sabato 21 luglio 2007

Liberazione 21.07.2007
Giordano: Il soggetto unitario deve diventare un fatto di massa
Sintesi delle conclusioni del segretario nazionale di Rifondazione comunista

Penso che abbiamo svolto una discussione importante, un vero salto di qualità del nostro dibattito, che ha prodotto un larghissimo consenso seppure siamo in un passaggio complesso e difficile delle relazioni politiche e sociali. Consenso e spirito unitario che stridono con la rappresentazione interessata che sulla stampa abbiamo letto in questi giorni.
In questa replica non voglio tornare sul filo dell'impianto strategico che ho svolto nell'introduzione, quell'impianto che ci fa richiamare il Congresso di Venezia e poi gli sviluppi nella conferenza di Carrara.
Mi limiterò ad un ragionamento sui passaggi politici, decisivi per il prossimo futuro, ripromettendoci di tornare sulla nostra cultura politica, alla luce delle preoccupazioni da qualcuno accennate rispetto ai rischi di un loro offuscamento avvenuto in questa fase.

Al centro è la trasformazione, non il governo
Ci sono stati naturalmente anche alcuni dissensi. Cannavò ci ripropone posizioni per noi note, che nei fatti possiamo racchiudere attorno all'affermazione che nell'occidente capitalistico non è possibile pensare di collocarsi dentro una qualsiasi ipotesi di governo, prospetta una opposizione quindi di fase e strategica.
Questo paradigma politico e culturale non è condivisibile. Anzi, questo atteggiamento nei fatti rischia di essere una fuga dalla politica. Burgio giustamente aggiunge che i problemi che ci ritroviamo da questa collocazione, li ritroveremmo anche stando all'opposizione.
Per noi il governo è un mezzo e non un fine, per noi al centro c'è il tema della trasformazione sia che siamo al governo, sia che siamo all'opposizione, la nostra funzione rimane comunque quella di critica al potere. Questo è un pezzo importante per la costruzione di una nostra nuova identità. Non può esistere una ipotesi divaricata tra stare al governo e stare nei processi reali e di movimento.
Non accettiamo lo schema che viene da sponde opposte, di chi ci chiede coerenza nello stare al governo abbandonando i movimenti, e al contrario di chi vorrebbe escluderci nel movimento perchè siamo ora nel governo.
E qui la polemica prosegue con Eugenio Scalfari, che nega ogni forma di autonomia del conflitto, ma non solo la nostra, anche quella del sindacato.
Riproponendo una forma coercitiva di esercizio del ruolo di governo, siamo minoranza e dobbiamo sottostare alle decisioni della maggioranza del governo. Per lui non esiste il programma, non esiste il concetto di mandato elettorale.Vogliono ripristinare una sorta di compatibilità organica, il programma scompare e rimangono i rapporti di forza, ma non nella società, nella sfera del governo e dei luoghi di comando.
E' dentro questo quadro che si spinge sull'ipotesi referendaria e di riforma elettorale e che vede la Confindustria diretta protagonista. Il paradigma è sempre quello dell'impresa e noi siamo un vincolo, un impaccio.
Questa cultura politica convive con la natura costituente del nuovo Partito Democratico, l'omologazione in modo compiuto passa attraverso la riforma elettorale.

La partita si gioca su previdenza e riforma elettorale
La nostra proposta sulle pensioni, che ho tratteggiato nella introduzione, è in sintonia con il programma dell'Unione ed è apertamente contrastata da un pezzo della coalizione, lo dice chiaramente Dini in una intervista.
Io penso che noi dobbiamo stare al merito, e distinguere in primo luogo la partita nel gruppo dirigente di Rifondazione, da quella che determina la condizione materiale dei lavoratori sulle loro pensioni. Non si può usare questa tribuna per andare sui giornali e poi non rimanere neanche alla discussione e alla fine ridurre tutto ad una partita interna quando ci sono lavoratori che per effetto dello scalone vanno in pensione tre anni dopo, e per chi ha maturato già 40 anni di contribuzione rischia di andarci 18 mesi dopo! Questo è quanto avverrà tra pochi mesi se non cambieremo la legge del governo Berlusconi.
Noi siamo pronti ad affrontare la sfida della congruità come ci chiede Romano Prodi. Oggi, anche grazie all'aumento dei contributi avvenuto in finanziaria dello 0,3%, ci sono le condizioni per fare una proposta congrua nel rispetto del programma dell'Unione. Non solo, va detto che oggi i privilegi sono quelli dei dirigenti d'azienda che attingono al fondo dei lavoratori dipendenti per percepire pensioni ben più sostanziose di quelle degli operai di cui stiamo parlando.
Lo scalino che viene portato a 58 anni prevede una platea larga di lavoratori esentati, turnisti, addetti alla catena di montaggio, ma non solo, quelli che hanno maturato 40 anni di contributi, ma anche allargando alla scuola e ad altri lavori usuranti fuori del lavoro di fabbrica.
Qui è il cuore della nostra proposta che non quella di ritardare l'applicazione dello scalone negli anni successivi. Ci hanno accusato di tutto, di essere pan sindacalisti, subalterni al sindacato, ma anche di essere troppo invadenti.
Ma che politica è, se una sinistra non può concorrere a decidere sulla condizione dei lavoratori?
E' giusto, come dice Rinaldini su Liberazione, che se è stato lasciato uno spazio vuoto ci sia qualcuno che lo riempie. Ci sono oggi le condizioni perchè venga raggiunto un accordo di merito, a meno che non ci sia un disegno politico che vuole impedirlo.
Dietro la campagna sui giovani contro gli anziani vi è in realtà una logica di redistribuzione all'interno del mondo del lavoro che tende a dividerlo, a colpire il lavoro operaio in particolare, ed a lasciare inalterati i profitti.
La manifestazione nazionale unitaria in programma per ottobre deve avere al centro la precarietà, che non è la patologia del mondo di oggi, è la cifra di questo capitalismo, è la rincorsa del lavoro al suo prezzo più basso.

Tornare al Marx delle macchine
Qui c'è un grande tema che è stato sollevato dalla discussione, riguarda il ruolo della scienza e della tecnica sul processo di valorizzazione del capitale. Esso non è scisso dai temi che abbiamo trattato, riguarda il tempo liberato, in particolare quello della pensione, l'impresa vuole riprendersi quella quota di tempo liberato che la tecnologia ti offre, vogliono rimetterlo nella catena di costruzione del valore, ma vogliono anche costruire un'egemonia culturale sul tempo fuori dal lavoro.
Questo ci dice che la sinistra non può pensare solo al governo e all'uso sociale della tecnologia, deve ripensare le forme di produzione sociale, la genesi della tecnologia che ha incorporato i rapporti di forza capitalistici. Mi piacerebbe tornare al Marx delle macchine, e ad un'altra idea della macchina, a costruire un'altra idea della razionalità a partire dalla produzione delle macchine che non possono essere funzionali solo a questa logica.
Un'inchiesta di diversi anni fa svolta alla Zanussi, parla di una donna che doveva entrare in fabbrica alle 6 di mattina, aveva due bambini piccoli da portare la mattina prestissimo dalla madre. Durante il lavoro è lì a pensare a come li ha dovuti svegliare, allo strappo che ha avuto da loro mentre ancora stavano dormendo, e pensa a come potrà risarcirli, a cosa farà quando uscirà. Ma poi quando esce dal lavoro non ha più la forza e la testa, di fare tutto quello che aveva progettato. Li riporta a casa come il giorno prima, perché quei ritmi e quel lavoro ti svuotano anche dei desideri.
Noi quando pensiamo ad una società alternativa, critica contro queste forme di organizzazione del lavoro pensiamo anche alla conquista della libertà e dell'autonomia dei soggetti dalla cultura drammatica dell'impresa.

Non è in campo nessuna ipotesi di scioglimento di Rifondazione comunista
Oggi siamo a dei passaggi decisivi, decisivi per un'alternativa di società e di trasformazione, possiamo dirlo ormai apertamente alla luce di questa discussione, importante, avuta nel Comitato Politico: non è in campo nessuna ipotesi di scioglimento di Rifondazione comunista, nonostante quanto se ne sia parlato, scritto, detto in queste settimane, qui non è stata avanzata da nessuna compagna e compagno. Questo, in modo chiaro, ci consegna questa discussione.
Ma questa paura che comunque è circolata, questa diffidenza che sempre c'è stata attorno alla proposta di costruzione del nuovo soggetto plurale, ora non deve più rappresentare un freno nella nostra azione. Perché, al contrario, è necessario accelerare. E' necessario perché c'è bisogno di questo nuovo soggetto. Se ricordate bene, sono le stesse paure che avevamo quando dovevamo costruire la Sinistra Europea, questione sulla quale abbiamo poi conquistato l'intero partito, producendo sullo scenario europeo una forza che è un'alternativa ad una sinistra tecnocratica e liberale ed ad una destra iperliberista e conservatrice. Un'operazione che nasceva anche in relazione alle esperienze di protagonismo diffuso che si sono prodotte in America Latina, dentro la crisi dell'unilateralismo americano, dentro la necessità di un'Europa fondata sul protagonismo sociale.
Mettiamo a valore questa esperienza, l'innovazione politico culturale che ha caratterizzato il percorso della sinistra europea, deve entrare dentro il progetto del soggetto unitario a sinistra.
Si tratta oggi di costruire una sinistra pacifista, antiliberista, laica.

Superiamo le nostre paure, acceleriamo il processo unitario a sinistra
Il soggetto unitario deve diventare un fatto di massa, di popolo, deve guardare ai movimenti, al conflitto sociale, alle comunità che si contrappongono ai processi di globalizzazione.
Abbiamo fatto degli atti importanti, il patto di unità d'azione, i quattro ministri che hanno chiesto il rispetto del programma, gli incontri, tutto ciò ha prodotto un'efficacia nuova ed una visibilità nell'incidenza nei confronti del governo, ora però è necessario che il nuovo soggetto sia produttore di una soggettività, deve appunto diventare un fatto di massa, di popolo, deve contrastare la spoliazione del protagonismo sociale.
Nella discussione è anche emersa una resistenza, che va capita ed ha delle giustificazioni nel fatto che in tutta la storia recente tutti i processi di innovazione sono state funzionali a processi di moderazione e riduzione delle spinte alternative e conflittuali. E'una paura ad investire fino in fondo in questo processo. In queste nostre resistenze si esprime al fondo una scarsa fiducia in noi stessi. Ma attenzione, la nascita del Partito Democratico è un problema vero, Veltroni tende a sussumere il tutto, non a parlare solo ad una parte, simbolicamente ingloba il tutto, concretamente rappresenta solo una parte.
Per questo noi dobbiamo prospettare, a partire dalla costruzione di questo nuovo soggetto unitario, una sfida strategica al Partito Democratico, un soggetto ancorato nel lavoro, non equidistante tra lavoro ed impresa, che non guarda ad un astratto ed indistinto cittadino - consumatore, che ha una grande fiducia sulla ricchezza di questa nostra comunità, che ha la capacità di raccogliere le spinte dei movimenti, le spinte antiliberiste, le spinte sul terreno della democrazia e delle libertà. Un'idea altra di società e un'altra idea di razionalità. Ce la possiamo fare. Ce la dobbiamo fare.


