sabato 18 gennaio 2014

La Stampa 18.1.14
Berlusconi a casa del Pd
Oggi nella sede dei democratici l’incontro con Renzi sulla legge elettorale
I bersaniani: se fanno l’accordo, salta il governo
Silvio di nuovo in campo dopo 20 anni
Discesa e ritorno. A 20 anni dal debutto in politica il Cavaliere è di nuovo centrale
I berluscones soddisfatti «È stato giusto andare all’opposizione: ora Silvio è sulla cresta dell’onda»
di Ugo Magri


Berlusconi ritorna e tenta il colpaccio: spiazzare Renzi
Oggi i due si vedranno. L’idea di un governo insieme

Per celebrare il suo ritorno al centro del ring, il Cavaliere ha festeggiato sotto casa di De Benedetti. Non che abbia scampanellato al citofono dell’arci-nemico, o sguaiatezze simili. Semplicemente, di 7674 ristoranti romani elencati su Trip-advisor, due sere fa la scelta di Silvio è caduta, strana combinazione, proprio sul locale che sta di fronte al palazzetto dell’Ingegnere. Pare che a tavola ci abbia perfino scherzato su: quando è arrivato il momento di pagare, e la sua assistente Mariarosaria Rossi era lì pronta, qualcuno ha udito tra le risate: «.... il conto consegnatelo qui di fronte». Foto ricordo con due vistose turiste americane e occhiolino alla fidanzata Francesca: «Amoreee, guarda cosa sto facendo...» (al che la Pascale si è messa a sua volta in posa con un bel cameriere). Comunque vogliamo giudicarli, sono siparietti non certo da cane bastonato. «A volte ritornano», metteva in guardia Stephen King nel romanzo sugli «zombie». «Rièccolo», fu ribattezzato Fanfani da Montanelli per la sua incredibile capacità di riproporsi. Che la storia sia fatta di corsi e ricorsi?
Mezza Italia non ha ancora smaltito la sbornia della decadenza, e già Renzi fa a botte col suo partito per incontrare il Pregiudicato... «Tanto di cappello al suo coraggio», lo copre privatamente di elogi il Cav. Riconosce che parte della propria resurrezione è merito del segretario Pd. Non mostra la minima ansia di duellare con lui. Anzi, le elezioni possono attendere, magari proprio con la scusa che Matteo in questo momento sarebbe troppo forte. «Perché non aspettiamo un altro anno per tornare alle urne?»: è la domanda-shock che un fautore del voto immediato si è sentito rivolgere a bruciapelo. L’ex-premier dà per certo, vai a sapere in base a quali riscontri, che la Corte europea di giustizia cancellerà la condanna e le pene accessorie, incandidabilità compresa. Per cui addirittura potrà tornare a proporsi quale premier o magari al posto di Napolitano: ecco perché accarezza la prospettiva di guadagnare tempo. Nelle more dell’attesa, non disdegnerebbe un governo RenziBerlusconi, sebbene definirlo Berlusconi-Renzi gli sembrerebbe più appropriato visto che il giovanotto gli sembra «ancora troppo acerbo per sobbarcarsi sulle spalle il peso del Paese», avrebbe bisogno di un tutor.
«È tornato a surfare l’onda», dicono tutti eccitati i «berluscones». Fanno a gara nel condividere parte del merito. Falchi e «Pitonesse» rivendicano la scelta dell’opposizione (giusto
ieri la Santanché ha ottenuto la nomina a responsabile del «fund-rising», cioè della caccia ai finanziatori, segno di apprezzamento del Capo). L’ex direttore del Tg1 Minzolini ha idee molto nette sulla genesi della rimonta: «La mossa vincente di Berlusconi è stata quella di andare all’opposizione, e di esserci andato dialogando sia con Renzi sia con Grillo. Ma ce n’è voluta...». Michaela Biancofiore (la cui cagnetta Puggie è stata ufficialmente maritata con Dudù), guarda invece al lato dei sentimenti e insiste sulla «grande gioia di vivere» trasmessa al suo uomo dalla Pascale. Berlusconi, aggiunge Biancofiore, è chiaramente soddisfatto della riconquistata centralità, «sebbene la sua più grande fatica resti quella di doversi sobbarcare le micro-rivalità interne al partito, mentre lui è in ansia per un Paese che di questo passo rischia il default». Un altro al posto suo si sarebbe afflosciato, assicura il sodale di sempre Marcello Dell’Utri, «ma Berlusconi è un torello, nessuno lo abbatte, ha sempre spiazzato tutti e continuerà a spiazzarli». Renzi compreso? Risatina dall’altro capo del filo.

Il Sole 18.1.14
Mediazione cercasi
di Stefano Folli


Paradossi della nostra politica. Matteo Renzi, il nemico delle larghe intese, oggi ha un solo, apparente alleato nel suo progetto di riforma del sistema elettorale: Silvio Berlusconi. Alleato scomodo e per definizione poco affidabile, come sanno i passati leader del centrosinistra, da D'Alema a Veltroni.

Con la sua dichiarata disponibilità al cosiddetto "modello spagnolo", il capo di Forza Italia ha già ottenuto un risultato di qualche rilievo. Ha gettato lo scompiglio nel campo avverso e nello stesso Partito Democratico. Ha messo Renzi contro i suoi, facendone risaltare la scarsa o nulla vocazione di mediatore. Sulla carta, al segretario del Pd viene offerta una passerella per attraversare il guado, ma è un sostegno fragile e comunque pagato a caro prezzo. Anche perché, da un punto di vista politico, Berlusconi ha in mano una doppia opzione.
Da un lato, può ottenere davvero la riforma elettorale preferita, ossia lo schema spagnolo. È molto difficile ma non impossibile; e comunque il peso dell'operazione sarà tutto sulle spalle di Renzi (a cominciare dalle garanzie da offrire ad Alfano). Con quel tipo di riforma, Forza Italia sarebbe in grado di pesare parecchio nella prossima legislatura: uscite dalla porta, le larghe intese rientreranno dalla finestra, magari nella forma di un patto di potere politico-economico fra il Pd renziano e il partito berlusconiano.
Dall'altro lato - ed è la seconda ipotesi - Berlusconi avrebbe un vantaggio anche in caso di fallimento della trattativa. Si resterebbe con il proporzionale, il che vuol dire che Forza Italia conserverebbe un peso decisivo nel prossimo Parlamento, grazie al suo 18-20 per cento esaltato proprio dalla legge elettorale. Si capisce allora che fra i due protagonisti l'incontro di oggi sarà asimmetrico. Uno, Berlusconi, ha almeno due carte da giocare e comunque vada rischia di uscirne vincitore. L'altro, Renzi, ha una sola carta (la riforma in senso maggioritario) e molto da perdere in caso di insuccesso.
Nulla è perduto, ma la tela è sul punto di lacerarsi. Di fatto il governo Letta è già in crisi come effetto dell'accelerazione renziana. Senza una decisa iniziativa del presidente del Consiglio la situazione potrebbe sfuggire di mano e non sarà il solito "vertice" di maggioranza a quadrare il cerchio. D'altra parte non era mai accaduto che il leader del partito di maggioranza si bruciasse i vascelli alle spalle e decidesse di puntare tutto solo su se stesso. Nel giro di poche ore sapremo se ha avuto ragione.
Il segretario dovrebbe mettere a punto prima di lunedì un progetto di legge elettorale in grado di accontentare gli alleati centristi e al tempo stesso ottenere il nulla osta dei berlusconiani. Ma è un'equazione assai poco verosimile. La prospettiva più concreta è un lento e confuso negoziato che s'intreccia con i progetti costituzionali (abolizione del Senato, eccetera), ma il cui esito immediato consiste nell'esportare ogni sorta di malessere e di contraddizione all'interno della maggioranza e del governo. Se si considera che il voto anticipato non è oggi nel novero delle probabilità, questa eventualità rischia di appannare la novità Renzi senza peraltro restituire a Letta il vigore necessario in un anno cruciale per l'economia.
In definitiva, il segretario sta correndo forse troppo, ma è la parte che si è scelto e non può cambiare strada senza snaturarsi. Il problema è che una strategia elettorale senza elezioni rischia di trasformarsi in un cortocircuito. Peraltro il premier non può pensare che limitarsi a logorare Renzi sia la strada giusta. Perché è evidente che il logoramento sarà reciproco. Come sta già avvenendo.

Il Sole 18.1.14
Per il Cavaliere conta il ritorno sulla scena politica
di Barbara Fiammeri


Silvio Berlusconi rinvia la presentazione di Clarence Seedorf, non vola in elicottero a Milanello e resta a Roma. C'è un appuntamento che lo attende. Matteo Renzi alle 16 gli spalancherà il portone di Largo del Nazareno, la sede nazionale del Pd, lo farà accomodare nell'ufficio che fino a poco tempo fa era di Pier Luigi Bersani, con tanto di quadro di Che Guevara alla parete. Ad accompagnarlo ci sarà anche Gianni Letta, ospite fisso agli incontri clou del Cavaliere, oltre a una ressa di fotografi, telecamere e giornalisti pronti ad immortalare il varco della soglia. Fin qui la scenografia che accompagnerà il piano sequenza dell'arrivo di Berlusconi.
Poi c'è la sceneggiatura. Per adesso se ne conosce solo la premessa. Berlusconi non sottovaluta Renzi. Gli piace il coraggio, la sfrontatezza del sindaco fiorentino. Ci si rispecchia. Più di qualcuno gli ha sentito dire che «purtroppo non abbiamo un Renzi» e deve averlo pensato spesso anche negli ultimi giorni viste le tensioni tra vecchi e nuovi all'interno di Fi.
Ma il punto interrogativo vero è se Berlusconi, dopo aver riscosso il successo mediatico, dopo che il segretario del principale partito italiano è tornato a riconoscergli il ruolo di leader del centrodestra nonostante la cacciata dal Parlamento, si impegnerà veramente per un accordo sulla legge elettorale oppure si sfilerà, magari all'ultimo momento, come avvenne ai tempi della bicamerale di D'Alema. Sono settimane, o forse sarebbe meglio dire mesi, che più o meno apertamente il Cavaliere ha affidato a Denis Verdini il compito di trovare l'intesa con il sindaco di Firenze. Renzi non si è tirato indietro. E Berlusconi è pronto ad andare a vedere le carte. Il Cavaliere si presenterà al tavolo ribadendo la predilezione per il cosiddetto modello spagnolo, che, grazie a uno sbarramento che in alcune circoscrizioni supera il 20%, garantirebbe a Fi di rimanere l'unico partito del centro-destra. Un risultato che per Berlusconi sarebbe decisivo anche qualora il suo partito dovesse uscire sconfitto dalle elezioni perché – come ragionava ieri l'ex Fi oggi FdI, Guido Crosetto, che il Cavaliere conosce assai bene – «gli consegnerebbe lo scettro di leader unico dell'opposizione, oltre a Grillo, e lo renderebbe comunque l'unico interlocutore di un eventuale governo Renzi».
Ma Berlusconi sa anche che Renzi non si spingerà così oltre. Per questo è già stato messo a punto una sorta di piano B, un'ipotesi di mediazione su cui tentare l'intesa che comunque non verrà fuori domani. A meno che Renzi non sia davvero deciso a rompere con la maggioranza e con Letta (Enrico). E sotto sotto Berlusconi un po' ci spera. O quantomeno confida che l'anima del vecchio Pd tiri fuori le unghie. L'implosione dei democratici per ora è solo un sogno ma chissà «hanno fatto talmente tanti errori che non è da escludere...», ridacchiava ieri un forzista di lungo corso.
Berlusconi per ora si gode il ritorno al centro del ring, la rivalsa nei confronti di chi frettolosamente lo aveva già dato per finito. Le parole pronunciate da Renzi ieri sera verso chi «se oggi è in Parlamento è grazie ai voti di Berlusconi», con il quale però oggi non vogliono accordarsi, sono musica celeste per l'ex premier. E poi il Renzi-day gli ha anche consentito di rinviare almeno di una settimana le noiose beghe di partito: il caso Toti, il direttore del Tg4, che il Cavaliere vorrebbe inserire al vertice di Fi, i malumori della vecchia guardia, le nomine, le deleghe, insomma «il solito teatrino della politica». Pare di sentire Renzi.

Corriere 18.1.14
Forza Italia Il ritorno in scena del leader
Il Cavaliere incassa
«Bravo Matteo, va contro i suoi per incontrarmi»
di Paola Di Caro


ROMA — Il primo risultato è incassato: tornare al centro della scena, mettere piede nella sede del Pd da leader del suo partito, oggi quando alle 16 incontrerà Matteo Renzi per discutere di legge elettorale.
Silvio Berlusconi se lo gode il momento atteso e preparato nelle scorse settimane, si fa vedere allegro e spensierato nel centro di Roma a cena con le «sue» donne (come giovedì con la fidanzata Pascale, la Biancofiore, la Gelmini, la Calabria, la Rossi insieme a Giovanni Toti), riceve vecchi e fidati amici per avere consigli — Scajola, Miccichè — e nel pomeriggio fa il punto della situazione con Denis Verdini e Gianni Letta, che oggi lo accompagnerà all’incontro con il segretario del Pd.
In Forza Italia, almeno fino a ieri pomeriggio, l’aria era quella di chi è a un passo dal vincere alla lotteria: «L’accordo è fatto, l’intesa c’è. Se la vedrà Renzi con i suoi, a noi non importa quello che farà con i suoi compagni del Pd o con il governo», l’opinione dei più ottimisti, convinti che su un sistema «che parte dallo spagnolo, con listini bloccati, piccoli collegi e un premio di maggioranza» la soddisfazione reciproca degli azzurri come dei renziani sarebbe ottima e abbondante.
Lo stesso Berlusconi è apparso molto ben disposto nei confronti del sindaco di Firenze, nei giorni scorsi come ieri: «È stato coraggioso, ha sfidato il suo partito per incontrarmi, si è mosso veramente bene», ha ripetuto ai suoi, fiducioso che «queste sono cose che contano in politica, il suo è un approccio molto positivo». Ma nello stesso tempo la giornata di ieri, le voci di un riavvicinamento di Renzi a Scelta civica, ad Alfano, hanno cambiato un po’ l’aria: «Ha davanti una strada difficilissima, vedremo se saprà percorrerla. Certo, sia chiaro che per noi non tutto è accettabile. Discutere e mediare va bene, ma se ci trovassimo di fronte a un voltafaccia, non potremmo accettarlo», l’avvertimento del Cavaliere, che pure vede aperte davanti a sé molte strade, anche interessanti.
Se Renzi rompe con i suoi e cade il governo, secondo il Cavaliere e i suoi si potrebbe sia votare che andare a un governo «di scopo» per fare la legge elettorale, con il sostegno di Forza Italia, e poi giocarsi la partita sulle spaccature interne della maggioranza e sperando nell’effetto logoramento del segretario del Pd: «Forse non sarebbe male aspettare un annetto ancora: oggi Renzi è in grande spolvero, più avanti le cose potrebbero cambiare. E io potrei tornare in gioco, perché credo davvero che la Corte europea possa annullare la sentenza contro di me, ci credo sul serio». Anche se il governo andasse avanti nonostante tutto — ferito, azzoppato — i giochi potrebbero riaprirsi: «È un esecutivo morto, più vanno avanti e più si logorano...».
Se invece l’accordo si siglasse davvero con la mortificazione di Alfano e dei suoi, Berlusconi non verserebbe una lacrima: lo descrivono ancora amareggiato e ferito per lo strappo del suo ex delfino e degli altri ministri: «Voi non sapete cosa ho fatto per loro, e loro mi hanno trattato così...».
In ogni caso, a chi gli ha parlato, Berlusconi è sembrato molto collaborativo rispetto all’ipotesi di portare a termine almeno alcune riforme fondamentali: «Quella del Senato è una riforma giusta, non possiamo dire di no. Se si può fare qualcosa per il bene del Paese, noi ci siamo». Insomma, rientrare in gioco, per lui, è a questo punto essenziale e necessario. Così come portare a termine l’operazione «nuovo partito». Senza umiliazioni per nessuno, se è vero che ieri Daniela Santanchè è stata riconfermata nel suo ruolo di capo del settore fund raising. Poi, la prossima settimana, si penserà a tutti gli altri: sarà nominato l’ufficio di presidenza con una quarantina di membri, e dopo nascerà l’ufficio politico a 10 membri, con i big forzisti dentro. E con Toti nel ruolo di coordinatore dell’organismo o segretario. Una mediazione che metterebbe d’accordo tutti, o quasi.

