Bhimrao Ambedkar.
Dalit e adivasi - rispettivamente il sedici e l´otto per cento della popolazione - hanno teoricamente goduto in questo ultimo mezzo secolo di privilegi impensabili nel passato, a partire dalle quote riservate di impieghi pubblici e posti nelle università. Ma una grande massa di almeno mezzo miliardo di esseri umani continua a essere in gran parte vittima dei pregiudizi inculcati a ogni livello nel dominante sistema induista di caste dei varna (letteralmente, i colori), formati dalle categorie "superiori" dei sacerdoti-intellettuali bramini, dei guerrieri kshatriya, dei commercianti vaisya, e da quella inferiore ma numericamente dominante dei servitori, o sudra, pari al cinquanta per cento del miliardo e cento milioni di indiani. Anche questi ultimi, raccolti sotto l´altrettanto discriminante denominazione di Obc (sigla inglese per "altre caste arretrate") subiscono a loro volta il peso di un´atavica sottomissione, di un peccato originale che nell´induismo significa "impurità", "intoccabilità". Come i dalit e gli aborigeni, ben pochi sudra-Obc hanno posti rispettabili o possiedono terre proprie, oltre a essere spesso vittime di abusi razziali. Ma il diritto alle quote riservate acquisito grazie al loro peso elettorale - più che a criteri di giustizia sociale - ha creato, all´interno del ginepraio di oltre tremila caste e sottocaste delle Obc, sacche di privilegio che sono andate a pesare, ancora una volta, sugli ultimi gradini del sistema.
È in questa fase storica che dal cilindro magico della «più grande democrazia dell´Asia» è emersa nel maggio di quest´anno Mayawati Kumari, una vera e propria regina dei dalit destinata - almeno nei suoi intenti - a cambiare per sempre il volto politico e sociale del continente. Le immagini della sua terza cerimonia d´investitura a primo ministro dell´Uttar Pradesh, il più popoloso Stato dell´India, sono state celebrate come le più significative icone della fine di un´era. Frotte di neo-ministri bramini, che in passato non avrebbero mai mangiato al suo stesso tavolo, si sono prostrati a toccarle la veste in segno di deferenza, dopo che con abile mossa strategica se li è fatti alleati per battere il precedente governo dominato dal potente clan Obc degli Yadav. In America, dove si guarda con attenzione inedita all´India, il settimanale Newsweek ha inserito Mayawati tra le otto donne più influenti del mondo e la sua ibrida alleanza intercasta è seguita con ansia crescente dallo stesso governo in carica a Delhi, consapevole che la politica liberista del Congresso ha lasciato indietro anche un numero consistente di bramini, incapaci di preservare i privilegi e stare al passo coi tempi.
E alla vigilia di Natale il partito di Sonia Gandhi ha dovuto assistere in Gujarat alla vittoria di un altro nemico altrettanto minaccioso, Narendra Modi, figlio di un venditore di tè e membro delle Obc nonché icona del Bjp, il partito castista e nazionalista per eccellenza, che tra il 1998 e il 2004 ha governato il Paese. Nonostante l´accusa di aver appoggiato le rivolte hindu che cinque anni fa costarono la vita a tremila musulmani, anche lui per la terza volta ha conquistato alle urne uno stato da trenta milioni di anime, raccogliendo i voti di elettori sia di casta alta che sudra come lui, compresi dalit e tribali. Il suo successo, attribuito al forte carisma e ai progressi economici nel suo stato fortemente industrializzato, di certo conferma che la dinamica dei varna e il loro peso in politica resta ancora un mistero insondabile.
Ma se è vero che il sistema delle garanzie sociali e la modernizzazione del Paese hanno spinto in alto milioni di ex paria istruiti verso le categorie del ceto medio, le motivazioni della marcia dei ventimila da Gwalior a Delhi e i settemilacinquecento casi di abusi contro i dalit nel solo Uttar Pradesh dall´elezione di Mayawati in poi, dimostrano che per masse di fuoricasta le discriminazioni sociali sono forse peggiori che nel passato. L´ultimo dato reso noto dall´Ufficio nazionale d´investigazione del ministero degli Interni riporta nel 2005 oltre ventiseimila casi di atrocità contro le caste inferiori. È stato calcolato che ogni ora - specialmente nelle aree rurali - due dalit vengono uccisi, due case di poveracci vengono distrutte e due donne violentate. Nello stesso lasso di tempo altrettanti intoccabili subiscono aggressioni per i motivi più disparati, una violazione ai rigidi divieti imposti dalla tradizione di entrare nei villaggi o nei templi delle caste alte, di attingere acqua dalla stessa fonte, di indossare le scarpe o il cappello al passaggio di un bramino, di intrattenersi fuori dai loro ghetti o - peggio di tutti - reclamare terre o innamorarsi di una persona d´altra casta. Che non si tratti di fenomeni relegati alle sole popolazioni arretrate delle campagne lo dimostra un recentissimo caso avvenuto nella tecnologica Hyderabad, capitale dell´Andra Pradesh, dove la figlia di un celebre attore di basso ceto, Chiranjeevi, ha sposato il figlio di un bramino tra scandali e minacce di morte.