Salvatore Bonadonna

La relazione del Segretario colloca la discussione sulla fase politica nel quadro della costruzione dell'alternativa di società e del progetto di unità a Sinistra; anche in vista del Congresso. Mi convince questa impostazione e mi conferma l'inopportunità della riunione di Segni. L'acutizzazione dello scontro sociale e politico che si concentra sulle pensioni deriva dall'incapacità delle forza moderate di governare la crisi all'epoca della globalizzazione. E l'idea di rispondere a queste crisi con la costruzione del Partito Democratico invece che con politiche economiche innovative perché redistributive in senso egualitario e risarcitorie in senso sociale ed ambientale, non solo è miope ma rischia di costituire una sponda al cortocircuito tra liberismo economico e liberalismo politico del Corriere della Sera e anche di Eugenio Scalfari. Il Pd, il veltronismo, il manifesto di Rutelli rischiano di essere apprendisti stregoni che evocano i pericoli dell'estremismo aprono la strada ai processi autoritari che si alimentano anche dell'antipolitica e vedono la democrazia come sistema di sprechi e inefficienze. Il destino della Sinistra non può essere affidato a rapporti diplomatici tra gruppi dirigenti ma deve puntare decisamente alla costruzione del soggetto politico unitario e plurale, l'alternativa pacifista, anticapitalista e antiliberista, egualitaria e non violenta. Non mi convince la discussione astratta se e come andare "oltre Rifondazione". Sulle pensioni così come sulla Finanziaria, nella preparazione della manifestazione dell'autunno, dovremo svolgere incontri e assemblee del popolo della Sinistra. In questi incontri dovremmo eleggere i delegati dei Consigli Territoriali della Sinistra d'Alternativa. Avviare così la costituente del soggetto politico.

venerdì 20 luglio 2007

Corriere della Sera 20.7.07
Estetica. Il risveglio del sublime Un grande filologo e la storia di un'idea: dalla Grecia al '700 sino a Mark Rothko e Barnett Newman di Glenn W. Most



Il sublime ha davvero cessato di esistere alla metà del XIX secolo? Da una parte, non c'è dubbio che a quell'epoca una certa forma di sublime abbia perlopiù smesso di essere in voga in Europa. Per quanto riguarda la teoria estetica, infatti, gli ultimi filosofi per i quali il sublime fu una categoria rilevante furono Hegel e la sua prima generazione di allievi. Nella poesia lirica, la grande stagione del sublime romantico di Wordsworth, Shelley, Coleridge, Hölderlin e Leopardi, alla metà del secolo cedette il passo a una poetica dai toni più dimessi o più ironici.
Si potrebbe forse dissentire sul momento preciso in cui il sublime tramontò in ciascuna disciplina, ma sembra impossibile negare che, alla seconda metà dell'Ottocento, la cultura europea nel suo insieme aveva compiuto il piccolo passo che, a detta di Napoleone, separava il sublime dal ridicolo.
D'altra parte, sembra egualmente impossibile negare che in un certo numero di campi il sublime abbia beneficiato di una notevole reviviscenza durante la seconda metà del XX secolo. Per quanto riguarda le arti figurative, Barnett Newman e Mark Rothko dipinsero a colori forti tele non rappresentative che raggiungevano efficacemente lo scopo di produrre sensazioni di disagio oceanico e di agitazione ansiosa nello spettatore. Nel saggio Il sublime oggi, Newman sostenne che l'arte americana a lui contemporanea stava tentando di far rivivere la tradizione del sublime, in voluto contrasto con il gusto artistico europeo che amava l'opera piccola, graziosa, fastidiosamente rappresentativa.
La scomparsa del sublime nel XIX secolo e la sua diffusione nel XX secolo sono fatti altrettanto evidenti e, proprio per questo motivo, rappresentano un problema teorico di notevole importanza e difficoltà. L'unico modo per risolvere questa difficoltà consiste, a mio parere, nel fare un distinguo fra il concetto di sublime e l'opera classica di Longino.
Si consideri quindi non tanto la grandezza del sublime longiniano bensì il suo legame con l'idea che il mondo sia governato da una sorta di volontà divina. È facile che il terrore che sempre accompagna il manifestarsi del sublime induca erroneamente l'osservatore a pensare di trovarsi di fronte alla storia della distruzione dell'umanità a opera di un universo indifferente. Ciò che il sublime intende significare, invece, è tutt'altra cosa: non parla solo di pericolo e di distruzione, ma soprattutto di elevazione spirituale, morale e intellettuale al disopra della quotidianità e della bassezza dell'individuo. Esso permette all'uomo di accedere a un livello dal quale guarda a distanza le proprie limitazioni e si identifica con il punto di vista del dio, che è responsabile ultimo del mondo e del ruolo che in esso è assegnato all'umanità.
Per Longino, il sublime non è solo una categoria letteraria o retorica: le grandi opere della letteratura classica greca fanno riferimento a un modello antropologico e cosmologico che naturalizza il sublime, così da permettere di interpretare l'ordinaria insoddisfazione della vita come prova della destinazione dell'umanità a forme di realtà più alte e più nobili. Percepire e comprendere il sublime non è esattamente come farsi dio, poiché ciò è precluso ai mortali, ma comporta il massimo avvicinamento possibile per l'uomo al livello della divinità. Si potrebbe dunque concludere forse che la possibilità di elevazione insita nel sublime dipenda dall'assunzione di esistenza di una divinità ordinatrice del mondo. Senza la provvidenza, l'esperienza del sublime non si rivelerebbe una catastrofe senza scampo?
Che tale convinzione sia errata, è provato dall'opera di almeno un celebre autore antico, Lucrezio, autore del poema didattico epicureo
De rerum natura. Il De rerum natura può essere visto come una serie di impressionanti esempi di sublime. Si consideri, ad esempio, il famoso
incipit del secondo libro. Le parole usate da Lucrezio non sfigurerebbero nel catalogo di una mostra d'arte sul sublime del XVIII secolo: descrivono infatti una nave in preda alla tempesta, un campo di battaglia gremito di truppe e straziato dalla carneficina. Il piacere che viene evocato da Lucrezio non deriva in prima linea dalla soddisfazione sadica di assistere alle sofferenze altrui, ma dalla coscienza della distanza dalla quale si osservano gli errori nei quali incorre la maggior parte degli uomini. Questa elevazione cognitiva salva l'Epicureo dalla miseria umana e lo avvicina alla saggezza divina.
Secondo Epicuro e Lucrezio, certamente, gli dei esistono; ma non concorrono in alcun modo all'ordinamento del mondo né si occupano di punire, di ricompensare, di provocare eventi o di agire in qualunque modo che possa turbare la loro perfetta beatitudine o scalfire la loro assoluta indifferenza.
Lucrezio non formula mai esplicitamente una teoria del sublime; tuttavia il linguaggio e la retorica da lui impiegati non possono non indurre il lettore a portare la sua teoria alla luce. Mentre il sublime longiniano è una forma di teodicea che giustifica la sofferenza umana richiamandosi alla logica superiore della saggezza divina, il sublime di Lucrezio venera una forma di eroismo umano, che si rivela possibile in un universo abbandonato a se stesso dagli dei. Il sublime longiniano magnifica il dio, di cui si sperimenta il potere e la benevolenza anche attraverso la sofferenza e il rischio di distruzione, mentre si supera la propria piccolezza. Il sublime di Lucrezio, invece, magnifica l'uomo, che raggiunge la grandezza proprio in assenza di una divinità effettiva e diviene perciò egli stesso una specie di dio entro un mondo spogliato di significato ultimo.
Sarebbe troppo semplice, tuttavia, concludere senza nemmeno un cenno ai pericoli insiti nella concezione del sublime di Lucrezio. Tuttavia, non è facile dare un senso alla vita se si dispone solo di atomi, di vuoto e di casualità. Essere liberi dal giogo di un dio apre grandi spazi alle ambizioni del soggetto, ma provoca allo stesso tempo un senso di instabilità e di solitudine tale da privare l'uomo di qualunque felicità duratura. «Life at the top is lonely», recita un adagio americano.
La malinconia è la malattia professionale di chi pratica il sublime di Lucrezio. Secondo la testimonianza pur non pienamente affidabile di Geronimo, il poeta latino stesso diventò folle per aver abusato di un filtro d'amore e scrisse il De rerum natura durante brevi intervalli di lucidità, prima di darsi la morte. Sono certe, invece, le notizie biografiche sugli artisti più vicini a noi. Mark Rothko si tolse la vita tagliandosi le vene nel suo studio, a New York, il 25 febbraio 1970.



Un atteggiamento che porta a follia e malinconia
IERI E OGGI Due esempi di sublime nell'arte: a sinistra «La valorosa Téméraire» di William Turner (1838-1839); qui accanto «White center (yellow, pink and lavender on rose)» (1950) di Mark Rothko, venduta per 72,84 milioni di dollari
Il testo integrale è consultabile sul sito
www.corriere.it
SENSISMO

Liberazione 20.7.07
Cossutta: «Bertinotti, hai ragione
Subito la costituente di sinistra»
di Angela Mauro


Il passato è passato, le ferite, prima o poi, devono essere superate e questo è il momento per farlo in nome della costruzione di un «partito politico unitario e plurale della sinistra». Un'Armando Cossutta sganciato dagli «obblighi di appartenenza» (come dice lui), libero dal Pdci che ha lasciato dopo lo scontro con Diliberto, ci accoglie nel suo studio al Senato parlando entusiasticamente di due articoli che ha in bella vista sulla scrivania: l'editoriale di Fausto Bertinotti sulla costituente della sinistra e l'intervista di Liberazione a Nichi Vendola. «Condivido Bertinotti», dice Cossutta, nove anni dopo la scissione da Rifondazione. Per l'unità a sinistra «bisogna fare presto, ma dopo la bella assemblea di Sinistra Democratica all'Eur, vedo rallentamenti...».

C'è paura di perdere l'indentità?
Credo non ci sia una precisa percezione della gravità della crisi. Perciò viene meno il senso dell'urgenza che invece è compresa dal grande popolo della sinistra. Rifondazione, che ho fondato, e il Pdci, che pure ho fondato, di per sè sono di sinistra ma non sono la sinistra, e così è per Sd. La sinistra alla quale penso supera queste particolarità per giungere ad una composizione plurale e democratica, un grande soggetto politico. C'è esitazione, ma io non esito a dire che c'è l'urgenza di costituire un partito politico unitario e plurale della sinistra.

Non è un caso che hai davanti a te le riflessioni di Bertinotti e Vendola?
Leggo sempre gli interventi su Liberazione , ho letto anche Alfonso Gianni...

Appunto, la direzione è la stessa...
E altri non vanno nella stessa direzione, succede in Rifondazione e anche nel Pdci. Alcuni di questi gruppi dirigenti hanno uno sguardo ristretto, sono abituati ad una sopravvivenza marginale e difensiva, tutta stretta attorno ai propri simboli, alla propria identità. Ma oggi è a rischio l'esistenza della sinistra e i piccoli passi non bastano più. Sento parlare di patti di unità, di confederazioni: è il segno di una qualche consapevolezza, ma non basta. Ci vuole il coraggio delle grandi innovazioni.

Una costituente?
Sì, è giunto il momento di una grande costituente del partito politico unitario della sinistra italiana. Non ignoro le difficoltà, ci sono differenze, ma i problemi ce li hanno tutti: è un errore pensare che ognuno se li possa risolvere per proprio conto, con un processo unitario tra gruppi consanguinei. Vanno affrontati insieme, la sinistra deve raccogliere tutti coloro che si sentono di sinistra, come dice Bertinotti. Mi dispiace parlare di me stesso, ma ha un certo significato che Liberazione mi intervisti.

No, parli pure di se stesso, del passato...
Dentro il Pci, nel '90-91, ho combattuto una battaglia strenua contro il leader della liquidazione del partito, Occhetto: ci siamo cavati la pelle l'un l'altro. Con Bertinotti ho avuto polemiche aspre, quando nel '98 c'è stata la separazione che tutti conoscono. Ma oggi avrà pure un significato che Occhetto, Bertinotti e Cossutta trovino una convergenza.

Chi ha avuto ragione?
Non mi interessa. La storia non si può cancellare, ognuno ne è portatore, ma oggi c'è qualcosa che deve far riflettere tutti. Bisogna liberarsi dalla paura dettata dalla propria identità, non è razionale e non corrisponde alle esigenze. Oggi io mi ritrovo a cercare la strada per una larga sinistra insieme a questi compagni con i quali lo scontro politico, in anni non così lontani, è stato un patto feroce...

Il momento più aspro che ricordi?
Ricordo quando nel '97 alla sede di Viale del Policlinico arrivarono in pullman i compagni operai di Brescia con l'attuale responsabile del lavoro del Prc Zipponi, per dire a me e Bertinotti di non rompere con il governo. E' stato un momento teso, la crisi fu superata ma i problemi restarono e nel '98 si arrivò alla separazione.