l’Unità 18.1.14
Renzi vede Berlusconi. «Mi ostacolano ma non mollo»
Oggi il faccia a faccia sulla legge elettorale nella sede del Pd: ci saranno anche Gianni Letta e Guerini
Il segretario irritato per gli «attacchi strumentali. Se Letta cadrà non sarà certo per il modello spagnolo»
Maria Elena Boschi: «Saranno 24 ore decisive ma per il 27 gennaio dovremmo farcela»
di Vladimiro Frulletti


«Chi continua a dire che se facciamo la legge elettorale anche con l’accordo di Forza Italia salta il governo non sa di cosa parla». Mentre da Roma sale in treno verso Milano, atteso alla prima puntata della nuove Invasioni Barbariche, Matteo Renzi non nasconde il fastidio per gli attacchi continui.
Il segretario Pd trova strumentale certe argomentazioni («vuol far cadere Letta») contro il suo tentativo di portare a casa una riforma elettorale coinvolgendo Berlusconi e portando Forza Italia a dire sì anche al superamento del Senato e delle province e alla riforma delle Regioni. «Mi hanno votato per questo» twitta lamentandosi che «molti cercano di frenare», ma assicurando che non per questo ha intenzione di fare passi indietro: «io non mollo».
Col Cavaliere si vedrà oggi pomeriggio alle quattro a Roma nella sede del Pd del Nazareno come ha annunciato lui stesso da Daria Bignardi. Ci sarà anche Gianni Letta (e Lorenzo Guerini accompagnerà Renzi). Una prima volta assoluta, che non farà mancare le polemiche. «Non è la prima volta che Berlusconi incontra i segretari del Pd. spiega Renzi -. Ma lo incontro non perché non cosa fare, ma perché siamo a un bivio. O la classe politica romana organizza un suicidio di massa oppure finalmente facciamo davvero le riforme e quindi si fanno anche con l’opposizione».
Prima Renzi a Firenze incontrerà la segretaria di Scelta Civica Giannini e il leader del Psi Riccardo Nencini e a mezzogiorno andrà a inaugurare delle case popolari rimesse a nuovo. Ma è dall’incontro col Cavaliere che dipendono molte cose come ammette MariaElena Boschi, la parlamentare renziana che nella segreteria Pd ha la delega, appunto, alle riforme. «Saranno le 24 ore decisive» spiega mostrando tuttavia un certo ottimismo: «per il 27 gennaio dovremmo farcela» dice.
Renzi contesta chi lo accusa di avere troppa fretta. Sono 20 anni dice che si parla di riforme e siamo ancora al punto di partenza. E ricorda che lui dalle primarie ha avuto un mandato chiaro, da «ultima spiaggia» e quindi non può non correre. Ma su quale proposta? Lunedì Renzi ha promesso che scioglierà l’enigma davanti alla direzione del Pd che poi chiamerà a dire un sì o un no.I numeri decisi dagli elettori delle primarie dicono che non avrà problemi a farla passare dentro il partito. Più complicato avere la certezza che il voto della direzione sarà poi rispettato dai gruppi parlamentari. Soprattutto se la proposta del Pd sarà il modello spagnolo concordato con Berlusconi. Renzi mostra di non avere grandi timori. «Abbiamo votato ieri, votiamo lunedì. E soprattutto abbiamo votato l’8 dicembre» risponde Renzi a un tweet di Cerasa del Foglio che nota quanto il Pd stia ballando. I più ottimisti dai renziani calcolano che circa 2/3 di deputati e senatori non useranno il voto segreto per azzoppare il segretario. Il terzo mancante però sarebbe determinante soprattutto al Senato. Certo se finisse così davvero salterebbe tutto per aria con conseguenze inimmaginabili per lo stesso Pd perché ci sarebbe un rovesciamento della volontà espressa dagli elettori delle primarie fanno notare gli uomini del segretario. E a quel punto non sarebbe più fantapolitica un Renzi alla guida di un governo di scopo per fare le riforme. A meno che non decida di giocarsi
tutto col voto anticipato anche con la legge proporzionale (ma con soglia di sbarramento) lasciata dalla sentenza anti Porcellum della Corte Costituzionale.
Dall’altra parte del resto non mancano, a cominciare dallo stesso Letta, quelli che ritengono che un accordo col Cavaliere certificherebbe la fine della maggioranza. Un ragionamento che ieri Renzi s’è sentito ripetere più volte durante gli incontri con vari ministri da Maurizio Lupi allo stesso Dario Franceschini che pure nelle geografia democratica sta nella casella renziana. «Renzi sta facendo un’azione molto forte per mantenere le promesse fatte al Paese» spiega il ministro Graziano Delrio anche lui in visita al Nazareno.
Il problema è che gli alleati di governo vi vedono il rischio di produrre strappi irrimediabili e quindi chiedono un vertice di maggioranza. Riti da Prima Repubblica li definiscono dalle parti del segretario. Quel che è certo però è che dentro al Pd i bersaniani sono decisi a dare battaglia. L’assunto è che nel momento in cui Renzi siglerà l’intesa con Berlusconi siglerà anche la morte del governo Letta. In automatico. «Non andrà così» è pronto a scommettere Ernesto Carbone. «Capiamo dice il deputato vicinissimo a Renzi che si preferisca la palude, ma un minimo di senso di realtà suggerirebbe di trovare altri argomenti per cercare di non cambiare la legge elettorale».
Insomma per Renzi se Letta cadrà non sarà per colpa dell’accordo con Berlusconi sul sistema spagnolo. Sempre che questa sia la proposta e che non si tratti dello spauracchio per convincere Alfano (e Letta) a non ostacolare la rapida approvazione della legge elettorale. Che a questo punto potrebbe essere lo spagnolo corretto a cui sta lavorando il professore D’Alimonte: proporzionale a turno unico con premio di maggioranza e soglia di sbarramento al 5%, circoscrizione piccole (e liste bloccate corte), ma con una ripartizione dei seggi su base nazionale come chiede Alfano.
Alfano e i deputati che lo hanno seguito. In circoscrizione di 3-5 seggi nessuno di loro può sognarsi di arrivare al 18 percento circa di voti necessari. La stessa sorte avrà SEL a meno che non accetti le condizioni sicuramente stringenti dettate da Renzi per una alleanza di governo. Berlusconi può assicurare la Lega che in alcuni collegi della Padania i voti là concentrati consentiranno l’elezione di almeno una trentina di deputati. Assicurata la sparizione di Scelta civica e di Casini e scoraggiati eventuali piccoli partiti emergenti, il problema saranno le Cinque Stelle, forse in perdita di consenso. Qualcuno potrebbe anche pensare che c’è un altro serio problema.
Il sistema spagnoleggiante non dà affatto più potere agli elettori. Nessuno può credere alla favola che il vedere le facce dei quattro-cinque candidati e potere decidere di non votarli in blocco, operazione che già sappiamo sarà rarissima, equivalga al potere degli elettori nei collegi uninominali, di scegliere davvero il loro parlamentare. No, la trattativa spagnoleggiante con Berlusconi che, intanto, incasserebbe ancora una volta e subito il riconoscimento del «principale esponente del partito a noi avverso», non deve neanche cominciare. Si torni invece al Mattarellum, sistema votato dal 90 per cento degli elettori nel referendum dell’aprile del 1993. Non attaccandogli un premio di maggioranza, assurdo su un sistema già tre quarti maggioritario. Lo si faccia come suggerito da Pippo Civati abolendo la scheda proporzionale e adottando il sistema usato per il Senato con il recupero proporzionale dei migliori perdenti nei collegi che, comunque, avranno fatto la campagna elettorale. Pochissimi saranno i necessari ritocchi ai collegi e non ci sarà nessun bisogno di modifiche costituzionali. Con il Mattarellum revisionato si può fare in fretta e bene.

l’Unità 18.1.14
«Patto col Cav? Cade il governo». Minoranza Pd in fermento
D’Attorre: «Il sistema spagnolo è invotabile»
Ma Cuperlo frena: «Non è questione di coscienza»
di M. Ze.


ROMA «Noi il modello spagnolo non lo votiamo. Se lo scordi il segretario», sibila un deputato bersaniano a fine mattinata in un Transatlantico semideserto malgrado la ministra Nunzia De Girolamo sia venuta a raccontare la sua versione dei fatti. Alfredo D’Attore rinforza: «Diciamocelo con franchezza, il sistema spagnolo è costituzionalmente e politicamente invotabile». E di certo non ha bisogno del voto segreto, replica a Formigoni che aveva ipotizzato scenari occulti, perchè la sua e quella di diversi
altri nel Pd sarà «una battaglia a viso aperto, non fatta in maniera vigliacca. Nessuno si nasconderà dietro il voto segreto. Ma se Renzi ratifica l'accordo con Berlusconi la maggioranza finisce domani». «Mezze minacce», le definisce il renziano Ernesto Carbone, che si dice convinto che non sarà questo a far cadere il governo. Ma D’Attore spinge sul pedale dell’acceleratore e invita iò segretario a smetterla «con le caricature, non c'è nessun confronto fra proporzionalisti e antiproporzionalisti, nessuno ha proposto di tenere il sistema uscito dalla Consulta. Renzi deve avere più rispetto dell'intelligenza dei suoi interlocutori, non può trattarci da ragazzini con l'anello al naso. Non possiamo per fare un accordo con Verdini resuscitare in un colpo solo il Porcellum e, sul piano politico, Berlusconi. Sarebbe inaccettabile tornare alle liste bloccate». Il Pd rischia di spaccarsi come una mela, questa è l’aria che tira. Il presidente del partito, Gianni Cuperlo (riunisce la sua componente lunedì alle 13, poco prima della direzione dedicata alla riforma) ribadisce che per quanto lo riguarda resta il doppio turno la strada percorribile, «e oggi ci sono tutte le condizioni per approvarlo a larga maggioranza», ma, a differenza di D’Attorre, non andrà mai contro la decisione presa a maggioranza del suo partito una volta in Aula, «la legge elettorale non può essere un voto di coscienza, per questo la battaglia la faremo nelle sedi del Pd, per difendere quella che era una decisione data per assodata, il doppio turno. D’altra parte Renzi ha deciso di portare via la legge elettorale dal Senato proprio perché temeva che si stesse perdendo tempo per fare inciuci sul modello spagnolo», riflette a voce alta con i suoi. Rosy Bindi, membro della Commissione Affari Costituzionali alza le mani: «Vedremo quale busta, se la uno, la due o la tre, ci arriverà in Commissione». Passa un collega franceschiniano e le sfugge una delle sue battute al veleno, «ormai sono di Renzi e di governo». Stefano Fassina scivola via da Montecitorio, dice che se il segretario insegue Berlusconi di fatto la maggioranza può dirsi andata, finita, e «a quel punto gli chiederei cosa c'è dopo. Un altro governo con lui premier?». È uno del cerchio magico di Renzi a dire che anche stavolta «Matteo stupirà tutti perché presenterà un accordo con Berlusconi su uno spagnolo modificato, con liste bloccate brevi e doppio turno di maggjoranza». I lettiani sono furiosi per quel giudizio tranchant sui dieci mesi di governo Letta sparato a freddo dal segretario durante la direzione. «Deve capire che non può permettersi più di fare il guascone, adesso è il segretario del Pd, lo stesso partito del presidente del Consiglio». C’è chi riferisce anche di uno scontro piuttosto acceso tra Dario Franceschini, il mediatore per eccellenza tra i due leader, e Renzi, proprio per i toni usati in direzione e per quei riferimenti alle dichiarazioni del ministro all’epoca del dibattito sul Porcellum usate dal segretario per spiegare perché non può prescindere da Berlusconi. «Nessuna tensione, smentisco nella maniera più assoluta», assicura Ettore Rosato.
Di fatto, Areadem che si è schierata con Renzi, ma ha il suo leader nel governo Letta, è in difficoltà anche se fa del tutto per mostrare serenità, soprattutto per non prestare il fianco alla minoranza del partito che minaccia battaglia sulla legge elettorale.
Matteo Orfini non ha dubbi: «Io lo spagnolo lo voto solo se modificato verso il modello tedesco, siccome mi sembra che andiamo nella direzione opposto non lo voto, così come non voto il doppio turno». Questa la sua posizione, ma i Giovani turchi si confronteranno lunedì mattina per discuterne e capire se è possibile ritrovarsi tutti sulla stessa linea.

il Fatto 18.1.14
Oggi Renzi e Berlusconi possono far cadere il governo
“Se chiudi l’accordo con il Cavaliere salta tutto”: la minaccia di Letta sostenuta dalla sinistra Pd, da Alfano e dai centristi.
Il segretario ha contro i suoi e c’è chi lo avvisa “Al Senato non ce la fai”
di Luca De Carolis


Il segretario che ha stravinto tira dritto, perché “ci sono state le primarie”. Ma la minoranza che ha straperso ora lo aspetta al varco e annuncia battaglia, per la sopravvivenza. Sa che la strada verso una nuova legge elettorale è disseminata di botole, a cominciare dall’incontro di oggi con il signore dei bluff, Berlusconi. E che la crisi di governo, complice un Letta più che stufo, è a un passo. Micce perfette, per rendere la direzione Pd di lunedì la resa dei conti con Matteo Renzi. Sono pronti allo scontro, i bersaniani-cuperliani. Invocano un cambio di rotta, proprio con Gianni Cuperlo: “Sulla legge elettorale si parta da un’intesa della maggioranza: possiamo portare a casa il doppio turno, la proposta del Pd. Ma si può valutare anche un Letta bis, per ripartire”. Minacciano la fronda, con Alfredo D’Attorre: “Il sistema spagnolo non lo votiamo, è incostituzionale: sarà battaglia politica a viso aperto”. Ed è sempre D’Attorre a paventare il rischio massimo: “Se Renzi chiude il patto con Berlusconi che esclude tutti gli altri, il governo finisce domani”. Tradotto, bisogna rimettersi al tavolo con il Nuovo Centro Destra (pro doppio turno). Altrimenti sarà crisi (quasi) certa. O comunque flop in Senato, dove i numeri sono stretti, senza Ncd. E le fronde più che possibili. Perché il sistema spagnolo, quello che vuole Renzi, non prevede le preferenze. Comporta liste bloccate, cioè decise dai segretari.
INSOMMA, la minoranza del Pd lotta anche per salvarsi. Vuole vendere cara la pelle, nel lunedì in cui si voterà la proposta di Renzi sulla legge elettorale. Tappa delicata, a leggere anche la frase attribuita da Panorama a Ugo Sposetti: “Matteo deve stare attento, mettendosi d’accordo con Berlusconi rischia di ripetere gli errori di Veltroni, che dopo l’accordo con lui sulla legge elettorale perse tutto. Il Pd è un partito carnivoro, che non perdona nessuno”. Ieri mattina il segretario batteva il primo colpo via Twitter: “Legge elettorale seria, via Senato e Province, cambiare le Regioni. Mi hanno votato per questo. Molti cercano di frenare ma io non mollo”. Un messaggio rivolto soprattutto ai coinquilini di partito. Gli stessi a cui, chiudendo la direzione di venerdì, Renzi aveva spiegato che decide chi ha vinto. Ossia lui, assieme alla sua maggioranza interna: “Non è che uno tratta col premier e poi con i capigruppo, questa è la sede delle decisioni”. E buonanotte al capogruppo Roberto Speranza, che proponeva “la tripartizione governo-gruppi parlamentari-partito”. Un anonimo bersaniano protesta: “Ha voluto umiliarci: è la sua idea di partito, quella di chi tiene la prima riunione della segreteria nel suo comitato elettorale”. Come reagire? “Da giorni i cuperliani ripetono a Letta di mettere un punto. ‘Renzi continua ad attaccare il governo? Digli che ti dimetti. Poi vediamo se continua a demolire la maggioranza di cui fa parte il suo partito”.
CESARE DAMIANO, cuperliano: “Se Renzi pensa che i 10 mesi di governo siano stati un fallimento, meglio andare al voto”. Al Fatto spiega: “Se si taglia fuori Ncd dalla trattativa sulla legge elettorale, è crisi automatica. E questo provocherebbe due effetti: il crollo degli indicatori economici e un voto con la legge cambiata dalla Consulta, con cui non potrebbe vincere nessuno”. E se l’esecutivo reggesse? “I numeri in Senato non mi sembrano così scontati”. Breve ripasso: se Renzi trovasse la quadra sull’ispanico con Berlusconi, Pd più Forza Italia avrebbero 168 voti su 321. Avrebbero, se la spaccatura non fosse già conclamata. Il senatore lettiano Francesco Russo rinforza il concetto: “Un’intesa senza Ncd è una bomba sotto la sedia governo: non avrebbe i numeri, soprattutto in Senato. Anche perché c’è il voto segreto”. E poi, “Berlusconi non è affidabile, per il sì alla riforma chiederebbe qualcosa in cambio”. Il governatore toscano Enrico Rossi lascia il suo promemoria: “Berlusconi ha già infinocchiato due leader della sinistra, D’Alema e Veltroni: a Renzi ho consigliato di stare attento”. Via telefono, Giuseppe Fioroni (popolare, sostenitore di Cuperlo) soppesa i termini: “Renzi è il mio segretario e lo sostengo lealmente. Ma gli consiglio saggezza e prudenza, per evitare il Big bang, la crisi”. Cuperlo ventila un Letta-bis: “Le riflessioni di Gianni sono interessanti, fanno parte della politica”. In serata, i renziani rispondono. Francesco Nicodemo, responsabile Comunicazione Pd, “cinguetta” così: “D’Attorre minaccia (paura eh!). Consiglio un bagno di umiltà e un po’ di rispetto per i nostri elettori”. Il deputato Angelo Rughetti: “Qualcuno nel Pd spera nel fallimento di Renzi per votare a maggio con il proporzionale ed eleggere un Parlamento che lo imbrigli”. Ma lunedì quanto sarà calda la direzione? “Sarà vivace” pronostica Damiano. “Spero che non ci sia una spaccatura” prende tempo Cuperlo. Renzi non rallenta: “Il Pd balla? Non mi sembra. Votiamo sempre. Abbiamo votato anche l’8 dicembre”.

