sabato 26 luglio 2008

Corriere della Sera 26.7.08
Il congresso del Prc L'ex leader oggi parlerà alle assise. L'insidia della candidatura di Ferrero contro Vendola
L'amarezza di Bertinotti: sinistra sprofondata
Nel mirino la linea giustizialista: la discussione ha raggiunto livelli bassissimi
di Maria Teresa Meli


La «trappola». L'ex presidente della Camera: gli uomini di Ferrero cercheranno un'intesa politica tra la nostra mozione e la loro. Ma per chiedere un passo indietro a Vendola
L'abbraccio. Franco Giordano ha tributato un applauditissimo omaggio dal palco a Bertinotti. L'ex segretario di Rifondazione si è commosso e poi lo ha abbracciato
L'intervento. Bertinotti parlerà oggi al congresso del Prc, nelle vesti di «semplice delegato per dieci minuti». È convinto che si debba andare avanti con il processo costituente

CHIANCIANO — Il "suo" partito si divide e si spacca, dietro le quinte si lavora per una candidatura dell'ex ministro Ferrero contro Vendola, da ufficializzare oggi e lui gioca a fare il «delegato semplice». Difficile crederci. Tanto più dopo che Franco Giordano gli rende un appassionato e applauditissimo omaggio dal palco. Allora Fausto Bertinotti si commuove. Con gli occhi lucidi lo abbraccia e poi dice: «Ha fatto un bellissimo discorso, molto profondo ».
Ma non tutti gli interventi gli hanno fatto questo effetto. Bertinotti non nasconde, parlando con i fedelissimi, di essere rimasto «impressionato » dalla «regressione non solo politica ma anche culturale » di una parte di Rifondazione. Il «giustizialismo» abbracciato da Ferrero e i suoi lo ha lasciato di stucco perché non è nel patrimonio genetico del suo partito. Già, quel giustizialismo che Giordano dal palco ha criticato, ricordando a chi nel Prc lo agita, che Di Pietro ha «votato insieme alla destra contro la commissione sui fatti del G8 di Genova».
Bertinotti ai compagni di partito spiega la sua delusione. Certe volte la discussione «ha raggiunto livelli bassissimi», sospira amareggiato l'ex presidente della Camera. Lui parlerà oggi («dieci minuti come un semplice delegato»)e volerà alto, come dicono i suoi. Il che non gli impedirà di ripetere, seppure con parole meno nette, quel che va spiegando in questi giorni agli amici. E cioè che «la sinistra ha raggiunto il punto più basso della sua storia». E che «per non farla sprofondare ancora più in basso bisogna andare avanti con il processo costituente». Insomma, bisogna ricostruire la sinistra e non chiudersi nel guscio di Rifondazione.
Ma il Bertinotti che fa il «delegato semplice » in realtà continua a essere ascoltato. E a interessarsi alle vicissitudini interne del suo partito. Non è un caso quindi che Ferrero incontrandolo gli parli all' orecchio per capire che cosa pensa della situazione e che lo abbracci affettuosamente anche se stanno su barricate opposte. E' vero che l'altro ieri sera, alla riunione della maggioranza che ha candidato Vendola, l'ex presidente della Camera, come un delegato di primo pelo, non ha parlato. Ma i suoi consigli, riservatamente, li ha dati (sono stati anche già seguiti). E ha spiegato che a suo avviso l'ex cossuttiano Claudio Grassi non abbandonerà Ferrero. Anzi, secondo lui il gioco di Grassi nasconde un'insidia: «Cercare di trovare un' intesa politica tra la loro mozione e la nostra per poi proporre che però Nichi faccia un passo indietro». E mettere un altro, sempre della maggioranza, al posto suo.
E a quel punto sarebbe molto difficile dire di no, perché non ci sarebbe più la scusa delle differenze politiche per rompere e si sarebbe costretti ad accettare quella proposta. Ma secondo Bertinotti non si deve svendere la linea politica e «non si può e non si deve rinunciare a Nichi ». Perché, Vendola, può essere in grado di portare avanti il processo di ricostruzione della sinistra.
E quel che avviene in serata sembra dare ragione all'ex presidente della Camera. Infatti Grassi fa sapere che le differenze politiche tra la sua componente e quella di Vendola non sono insormontabili e che perciò si può lavorare «a una ricucitura ». E precisa che nel caso di un'intesa non si può negare alla maggioranza il segretario. Senza però aggiungere che quel segretario è Nichi Vendola.
Per evitare trappole e per seguire i consigli di Fausto Bertinotti la maggioranza decide perciò di disertare la commissione politica, ovvero il luogo del possibile compromesso che potrebbe far saltare Vendola. Ma se oggi l'ex ministro Ferrero si candida i giochi possono cambiare per l'ennesima volta. Chissà in questo caso quali saranno i consigli che dispenserà il «delegato semplice».

il Riformista 26.7.08
Left. Il dipietrismo fa irruzione al congresso Prc
Bertinotti deluso dal dibattito di Rifondazione
di Alessandro De Angelis


Chianciano. «No, il dibattito no…» direbbe il Moretti di Ecce Bombo , a sentire una sinistra che si chiude, quasi compiacendosi, in un linguaggio per pochi: «Dobbiamo ripartire dall'ossimoro marxiano dell'individuo sociale» dice Russo Spena. Che aggiunge: «La causa della liberazione umana ha bisogno del comunismo». E la casalinga di Voghera? Di risposte - al secondo giorno del congresso di Rifondazione - ne trova assai poche. I delegati ripetono vecchie parole d'ordine: «sfruttamento», «mercificazione»; qualcuno urla: «Torniamo in fabbrica»; altri si sintonizzano sul vendolismo: «Perché un partito non dovrebbe fare poesia?». Paolo Pietrangeli (quello di «Che roba, contessa!»), seduto in presidenza, è assai perplesso.
Il congresso vero, quello non si vede. Una parte si svolge fuori dal Palamontepaschi: a D'Alema Vendola deve presentarsi alla guida di un partito, costi quel che costi. L'altra parte è embedded, nelle commissioni e negli incontri segreti. I vendoliani continuano ancora a non avere i numeri per eleggere Nichi segretario, al comitato politico di domani. Migliore, ancora ieri, ha provato a smarcare Grassi chiedendo di assumere come documento base il discorso, molto morbido, fatto da Vendola. Proposta rispedita al mittente dai ferreriani. Ma tra l'ex ministro e Grassi restano divergenze: il primo non vuole Vendola segretario, l'altro dice: «Non pongo veti sui nomi. Io sto facendo battaglia su alcuni punti politici». Fosse per lui, voterebbe Vendola, magari affiancato da un presidente, visto che ormai è condizionato sulla linea politica. Ma non tutti i suoi delegati lo seguono. Dunque, si tratta. E la riunione della mozione Ferrero, annunciata come chiarificatrice, è iniziata tardi e finita a notte fonda.
E la politica-politica? Bertinotti interverrà oggi. I suoi lo dipingono deluso dal dibattito: «Il livello non è un granché» dicono i suoi. E il fedelissimo Alfonso Gianni prova a mettere la testa fuori dalla sabbia. Dal palco dice: «Guardiamo fuori. E affrontiamo la crisi. Sembra che la sinistra, in Europa, difenda la globalizzazione e la destra la critichi». E ancora: «Come si esce dalla crisi del neoliberismo? Tremonti ci sta provando da destra. Il Pd no e ha una fisionomia centrista. Spetta a noi ricostruire la sinistra». Già, Tremonti: mentre la destra è critica sulla globalizzazione, la sinistra - dicono i bertinottiani - deve fare i conti con i suoi fallimenti: sia la terza via che l'altermondismo. E oggi Fausto dirà che, di fronte a questo scenario, di scorciatoie non ne servono. Anche perché la sconfitta - questa volta - secondo Bertinotti può portare all'estinzione della sinistra. Rispetto a Vendola, i bertinottiani ortodossi premono - e non poco - sul tasto dell'innovazione: «Se Adam Smith - afferma Gianni - va a Pechino dove il partito comunista ha 74 milioni di iscritti, qualche categoria magari dobbiamo cambiarla. Dobbiamo costruire una cosa nuova». Come? Difficile dirlo. Il corpaccione del partito è diviso. Si sente comunista, ma - come in una canzone di Gaber - la parola ormai ha i contorni indefiniti: qualcuno perché è nato in Emilia Romagna, qualcuno perché è forcaiolo.
La novità di questo congresso di Rifondazione si chiama Di Pietro, cui Ferrero&Co hanno fatto più di un'apertura. Molti delegati dicono: «Dobbiamo parlare alla ggente», con due g. Il dipietrismo ha fatto breccia. A Giordano fa venire l'orticaria: «Chi la deve fare l'opposizione? Di Pietro?» urla dal palco l'ex segretario. Che aggiunge: «Non scherziamo, non possiamo essere subalterni a questa cultura». Indirizzandosi poi a Ferrero che ancora ieri ha difeso la scelta di piazza Navona, ci va giù duro: «La nostra cultura ha sempre avversato il giustizialismo. Che idea di legalità fa votare Di Pietro insieme alla destra contro la commissione d'inchiesta sui fatti di Genova?». Non usa perifrasi Giordano, cui la platea regala calore e affetto: «Non inseguite - dice ancora a Ferrero - un'idea di minoritarismo». Bertinotti si alza per abbracciarlo. Si commuovono entrambi. I militanti li salutano con un interminabile applauso. È la fine di una storia. Il resto è incertezza. Anche quando Berlusconi proclama lo stato di emergenza su tutto il territorio nazionale. Vendola parla di «fascismo», Ferrero attacca la Bossi-Fini. Ma la competizione tra i due (l'ennesima) è a chi dichiara per primo ai giornalisti. In sala un delegato sta citando il Che: «Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso». Prima però c'è il comitato politico di domani. Il mondo è fuori.

Repubblica 26.7.08
Il duello Ferrero-Vendola spacca Rifondazione
L’ex ministro verso la candidatura, ma tra i due potrebbe spuntare un outsider
Giordano ringrazia Bertinotti: "Ci ha messo la faccia". E oggi parla l’ex leader del partito
di Umberto Rosso


CHIANCIANO - «Adesso tocca a te, Paolo. Oppure diamo via libera a Nichi». Il pressing è forte, anche perché Rifondazione è sempre incartata sul nome del leader. Nella notte, nella riunione dei delegati della mozione 1, salta fuori l´opzione Ferrero. L´invoca soprattutto l´ala guidata dal «cossuttiano» Claudio Grassi, diventato l´arbitro dei destini del partito, alleato dell´ex ministro ma con un ruolo di pontiere. E sempre più in ansia per il braccio di ferro. Al suo compagno di cordata l´ha spiegato così: «Scendi in campo apertamente tu come segretario del partito, in alternativa a Vendola, ma se non ci stai allora le cose cambiano». Il colpo di scena atteso o temuto, a seconda dei punti di vista, si materializza. Protagonista della battaglia politica congressuale, Ferrero finora si è personalmente tenuto alla larga dalla competizione per la leadership, non candidandosi. Lasciando il solo Vendola in pista.
Finora. Perché la mossa notturna punta a stanarlo. Scelta difficile. Per tutta la giornata l´ex ministro aveva messo le mani avanti, «la questione è la linea politica, i nomi dei segretari vengono dopo». Anzi. Di fronte allo stallo, la sua idea è stata quella di un «non segretario», di una gestione transitoria da affidare a due portavoce, uno ciascuno per le mozioni duellanti.
Una tregua, da mettere magari nelle mani di qualche giovane. Fra i vendoliani i nomi più gettonati per la pax sarebbero Nicola Fratoianni, segretario in Puglia, e Peppe De Cristofaro, il segretario della Campania. Considerati da qualcuno, nella girandola di trattative, abboccamenti, ipotesi e smentite, perfino possibili candidati segretari «veri», una via d´uscita allo stallo. Ma di vendoliani senza Vendola alla testa del partito, i bertinottiani non vogliono sentir parlare. Stop immediato perciò anche all´altra voce, una convergenza su Gennaro Migliore, improbabile visto che l´ex capogruppo, bertinottiano di ferro, non ha propriamente un profilo superpartes. Bertinotti, il padre del partito ora nel ruolo del «delegato di Cosenza», parla oggi. Per spiegare che il sogno di superare e andare oltre la «vecchia» Rifondazione per lui non è mai morto, e che il testimonial migliore per questo progetto è Vendola. Ieri, invece, visibilmente commosso, è corso ad abbracciare l´ex segretario Franco Giordano, anche lui in lacrime dopo aver ringraziato «Fausto che ci ha messo la faccia e la forza in un´impresa elettorale così difficile».
Sconfitta di «portata storica», Giordano non lo nasconde, ma non si risale la china inseguendo le suggestioni dipietriste, come pare fare Ferrero, «basta ricordare il no di Di Pietro alla commissione d´inchiesta sul G8».
L´ex ministro nella notte sfoglia la margherita della sua candidatura, sotto il pressing dei «cossuttiani» che in attesa di una risposta lanciano messaggi di apertura ai vendoliani. «Lavoro per una ricucitura, sulla base del programma di Nichi», spiega Grassi. Ovvero accordo di un anno ripartendo dal Prc, liste proprie alle europee e opposizione ampia a Berlusconi. «Del resto - aggiunge - hanno la maggioranza relativa, non possiamo noi imporre il leader». Una segreteria, poi, non è fatta dal solo capo, «non può succedere come al congresso di Venezia che chi vince prende tutto».

l’Unità 26.7.08
Non si trova la quadra per compattare il partito
In campo tre ipotesi: il governatore viene eletto con i voti della parte di Grassi
Secondo: gli viene affiancata una figura super partes con una segreteria collegiale
Terzo: Ferrero va al muro contro muro
Vendola-Ferrero, niente accordo: si rischia la conta
Spunta l’idea di un presidente di garanzia. Ma alla fine l’ex ministro potrebbe candidarsi
di Simone Collini