La questione del governo: per Bertinotti resta una variabile dipendente, mentre il rapporto con i movimenti è la variabile indipendente per la sinistra. Condividi anche questo oggi?
Apprezzo molto le posizioni di Bertinotti, sono tra le più avanzate di quelle espresse a sinistra. Io penso che il movimento operaio nel suo insieme debba avere l'obiettivo di contribuire a governare il paese cercando i consensi con le forze indispensabili per governare. Non è un tabù, deve essere un obiettivo da perseguire continuamente. Il Pci conduceva la sua lotta con metodi e obiettivi che corrispondevano alle esigenze generali del paese e si sentiva di governo pur essendo all'opposizione. Questa dovrebbe essere la caratteristica di questa grande sinistra. Per farlo c'è bisogno di lucidita di analisi e passione, la stessa che deve accompagnare la formazione di una lista unitaria con un simbolo comune della sinistra alle prossime elezioni, altrimenti questa sarebbe una soluzione elettoralistica.

Parli del Pci, ma oggi, soprattutto con l'ecumenico Veltroni in campo, è difficile attualizzare il ricordo...
Quando il Pci doveva lottare contro la Dc che aveva la maggioranza assoluta, noi dicevamo: certo, voi vi contate e siete più numerosi, ma noi sappiamo di rappresentare una parte della società che può pesare anche se ancora i numeri non ci sono. Per pesare bisogna incidere. Oggi non possiamo pensare solo ad aumentare i voti del Prc o quelli di un piccolo partito come il Pdci che dopo anni è ancora al 2 per cento? Ben venga, ma non si va da nessuna parte.

Oggi hai un rapporto migliore con Bertinotti o con il Pdci?
Corretto, con l'uno e gli altri. Ma devo dire che sono d'accordo con Bertinotti. Le polemiche ci sono state ma le ferite si superano prima o poi: questo è il momento.

giovedì 19 luglio 2007

il Riformista 19.7.07
Germania a sinistra, ma la Spd è nei guai
di Paolo Soldini


Ai socialdemocratici tedeschi l’ultimo sondaggio di opinione, condotto dalla Allensbach, il più serio istituto demoscopico della Germania, ha portato due notizie. Una è buona e l’altra è cattiva, ma non fanno un pareggio: quella cattiva, infatti, è tanto cattiva da mandare in malora anche quella buona.
Vediamo un po’. La notizia buona è che il più autorevole oracolo politico della Repubblica federale registra l’esistenza di una maggioranza assoluta (in voti e non solo in seggi) per la sinistra. I tre partiti che la compongono (la Spd, i Verdi e la Linke), se si votasse oggi otterrebbero il 50,5% dei voti. La Germania, in assoluta controtendenza rispetto agli altri paesi europei, si sbilancia a sinistra, dando postuma soddisfazione a un celebre, e mai verificato, postulato di Willy Brandt, secondo il quale, già all’inizio degli anni ’80, esisteva una strutturale «maggioranza a sinistra del centro». Fine della notizia buona.
La notizia cattiva, anzi pessima per il partito che fu di Brandt e ora è dello scialbo Kurt Beck, sta nel come è composta quella ipotetica maggioranza del 50,5%. E cioè: solo un 28,3% dai consensi della Spd, ovvero la bellezza di quasi 6 punti percentuali in meno del 34.2% che fu il risultato elettorale (vero) del 18 settembre 2005; un 9,7% dai voti potenziali per i Verdi (rispetto all’8,1 delle elezioni) e un quasi incredibile 12,5% della Linke (che aveva avuto nel 2005 un già sorprendente 8,7). Insomma: la grande rimonta ha un nome e cognome, anzi due nomi e due cognomi: Oskar Lafontaine e Lothar Bisky, mentre sul nome del presidente Spd si abbatte pure il destino d’una infamante postilla: secondo un altro istituto di sondaggi, il Forsa, se oggi si facesse un referendum tra gli elettori socialdemocratici, Kurt Beck soccomberebbe, in una sfida diretta per la cancelleria, alla cancelliera che c’è già: Angela Merkel. Mai successo, neppure ai tempi della massima popolarità di Helmut Kohl.
Pignoleggiando, si potrebbe sottolineare che anche la buona notizia è buona fino a un certo punto: considerati complessivamente, Spd, Verdi e Linke già nel 2005 raccoglievano la maggioranza assoluta dei consensi elettorali, esattamente il 51% e a ben vedere, quindi, hanno perso mezzo punto. Il fatto è che però a quel tempo in alcun modo i tre potevano essere considerati politicamente accomunabili. Gerhard Schröder, con il pieno assenso degli organismi dirigenti socialdemocratici, aveva escluso ogni ipotesi di accordo con la Linke, cosicché chi la votava sapeva bene di scegliere un partito chiaramente (e duramente) in alternativa alla Spd. E viceversa. Ora invece non è più così. Il non possumus vacilla da tutte e due le parti e più si acuiscono i contrasti nella grosse Koalition più tra i socialdemocratici crescono le tentazioni per una piccola Linkenkoalition colorata di rosa, di rosso e di verde.
La circostanza rischia di aprire una querelle pericolosissima nella Spd, che attraversa, già di per sé, una fase molto delicata su più fronti. È alle prese con la discussione del suo nuovo Programma fondamentale; ha un gruppo dirigente che non è mai stato tanto debole; ha difficoltà sempre più grosse a far valere le sue idee di riforma del welfare nell’alleanza con una Cdu-Csu ben altrimenti orientata; sta perdendo il contatto con ceti e zone del paese (soprattutto le nuove professioni nelle grandi città) in cui era tradizionalmente radicata. Una serie di item del sondaggio Allensbach sono, per il partito di Beck, micidiali: alla domanda «Chi difende di più lo Stato sociale?» il 26% dei tedeschi interpellati risponde: «La Linke» e solo il 25% la Spd. Il 29% (contro il 22%) ritiene che la Linke si curi di più della «giustizia sociale»; il 36% (contro solo il 10%) che «proponga misure più adeguate per creare più eguaglianza»; il 44% (contro soltanto il 9%) che si dia da fare «per ridurre il divario tra ricchi e poveri». Insomma, su praticamente tutti i temi sociali la formazione di Lafontaine e Bisky è considerata dall’insieme dell’elettorato tedesco più attrezzata di quella di Beck. E ciò in un contesto, oltretutto, in cui sfuma la diffidenza verso quanto ci potrebbe essere di «veterocomunista» in un partito che, bene o male, raccoglie anche l’eredità della Sed della fu Rdt: il 45% contro il 27% dei tedeschi (il 57% contro il 19% nei Länder dell’est) ritiene che il socialismo sia «una buona idea che è stata applicata male».
D’altronde, queste opinioni trovano un riscontro nel rapporto dei due partiti con i sindacati. Un tempo indiscusso serbatoio di consensi per la Spd, una buona parte delle 8 confederazioni di categoria che compongono la Dgb (6,8 milioni di iscritti), sta emigrando ormai da parecchi mesi verso la Linke, considerata più attenta e più competente sui grandi temi del precariato e della difesa del salario. Particolarmente dolorosa, per i socialdemocratici, è la perdita di egemonia che registrano in diverse federazioni della ver.di, la confederazione dei lavoratori nel settore dei servizi, e nella mitica Ig-Metall.
In queste condizioni, il congresso convocato per novembre allo scopo di approvare il testo del nuovo Programma fondamentale rischia di tramutarsi per la Spd in un drammatico redde rationem sul tema dei rapporti a sinistra. Uno scontro che potrebbe essere reso ancora più lacerante dall’eventualità che, dissoltasi la grosse Koalition, la Germania si trovi già in clima pre-elettorale. Prospettiva nera per Kurt Beck, e non solo per lui. (...)

l’Unità 19.7.07
Intervista a Mussi
«Fermiamo la lotta di classe dei ricchi contro i poveri»
«La minaccia al governo non viene da sinistra»
di Simone Collini


Non c’è un conflitto sulle pensioni tra giovani e vecchi. Fabio Mussi vede invece dispiegarsi oggi in Italia «una lotta di classe»: «Dei ricchi, in forza, contro i poveri». Il ministro per l’Università e la ricerca guarda con preoccupazione alla «fune tirata da settori del centro dello schieramento» sullo scalone. Attenzione a questa «linea oltranzista», dice il leader di Sinistra democratica, attenzione a dipingere come nemici dell’accordo sulla riforma previdenziale i sindacati. «Su una linea così non solo salta il governo ma si alza fino all’incandescenza il conflitto sociale. Questo si vuole?».
Quando l’accordo sulle pensioni sembrava in dirittura d’arrivo è arrivata la mossa di Emma Bonino. Come la giudica ministro Mussi?
«È un episodio di guerra preventiva. Voglio bene alla Bonino, però ha utilizzato una forma stravagante».
Ha detto che rimetteva nelle mani di Prodi il suo incarico chiedendogli di decidere se il suo permanere nel governo è compatibile con la proposta che presenterà ai sindacati.
«Un chiaro tentativo di condizionamento. Non consapevole dell’importanza per il governo, per la sua tenuta e durata, di un accordo con le parti sociali. Il governo non agisce mai sotto dettatura di un altro soggetto. Ma senza concertazione si va alla guerra di tutti contro tutti».
Il dubbio della Bonino è che si siano ascoltate troppo le “posizioni reazionarie della sinistra comunista e sindacale”.
«Madonna santa. Noi partiamo dal programma. Si fa un gran discutere di crisi della politica. Uno dei modi per non aggravarla è fare in modo che tra le parole, gli annunci, le promesse, e i fatti, le azioni, ci sia coerenza. Immagino che quelli che nella Fabbrica del programma di Prodi hanno scritto “abolire lo scalone” sapevano quel che facevano».
Il programma dice però anche che bisogna tenere conto dei cambiamenti demografici.
«Certo. E io aggiungo anche i cambiamenti della struttura del mercato del lavoro, il fatto cioè che i giovani sono sempre più impegnati in lavori atipici, precari, a tempo determinato, discontinuo. Questo pone un problema enorme in relazione all’entrata in vigore del sistema contributivo. Mi sono battuto per la riforma Dini e nel 2012 si supererà il sistema dell’età in quanto si andrà in pensione prendendo in proporzione i contributi versati. Se per i giovani il lavoro continua a essere così precario si crea un problema esplosivo che va affrontato precocemente».
C’è anche chi dice che sarà un problema tenere in ordine i conti dell’Inps se non ci sarà un innalzamento dell’età pensionabile.
«Intanto, nella precedente Finanziaria abbiamo già aumentato il prelievo contributivo sul lavoro dello 0,3%, il che ha dato 800 milioni di euro. E poi oggi c’è un attivo dell’Inps di 3 miliardi e mezzo di euro, con il quale si finanziano i passivi di altre casse previdenziali. Per esempio si finanzia il deficit della cassa previdenziale dei dirigenti d’azienda. Cioè questo è un paese in cui i lavoratori con i loro contributi finanziano le pensioni ai loro capi. E la cosa appare normale».
Tenuto conto di tutto questo?
«Si tratta di lavorare a un onorevole compromesso».
L’ipotesi che circola circa lo scalino di 58 anni più le quote contributi-più-età possono portare a un accordo?
«Se c’è anche la messa in sicurezza dei lavoratori precoci, quelli che hanno 40 anni di contributi, gli usuranti».
E se a un’ipotesi del genere ci fosse oggi l’accordo con le parti sociali?
«Credo che il governo dovrebbe nella sua collegialità sostenerlo. Servirebbe a garantire la sua tenuta».
Nella sua collegialità vuol dire anche dai partiti di sinistra, come il Prc, che nelle passate settimane si sono mostrati scettici?
«La minaccia, nonostante la monumentale costruzione ideologica, non viene da sinistra. Rifondazione comunista ha avuto la tentazione di scavalcare il sindacato. Mi pare che sia rientrata».
Da dove dice che viene la minaccia?
«La fune viene tirata da settori del centro dello schieramento. Settori del costituendo Partito democratico e dintorni. È da lì che sono venute le più esplicite minacce, compresa quella di aprire una crisi di governo. E questo su una linea oltranzista: i nemici sono i lavoratori e i sindacati, non vogliono fare l’accordo, l’unica cosa che conta è il dato economico. Su una linea così non solo salta il governo ma si alza fino all’incandescenza il conflitto sociale. Questo si vuole?».
Importanti giornali soffiano sulla crisi di governo, quello di Confindustria suggerisce a determinati ministri di dimettersi.
«È la prima volta che il Sole 24 Ore fa degli articoli in cui auspica una crisi di governo. Non gliel’ho mai visto fare. Quando l’esecutivo era presieduto da uno degli associati di Confindustria, di nome Silvio, con il debito pubblico in ripresa, il deficit sopra le soglie del Patto di stabilità europeo, la crescita zero, non è stata chiesta la crisi di governo».
Questo per dire cosa?
«Voglio fare un appello per fermare la lotta di classe. La lotta di classe in forza dei ricchi contro i poveri».
Più che altro oggi si parla di un conflitto di generazioni.
«Sì, una volta c’erano le dispute tra gli antichi e i moderni, ora c’è la disputa giovani-vecchi. Rutelli ha persino invocato la protesta dei giovani contro i sindacati, poi ci ha provato Giachetti e hanno partecipato in venti».
La teoria non la convince?
«L’atto più ostile della società attuale contro i giovani si chiama precarietà. Sono state approvate leggi che hanno enormemente moltiplicato la condizione precaria dei giovani. E anzi ormai non si può dire neanche più dire che il fenomeno riguardi solo loro, perché la vita precaria continua in età matura, con redditi e stipendi da fame. Io guardo al mio settore, a chi si occupa di ricerca scientifica: un dottorando riceve 800 euro al mese, un assegnista di ricerca 1100, un ricercatore 1200. Questo è un clamoroso oltraggio sociale al principio del merito, che è l’ospite d’onore in tutti i convegni della domenica. Se interessa una politica che disarmi l’eventuale guerra tra anziani e giovani dobbiamo prendere di petto la questione del precariato. Per esempio le norme sul lavoro a tempo determinato. Non si può importare in Italia una delle regole d’oro della globalizzazione: pagare il lavoro a prezzi orientali, vendere le merci a prezzi occidentali».
Che ne pensa del manifesto di Rutelli e del centrosinistra di “nuovo conio”?
«Intanto, non si può non notare che il documento di Rutelli comincia con un attacco al governo. Poi presenta uno schema programmatico piuttosto distante dal programma dell’Unione. E alla fine appare l’espressione alleanze di nuovo conio. Confesso di non capire cosa voglia dire. Perché se l’intenzione è quella di scaricare la sinistra dello schieramento, per sostituirla e fare maggioranza non basta l’Udc. Bisogna andare più in là. Molto più in là».
E delle primarie per il Partito democratico?
«Ho fatto gli auguri a Veltroni, alla Bindi, li faccio a tutti gli altri. Con la pluralità dei candidati si è evitato il plebiscito. Però con questo sistema elettorale di liste che si collegano non è facile evitare una rete feudale. E poi mi sembra una bizzarria un partito che nasce con le primarie, che sono uno strumento per selezionare i candidati per le cariche pubbliche».
Il suo giudizio sul Pd rimane negativo anche dopo la discesa in campo di Veltroni?
«Li ha salvati dal naufragio, ma per quanto mi riguarda non cambia nulla. Anzi, ci sono cose che continuano a sorprendermi».
Per esempio?
«Che alle ultime uscite di Papa Ratzinger, la riabilitazione della preghiera per la conversione degli ebrei e l’affermazione che l’unica vera Chiesa è quella cattolica apostolica romana, ci sia stato un tale silenzio da parte della cultura cattolico democratica. Il Pd si è fatto per fondere la cultura riformista di matrice socialista con quella di matrice cattolica. Ma se il cattolicesimo democratico è silente di fronte a una spinta reazionaria di questa portata, che partito è quello che nasce? Non vorrei dover rimpiangere la Dc».
Non è che sia tanto positiva la situazione a sinistra. L’obiettivo di unificare ciò che oggi è diviso appare alquanto lontano.
«Certo, comporta un processo, anche una lotta politica, perché bisogna che tutti i reparti dei vari eserciti escano dalle trincee, bisogna che tutti si rimettano in discussione e che si guardi alla sinistra che verrà, non semplicemente a quella che è stata».
È quello che sostiene Bertinotti in un articolo della rivista “Alternative del socialismo”.
«È un articolo a doppio taglio. Non condivido il giudizio liquidatorio sulla socialdemocrazia in Europa. Ne avessimo ora, oltre che di Enrico Berlinguer, di Olof Palme e Willy Brandt. Poi non condivido che ci siano due sinistre, una riformista e una di alternativa. Dopodiché si entra nella parte interessante del suo discorso, che è quella che chiama del socialismo del XXI secolo. Lì si può lavorare. Sapendo che non sarà un rapporto bilaterale Prc-Sd, perché in questo campo della sinistra ci sono forze politiche - spero compreso lo Sdi, che ha fatto una scelta infeconda con l’idea di rimettere insieme i pezzi di una diaspora socialista di 15 anni fa con il nome Psi - ma poi c’è anche un pezzo d’Italia che oggi non è rappresentato politicamente e che è in attesa della buona novella».