Chi viaggia per l´India impiega anni a capire lo stratificato e sempre più sottile processo di esclusione che da almeno tremila anni affligge la società, complice l´ortodossa interpretazione delle sacre scritture dei Veda fornita dai loro depositari, principalmente gli intellettuali bramini che dominano il mondo dei media e della politica pur professando spesso una mentalità laica. Un fenomeno al quale non sono immuni gli stessi comunisti che governano su modelli capitalisti stati come il Bengala e il Kerala, al punto da trasformare in un caso nazionale l´impresa di Gaurishankar Rajak, un lavapanni del villaggio di Dumba, nel Jharkhand, che tutte le settimane da ventuno anni scrive a mano e distribuisce a sue spese in ciclostile un battagliero giornaletto dedicato ai problemi dei dalit come lui.
I casi eclatanti di cronaca non mancano mai, l´ultimo qualche tempo fa proprio in un villaggio dell´Uttar Pradesh governato da Mayawati, dove un´anziana dalit di nome Jeewam Shri è stata data alle fiamme dal padre di una ragazza di ceto elevato, che non voleva fidanzarla al figlio di Jeewam. Prima di morire la donna ha fatto il nome del suo aggressore ma, invece di ribellarsi, il promesso sposo e gli altri parenti hanno preferito abbandonare il villaggio. Spesso infatti la giustizia indiana procede con tale inefficacia o lentezza che le vittime diventano bersaglio di ulteriori violenze, com´è accaduto lo scorso anno a un attivista dalit del Punjab, Bant Singh, al quale sono stati mutilati tutti e quattro gli arti per aver cercato giustizia contro i violentatori di sua figlia, tutti membri di una casta superiore.
Anche casi di massacri contro intere comunità di intoccabili, pure riportati con grande risalto dalla stampa, sono finiti senza colpevoli. Come nello stato Far west del Bihar, dove opera la milizia dei latifondisti hindu Ranvir Sena. Con la giustificazione di voler fare piazza pulita dei maoisti naxaliti che si battono con le armi contro i soprusi dei proprietari terrieri bhumihar, il Ranvir Sena ha portato a termine dalla sua nascita nel ‘94 una clamorosa serie di stragi rimaste tutte impunite: le più eclatanti nel ‘97 a Laxmanpur Bathe (sessanta dalit uccisi tra cui ventinove donne e sedici bambini), nel gennaio del ‘99 a Shanker Bigha (ventitré vittime), e nel febbraio dello stesso anno a Narayanpur (dodici morti).
Ma il Bihar non è un´eccezione. A distanza di quindici anni, il governo del Rajastan non ha ancora pubblicato gli atti del processo senza colpevoli contro gli autori della strage di diciassette dalit bruciati vivi nel villaggio di Kumber. E per arrivare a tempi più recenti, nel Maharastra, a poche ore dalla capitale del commercio e dello spettacolo Mumbay, procede tra sospette lentezze il processo contro gli autori del linciaggio di massa avvenuto un anno fa nel villaggio di Khairlanji. La quarantenne dalit Surekha e sua figlia di diciassette anni sono state picchiate, stuprate e mutilate pubblicamente da centocinquanta powar e kalar (due caste classificate come Obc) che hanno anche bastonato a morte altri due figli. La colpa di Surekha era stata di testimoniare contro dodici membri delle caste superiori - tali si considerano anche molte Obc - che avevano ucciso un dalit per una contesa di terre. Per la prima volta l´episodio sembrò scatenare un movimento nazionale dei fuoricasta, che scesero in piazza in diversi stati e continuarono per giorni minacciando di marciare su Delhi. Ma, come sempre nella storia degli oppressi dell´India, non sono riusciti a trovare un´unità di intenti e di azione, divisi da odi, pregiudizi atavici e interessi di clan spesso determinati dalla confusione legislativa con cui vengono applicate in diversi stati e con diversi criteri le stesse leggi di garanzia.