LA GUERRA è di posizionamento, per almeno altre ventiquattr’ore. Gli interventi dal palco servono a lanciare esche, tendere una mano, mettere paletti. Poi notte dopo notte, nelle riunioni separate delle mozioni, qualcuno guadagna terreno, qualcuno arretra.
Ma soltanto domani sera, al termine della riunione del Comitato politico che elegge il segretario con voto segreto, si saprà che ne sarà di Rifondazione comunista, chi guiderà il partito e quale ne sarà la linea politica. La seconda giornata di congresso si è infatti chiusa consegnando la bella immagine dell’abbraccio tra Franco Giordano e Fausto Bertinotti, con i due con le lacrime agli occhi mentre l’applauso risuonava forte in sala, ma lasciando sul tappeto almeno tre ipotesi. La prima: Nichi Vendola viene eletto segretario grazie ai voti dei suoi delegati (la mozione di cui è primo firmatario ha preso il 47% ) più quelli degli esponenti che fanno riferimento a Claudio Grassi. La seconda: Vendola viene eletto segretario ma affiancato da un presidente scelto insieme alla mozione Ferrero-Grassi e con una segreteria "collegiale". La terza: Paolo Ferrero non ci sta a vedersi abbandonato e si gioca il tutto per tutto candidandosi a segretario e mettendo Grassi di fronte a un aut-aut di non facile gestione. Il fatto che in tutte e tre le ipotesi in campo figuri il nome di Grassi non è casuale. Il coordinatore dell’area Essere comunisti, una vita in minoranza con Bertinotti segretario e oggi firmatario insieme a Ferrero di una mozione che propone il rilancio del Prc come forza politica autonoma, sta infatti giocando in questo congresso il ruolo di ago della bilancia.
Già prima che si aprissero le assise a Chianciano, Vendola e Grassi avevano lavorato attorno a un’ipotesi di ricompattamento che ruotasse attorno alla presentazione alle europee del Prc col suo simbolo e all’accantonamento della «costituente della sinistra» proposta dal governatore pugliese. Linea rilanciata da Vendola giovedì nel suo intervento. Grassi ha afferrato la mano tesa, dicendosi contrario a «veti» sulla leadership e dicendosi invece «interessato alla linea politica», ma non tutti i suoi delegati si sono mostrati disponibili a sostenere il candidato segretario dell’altra mozione. Anche perché Ferrero è stato abile nel far passare un messaggio piuttosto chiaro: «Si rischia di trasformare il congresso, luogo di dibattito e di confronto, in primarie. Una cultura che non ci appartiene. E comunque Vendola non le ha vinte perché si è fermato al 47%». Come a dire, bisogna tradire su più piani per aiutare il governatore pugliese a superare il fatidico 50% che gli consentirebbe di governare il partito.
Grassi e Ferrero hanno discusso a quattr’occhi della situazione, e il primo ha assicurato al secondo che non intende spaccare la mozione: «Non voglio andarmene. Lavoro per ricucire, perché dobbiamo prendere atto che noi siamo al 40%, loro al 47%, o troviamo un’intesa o sfasciamo il partito». Come, concretamente? Grassi si è presentato alla riunione della mozione, chiusa a notte fonda, con questa proposta: «Noi non possiamo porre veti sul segretario a loro che sono stati i più votati, ma possiamo pretendere una gestione collegiale del partito. Una segreteria non è fatta solo dal leader, ma anche da altri componenti. E possiamo anche proporre la figura di un presidente di mediazione». Chiaramente, se questa proposta passa, il cerino rimane nelle mani di Vendola. Che sa che in un’ipotesi del genere il segretario sarebbe a forte rischio accerchiamento. Con evidenti condizionamenti sulla linea politica. Che per il governatore pugliese deve essere quella che ha illustrato nel suo intervento: niente costituente della sinistra ma lavorare per costruire «una grande sinistra di popolo». Cambia la «formula» ma il «concetto» rimane quello: no a un Prc rinchiuso in uno «spigolo identitario» e apertura all’esterno. E questa, come ha detto il governatore pugliese ai suoi delegati in un’altra riunione notturna, è «la nostra linea del Piave».
Ecco allora la terza ipotesi in campo. Vendola respinge la proposta di essere eletto segretario affiancato da un presidente (formula peraltro che si è visto come ha funzionato ai tempi della diarchia Cossutta presidente, Bertinotti segretario) e tutta la partita viene giocata sui consensi che riesce a incassare tra i 250 membri del Comitato politico nazionale. Sapendo che Ferrero, come ultima carta per tentare di evitare che i delegati grassiani votino compattamente Vendola, domani può giocarsi quella della sua candidatura a segretario.

l’Unità 26.7.08
Leader di «Essere comunisti», gruppo della mozione 1, in pole position per una possibile presidenza del Prc
Grassi, mediatore a sorpresa tra i due sfidanti
di Andrea Carugati


Una cosa appare certa in questo difficile e ancora apertissimo congresso di Rifondazione: se il partito uscirà da Chianciano con un segretario, e l’unico nome in campo per ora è quello di Nichi Vendola, nel nuovo assetto di vertice un ruolo di primo piano lo avranno Claudio Grassi e la sua area «Essere comunisti». Il gruppo fa parte della prima mozione insieme a Ferrero, ma in questi giorni sta assumendo una posizione autonoma, di mediazione tra i due sfidanti. Più che ago della bilancia, Grassi si è ritagliato il ruolo del pontiere, anche perché l’obiettivo principale della sua sfida congressuale l’ha già ottenuto: mettere da parte l’idea di costruire una nuova forza della sinistra che era stato il leit motiv della mozione Vendola. E incassare la salvaguardia di Rifondazione e del suo simbolo. In fondo questo 53enne di Reggio Emilia, una vita nel Pci, poi in Rifondazione dalla nascita, ha sempre avuto questo pallino: non a caso è stato tra i più contrari a dar vita alla Sinistra arcobaleno.
Operaio in una fabbrica di macchine agricole di Reggio Emilia, poi assessore alla cultura nel suo Comune, Bibbiano, poi delegato sindacale e dipendente di una cooperativa, in prima linea contro l’abolizione della scala mobile, Grassi è un signore minuto e mite, ma battagliero. Di matrice cossuttiana, marxista, ha rotto con l’Armando nel ‘98, quando c’era da votare la fiducia al primo governo Prodi: il suo gruppo, dove c’erano molti cossuttiani, scelse la linea di Bertinotti e fu determinante per farla prevalere: Cossutta finì in minoranza e optò per la scissione. Ma anche il rapporto con Bertinotti non è stato tutto rose e fiori: dal ‘98 al 2002 sono stati in maggioranza insieme, i primi strappi arrivano a Rimini con la condanna del togliattismo da parte del subcomandate Fausto. Dal ‘95 al 2004 Grassi è in segreteria, fino al 2001 ricopre anche l’incarico di tesoriere. Al congresso di Venezia del 2005 lo strappo definitivo: Grassi, con il suo 26% di delegati, contesta l’adesione al programma «generico» dell’Unione di Prodi e si mette all’opposizione. Sempre critico verso l’esperienza dell’Unione, non ha però mai votato contro il governo pur essendo senatore negli anni caldi dal 2006 al 2008. «Ho espresso le mie critiche, poi ho votato secondo la linea del partito». Già, perché i grassiani sono tutto fuorchè massimalisti: comunisti sì, anche dottrinari, ma con un forte realismo e senso della disciplina. Grassi a questo aggiunge alcuni tratti che provengono dalla sua esperienza nel 77 bolognese: le passioni per i fumetti, da Alan Ford a Julia, l’amore per il rock e per De Andrè. Più di 9mila i vinili della sua collezione nella casa di Bibbiano, dove vive con moglie e due figli.
Durante questa tormentata campagna congressuale, ha evitato i toni aspri contro Vendola, ma ha chiesto e ottenuto che fosse annullato il congresso di Reggio Calabria dove, spiega, «votavano un sacco di persone senza la tessera del partito». 400 i voti annullati, quasi tutti per Vendola. E quando in questi giorni lo descrivono come uno pronto a salire sul carro del vincitore, lui ricorda con orgoglio questo episodio. Ma si trova nel mezzo di uno scontro arroventato, e corre il rischio che alcuni dei suoi non lo seguano in un eventuale abbraccio con Vendola. Ma al muro contro muro con Nichi non ci sta: «Non pongo veti sui nomi, loro hanno il 47%, noi il 40%, qualcosa devono avere anche loro...ma non spaccherò mai la mia mozione, cerco di convincere Ferrero a far prevalere il buon senso». Se la difficile operazione di pacificazione gli riuscirà, lui ne uscirà con qualche posto chiave nella nuova segreteria, forse a capo delle organizzazioni. E tra le ipotesi per una gestione unitaria c’è anche quella di rispolverare la carica del presidente del Prc, già occupata da Cossutta ai tempi della diarchia con Bertinotti. Nel caso in cui Vendola sia segretario, è ovvio, come spiega il direttore della rivista «Essere comunisti» Bruno Steri, «che il presidente sia uno della nostra mozione». E quel ruolo potrebbe toccare proprio a Grassi. Che non smentisce l’ipotesi di ripristinare la presidenza, ma si chiama fuori: «Impossibile che sia io». Non è detto.

l’Unità 26.7.08
Le 5 mozioni


Mozione 1
Rilanciare Rifondazione comunista come forza politica autonoma, radicare il partito nella società, anche trascurando il rapporto con le altre forze politiche. A cominciare dal Pd, che bisogna combattere e rispetto al quale il Prc deve essere alternativo. Questi sono i tratti salienti della mozione numero 1, quella definita Ferrero-Grassi. Il documento sostiene che «la sconfitta della Sa nasce dentro l'esperienza di governo». Viene giudicato un errore aver fatto entrare il Prc in un governo in cui l'equilibrio delle forze era così sfavorevole al partito.

Mozione 2
«Costruire una nuova soggettività della sinistra, nella politica e nella società», così bisogna rilanciare Rifondazione comunista. È scritto nella mozione 2, che ha come primo firmatario Nichi Vendola e che è stata sottoscritta anche da Bertinotti, Giordano, Migliore. La sconfitta elettorale, in questo documento, ha tra le cause principali «il fallimento della sfida lanciata con la partecipazione al governo Prodi, la frattura consumata con le classi subalterne, il mutamento profondo del senso comune e dei suoi valori di riferimento».

Mozione 3
Rifondare un partito comunista per rilanciare la sinistra, l'opposizione e il conflitto sociale. Primo firmatario, Claudio Bettarello. Altri firmatari: Fosco Giannini, Leonardo Masella, Gianluigi Pegolo. Cosiddetta mozione «dei 100 circoli», comprende l'area de L'Ernesto. Il gruppo, composto in maggioranza da ex grassiani usciti dall'area «Essere comunisti» per la loro forte opposizione al governo Prodi, spinge per una unità tra i comunisti, a partire dal Pdci, con cui viene auspicata una corsa sotto lo stesso simbolo già dalle europee 2009. Web info: www.appelloprc.org

Mozione 4
Una svolta operaia per una nuova Rifondazione comunista. Primo firmatario: Claudio Bellotti. Altri firmatari: Alessandro Giardiello, Simona Bolelli, Mario Iavazzi, Jacopo Renda. In continuità con la scelta di misurarsi già nei precedenti congressi, rappresenta l’area che si ritrova attorno al mensile Falce e Martello. Sono gli ultimi trotzkisti rimasti nel Prc: le altre componenti trotzkiste sono uscite dal partito e confluite da una parte in Sinistra critica con Turigliatto e dall’altra nel partito comunista dei lavoratori di Marco Ferrando. Web info: www.marxismo.net

Mozione 5
«Disarmiamoci». Questo è il motto della mozione numero 5, alla quale hanno dato vita esponenti dell'ex maggioranza bertinottiana delusi da come si è sviluppato il dibattito negli ultimi mesi. Primi firmatari Walter De Cesaris e Franco Russo. Nel documento si chiede un congresso di «discontinuità» rispetto alla «parabola discendente degli ultimi anni»: «Sono prevalsi il primato 'governamentale' e la tentazione di risolvere, in termini di tatticismi e di alleanze tra ceti politici, la sfida della costruzione di una nuova sinistra e di una nuova visione della società».

l’Unità 26.7.08
L’emergenza nazionale: gli immigrati
Palazzo Chigi annuncia nuove strette contro i clandestini. Il Pd protesta. Fini: chiarire in Parlamento
di Natalia Lombardo