l’Unità 19.7.07
Clamoroso, Aga Rossi e Zaslavski riabilitano Togliatti e salvano Enrico Berlinguer


E alla fine tornando su «Togliatti e Stalin» i due storici ammettono il ruolo moderato e «responsabile» di Ercoli e riconoscono persino una sua autonomia politica

Se non è proprio una riabilitazione di Togliatti, poco ci manca. E a guardar bene è notevole la revisione a cui alfine sono approdati gli storici Elena Aga Rossi e Victor Zaslavski, «coppia terribile» antitogliattiana, che in questi anni s’è sgolata a sostenere che Ercoli era uno stalinista e basta. Che non aveva nessuna autonomia da Mosca. Che la svolta di Salerno del 1944 fu inventata e imposta da Stalin al segretario del Pci. E che il Pci dopotutto non fu che un partito staliniano mascherato e nient’altro, lungo l’intero dopoguerra.
Ora invece, dopo la pubblicazione della seconda edizione del loro Togliatti e Stalin (Il Mulino, 1997, 2007) il quadro interpretativo dei due autori sembra mutato. E incrinato dalle tante obiezioni incassate. Perché da un lato fa capolino in essi l’idea di una Svolta di Salerno non proprio imposta da Stalin a Togliatti, ma semmai «autorizzata e avallata» dal primo. Dall’altro si fa strada un giudizio su Togliatti come «stalinista moderato», che teneva a freno gli «ortodossi» radicali alla Secchia. E infine c’è persino un apprezzamento su Berlinguer, «figura tragica» e teorico di una «terza via inaccetabile per Mosca», in quanto «equivaleva a una sconfitta nella storica lotta ingaggiata contro la socialdemocrazia» (dal movimento comunista).
Sono tutti elementi ricavabili da due interviste, a Mirella Serri e Nello Ajello, rilasciate sulla Stampa e su Repubblica, da Zaslavski e da Zaslavski e Aga Rossi. La prima il 10 luglio, l’altra di ieri, 18 luglio. Interviste che costituiscono anche una sorta di «autointerpretazione» e di autorecensione della nuova edizione del Togliatti e Stalin. Certo non mancano al solito oltranze e toni da guerra fredda retrospettiva. Come quando Zaslavski su Repubblica vitupera che il Pci «mediasse» dall’Italia le scelte del personale diplomatico italiano a Mosca, per sondarne il gradimento: conventio ad exludendum giusta, verso un «partito che intratteneva un simile legame verso una potenza straniera» (sic). Il che, se a volte è avvenuto, rientra semmai in una logica che tendeva a travalicare la guerra fredda e la guerra dei mondi «tout court», esplicando un effetto positivo per l’Italia e il suo ruolo, nonché per l’influsso del Pci sul quel mondo (che vi fu e che il Pci non usò sempre fino in fondo).
Poi, imprecisioni e incoerenze, da riflesso condizionato. Come quando, sempre Zaslavski, rievoca la vicenda della lotta armata in Grecia nel 1947. Che Stalin appoggiò all’inizio, ma che proprio Stalin non voleva, come lo stesso Zaslavski in altre occasioni ha dimostrato, quando ha raccontato che erano gli Jugoslavi a premere, inseguendo la grande egemonia balcanica titina. È insensato perciò dire, come fa Zaslavski, che Stalin desistette dal perseguire e applicare la «via jugoslava» anche in Italia solo nel 1948, perché era cominciato lo scisma con Tito. E nondimeno sia i documenti «nuovi» trovati dai due storici, sia le cose che oggi dicono, vanno in direzione opposta rispetto a quanto essi affermavano nel 1997. E cioè che Togliatti non aveva e non ebbe nessuna autonomia. Ad esempio, nel riprendere il tema del colloquio con l’ambasciatore Kostylev del 23 marzo 1948 alla viglia del 18 aprile, si riconosce che Togliatti poneva il quesito su un eventuale insurrezione in chiave difensiva. E contro una Dc volta ad annullare un risultato elettorale sfavorevole. E si ammette che tale quesito era posto cautelativamente, al fine di sentirsi dire: «per carità non muovetevi». E anche il colloquio con Stalin, del 26 dicembre 1949, trovato dai due storici lavorando alla nuova edizione del libro (documento non del tutto inedito) viene letto in questa chiave. Ercoli dice: «Si può forzare?». E Stalin di rimando: «Difficile avere grandi scioperi economici quando vi sono tali condizioni per la classe operaia, si possono avere politici». Laddove è da notare che il contesto era quello della ripresa delle lotte operaie e contadine dopo il 18 aprile. Che non erano in ballo bivii decisivi, al più avanzamenti politici. E che sia Stalin che Togliatti non ipotizzavano alternative di guerra civile. Cosa del resto che lo stesso Zaslavski è costretto a riconoscere, anche stavolta: «Togliatti temeva che una guerra civile avrebbe inevitabilmente aperto le porte a una nuova guerra mondiale». (La Stampa). Ma è sulla svolta di Salerno che i due autori rivelano imbarazzo e fanno marcia indietro. Seppur confondendo le carte. Infatti prima parlano della loro versione «nettamente negativa» sull’originalità togliattiana, quella rifiutata ieri da tanti storici. Poi però si limitano a evocare «l’impossibilità per quei tempi per un partito comunista di assumere una decisione di simile portata»: riconoscimento della monarchia e partecipazione al governo borghese senza consenso e avallo di Stalin.
Ma è proprio qui l’equivoco voluto! Perché nessuno mai ha affermato la «sovranità» di Togliatti o negato l’ autorizzazione di Stalin. E il punto è un altro: Togliatti lanciò per primo l’idea via radio nel settembre 1943. E la sostenne sempre, malgrado arretramenti tattici. Anche quando l’Urss alzava la posta geopolitica in Italia e gli antifascisti recalcitravano. Infine Stalin giunse alle stesse conclusioni di Togliatti. E fu Svolta di Salerno. Copyright di Togliatti.

l’Unità 19.7.07
A Palazzo Venezia il mistero del bambino di Pinturicchio
In mostra il «Bambin Gesù delle mani» frammento della pittura
che ritraeva Papa Alessandro VI e la sua amante Giulia Farnese
di Adele Cambria