Le quote di posti pubblici e di accessi universitari riservate a dalit, tribali e Obc (fino a un tetto del 49,5 per cento del totale fissato dalla Corte suprema), dopo aver scatenato le proteste e le ondate di suicidi di membri delle caste alte nel ‘90, sono state anche la causa di vere e proprie guerre tra poveri per stabilire gli aventi diritto. Nel complicato mosaico di clan e sottoclan avvengono infatti spesso cambi di status che seguono di regione in regione esigenze elettorali, prima che di censo. Una delle battaglie più sanguinose si è verificata a giugno in Rajasthan tra gujjar e meena, con trenta morti, cento feriti e il blocco di importanti arterie come la Jaipur-Delhi. I gujjar, ex pastori oggi catalogati come Obc, avevano visto ridotte le loro percentuali di posti riservati dopo il declassamento alla loro medesima categoria - sempre per motivi di quote - della popolosa ed elettoralmente potente comunità di proprietari terrieri jaat. Per recuperare parte dei diritti persi, i gujjar del Rajasthan hanno allora chiesto di autodeclassarsi al gradino di scheduled tribe, ovvero di tribù aborigena. Ma così facendo andavano a intaccare la percentuale di posti riservati già attribuiti ai clan tribali dei meena e dei bhil, che hanno risposto con altrettanta durezza, sia nelle piazze che in parlamento.
Ovunque, nell´India delle "mille rivolte" raccontata da Naipaul, ci si batte ormai con le unghie e con i denti per un posto in quota, affidandosi al partito che promette più posti in cambio di voti, alimentando le critiche di quanti temono che la spartizione tra caste finirà con lo sgretolare un sistema, magari ingiusto ma consolidato e efficace, di avanzamento per meriti. La realtà è che i meriti sono stati acquisiti dai ceti alti grazie al tradizionale accesso all´educazione, mentre i posti disponibili in uffici pubblici e scuole specializzate non sono facilmente moltiplicabili, specialmente oggi che avanza il processo di privatizzazione lasciato in mano alle grandi imprese dove non contano quote e leggi anti-apartheid.
Per questo la marcia dei ventimila da Gwalior a Delhi rischia di aver percorso invano la strada dell´utopia. Come Gandhi, otterranno forse ammirazione e rispetto ma non le loro terre ancestrali.

Repubblica Roma 30.12.07
Ecco tutte le esposizioni imperdibili da vedere in città
Gauguin, Van Gogh e i dipinti pompeiani
di Renata Mambelli


Una tale densità di grandi mostre a Roma non si vedeva da tempo. Proviamo a metterne in fila alcune: il Maxxi di via Reni espone le fotografie di Ugo Mulas, testimone d´eccezione del mondo dell´arte dagli anni ‘50 in poi. Fino al 2 marzo. Alla Galleria Nazionale d´Arte Moderna sono esposti quadri di Vedova, Afro, Dorazio e degli altri protagonisti dell´arte italiana dagli anni ‘40 fino agli ‘80, appartenenti alla Raccolta Esso: fino al 24 febbraio. Aperta invece fino al 27 gennaio la mostra dedicata alla Pop Art (1956-1968) alle Scuderie del Quirinale, dalle scatole di Brillo di Andy Warhol ai quadri dell´italiano Tano Festa. Ancora Emilio Vedova, ancora alla Galleria Nazionale d´Arte Moderna, in una grande retrospettiva che copre l´intero arco della sua produzione, dal figurativo alle ultime opere degli anni 90: fino al 6 gennaio. Straordinaria la mostra a Palazzo Massimo, Rosso Pompeiano: splendidi esempi di pittura romana del periodo aureo, dal I secolo a. C al I secolo d. C., usciti dal Museo Nazionale di Napoli, fino al 30 marzo.