BOOMERANG Emergenza nazionale sull’immigrazione: è scoppiato un caso politico salito fino al Quirinale, per colpa dei proclami leghisti contro i clandestini: hanno allarmato l’opposizione e hanno riaperto il conflitto istituzionale con Alleanza Nazionale.
Tanto che il ministro dell’Interno Maroni martedì andrà a riferire in aula a Montecitorio: il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha accolto con sollecitudine (il che rivela irritazione per la mossa del governo) la richiesta avanzata dal Pd. E ieri il ministro ha dovuto telefonare al Capo dello Stato per chiarire la questione, spedendo le carte del provvedimento.
Visibilmente irritato, Maroni ha ributtato sull’opposizione la colpa della polemica: «Dalla sinistra un clamore infondato, basato su pregiudizi e falsità», accusa il ministro, «si tratta solo della proroga di una proroga dello stato di emergenza nazionale per proseguire l’attività di contrasto dell’immigrazione clandestina», ha spiegato in una conferenza stampa convocata di corsa alle 18,30 al Viminale. «Lo stato di emergenza era stato prorogato da Prodi il 14 febbraio 2008», sottolinea il ministro elencando la catena delle 6 proroghe dal 2002, col governo Berlusconi, fino al 2007. All’inizio dell’anno, però, Prodi e il ministro dell’Interno Amato hanno ridotto l’emergenza a tre regioni: Sicilia, Calabria, Puglia. Adesso Maroni lo riporta in tutta Italia perché, spiega «gli sbarchi di clandestini nel 2008 sono raddoppiati».
Ma cosa ha fatto scoppiare la bufera? La proroga della proroga è stata votata all’unanimità dal consiglio dei ministri di ieri, anzi, in «preconsiglio», raccontano, dato che non era nell’ordine del giorno. Eppure Silvio Berlusconi, nella conferenza stampa a Palazzo Chigi alle 12 alla fine del Cdm, non ne ha parlato, pur divagando sulle «fustigate» che darebbe ai napoletani come fanno a Singapore. Subito dopo, però, il comunicato di Palazzo Chigi informa che il Cdm «esteso a tutto il territorio nazionale lo stato di emergenza per il persistente ed eccezionale afflusso di cittadini extracomunitari» per «potenziare le attività di contrasto e di gestione del fenomeno». Nota allarmante che fa immaginare eccezionali misure. Non si parla di «proroga».
Alza le antenne il Pd, con il ministro dell’Interno ombra, Marco Minniti: «Il governo spieghi immediatamente al Paese e al Parlamento le ragioni, le modalità e la finalità di tale iniziativa». Sul telefono del presidente della Camera una tempesta di telefonate dal Pd che chiedono chiarimento dal governo. Anche perché dalla maggioranza partono dei proclami: i leghisti enfatizzano, da Borghezio («Il governo forte fa sul serio») al capogruppo Cota: «Forte segnale dal governo ai clandestini». Che qualcosa non torna si capisce dalla precisazione di La Russa, di An: «Mi spiace deludere la sinistra, ma le Forze Armate non c'entrano nulla. È solo uno strumento tecnico usato anche dal Governo Prodi». Allora perché «la maggioranza urla?» si chiede Anna Finocchiaro del Pd «il governo alimenta il clima di paura». Per Nichi Vendola, Prc, lo stato di emergenza è «un pezzo di fascismo».
Il tono in crescendo preoccupa il Quirinale, che fa trapelare (probabilmente a Gianni Letta) lo «stupore e il rammarico» per un provvedimento uscito a sorpresa e che lascia spazio a diverse interpretazioni, fra chi, nella maggioranza, enfatizza lo stato d’emergenza come «forte segnale» e chi minimizza.
Nessun contatto del Colle con Fini, il quale aveva già chiamato il ministro per i Rapporti col Parlamento, Elio Vito, sollecitando il governo a riferire entro «quattro giorni». L’irritazione del Quirinale è arrivata fino al Viminale, così Maroni ha dovuto telefonare al Capo dello Stato. Il ministro, arrabbiato, ha girato a suo favore la chiamata in aula: «Non ho problemi ad andare a parlare in Parlamento, anzi avrò l’occasione per aprire un dibattito su questo». Se la dovrà vedere da solo, dato che Berlusconi se ne lava le mani: «Lo stato d’emergenza? ha già risposto Maroni...», dice mentre fa shopping a Corso Vittorio.
Dal vittimismo leghista però non esce gran che dei fatti concreti: l’emergenza serve per «evitare che i clandestini siano messi sotto le tende», però è vago sulle strutture dove saranno accolti. Annuncia per il primo agosto le nuove norme: più rapide per la richesta di asilo, più dure con un ritorno alla Bossi-Fini per i ricongiungimenti (solo figli e coniugi, genitori solo se anziani e soli).

l’Unità 26.7.08
«Stupore e rammarico»: lo stop del Quirinale
Il Colle allarmato per la decisione di estendere il provvedimento a tutto il territorio


Il comunicato di Palazzo Chigi - l’inattesa decisione del Consiglio dei ministri di estendere all’intero territorio nazionale la dichiarazione di stato di emergenza per l’afflusso di cittadini extracomunitari - ieri ha suscitato le forti preoccupazioni del Colle. «Stupore e rammarico» la reazione che già nel primo pomeriggio è trapelata dal Quirinale per i modi e i contenuti del provvedimento che tocca temi molto sensibili. Come appunto le «procedure accelerate per la gestione dei nuovi centri di accoglienza» - come l’ha spiegata il Capo Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione Mario Morcone - cuore del provvedimento dell’esecutivo.
E ieri tutti i livelli istituzionali sono stati «scossi» dalla mossa voluta da Maroni, che infatti ha dovuto nel pomeriggio convocare un’apposita conferenza stampa evidentemente per spegnere l’incendio che rischiava di divampare.
Il presidente Fini costretto a chiedere formalmente al governo di riferire al Parlamento perentoriamente entro martedì. Contatti febbrili, un vero e proprio caso. Il titolare del Viminale con le spalle al muro costretto a telefonare direttamente a Napolitano per spiegare, spiegarsi. Ammettendo poi proprio nell’incontro co i giornalisti di aver duvuto inviare tutta la documentazione al Presidente.
Al Colle in particolare - soprattutto tenendo presenti tutti i precedenti in materia, compresi quelli relativi ai decreti adottati dal governo Prodi nel 2007 e nel 2008 - ieri è stata rilevata in particolare la diversità delle interpretazioni date per spiegare il repentino ritorno alla estensione a tutto il territorio nazionale dello stato di emergenza.
Ancora una volta la presidenza della Repubblica ha richiamato in modo fermo quei «paletti» formali - e dunque sostanziali - su cui il presidente non smette di vigilare. Come accaduto sulla questione sicurezza e sulla giustizia.

Corriere della Sera 2.7.08
Di allarme in allarme inseguendo gli elettori
di Massimo Franco


Tecnicamente, il provvedimento viene considerato ragionevole, se non necessario. Il raddoppio degli immigrati clandestini registratosi nell'ultimo semestre mette nei guai le strutture di accoglienza; e suggerisce rimedi rapidi. Ma dal punto di vista politico è un'altra cosa. L'«emergenza nazionale » dichiarata ieri dal governo ripropone l'immagine di un Paese condannato all'eccezionalità: si tratti di giustizia, rifiuti o sicurezza. Riacutizza le polemiche e crea qualche inquietudine anche al Quirinale. E fa emergere la voglia del centrodestra di risolvere i problemi più «caldi» aggirando i confini giuridici e le limitazioni imposti dalle leggi ordinarie.
Il fatto che l'emergenza sia stata definita tale dal 2001, seppure limitata a Calabria, Sardegna e Sicilia, proietta sul provvedimento un alone di ambiguità. E offre qualche argomento in più al governo contro gli attacchi del centrosinistra. Visto con le lenti di Palazzo Chigi, il disegno ha una sua coerenza. Rientra in un piano di allarme generale che l'esecutivo sta mettendo in pratica. Segnala all'elettorato l'attivismo di Silvio Berlusconi e dei suoi alleati sui temi che alimentano paure e fobìe dell'opinione pubblica. E punta a marcare la discontinuità con gli anni dell'Unione. Di più: l'emergenza immigrazione viene brandita come uno dei simboli del lassismo a cui si starebbe ponendo rimedio.
È un'operazione nella quale si mescolano esigenze obiettive e calcoli politici. Ed evidenzia il doppio registro delle mosse governative. Da un lato, Silvio Berlusconi sottolinea i risultati già raggiunti o a portata di mano, in nome di un ottimismo e di una fattività aderenti allo stile del personaggio. Dall'altra, affida ai suoi ministri il compito di lanciare messaggi forti e non proprio positivi sui pericoli che il Paese deve fronteggiare. Nella conferenza stampa di ieri a Palazzo Chigi il canovaccio è stato questo. Di immigrazione il premier non ha parlato. Si è saputo solo dopo che il Consiglio dei ministri l'aveva proclamata un'emergenza.
Il centrosinistra reagisce sostenendo che si tratta di iniezioni di paura decise strumentalmente. Ed accusa Berlusconi di fomentare l'allarme contro gli immigrati e di esporli a reazioni razziste. I parlamentari del Pd si sono rivolti anche al presidente della Camera, Gianfranco Fini, chiedendogli una discussione in Parlamento. Fini ha girato la richiesta a Palazzo Chigi e Viminale, perché si presentino a Montecitorio entro martedì e riferiscano. E il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, ha detto che lo farà «per ribadire la necessità di questo intervento che, peraltro, è una proroga di una ordinanza del governo Prodi».
Rinfaccia agli oppositori la politica dell'Unione: l'emergenza, dice, è figlia di quella stagione. E si prepara ad attaccare «le falsità ed il pregiudizio» del centrosinistra, compreso Antonio Di Pietro, che su questo tema mostra qualche affanno polemico. Di Pietro ironizza su un'Italia in cui «tutto è emergenza »; e tende a minimizzare la gravità del fenomeno, affermando che «si tratta soltanto del sovraffollamento del centro di accoglienza a Lampedusa». Ma per Maroni la situazione è meno rosea. A sentire lui, viene demonizzata una misura che «va a favore degli immigrati clandestini». E che, c'è da giurarci, resterà in primo piano fino alle elezioni europee del 2009.

Corriere della Sera 26.7.08
«Non servono leggi di ferro Continueranno ad arrivare»
Alessandra Mangiarotti intervista il sociologo Aldo Bonomi


L'immigrazione non è solo un problema d'ordine pubblico

MILANO — Il sociologo Aldo Bonomi associa la prima «emergenza» a una data: «Fine anni '80, primi '90, da Paese di emigrazione l'Italia diventa Paese di immigrazione. Choc culturale, il fenomeno è vissuto però come una risorsa economica». La seconda la accompagna a un'immagine: «Il campo di calcio di Bari "riempito" di albanesi. La sindrome da invasione è iniziata lì, e per vent'anni ha camminato a braccetto con l'idea dell'immigrato-forza-lavoro dando vita a un meccanismo schizofrenico bilanciato via via dalle diverse sanatorie».
Così per vent'anni, e oggi?
«Oggi l'approccio giuslavorista è venuto meno. Quando si parla di immigrazione si parla di ordine pubblico. Di un problema che non è più da affrontare a mente fredda come una questione che riguarda l'economia, la società, ma che va legata alla sicurezza nazionale. Da qui la "schedatura" delle etnie considerate particolarmente a rischio, fino all'estensione (tramite decreto) dell'emergenza a tutto il territorio nazionale».
Una misura che condivide?
«Non credo che l'immigrazione possa essere affrontata e governata con logiche emergenziali. La Bossi- Fini ha forse funzionato? E la linea dura bipartisan? L'immigrazione non è un flusso transitorio ma uno dei tanti che stanno dentro i cambiamenti globali, dobbiamo imparare a conviverci. Gli immigrati continueranno ad arrivare, non si fermeranno. Ed è impensabile andare avanti di emergenza in emergenza ».
Allo stato di emergenza lei dunque cosa preferirebbe?
«A una soluzione che dice a ogni cittadino "l'invasione è dentro di te" anteporrei una strategia vera per la gestione della società dell'immigrazione (dove dentro ci sta pure il problema degli sbarchi, ma non solo), alla schedatura dei bambini un ragionamento concreto su come preparare le nostre scuole al melting pot, all'esercito per strada un ritorno al controllo sociale, alla proclamazione dello stato di emergenza la convocazione di una conferenza nazionale sull'immigrazione (l'ultima risale al '91) per affrontare i problemi veri del fenomeno».
Vale a dire?
«I servizi del welfare che mancano, le case insufficienti. I sindaci sono abbandonati a se stessi, l'unico premio che ricevono è una stella da sceriffo di latta. I diritti di cittadinanza e di voto, poi, scomparsi da ogni agenda politica. Sia chiaro: lo stato d'emergenza è sacrosanto per le quattro regioni che fanno da fronte, le operazioni di contrasto e ordine pubblico pure, ma non sono tutto. Perché l'immigrazione può essere gestita non fermata».

Repubblica 26.7.08
Graham Watson, leader dei liberal-democratici a Strasburgo: difficile credere che in Italia ci sia tutto questo allarme
L’esecutivo deve stare attento: certi messaggi possono creare nuove tensioni con gli stranieri
"Diritti umani a rischio, l'Europa vigilerà"
di Alberto D’Argenio


BRUXELLES - «Il governo deve stare attento, se convince i cittadini che il Paese affronta una situazione d´emergenza provocherà nuove tensioni tra italiani e stranieri. E comunque essere arrivati fino a questo punto già mette a rischio il rispetto dei diritti umani». Nel suo italiano perfetto lo scozzese Graham Watson - leader dei liberal-democratici all´Europarlamento, il terzo gruppo per forza e dimensioni di Strasburgo - commenta l´estensione dello stato d´emergenza extracomunitari a tutto il territorio nazionale. Un giudizio politico, mentre per ora la Commissione europea - guardiana dei trattati Ue - ha preferito il silenzio non ritenendo il provvedimento di sua competenza.
«È molto difficile credere che in Italia ci sia un allarme. Sappiamo che in tre regioni ci sono stati problemi specifici, ma dichiarare lo stato d´emergenza lascia supporre che negli ultimi giorni qualcosa sia cambiato. E io, francamente, non ho visto alcuna notizia in questo senso. È per questo che appoggio l´opposizione che chiede di spiegare le ragioni del provvedimento e le sue modalità».
Lei conosce bene il nostro Paese, qual è la sua analisi?
«Il governo deve stare molto attento. Non può trasformare le attuali tensioni in qualcosa di più grave, in un´emergenza nazionale. Non può indurre gli italiani a credere che si trovino di fronte ad una minaccia, altrimenti le tensioni tra le diverse comunità presenti sul territorio aumenteranno. Penso ai rapporti tra italiani e rom, ma non solo. Lo stato d´emergenza va usato con grande cautela e io non riesco proprio a credere che la situazione si sia aggravata a tal punto da giustificarlo».
Pensa che dopo la censura politica dell´Europarlamento sulla schedatura dei rom e le indagini aperte dalla Commissione Ue ci saranno nuovi attriti con Bruxelles?
«Il governo non può pensare che qui siamo tutti in vacanza fregandocene di cosa succede a Roma. Il commissario Ue alla Giustizia, Jacques Barrot, ha già detto senza mezzi termini che le regole comunitarie devono essere rispettate e sono certo che seguirà la situazione con occhio molto attento».
In generale, cosa pensa della serie di provvedimenti sull´immigrazione presi dal governo Berlusconi?
«Non si può fare a meno di notare che in tutta Europa ci sono molti extracomunitari: in Grecia, dove i clandestini sono più del doppio che in Italia, uno stato d´emergenza sarebbe giustificato, così come a Lampedusa. Ma non su tutto il territorio italiano. È un provvedimento eccessivo e spero che nell´applicazione delle nuove leggi prevalga il buon senso».