È RIAPPARSO - ed è esposto da oggi e fino al 9 settembre a Palazzo Venezia - il «Bambin Gesù delle mani» del Pinturicchio: che é il frammento, ovviamente prezioso, di una misteriosa pittura murale, «narrata» via via attraverso cinque secoli in termini che oggi diremmo «scandalistici». Infatti il primo a parlarne fu Giorgio Vasari: nelle sue celebri «Vite» candidamente scrive che il Pinturicchio, decorando gli Appartamenti Borgia in Vaticano, per commissione del Papa Alessandro VI, «ritrasse sopra la porta di una camera la signora Giulia Farnese per il volto di una Nostra Donna, e, nel medesimo quadro la testa d'esso Papa, Alessandro, che l'adora. «Traduco: il pittore umbro - il suo vero nome era Bernardino di Betto - aveva dipinto, sulla sovrapporta di quella camera degli Appartamenti Borgia, successivamente individuata come la camera da letto del Papa - «una gran camera… tutta dipinta e dorata…» - la signora Giulia Farnese: raffigurandola come una Madonna col Bambin Gesù in grembo. Ai suoi piedi, il Papa Alessandro VI.
Avverto subito che l'opera in mostra da oggi a Palazzo Venezia è soltanto il Bambino. Ma perché lo chiamano «Il Bambin Gesù delle mani»? Semplicemente perché della Madonna, in questo frammento murale, sono rimaste soltanto le agili e piccole mani che sfiorano il ventre e il fianco sinistro del figlio: mentre un'altra mano, maschile, questa, ma ben curata, racchiude delicatamente, come in una conchiglia, il piedino del bimbo.
Era la mano del Pontefice «splendido e dissoluto» (così lo definirà Maria Bellonci), amante di Giulia Farnese, come recita una tradizione ininterrotta? E lei, Giulia, dov'è? Cerco di ricostruire l'affascinante giallo con l'aiuto del Professore Franco Ivan Nucciarelli: lo storico dell'arte che ha presentato la Mostra, ieri mattina a Palazzo Vanezia, insieme al Soprintendente Claudio Strinati. A Nucciarelli, docente dell'Università di Perugia, si deve la "visibilità", finalmente, del molto chiacchierato ma assai poco visto, finora, «Bambin Gesù delle mani». Ma è anche, il Professore, un brillante interprete dei costumi pontifici dell'epoca, con una speciale attenzione alla spregiudicata "libertà" di cui si appropriavano certe protagoniste femminili della società romana. Mi racconta che in un palazzo di Santa Maria in Portico, adiacente a San Pietro, provvisto, sembra, di un passaggio segreto che conduceva agli Appartamenti Borgia, vivevano tutt'e tre insieme, e in perfetta armonia, le tre donne di Alessandro VI: Vannozza, Giulia e la figlia Lucrezia. Da Vannozza Catanei, il Papa aveva avuto quattro figli; Giulia Farnese era sposata con Orsino Orsini, che non si opponeva - se non con richieste (al Pontefice) di sonante oro e vigne e ville - all'abbandono del tetto coniugale da parte della moglie; ed anche la giovanissima Lucrezia, «amata dal padre di un amore che dava le vertigini al suo tepido promesso sposo» (Maria Bellonci, «Lucrezia Borgia») abitava in quello speciale convento.
Ma torniamo al «Gesù Bambino delle mani». La grande scoperta che si trattasse della pittura descritta dal Vasari (e da altri testimoni, tra i quali un divertito François Rabelais) arriva nel 1940. Quando Giovanni Incisa della Rocchetta, appassionato studioso d'arte e che ha familiarità con la collezione che appartenne a Papa Alessandro VII (Chigi) - perché sua madre è la principessa Eleonora Chigi Della Rovere - va a casa di una nobile signora mantovana. Che mostra, a lui e alla madre, un dipinto di cui ignora l'autore. «Appena vidi il quadro - racconterà Giovanni Incisa della Rocchetta in uno scritto ignorato fino al 2004 dagli addetti ai lavori - ne riconobbi la grandissima importanza». Era, in effetti, la copia, su tela, dell'opera del Pinturicchio che Francesco IV Gonzaga, duca di Mantova, aveva commissionato al pittore Facchetti per avere una prova degli scandalosi comportamenti di Alessandro VI. A questo punto, Giovanni Incisa della Rocchetta individua l'origine «dei due frammenti che nel 1912 Corrado Ricci vide e citò a Palazzo Chigi a Roma». E li descrive con precisione: «Un frammento contiene la testa della Madonna e l'altro contiene il Bambino Gesù, seduto su un cuscino ma sorretto ai fianchi da due mani, e benedicente una terza figura, della quale si vede ancora la mano sinistra soltanto…».
La mia amica Agnese Incisa della Rocchetta, agente letteraria, mi conferma che alla morte di sua nonna Eleonora Chigi, nel 1963, la sua collezione fu distribuita tra i sei figli. Il «Gesù Bambino delle mani» è stato venduto nei primissimi Anni '80, la Madonna invece è custodita da altri eredi che non intendono venderla.
«Ed il Papa che regge il piedino dov'è finito?», chiedo al Professore. «Alessandro VII avrebbe fatto asportare il massello con la figura di Papa Borgia, conservando però i due frammenti del Bambino e della Madonna…».
«Ma - conclude, e gli brillano gli occhi - chi sa che invece, con un altro miracolo, un giorno non salti fuori anche Papa Borgia…».

Repubblica 19.7.07
Maurizio Zipponi, Prc: il superamento della riforma Maroni è compatibile con le regole della Ue
"Abolire lo scalone è possibile costa 13 miliardi in quarant'anni"
Se l'ipotesi di intesa è quella apparsa sui giornali l'accordo nella maggioranza è ancora lontano
di Roberto Mania


ROMA - «L´abrogazione totale dello scalone introdotto dal governo Berlusconi è del tutto compatibile con l´andamento della spesa previdenziale». Maurizio Zipponi è l´"uomo dei conti" di Rifondazione comunista. A lui, cinquantenne bresciano, ex sindacalista della Fiom, è stato affidato il compito di trattare, più o meno dietro le quinte e in parallelo a Cgil, Cisl e Uil, con i tecnici dei ministeri del Lavoro e del Tesoro. Lo fa senza dimenticare i "suoi" metalmeccanici delle fabbriche bresciane: da loro è partita ieri una lettera al premier Prodi perché «eviti di scavare un solco» con la condizione operaia. «Noi - aggiungo - non possiamo dimetterci». Insomma Rifondazione è tornata di lotta, e in regia c´è anche Zipponi.
Ora non siete più d´accordo con l´ipotesi del governo?
«Se l´ipotesi è quella apparsa sui giornali l´accordo nella maggioranza è ancora lontano».
Qual è la vostra posizione? Non accettate di alzare l´età pensionabile?
«Per noi si può passare da 57 a 58 anni nel 2009 e poi affidarsi al meccanismo degli incentivi per far rimanere le persone al lavoro».
Ma gli incentivi non hanno mai funzionato e sono stati abbandonati anche dal governo.
«Se dopo tre anni non si dovesse raggiungere l´età media europea di pensionamento effettivo, che è 60,7 si farebbe una verifica. Ricordo che in Italia l´età effettiva è già a 60,2 anni. Tutto questo per solo cinque mesi!».
In realtà è il programma dell´Unione a prevedere il superamento dello scalone. E che poi, strada facendo, avete scoperto che costa tanto.
«È vero che sta scritto nel programma, ma non è vero che il superamento non sia compatibile con i vincoli finanziari europei».
Per il ministero dell´Economia il costo è di 65 miliardi. E tutti gli esperti e le organizzazioni internazionali, dall´Fmi all´Ocse, sostengono il contrario di quello che dice lei.
«Ed è un inganno. Guardiamo i numeri. Meglio: le tabelle che il governo precedente ha consegnato a Bruxelles. Ecco, lì c´è scritto che dal 2008 al 2030 attraverso il meccanismo dello scalone si otterranno risparmi pari a 54,5 miliardi. Dal 2030, però, si comincia ad andare in rosso. E nel 2050 si arriverebbe ad un meno 41,5 miliardi. Conclusione: la differenza tra l´attivo e il passivo nell´arco di 42 anni è di 13 miliardi di euro. E, in ogni caso, l´abrogazione dello scalone è già stato pagato dal sistema previdenziale».
Come, scusi?
«Dal 2004 sono successe diverse cose che è meglio non dimenticare. L´ultima Finanziaria ha aumentato dello 0,30 per cento i contributi a carico dei lavoratori dipendenti. Questo vale un miliardo strutturale all´anno. Sono aumentati di quattro punti i contributi dei parasubordinati: 1,2 miliardi l´anno. E ancora: il bilancio dell´Inps è in attivo di oltre due miliardi grazie ai nuovi immigrati e ai lavoratori edili. Per finire dall´accorpamento delle strutture degli enti previdenziali arrivano almeno 800 milioni l´anno. Può bastare o no?».
Resta il fatto che il nostro paese ha il rapporto tra spesa previdenziale e Pil più alto degli altri partner europei, con un invecchiamento della popolazione più marcato. Anche questo non è vero?
«Sì, anche questo non è vero. Siamo in media Ue perché dalla nostra spesa previdenziale va tolto quel punto e mezzo in percentuale di spesa di natura assistenziale. Siamo intorno al 13-13,2 rispetto ad una media europea che si arriva al 13,5 per cento. Questi sono i numeri».

Repubblica 19.7.07
E Prodi in dirittura alza l'asticella
Inaspriti quote e coefficienti. Giordano: "È l'effetto Draghi-Bonino"
di Claudio Tito


ROMA - «Così non c´è l´accordo. Evidentemente il governo ha subito l´allarme di Draghi e la minaccia della Bonino. Ma così non ci stiamo». Ad un passo dall´intesa, Rifondazione comunista tira il freno a mano. Le certezze si incrinano. Il segretario del Prc, Franco Giordano, lancia un ultimatum a Palazzo Chigi. Avverte Romano Prodi che non può cambiare le carte in tavola a poche ore dal probabile incontro con i sindacati. E il Professore risponde: «Nulla ancora è stato deciso. Ma quando avanzerò la mia proposta, non sarà più negoziabile».
Dalle parti di Rifondazione, però, il sospetto ieri è cresciuto a dismisura. Si è trasformato quasi nella certezza che le linee-guida seguite dal premier per ammorbidire lo "scalone" siano repentinamente cambiate. La prima "quota", fissata per il 2010, sarebbe così meno soffice salendo da 95 a 96 e la seconda potrebbe salire a 98. «E se è così - avverte Giordano - noi non ci stiamo». Anche perché tra i partiti della sinistra radicale sta emergendo un convincimento: questo inasprimento è stato determinato dall´audizione in parlamento del Governatore della Banca d´Italia e dalle minacce del ministro pannelliano per il Commercio estero. Per loro, è semplicemente uno slittamento a destra dell´asse della coalizione: «Inaccettabile».
Certo, l´irrigidimento delle ultime ore in parte ha anche una spiegazione tattica. Nessuno vuol correre il rischio di cedere sulla dirittura d´arrivo. Nei contatti proseguiti ieri tra palazzo Chigi e gli alleati, il piano del Professore qualche "ritocco", però, l´ha subito. Anche sui coefficienti di rivalutazione e sulla soglia dei 40 anni di contributi che dovrebbe permettere di andare comunque in pensione. Misure su cui, in effetti, ha insistito negli ultimi giorni il ministro dell´Economia Padoa Schioppa. Per il Tesoro, infatti, la mediazione originaria di Prodi non garantirebbe il «rispetto» dei vincoli economici imposti dall´Ue. Sergio D´Antoni, viceministro allo Sviluppo ed ex segretario della Cisl, ieri ammetteva: «Quota 96 è il minimo. Bisognerebbe anche alzarla un po´». Elementi, appunto, che hanno fatto drizzare le orecchie non solo al Prc e al Pdci, ma anche alla Cgil e alla Uil. Soprattutto l´organizzazione di Epifani non intende discutere una riforma "al ribasso".
Insomma la partita previdenziale sembra complicarsi di nuovo in "zona Cesarini". Tant´è che il premier e il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Enrico Letta, fino a ieri sera non avevano ancora convocato Cgil Cisl e Uil. L´incontro è comunque previsto per oggi e quando la proposta di Prodi sarà pronta saranno invitati "ad horas". Il Professore, però, prima di formalizzare la sua riforma vuole che ci sia almeno un pre-accordo. Anche perché, ha ripetuto in tutti i suoi colloqui, «quando presenterò la proposta, sarà definitiva. Non sarà negoziabile». Ossia non saranno ammesse modifiche e non saranno consentiti emendamenti in Parlamento. «Sarà semplicemente un prendere o lasciare». E nella sua bozza al momento figurano ancora due soluzioni: «quota 95» e «quota 96». Ma per Rifondazione e Cgil il ritorno alla "95" è ormai la condizione irrinunciabile. Un paletto che metterebbe Prodi di fronte all´irritazione dei riformisti (per placarli è stata valutata persino l´idea di accompagnare il piano previdenziale con un documento per lo sviluppo economico. Ma la soluzione è considerata poco credibile persino da Palazzo Chigi). Il caso Bonino, del resto, si è chiuso solo in parte. Marco Pannella ha convocato per oggi la direzione del suo partito e non ha alcuna intenzione di far calare la tensione. Almeno a livello mediatico. E nella Margherita non mancano i distinguo.
Una situazione intricata che ha indotto Prodi a soppesare la possibilità di far slittare di una settimana l´accordo. Un´opzione stoppata dall´ala radicale dell´Unione che vuole chiudere con un testo ufficiale entro domani, al consiglio dei ministri. I mal di pancia dei moderati del centrosinistra, infatti, hanno messo sul chi va là Prc e Pdci. La loro paura è che nel corso del dibattito sul Dpef (al Senato verrà votato mercoledì prossimo, 25 luglio) qualcuno dei centristi possa presentare in aula un ordine del giorno proprio sulla riforma previdenziale. Con numeri e orientamenti più «riformisti». E se venisse approvato - magari con i voti del centrodestra - la sinistra radicale sarebbe costretta ad aprire la crisi.
Un pericolo ben presente anche al premier. Che sa di avere spazi di manovra ristretti. E che l´unico modo per sciogliere il nodo è quello di mettere sul tappeto la "quota 95", per poi attendere il referendum che i sindacati organizzeranno tra i lavoratori e infine mettere nero su bianco il patto con un provvedimento da varare a settembre. «Anche perché - preconizza Clemente Mastella - se stavolta cade, sarà l´ultima volta. Dopo di che si tornerà al voto. Ma io, a quel punto, uscirò comunque dalla coalizione. Magari per far nascere un nuovo centrosinistra senza i comunisti. Ma sarò libero. Sarò l´ultimo a spegnere la luce, una volta spenta però sarà per sempre».