Alla Fondazione Memmo, a Palazzo Ruspoli, prosegue la mostra "Da Cranach a Monet, capolavori della collezione Perez Simon", con opere di Tiepolo, Goya, Canaletto, Rubens, Monet, Van Gogh, Renoir: fino al 27 gennaio. Imperdibile a Palazzo delle Esposizioni la grande mostra su Mark Rothko, settanta dipinti che ricostruiscono tutto l´itinerario del grande artista americano: fino al 6 gennaio (fate presto!). Paul Gauguin aspetta visitatori al Complesso del Vittoriano, fino al 3 febbraio, con 150 opere tra dipinti, sculture e ceramiche. Al Museo del Corso si respira invece profumo di Cina con "I capolavori della città proibita" che ricrea la vita di corte della dinastia manchu dei Qing: gioielli, dipinti, arredi, armi, smalti, abiti da cerimonia: fino al 20 marzo. Alla Galleria Borghese sono in mostra i capolavori di Antonio Canova, dalle Tre Grazie alla Naiade, fino al 3 febbraio, con prenotazione obbligatoria. Al Quirinale, nelle sale di Alessandro VII, sono in mostra i capolavori ritrovati, Nostoi, straordinari pezzi provenienti dai musei americani che se ne erano impossessati e ora restituiti all´Italia: fino al 2 marzo, con ingresso gratuito. A Palazzo Barberini quaranta tavole raccontano un Bernini poco noto nelle vesti di pittore: fino al 20 gennaio. Mentre al Chiostro del Bramante i protagonisti sono i Macchiaioli, con opere in mostra di Fattori, Lega, Signorini, fino al 3 febbraio. E per finire Fortunato Depero è all´Auditorium Parco della Musica con una bella mostra sulle sue scenografie e costumi per il teatro musicale: fino al 31 gennaio.

Corriere della Sera 30.12.07
Retroscena La strategia del «giorno per giorno»
Asse col Prc e caccia a due senatori cdl
di Maria Teresa Meli


Immaginare scenari eccessivamente futuribili, per Prodi, non è «utile». E allora, innanzitutto, «bisogna aspettare quel che deciderà la Consulta sui quesiti referendari ». Quanto agli alleati — quelli riottosi, quelli che protestano e quelli che potrebbero andare via —, Prodi ha già messo in atto la sua tattica. Del resto, nonostante l'aspetto bonario, l'uomo è un tipo che non molla: nemmeno il virus gastrointestinale che ha steso mezza Italia e che ha colto anche lui gli ha impedito di tenere la tradizionale conferenza stampa di fine anno. «Non mi sento bene, ma c'è chi sta peggio», ha detto agli amici che gli chiedevano perché non avesse rinviato l'incontro.
Ma tornando agli alleati. Innanzitutto c'è Rifondazione, che tanti sforzi ha fatto per questo governo e che ben poco ha ottenuto finora. L'altro giorno con il ministro del Welfare Paolo Ferrero il premier è stato molto conciliante: «Vedrai che questa verifica la faremo anche se a me quel nome non piace, ma capisco che dobbiamo mettere a punto delle cose del programma». Insomma, l'idea di Prodi è quella di tornare a fare asse con il Prc, perché ha capito che se c'è un partito che mai e poi mai staccherà la spina al suo governo quello è Rifondazione. D'altra parte Giordano lo ha spiegato a qualche alleato dell'Unione che avrebbe voluto avvalersi dell'aiuto del Prc per una crisi di governo: «Vi illudete se pensate che saremo noi a fare questa operazione. Se questo governo non vi soddisfa più prendetevi le vostre responsabilità alla luce del sole».
Perciò, anche se tra Prodi e Rifondazione non vi sono più i rapporti idilliaci di un tempo, il premier ha deciso di appoggiarsi al Prc per andare avanti. Tanto — è il suo ragionamento — il Pd non può opporsi se il governo concede qualcosina alla sinistra, perché io di quel partito sono il presidente. Ma Prodi non ha intenzione di abbandonare neanche Mastella, che finora si è schierato al suo fianco. Per questo continua a dire che i partiti piccoli vanno tutelati nella riforma delle legge elettorale. Su cui però lui non ha intenzione di intervenire pubblicamente perché vuole tenere il governo al riparo dalle polemiche. Comunque, il premier è «scettico» circa la possibilità di «un dialogo serio» con Berlusconi, che un giorno dice «una cosa e il giorno dopo un'altra». Ma ha deciso che non ostacolerà il lavoro avviato dal segretario del Pd Veltroni.