il Riformista 26.7.08
La deriva della Bossi-Fini
di Peppino Caldarola


Ci sono situazioni in cui l'intervento del medico aggrava la malattia. La salute del paziente corre così rischi nuovi e gravi. La cura leghista che Berlusconi sta imponendo all'Italia in materia di immigrazione è peggio della cura Di Bella per il cancro. È una follia. Che vuol dire che di fronte all'immigrazione clandestina si dichiara lo stato di emergenza nazionale? Qual è il pericolo che attraversa il paese da rendere così urgente questa spettacolarizzazione e questa drammatizzazione? La decisione del Consiglio dei ministri viene nello stesso giorno in cui a Milano il prefetto proibisce di festeggiare il Ramadan e i musulmani che andavano alla moschea di viale Jenner sono costretti a pregare in un Palasport.
Che diavolo sta accadendo? Non c'è nessun cambiamento nella situazione che giustifichi questa decisione. È estate e, come ogni estate, là dove il mare lo permetterà, ci saranno più sbarchi. È in vigore una legge, chiamata Bossi-Fini, che l'attuale maggioranza considera la migliore legge possibile (e che viene ridicolizzata dalle misure di oggi) e ci sono le nuove norme previste dal decreto sicurezza. Non bastano?
Spero che Berlusconi e il suo governo si rendano conto dell'enormità della decisione che hanno preso e del suo pericolo. Dichiarando lo stato di emergenza sostanzialmente si militarizza il paese, si danno poteri speciali a prefetti e autorità politiche. In Italia queste dichiarazioni di emergenza sono state autorizzate dopo calamità naturali per predisporre, senza burocratismi e anche senza controlli, aiuti immediati alle popolazioni sofferenti. Siamo a questo con gli immigrati? Non scherziamo.
Le ricadute negative sono numerose e possono provocare altre rovine, come un sisma nella fase acuta. In primo luogo si produrrà un indurimento dei rapporti con l'opposizione che, legittimamente, si sentirà espropriata dal potere di controllo di fronte a una emergenza contestabile e contestata. Il sistema dei poteri locali può opporsi a tutte le misure e forze emergenziali che si mettessero al loro posto. In terzo luogo questo ulteriore peggioramento delle relazioni politiche si accompagnerà ad una nuova frattura nella pubblica opinione.
Ci sarà una parte che considererà vieppiù questo governo come un governo nemico, e un'altra che vedrà confermate le proprie paure. In tutti i recenti interventi di esponenti di centro-destra in materia di sicurezza ricorrente è stato il riferimento alla percezione del pericolo sicurezza da parte dei cittadini. Ma non si può governare un paese sulle percezioni, ancorché di massa. È pericoloso e fuorviante. Si dà un potere immenso ai settori più aggressivi della destra e si crea una percezione di insicurezza che può diventare facilmente panico. Il governo deve dare certezza, moderare l'opinione pubblica non eccitarla. Infine si modificherà in via definitiva il rapporto fra opinione pubblica e forze di polizia, impegnate ormai non solo a difesa dei centri cittadini ma anche di tutti i luoghi in cui può verificarsi uno sbarco. Questa politica delle emergenze rivela un cedimento della politica. E forse siamo al cedimento della politica. Il medico ha perso la testa e sta uccidendo il paziente. Invece di curare il male rischia di iniettare nel corpo del paziente il virus terribile della paura. Non crediamo che ci siano razzisti al governo né nella maggioranza, ma questa decisione creerà un clima razzista. È questa la malattia mortale che rischia di impedire la modernizzazione dell'Italia. 


l’Unità 26.7.08
«Vi racconto mia figlia Eluana e il nostro patto»


Non avrebbe voluto una vita così Gliene dobbiamo fare una colpa?

Vi parlerò di Eluana. Questo ho fatto, con le mie limitate capacità, per oltre sedici anni infernali: vi ho voluto parlare di lei. Questo potrà servire a capire nel profondo cosa la Corte d’Appello di Milano ha reso possibile, il 9 Luglio 2008, con la sua pronuncia, se qualcuno vorrà farsene un’idea precisa e consapevole.
È evidente che chi non abbia conosciuto Eluana possa non comprendere il suo desiderio e possa non comprendere la mia ferma volontà di procedere verso la liberazione da tutto quello che lei avvertiva come una violenza: la continua profanazione del suo corpo patita per mani altrui, in una condizione di totale inconsapevolezza, impossibilitata ad esprimersi, a compiere un qualunque movimento volontario, incapace di avvertire la presenza del mondo e di se stessa. Questo è il contrario del suo modo di vivere, del suo stile di vita, che emanava da tutto quanto faceva: dai modi di atteggiarsi, di fare, dal suo stesso essere. Questo è quanto ha esplicitato anche nelle due concretissime occasioni in cui si è parlato della eventualità che poi le è capitata.
Questo è quanto è stato giustamente riconosciuto dalla Corte d’Appello di Milano che ha seguito, nel caso di Eluana, i criteri fissati dalla sentenza n. 21748 della Corte di Cassazione, che rendono lecita la sospensione del trattamento vitale in caso di stato vegetativo permanente: l’irreversibilità della condizione - "prolungatasi per un lasso di tempo straordinario" come ha scritto la Corte d’Appello - e la presunta volontà di Eluana, che era proprio quella riferita dal tutore e confermata senza esitazioni, dopo un attento e scrupoloso supplemento d’indagine, dal Curatore Speciale avvocato Franca Alessio.Ciò che ho più apprezzato di questo provvedimento è stato lo sforzo di comprendere Eluana per quello che era: una giovane informata e consapevole, con idee e principi personali pieni di valore, almeno per lei. Ho apprezzato la tutela delle scelte personali che la Magistratura ha messo in atto pronunciandosi, il rispetto per l’autodeterminazione, l’altissimo valore riservato alla persona che Eluana aveva manifestato di essere prima dell’incidente e alle sue riflessioni individuali.
Come ho affermato in questi giorni, c’è da essere fieri di una Corte così. Su tale pronunciamento sono state avanzate obiezioni, remore che, come padre attento, come uomo umile, sento in profondità non riguardare il caso specifico, unico al momento, di mia figlia Eluana. La sua natura indomita la rendeva testarda, contraria alle imposizioni, straordinariamente consapevole ed era inoltre libera, libera di virtù congenita, libera come natura propria.
Con lei, fatta così, io avevo fatto un patto e l’ho rispettato. Ho rispettato e onorato la parola che avevo dato a mia figlia. Non ho tradito la sua fiducia e non potevo fare altrimenti. Non me lo sarei mai perdonato. Se Eluana non voleva intrusioni di sorta nella sua vita - non parliamo poi nel suo corpo! - fossero anche di carattere "terapeutico", se non voleva vivere una vita contrassegnata dalla mancanza della possibilità di vivere, gliene possiamo fare una colpa? La dobbiamo obbligare a subire oltraggi - credo che anche le terapie e gli atti di cura, se indesiderati, si trasformano in aggressioni ingiustificate alla propria integrità fisica - e a vivere inconsapevole ancora per tanti anni perché altri più di lei sanno cosa avrebbe dovuto desiderare?
Non è un segreto che il mio pensiero personale coincide con quello manifestato da mia figlia. Forse per questo ho compreso, giustificato e protetto la sua volontà dal principio, senza mai alcun dubbio. Siamo stati condannati dalla stessa insopprimibile inclinazione alla libertà.
Ma se anche non avessi condiviso il suo giudizio sul valore da attribuire alla vita e alla morte, come avrei potuto, da padre, rassegnarmi nel vedere la sorte volgere proprio verso ciò che - i genitori, le sue amiche, le insegnanti lo sapevano - Eluana aborriva? Non è stato facile per me dover ripetere un numero spropositato di volte cosa diceva Eluana e chi era Eluana, prodigarmi nel chiarire che io davo solo voce a lei che non poteva più esprimersi. Se avesse potuto parlare ve l’avrebbe spiegato da sé.
Eluana era per noi una perla rara, un inedito inebriante di indipendenza, autonomia e buonumore, caparbia e pestifera. Se non accettava compromessi quando non veniva trattata da persona libera e responsabile delle proprie scelte di coscienza, potevo io ignorare la sua natura? Fare finta che non mi fosse capitata in sorte una purosangue della libertà? Le molte persone che hanno conosciuto mia figlia hanno realmente compreso che con questo pronunciamento si stava compiendo la sua volontà.
Veglierò su di lei e ne avrò cura come non ho mai smesso di fare da trentasette anni a questa parte, fino alla fine della sua vita, che continuerà nella nostra e nell’altrui memoria. Il sentimento assoluto che ho provato per lei dal nostro primo incontro non le verrà mai meno. Ho perso mia figlia già sedici anni fa, adesso le permetterò quello che hanno interrotto in passato, quello che hanno ostinatamente impedito, ad oggi, per seimilatrentasei giorni: morire per non continuare a subire un’indebita invasione del suo corpo e per non vivere una vita che aveva manifestato reputare indegna di lei.
* Padre di Eluana, socio della Consulta di Bioetica (Sezione di Milano)

l’Unità 26.7.08
Perché è più dignitosa e giusta la scelta che è stata fatta
Dieci domande sul caso Englaro