il Fatto 18.1.14
Con il condannato non si discute
di Marco Politi


Si può fare una riunione del consiglio scolastico con il professore pedofilo per discutere di programmi educativi dell’anno 2013/2014? Non si può. Non c’è da spiegare molto. Non si può.
In Italia sta accadendo di peggio. Tra poche ore saremo informati che un aspirante premier, leader del maggiore partito politico italiano, ha incontrato un pregiudicato per discutere di affari di Stato: una legge elettorale, l’abolizione del Senato elettivo. Stiamo parlando di elementi cardine del sistema costituzionale. I media italiani – t elevisione e carta stampata – stanno banalizzando l’evento in maniera imbarazzante. Quasi si trattasse della normale prosecuzione dell’uso del potere, che Berlusconi ha accumulato negli anni, e delle inevitabili (o evitabili) trattative politiche che si fanno con chi detiene una fetta di potere. Non è così. Come diceva un diplomatico francese, “le forme non sono importanti, salvo quando vengono meno”. In certi quartieri di Palermo, se ti occupano abusivamente la casa, puoi andare dalla polizia e dai giudici – e l’esito sarà lungo, forse incerto – oppure ti rechi dal capomafia di quartiere. Entro ventiquattr’ore l’abusivo sparisce. Ma non è gratis. Non perché lo ‘zu ti chiede soldi, non è mica un poveraccio… quando sarà ti presenterà il conto.
Berlusconi è un personaggio condannato e interdetto. C’è un prima e un dopo, sebbene un’insistente ondata propagandistica tenti di confondere le acque. Prima della condanna definitiva era una personalità che a buon ragione risultava repellente a molti e – in nome del libero arbitrio – poteva piacere ad altri. Dopo la sentenza della Cassazione il suo status è mutato per una sentenza emessa in nome del “popolo italiano”, che ha – dovrebbe avere – una valenza nazionale. È una persona caratterizzata da una “naturale capacità a delinquere mostrata nella persecuzione del (proprio) disegno criminoso”, come hanno sancito i giudici del processo Mediaset.
CON LA FRESCA arroganza di chi è pervenuto a un posticino di potere per grazia del sovrano, l’economista Filippo Taddei membro della segreteria del Pd ha dichiarato l’altra mattina a Omnibus a chi gli chiedeva dei dubbi sull’incontro Renzi-Berlusconi: “Francamente non capisco il senso della questione”. Peccato, perché è ipotizzabile che abbia viaggiato in Europa e si sa per certo che ha vissuto negli Stati Uniti.
L’incontro tra un politico incensurato e un pregiudicato è inconcepibile in qualsiasi capitale democratica dell’Occidente. Un evento del genere è escluso a Washington come a Berlino, a Parigi come a Londra. Nixon era stato eletto nel 1972 con 47 milioni di voti. Nel momento in cui fu riconosciuto responsabile dei reati connessi allo scandalo Watergate, non fu più un interlocutore per nessuno. Punto. I democratici americani hanno continuato ovviamente a trattare e fare politica con i repubblicani, ma il colpevole di reati era pubblicamente fuori gioco. Perché c’è un confine invalicabile tra l’onorabilità pubblica prima e dopo una condanna. Anzi nei paesi anglosassoni e a democrazia matura c’è anche un secondo confine, quello della condotta “appropriata” o “inappropriata”, che riguarda la correttezza del comportamento pubblico e prescinde dai procedimenti penali. Per cui il politico, beccato con lo scontrino delle mutande messo in conto al contribuente, sparisce subito dalla circolazione e nessuno dei suoi sodali di partito grida al complotto. Semplicemente perché “non si può”.
In Italia la classe politica rimuove costantemente questo discrimine di etica pubblica per cui i più grandi cialtroni possono gridare che non sono indagati, facendoci ridere dietro all’estero. Ma pazienza. La maggioranza paziente si accontentava di aspettare le sentenze definitive della magistratura, augurandosi che avessero un senso erga omnes.
Il fatto che da noi si voglia ora platealmente varcare il limite tra chi ha la titolarità di buona fede per stare sulla scena pubblica è chi è interdetto per gravi reati costituisce un ulteriore allontanamento dell’Italia dallo standard dei paesi europei e occidentali. Dove “ulteriore” significa ammettere con tristezza che l’ultimo ventennio ha visto il nostro paese scendere sempre più in basso, ma c’era la speranza piccola, flebile, che il novembre 2011 e l’accertata criminalità con sentenza definitiva dell’agosto 2013 potesse segnare un piccolo, graduale passo verso il ritorno all’Europa.
DICIAMO, a scanso di equivoci, che a milioni di cittadini delle beghe interne del Pd non interessa niente. E meno che mai interessa il politichese con cui il vertice imminente (o avvenuto) viene ammantato. Ci sono invece milioni di cittadini, che pagano le tasse, e tanti milioni che a destra, centro e sinistra sentono il valore della legalità e vorrebbero uscire dal degrado istituzionale. E c’è quell’umanità pulita vista due anni fa in Piazza del Popolo nel giorno di “Se non ora, quando? ” .
Questa Italia capisce perfettamente il “segno” di questo vertice voluto da Renzi, che cancella il confine tra ciò che è sostenibile nel costume democratico e ciò che non lo è. Che mette sullo stesso piano della presentabilità l’evasore e chi non lo è.
Raccontava Piercamillo Davi-go che nei dibattiti, quando il discorso scivolava sul “tanto rubano tutti”, lui si fermava e domandava: “Lei ruba? Io no. Allora siamo già in due”. Tanto per rimarcare la frontiera. Da oggi, nella società di comunicazione visiva in cui siamo immersi, il messaggio è chiarissimo. Tra Davigo e Berlusconi non c’è nessuna differenza.

Corriere 18.1.14
L’intervista L’ex viceministro: «Se continua questa ambiguità del Pd, meglio votare. Anche con la legge frutto della Consulta»
Fassina: il governo non può più andare avanti
«Passando dal Porcellum al Verdinum si rischia di spaccare l’esecutivo»
intervista di Monica Guerzoni

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Corriere 18.1.14
Le resistenze fuori tempo massimo
di Massimo Franco


La ribellione di una parte del Pd contro Matteo Renzi sta lievitando. Eppure ha tutta l’aria di essere tardiva, difensiva, promossa più per gestire una sconfitta che per invertire una tendenza.
Da tempo era chiaro che per il nuovo segretario la riforma elettorale sarebbe diventata una specie di medaglia da appuntarsi al petto; oppure un grimaldello per tentare di scardinare ciò che rimane delle larghe intese. Il modo in cui si è mosso ha confermato una determinazione e una spregiudicatezza tali da spiazzare in primo luogo il proprio partito; ma anche in grado di accelerare le prospettive di una legge attesa da troppo tempo. Si vedrà se l’incontro odierno con Silvio Berlusconi, contro il quale il Pd bersaniano è insorto, produrrà risultati e quali. Ma l’idea di imbrigliare Renzi adesso, come denuncia il suo alleato e consigliere Angelo Rughetti, suona velleitaria e fuori tempo massimo. Soprattutto se ci si limita a demonizzare il colloquio con uno dei capi delle opposizioni. Potrebbe perfino ritorcersi contro chi la coltiva, perché sottolinea un ritardo di comprensione e un atteggiamento politico tesi a frenare e bloccare un leader scelto alle primarie per cambiare. Per quanto il suo metodo rischi di far saltare tutto e portare l’Italia verso un’avventurosa campagna elettorale, l’ultimo a potersene dolere appare proprio il Pd. Renzi è il prodotto dell’immobilismo e delle frustrazioni della sinistra. Rappresenta l’adozione di un modello di leadership «alla Berlusconi» per emanciparsi dalla subalternità al Cavaliere. È stato investito dopo primarie sempre esaltate come un «bagno di democrazia», per quanto, almeno in passato, pilotate dall’apparato: una nomenklatura talmente paralizzata dai veti reciproci che non è riuscita a opporgli un candidato davvero forte. Se Renzi riuscirà a saldare l’asse con Berlusconi tramite l’amico fiorentino Denis Verdini, coordinatore di FI, la coalizione di governo promette di esplodere. Sarebbe difficile, infatti, chiedere ad Angelino Alfano ma anche a Scelta civica di avallare una riforma elettorale che significherebbe la loro fine.
Meglio, per loro, andare a votare con ciò che resta del vecchio sistema dopo la bocciatura della Corte costituzionale: e cioè il proporzionale puro. Come minimo, costringerebbero gli altri partiti a ricostituire una maggioranza di larghe intese, perché nessuno verosimilmente otterrebbe abbastanza voti. Esiste anche l’eventualità che alla fine uno scontro segnato dall’istinto di sopravvivenza delle singole forze politiche, si risolva in un compromesso. Roberto D’Alimonte, il professore della Luiss che in queste settimane è diventato il consigliere principe di Renzi su seggi e percentuali, sta cercando la cosiddetta quadratura del cerchio. Se riuscisse, e sarebbe un miracolo, l’azzardo renziano si rivelerebbe una vittoria. Altrimenti, fare previsioni diventerebbe impossibile. Un’affermazione dello schema del segretario è destinata però a rendere residuali gli alleati di Enrico Letta; e dunque ad affossare il governo a pochi mesi dall’inizio del semestre di presidenza italiana del Consiglio europeo. E, cosa paradossale per il Pd, con un patto sulle regole che restituirebbe, anzi ha già restituito a Berlusconi un ruolo a dispetto delle condanne e della decadenza da senatore. Gli avversari sostengono che il leader dei Democratici sta «bluffando», perché in Parlamento i numeri sono a favore del governo. È probabile che alle Camere Letta abbia ancora la maggioranza: nessuno vuole andare a casa ad appena un anno dalle ultime elezioni. Ma lo sfondo è cambiato. Dopo la scissione del Pdl tra Forza Italia e Nuovo centrodestra, l’arrivo di Renzi mostra una sinistra spaccata sulle «larghe intese», in modo simmetrico e opposto agli avversari. Le incognite si sono spostate tutte a sinistra. E sulla riforma elettorale il danno o il vantaggio politico possono rivelarsi tali da bruciare o consacrare una leadership. C’è solo da sperare che il Pd si renda conto di quanto questa competizione al suo interno possa costare al Paese. E che sappia che stavolta Berlusconi non può essere più usato come alibi.

Corriere 18.1.14
Tre proposte e molti dubbi
di Giovanni Sartori


Il nostro Gian Burrasca, pardon, volevo dire il nostro vivacissimo Matteo Renzi, al momento minaccia burrasca sulla legge elettorale. Ha ragione. Una cinquantina di anni fa scrivevo che il sistema elettorale è lo strumento più manipolabile, e allo stesso titolo più decisivo, di tutto l’armamentario politico delle democrazie.
L’originalità del nostro Renzi è di proporre ben tre sistemi elettorali (l’uomo è generoso) che hanno un solo inconveniente: di essere tutti e tre sbagliati. Ma Renzi ha la parlantina facile, troppo facile per dargli il tempo di leggere e di informarsi. Però si è scelto un guru, Roberto D’Alimonte, che è guru perché vuole essere primo e anche solo, tra tutti i politologi italiani. Beninteso, lui è il più bravo. Sarà, ma forse non sarà. E veniamo alla sostanza.
Il primo sistema proposto da Renzi è il sistema spagnolo: piccole circoscrizioni che eleggono 5-6 rappresentanti il che implica di fatto un’alta soglia di sbarramento. I nostri specialisti propongono, in aggiunta, un premio di maggioranza che gli spagnoli non hanno e che insospettisce perché il troppo è troppo. Comunque è vero che il sistema spagnolo ha prodotto, fino a poco fa, un sistema bipartitico. Ma è così perché la contrapposizione a due c’era già: era una eredità della guerra civile che contrappose sanguinosamente una sinistra crudelmente dominata dai comunisti, a una destra franchista anch’essa macchiata di molto sangue, e si intende, anti-comunista.
Dunque alla morte del generale Franco una struttura bipartitica era fortemente radicata nella memoria storica della Spagna. Il che equivale a dire che non fu un prodotto del sistema elettorale. Pertanto non è vero che il sistema spagnolo importato in Italia produrrebbe un sistema bipartitico. Se il Grillismo reggerà, i partiti dominanti risulterebbero tre e così saremmo in uno stallo.
La seconda proposta sarebbe un ritorno al Mattarellum, cioè ad un sistema proporzionale puro, corretto però da un premio di maggioranza. Ma oramai abbiamo raggiunto un livello di frammentazione partitica che forse potrebbe non fare scattare nessun premio.
Resta la terza proposta che distingue il professor D’Alimonte da quasi tutti i cultori della materia e che il nostro inventore chiama «doppio turno di collegio». La denominazione fa confusione e confonde anche me. Comunque il punto che deve essere fermo e chiaro è che il doppio turno funziona a dovere solo se non consente coalizioni, solo se al primo turno ogni partito si deve presentare da solo. Detto per inciso questo è anche l’unico sistema che consente preferenze genuine degli elettori e che allo stesso tempo assicura in ogni caso gover- nabilità. Di questo ho già scritto in un libro e varie volte sulle colonne del Corriere . Non mi posso sempre ripetere. Ma vedi per tutti l’articolo Tanto semplice che non si farà del 20 ottobre 2012.
Ma se Renzi mi leggesse (solo su questo punto, per carità) forse eviterebbe gli errori che sta per fare o far fare. Un buon sistema elettorale non è un sistema approvato da tutti. Questa è pura demagogia. È un buon sistema quello che riduce i piccoli partiti e che ovviamente i piccoli partiti avversano fino all’effusione del sangue. Come, per esempio, il doppio turno possibilmente collegato ad un semipresidenzialismo come da tempo praticato con successo in Francia. Ancora un punto. Tutti ripetono che la legge elettorale non basta. Sì e no. Può bastare a produrre governabilità, certo non basta a produrre buoni governi che governino bene. Come è ovvio.

l’Unità 18.1.14
La difesa di De Girolamo convince solo il suo partito
La ministra in Aula: «Io vittima di un complotto per avere detto dei no»
Il Pd: «Sia il premier a valutare il da farsi, ma un passo indietro sarebbe opportuno»
Il M5S: «Avanti con la sfiducia»
di Claudia Fusani