Repubblica 19.7.07
L'albero della vita
È di Linneo la prima classificazione genetica di piante e animali
Le sue teorie irritarono i teologi del tempo
di Piergiorgio Odifreddi


Creazionista ma, in fondo, evoluzionista collocò l’uomo tra le scimmie antropomorfe
Il grande scienziato nasceva 300 anni fa Il suo lavoro è considerato ancora attuale

Una delle classificazioni più note della storia è sicuramente quella delle categorie aristoteliche, che il filosofo distingueva in «sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, essere, avere, agire e patire». L´elenco è un po´ erratico, e fa venire in mente le penitenze dei bambini: «dire, fare, baciare, lettera, testamento». Ancora più balzana è la classificazione dell´Emporio celeste di riconoscimenti benevoli, un´enciclopedia cinese del decimo secolo citata o inventata da Borges: «Gli animali si dividono in: appartenenti all´Imperatore, imbalsamati, addomesticati, maialini da latte, sirene, favolosi, cani randagi, inclusi in questa classificazione, che si agitano come matti, innumerevoli, disegnati con un pennellino finissimo di peli di cammello, eccetera, non più vergini, che da lontano sembrano mosche».
Da vicino tutte queste classificazioni sembrano invece pure e semplici espressioni di umorismo, volontario o involontario che sia. Anche se, con un po´ di buona volontà, la lista di Aristotele si può intendere come un elenco di categorie grammaticali, ipostatizzate metafisicamente: «sostantivi, aggettivi (quantitativi e qualitativi), relazioni, avverbi (di luogo e di tempo), verbi ausiliari (essere e avere) e forme verbali (attive e passive)».
Tutte le classificazioni, per quanto ingenue, sono comunque la manifestazione di un istinto tassonomico che tradisce la volontà di ordinamento del mondo secondo l´antico principio del divide et impera, inteso metaforicamente come: «classifica e comprendi». O, ancora più anticamente, secondo la denominazione delle cose che fu la prima attività di Adamo nel Genesi quand´ancora la sua attenzione non era stata distratta dall´arrivo di Eva: «Il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all´uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l´uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l´uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche».
Più che gli Ebrei, furono però i Greci a tentare una prima classificazione sistematica del mondo animale e vegetale.
Aristotele dedicò infatti al primo i tre libri Storia degli animali, Sulle parti degli animali e Sulla generazione degli animali, distinguendo ad esempio quelli con sangue (uomo, quadrupedi, cetacei, pesci e uccelli) da quelli senza sangue (crostacei, molluschi e entema, comprendenti tra gli altri insetti e vermi), in una divisione che ricalca quella odierna tra vertebrati e invertebrati. E il suo allievo e successore Teofrasto allargò nelle Ricerche sulle piante e Cause delle piante l´attenzione al secondo mondo, coniando il termine «botanica» e classificando 480 piante sulla base della loro generazione (spontanea, da seme, da radice, da un ramo, dal tronco).
Dopo questi timidi inizi la classificazione del mondo della vita si rivelò via via più complessa, e produsse presto da un lato opere di dimensioni sempre più mastodontiche, quali la Storia naturale di Plinio il Vecchio, e dall´altro lato classificazioni sempre più complicate e cervellotiche, basate su lunghe sfilze di nomi e attributi quali Physalis annua ramosissima, ramis angulosis glabris, foliis dentato-serratis. Nel Settecento la situazione era ormai diventata ingestibile, e la botanica e la zoologia attendevano un Messia che venisse a mettere ordine nel disordine dei loro ordinamenti.
Lo trovarono entrambe nello svedese Carlo Linneo, di cui quest´anno si celebra il terzo centenario della nascita con manifestazioni di ogni tipo e in ogni luogo: oltre a innumerevoli congressi internazionali, la celebre rivista Nature gli ha infatti consacrato una copertina, la sua patria gli ha dedicato un´emissione filatelica, dopo averlo già effigiato sul biglietto da 100 corone, il Museo Linneo di Uppsala ha aperto le porte del suo giardino e della sua casa, e la Società Linnea di Londra ha esibito la sua collezione originale di 40.000 specie, oltre alla sua biblioteca di 16.000 libri e alla sua corrispondenza.
Col senno di poi, si può dire che Linneo trovò un uovo di Colombo: classificare animali e piante come si fa con le persone, semplicemente mediante un cognome generico e un nome specifico come Physalis angulata. Ironicamente, a quell´epoca in Svezia le persone di solito non avevano un cognome, e usavano semplicemente un patronimico: ad esempio, il nonno di Linneo si chiamava Ingemar Bengtsson, cioè «figlio di Bengt»: fu il padre di Linneo a darsi questo cognome, ispirandosi a un suo bosco di linn, «tigli», e latinizzandolo in Linneus.
Altrettanto ironicamente, il metodo di nomenclatura binomiale era già stato anticipato di un paio di secoli dai due fratelli Gaspare e Giovanni Bauhin. Cosí come era stata parzialmente anticipata, sempre di un paio di secoli e da Corrado Gesner, l´organizzazione abbozzata da Linneo, e poi divenuta classica, delle forme viventi in «domini, regni, fila, classi, ordini, famiglie, generi, specie, sottospecie e razze». A prima vista si trattava di un´altra sospetta lista di categorie, ma questa volta il principio ispiratore era quello giusto: non più una classificazione basata su caratteri apparenti, come nel duecentesco trattato Sugli animali di Alberto Magno, che distingueva alla maniera cinese «quelli che camminano, che volano, che nuotano e che strisciano», bensí una classificazione ad albero genetico che oggi riconosciamo come basata sulla storia evolutiva.
Naturalmente non la vedeva cosí Linneo, che era un creazionista e credeva che le specie principali fossero uscite dalle mani di Dio come Venere dalla spuma del mare, fatte e finite una volta per tutte. D´altronde la sua metafisica era ancora biblica, visto che egli descriveva se stesso come un secondo Adamo e il proprio lavoro col motto: Deus creavit, Linnaeus disposuit. Dio creò, Linneo dispose. Non a caso, sulla copertina del Sistema della natura, il capolavoro che passò gradualmente dalle undici pagine della prima edizione del 1735 alla classificazione di 4.400 specie animali e 7.700 vegetali della decima del 1758, era raffigurato un uomo che nel Giardino dell´Eden assegna i nomi alle creature.
Ciò nonostante, Linneo non era completamente fissista: riconosceva, ad esempio, che per ibridazione e acclimatazione possono nascere nuove specie, a partire da quelle create direttamente da Dio. Quanto all´uomo, lo collocò non al sommo del creato ma tra le scimmie antropomorfe, attirandosi di conseguenza scontate accuse di «empietà» da parte dell´arcivescovo di Uppsala, com´è il prevedibile e immutabile destino di chiunque osi sfidare scientificamente la superstizione religiosa. Un destino che Linneo affrontò coscientemente, attestando in una lettera del 1747 che «chiamare l´uomo scimmia, o la scimmia uomo, irrita i teologi, ma va fatto perché così ordina la scienza».
Oggi i teologi sono rimasti fermi a quell´irritazione, ma la scienza è andata molto avanti sulla via indicata da Linneo, di una classificazione gerarchica della vita basata su caratteristiche osservabili degli organismi. Anzitutto, sostituendo il suo creazionismo con l´evoluzionismo, che Darwin arrivò a formulare solo dopo aver studiato a fondo la sua classificazione. E poi, passando dalle sue osservabili macroscopiche, quali gli stami e i pistilli per una classificazione di tipo «sessuale» delle piante, ad analisi microscopiche basate sulla struttura del Dna. Su queste basi gli scienziati stanno oggi ricostruendo il vero Albero della Vita, riscrivendo il vero Genesi e scoprendone il vero Autore, all´insegna del motto coniato da Spinoza e condiviso da Einstein: Deus, sive Natura, Dio, cioè la Natura.

Repubblica 19.7.07
Vedi alla voce anima
di Umberto Galimberti


Escono quattro nuovi dizionari
Da un’opera in due volumi sulla "Psiche" all’antropologia da una enciclopedia sui luoghi letterari immaginari a una mappa sorprendente sul mondo della sessualità