Il 16 ottobre 2007 la Corte di Cassazione ha deciso il riesame del “caso Englaro” stabilendo che la richiesta dei genitori di Eluana di sospendere la terapia che da 16 anni la tiene in Stato Vegetativo Permanente (SVP) fosse valutata sulla scorta dei due seguenti criteri:
1)l’assenza di possibilità di risveglio oltre ogni ragionevole dubbio,
2)l’accertamento della volontà che Eluana non avrebbe voluto vivere in quella condizione.
Dopo gli opportuni approfondimenti, il 9 luglio 2008 la Corte d’Appello di Milano ha accolto la richiesta Englaro, consentendo la sospensione delle terapie. Diversi sondaggi d’opinione confermano che circa l’80% degli italiani condivide la scelta degli Englaro. Ma la chiesa cattolica si oppone con un grande fuoco di sbarramento, che è giunto persino a sollecitare contrasti tra istituzioni statali. Esaminiamo qui le principali critiche mosse dando a ciascuna di esse una breve risposta razionale.
Obiezione 1: La decisione della Corte d’Appello «è un attacco al mistero della vita, alla sua sacralità» (mons. L. Negri, Avvenire, 12 luglio, p. 4).
Risposta. La Corte non muove alcun “attacco” ma solo constata che il “mistero” della vita sta dissolvendosi, perché la scienza ci fornisce conoscenze sempre più precise. Come ha scritto il professor Mario Manfredi, già Presidente della Società Italiana di Neurologia, dopo un periodo di oltre 16 anni la residua possibilità di ricupero è «estremamente minima». La Corte aiuta i cittadini a guardare in faccia la realtà e consente a persone come gli Englaro di decidere con responsabilità sul da farsi, senza continuare a vivere secondo il vecchio criterio sacrale connesso all’alone di mistero che avvolgeva il vivente e che ancora evoca emozioni profonde. È vero, comunque, che la crisi del principio di sacralità della vita umana genera in molti sconcerto, sgomento e anche panico. Hanno l’impressione è che il mondo intero crolli senza scampo e prevedono omicidi e la fine della convivenza civile. Di qui le preghiere e gli altri riti di purificazione richiesti per riparare la violazione dei tabù. L’abbiamo già visto, ad esempio, al tempo del divorzio, quando la crisi dell’indissolubilità sembrava provocasse la disgregazione della famiglia e la dissoluzione della civiltà stessa. Invece le famiglie continuano a formarsi ed assumono nuove forme più rispettose degli affetti e dei diritti personali. Forse c’è stato un miglioramento, che potrebbe ripetersi anche con l’abbandono della sacralità della vita. La crescita civile esige una visione razionale che metta da parte i sentimenti atavici e la viscerale paura del nuovo.
Obiezione 2: La decisione della Corte d’Appello è sbagliata perché «la vita è qualcosa di assolutamente indisponibile all’azione umana» (card. A. Bagnasco, Avvenire, 13 luglio, p. 4).
Risposta. Quest’obiezione è una conseguenza della sacralità e cade con essa. Conosciamo i meccanismi dei processi vitali e li modifichiamo in tanti modi: continuare a ripetere che la vita è indisponibile è chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Volenti o nolenti la vita umana è nelle nostre mani. Chi continua a desiderare o prescrivere che la vita debba seguire un proprio misterioso e imperscrutabile corso cerca solo di sottrarre l’uomo alle proprie responsabilità. Queste a volte sono gravose, ma vanno affrontate.
Obiezione 3: «Il paletto dell’inviolabilità della vita... (DEVE) prevalere, sia pure dolorosamente, sull’interesse del singolo che, non senza le proprie ragioni, richiede allo Stato di farlo saltare... a difesa di tante altre vite deboli... Vedo all’orizzonte troppe vittime se saltasse questo paletto» (dr. P.P. Donadio, Avvenire 19 luglio, p. 12).
Risposta. Un clinico riconosce che la sacralità della vita non vale più in sé: il singolo ha ottime ragioni per farlo saltare! (soprattutto dopo oltre 16 anni di SVP). Ma andrebbe difeso per presunte ragioni di utilità generale! Quest’errore nell’intendere l’utilità generale dimostra come la sacralità della vita sia irrispettosa delle persone.
Obiezione 4: «Un “risveglio” non si può mai negare" (Avvenire, 17 luglio, p. 11), perché 25 “luminari” della neurologia italiana affermano che non c’è la «certezza di irreversibilità» del SVP.
Risposta. L’errore sta nel fatto che nulla è certo circa il futuro: neanche che domani il Sole sorga ancora. Dobbiamo accontentarci delle (altissime) probabilità. E queste ci dicono che dopo 16 anni è fuor di dubbio che per Eluana non ci sarà mai più un «risveglio». Voler alimentare la speranza contro ogni dato ragionevole è un modo di riproporre la sacralità vitalista, che a vo lte ricorre ad affermazioni infondate come quella che circa «metà delle diagnosi (DI SVP) sono sbagliate» (G.B. Guizzetti, Tempi 17 luglio, p. 11) per spaventare facendo terrorismo psicologico.
Obiezione 5: «Togliere idratzione e nutrimento nel caso specifico è come togliere da mangiare e da bere a una persona che ne ha bisogno, come ne ha bisogno ognuno di noi» (card. A. Bagnasco, Avvenire, 16 luglio, p. 9).
Risposta. «Mangiare e bere» è un’azione volontaria con sensazioni: da oltre 16 anni Eluana non «mangia né beve». Le iniettano sostanze chimiche con la terapia nutrizionale. Ecco dove sta la differenza. Eluana non voleva continuare quella terapia.
Obiezione 6: Farla morire di fame e di sete è «la morte peggiore che possa essere inflitta a un essere umano» (“Medicina e Persona”, Comunicato Stampa). Se non soffre «qualcuno mi spieghi allora perché il tribunale raccomanda di sedarla» (dr. G. Gigli, Avvenire, 13 luglio, p. 5).
Risposta. Far credere che Eluana soffrirà la fame e la sete è speculazione di basso profilo tesa a suscitare ripugnanza e raccapriccio facendo appello a immagini note di vario tipo (dal conte Ugolino a Walt Disney). In realtà i centri nervosi responsabili delle ricezione del dolore sono distrutti e la morte avverrà per deperimento. Il tribunale ha raccomandato la sedazione come misura di rispetto e di precauzione. Anche la British Medical Association raccomanda l’anestesia per i morti cerebrali prima del prelievo d’organo (per sopprimere i riflessi viscerali). Non ne discende che i morti soffrano. Assodato questo, si potrebbe pensare ad un intervento attivo che chiuda la partita in modo più rapido. Dal punto di vista morale può essere meglio, ma da quello giuridico non è consentito, per cui ci si deve limitare alla sospensione della terapia- punto garantito dal diritto italiano.
Obiezione 7: Come si fa a dire che Eluana non avrebbe voluto vivere in stato vegetativo? È vero che lo ha detto prima dell’incidente, quando aveva 20 anni ed era sana: «parole che chiunque potrebbe pronunciare e sottoscriverebbe, ma che non possono avere valore di “testamento biologico”» (L. Bellaspiga, Avvenire 16 luglio, p. 9).
Risposta. Sarebbe meglio se il vitalista dicesse chiaro e tondo che il consenso (pregresso o attuale che sia) non vale niente di fronte al valore sacro della vita. Welby lo diede qualche minuto prima della sospensione della terapia ben sapendo che cosa significasse: ma neanche lì il suo consenso contava, e il dr. Mario Riccio ha avuto guai! Se anche ci fosse una firma apposta a 20 anni su un foglio scritto, che valore avrebbe mai?! Non c’è, e ci si aggrappa anche questo, in stile Azzeccagarbugli. Quelle espresse da Eluana sono le sue ultime volontà e non possiamo immaginarcene altre, essendo subito caduta in uno stato che - per via della distruzione della corteccia - non consente di averne più. Se vale il consenso, allora le parole pronunciate da Eluana e fedelmente riportate da testimoni hanno valore decisivo per procedere alla sospensione della terapia nutrizionale.
Obiezione 8: Ma quella nutrizionale non è una terapia, anche perché lo stato vegetativo «non è una malattia» (dr. G.B. Guizzetti, Avvenire 19 luglio, p. 10) ma è «una grave disabilità» da tutelare. L’alimentazione artificiale, poi, non è accanimento terapeutico perché non c’è «nessuna macchina, nessun supporto tecnologico».
Risposta. Evito le discussioni sui concetti di malattia e di disabilità, anche se l’idea che lo SVP sia una semplice diminuzione di capacità sembra dire che lo zero sia un «uno rimpicciolito». Concedendo che lo SVP sia una disabilità estrema, non ne consegue che la sua tutela debba portare al prolungamento della vita: se l’interessato non voleva vivere in quello stato, sarebbe «farle un torto». Il rispetto dovuto a un disabile comporta il rispetto delle sue scelte. L’insistenza «pro vita» è una forma di indebita violenza poco rispettosa della fragilità di chi ha scelto. Che dire poi della pompa che si usa per l’alimentazione artificiale? Non è forse una «macchina»? A parte questo, dire che c’è accanimento solo in presenza di macchinari è un modo ingenuo di ragionare, come quello che porta a credere si possa torturare solo col fuoco, ruota e urla di dolore. Come ci può essere tortura anche senza fuoco, macchine ecc., così ci sono forme più sottili di accanimento anche senza macchinari: quando non c’è volontà e consenso c’è accanimento.
Obiezione 9: Non sarebbe meglio lasciare Eluana alle suore che la curano, invece di procedere alla sospensione della terapia?
Risposta. Non so se sia davvero meglio continuare a vegetare o invece chiudere con dignità. Ma è certo che quand’anche «vegetare» fosse un qualcosa di positivo, non sarebbe «buono» ove non fosse voluto. Dare una carezza o una elemosina sono gesti in prima battuta positivi (che non fanno male) ma diventano cattivi ove fossero imposti ad una persona che non li vuole. Solo un residuo di vitalismo può indurci a credere diversamente: eccessiva è l’insistenza posta nel dissuadere i genitori Englaro. Esemplare è il modo fermo con cui difendono la dignità della figlia. (a cura di m.m.)

l’Unità 26.7.08
La consulta appoggia la scelta dei genitori
di Maurizio Mori


Nel 1989 il neurologo milanese Renato Boeri ha voluto la Consulta di Bioetica per sollecitare la riflessione culturale in una prospettiva laica. Dopo aver elaborato la prima proposta di testamento biologico presentata in Italia (1990), la Consulta ha contribuito ai principali dibattiti bioetici: dalla fecondazione assistita, al caso Welby ed ora quello Englaro. Organizzata in Sezioni diffuse in varie parti d’Italia, l’Associazione è aperta a chi vuole sostenere e far crescere i valori e gli stili di vita secolari.
Il caso di Eluana ci è particolarmente vicino perché molti di noi l’hanno seguito con attenzione. Vogliamo qui far sentire una voce diversa dalle reazioni un po’ scomposte di parte della stampa italiana, prone a dare risalto a tesi prive di ogni fondamento scientifico come quella che il concetto di stato vegetativo permanente sarebbe ormai "superato" ed il risveglio di Eluana sempre possibile. Tesi simili sono frutto di concezioni religiose o di veri e propri sogni generati da desideri intensi: è bene ricordare che al tempo di Terry Schiavo queste tesi hanno addirittura portato a dire che la donna parlasse. Si è poi fatto subito scendere una cortina di silenzio sui risultati dell’autopsia che ha confermato la quasi completa distruzione del talamo e l’impossibilità di ogni relazione e capacità di dolore.
La situazione di Eluana è tragica, ma va risolta guardando in faccia alla realtà. E soprattutto vanno rispettate le scelte dei genitori Englaro, troppo spesso oggetto di critiche poco riguardose. La Consulta di Bioetica sostiene la scelta degli Englaro e spera che, col sostegno di tanti cittadini, i valori secolari già prevalenti tra la gente abbiano maggiore rilievo sul piano pubblico e più adeguata rappresentanza su quello politico e istituzionale
*(Presidente della Consulta di Bioetica Onlus, Professore di bioetica, Università di Torino)

Bibliografia
"Sul diritto di autodeterminazione. Riflessioni critiche sulle sentenze Riccio e Englaro"
(a cura di) Immacolato, Mariella Bioetica. Rivista interdisciplinare, XVI (2008) n. 1 inserto. (Editrice Vicolo del Pavone, Piacenza, 0523 322777).
"Documenti sul caso E.E." Bioetica. Rivista interdisciplinare, VIII (2000), n. 1.
"Sullo stato vegetativo permanente" Bioetica. Rivista interdisciplinare, XII (2005) n. 2.
«Né eutanasia né accanimento terapeutico. La cura del malato in stato vegetativo permanente», Lateran University Press, Roma, 2003.
Comitato per l’etica di fine vita, Carta delle volontà anticipate, Editore Vicolo del Pavone, Piacenza, 2008. (a cura di) Di Pietro, Maria Luisa e José Noriega

l’Unità 26.7.08
Maryam Rajavi. La leader dell’opposizione in esilio: l’Italia ci aiuti affinché l’Unione Europea cancelli i Mujaheddin del popolo dalla lista dei gruppi terroristi
«Solo noi della resistenza possiamo abbattere il regime iraniano»
di Gabriel Bertinetto


Il nemico numero uno di Teheran ha il volto sorridente di Maryam Rajavi, leader della resistenza iraniana. Elegantemente vestita di rosa, i capelli avvolti in un fazzoletto dello stesso colore, ci riceve in un albergo a Roma circondata da collaboratrici e collaboratori. «L’Italia può svolgere un ruolo importante affinché l’Unione europea cancelli i Mujaheddin del popolo (Mpi) dalla lista delle organizzazioni terroriste -dice-. L’azione della resistenza è la chiave per rimuovere la più grande minaccia esistente oggi non solo per il popolo iraniano ma per il mondo intero: il regime dei mullah».
Signora Rajavi, l’Mpi chiede di essere tolto dalla lista dei gruppi terroristi e numerosi parlamentari italiani appoggiano la richiesta. Come spiega che tanti governi, compresi gli Usa che sono fortemente ostili a Teheran, non siano d’accordo?
«L’etichetta di terroristi fu appiccicata dall’Occidente su sollecitazione dei mullah, come concessione per favorire il negoziato. È una scelta giuridicamente infondata, e dal punto di vista politico una conchiglia vuota, perché l’Europa e gli Usa, che l’adottarono unicamente per compiacere Teheran, sanno che la strategia della compiacenza è fallita».
Lei sostiene che ogni trattativa con le autorità iraniane è inutile, ma si oppone all’“opzione militare” spesso evocata dagli Usa. E le sanzioni, se il dialogo non dà risultati, servono?
«Sì, possono essere efficaci. Sinora tutti i contratti commerciali fra le aziende occidentali e l’Iran sono andati a vantaggio del regime, mentre l’80% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Le sanzioni possono creare problemi ai mullah».
Secondo voi il cambiamento in Iran può arrivare solo dall’interno del Paese. I settori politici riformatori possono contribuire?
«Sfortunatamente riformatori e moderati sono un miraggio. Per 15 anni l’Occidente si è cullato nell’illusione che esistessero. Ci sono fazioni nel regime, ma accomunate dall’obiettivo di salvaguardare il potere. Khatami e finito, Rafsanjani è finito. Ed è emerso Ahmadinejad».
Dunque per voi il cambiamento scaturirà da una contrapposizione frontale con il regime. Sarà violenta?
«Siamo ottimisti sul fatto che il popolo trovi altre strade. Noi ad esempio abbiamo proposto un referendum sotto sorveglianza internazionale. Nella società iraniana c’è un potenziale di energie bloccate, pronte a liberarsi. Ci auguriamo che il regime non soffochi quelle energie, ma sappiamo che per sopravvivere non si farebbe scrupolo di spargere altro sangue».
Ahmadinejad e i suoi paiono più deboli rispetto a due anni fa. C’è una lotta fra vari settori del regime. Che peso date a queste vicende?
«La guerra interna c’è sempre stata, fin dall’inizio. Ma parlerei piuttosto di una costante epurazione ed eliminazione delle frange che cercano di ritagliarsi un piccolo spazio di manovra rispetto all’orientamento generale. È un progressivo assottigliamento della base del regime che nella sua totalità si indebolisce progressivamente nel momento stesso in cui tende a diventare sempre più monolitico».
Cosa deve fare l’Mpi per guadagnare la fiducia di quei cittadini iraniani, nemici della teocrazia e però turbati dai legami che quel gruppo ha avuto con Saddam durante la guerra Iraq-Iran?
«In realtà la resistenza ha un largo sostegno sociale, logistico, umano, che in una dittatura non è ovviamente possibile quantificare. Anche se sono sottoposti alla guerra psicologica del potere, gli iraniani non dimenticano che l’Mpi si stabilì in Iraq solo dopo il ritiro delle truppe dal territorio iraniano. Prima i Mujaheddin avevano anzi combattuto contro l’esercito iracheno. La presenza dell’Mpi in Iraq dipese da una complessa situazione geopolitica, che sei anni fa però è completamente mutata. Oggi è provata l’indipendenza totale dell’Mpi».
Terroristi per molti governi occidentali. Musulmani ipocriti per il regime. Due accuse pesanti. Cosa risponde alla seconda?
«È ovvio che un governo che nel nome dell’Islam uccide, tortura, esporta terrorismo in Medio Oriente, parli così della resistenza. Perché se ammettesse che i mujaheddin sono musulmani, come potrebbe giustificare i propri crimini? Non possono esserci due Islam tanto diversi fra loro».
Avete un programma politico progressista: separazione fra politica e religione, applicazione del principio democratico “un uomo, un voto”, parità fra i sessi, abolizione della pena capitale. Eppure siete molto isolati internazionalmente. Come lo spiega?
«Quei governi che continuano ad etichettarci come terroristi, lo fanno unicamente per convenienza nei rapporti con Teheran. In origine fu un gesto di buona volontà di Clinton verso Khatami per favorire il ravvicinamento Usa-Iran. Ma in molti Paesi, compresa l’Italia, compresi gli stessi Usa, numerosi parlamentari hanno firmato dichiarazioni a nostro sostegno».