Ce l'ha messa tutta il ministro Nunzia De Girolamo: quaranta minuti di autodifesa serrata equamente suddivisi tra cuore e fatti, i frati dell’ospedale, le mozzarelle e i presidi sanitari del beneventano, appalti, nomine e 118. Quaranta minuti in cui ha chiesto di «valutare tutta la situazione con onestà intellettuale» giurando un po’ sulla figlia che «quando sarà grande non dovrà mai dubitare» e persino sul tricolore «a cui mi inginocchio ogni mattina entrando in ufficio».
Ce l’ha messa tutta. Ma il risultato non è un granchè. L’aula di Montecitorio che resta per tutta la mattina più vuota che piena così come i banchi del governo, alla fine non è affatto soddisfatta. Escluso il Nuovo centrodestra, il Pd mette la palla avvelenata un’altra nelle mani del premier Letta. E resta forte la sensazione che Nunzia De Girolamo dovrà presto fare, per scelta o per forza, un passo indietro. Cosa poi questo voglia dire nella tenuta del governo Letta, è faccenda che s’intreccia in queste ore con l’altra grande incognita, la legge elettorale, chi-la-fa-con-chi e di-chetipo. Ma prende piede la suggestione che Benevento torni centrale e decisiva per determinare crisi politiche come ai tempi di De Mita e Mastella. Fu sempre un’inchiesta sulla sanità, che coinvolse la moglie dell’allora ministro Guardasigilli, a determinare nel febbraio 2008 la crisi del governo Prodi.
Di sicuro, quello che si è toccato ieri con mano e con gli occhi è il declino di una coppia di giovani Nunzia e il marito Francesco Boccia (Pd) Giulietta e Romeo del Parlamento diviso tra Montecchi e Capuleti: un tempo coppia simbolo delle larghe intese e ora alle prese con una campagna difficile da fermare.
Ma torniamo al caso. I toni sono quelli della «vittima del complotto», della giovane politica, nonché donna, che ha sempre «rifiutato le richieste di persone autorevoli» e non ha «mai sponsorizzato nessuno» e che «adesso paga tutti quei no». Raccontano dell’«impalcatura dello Stato sovvertita da manovratori occulti». La sostanza viene di conseguenza. «Nessun direttorio politico-partitico», rivendica la ministra. O, almeno, lei certo non mai preso parte a quel sistema così descritto dal gip di Benevento che il 27 dicembre scorso ha mandato agli arresti domiciliari quattro imprenditori e due dirigenti della Asl con l’accusa di truffa e peculato.
«Mai e poi mai scandisce le parole stringendo tra le mani i fogli con il discorso il mio nome è coinvolto in questa truffa che riguarda altre persone, una delle quali ha costruito il dossier abusivo e illegittimo su di me, frutto di un complotto ordito ai miei danni». Si tratta delle 27 ore di conversazioni “rubate” nel luglio 2012 con un telefonino in casa dell’allora deputato Pdl appena diventata mamma da Felice Pisapia che poi le ha consegnate al pm come fonte di prova (quindi spiate ma non illegittime). De Girolamo giura di non aver mai esercitato alcuna pressione per la licenza del bar dell’ospedale Fatebenefratelli (privato) tolta a uno zio e affidata alla cugina con buona pace, come risulta nelle trascrizioni, di «quei tirchi di frati che hanno chiesto l’avviamento commerciale». Falso che lei abbia fatto togliere la multa di qualche migliaio di euro al suo amico che fa le mozzarelle. «Mai guidato nomine di primari» e sul territorio «ho solo combattuto per il popolo che chiede una sanità migliore». Su amici e parenti assunti al ministero, il ministro rivendica il suo spoil system: «Giudicate per quello che stiamo facendo, ad esempio sono state ridotte da sette a tre le società controllate del ministero».
Spending review. Ma neppure questo convince. Il premier Letta non si fa mai vedere. Sui banchi del governo c’è tutto il Nuovo centrodestra, il vicepremier Alfano che poi si passa il testimone a Lupi. Quagliariello le resta accanto tutto il tempo. Non si vede neppure una delle amiche deputate di Forza Italia di cui pure Nunzia è stata una delle leader. La solitudine: l’altra grande amarezza. Boccia, il marito, resta tutto il tempo al suo posto in aula. Il presidente del Pd Gianni Cuperlo punta il dito sul «lato politico della faccenda che riguarda criteri di opportunità e contesto e non è tema solo giudiziario». E poi: «Sia Letta a valutare il da farsi. Ma un gesto del ministro le consentirebbe di difendere la sua onorabilità». Scelta civica, che ne ha chiesto le dimissioni, dice: «Valuti il ministro se si sente a suo agio». I Cinquestelle insistono con la mozione di sfiducia.
Ieri sera a Otto e 1/2 Nunzia De Girolamo ha tentato la sua ultima arringa. Ma diventa difficile, ora, gestire anche il caso del mercato delle bobine, le intercettazioni postume consegnate al Tg5 che raccontano del complotto di una frangia del Pd beneventano contro il sistema di potere del ministro. Dovevano servire a discolpare. Ma la pezza potrebbe essere peggiore del buco. «Quelle registrazioni sono false, i periti del pm che le hanno acquisite lo sapranno dimostrare», ha detto l’onorevole Umberto Del Basso de Caro. Che sarebbe l’altra faccia del complotto. Volano stracci a Benevento. Il problema è che sono arrivati sul governo.

l’Unità 18.1.14
Rappresentanza: la Cgil approva, Landini si sfila
Tutte le categorie e tutti i territori danno il via libera al documento della segreteria, tranne il leader Fiom
Camusso chiede una legge al Parlamento
di Massimo Franchi


Quella che agli occhi di tutti pareva una vittoria della Cgil l’accordo sulla rappresentanza con la possibilità di far votare i lavoratori sugli accordi e di superare la stagione dei contratti separati di Cisl e Uil si tramuta in una frattura interna forte e difficilmente rimarginabile alla vigilia di un congresso unitario che rischia di diventare diviso.
Il Direttivo di ieri ha sancito la spaccatura con la Fiom. Con Landini che ha annunciato: «Se non ci sarà il voto dei lavoratori, per noi il nuovo testo non è vincolante, il nuovo accordo riduce il ruolo, la titolarità negoziale e l’autonomia delle categorie. È un accordo continua Landini che non può essere fatto discutendo a porte chiuse in un direttivo. È evidente che c’è una crisi democratica nella Cgil: non è democratico firmare un accordo e poi dire a tutti: ditemi di sì perchè altrimenti c'è la fiducia sul segretario».
Il problema per Landini è però quello di essere praticamente isolato. Nel parlamentino della Cgil ieri tutte le categorie e i territori hanno votato compatti il documento di Susanna Camusso, mentre sia l’«Area 28 aprile» (quella di Giorgio Cremaschi che ha presentato una sua mozione congressuale) sia la sola piccola componente di «Lavoro e Società» (Nicola Nicolosi) sono per ragioni diverse contrari all’accordo, ma hanno deciso di non partecipare al voto. Il risultato finale è stato dunque quello di 95 Sì al documento della segreteria che approva il Testo unico sulla rappresentanza, 13 a quello Landini e 2 astenuti.
Nella sostanza Landini contesta il fatto che il Testo unico sulla rappresentanza sottoscritto da Susanna Camusso (assieme a Squinzi, Bonanni e Angeletti) il 10 gennaio sia in realtà un «nuovo accordo» (non il sunto di quello del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013) e come tale sia stato firmato senza essere stato discusso in Cgil. I due punti inaccettabili per la Fiom sono la previsione di sanzioni per i rappresentanti sindacali in caso di mancata esigibilità dei contratti nazionali (con possibile «temporanea sospensione dei diritti sindacali») e la costituzione di un collegio di conciliazione e arbitrato che gestirà la fase transitoria per garantire l’esigibilità dei contratti «proprio nell’anno e mezzo in cui si rinnoverà il contratto dei metalmeccanici».
«UNA LEGGE SERVE COMUNQUE»
La segreteria (il testo è stato preparato da Elena Lattuada e Fabrizio Solari) invece sostiene che «l’insieme di queste regole disegna un modello di rappresentanza trasparente, democratico e fortemente partecipato» e «riconferma il valore del Contratto nazionale». Il documento approvato poi riassume i punti del Testo unico: «la certificazione della rappresentanza», «le Rsu elette col sistema proporzionale puro», «l’efficacia ed esigibilità dei contratti solo se avranno il consenso della maggioranza dei lavoratori». Poi si arriva al punto più delicato: «il Testo unico delimita le clausole di esigibilità che i futuri contratti dovranno definire rendendole operanti per entrambe le parti». Infine arriva un messaggio per il Pd (e la stessa Fiom): «La sottoscrizione delle nuove regole, unitamente al pronunciamento della Corte Costituzionale, può realmente determinare le condizioni per la Legge su democrazia e rappresentanza». Come dire, la legge serve ancora e noi la vogliamo. La conclusione parla della scelta di «diffondere e condividere con gli iscritti e le iscritte nelle assemblee congressuali questo dispositivo». In realtà dunque un voto ci sarà nelle assemblee ma riguarderà tutti gli iscritti e soprattutto non avrà valore vincolante.
Il venerdì 17 della Cgil era cominciato con la relazione di Susanna Camusso. Che aveva difeso il testo, spiegato che il termine «sanzioni» (non previsto nell’accordo del 31 maggio nel quale si parlava di «conseguenze») era riferito alle imprese per cui sono previste «sanzioni pecuniarie».
La spaccatura tra Fiom e confederazione è quindi netta. A precisa domanda Landini ha spiegato che l’uscita dalla confederazione «non esiste, la Fiom è la Cgil, non ho nessuna intenzione di andare via dalla Cgil, sono dentro le regole della Cgil e ne chiedo l'applicazione, non mi sento isolato», ma che «non escludo nulla da qui in avanti, la Cgil si assume una grande responsabilità e decideremo assieme ai metalmeccanici cosa fare». La prima mossa della Fiom dovrebbe essere un nuovo emendamento (che però sarà presentato da lavoratori perché è scaduto il termine per le federazioni) per votare sull’accordo nel congresso.
Da Corso Italia traspare amarezza. «Non è possibile credere si fa sapere che una categoria del prestigio e della storia della Fiom, che ha avuto segretari come Lama e Trentin, possa porsi al di fuori dello Statuto della Cgil che lei stessa ha contribuito a scrivere».

il Fatto 18.1.14
“Che fai mi cacci?”, scontro Landini-Camusso
Il sindacato vara l’intesa sulla rappresentanza. La Fiom: la violeremo
Il leader delle tute blu paga l’alleanza con Renzi
di Salvatore Cannavò


Che fai mi cacci? Le parole di Maurizio Landini, intervenendo ieri al direttivo nazionale della Cgil, non sono queste ma il concetto sì. Lo scontro tra il segretario della Fiom e la leader della Cgil, Susanna Camusso, è tornato a livelli altissimi con il capo dei metalmeccanici intenzionato a non rispettare l’accordo sulla rappresentanza siglato dalla Cgil con Cisl, Uil e Confindustria e che il direttivo del principale sindacato ha approvato ieri con 95 voti a favore, 13 contrari e 2 astenuti. Maggioranza ampia per Camusso, quindi, circa l’85%, anche se una quindicina di delegati dell’area Lavoro e Società di Nicolosi e dell’opposizione di Cremaschi non ha partecipato al voto. Il segretario generale è del tutto tranquilla e soddisfatta per il lavoro svolto. E non si è scomposta quando Landini, con cui pure sta svolgendo unitariamente il congresso Cgil (che si concluderà a inizio maggio), è salito sul palco e le ha rivolto, in un intervento duro, tutta la propria ira.
LA FIOM CONTESTA alla Cgil di aver fatto un accordo che, di fatto, si ispira al modello Marchionne con le sanzioni per chi non rispetta gli accordi e con la possibilità di un comitato arbitrale composto dalle confederazioni e dagli industriali per sanare i contenziosi. Il segretario delle tute blu contesta il merito e la forma dell’intesa della scorsa settimana: “Con che faccia andrete a Pomigliano a spiegarlo? ”. Poi l’avvertimento più importante: “Se pensate di limitare l’autonomia della Fiom tramite la Cisl, la Uil e la Confindustria, noi non ve lo faremo fare, chiaro? Per noi, ha aggiunto, quel testo non è vincolante e non lo rispetteremo”.
GELO DELLA SALA e della stessa Camusso che non ha fatto una piega e ha messo ai voti un testo in cui si conferma tutto il lavoro svolto dalla segreteria puntando sugli elementi positivi dell’intesa: la “continuità con gli accordi” precedenti; la rappresentanza finalmente “trasparente” con la certificazione di iscritti e voti; la possibilità di validare gli accordi solo se firmano delegati o sindacati che rappresentino il 50% più 1; l’abolizione della quota garantita del 33% a Cgil, Cisl e Uil nelle Rsu. Quanto al punto dolente, le sanzioni per chi non rispetta i contratti firmati, la Cgil invita a considerare due aspetti: “Per la prima volta si applicano le sanzioni anche alle aziende” dicono gli uomini della Ca-musso e “si dà la possibilità a chi è rimasto fuori dagli accordi, come la stessa Fiom tra i metalmeccanici, di rientrare ai tavoli”. Camusso non sembra badare all’avvertimento di Landini: “Chi non rispetta le nostre decisioni si mette fuori dallo Statuto”.
Lo scontro ha anche un aspetto politico. Chi ha assistito alla contesa con uno sguardo più distaccato, come gli uomini di Cremaschi – unico a presentare un documento alternativo al congresso – pensa che al leader Fiom sia stata fatta pagare anche l’alleanza improvvisa con Matteo Renzi. Il grosso della Cgil ha sostenuto Gianni Cuperlo alle recenti primarie e una che in quella contesa ci ha messo la faccia, come Carla Cantone dei Pensionati, in passato riavvicinatasi a Landini, ieri si è schierata con Camusso. Di Renzi, in particolare, la Cgil teme la promessa fatta a Landini di realizzare una legge sulla rappresentanza fatta al di fuori dal confronto con i sindacati. “Con questa intesa ci siamo ripresi una materia che è nostra” si è sentito dire negli interventi. Anche per questo, in asse con Bonanni e Angeletti, Camusso ritiene che se una legge vuole essere elaborata – la Cgil ricorda che la sua richiesta di applicare l’articolo 39 della Costituzione risale al 1989 – dovrà basarsi sul testo dell’intesa approvata ieri dal direttivo.
LANDINI HA ASSICURATO che non intende lasciare la Cgil e che non si sente affatto isolato. Il voto del direttivo non lo sorprende e viene dato per scontato. Anche perché ha registrato un avvicinamento con l’area di Nicolosi, formalmente in maggioranza ma che parla apertamente di “un problema di democrazia” interno alla Cgil. Stesse parole utilizzate da Gianni Rinaldini, ex segretario Fiom. Alla sua sinistra, però, si muove l’area di Giorgio Cremaschi che spera di essere premiata nella partita congressuale. Anche perché il testo approvato ieri sarà “diffuso e condiviso” in tutte le assemblee congressuali ma non sarà messo ai voti. Il suo documento potrebbe beneficiarne. Per Landini si riapre comunque la strada dello scontro interno. Che potrebbe precipitare quando si verificherà il primo “incidente”, cioè un accordo contestato dalla Fiom. “Se non rispetta le decisioni” dicono in segreteria, “Landini si mette fuori dallo Statuto”. Appunto, che fai mi cacci?

Corriere 18.1.14
Lo scontro tra Camusso e Landini e quel congresso di cinque mesi
di Dario Di Vico

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Corriere 18.1.14
Un’aggressione notturna, le tensioni del Ghetto
Riunita d’urgenza la giunta della comunità
Due episodi a distanza di pochi giorni
Un gruppo di giovani denuncia di essere stato ferito dopo aver staccato un manifesto che ricordava Sharon
di Andrea Garibaldi

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il Fatto 18.1.14
Suora incinta “a sua insaputa”
“Una colica renale”: invece partorisce un bimbo - Francesco - di 3,5 kg
“È impossibile”
di Silvia D’Onghia


Avevamo notato che era ingrassata, ma non potevamo sospettare. Ultimamente si era chiusa molto anche con noi”. Del resto in un convento adibito a casa di riposo per anziani ne succedono talmente tante che non si può star dietro a tutto. E così nessuna delle consorelle si è accorta che lei, suorina salvadoregna di 32 anni, in Italia da tanti anni, nel più totale e assoluto riserbo, approfittando del cancello aperto, lunedì mattina ha chiamato l’ambulanza e si è fatta portare al San Camillo De Lellis di Rieti, a pochi chilometri dalla località di Campomoro, sede delle Piccole Discepole di Gesù. Aveva un forte mal di pancia, credeva di avere una colica renale – ha raccontato dolorante ai medici –, e figuriamoci se poteva sospettare che quella massa informe che si sentiva muovere nell’addome poteva essere, udite udite, un bambino.
Francesco, per la precisione, come raccontano le cronache reatine, un pupo di ben tre chili e mezzo – alla faccia della colica renale – venuto alla luce, con ben poco di spirituale, mercoledì mattina. Un figlio a sua insaputa, “non è possibile, sono una suora”, e giù rosari e Avemarie per chiedere perdono e soprattutto lo sguardo interrogativo delle ostetriche, delle infermiere, dei ginecologi, delle suore e della madre superiora, e persino delle altre puerpere che, nell’imbarazzo generale, almeno hanno avuto la splendida idea di fare una colletta per il corredino di Francesco. Che mica vorrai lasciarlo nudo come Gesù, ‘sto bambino nato quindici giorni dopo il Natale. A nulla è servito il riserbo dell’ospedale, la notizia è uscita comunque.
CHI SARÀ STATO?, si chiedono tutti adesso in città. Gli esempi epici si sprecano, e allora ci si segna il petto, anche se c’è qualcuno che insinua – malpensante – una presenza furtiva in convento, una notte di nove mesi fa, qualcuno che si è introdotto al buio e ha approfittato della sorella. Oppure un momentaneo ritorno in patria, giusto qualche mese fa, ha suggerito il parroco della parrocchia Regina Pacis di Rieti, don Fabrizio Borrello, il quale ha voluto mettere in evidenza l’estrema semplicità della suora. Francesco, figlio dell’ignoranza. “Non ha saputo resistere alle tentazioni – ha monitato la madre superiora, preoccupata che un evento, in fondo lieto, possa trasformarsi in un enorme boomerang per la comunità –. Non ha fatto del male a nessuno, e proprio non riesco a capire perché ci sia così tanta attenzione attorno a questa storia”. In effetti una suora incinta a sua insaputa è una vicenda all’ordine del giorno. E così tutte le suore sono rimaste in convento, ad accudire i loro anziani, mentre ad assisterla è rimasta una sola consorella. Quel poco che si sa è che la sorella – anzi, la madre – terrà il bimbo, ma dovrà rinunciare alla vita monacale. Ma chissà che dirà di quel piccolo, suo omonimo forse non a caso, papa Francesco. Chissà se la sua rivoluzione arriverà ad ammettere che anche una suora, in fondo in fondo, è anche una donna e che, a differenza di Eva, può cedere alle tentazioni senza rischiare l’inferno.