Ultimo problema, quello di Lamberto Dini. Prodi, però, pensa di averlo già risolto «sterilizzando» la questione grazie agli altri componenti del gruppo formato dal presidente della commissione Esteri del Senato. Ha convinto Willer Bordon e Roberto Manzione a isolare Dini. Di più, Manzione gli ha promesso, e l'altro ieri lo ha detto pubblicamente al Messaggero, di portare nel centrosinistra due esponenti della Cdl: Saro e Del Pennino. Così i margini della maggioranza al Senato si allargheranno. Di poco, certo, ma questo all'uomo del «giorno per giorno» basta per «andare avanti».
Fino a quando? Sembrava che Veltroni avesse ipotizzato fino al 2009 (anche Berlusconi ha confermato che «il leader del Pd non vuole arrivare oltre quella data perché non vuole farsi logorare»). Ma Prodi sorride e risponde serafico: «Nel 2009 ci saranno le elezioni europee ». Sembra proprio che la profezia di Francesco Cossiga sia destinata ad avverarsi: «Vedrete che Prodi non lo manderà via nessuno, rimarrà in sella per tutta la legislatura ». Nel Pd, notoriamente non proprio unito, qualcuno si rallegra e qualcun altro fa gli scongiuri...

il manifesto 30.12.07
Show del cardinal Bertone: la Chiesa una risorsa, caro Veltroni difendi i cattolici nel tuo partito
Troppo laico il Pd, ridateci Togliatti
di Daniela Preziosi


La Chiesa italiana era «più rispettata» ai tempi del Pci e della Dc. Oggi invece è sotto attacco. La posizione «di Gramsci e di tanti esponenti comunisti verso la religione era ben diversa da quella di certi laicisti attuali». Botti di fine d'anno, ancorché a mezzo stampa, da parte del cardinal Tarcisio Bertone, segretario di Stato Vaticano e potente ministro degli esteri (quindi, addetto anche ai rapporti con l'Italia) del pontefice Benedetto XVI. Una sua intervista che uscirà su Famiglia cristiana all'inizio dell'anno è stata anticipata ieri alle agenzie. Si tratta di un'omelia politica a tutto campo, dai rapporti con Cuba a quelli con la Cina e con Israele.
Soprattutto il cardinale si occupa dell'Italia, lo stato che contiene il Vaticano, o viceversa. L'Italia non è in declino, ma la troppa «litigiosità » frena le possibilità di crescita, dice. E poi entra nel dettaglio dell'agone politico. Ha incontrato Berlusconi e Veltroni, - i due che ora hanno deciso di cialogare - e «non è vero che le persone vengono a ricevere direttive dalla Santa Sede», assicura. «Certamente - aggiunge però - chiedono la nostra opinione». Che viene prontamente fornita. «Ci preoccupa la difesa dei valori della vita, del patrimonio morale e sociale che c'è nel dna del popolo italiano». Perché dev'essere chiaro, avverte, «la Chiesa è una risorsa anche per la comunità politica italiana». Ha il sacro dono della chiarezza, il cardinale. Ma se non bastasse, nei riguardi di Veltroni, leader del Pd e sindaco di Roma, è anche più esplicito: nell'incontro con lui, racconta, ha auspicato «che i cattolici non siano mortificati nel nascente Pd e che ci si ispiri alla tradizione dei grandi partiti popolari, che avevano un saldo ancoraggio nei princìpi morali della convivenza sociale». Auspicio legittimo, domandare è lecito. Il guaio è che, a giudicare dalla bocciatura del registro delle unioni civili a Roma, Veltroni sembra averlo preso alla lettera. Il 2008, si augura il segretario di Stato, dovrà andare meglio dell'anno concluso, «impegnativo per i cattolici». Il riferimento è chiaro, ancora una volta, ma se necessario viene esplicitato: «L'ultimo incidente di percorso è stato l'inserimento di una norma antiomofobia nel decreto sicurezza, argomento del tutto diverso. Il Pci di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, non avrebbe mai approvato le derive che si profilano oggi». Ha nostalgia di Togliatti, dell'articolo 7 della Costituzione che il Migliore fece approvare (e digerire) ai comunisti dell'epoca? Forse. Però un linguaggio così diretto e semplificato fa pensare che il cardinale rivoglia indietro don Camillo e Peppone. Che litigavano per copione, ma alla fine erano d'accordo.