Corriere della Sera 26.7.08
Il limite. Il British Medical Journal: i nati in Etiopia 160 volte meno dannosi
«Non più di 2 figli, inquinano» La campagna dei medici inglesi
di Monica Ricci Sargentini


LONDRA — Le famiglie britanniche sono avvisate: fare figli inquina, meglio astenersi o quantomeno limitarsi a due pargoli. È questo il consiglio che i medici di base dovrebbero dare ai loro pazienti per fermare la lenta ma inesorabile crescita del tasso di nascite in Gran Bretagna. Nel 2007, nel Regno Unito, sono stati messi al mondo 191 bambini ogni 100 donne. «Troppi», sostiene in un editoriale il British Medical Journal, la rivista dei medici britannici, che invita i suoi iscritti a dare il via a una campagna contraccettiva su vasta scala. «Rompiamo questo silenzio assordante — scrivono John Guillebaud, professore emerito in pianificazione familiare all'University College di Londra, e Pip Hayes, medico di base a Exeter, nel Devon —. Spieghiamo alle coppie britanniche che il miglior contributo per lasciare un pianeta abitabile ai nostri nipoti è fermarsi a due figli o almeno farne uno in meno di quello che si desidera».
Chissà se la regina Elisabetta II ieri ha aggrottato le sopracciglia nel leggere l'articolo o se l'ex premier britannico Tony Blair si è sentito in colpa. Entrambi, infatti, hanno aiutato ad affossare il pianeta visto che sono il simbolo della famiglia numerosa: quattro figli a testa. È avvisato anche l'aspirante primo ministro David Cameron, leader dei conservatori e grande ecologista. Anche lui ha già oltrepassato la soglia consentita, arrivando a quota tre. Che si fermi, per carità.
Ogni nuova nascita in Gran Bretagna, spiegano i medici, produce 160 volte più gas serra che una in Etiopia. Avere una famiglia numerosa, insomma, è peggio che guidare un Suv. I due dottori fanno parte dell'Optimum population trust, un think tank che si dedica all'impatto della sovrappopolazione sull'ambiente e che predica il concetto di «impronta ecologica », l'indice statistico che mette in relazione il consumo di risorse naturali con la capacità del pianeta di rigenerarle. «Se il tasso di fertilità scendesse a 1,7% — spiega Guillebaud — in sei generazioni riusciremmo a dimezzare la popolazione in Gran Bretagna».
Ovviamente non si pensa al varo di leggi draconiane come in Cina dove le coppie sono obbligate a limitarsi a un figlio, a scapito delle bambine che vengono sistematicamente abortite. Né siamo ai livelli di Jonathan Swift che nel suo A modest proposal suggeriva alle famiglie irlandesi di alleviare la loro povertà vendendo i figli in cambio di cibo. «Non dobbiamo mettere la gente sotto pressione — dicono Guillebaud e Hayes — ma dar loro le informazioni necessarie sulla contraccezione. I dottori dovrebbero riuscire a contenere la grandezza delle famiglie in accordo con l'etica ecologica».
Un calo drastico della popolazione, però, avrebbe conseguenze drammatiche sull'economia e sul sistema pensionistico. Lo sanno bene i Paesi afflitti dalla crescita zero. E non è nemmeno sicuro che non fare figli sia la ricetta migliore per diminuire l'effetto serra. «La causa dei cambiamenti climatici — spiega al Daily Telegraph il professor Martin Parry dell'Intergovernamental panel on climate change — è lo sviluppo che produce inquinamento. Bisogna trovare il modo di migliorare i nostri standard di vita con l'energia pulita».

Corriere della Sera 26.7.08
Confessioni La fondatrice del «manifesto» scava nella sua coscienza. L'amore per l'arte, le amare delusioni, l'orgoglio di aver lottato
Lo spettro della rivoluzione inutile
Rossana Rossanda s'interroga sul divario tra gli ideali e la storia. A partire dal 1789
di Sergio Luzzatto


Sono appena dieci pagine, disperse fra le quasi cinquecento di un libro sorprendentemente vivo per valere da omaggio accademico. Ma sono pagine che hanno il dono della trasparenza, e si aggiungono a quelle di un volume di memorie e di un racconto di viaggio per restituirci il profilo della «ragazza del secolo scorso». Rossana Rossanda le ha intitolate
Tra due '89. Storia e rivoluzione. E già alla seconda riga ha voluto dirne il senso: «Non più che una confessione».
Tutto iniziò — confessa dunque Rossanda — nel 1989, bicentenario della Rivoluzione francese. Allora le venne «il primo dubbio, e gigante». Il dubbio che la tragedia originaria del sangue innocente (il «sangue «in più», imprescrittibile al tribunale della storia) andasse collocata non tanto nel 1917 della Rivoluzione d'Ottobre, quanto centoventi anni prima, nel 1789 del 14 luglio: nel passaggio forse obbligato, fatale, dalle picche della Bastiglia alle ghigliottine del Terrore. Peggio: il dubbio che François Furet avesse ragione, che ogni Ottantanove contenga un Novantatré. «Che le rivoluzioni sono nel migliore dei casi superflue. Ma sempre esecrande».
Non che la navigata fondatrice del manifesto si lasciasse sfuggire le implicazioni ideologiche delle tesi di Furet, in un'Italia che usciva dall'incubo del brigatismo rosso per entrare nel tunnel identitario del post-comunismo. Non che si nascondesse allora, né si nasconda oggi, la ricaduta dell'entusiasmo manifestato per Furet dai suoi zelanti epigoni italiani: il trionfo di un nuovo pensiero unico, pronto a ritenere terroristico ogni intervento di gruppo o di popolo non autorizzato da un'istituzione della democrazia elettiva. Ma quali che fossero gli usi politici del revisionismo storiografico, Rossanda fu presa allora da un «dubbio radicale», che ancora l'accompagna. Il 14 luglio? «Un vortice nel quale sprofondavo».
Si può mai capire (secondo la famosa raccomandazione di Leopold von Ranke) che cosa è veramente successo nel passato, nella storia? E più che mai nella storia delle rivoluzioni? «Quel che è realmente avvenuto sta nella concatenazione di fatti, e questa si disegna in un processo che ha già il segno di un "giudizio di valore". O no? Insomma mi perdo. E divento prudentissima». «Il problema è quando un fatto cambia segno. Come se "il" fatto fosse necessariamente esiguo, e la sua chiave stesse "accanto" e "dopo", nelle onde concentriche che si allargano dal sasso gettato nello stagno. Ma non sto precipitando nel furetismo di destra o di sinistra? Quel sasso resta essenziale, anche se è il primo a scomparire dalla superficie delle acque che ha turbato. Chi non sa di storia deve ripetersi "prudenza, prudenza, prudenza". E chi fa politica? Terribile».
È un'ottantenne piena di dubbi questa ragazza del secolo scorso, anche se le «obliose nuove generazioni » la dipingono come una coltivatrice di certezze finalmente andate in pezzi. Ed è una donna tentata di rimpiangere l'abbandono degli studi giovanili, l'estetica sacrificata alla politica: «Avrei fatto meglio a occuparmi di storia dell'arte». Ma perfino quando trova rifugio nelle sale di un museo, può capitare che la donna si senta pedinata, disorientata, minacciata: «Anche là la storia mi insegue e mi tende tranelli». Così, per esempio, quando contempla il capolavoro di Diego Velázquez, Las Meninas. E non può più andare certa che il pittore si sia proposto una mise en abîme, una rappresentazione della rappresentazione: l'artista che ritrae se stesso mentre fa il ritratto del re e della regina, Filippo IV di Spagna e Marianna d'Austria, riflessi nello specchio sullo sfondo. Perché una recente radiografia ha rivelato come, nella prima versione del quadro, pittore e tela non ci fossero affatto...
«Delle Meninas si sa dunque (quasi) tutto, compresi nomi, vita, morte e miracoli dei nove personaggi più un cane più i due riflessi nello specchio. Ma, stringi e stringi, che cos'è il "fatto", realmente avvenuto una volta per sempre, se non la tela medesima e nient'altro, come ci appare al Prado? Tutte le notizie non sono che appendici superflue e perdipiù variabili, del solo veramente avvenuto, quella metà superiore tutta in penombra, quelle luci dorate e azzardose sul primo piano e smaglianti su una porticina in fondo, quelle pennellate che a un metro di distanza sembrano fondersi e non sono fuse, quella loro densità sontuosa sulle sete e sui colori spenti — insomma niente e tutto? Divertente, interessante, l'iconologia non mi darà mai ragione dell'addensarsi di idee, emozioni, saperi, ambizioni, tecniche, in "quel" dipinto. Non devo tornare alla visibilità pura, che storia non è? Oppure no, diviene anch'essa? Ma diviene e non sedimenta. Non fa storia?».
Se soltanto i critici sempiterni di Rossana Rossanda fossero capaci di altrettante domande, se soltanto si lasciassero scuotere da altrettanti dubbi riguardo al loro proprio feticcio, le sorti magnifiche e progressive del capitalismo. E se sapessero che — a onor del vero — la ragazza del secolo scorso non ha avuto bisogno né di Furet, né del 1989, per ammettere che i conti della storia non le tornavano affatto. Successe un quarto di secolo prima del bicentenario della Rivoluzione francese: nella Spagna del 1962. Inviata in missione clandestina dal Pci di Togliatti, una Rossanda trentottenne percorse in lungo e in largo la penisola retta ancora dall'inflessibile dittatura di Franco. Incontrò i capi di un'opposizione antifranchista diffidente, stanca, immatura, e riconobbe ben maggiore la lucidità di una destra pronta a liquidare il fascismo dall'interno, senza neppure l'ombra di una rivoluzione.
Nella Spagna del 1962 Rossanda toccò con mano la caduta delle sue certezze, raccontandola in un libro dell'81 che Einaudi ha ristampato da poco, Un viaggio inutile:
piccolo grande libro sulla solitudine delle idee, «quando la società esce da loro e le abbandona come binari fra le erbe». Già quel libro, in fondo, niente più che una confessione. Il riconoscimento di tutta la distanza che corre — in politica come nella vita — fra la coscienza e la scelta, il capire e il potere. E al Prado, già allora, la scoperta che neppure l'arte garantisce un rifugio: «Perfino El Greco, che da lontano amavo, mi ha rivelato facilità e imbrogli».
A volte, sembrano valere per la Rossanda di oggi le parole che lei stessa ha scritto sui vecchi anarchici sopravvissuti alla guerra civile spagnola, che «ora interrogavano la storia, senza più esecrazioni, senza speranze». Altre volte, sembra prevalere in lei una giusta fierezza: l'orgoglio di chi sa come l'intero suo viaggio sia stato tutt'altro che inutile. «Fu una bellissima storia, di quelle da cui esci torchiato come un panno dalla lavatrice e ti appendi ad asciugare bello pulito, alla fine. Se questa non è vita, che cosa lo è?».
Il saggio di Rossana Rossanda Tra due '89. Storia e rivoluzione è incluso nel volume collettaneo L'intellettuale militante. Scritti per Mario Isnenghi (pp. 476, e 22), pubblicato dall'editrice Nuova Dimensione di Portogruaro (Venezia).
Della stessa Rossanda Einaudi ha da poco mandato in libreria Un viaggio inutile
(pp. 122, euro 9,50), la cui prima edizione, edita da Bompiani, risale al 1981. Gli studi di François Furet cui si fa riferimento nell'articolo di Sergio Luzzatto sono Critica della Rivoluzione francese (Laterza) e Il passato di un'illusione (Mondadori), dedicato alla storia delle idee comuniste nel XX secolo.