La Stampa 18.1.14
A Sua insaputa
di Massimo Gramellini

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Corriere 18.1.14
Con l’aborto sarebbe stata scomunicata
di Luigi Accattoli


«Questa suora dovrà lasciare la vita religiosa e del resto lei stessa già si propone di fare questo, ma non sono da prevedere altri provvedimenti canonici a suo carico. Le dirò poi che certamente c’è la mancata fedeltà a un voto, cioè a un impegno solenne, e questo in me provoca rammarico, ma va apprezzato il fatto che la gravidanza non si sia conclusa con l’aborto e infine va detto che una vita è sempre un dono del Signore. Noi dunque le saremo vicini e confido che anche la nostra gente possa capirla e aiutarla»: è serena la reazione del vescovo di Rieti Delio Lucarelli che invita a trattare la vicenda «con il rispetto che sempre meritano le persone anche quando sbagliano, come ci insegna papa Francesco». Per il Diritto canonico (canone 696) la maternità di una «consacrata» è una «violazione» del «voto di castità» che comporta la «dimissione dall’istituto» cioè l’obbligato abbandono della famiglia religiosa di appartenenza. Se avesse abortito la suora — come ogni altra donna — sarebbe incorsa nella scomunica. Quanto a papa Francesco non abbiamo sue parole su casi simili, ma da arcivescovo di Buenos Aires si trovò a trattare con preti che l’informavano di avere un figlio e risulta che si adoperasse perché lasciassero il sacerdozio e si occupassero del bambino. Nel libro «Il Cielo e la terra» ( tradotto ora da Mondadori e pubblicato in Argentina nel 2010) così parla di quei casi: «Il diritto naturale viene prima del suo diritto in quanto prete, di conseguenza deve lasciare il ministero e farsi carico del figlio, anche nel caso decida di non sposare la donna. Perché come quel bambino ha diritto ad avere una madre, ha anche il diritto di avere un padre con un volto».

il Fatto 18.1.14
Francesco, via alle fiction. E quelle su Ratzinger?
di Patrizia Simonetti


Morto un Papa se ne fa un altro. Una volta forse. Non era mai accaduto che in Vaticano convivessero due Pontefici e si incontrassero pure per scambiarsi gli auguri di Natale, situazione surreale cui però ci siamo abituati in fretta, come al fatto che Francesco auguri buon appetito, telefoni di persona a chicchessia, predichi una Chiesa povera e metta mano allo IOR, ma che sia conteso tra Pietro Valsecchi e Claudia Mori come soggetto della prima fiction su un Papa vivente, per dirla alla Rokko Smitherson un po’ ci perplime, che poi magari porta pure sfiga.
Almeno nel 2005 Mediaset attese 15 giorni dalla morte di Wojtyla per mandare in onda Karol-Un uomo diventato papa, con la seconda puntata nel giorno dell’elezione di Ratzinger: un tempismo perfetto che contribuì a sfiorare il 44% di share. Più paziente fu la Rai che aspettò novembre per Giovanni Paolo II, attesa premiata da più di 11 milioni di spettatori. Cos’è ora tutta questa frenesia? Che forse sia stuzzicata da quel profumo di successo sicuro che solo le fiction religiose, biografie papali in primis, sembrano garantire? Fatto sta che la Taodue annuncia un film in due puntate tratto da Francesco-Il Papa della gente della vaticanista argentina Evangelina Himitian che ne ripercorre la vita dall’infanzia al vescovato, passando per gli anni della dittatura militare durante i quali, racconta l’autrice, aiutò molte persone. Per la regia Valsecchi ha scelto Roberto Faenza che si dice “pronto” per questa “bella opportunità”, per protagonista Antonio Banderas che ora qualcuno dovrà convincere a traslocare dal Mulino Bianco al Vaticano.
LA MORI INVECE va sul sicuro e si affida alla regista dei santi Liliana Cavani che le ha fatto leggere La lista di Bergoglio, libro del giornalista dell'Avvenire Nello Scavo che punta a dissipare ogni dubbio sull’ipotizzata connivenza di Jorge Mario con il regime militare argentino, persuadendola poi ad acquistarne i diritti per una mini serie da proporre alla Rai, che però sta già per sfornare l’ennesima fiction su Wojtyla. Peccato. L’assurdo è che si facciano i conti senza l’oste perché sembra non fregare a nessuno che Papa Francesco continui a ripetere che no, non vuole vedere la sua vita raccontata in TV, e fu chiaro nell’incontro di dicembre con i Bernabei di Lux Vide: belle le vostre fiction su Don Matteo, Suor Angela e San Filippo Neri, continuate pure, ma a me lasciatemi stare. Possibile che non lo ascolti nessuno? Forse dovrebbe telefonare... a un avvocato.

il Fatto 18.1.14
Grillo: “Non candideremo Vattimo alle Europee”
Gianni Vattimo Autocandidato per il M5S
“Perché Rodotà va bene e io no?”
di Emiliano Liuzzi


La sua candidatura alle Europee con il Movimento Cinque Stelle è durata lo spazio di poche ore. Una telefonata a Beppe Grillo, l’iscrizione in Rete, la trombatura: ha superato i due mandati, dunque non è candidabile. Dire che il professor Gianni Vattimo l’abbia presa bene sarebbe sbagliato: è furioso. Disposto ad andare fino in fondo, a sottoporsi lui stesso al giudizio della Rete. Si sente discriminato, dice lui. Come la Lega fa con la Kyenge.
Partiamo dall'inizio, professore: è lei che ha contattato Grillo, giusto?
Sì, l’ho chiamato e gli ho detto: io ci sono, sono disposto a candidarmi con voi.
Grillo era euforico?
No, non esageriamo. Però non mi ha chiuso la porta in faccia. Mi ha detto che avrebbe consultato il regolamento, che gli avrebbe fatto piacere, che il passaggio dall'Italia dei valori, dove sono eletto a Strasburgo, al Movimento Cinque Stelle era un passaggio naturale.
Sembrava un'apertura.
Assolutamente sì.
Poi cosa è successo?
Che Grillo ha spiegato che avevo già fatto due mandati, dunque non ero candidabile, né compatibile con quelle che sono le loro regole. Si impiccano da soli.
Vero che si sente discriminato?
Sì, assolutamente. Mi tengono lontano come un appestato. Ma io non ho fatto due mandati con il Movimento Cinque Stelle, di cui sono un recente iscritto. Non capisco perché Rodotà era il loro candidato alla presidenza della Repubblica e io non posso esserlo alle Europee. Io e Rodotà abbiamo un percorso simile. Non che mi paragoni a lui, ma siamo passati dal Partito comunista, dai Radicali, dai Ds.
E a questo punto?
Niente: chiedo ufficialmente a Grillo di candidarmi alle primarie in Rete. Saranno gli attivisti a decidere sul mio nome. Se non mi vogliono come non detto. Tra l'altro io non sono alla ricerca di una candidatura. Ce l'ho. Di Pietro mi ha tirato le orecchie.
Che vuole dire?
Appena saputo mi ha chiamato e mi ha detto: guarda che noi ci presentiamo alle Europee come Italia dei valori e tu sei naturalmente candidato. Le porte sono aperte.
Ha più parlato con Grillo?
No, non l'ho ancora sentito.
Professore, lei pensa che Grillo sia un uomo di sinistra?
Non credo proprio. Non lo è lui, né mi pare che lo sia l'ideologo Casaleggio. Ma guidano un movimento che è invece di sinistra, per quello che significa ancora oggi sinistra.
Non è una contraddizione?
Può sembrare, ma invece è esattamente quello che è accaduto con Di Pietro. Ha messo in piedi un partito di sinistra e Di Pietro non era assolutamente di sinistra. Ha assunto in seguito delle posizioni simili.
Ma lei non si definisce un comunista? Che ci fa nel Movimento Cinque Stelle?
Sono idealmente un comunista, certo. E mi riconosco in alcune battaglie che il movimento di Grillo porta avanti.
Renzi?
No, non mi piace.
Pentito di essersi iscritto al Movimento 5 Stelle?
Assolutamente no. L'ho fatto con convinzione, resto un loro iscritto. Ripeto: che a questo punto sia la Rete a decidere se la mia candidatura è legittima o meno. Se dicono di no me ne vado. E senza sbattere la porta.

Repubblica 18.1.14
L’appello
Europee, dalla Spinelli a Flores sostegno al leader di Syriza
di Matteo Pucciarelli


MILANO — In Europa, a sinistra, con il leader di Syriza Alexis Tsipras candidato alla presidenza della Commissione europea. Creando una lista per le europee della società civile, senza passare dai partiti. L’appello è firmato da Barbara Spinelli, Luciano Gallino, Paolo Flores d’Arcais, Andrea Camil-leri, Marco Revelli e Guido Viale. «Le larghe intese, in Italia e in Europa, sono fatte per conservare l’esistente. Diciamo no alla grande coalizione parlamentare che si prepara fra socialisti e democristiani europei, presentandoci alle elezioni di maggio con una piattaforma di sinistra alternativa e di rottura », è scritto nel documento. E poi, «l’Europa, se vuol sopravvivere, deve cambiare fondamentalmente. Deve darsi i mezzi finanziari per un piano Marshall dell’Unione, che crei posti di lavoro e colmi le disuguaglianze». Per questo gli intellettuali propongono «una lista che candidi persone, anche con appartenenze partitiche, che non abbiano avuto incarichi elettivi e responsabilità di rilievo nell’ultimo decennio».

l’Unità 18.1.14
Critiche a Israele, convocati ambasciatori Ue
Il ministro Lieberman sottolinea «la costante posizione di parte a favore dei palestinesi»
di U. D. G.


L’impronta del «falco» sulla politica estera israeliana. Israele ha convocato ieri gli ambasciatori di Italia, Regno Unito, Francia e Spagna per protestare contro la loro parzialità a favore dei palestinesi. È quanto ha reso noto il portavoce del ministro degli Esteri. Avigdor Lieberman «ha ordinato di convocare gli ambasciatori di Regno Unito, Francia, Italia e Spagna per sottolineare che la loro costante posizione di parte contro Israele e a favore dei palestinesi è inaccettabile e crea l’impressione che cerchino solo di accusare Israele», ha detto il portavoce. «Oltre ad essere prevenute, non equilibrate e a ignorare la situazione sul terreno, le posizioni tenute da questi Stati mettono a rischio la possibilità di arrivare a qualsiasi tipo di accordo tra le parti», si legge ancora nel comunicato.
LINEA DURA
La convocazione giunge dopo che l’altro ieri il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva bacchettato l’Ue definendo l’atteggiamento «ipocrita». Pochi giorni prima era stato invece il ministro della Difesa, Moshe Yaalon, a lanciare un duro attacco al segretario di Stato Usa, John Kerry, accusandolo di essere «ossessionato» dalla volontà di raggiungere un accordo di pace fra Israele e palestinesi. «Il segretario di Stato John Kerry che è arrivato qui determinato e che è animato da una incomprensibile ossessione e da una sorta di messianismo non mi può insegnare niente sul conflitto con i palestinesi», aveva detto Yaalon, citato dal giornale israeliano Yediot Aharonot. «Il piano americano di sicurezza che ci è stato presentato non porta né sicurezza e né pace», aveva detto ancora il ministro israeliano al quotidiano. «Non vale neanche la carta su cui è scritto», avrebbe rincarato Yaalon durante una conversazione privata, riferita da alcuni presenti anonimi.
L’offensiva diplomatica di Gerusalemme trova immediata risposta di Bruxelles. «Gli insediamenti sono illegali per la legge internazionale e costituiscono un ostacolo alla pace, minacciando di renderla impossibile. In questo contesto l’Alto rappresentante qualche giorno fa ha ribadito la posizione e ha chiesto (a Israele, ndr) di interrompere tutte le attività di insediamento», ha ribadito Maja Kocijancic, portavoce di Catherine Ashton. «Questa è la posizione confermata anche dal consiglio Affari esteri Ue, che viene trasmessa alle autorità israeliane su base regolare. Chiaramente anche Israele trasmette a noi la sua posizione», ha aggiunto la portavoce del capo della diplomazia europea. «Attualmente è in corso un' iniziativa molto importante da parte del segretario di Stato americano John Kerry», ricorda ancora Kocijancic, «che l'Europa appoggia pienamente». Quanto al prossimo appuntamento di lunedì 20, i ministri degli Esteri affronteranno il tema durante il Consiglio ma non sono previste conclusioni, dopo quelle del mese scorso che contenevano «un pacchetto senza precedenti di sostegno politico, economico e di sicurezza a entrambe le parti nel contesto di un accordo finale di pace».
Ieri la Farnesina ha confermato di aver convocato l’ambasciatore israeliano a Roma, Naor Gilon, per esprimere la preoccupazione del governo italiano sull’annuncio di nuovi insediamenti in Cisgiordania. L’ambasciatore, riferiscono fonti del ministero degli Esteri, è stato chiamato l’altro ieri dal segretario generale della Farnesina, Michele Valensise. Le stesse fonti hanno fatto sapere che è stato compiuto anche «un passo presso i palestinesi perché mantengano un atteggiamento di non confronto» con gli israeliani. L’altro ieri era stato anche il Regno Unito a convocare l’ambasciatore israeliano a Londra, in seguito ai progetti per la costruzione di oltre 1.800 nuovi alloggi per i coloni a Gerusalemme Est e in Cisgiordania.