Più il sapere si amplia, più le conoscenze si accrescono, più le competenze si specializzano, più le teorie si confrontano, più abbiamo bisogno di dizionari, di enciclopedie, di mappe capaci di orientare nella ricerca e rinviare ai testi fondamentali che le hanno promosse. Le case editrici Utet e Garzanti in Italia hanno fatto da apripista in questo bisogno di orientamento. Ad esse oggi si aggiunge Einaudi con due significativi dizionari: uno di psicologia e uno di antropologia.
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Il dizionario di psicologia, che ha per titolo Psiche, si presenta in due volumi per complessive 1306 pagine al prezzo di 153 euro. E´ un´opera intelligente e informatissima. Intelligente perché parte dalla consapevolezza che la psicologia non è una scienza esatta, e che la psiche e le scienze che la riguardano forse sono solo un episodio tra i molti con cui nella storia l´uomo ha tentato di interpretare se stesso. Di qui il taglio «storico» del dizionario, dove psicologia, psichiatria, psicoanalisi e neuroscienze, nate in diversi contesti e a partire da presupposti teorici tra i più disparati, si danno convegno per discutere le loro prossimità e le loro distanze. Le rispettive e specifiche posizioni sono ben identificate, ma in un contesto di dialogo e di reciproco riconoscimento, allo scopo di individuare quali analogie sono tra loro compatibili, e quali distanze sono tali solo per le diverse provenienze metodologiche e linguistiche che non è impossibile attenuare.
Francesco Barale, Mauro Bertani, Vittorio Gallese, Stefano Mistura e Adriano Zamperini, oltre a essere estensori delle voci più impegnative, hanno coordinato un folto numero di specialisti, uniformando con vera intelligenza i contributi, in modo da conferire all´opera innanzitutto quell´omogeneità che evita ripetizioni e sovrapposizioni, e poi quella completezza che evita lacune, sia in ordine alle biografie dei maggiori esponenti delle scienze psicologiche, sia in ordine alle voci teoriche ricostruite nel loro farsi storico.
La lettura è piacevolissima e, senza rinunciare alla scientificità, accessibile anche ai non specialisti. L´indice dei nomi e degli argomenti (quest´ultimo significativamente particolareggiato) consentono di individuare con molta facilità i percorsi che il lettore intende seguire. Nelle ottanta pagine di bibliografia, i testi stranieri sono opportunamente corredati dall´indicazione delle traduzioni italiane là dove esistono, e per ogni settore sono esaurienti e complete.
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Marco Aime ha curato, sempre per Einaudi, l´edizione italiane del Dizionario di antropologia e etnologia di Pierre Bonte e Michel Izard (pagg. 802, euro 82) che è stato e continua a essere il più importante riferimento per lo stato degli studi di quella scienza, l´antropologia, che non è mai stata in pace con se stessa.
Nata come «etnologia», termine che i francesi impiegano allo stesso modo di «etnografia», per designare lo studio delle società primitive, con particolare attenzione alle popolazioni degli imperi coloniali d´Occidente, ad essa si affiancò l´«antropologia fisica» che studia i caratteri somatici dell´uomo e le differenze razziali, e l´«antropologia culturale» che mette i risultati della ricerca etnologica al servizio della conoscenza generale dell´uomo.
Oltre alle nozioni, ai programmi di ricerca, alle sottodiscipline e ai metodi impiegati dagli antropologi, le voci illustrano gli orientamenti di carattere teorico, la storia generale dell´antropologia, le antropologie nazionali e la biografia dei principali esponenti di questo ambito disciplinare. Le società e le culture sono inquadrate nella cornice delle grandi regioni del mondo per facilitare il percorso e l´orientamento del lettore.
Nell´epoca della globalizzazione, dove ognuno di noi incontra l´altro da sé, con tutte le difficoltà che le differenze culturali comportano, sembra sia proprio oggi il tempo opportuno per tentare un bilancio e procedere a un inventario delle diversità, perché a facilitare la comunicazione tra gli uomini non è tanto l´adozione della lingua inglese quanto la comprensione delle simboliche sottese alle varie culture che solo gli studi di antropologia sono in grado di facilitare.
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Anna Ferrari, già autrice del bellissimo Dizionario di mitologia greca e romana edito dalla Utet nel 1999, oggi pubblica sempre con la Utet il Dizionario dei luoghi letterari immaginari che figura come ultimo volume del Grande Dizionario Enciclopedico acquistabile a rate. Si tratta di un´impresa ciclopica alla ricerca delle località che non compaiono nelle nostre carte geografiche, perché sono state ideate dall´immaginazione dei poeti e dei narratori di tutte le letterature e di tutti i tempi, che questo dizionario rende disponibili per un viaggio immaginario nei luoghi della mitologia che non hanno trovato un archeologo capace di individuarli con precisione sul terreno, o che l´hanno trovato solo in tempi relativamente recenti come nel caso di Troia.
I luoghi collocati oltre i confini del mondo o proiettati nell´aldilà (altri pianeti, mondi della fantascienza, regni dell´oltretomba); luoghi situati in un futuro più o meno remoto e verosimile; luoghi dove la tradizione popolare o le antiche saghe e leggende hanno ambientato i loro racconti; luoghi ideali e perfetti dell´utopia o sinistri e inquietanti della distopia. Sono città, regioni, regni, isole, fiumi, mari, monti, ma qualche volta anche boschi, fontane, abbazie, castelli, locande, collegi, navi, pianeti.
Per ogni località sono indicati l´opera o le opere in cui compaiono, gli avvenimenti di cui sono teatro e una descrizione che nella maggior parte dei casi è tratta direttamente, spesso mediante citazioni, dai testi letterari. Un´opera, quindi, che, per i frequentatori della letteratura, consente di avvicinare l´immaginario al reale, non per demitizzare il primo, ma per sottrarre al secondo il lato prosaico della nuda geografia, che in realtà è molto più ricca e più fantastica di quanto non dicano le linee tracciate dai geografi.
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Da ultimo segnalo l´ottimo Dizionario della pornografia edito nel 2005 dalla Presses Universitaires de France e ora tradotto in italiano dal Centro Scientifico Editore di Torino (pagg. 582, euro 38).
Da Sade a Pasolini, dalla Bibbia a Proust, dal barocco alla body art, da Baudelaire a Rocco Siffredi, l´opera, che ha visto l´impegno di cento autori, estensori di 450 voci, entra nel mondo della sessualità, laddove questa turba, offusca, spaventa, disgusta, ferisce, e che per questo noi rifiutiamo e proibiamo, dimenticando che nulla di ciò che è umano ci è estraneo.
Ma perché un dizionario, peraltro molto colto e impegnato? Perché i confini della pornografia sono mobili e si spostano di continuo nello spazio a secondo delle regioni geografiche, e nel tempo a seconda delle scansioni storiche. Questo dizionario ne dà conto, offrendo uno spaccato dello spirito dei tempi e dei luoghi a partire da che cosa un´epoca o una cultura definiscono indecente, sconveniente, scandaloso, e altre eccitante, dinamico, vitale. E questo perché, come afferma Steven Marcus nei suoi studi sulla sessualità: «La pornografia caratterizza un punto di vista e non una cosa».
E i punti di vista, studiati sui banchi universitari anglosassoni, europei, giapponesi, brasiliani, africani, sono esposti in questo dizionario con ordine e chiarezza e persino con un intento etico: se la pornografia esiste da quando l´uomo è comparso sulla terra, perché non accordarle uno spazio nella storia della cultura, invece di seppellirla nei divieti dettati dal comune senso del pudore che nessuna morale riesce davvero a delimitare e a definire?
Gli autori di questo dizionario, diretto dallo scrittore francese Philippe Di Falco e curato nell´edizione italiana da Roberto Marro, tentano di accordarle questo spazio e di far chiarezza in quella vera e propria trappola lessografica in cui la pornografia si maschera e si confonde, perché ancora non le è stato consentito di venire chiaramente allo scoperto.

Repubblica 19.7.07
"Io, poliziotto e poi contestatore vi racconto il film della mia vita"
L’attore e regista annuncia "Il grande sogno" il nuovo progetto autobiografico che da anni aveva nel cassetto
di Leandro Palestini


ROMA - Il Sessantotto visto con gli occhi di un ex poliziotto. Titolo: "Il grande sogno". A Michele Placido trema la voce, perché sta per coronare un antico progetto, il più amato: girare il film della sua vita. Come regista e come attore. «Al cinema il ‘68 è stato finora raccontato da comunisti e da fascisti. Io offro una angolatura originale, racconto la mia "conversione": quella di un ventenne, meridionale, poliziotto, che dopo aver manganellato gli studenti universitari capisce la loro protesta e passa dall´altra parte della barricata. Vorrei rendere anche il clima di speranza di quegli anni», annuncia Placido, confermando la forte impronta autobiografica della storia. Lui prestò davvero servizio «alla caserma Castro Pretorio di Roma dal ‘67 al ´69. Il 1968 l´ho preso in pieno, l´ho vissuto sulla mia pelle, stavo sulle camionette della Polizia nelle cariche contro gli studenti universitari. Alla famosa carica di Architettura, a Valle Giulia, non partecipai per un caso. Quel giorno non ero di turno». Episodi che saranno riproposti nel film. Insieme agli sceneggiatori Angelo Pasquini e Doriana Leondef, Placido rivela di «rivedere diversi documentari dell´epoca, le cariche della Polizia di quella primavera del 1968. E posso dire: c´ero anch´io».
Tra due mesi il primo ciak del "Grande sogno", che in un primo tempo si intitolava "Cari compagni". «Il vero inizio sarà a febbraio, ma a settembre faremo alcuni esterni. In Calabria: lì si trovano ancora le zone agricole di quell´Italia contadina da cui provenivano i celerini descritti da Pasolini. Pier Paolo aveva un occhio di riguardo per i proletari in divisa. Io l´ho conosciuto, in seguito, un grande intellettuale, ma credo esagerasse nel criticare i "figli di papà" che animarono in Italia il ´68: gli studenti di Architettura di Roma erano espressione di quel vento progressista che andò dal Maggio Francese alla Primavera di Praga». E per rendere lo spirito di quelli anni, nella scrittura del "Grande sogno", il regista si avvale del contributo dei suoi sceneggiatori come di due angeli protettori, per una corretta visione di quell´epoca: «Pasquini mentre io usavo il manganello era tra i dimostranti: nella scrittura mi ha fornito l´ottica opposta a quella che avevo io. La Leondef ha messo nel film elementi preziosi per capire le ragazze del ´68, il movimento delle donne».
Placido rivela che la prima stesura del film risale a quattro anni fa. «Ma poi ci siamo fermati perché sul tema del Sessantotto francese era uscito il film di Bertolucci ("The dreamers", ndr). Avevamo qualche personaggio simile, anche io avevo inserito un cinefilo, temevo la sovrapposizione. Così abbiamo aspettato».
Il budget si aggira sui 7,5 milioni di euro. È già in moto la produzione, la Taodue di Pietro Valsecchi («Torniamo a fare il grande cinema») e RaiCinema (Giancarlo Leone sostiene molto questo film), con partner francesi e ricco cast: Riccardo Scamarcio dovrebbe essere il protagonista (il 22enne Placido), si fanno i nomi di Laura Morante, Elio Germano, Isabelle Huppert e Carole Bouquet. «Ci saranno almeno 7-8 protagonisti. È giusto che sia un film corale, a tante voci, perché così è stato il ‘68», dice Placido: «È presto per parlare del cast. Stiamo ancora cercando l´attrice giusta per un ruolo chiave, quello di una ragazza cattolica, assistente universitaria, che ebbe il coraggio di schierarsi dalla parte dei ragazzi che protestavano. Ci vorrebbe una come Giovanna Mezzogiorno ai tempi del film "Del perduto amore"». Pietro Valsecchi azzarda un nome per il ruolo della protagonista: «Mi piacerebbe molto Jasmine Trinca». Per le scenografie sarebbe stato contattato Francesco Frigerio.
Il poliedrico Michele Placido, ieri in tournée teatrale a Taormina (con Albertazzi è impegnato nel "Satyricon"), nel "Grande sogno" si riserva anche un ruolo, quello del capo del reparto che nel lontano 1968 dirigeva la caserma romana di Castro Pretorio, un uomo molto importante nella sua vita. «Quel colonnello capì che ero combattuto, che avevo aspirazioni diverse dalla carriera in Polizia. Mi ascoltò, mi diede una mano a diventare attore. Dopo avermi sentito recitare Pirandello mi incoraggiò. E nel 1969 io mi iscrissi all´Accademia».

Repubblica Firenze 19.7.07
Etruschi mai visti. Tornano a casa i nostri antenati
di Mara Amorevoli


Nel Palazzo dei Priori a Volterra da sabato fino all'8 gennaio
La rassegna riunisce reperti "dispersi" in vari musei europei

Gli Etruschi tornano a Volterra. Tornano a casa dai musei di mezza Europa con pezzi straordinari. Reperti finora mai visti che ritrovano le collocazioni originarie, in fedeli ricostruzioni di tombe e tumuli, restituendo un patrimonio archeologico disperso in musei e collezioni private nazionali e straniere, dopo i numerosi scavi che fin dal 1730 hanno sistematicamente interessato questo territorio. Da sabato 21 luglio fino al 6 gennaio 2008, nei due piani del nell´antico Palazzo dei Priori (il più antico palazzo comunale toscano), saranno esposti centinaia di pezzi che documentano l´incredibile ricchezza di corredi tombali, gioielli e arredi degli insediamenti etruschi in Val di Cecina e Valdelsa, oltre ai riti funebri di questa antica civiltà.
Così, a pochi passi dal Museo Guarnacci, dalla filiforme e romantica «Ombra della sera», dai tanti sarcofagi e urne in alabastro e della ricca collezione di reperti che qui è conservata dal 1761, la mostra presenta una «Volterra fuori Volterra», restituendo temporaneamente opere dai musei del Louvre, di Berlino, dalle collezioni del museo archeologico di Firenze, da Villa Giulia, dai Musei Vaticani e Villa Albani a Roma. Tante vetrine per documentare le sei sezioni del precorso, tra cui spicca la Tomba eneolitica di Montebrandoni con i suoi arredi preistorici, tra cui 4 pugnali e punte di freccia (dal Museo Pigorini a Roma), la ricostruzione delle Necropoli delle Ripaie e Guerruccia (IX-VIII sec. a. C.) con 16 tombe, con tutti i loro corredi di vasi, fibule, armi e piccoli gioielli, un parte della necropoli di Casale Marittimo con le tombe dei principi guerrieri e una tomba a tholos. Ricostruita fedelmente anche la Tomba Inghirani (III-I a. C.), con tutte le urne in alabastro che arrivano dal museo archeologico di Firenze, dal Louvre, da Berlino e dai Musei Vaticani. E da Firenze tornano anche i gioielli della Collezione Annibale Cinci, oltre ad un tesoretto di monete greche ed etrusche del V a. C. rinvenuto presso le mura di Volterra con vasi, urne e statuette di bronzo.
La rassegna «truschi di Volterra-Capolavori dai grandi musei europei propone anche la ricostruzione di due templi che restituiscono l´immagine dell´acropoli volterrana, oltre ad un percorso unitario collegato con il Museo Guarnacci e l´area archeologica in cui si trovano le tombe visitabili, fino alle antiche mura. Capolavori in prestito, che forse qualcuno vorrebbe restituiti definitivamente ai luoghi di origine? «Certo, verrebbe voglia di tenerseli qui, ma va bene anche se ce li prestano» osserva il curatore della mostra e direttore del Museo Gabriele Cateni. E tra le curiosità, va segnalata l´esposizione di una bellissima testa di Apollo in marmo apuano (V sec. a. C), la "Testa Lorenzini" che - dopo il sequestro e una disputa giudiziaria durata dieci anni - torna esposta per volontà dei proprietari, tra l´altro disponibili alla vendita milionaria del prezioso reperto. Tutta la rassegna promossa da Comune, Regione Toscana, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra e altri enti, celebra Enrico Fiumi (1908-1976), noto personaggio a cui si devono studi e pubblicazioni a carattere storico archeologico, e l´aver riportato alla luce il teatro romano di Vallebuona. La mostra resta aperta tutti i giorni 10.30-18.30 e il 28 luglio e il 1 settembre, per "Le notti bianche", fino alle 2 del mattino. Ingresso 7 euro (ridotto 4). Info 0588-91280 - www. etruschi-volterra. net