Repubblica 26.7.08
Un libro di Luciano Guerci sugli scrittori che avversarono i giacobini
La controrivoluzione e i suoi paladini
di Massimo L. Salvadori


Gli autori analizzati sono in gran parte ecclesiastici: per loro la presa della Bastiglia è una punizione dei peccati umani, un inferno terreno voluto da Dio

A partire dal Seicento inglese «rivoluzione» è stata una bella parola per le forze politiche e sociali che invocavano il progresso. Le rivoluzioni erano quei grandi sommovimenti che, spezzando le catene dell´oppressione politica, sociale, nazionale, coloniale, allargavano le frontiere della libertà umana. E la rivoluzione francese costituiva l´icona delle grandi rivoluzioni moderne, che le esecrazioni di reazionari e conservatori non facevano che maggiormente risplendere. Poi gli esiti totalitari delle rivoluzioni comuniste hanno scompaginato le carte: la rivoluzione si è presentata nelle vesti non già di amica della libertà ma di un nuovo dispotismo, fonte non già di rigenerazione ma di quel fanatismo e astrattismo ideologico, di cui i giacobini erano stati i primi grandi sacerdoti. L´antigiacobinismo è diventato il leitmotiv di un revisionismo storico che dal libro del 1952 di Jacob L. Talmon Le origini della democrazia totalitaria ai saggi di François Furet, comunista disilluso, è andato ingrossandosi.
La rivoluzione francese: madre di una progressiva degenerazione. Tra i contemporanei che si levarono contro di essa si distinsero sopra tutti un liberale conservatore come Edmund Burke fin dal 1790 con le sue Riflessioni sulla rivoluzione francese e un controrivoluzionario monarchico-papista come Joseph de Maistre con le sue Considerazioni sulla Francia del 1796. De Maistre osservava il fenomeno rivoluzionario convinto che rappresentasse uno sconvolgimento unico, mai visto. Scriveva: «Quel che più colpisce nella rivoluzione francese è questa forza travolgente che piega tutti gli ostacoli. Il suo turbine trasporta come fuscelli tutto ciò che la forza umana ha saputo opporle». E continuava affermando di vedere in essa la mano di Dio, che «punisce per rigenerare». L´anno di pubblicazione delle Considerazioni era quello dell´inizio del triennio «giacobino» d´Italia, che, aperto dalle conquiste di Bonaparte, si sarebbe concluso con le vittorie di Suvorov nel Nord e lo spegnimento sanguinoso della Repubblica partenopea.
A ricostruire l´atteggiamento degli intellettuali italiani odiatori del 1789 e dei suoi sviluppi, che nelle linee essenziali manifestarono, anche anticipandoli, punti di vista analoghi a quelli di de Maistre, ha pensato uno dei nostri più autorevoli storici del Settecento, Luciano Guerci, nel volume Uno spettacolo non mai più veduto nel mondo. La Rivoluzione francese come unicità e rovesciamento negli scrittori controrivoluzionari italiani (1789-1799), pubblicato dalla Utet (pagg. 321, euro 26). Di questo autore la Utet ha opportunamente ripubblicato nel 2006 la bella sintesi L´Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, dapprima uscita nel 1988. Gli scrittori analizzati da Guerci erano nella maggior parte ecclesiastici, che perciò ragionavano in termini teologico-politici. Lo schema dominante è che, nulla potendo compiersi se non per volontà di Dio, la rivoluzione francese ne costituisce una necessaria manifestazione. Essa è una punizione per i peccati degli uomini, un inferno terreno voluto dall´Onnipotente per ammonirli e ricondurli al bene, per far loro comprendere che la vera libertà è quella assicurata dai legittimi sovrani, che ai popoli spetta piena obbedienza alla monarchia, alla Chiesa e al Papa, che l´ordine solo da questi può essere assicurato, che la rivoluzione altro non è se non anarchia, dissoluzione dei sacri tradizionali vincoli, ribellione empia contro le giuste gerarchie volute dalla natura e dalla religione. Guerci nota come si trattasse di «furibonde condanne» che presentavano un duplice aspetto: da un lato erano del tutto incapaci di comprendere le radici e le motivazioni della rivoluzione, dall´altro però rendevano gli scrittori controrivoluzionari «assai penetranti in rapporto alla pars destruens» del grande sommovimento.
Che cosa essi acutamente capirono? Capirono che «la peculiarità della rivoluzione-ribellione» consisteva nella sua «unicità» in quanto evento storico (elemento colto anche da Burke), nel «rovesciamento» totale che stava provocando: insomma compresero il carattere di radicalità senza precedenti proprio del movimento messo in moto dal 1789. Nessun grande - dice l´autore - tra questi scrittori, della statura di un Burke, di un de Maistre, di un Bonald, ai quali si può forse accostare solo Nicola Spedalieri.
Certo, l´analisi delle cause e ragioni della rivoluzione che essi conducono è povera e deformante. Campeggia l´idea della immane «cospirazione» messa in atto dalle tre sette: massoni, filosofi illuministi, giansenisti falsi rinnovatori della religione; la quale ha prodotto una «società di bestie» (Mallio), fatto vedere dei soldati che muovono all´assalto senza le insegne della religione (Marchetti), portato a una «abietta e vera schiavitù, perché dallo spirito del Signor separata» (Gazzera).
Gli scrittori controrivoluzionari italiani, si può capire, vissero il primo decennio della rivoluzione come la marcia del male, per cui le vittorie, pur provvisorie, delle armi delle potenze antifrancesi nel 1799 parvero - conclude Guerci - «il risveglio da un incubo»; sennonché «la loro «memoria implacabile» non sarebbe venuta meno, alimentando un filone interpretativo che oggi è ben lontano dall´essere esaurito».

il Riformista 26.7.08
Cara Unità, 
il mio piano 
in quattro lettere
 By Concita


Siamo venuti in possesso della bozza dell'editoriale su cui Concita De Gregorio sta lavorando in vista dell'esordio alla direzione Unità . Eccolo.

Cara Unità, mi rivolgo a te come fossi una lettrice. Ho pensato a come chiamarlo, questo mio primo giorno. Ci ho pensato guardando i mari che mi hanno portato fino a te. Quello di Barcellona, che scorre nel mio sangue. Quello di Cagliari, dove scorreva l'inchiostro della mia penna che ha firmato il contratto. Il Tirreno, il mio Tirreno. Li ho visti dal treno, i mari. Sul treno ho incontrato lei e i suoi due bambini. Si chiama A., minuta, sguardo corroso dalla fatica di chi non ce la fa. Ricercatrice universitaria a 200 euro al mese e poi cameriera la mattina, call-center il pomeriggio, cassiera di Blockbuster la sera, parcheggiatrice abusiva la notte. Eppure, sempre, mamma. «Le mamme sognano, le mamme invecchiano, le mamme si amano, ma ti amano di più», cantava il Poeta. È il suo e di quelle come lei, l'unico Travaglio che m'interessa. Dovremmo pensare più a lei e meno al Lodo Alfano, forse, da qui, ora. Ora che ho trovato le parole per chiamarlo, questo mio primo giorno all'Unità: il mio primo giorno di scuola. 
Sul treno che mi ha portato qui ho visto anche loro. B. e C., entrambi di 18 anni, sono senegalesi. Lavorano in cantiere diciotto ore e mezza al giorno a 1,5 euro (l'ora, s'intende), al nero. C'è chi vorrebbe accompagnarli alla frontiera, con un foglio di via. Loro resistono, di fronte a chi vuol privarli anche dei luoghi di preghiera. «Pittore ti voglio parlare mentre dipingi un altare. Io sono un povero negro e d'una cosa ti prego...», sembrano implorare i loro occhi. Dovremmo pensare più a loro e meno al Lodo Alfano, forse, da qui, ora. Ora che ho trovato le parole per chiamarlo, questo mio primo giorno all'Unità: il mio primo giorno di scuola. 
Sul treno che mi ha portato qui, ho visto anche lui. D. ha 72, è un uomo che viene dal Sud. Una vita di lavoro nei campi, una moglie stanca, due pensioni minime e un figlio laureato poi fuggito in America a fare l'avvocato in una banca d'affari. È solo coi suoi dolori, D. Quando ho raccontato la sua storia a un mio amico di Napoli, un pacifista conosciuto al G8 di Genova, lui mi ha suggerito un Poeta che fa al caso di D. «So' nu faticatore e magno pane e pane. Si zappo 'a terra chesto te fa onore. Addenocchiate e vaseme 'sti mmane», potrebbe dire D. al figlio (almeno così sostiene il mio amico pacifista di Napoli). Dovremmo pensare più a lui e meno al Lodo Alfano, forse, da qui, ora. Ora che ho trovato le parole per chiamarlo, questo mio primo giorno all'Unità: il mio primo giorno di scuola. 
I fatti prima di tutto. I deboli come A. B. C. e D. prima degli altri. Loro dovranno trovarci con facilità, quando ci cercheranno. Come io, con facilità, trovavo sempre Wally dentro le tue pagine, cara Unità. È così che ti vedo, da oggi in poi. Non ho tele. Né tessere. Né tele da tessere. Qualche pensiero a chi mi ha preceduto. A Furio e ad Antonio, di cui qualcosa resterà per sempre, qui. «Tra le pagine chiare e le pagine scure», avrebbe detto il Poeta, mia cara Unità.

il Riformista 26.7.08
Habermas
a Scalfari. 
Ripartiamo da Don Pizzarro


Riceviamo via fax, tradotta dunque tradita, la risposta di Jürgen Habermas all'Eugenio Scalfari di mercoledì su Repubblica.


Eugenio Scalfari ha recentemente commentato un mio intervento dedicato al rapporto fra religione e sfera pubblica, centrato sulle società post-secolari. Nell'intervento mettevo in guardia da chi vuol confinare le religioni a una dimensione privata. Anzi, sostenevo che proprio i valori di coesione sociale delle religioni, e in particolare del cristianesimo, sono necessari alla società e alla democrazia. In parole povere: d'accordo i laici, ma siano messi al bando i laicisti! Scalfari nel suo intervento si dichiara in dissenso con me su alcuni punti. Non sto qui a commentarli uno a uno. Mi pare però fondamentale la conclusione del suo intervento: gli par di vedere che da qualche tempo il mio pensiero sia un po' appannato. Su questo punto vorrei rassicurarlo, e invitarlo e fare con me un ragionamento.
È vero. Lo ammetto: ho spezzato una lancia in favore del ruolo delle religioni nelle nostre società sempre più secolarizzate. Ho voluto che la morale religiosa trovasse posto nella sfera pubblica. Nella controversia fra laicità e religione, fra un'istituzione libera dalle ingerenze religiose e una che accolga le istanze della Chiesa, io sostengo la tesi di Hegel. Ritengo cioè che le grandi religioni debbano rientrare nella storia stessa della ragione. In base a queste premesse sarebbe irragionevole emarginare le tradizioni religiose quasi fossero un residuo arcaico. Esse provvedono ancora oggi all'articolazione della coscienza di ciò che manca. Mantengono desta una sensibilità per ciò che è venuto meno. Difendono dall'oblio le dimensioni della nostra convivenza sociale e personale, nelle quali anche i progressi della razionalizzazione culturale e sociale hanno prodotto distruzioni immani. Per dirla brevemente: nel vuoto del nostro tempo, ormai sono solamente le religioni a mantenere viva la sfera pubblica.
Scalfari può contestare queste argomentazioni. E a ragione. Ma io devo sostenerle. Sono infatti come quell'eminente e dotto teologo del quale mi hanno parlato gli amici italiani. Un certo Don Pizzarro, che è andato in televisione (ho visto il video su YouYube) e da lì ha spiegato che la questione teologica non sta nel credere o non credere. Non c'entrano più i grandi discorsi. È solo un lavoro. I teologi fanno il loro, e dicono quello che devono dire. Ora, caro Scalfari, anch'io faccio il mio lavoro. E dico quello che devo dire. Pensi che ho impiegato anni e anni per liberarmi dall'etichetta della "Scuola di Francoforte", dal pensiero di quei noiosissimi Adorno e Horkhemeir. E l'unica idea per la quale ancora si discute di me è proprio la sfera pubblica! Le pare che adesso, proprio io, non mi metta a difendere il ruolo delle religioni, visto che è l'unico motivo per il quale ancora si discute di sfera pubblica? Il mio, caro Scalfari, è un lavoro!

venerdì 25 luglio 2008

Repubblica 25.7.08
L’ex leader alle assise sceglie un posto defilato, mentre il partito sembra cercare un futuro anche rinnegando il suo capo carismatico
Bertinotti, da profeta a delegato semplice "È giusto che io mi sieda là, in settima fila"
Per ora mantiene il riserbo. "Quello che ho da dire lo dirò quando salirò sul palco"
Un momento che pensava diverso per un partito che cerca di salvarsi dall’estinzione
di Sebastiano Messina


CHIANCIANO - L´uomo che aveva portato Rifondazione a conquistare la poltrona più alta di Montecitorio, e che da un giorno all´altro si è ritrovato a essere l´ex leader di un partito extraparlamentare, siede oggi in settima fila, con il passi da delegato semplice che gli pende sulla cravatta a strisce colorate («Sembra un arcobaleno», mormora un delegato con irriverente perfidia). Fausto Bertinotti sa bene che in questo partito che per dodici anni lo ha acclamato, osannato e perfino venerato oggi sono in tanti ad avercela con lui. Non gli perdonano la più amara delle sconfitte, quella che ha portato Rifondazione dal sogno del sorpasso a sinistra all´incubo dell´espulsione dal Parlamento.
Ognuno gli addebita una colpa diversa, si capisce. Non doveva entrare nel governo. Doveva chiedere più ministeri. Doveva mollare subito Prodi. Doveva restare alla guida del partito. Non doveva farsi eleggere alla presidenza della Camera. Non doveva dare l´idea che Rifondazione stesse per sciogliersi.
Ha sbagliato qui, ha sbagliato là. Come un figlio diciottenne che ha bisogno di uscire dall´ombra del padre, rinnegando quell´autorità che nella fragilità dell´adolescenza gli aveva fatto da scudo, da guscio e da faro, così oggi il diciassettenne partito che fu bertinottiano oggi cerca il suo futuro rinnegando almeno un po´ l´uomo che ne è stato il capo carismatico, il profeta mediatico, il simbolo vivente più che il segretario. Lui lo sa, conosce i suoi figli e li lascia fare. Per questo si siede in settima fila, lontano dalle poltroncine riservate ai Vendola, ai Ferrero, ai Giordano e agli ospiti più importanti. «Siediti qui, Fausto!» gli dice Vendola abbracciandolo. Ma lui ha già deciso: «No, non è giusto che io mi sieda là».
E dunque, col suo cartellino blu da delegato semplice, resta nella sua settima fila, vicino all´ex capogruppo Gennaro Migliore, il quarantenne napoletano che - non è un mistero - lui avrebbe voluto come suo successore. Ma le cose sono andate come sono andate, e oggi tutti e due tifano per il cinquantenne Vendola, il governatore pugliese dall´eloquio seducente che riesce a infilare nel suo discorso al congresso il bisogno di interrogarsi, da comunisti, «sui nostri corpi sessuati e sulla grammatica degli amori». I giornalisti lo avvistano, ma lui li stoppa subito: «Non sono io a dover declinare le attese, faccio il semplice delegato».
Sì, d´accordo, ma Rifondazione. «Quello che ho da dire lo dirò quando interverrò dal palco», ribatte con un sorriso che non ammette repliche. Se ne riparla domani, dunque.
Naturalmente, anche stavolta è il più elegante di tutti, con il suo abito di cotone beige, la camicia avorio, i mocassini sfoderati e gli occhiali tartarugati appoggiati sulla fronte. Tra l´indice e il pollice della mano sinistra tiene un sigaro spento, perfettamente tranciato a metà, che ogni tanto appoggia alla bocca per sentirne almeno l´aroma. Si alza per baciare Chiara Ingrao (interprete d´eccezione per gli ospiti stranieri), domandandole sottovoce: «Come sta papà?». Si risiede per ascoltare Vendola, ma c´è un gran viavai davanti alla settima fila. Lui stringe mani, sorride, bacia, ascolta e ogni tanto aspira il suo sigaro spento.
Ma anche il cameraman, dopo averlo inquadrato, vuole stringergli la mano. Certo, caro, grazie, auguri.
Se l´era immaginato in modo assai diverso, questo momento. Avrebbe voluto tracciare la rotta di una grande forza di sinistra, e invece si trova tra chi cerca una via di scampo all´estinzione del comunismo, dopo che la sinistra è passata - come ricorda qualcuno dal palco, senza pietà - dai tre milioni e mezzo di voti del 2006 al milione scarso del 2008, in un partito che si è fatto risucchiare nel gorgo dei vecchi vizi democristiani, quello della lotta per il potere fatta di congressi taroccati e di tessere annullate.
Non batte ciglio, Bertinotti, quando Vendola dà la colpa della sconfitta alle «intemperanze improduttive della sinistra radicale», ma inarca un sopracciglio quando Maurizio Acerbo - primo firmatario della mozione Ferrero, quella dei suoi avversari - scandisce che «oggi non servono più le televendite». Ce l´aveva con lui, che predicava il comunismo a «Porta a porta»? Forse sì e forse no. E´ lo stesso Acerbo a togliere il dubbio, un minuto dopo, rompendo il tabù degli umori antibertinottiani. «Ho letto cose assurde, che una parte dei nostri compagni avrebbero fischiato Fausto Bertinotti qui al congresso... Ebbene, io sono entrato in questo partito perché ho creduto nel progetto di Bertinotti e se oggi mi ritrovo in un´altra mozione è la dimostrazione che, forse, questo partito ha fatto un po´ di strada». Non la penso più come te, insomma, ma ti sarò sempre grato per quello che hai fatto. Bertinotti si mette il sigaro fra i denti, sorridendo, e gli batte le mani. Non avrebbe potuto ricevere un complimento migliore, dal portavoce dei suoi figli più disubbidienti.