La Stampa 18.1.14
Berlino, se la cultura è per tutti
La capitale conferma la sua vocazione “sociale”: c’è persino la “Kulturloge”, un’organizzazione che regala i biglietti a chi si vergogna di esibire il Berlinpass la “tessera per i poveri”
di Tonia Mastrobuoni

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il Fatto e The Guardian 18.1.14
La Stasi sopravvive a Berlino
Molti agenti della polizia segreta della Rdt lavorano negli archivi della Germania riunificata
di Philip Oltermann


Berlino. A volte l’arte si ispira alla realtà, altre volte la precede. Quanto sta succedendo nell’ex Germania est sembra ispirato a Le vite degli altri, il capolavoro di Florian Henckel von Donnersmarck, storia drammatica degli abitanti della Ddr sottoposti al serrato controllo della temutissima Stasi. Tra questi anche il drammaturgo Dreyman che si riteneva al sicuro per il fatto di essere amico di tutti i pezzi grossi del regime. Dopo la caduta del Muro di Berlino Dreyman viene a sapere che anche la sua abitazione era piena di “cimici” e, come molti concittadini, si reca negli uffici della disciolta Stasi per prendere visione del suo fascicolo. A consegnarglielo sono gli stessi impiegati che avevano lavorato in quelle stanze durante il comunismo.
Dopo la riunificazione il governo decise di avviare un esperimento storico istituendo una agenzia il cui compito era quello di consentire a coloro che erano stati spiati dalla Stasi di prendere visione del materiale che li riguardava. Qualche giorno fa la notizia inattesa: il Commissario federale dell’archivio della polizia segreta dell’ex Germania dell’est ha ammesso che nei suoi uffici lavorano ancora 37 ex dipendenti della Stasi. La Commissione Federale per gli Archivi della Stasi fu istituita dal governo tedesco nel 1991 con il compito specifico di proteggere il materiale contenuto negli archivi della Stasi dagli ex agenti desiderosi di distruggere le prove delle loro malefatte e di garantire l’accesso ai documenti a chiunque avesse avuto anche il minimo sospetto di essere stato spiato o intercettato dalla polizia segreta della Ddr.
NEL 2007 un rapporto segreto del governo tedesco finito non si sa come in mano ad alcuni giornalisti rivelava che fin dall’inizio negli archivi avevano lavorato 79 ex dipendenti della Stasi, alcuni dei quali senza che il Parlamento ne fosse a conoscenza, alimentando in tal modo il sospetto che molti documenti potessero essere stati distrutti o alterati. L’attuale responsabile della gestione e del corretto funzionamento degli archivi, il Commissario federale Roland Jahn, ex giornalista dissidente della Ddr, nel discorso inaugurale pronunciato nel marzo del 2011 ha definito “intollerabile” il fatto che le vittime della Stasi o i loro familiari che chiedevano di prendere visione dei documenti che li riguardavano dovessero avere a che fare con ex dipendenti della polizia segreta. “Ogni ex collaboratore della Stasi tuttora in servizio negli archivi dell’ex polizia segreta della Germania est è uno schiaffo in faccia alle vittime di quel regime”, ha detto Roland Jahn. E non di meno qualche giorno fa è emerso che negli uffici degli archivi lavorano ancora 37 persone che lavoravano per la Stasi. Potrebbero non sembrare molti se si considera che il personale ammonta a 1.600 dipendenti, ma lo scandalo è scoppiato ugualmente. In una intervista concessa al quotidiano Tagesspiegel, Roland Jahn ha ammesso che risolvere il problema si è rivelato più difficile del previsto. La legislazione del lavoro tedesca consente il trasferimento di un dipendente pubblico solo a condizione che venga collocato in un posto “paragonabile” per retribuzione e incarico. “Abbiamo ancora 37 dipendenti che lavoravano per la Stasi. Cinque sono stati trasferiti, 5 sono andati in pensione e uno è deceduto. Tutti gli altri trasferimenti sono in fase di attuazione, ma ci sono problemi da superare”, ha spiegato Jahn.
AL MOMENTO del crollo della Ddr sembra che la Stasi avesse 91.000 dipendenti a tempo pieno e tra 110.000 e 190.000 informatori. La maggior parte di quelli riassunti sono tecnici o addetti all’amministrazione o alla segreteria, ma almeno 2 erano ufficiali di alto grado della polizia segreta.
Le ultime rivelazioni gettano una luce inquietante anche sulla figura del presidente Joachim Gauck, che fu il primo commissario degli archivi della Stasi tra il 1990 e il 2000. Nel suo libro del 1991, “Die Stasi-Akten” (I file della Stasi), aveva difeso la scelta di riassumere il personale dell’ex polizia di Stato della Germania est: “non avremmo potuto fare il nostro lavoro senza le loro conoscenze dei servizi segreti della Ddr e del sistema di archiviazione usato dalla Stasi”.
Originariamente assunti con un contratto a tempo determinato della durata di pochi mesi, furono stabilizzati nel 1997 grazie al personale interessamento di Gauck. Klaus Schroeder, storico che si è occupato del problema della presenza ex dipendenti della Stasi negli archivi, ha detto al Guardian: “La responsabilità di aver consentito a queste persone di accedere a documenti delicati ricade sulle spalle di Glauck”. Jahn, l’attuale commissario, intervistato dalla Tagesspiegel ha detto che non si potevano fare paragoni tra la National Security Agency Usa e la Stasi: “trovo assurdo paragonare la Nsa alla Stasi – è una cortina fumogena utile solo a chi vuole impedire di ricostruire la verità storica. È un paragone che non ci aiuta a risolvere gli attuali scandali in materia di intelligence e in qualche modo banalizza l’operato della Stasi. La Stasi non si limitava a raccogliere informazioni, ma sbatteva in galera anche quelli che criticavano lo Stato. Le polemiche sulla Nsa hanno dimostrato quanto è importante protestare immediatamente quando si viene a conoscenza di violazioni dei diritti umani”.
   © The Guardian Traduzione di Carlo A. Biscotto

Corriere 18.1.14
Anche cento pagine di leggi liberticide nella svolta filorussa dell’Ucraina
di Francesco Battistini

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l’Unità 18.1.14
Il Festival è scientifico
Da giovedì a Roma quattro giorni di incontri
La nona edizione quest’anno prevede i contributi di Noam Chomsky, Tullio De Mauro, Alessandro Bergonzoni e Roberto Vecchioni
di Cristiana Pulcinelli


ROMA «I LIMITI DEL MIO LINGUAGGIO SONO I LIMITI DEL MIO MONDO», SCRIVEVA IL FILOSOFO LUDWIG WITTGENSTEIN nel Tractatus logico-philosophicus. La frase è stata presa in prestito dagli organizzatori del Festival delle scienze di Roma come motto per la nona edizione dell’evento che si svolgerà dal 23 al 26 gennaio all’Auditorium parco della musica. E, in effetti, quale frase è più adatta a dare l’idea dell’importanza del linguaggio per gli esseri umani? Senza di esso, il mio mondo non sarebbe quello che è. O, per essere più precisi, non sarebbe.
Il festival di quest’anno, dunque, è dedicato al linguaggio, o meglio ai linguaggi. Al plurale, perché di codici utilizzati per la comunicazione ce ne sono molti. A cominciare dalle lingue parlate nel mondo che sono tante, così tante che ogni anno ne muoiono un numero compreso tra 200 e 250 e noi neanche ce ne accorgiamo. Peccato, perché ad ogni lingua corrisponde una diversa cultura e, probabilmente, anche un diverso universo percettivo che svaniscono insieme alla memoria delle parole. Ma poi esistono gli altri linguaggi: quello della musica, quello dell’immagine, quello dei computer, quello della ricerca scientifica, quello della sessualità. Ognuno di queste forme di comunicazione ha le sue regole e il Festival delle scienze vuole esplorarle.
Ieri il programma delle quattro giornate è stato presentato alla stampa in Campidoglio, con il sindaco Ignazio Marino a fare gli onori di casa. Il pezzo da Novanta tra gli ospiti è senz’altro Noam Chomsky. Quello che probabilmente è il più famoso linguista del mondo ha 85 anni e viene a Roma non solo a tenere una lezione, ma anche perché è il protagonista di una talk opera per ensemble strumentale, voce, elettronica e immagini: «Conversazioni con Chomsky» (venerdì 24, sala Sinopoli ore 21). La lezione del padre della grammatica generativo trasformazionale una teoria che ha ispirato generazioni di linguisti, ma anche di filosofi, psicologi, neurologi – avrà come titolo «Il linguaggio come organo della mente» (sabato 25, Sala Petrassi ore 21) e si addentrerà in un territorio nuovo e complesso come il linguaggio interiore.
Ma il Festival non è solo Chomsky. Tra le lezioni magistrali, ci sarà quella sui linguaggi della sessualità di Nicla Vassallo, quella su «linguaggio e musica» di David Pesetsky, quella sul linguaggio della fotografia di Armin Linke, quella sui rapporti tra linguaggio e giustizia di Lawrence Solan e quella del filosofo Stefano Catucci sull’esplorazione della Luna raccontata attraverso vari linguaggi. Poi i dialoghi: incontri a più voci su vari temi, dal linguaggio della ricerca (a cui partecipa anche Ignazio Marino) alle patologie del linguaggio, dalle differenze tra il linguaggio degli umani e quello delle macchine (con Tomaso Poggio, Stuart Shieber e Roberto Cordeschi) a come emerge il linguaggio dei bambini. In programma anche caffè scientifici che a volte sono vere e proprie chicche, come quello di domenica pomeriggio: protagonista Tullio De Mauro che parlerà dell’incomprensione linguistica.
Durante le quattro giornate sono previsti incontri con le scuole, laboratori e exhibit. Tra gli altri, «Parole al cubo», gioco di piazza che consiste nel trovare il maggior numero di vocaboli di senso compiuto nel minor tempo possibile, e Nanopinion, una mostra curata da Explora, il museo dei bambini di Roma, sui segreti dell’infinitamente piccolo. Durante il Festival verranno inoltre proiettati alcuni documentari e film, tra cui Temple Grandin. Una donna straordinaria, la biografia di una delle donne autistiche più famose al mondo a cui Oliver Sacks dedicò un famoso racconto: Un antropologo su Marte.

Edizioni Dell’Asino...
Nel segno di Basaglia e di Foucault...
l’Unità 18.1.14
Io sottoscritto dentro l’inferno
La testimonianza di Aldo Trivini detenuto per anni nell’Opg di Aversa
Un libro racconta la tragedia degli Ospedali psichiatrici giudiziari
La denuncia di un paziente portò ad accertare una realtà da lager fatta di abusi e vessazioni
Ne pubblichiamo un capitolo
di Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito


CRONACHE DI UN MANICOMIO CRIMINALE, di Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito Pag. 187 Euro 12 Edizioni Dell’Asino

Il detenuto, appena entra in matricola, viene posto davanti ad un brigadiere e una guardia
«Chiedevo acqua e non mi veniva data. Cibo pessimo Per fare i bisogni c'è un buco nel letto: devo fare tutto lì»

Nel 1974 un internato, Aldo Trivini, denunciò con un memoriale redatto in prima persona gli abusi, le violenze, le morti che avvenivano tra le mura del manicomio criminale di Aversa. Questo documento, straordinario nella sua unicità, viene qui pubblicato integralmente per la prima volta. Da esso scaturì un processo che rese nota una terribile realtà. Tra passato e presente, a quarant’anni di distanza, due ricercatori ricostruiscono la vicenda di quelli che oggi sono chiamati Ospedali psichiatrici giudiziari.

IL 6 DICEMBRE 1974 UN ESPOSTO DENUNCIA VIENE DEPOSITATO PRESSO LA PRETURA DI AVERSA. QUARANTOTTO FOGLI, dattiloscritti da mano inesperta, ma con parole nette e dure. «Il sottoscritto, Trivini Aldo, espone alla S.V. ill.ma quanto segue: nel periodo di oltre un anno in cui il sottoscritto è stato rinchiuso nel Manicomio Giudiziario di Aversa (...) egli è stato sottoposto ad ogni genere di maltrattamenti e abusi da parte dei pubblici ufficiali addetti alla custodia. Ed analoghi abusi ha dovuto osservare commessi a danno di altri internati, dei quali molti hanno voluto rilasciare denuncie scritte o registrate su nastro magnetico con il desiderio di ottenere la giusta punizione dei responsabili. Il sottoscritto, pertanto, allega al presente esposto (di cui fanno parte integrante) un memoriale, firmato in ogni pagina, che riporta fatti ed avvenimenti riferibili soprattutto al 1972 e 1973, di cui egli è stato personalmente vittima o testimone (...)».
Comincia così la storia che svelerà l'orrore quotidiano di quelli che allora si chiamavano manicomi giudiziari e oggi Ospedali psichiatrici giudiziari. Hanno cambiato acronimo ma non sede, i manicomi criminali, aperti ad Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Napoli. Oggi, come allora, vi finiscono internati sofferenti psichici autori di reato, condannati ad una misura di sicurezza detentiva che può essere prorogata senza limiti. La denuncia è una puntuale e diretta ricostruzione delle condizioni inumane cui erano costretti gli oltre mille internati di Aversa. Un inferno che comincia appena si varca l'ingresso.
«Il detenuto, appena entra in matricola, viene posto davanti ad un brigadiere e una guardia; il brigadiere, finito di leggere la cartella personale del detenuto, rivolge a costui alcune domande di carattere psichiatrico, come ad esempio queste domande: Quanto è lungo un serpente dalla coda alla testa, se dalla testa alla coda è lungo 3 metri?”, “Se tua sorella ti piace e la vedi nuda, cosa le fai?”, poi secondo la risposta data dal detenuto vanno avanti “E a tua madre, e a quello, e a quella?”, “Hai mai camminato con tre scarpe?”, ecc., ecc. Se il detenuto risponde, con l’aria di essere preso in giro per queste zozze domande, è facile che si prenda anche qualche cazzotto in faccia o un calcio negli stinchi, mentre il più delle volte volano le schicchere sul naso, o sulle orecchie, tutto questo perché le guardie ti considerano come una bestia e ciò che essi fanno è lecito».
SISTEMATICA COERCIZIONE
Un sistema diffuso di piccole violenze e sistematica coercizione. Nel letto di contenzione si finisce per la più insignificante delle ragioni. «Venne il brigadiere, mi disse “dove vuoi andare, in altro reparto?” “sì” e gli spiegai i fatti. Lui mi rispose: “tu più che al cimitero, non puoi andare” mi prese e mi legò di nuovo per 2 giorni in un'altra stanza. Lì mi fecero delle punture, trattato male e sempre umiliato, con la sete. Chiedevo acqua e non mi veniva data. Cibo pessimo e neanche bastava per tutti. Per fare i bisogni c'è un buco nel letto: devo fare tutto lì. Poi quando fai la cacca, dopo un'ora, due ore viene lo scopino con una scopa grande con due zeppi, con un secchio, ti scopre, allarghi le gambe e lui ti pulisce in mezzo. Ti raschia in mezzo alle gambe e ti fa uscire pure il sangue. La spazzola è fatta di zeppi e non è pulita perché pulisce altri detenuti: è sempre sporca di cacca». Al letto di contenzione, appurerà in seguito il processo nato da questa denuncia, è morto un ragazzo di soli 19 anni, stroncato da una polmonite.
Tra tutte c’è una scena che meglio descrive le condizioni di “bestialità” cui sono costretti gli internati, rinchiusi come in uno zoo. «Chiesi a Chirico dove bisognava andare egli mi rispose “allo zoo”. “Come allo zoo? (perché le guardie chiamavano il cortile esterno lo zoo)”. Con Chirico mi avvicinai agli altri e (da) come le guardie ci spingevano, facendoci vedere il bastone, capii perché lo chiamavano lo zoo. Non mancava nulla alla scena: oltre alle bestie e ai domatori, c'erano pure i cani, rappresentati dagli scopini che, come cani ammaestrati, rincorrevano quei detenuti sparpagliati o che tardavano a mettersi in fila. Una volta dentro lo zoo, mi parve chiaro come il nome fosse indovinato. I detenuti, dentro, attaccati alla rete, rappresentavano gli animali, le guardie e i servi erano i guardiani. Sporchi, laceri, sozzi, con fagotti sulle spalle, giravano per il cortile, uno dopo l'altro, alcuni che erano più decenti sedevano sulle panchine, altri sdraiati per terra come cose morte. (...) quando sulla strada che fiancheggiava il cortile passavano i lavoranti o qualunque persona che vestisse abiti borghesi (...) come gli animali del giardino zoologico si avvicinavano per ricevere le noccioline dai visitatori, (i detenuti) si aggrappavano alla rete per ricevere qualche cicca: solo che i visitatori danno alle scimmie, alle giraffe, agli elefanti qualunque cosa, ma se capitava qualcuno che dava la cicca, la faceva volare oltre la rete e “gli animali”, cercando di prenderla, si azzuffavano fra loro».
Questo esposto, unico nel suo genere, e corredato da un video clandestino girato dallo stesso Trivini con una super8, contribuì a svelare la violenza istituzionale dei manicomi criminali, contro le cui mura si infranse anche la riforma Basaglia. Le perizie e le inchieste della procura confermarono le parole di Trivini. Gli esiti processuali furono molto blandi rispetto allo scenario di morti e abusi, ma si affermò una verità innegabile. Epilogo tragico il suicidio dell'allora direttore Domenico Ragozzino, incontrastato dominus del manicomio.
Oggi, a distanza di quarant'anni, nell'anno in cui gli Opg dovrebbero finalmente chiudere (ma già se ne preannuncia un’ulteriore proroga), Cronache da un manicomio criminale prova a recuperare la memoria di vite rinchiuse, internate. «Vite – scriveva Michel Foucault - che sono come se non fossero mai esistite, che sopravvivono solo per il fatto di essersi scontrate con un potere determinato ad annientarle o cancellarle, vite che non ci vengono restituite se non per una serie di casi».
Le denunce del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e della Commissione di inchiesta presieduta da Ignazio Marino dimostrano l'attualità di questa storia. I manicomi non possono essere altro che luoghi di violenza e sopraffazione.
La storia insegna non solo la necessità di chiuderli, ma anche di superare ogni dispositivo di internamento psichiatrico e le forme di violenza che trasformano i medici in custodi e i sofferenti psichici in eterni prigionieri.

l’Unità 18.1.14
Il convegno
Oggi l’incontro a Trieste con Luigi Manconi


Nel 1974, dal memoriale di denuncia di un internato del manicomio criminale di Aversa (ancora oggi aperto e funzionante), nacque un processo che portò alla condanna del direttore del manicomio, che in seguito si tolse la vita, e di alcuni agenti di polizia penitenziaria. Dopo quarant'anni la storia è raccontata in un libro (Cronache da un manicomio criminale, di Dario Stefano Dell'Aquila e Antonio Esposito, Edizioni dell'Asino 2013, prefazione di Assunta Signorelli) che pubblica integralmente quel manoscritto. Oggi dalle 15,00 gli autori lo presenteranno al Palazzo della Regione a Trieste nell’ambito dell’Incontro «La maggioranza deviante» con Maria Grazia Giannichedda, Luigi Manconi e Franco Rotelli.