Il ragionamento cade nel pieno del dibattito sulla laicità - dalle unioni civili alle norme antiomofobia, che stanno per tornare in parlamento. Così finisce per scatenare la tifoseria del centrodestra, che pure non riceve benedizioni dal porporato. Dall'Unione qualche commento, per lo più imbarazzato. «Paradossale nostalgia», quella bertonesca, secondo il socialista Roberto Villetti, che dimentica di dire che De Gasperi fu uno statista cattolico laico e liberale». E Armando Cossutta, anziano leader proprio di quel Pci che Bertone oggi vagheggia (ma che all'epoca avrebbe scomunicato): «Effettivamente il Pci ha sempre avuto un grande rispetto per la Chiesa». Ma non c'è paragone con l'oggi: «Difficile trovare nella storia della Chiesa in Italia posizioni tanto chiuse come quelle espresse da tanti esponenti del mondo ecclesiastico». Che hanno fatto «della fede un'arma di battaglia politica degna del più profondo medio evo».

il manifesto 30.12.07
La Costituzione : «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»
Buon anno a tutti, la guerra continua
Italia su più fronti. Dal conflitto afghano al Libano, dallo scudo antimissile di Bush ai nuovi cacciabombardieri iper-tecnologici. La finanziaria del 2007 fissa la spesa militare a 21 miliardi di euro, il doppio di quanto spetta ad atenei e ricerca
di Tommaso Di Francesco


Buon anno, la guerra continua. La finanziaria del 2007 attribuisce alla spesa militare italiana 21 miliardi di euro: è il doppio del bilancio di competenza per l'università e la ricerca ma ci colloca al settimo posto mondiale come spesa militare. Partecipiamo alla mutazione genetica della Nato che, dopo la guerra umanitaria contro l'ex Jugoslavia, è diventata forza d'intervento in tutto il mondo, dove ha dislocato 50 mila uomini, dai Balcani all'Afghanistan al Mediterraneo. E i nostri soldati, recitano i documenti strategici delle Forze Armate, sono pronti non a difendere il paese secondo il dettame costituzionale (artt. 11 e 52), ma anche «aree di interesse nazionale» in tutto il mondo al fine di salvaguardare i nostri interessi, se necessario con interventi «di prevenzione anche lontano dalla madrepatria» (con buona approssimazione alla guerra preventiva), anche in difesa del Muro di Shengen dall'«invasione» degli immigrati.
Così, di fronte al fallimento in Iraq, siamo venuti via da quella guerra fatta contro l'Onu e contro il popolo iracheno, ma esattamente pochi giorni fa nel Consiglio di sicurezza abbiamo votato a favore della continuazione della missione militare d'occupazione portata avanti dalla coalizione dei volenterosi capitanata dagli Stati uniti. E partecipiamo a una guerra, quella in Afghanistan, «con orgoglio», ha dichiarato a Kabul un inedito mascelluto Romano Prodi, nonostante la missione Onu abbia cambiato di segno da quattro anni e mezzo e sia diventata a tutti gli effetti della Nato. Ma c'è la svolta lessicale. Infatti non la chiamiamo guerra, pur partecipando ai comandi integrati che indicano all'aviazione Usa e Nato gli obiettivi «talebani» sul campo, con un numero così pesante di stragi fra i civili che quella guerra aerea, dalla quale dipende la fortuna delle truppe occidentali e quella del presidente Karzai, ha indebolito il governo afgano e allargato il seguito e l'influenza dei talebani che controllano più del 50% del territorio operando ormai dentro la cosiddetta «zona italiana» da sempre raccontata - chissà perché - come immune dal conflitto. Se dopo l'11 settembre l'obiettivo era fermare il terrorismo, di Al Qaeda o quant'altro ectoplasma, ora nell'area ad essere destabilizzato è addirittura il Pakistan - a partire dalle aeree tribali - dove i talebani sono stati inventati. Una destabilizzazione iniziata ben prima dell'estremo tentativo di Benazir Bhutto.
Siamo schierati in Libano dopo la guerra criminale di bombardamenti aerei israeliani dell'estate 2006, a seguito del rapimento sul confine di un militare israeliano. Avremmo dovuto schierarci alla frontiera, invece siamo dentro il territorio libanese con il dichiarato compito di tenere a bada la forza di Hezbollah e di influire positivamente sul processo democratico libanese. Hezbollah resta forte, il Libano è sempre nel caos.