Repubblica Roma 19.9.07
Affiancate a villa Giulia le 2 statue etrusche del tempio di Veio.
L´Ercole restaurato ritrova l’Apollo
di Carlo Alberto Bucci


Ora ha gambe leggere, in poliestere, invece dei pesanti arti in gesso realizzati 52 anni fa per sostenere il busto. E colori "nuovi" - secondo la tecnica del puntinato, invece del rigatino - che si affiancano a quelli originari, del VI secolo a.C., tornati a splendere, soprattutto sulla cerva stesa ai piedi del semidio. Così, dopo quattro anni di interventi dell´équipe del restauratore Tuccio Sante Guido, l´Ercole di Veio ora fronteggia l´Apollo. Di nuovo una di fianco all´altra, come quando, con altre 10 statue, giganteggiavano sul santuario di Minerva a Portonaccio, le due terracotte policrome si posso ammirare al primo piano del museo Etrusco. «Ma quando sarà pronta la sede di Villa Poniatowki» ha detto la soprintendente Annamaria Moretti, «lì porteremo i reperti di Latium Vetus e liberemo il braccio destro di Villa Giulia per le opere di Veio». La città sconfitta da Roma è nel cuore del ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli. «Con il restauro dell´Ercole, la Federtabaccai ha finanziato un immenso successo, che si inserisce in un progetto di rilancio dell´antico Veio» ha detto il vicepremier. E a settembre nuova conferenza dei servizi, «in vista dell´ampliamento dei percorsi di visita alla città e dell´acquisto dell´antica mola».

Corriere della Sera 19.7.07
Carteggi. Divisa tra i due, la Karplus mette in forse il sodalizio tra gli ispiratori della Scuola di Francoforte
Gretel tra Adorno e Benjamin, un triangolo filosofico
di Pierluigi Panza


Lei scrive: «Ho fame delle tue cose». Walter: «Ti voglio, sembri la Hepburn»
Il filosofo che con Max Horkheimer scrisse «La dialettica dell'Illuminismo» conobbe Gretel Karplus nel 1923, ma la sposò solo dopo 14 anni di fidanzamento nel 1937

Vero è che furono amori fatti per lo più solo di parole, come si conviene tra filosofi. Ma dalla lettura delle corrispondenze dei grandi pensatori del Novecento emergono sempre più storie di triangoli filosofici, raramente equilateri. Si sapeva della coppia aperta Sartre-de Beauvoir, si sapeva di Heidegger e la Arendt, delle scorribande di Bertrand Russell... Ad essi si aggiunge ora lo strano triangolo d'ispirazione «francofortese» — consumato in teoria più che in prassi —, tra Walter Benjamin, Gretel Karplus e Theodor Wiesengrund Adorno, di cui la donna fu moglie.
Dal 1930 la vita di Gretel Karplus (1902-1993) incomincia ad essere sospesa, come lei stessa scrive, «tra due letterati... entrambi pieni di raccapriccio per tutti i miei passi falsi». Uno è Theodor Adorno, che lei sposerà nel '37 dopo 14 anni di fidanzamento; l'altro è Walter Benjamin (1892-1940), a quel tempo un pensatore che vive per l'Europa con sussidi universitari e con il cuore diviso tra Dora Keller (ex moglie, ma che frequenta alla pensione Villa Verde di San Remo da lei gestita), Jula Cohn, sorella del suo amico d'infanzia Alfred e Asja Lacis, una rivoluzionaria marxista.
Gretel è una trentenne berlinese dai capelli corti, sguardo mascolino e deciso, naso e zigomi pronunciati, labbra sottili. L'intonazione delle loro lettere (il Carteggio 1930-1940 è uscito in Germania da Suhrkamp Verlag ed esce ora in Francia da Gallimard suscitando interesse sulle riviste letterarie) non lascia dubbi sull'amicizia amorosa tra i due. Lei lo chiama «Caro Walter» e si firma «Tua Felicita » alludendo a un personaggio di una pièce di Wilhelm Speyer alla quale Benjamin ha collaborato. Lui si firma con lo pseudonimo «Detlef» e dice che lei è «il primo violino della sua orchestra». Una passione più che altro platonica a causa dei vagabondaggi di lui (Ibiza, dove scrive il suo testo sull'infanzia berlinese, Costa Azzurra, San Remo, Parigi...) e per la presenza dell'altro (Adorno). O se vogliamo perché intasata di gigantesco struggimento. Lui, inizialmente, si sente frenato da una «pudica tenerezza». Ma poi, in un florilegio di metafore, le racconta le notti del '33 passate a Ibiza a fumare l'oppio pensando a lei. Lei gli scrive: «Detlef non c'è alcun uomo al quale io mi senta per lettera più vicino di te, da nessuna parte v'è più dolcezza di quella delle parole che tu mi fai anche solo intuire». Adorno, naturalmente, non sa nulla di loro, «non sa nulla del nostro "tu"», scrive Gretel. E mentre lui è impegnato nella stesura di quello che è il suo più attuale contributo teorico,
L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica pubblicato nel 1936 (dove per la prima volta si parla di emancipare l'arte dal suo originario «contenuto parassitario basato sul rituale»), lei si dà alla moda e apre una fabbrica di guanti.
Lei è un'inquieta, e s'invaghisce anche del cugino di Benjamin, Egon Wissing, un medico morfinomane rimasto vedovo nel '33. Ma nemmeno questa amicizia un po' dissimulata la soddisfa. La sua esistenza a Berlino è monotona, e alla fine decide di sposare Adorno nel settembre del '37 con l'intenzione di andare a vivere negli Stati Uniti. A quel punto Wissing sposa la sorella di Gretel, Lotte. A bocca asciutta resta sempre Benjamin, che incomincia a incattivirsi e a provare un po' di gelosia nei riguardi di Adorno, che egli considera un semplice discepolo al quale muove critiche sulle «categorie estetiche».
A Gretel, invece, non piacciono i lunghi soggiorni del «Caro Walter» in Danimarca ospite di Bertolt Brecht.
Lui non cessa di scriverle, parlandole delle categorie del flâneur, dei «passaggi» e aggiungendo osservazioni come «l'arte del XIX secolo non è conoscibile se non nelle circostanze presenti». Lei è più decisa nel trasmettere i suoi sentimenti, ma è preoccupata che quella «amicizia amorosa » possa incrinare la stima tra i due filosofi: «Sarei inconsolabile se la vostra relazione finisse», intendendo finisse per colpa mia. Lei, del resto, vuol bene al suo «Teddie» (Adorno), ma non cessa il flirt a distanza, e scrive a Benjamin frasi come «ho fame delle tue cose,... caro Detlef » (20 luglio 1938). Lui le risponde: «Io voglio ultimamente per la prima volta! Katherine Hepburn. Ella è grandiosa e ti assomiglia molto. Non te l'ho mai detto?».
Alla fine lei lo invita a raggiungerla (con Adorno ovviamente) nella loro casa lungo l'Hudson. Lui ci crede: e nell'agosto del '39 vende un quadro di Paul Klee per racimolare i fondi necessari per il viaggio.
Ma il momento è drammatico. Lui lo intuisce: «Nulla fa presupporre che il momento di rivederci è vicino». Benjamin lascia Parigi per il Sud della Francia. Viene internato in un campo di lavoro volontario a Nevers nel '39. Liberato per l'intervento di alcuni amici, scrive ancora a Gretel prima di spostarsi a Lourdes. Bloccato al confine con la Spagna, temendo di venir consegnato ai nazisti, Benjamin si suicida.
E Adorno? Fu sensibile per tutta la vita al fascino femminile, ma non lasciò mai Gretel. Nel gennaio del '69, maestro indiscusso della Scuola di Francoforte, si trovò a denunciare alcuni studenti per una irruzione in aula. Per punirlo, il Movimento studentesco pensò di attaccarlo su un punto sensibile: il fascino femminile. E così il 22 aprile, mentre teneva una lezione sul pensiero dialettico, gli mandò tre studentesse in lunghi mantelli che salirono sulla sua cattedra e si mostrarono nude. Il 19 luglio, innanzi al tribunale di Francoforte si doveva discutere della denuncia, ma Adorno partì per le vacanze in Svizzera insieme a Gretel. Il 6 agosto, durante un'escursione a Visp, venne stroncato da un infarto a 66 anni. Gretel rimase vedova, ed è morta 14 anni fa.

Corriere della Sera 19.7.07
Il ministro Rutelli ha presentato ieri il restauro della statua
Torna l'Eracle, si riscopre l'identità etrusca


Torna l'Eracle di Veio dopo quattro anni di sofisticati restauri. La bellissima statua in terracotta del VI secolo a.C., che ornava con altre 12 figure a grandezza naturale il frontone del tempio del Portonaccio, a Veio, riassemblata nei suoi quattro pezzi ritrovati fortunosamente tra il 1916 e gli anni 50, è esposta da ieri nel Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma. L'Eracle fronteggia, col suo torace possente e la pelle di lupo a tracolla, il suo celebre antagonista per la contesa sulla cerva d'oro: l'Apollo di Veio, a sua volta restaurato da poco.
Due capolavori ora riuniti a cui presto saranno affiancati anche gli altri due pezzi esistenti del frontone, la statua di Latona e una testa di Hermes.
Tornano gli etruschi. Una promozione che il ministero dei Beni culturali rivendica con orgoglio. Francesco Rutelli, titolare del dicastero, l'ha ricordato nel corso della presentazione del nuovo restauro, a cui hanno concorso sponsor privati (la Federazione tabaccai). L'interesse è scattato un anno fa col ritrovamento della «tomba dei leoni ruggenti», il sepolcro più antico dipinto del Mediterraneo. Fu allora che fu annunciato un Progetto Veio. «Con due decreti ministeriali in settembre e ottobre — ha spiegato il ministro — abbiamo dato un concreto impulso alle ricerche e alla valorizzazione di un patrimonio come quello etrusco un po' troppo dimenticato». Prossima tappa, a settembre, l'ampliamento dei percorsi di visita a Veio e l'acquisizione di nuove strutture per il parco, come l'edificio della Mola. A riaccendere i riflettori sugli etruschi punta anche la Regione Lazio che sta preparando una grande mostra sugli etruschi ospitata dal Palaexpo nell'autunno 2008. Volterra, invece, dal prossimo sabato a Palazzo dei Priori, espone «capolavori etruschi» provenienti da grandi musei europei.
«Restaurare l'Eracle è stata un'esperienza scientifica fantastica — hanno detto con orgoglio ieri l'archeologa Francesca Boitani e il restauratore Tuccio Sante Guido —. Dovevamo misurarci con i segreti dei grandi artisti etruschi. E così abbiamo capito finalmente come assemblavano i pezzi e come poi li cuocevano in un blocco unico». La statua ha restituito ora la sua dolce policromia affievolita dal tempo, ha ritrovato un consolidamento statico con la sostituzione del supporto interno in legno, ha ricevuto nuove gambe modellate in poliestere leggero al posto di quelle un po' fuori misura ideate dal Verducci nel precedente restauro degli anni 50. Prossimo restauro, quello del noto sarcofago degli sposi.