il Fatto 18.1.14
I pugnali di J. L. Borges
Lo scrittore e il dialogo con la violenza
Le armi da taglio della giovinezza, l’abbaglio per Videla nella vecchiaia
di Carlo Antonio Biscotto


In occasione della pubblicazione di “Professor Borges: A Course on English Literature”, il New York Times ha riproposto un’intervista dello scrittore argentino sul tema della violenza
Di tanto in tanto critici letterari o giornalisti si dilettano a elencare i grandi dimenticati dal Nobel. Immancabilmente Jorge Luis Borges figura al primo posto di questa particolare classifica di giganti della letteratura ignorati dall’Accademia svedese. Non sembra che, in vita, lo scrittore argentino se ne sia rammaricato più di tanto. Borges era uno scrittore e, più che altro, un uomo non comune. Per tutta la vita, ad esempio, intrattenne un dialogo, non solo letterario, con la violenza. Una volta parlando con un intervistatore della sua infanzia nel quartiere di Palermo, a Buenos Aires, disse: “Dare del vigliacco a qualcuno era il peggiore degli insulti. Ero ancora un ragazzino quando mio padre mi mise in mano un pugnale e mi insegnò a usarlo e a farmi rispettare a dispetto dei problemi che avevo con la vista e di un aspetto non proprio da gladiatore”. Forse per questo le armi da taglio – spade, pugnali, stiletti – hanno avuto per Borges un misterioso, talismanico significato in qualche modo legato all’onore e alla virilità. Da ragazzo, negli Anni 20, Borges frequentava i barrios più malfamati di Buenos Aires non disdegnando la compagnia di delinquenti dal coltello facile che ai suoi occhi rappresentavano gli autentici creoli, ovvero gli spagnoli arrivati per primi nelle colonie del Nuovo Mondo, con la loro cultura intrisa di onore, machismo, fierezza.
DA GIOVANE Borges dedicò moltissimo tempo al tentativo di scrivere un poema epico capace, per dirla con le sue parole, di rendere pienamente omaggio “alle mie tante Buenos Aires, di parlare con il mondo, con Dio e con la morte”. Borges voleva consegnare al lettore il riflesso dell’essenza della città, come aveva fatto James Joyce con Dublino, e voleva con questa opera regalare all’Argentina una identità culturale duratura e riconosciuta nel mondo. Alla fine purtroppo abbandonò il progetto.
Borges è stato uno scrittore profondamente e totalmente argentino. I suoi interessi metafisici e i dotti riferimenti letterari celano talvolta questa sua radicata ”argentinità”, ma l’interesse per la storia e la politica dell’Argentina era tale che fino alla morte rimase convinto che il suo destino personale fosse inestricabilmente legato a quello del suo Paese. La sua famiglia non era ricca, ma era illustre, specialmente da parte di madre. Molte vie di Baires sono dedicate a suoi antenati, in particolare al bisnonno materno Isidoro Suarez, eroe della battaglia di Junan del 1824, decisiva per l’indipendenza dalla Spagna. La battaglia fu combattuta sulle Ande con le spade e le lance. “No retumba un solo tiro”, non si sentì nemmeno uno sparo, scrisse Borges in una poesia dedicata al bisnonno. Il nonno paterno morì in battaglia nelle guerre indiane.
E NELLE POESIE scritte in onore dei suoi illustri antenati tornano continuamente le spade, le armi da taglio, le gole tagliate, gli schizzi di sangue, il “fragore delle lance nell’infuriare della battaglia”. Il pugnale torna anche nella sua famosa Poesia congetturale nella quale il narratore è un altro famoso antenato di Borges, Francisco Laprida, avvocato e uomo politico assassinato nel 1829, per ordine del caudillo del momento, con una coltellata alla gola. In realtà – come spiegò lo stesso Borges – la poesia non intendeva celebrare la morte violenta, ma era piuttosto la risposta angosciata dello scrittore al colpo di Stato filo-nazista del 1943 in Argentina. In quegli anni Borges fu apertamente antifascista, ma il suo antifascismo non era immune da contraddizioni che gli venivano continuamente ricordate. Culturalmente era nazionalista e politicamente era liberale, ma ai nazi-fascisti non poteva in alcun modo perdonare l’antisemitismo. Proprio in quegli anni, dopo essere stato violentemente attaccato dai nazionalisti di estrema destra, scrisse un breve saggio nel quale metteva in ridicolo l’antisemitismo e il bigottismo dei nazionalisti. ”Vorrei avere qualche antenato ebreo”, disse più volte anche per l’ammirazione che nutriva per il pensiero e la letteratura ebraici.
A guerra finita, pur favorevole a una democrazia di tipo europeo, non nascose il timore che il “progressismo” liberal finisse per fare dell’Argentina una parodia del Nord America o dell’Europa impedendone una maturazione culturale autonoma. Nel 1946 definì il peronismo “la nostra vernacolare imitazione del fascismo” con i lavoratori al posto delle camicie nere di Mussolini. E tuttavia non seppe resistere alla tentazione di ritenere che l’Argentina avesse bisogno di una dittatura illuminata che guidasse il popolo verso la democrazia e finì per appoggiare la giunta di Videla in Argentina e quella di Pinochet in Cile. Una macchia indelebile per la reputazione di Borges. Nel 1976, ospite di riguardo di Pinochet in Cile, disse che “come era accaduto in Cile, solo la spada dell’onore avrebbe potuto tirar fuori l’Argentina dal pantano in cui si trovava”. E alludendo alla guerriglia che in Argentina combatteva la dittatura del generale Videla, tirò in ballo ancora una volta la spada: “Preferisco la spada, la spada lampeggiante alla furtiva dinamite” del nemico. E in Spagna definì la giunta di Videla “un governo di soldati, di gentiluomini, di gente perbene”.
LA MITOLOGIA dell’onore, che coltivava da quasi mezzo secolo, gli impedì di vedere che il regime di Videla era un vero e proprio “regno del terrore”. Borges commise l’imperdonabile errore di dare lustro con il suo nome prestigioso a una versione di Stato fascista ben peggiore del peronismo che aveva condannato. Non c’era il culto della personalità del peronismo, che tanto aveva infastidito Borges, ma al suo posto c’era un patriottismo feroce e omicida che sfregiò ogni connotato di civiltà e segnò nel profondo la società argentina. Quando la censura allentò le maglie e Borges venne a sapere delle atrocità di cui si era macchiata la giunta, si pentì del sostegno accordato e definì i membri della giunta “banditi”, “folli”, “criminali”.

il Fatto 18.1.14
Nuove guerre
La paura di Samia Olocausto moderno
Diventa un romanzo la storia dell’atleta somala annegata in un naufragio
di Eli. Amb.


Andando su Youtube e digitando il suo nome la potete ancora vedere gareggiare, gambe magrissime e sguardo serio, alle Olimpiadi di Pechino del 2008. Lei, Samia Yusuf Omar, cresciuta a riso e cavolo lessato, arrivò ultima, dopo muscolose atlete europee, russe o cinesi, ma nello sguardo aveva già le Olimpiadi di Londra del 2012. Dove però non arrivò mai, morta in un giorno di aprile dello stesso anno su una carretta del mare che cercava di raggiungere Lampedusa, per trovare un paese e un allenatore che la potesse nutrire e far crescere. La rassegna stampa del giorno in cui probabilmente Samia è annegata non riporta neanche la notizia nelle prime pagine, prese dagli scandali della Lega e dai problemi del governo Monti. E di lei oggi resterebbero solo due scarne righe su Wikipedia – “Era un’atleta somala, nata nel 1991 in una famiglia povera di Mogadiscio” – se la sua storia non fosse rimbalzata sui giornali, per poi, soprattutto, diventare un libro (e presto anche un film). Non dirmi che hai paura, Feltrinelli, scritto da Giuseppe Catozzella, giornalista e scrittore, autore di Alveare, un romanzo-inchiesta sulla ’ndrangheta al nord.
IL PUNTO DI VISTA – ed è una tendenza sempre più amata dagli editori, quella di una storia vera raccontata come una fiction – è proprio quello di Samia: i muri scrostati della amatissima scuola, le corse di nascosto, gli spiedini di trippa e agnello cucinati dalla madre per festeggiare la sua prima vittoria, i pesi per le braccia e le gambe fatti con le lattine di coca cola riempite di sabbia, i sedili coperti di velluto grigio del primo pullman che la portava alla prima gara nazionale, l’unico bagno della sua vita a Pechino. E poi, intrecciate alle risate e alla voglia di vincere, tutto il resto: la guerra che a un certo punto uccide suo padre, l’oppressione sempre più violenta degli integralisti di Al-Shabaab, la partenza della sorella per il Viaggio, quello per l’Europa, che poi diventa il suo. Il libro lo racconta facendone sentire tutta l’agonia: gli spostamenti ammassati nelle jeep, il viaggio nel deserto senza fari, le soste per giorni e mesi in semi-prigioni senza cibo, in attesa che un parente mandi i soldi per partire, infine l’ultima spaventosa tappa in mare.
Non dirmi che hai paura è uno di quei romanzi che crea un prima e un dopo. Non solo perché la storia di Samia va a toccare la nostra difesa primitiva – no, le Olimpiadi occidentali e la Somalia poverissima non possono toccarsi – e ci ricorda quello che speriamo non sia vero, cioè che chi muore in mare ha le stesse nostre identiche emozioni e aspirazioni. Ma soprattutto perché, pur coperto da una copertina celeste e da una farfalla gialla, a proteggere il nostro fragile io, dà la sensazione di essere uno dei primi libri che andrà a formare la letteratura del nostro Olocausto contemporaneo. Con l’immagine del vecchio caduto nel deserto e abbandonato dai trafficanti, nonostante il pianto dei parenti, che non ti lascia più.

Corriere 18.1.14
In cerca di Giovanna d’Arco (o di chi morì al suo posto)
L’unica verità sulla pulzella: comunque non c’è lieto fine
Miti. Il viaggio di Marta Morazzoni nei luoghi dell’epopea è ora un libro nato dalle ricerche sulla leggendaria figura che salvò il trono di Carlo di Valois
di Isabella Bossi Fedrigotti

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Corriere 18.1.14
Lo storico scomparso a 83 anni raccontò il secolo delle ideologie: «Sono un ex comunista non pentito»
Lepre esploratore del Novecento Collaborò con Togliatti, mise in crisi le vulgate di destra e sinistra
di dino Messina

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Corriere 18.1.14
«Testimonianze e frammenti» curati da Ioli
Gorgia, il filosofo travestito da retore
di Armando Torno

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Corriere 18.1.14
Quei «favolosi anni Settanta»
Toni Negri cattivo maestro di storia
di Luca Mastrantonio

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Repubblica 18.1.14
Noam Chomsky
“Quello che siamo e facciamo sono soltanto linguaggio
Intervista all’intellettuale americano che spiega le sue teorie e le sue radicali opinioni politiche
di Federico Capitoni


Noam Chomsky terrà una lectio magistralis il 25 gennaio a Roma durante il Festival delle Scienze che si tiene all’Auditorium Parco della musica
Il 23 gennaio esce, per Ponte alle Grazie il libro I padroni dell’umanità pagg. 200, euro 16,50

«Non penso che ci sia un politico che abbia mai prestato una qualche attenzione a ciò che scrivo, dico o faccio». A 85 anni, Noam Chomsky si rende bene conto che pure essere uno degli intellettuali più ascoltati del pianeta, non cambia la direzione che il mondo ha preso. Il grande linguista americano, a partire dagli anni Settanta, ha scelto seriamente la strada del pensiero e dell’attivismo politico che lo ha portato oggi a essere l’interlocutore privilegiato nei dialoghi sui problemi di ordine mondiale. Una raccolta dei suoi saggi politici, I padroni dell’umanità (Ponte alle Grazie, in libreria il 23), mette ora in fila tutte le sue risposte, generalmente volte a condannare i sistemi neoliberisti e neocolonialisti.
Nel frattempo la sua idea di una grammatica universale (facoltà mentale comune a tutti gli individui) e la teoria della grammatica generativa (l’insieme, finito, delle regole che danno luogo alle potenzialmente infinite formulazioni delle frasi) hanno iniziato a camminare da sole: «La grammatica generativa è ormai una scienza, – dice – e come tale raccoglie i risultati prodotti dalla partecipazione collettiva di tanti studiosi». Il 25 gennaio a Roma, all’interno del Festival delle Scienze, Chomsky terrà una lezione magistrale in cui parlerà del linguaggio e della mente. Ma il pubblico italiano potrà incontrarlo anche la sera prima in un curioso spettacolo musicale, Conversazioni con Chomsky, una talk-opera multimediale del compositore Emanuele Casale, ove il linguista parteciperà a «una sessione di domande sugli argomenti della linguistica, dell’economia e della politica, anche italiana»…
Professor Chomsky, lei parteciperà a un’opera musicale. Si dice spesso che la musica sia un linguaggio universale. Ma, innanzi tutto, la musica è un linguaggio?
«Il concetto di linguaggio nell’uso comune è vago e informale. È comunque possibile formulare almeno alcune chiare domande. Per esempio quali relazioni ci sono tra musica e linguaggio umano? Ci sono studi su questo e molte idee interessanti ma la domanda generale non ha risposta. È come domandarsi se gli aeroplani volino (certo, ma non come le aquile) o se i sottomarini nuotino (non proprio come delfini). Sono faccende che hanno a che fare con le metafore che scegliamo di accettare, non sono questioni fattuali».
Cosa differenzia il linguaggio verbale dagli altri sistemi di segni (suoni, figure, gesti)?
«È importante ricordare che il linguaggio umano non è necessariamente verbale. Può essere espresso attraverso suoni, il modo più comune, o segni grafici. Come abbiamo scoperto in anni recenti, molti linguaggi simbolici che sono nati nel mondo sono particolarmente simili ai linguaggi orali. A ogni modo il linguaggio umano differisce da altri sistemi di segni in alcuni importanti aspetti: struttura, uso, rappresentazione neuronale. È stato anche scoperto che lo stesso gesto può funzionare in maniera diversa se viene usato in un sistema di segni o se in un contesto non linguistico. Le proprietà fondamentali del linguaggio umano appaiono uniche e sono probabilmente emerse relativamente di recente rispetto al processo evolutivo. La facoltà del linguaggio sembra essere ampiamente dissociata da altri sistemi cognitivi umani e completamente differente dai sistemi di comunicazione animali».
Se il linguaggio è generato dalla grammatica e la grammatica fondata su strutture foniche, si potrebbe dire che il linguaggio si origina più probabilmente dal suono che dal segno?
«Quello che possiamo dire è che il suono è solo una delle forme di esternalizzazione del linguaggio e non sembra essere essenziale della sua natura. Concordo con la tradizione che tende a considerare il linguaggio primariamente uno strumento del pensiero e la sua esternalizzazione, in una o un’altra modalità, un processo secondario. È tuttavia vero che i segni grafici sono cosa piuttosto recente nella storia dell’uomo, tra l’altro solo in certe culture, e che non possano essere collegati all’origine del linguaggio».
Cosa pensa delle recenti ricerche neurolinguistiche? I risultati scientifici mettono a tacere la lunga diatriba tra “innatismo” e “comportamentismo”?
«Nonostante io abbia sempre trovato fuorviante parlare di dibattito tra “comportamentismo” e “innatismo” (e soprattutto su questa parola bisognerebbe accordarsi, perché non ha un significato ben definito), non si può seriamente dubitare che ci sia un alto numero di fattori innati che entrano in ogni aspetto della funzione cognitiva. L’unica alternativa è la magia. Il lavoro scientifico è determinare questi fattori:per esempio, qual è la dote biologica che rende il bambino, e non un altro organismo, in grado di sviluppare le capacità che io e lei stiamo usando ora? E così domande simili sulle facoltà mentali e non. Anche i comportamentisti ormai credono a fattori innati».
Se il linguaggio dà forma all’esperienza, quanto i problemi del mondo dipendono dal linguaggio?
«Difficile pensare che esista un’attività umana in cui il linguaggio non sia direttamente coinvolto. Dire che ci sia una dipendenza dal linguaggio è plausibile ma è una questione davvero troppo seria e indefinita per esaminarla».
Il suo ultimo libro si intitola I padroni dell’umanità. Chi sono costoro?
«I centri corporativi delle società industriali avanzate vogliono farsi ricordare come i padroni dell’umanità. Il termine è preso in prestito da una frase di Adam Smith: “la vile massima dei padroni dell’umanità: tutto per noi, niente per gli altri”. È esattamente la proprietà istituzionale delle società capitaliste ».
Lei scrive che potere e verità sono in conflitto e che gli intellettuali o ricercano la verità o comandano. È dunque impossibile il governo dei filosofi sognato da Platone?
«Bakunin predisse che il governo dalla classe emergente della scientific intelligentsia avrebbe portato alle peggiori e brutali autocrazie della storia umana. È risultata un’osservazione lungimirante. Non c’è dunque ragione per aspettarsi che il governo dei filosofi, o quello di una qualsiasi altra élite, sia migliore».
Tra i temi che le stanno più a cuore c’è l’ambiente. Quali rischi dobbiamo temere maggiormente?
«Ci sono due ombre scure che incombono su ogni considerazione riguardo al futuro: la catastrofe ambientale e la guerra nucleare. La prima è già tristemente una realtà; l’altra è un rischio sempre presente che non accenna a dissolversi, è quasi un miracolo che siamo scappati a un disastro nucleare non così tanto tempo fa. Pessimismo e ottimismo sono questioni soggettive, non sono importanti: qualunque sia il proprio stato d’animo, le azioni da intraprendere sono essenzialmente le stesse».