Ma il fatto più grave di tutti è che le chiacchiere sull'impegno verso la questione palestinese, quella sì bisognosa di una «forza di interposizione» per liberare i Territori occupati ancora dal 1967, chiacchiere erano e chiacchiere sono rimaste. Anzi se ne ricava l'impressione che, alla fine, ad avvantaggiarsi realmente della nostra missione in Libano sia stata proprio la leadership israeliana con la quale abbiamo continuato a gestire un Trattato militare che sostiene da anni le sue Forze armate: ha infatti ottenuto l'isolamento politico ma soprattutto materiale dei palestinesi, che nell'angolo e affamati, si sono divisi ormai in un conflitto intestino tra Hamas e Fatah. Ora i palestinesi, tutti i palestinesi, attraversati dal Muro, dispersi in milioni di profughi nelle baraccopoli del Medio Oriente impediti nel movimento e in ogni diritto elementare e sempre più frazionati dagli insediamenti israeliani, vedono la prospettiva dello Stato di Palestina come una favola. La favola raccontata al recente vertice di Annapolis che rimanda a data indefinita il destino di milioni di disperati. È questo il risultato, il 2007 è stato l'anno della scomparsa della questione palestinese nel silenzio quotidiano che non conta nemmeno più lo stillicidio di «uccisioni mirate» causate ogni giorno da parte dell'esercito israeliano.
Infine siamo con migliaia di uomini in Kosovo - dove dopo la guerra è andata in onda una feroce contropulizia etnica contro le minoranze serbe e rom, a garantire il rispetto degli accordi di pace di Kumanovo che posero fine alla guerra «umanitaria» contro l'ex Jugoslavia - fatta contro il parere delle Nazioni unite - assunti poi nella Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell'Onu con cui si riconosceva il diritto alla Nato di occupare il territorio ma salvaguardando la sovranità della Serbia. Ora stiamo per costringere gli stessi militari a fare il contrario, vale a dire ad andare contro il quadro di legalità che ha istituito la missione dell'Alleanza atlantica. Perché arriverà la nuova missione «civile e di polizia» dell'Unione europea, con la quale si rileva l'amministrazione fallimentare dell'Unmik-Onu e si avvia la gestione «indolore» dell'indipendenza etnica del Kosovo - contro il Consiglio di sicurezza Onu, la Serbia e la Russia (e la Cina). Incuranti del fatto che la polveriera balcanica può riaccendersi subito.
Serviranno questi preparativi sui fronti di guerra, non chiamata tale ma così diventata in itinere, cambiando le carte in tavola, a «fermare il terrorismo« e a «difendere la democrazia»?
In realtà accade il contrario. Nessuna guerra riesce a fermare il terrorismo. E accade che tutte queste missioni militari all'estero siano state in questi giorni «prorogate» d'ufficio dal governo senza discussione. E accade che il nostro parlamento non sappia nulla di come e perché l'Italia si sia avventurata in uno spregiudicato mercato di armi sofisticate e abbia allargato, invece che restringere come da promesse elettorali, le sue servitù militari. Così con il Pentagono abbiamo firmato il memorandum d'intesa nel programma, costosissimo, degli F-35 Lightning, il cacciabombardiere Usa Joint Strike Fighter avviando nientemeno che «il più grande e tecnologicamente più evoluto programma della storia dell'aviazione», secondo le parole del sottosegretario alla difesa Forcieri. Lo stesso vale per le basi americane. Chiudiamo la Maddalena ma, manco fossimo al supermercato, cash&carry, allarghiamo la base di Vicenza ben sapendo che diventerà per gli Stati uniti il trampolino di lancio per operazioni militari di proiezione in tutto il mondo, e ristrutturiamo quella strategica di Sigonella. E, dulcis in fundo, il 2007 è stato l'anno dello scudo antimissile che Bush a tutti i costi vuole disporre subito in Europa, nella Repubblica ceca e in Polonia, alla frontiera russa, con la motivazione, insensata perfino per l'Intelligence americana, del pericolo dell'atomica iraniana.
Abbiamo apprezzato l'interrogativo del ministro degli esteri Massimo D'Alema, preoccupato delle reazioni russe all'imposizione dell'indipendenza del Kosovo: «Ma era davvero questo il momento di andare a piantare missili qui e là in Europa?». Sante parole. Ma allora perché, di nascosto dal parlamento, il ministro della difesa Parisi nel febbraio di quest'anno che muore è corso a Washington a firmare l'accordo quadro che dice sì allo scudo antimissile in Europa, in Italia e nel mondo? Perfino il presidente Napolitano dichiara che è ora che «ne parlino le Camere». Buon anno, la guerra continua.