Repubblica 18.1.14
Sciascia e Dio
Per gli italiani il Paradiso è come un ministero
In questo testo inedito, lo scrittore riflette sul senso profondo della religiosità, sull’ateismo e sulla fede fatta solo di apparenza
di Leonardo Sciascia


Religiosità e ateismo è il titolo di questo testo inedito di Sciascia che esce sul nuovo numero diTodo Modo. Rivista internazionale di studi sciasciani, edita da Leo S. Olschki e fondata da Francesco Izzo che la dirige con Marco Fiaschi e Mark Chu

Io spero che nessuno si aspetti da me un dotto discorso oppure un’indagine esaustiva su religiosità e ateismo o su ateismo e religiosità. [...] Mi pare sia stato Bertrand Russell a dire che tutta la filosofia occidentale non è che un’annotazione in margine a Platone e così è anche per il problema dell’ateismo che si è invece portati a considerare abbia avuto dibattito e definizione prevalentemente nel secolo XVIII. Ed è certo che quantitativamente in quel secolo il problema è stato maggiormente agitato e si potrebbe anche dire propagandato, ma in definitiva pochissimo è stato aggiunto allora e fino ad ora, all’analisi di Platone. Si tratta, insomma, di annotazioni in margine, propriamente.
Dicendola la prima e più bella analisi dell’ateismo che la storia della filosofia ricordi, così Abbagnano la riassume, dal Decimo Libro delle Leggi di Platone. Platone considera tre forme di ateismo: primo, la negazione della divinità; secondo, la credenza che la divinità esista, ma non si curi delle cose umane; terzo, la credenza che la divinità possa essere propiziata con doni e offerte. Di queste tre forme di ateismo, le prime due, corrispondenti approssimativamente al materialismo e allo scetticismo, si possono dire di ateismo filosofico, anche se Platone riconosceva come tale soltanto la prima, considerando di volgare pregiudizio le altre due. [...] Comunque, ad apparentare le prime due forme di ateismo poste da Platone e che qui ed ora non molto mi interessa, ricorderò le poco conosciute lettere di Lorenzo Magalotti sull’ateismo, piene, specialmente le prime, di sottili osservazioni a svolgimento di temi come questo: «Veri atei pochissimi. Gli uomini di buon senso che danno in ostentar l’impietà, siccome non diventano mai veri atei, così mai non s’assicurano nel loro preteso ateismo. Questi son più lontani dal diventare veri atei che dal professare qualche religione». E ancora: «Non potere gli atei negare Dio, ma al più dubitarne», e così via.
Che è, questa di Magalotti, una meditazione sull’ateismo degli “uomini di buon senso”, come lui dice, e fatta da un uomo di buon senso. Che più di due secoli dopo questo modo di intendere l’ateismo e del più impetuoso scorrere dell’ateismo filosofico, André Gide riassume in questa nota nel Journal: «Sade e La Mettrie i due veri atei del XVIII secolo, diceva Jean Strohl. La penso quasi allo stesso modo, non potendo considerare atei Voltaire, d’Holbach, Grimm, Montesquieu e meno ancora Rousseau. Quanto a Diderot, il suo articolo su Spinoza mi mette in confusione. Oh, sì, qualcuno di loro non credeva ai miracoli, alla provvidenza, a un qualche dio che accidentalmente faceva trionfare nei particolari voleri, ma non è così facile essere atei. Io capisco Hume quando dice a d’Holbach che non aveva avuto la fortuna di incontrarne uno solo e quando il barone d’Holbach gli risponde: “Stasera avrete il piacere di cenare con diciassette di loro”, egli un po’ gioca sulla parola; mettendo poi i commensali con le spalle al muro, trovò in loro più un vago scetticismo che delle affermazioni negative ben precise e ben risolute ». [...] Ma riprendendo, io dico come Gide: ho sempre pensato che non è facile essere atei, totalmente e rigorosamente atei. È stato spiritosamente detto che in una sola giornata è possibile ad un uomo vivere tutte le filosofie che sono state pensate nei secoli, passare dall’una all’altra visione della vita e s’intende della morte, attraverso il succedersi delle condizioni e dei condizionamenti, delle percezioni e degli stati d’animo, della fatica, del riposo, dei desideri, degli appagamenti che una giornata contiene. Epicurei se immersi nel bagno, sofisti davanti allo specchio, stoici se sanguiniamo sbarbandoci, e così via. [...] Ma, come dicevo, non è l’ateismo proposto che qui ed ora m’interessa, ma quella terza forma di ateismo che Platone considera come la più pericolosa e malvagia che si potrebbe dire l’ateismo del credente in Dio, l’ateismo pratico, l’ateismo attivo; tenendo presente che sto parlando di credenza religiosa e di credenza atea nel mondo nominalmente cristiano, per capire che anche se le chiese cristiane hanno sempre indicato l’ateo filosofico come il vero e pericoloso nemico, effettualmente siamo di fronte a una mistificazione alquanto simile a quella cui ricorrono le tirannie quando impotenti al buon governo e mancando alle loro stesse promesse, per coloro che tengono in soggezione, creano ed indicano il nemico esterno.
In realtà, in area cristiana, l’ateo filosofico si potrebbe definire come un cristiano che crede di non credere in Dio. «Se Dio non esiste», dice Dostoevskij, «nulla ci è permesso »: nulla è permesso all’ateo e nulla l’ateo si permette che la legge religiosa non permetta tra gli uomini.
E qui voglio introdurre una personalissima nota, ricordando Giuseppe Rensi, filosofo scettico, autore di una apologia dell’ateismo in una collana di apologie pubblicata, intorno al ’27, dall’editore Formiggini, collana che portava questa dicitura: «Tutte le fedi esaltate da credenti » e che quindi dava come fede anche l’ateismo e Giuseppe Rensi come nell’ateismo credente. Ed era un uomo, Rensi, di limpida e cristianissima vita, di limpido, libero e coraggioso sentire e dire, anche negli anni del fascismo da cui ebbe persecuzioni. Era un’anima naturale per i cristiani e posso dire cheper me che mi sento cristiano, checché ne dicano i preti, i libri di Rensi sono stati una confermazione del mio essere cristiano; e non a caso uso la parola confermazione: la uso appunto come sinonimo di cresima; il mio battesimo è stato Victor Hugo e la mia cresima Giuseppe Rensi. E devo dire che io ritengo che quel tanto di cristiano che c’è nel mondo occidentale, lo si deve più a Victor Hugo che al catechismo. Ecco, questo scettico Giuseppe Rensi, io non lo direi ateo, nonostante la sua apologia dell’ateismo, nonostante il suo testamento che però alle parole «atomi» e «vuoto» aggiunge: «è il divino in me».
Questa nota personalissima e forse divagante, mi dà però modo di entrare nel vivo del problema, brevemente. Il problema per come io lo sento, e cioè cogliendo un riferimento che Rensi, nella sua autobiografia intellettuale, fa a Pirandello, quando dice: «Il teatro di Pirandello non è altro che la mia filosofia portata con grandissimo ingegno drammatico sulla scena. La cosa è così evidente e innegabile che verrebbe universalmente riconosciuta e proclamata se, a mio riguardo, circostanze che non hanno nulla a che fare con la valutazione del pensiero, non stessero ad impedirlo ». Rensi in effetti si illudeva: non erano le circostanze, e cioè il fa-scismo dominante, a impedire, parlando di Pirandello, un riferimento alla sua filosofia: era piuttosto l’ignoranza e la disattenzione. Il rapporto comunque c’è e al di là o al di qua di ogni etichettabile filosofia; il rapporto sta, intrinsecamente, nel loro essere naturalmente cristiani e nel loro drammatico scontrarsi in un mondo che s’appartiene a quella forma di ateismo chePlatone considera la più volgare e pericolosa: l’ateismo di coloro che credono nella trascendente divinità e che con invocazioni ed offerte, osservandone i riti, credono di poter averla propizia e tutto permettersi. Ed è una forma di ateismo molto diffusa nel mondo cristiano e nel nostro paese diffusissima. È un rapporto di corruzione che si instaura con Dio, quasi che Dio fosse un’entità simile a un ministero.
Di questa forma di ateismo che per lui era semplicemente impostura, ebbe sospetto che potesse insinuarsi nel mondo cristiano già Luciano di Samosata nel secondo secolo; e ne è certo Montaigne nel XVI, e possiamo noi del XX scrutarla in ogni sua manifestazione, implicazione e conseguenza, appunto nel prisma dell’opera pirandelliana. E si può cominciare dalla commedia Pensaci, Giacomino! in cui al cristianesimo del professor Toti si oppone l’ateismo pratico, l’ateismo attivo di padre Landolina, opposizione che esplode in queste battute finali: «TOTI (a Landolina parlandogli davanti) Vade retro, vade retro! Via, via Giacomino, non ti voltare! (E mentre Giacomino e Ninì passano la soglia, seguita imperterrito a gridare)Vade retro! Distruttore dellefamiglie! Vade retro!
LANDOLINA (accorrendo, gridando) Giacomino, io credo...
TOTI (subito dandogli sulla voce) Che crede? Lei neanche a Cristo crede!» Da qui, scorrendo tutta l’opera di Pirandello, ci apparirà quest’opera come conclusa, come serrata dentro il drammatico impatto che necessariamente doveva trovare la sua celebrazione definitiva nel teatro, nell’impatto tra quella che Bontempelli chiama l’anima candida e che io vorrei chiamare l’anima religiosa, l’anima naturalmente cristiana di una realtà umana di fidelistiche apparenze, ma sostanzialmente atea che è la nostra. [...] Contro questo tipo di ateismo non mi pare si rivolga oggi quello che appare come un ritorno alla religione; ha tutta l’aria di un ritorno di reduci, di sconfitti, di sconfitti nella affannosa, dolorosa e vana ricerca della felicità, nelle ideologie che quella terrena felicità prometteva. E l’effetto di questo ritorno, si intravede nel mondo cattolico; mi pare di trovare un riflesso in quello che Chesterton, altro grande scrittore cristiano, diceva cinquant’anni fa del cattolicesimo americano: che all’impressione di essere in America come in una terra avanti la venuta di Cristo, molte perplessità aggiungeva l’innegabile sviluppo del cattolicesimo, i tanti cattolici americani. «Ho conosciuto», diceva Chesterton, «una signora serissima, laureata nella migliore Università cattolica; era convinta d’essere stata Maria Maddalena in un’esistenza anteriore. Sono cose che fanno paura, un senso di religioni nere, di torvi misteri». E non per nulla oggi la Chiesa è costretta a prendere posizione contro l’astrologia. I torvi misteri: qualcosa di nero, di oscuro c’è, in questo ritorno al cattolicesimo.
Ma per concludere, c’è un solo vero e fervido segno di religiosità, di religione che mi pare scenda oggi nel cuore degli uomini ed è il desiderio e la speranza della pace. A questa parola, a questo segno, nell’avvento che avrà tra i popoli, tra gli uomini e soprattutto in ogni uomo, forse potrà legarsi la fine di quell’ateismo dominante che già Platone vedeva e condannava come il più pericoloso e malvagio.

Repubblica 18.1.14
Tornano gli Oligarchi
Zagrebelsky e Canfora: Democrazia svuotata
Stasera l’incontro tra i due studiosi all’Auditorium di Roma
di Raffaella De Santis


Le nostre democrazie appaiono negli ultimi anni sempre più svuotate. Il governo del popolo vacilla, in balia di forze nascoste che sembrano infischiarsene dei riti elettorali. Ecco allora che, in una situazione del genere, in cui i cittadini sembrano contare sempre meno, sono le oligarchie a riconquistare la scena, negli Stati Uniti come in Europa. È questo l’argomento che farà da filo conduttore al dialogo che si terrà stasera all’Auditorium Parco della Musica tra Gustavo Zagrebelsky e Luciano Canfora, intitolato proprio Democrazia e oligarchie (ore 21, Sala Sinopoli, coordina Nello Preterossi, prezzo 8 euro, ridotto 5). L’incontro è organizzato dagli editori Laterza e da Musica per Roma. La degenerazione oligarchica delle nostre democrazie è al centro da tempo della riflessione dei due studiosi: Luciano Canfora ha affrontato il nodo della crisi democratica nel libro curato da Antonio Carioti Intervista sul potere (Laterza) e Zagrebelsky è tornato più volte sul tema nei suoi numerosi scritti e interventi sulla democrazia, definendo l’oligarchia come il «regime della disuguaglianza e del privilegio». Un elemento emerge tra i tanti: il fatto che dopo due secoli di lotte democratiche, il potere stia di nuovo concentrandosi nelle mani di pochi, non alla vecchia maniera delle teorie elitistedi Robert Michels, ma modellandosi sulle nuove società e sulle nuove lobby finanziarie. Al posto delle formazioni politiche e dei partiti, emergono ora potentati economici legati alle speculazioni dei mercati.
Sono le attuali parole d’ordine della finanza e dell’economia a dettare oggi l’agenda politica. Parole spesso astratte, tecnicismi lontani dagli interessi reali e dal confronto politico parlamentare. Perfino il linguaggio più comune, termini come “Europa”, “sviluppo”, “mercato”, possono svuotarsi del loro significato originario e perdere di efficacia sul piano dell’azione politica.
Se le cose stanno davvero così, se è vero che noi cittadini contiamo sempre meno e che le decisioni vengono prese altrove, che fare? Sarà importante comprendere allora, ascoltando il confronto tra Canfora e Zagrebelsky, quale ruolo possono ritagliarsi oggi gli intellettuali dentro questa crisi di rappresentanza. In occasione di un incontro sullo stesso tema tenutosi lo scorso luglio all’Archiginnasio di Bologna, Zagrebelsky affidava agli intellettuali il ruolo di indagare la natura del mutamento: «Il nostro compito esclusivo è cercare di capire, non di cambiare il mondo».
La democrazia sta perdendo la sua sostanza. In uno scenario di questo genere, che possibilità si aprono per riappropriarsi, come cittadini comuni, del potere di poter contare? È questa la domanda cruciale che sarà al centro del dialogo tra due osservatori d’eccezione che si terrà all’Auditorium. Il confronto tra un giurista e uno storico sui temi cruciali dell’attualità può aiutarci a smascherare i retroscena della politica. Perché se è vero, come diceva Canetti, che la realtà del potere «sta nel nucleo più profondo del segreto», è anche vero che la democrazia non può vivere se non attraverso un rapporto veritiero tra i cittadini e le istituzioni.

Repubblica 18.1.14
I “soggetti smarriti” della Scuola di filosofia


TRIESTE — È nata da una costola del Laboratorio di Filosofia Contemporanea di Trieste, ma non è riservata a pochi addetti ai lavori. È una “Scuola di filosofia”, voluta da Pier Aldo Rovatti che del Laboratorio da un decennio è il direttore. Apre i battenti oggi, con un ciclo di lezioni dal titolo complessivo “Soggetti smarriti”, nella sede del Dipartimento di salute mentale di Trieste e continuerà fino a domenica 11 maggio. Si parlerà anche di letteratura, cinema, di psichiatria e psicoanalisi. «L’iniziativa è un esperimento – ha detto il filosofo Pier Aldo Rovatti – al centro c’è la parola filosofia e ciò che questa parola esprime e richiama. Accanto a ciò avevamo un’altra necessità, di mandare un messaggio più diffuso a tutta una serie di luoghi, aspetti e pratiche sociali ». Per saperne di più www.filolab.it.