l’Unità 25.7.08
Abbracci e fischi prima del duello
A Chianciano il congresso dei separati in casa


Un abbraccio tra i «duellanti» Vendola e Ferrero, e una selva di fischi per il messaggio del presidente della Camera Fini. Il Congresso di Rifondazione comunista entra nel vivo con la presentazione delle 5 mozioni. Secondo Vendola «bisogna costruire una vasta mobilitazione permanente, plurale, civile e sociale alle destre». Ferrero ribadisce che «Rifondazione deve costruire un’opposizione di sinistra come fece tra il 2001 e il 2006».
Le tante mani che battono al ritmo di «Bella Ciao» versione Modena City Ramblers e i fischi all’indirizzo di Fini e Schifani (molti più per Fini). Oltre a una scarsissima dose di nostalgia per il governo Prodi, nonostante oggi Rifondazione stia decisamente peggio di sei mesi fa. Questi i tre punti chiave che uniscono la platea double face del congresso di Chianciano, che per il resto si divide in modo quasi militare: parla Vendola e applaudono i suoi, parla Maurizio Acerbo, primo firmatario della mozione di Paolo Ferrero e applaudono esclusivamente i suoi. Non ci sono applausi «bipartisan» in questa pancia di Rifondazione divisa quasi a metà, separati in casa si potrebbe dire. Ma la notizia è che non volano gli stracci, e neppure i fischi reciproci. Unica piccola eccezione, quando sul maxischermo appare la foto di Bertinotti con il comandante partigiano Giovanni Pesce: cinque o sei fischi sparuti, subito cancellati dagli applausi e dalla musica di De Gregori. Per il resto, nessuna sorpresa: quando parla il principale esponente della mozione avversa, gli altri tacciono rigorosamente. E ascoltano. Anche sul banco della presidenza, dove siedono rappresentanti della varie mozioni scelti col Cencelli, va in onda la stessa scena: ognuno applaude il suo. Si fa notare solo un’anziana signora vendoliana vestita di rosso, che alla fine del discorso di Acerbo si agita sulla sedia e grida: «Adesso basta, la devi finire, tempo scaduto!».
Ma alla fine la prima giornata di un congresso che molti delegati giudicano «duro, anche un po’ violento», fila via piuttosto liscia. I rancori non sono superati, ma piuttosto metabolizzati: sono lì, ma non scatenano le reazioni di pancia. Con chi stanno i delegati lo capisci alle prime parole: «partito sociale», versus «processo costituente», Ferrero contro Vendola, i seguaci parlano a memoria. Ma complice anche l’abbraccio pubblico tra i due big, si fa strada qualche velato ottimismo sulla tenuta di quella che tutti chiamano la «comunità», cioè il partito. «Mi sa che staremo tutti insieme ancora un po’ di tempo», si lascia andare Gaetano Cataldo, 27 anni, delegato di Bari e vendoliano. «In fondo in Rifondazione ci sono state sempre idee molto diverse, tanti che come me non sono mai stati comunisti, eppure siamo arrivati fino qua. Ci tiene insieme l’idea di cambiare il mondo, o almeno di rifondare un pensiero critico». Stefano Galvani, cinquantenne romano, mozione Ferrero, è d’accordo: «Sono ancora di più i punti che ci uniscono da quelli che ci dividono». Per esempio? «Ci unisce l’idea di non rassegnarci al neoliberismo, che anche in forme temperate produce solitudine e sfruttamento». «C’è un clima più disteso rispetto a prima di arrivare a Chianciano», rincara un altro ragazzo. Quasi tutti ammettono che Rifondazione, in questi mesi di congresso, si è un po’ isolata dalla realtà, «chiusa sul proprio ombelico», come spiega il veneziano Sebastiano Borisio. «Mentre i campi rom andavano a fuoco noi stavamo chiusi a litigare tra noi, a cercare un colpevole della sconfitta», si sfoga Antonio Delli Fiori, 30enne di Brindisi. Eppure molti non ne fanno un dramma. «Quando una famiglia subisce una ferita, un lutto così grande è normale che si chiuda un po’ in se stessa», spiega Daniele Licheri, giovane delegato vendoliano di Pescara. E aggiunge: «Meglio un congresso duro come il nostro delle primarie plebiscitarie del Pd». «Lontani dalla gente? È successo molto prima del congresso, purtroppo», dice Tonia Guerra, 40enne ferreriana, che sulla questione morale non fa sconti a Vendola: «Ci dice che siamo giustizialisti? Figuriamoci, ma garantista è chi vuole una giustizia uguale per il premier e per i bimbi rom; per questo siamo andati a piazza Navona. Se pensare che chi ha il potere deve dare il buon esempio e non farsi leggi ad personam è giustizialismo, vuol dire che le parole non hanno più senso».
Un altro punto chiave è l’allergia al leaderismo, che contagia anche i vendoliani, in fondo quelli che un leader carismatico ce l’avrebbero pure. Nemmeno loro si sbilanciano sull’elezione di Nichi a segretario. Dice Sonia Pellizzari, 30enne: «Io vorrei che fosse eletto, ma come controfigura di un’idea, una sinistra al passo con il ventunesimo secolo. Il leader è un concetto che lasciamo volentieri al Pd», rincara un altro ragazzo. C’è aria di tregua, o almeno di pace armata tra i delegati. Alberto Gentilini di Udine la spiega così: «La ragione è che siamo tutti in attesa, è un congresso aperto e non ci sono certezze».

l’Unità 25.7.08
Vendola cerca l’accordo. E potrebbe trovarlo
Evita di pronunciare l’aborrita parola «costituente». Grassi apprezza, Ferrero attacca
di Simone Collini


Il governatore della Puglia è netto: non voglio sciogliere il partito. Poi avverte: non si ceda a giustizialismo e antipolitica

«IO NON HO IL PROBLEMA di fare il segretario. Ho il problema di evitare che Rifondazione comunista finisca in uno spicchio di minoritarismo, a rimorchio di culture che non sono di sinistra, come il giustizialismo e l’antipolitica». Nichi Vendola si sfoga dietro il Palamontepaschi, dopo che è già intervenuto dal palco e che dopo di lui ha parlato Maurizio Acerbo per la mozione Ferrero-Grassi. Il congresso del Prc si è aperto ma la «matassa», per usare le parole del governatore della Puglia, è ancora «ingarbugliata». A Chianciano i 650 delegati sono arrivati senza sapere quale strada imboccherà il loro partito, e se a guidarli sarà Vendola o un segretario su cui riusciranno a convergere tutte e quattro le altre mozioni. Solo domenica pomeriggio si capirà come andrà a finire. Mai come in questo caso gli interventi dal palco saranno soltanto preparativi per il gioco vero, prima nella commissione politica e poi si nel Comitato nazionale - al quale spetta la scelta del segretario - che si insedia subito dopo la fine del congresso.
Ecco perché Vendola, che nei congressi di circolo ha incassato il 47,3%, dal palco lancia alcuni chiari messaggi. Il primo, non pronunciando mai l’espressione «costituente di sinistra». Il secondo, dicendo con enfasi: «Non voglio sciogliere il mio partito». Il terzo, criticando il Pd per la «velleità di autosufficienza». Messaggi a Claudio Grassi e ai suoi delegati. La componente Essere comunisti è infatti sì contro la costituente di sinistra e un rapporto di subalternità rispetto al Pd, ma al contrario della componente che fa capo a Paolo Ferrero non è attratta dal modello di partito sociale a cui aspira l’ex ministro. Col quale Vendola ha scambiato un abbraccio all’inizio dei lavori - sotto lo sguardo di Fausto Bertinotti, seduto in settima fila - ma col quale non pensa di poter stringere un accordo. «Bisogna tornare nella società, non fuggendo dalla politica - ha detto il governatore pugliese - anzi criticando in radice qualunque sciagurata ipotesi di autonomia del social». E criticando anche, dopo che Acerbo aveva rivendicato la partecipazione alla manifestazione di piazza Navona, la tentazione di cedere alle sirene del giustizialismo («opposto del comunismo») e dell’antipolitica («getta semi di frutti che vengono poi raccolti dalla destra»).
Il messaggio è arrivato a destinazione. Grassi ha commentato positivamente le parole di Vendola sull’opposizione al governo e ha chiesto più chiarezza sul rilancio del partito e sulla presentazione alle europee con il simbolo del Prc. Non è un’apertura esplicita - e non a caso il coordinatore di Essere comunisti ha deciso di intervenire solo domani pomeriggio - ma non è neanche la chiusura di Ferrero, che non ha risparmiato dure critiche a Vendola: per il linguaggio del governatore pugliese («non servono giochi verbali che nessuno capisce») e per un passaggio sulla sconfitta del governo Prodi addebitata anche alle «intemperanze improduttive della sinistra radicale»: Ferrero si è sentito chiamato in causa e ha lamentato il fatto che «per la prima volta assistiamo a un attacco da destra dentro Rifondazione».
Parole che non impensieriscono Vendola. Tra i sostenitori della sua mozione si fanno i calcoli sul voto dei 250 membri del Comitato politico. Basterebbe che gli esponenti della mozione Pegolo-Giannini (favorevoli alla costituente dei comunisti proposta dal Pdci) si astengano per far scendere il quorum a 230, e la mozione Vendola 116 membri in quell’organismo li ha. Ma sono calcoli che potrebbero essere superflui, perché nell’area Essere comunisti si fa strada l’idea che sia sbagliato mettere veti sul segretario. Per non parlare del fatto che ieri sera i delegati vicini a Ferrero e quelli vicini a Grassi si sono incontrati in due riunioni separate. La frenata sulla costituente di Vendola sembra insomma aver funzionato. E se Claudio Fava (Sd) lamenta l’«arretramento netto», non è detto che una volta segretario Vendola non insista sulla necessità di «rifondare una grande sinistra di popolo». Che vuol dire? Il governatore pugliese (nelle parole del quale Goffredo Bettini vede «spunti di innovazione e ricerca») la mette giù così, dietro il Palamontepaschi: «Una disseminazione di cantieri, un programma, un sogno. Non mi interessano le formule, mi interessa il concetto».

l’Unità 25.7.08
Quanto pesano le cinque mozioni


Al via il settimo congresso nazionale del Prc, a Chianciano terme.
I lavori, trasmessi in diretta su Nessuno tv, si sono aperti con la lettura dei risultati dei congressi territoriali. Dopo l'approvazione formale della regolarità del percorso congressuale, è stata data lettura dei risultati ufficiali.
Sono 650 i delegati.
Mozione 1 candidato segretario è Paolo Ferrero, ex ministro del governo Prodi: 262 delegati pari a 17.542 voti (40,28%).
Mozione 2 il candidato è Nichi Vendola, presidente della regione Puglia, 307 delegati pari a 20.598 voti (47,3%).
Mozione 3 presentata da Pegolo e Giannini, 50 delegati.
Mozione 4 presentata da Claudio Bellotti, 21 delegati.
Mozione 5 di Walter De Cesaris, 10 delegati.

Corriere della Sera 25.7.08
A congresso Ferrero rinuncia alla sfida e sceglie una linea «dipietrista». Pochi applausi e qualche fischio a Bertinotti
Vendola unico candidato leader. Ma il Prc resta spaccato


CHIANCIANO — Strano congresso, quello di Rifondazione comunista. Il candidato alla segreteria è uno solo, Nichi Vendola, giacché il suo concorrente, l'ex ministro Paolo Ferrero, non si è candidato. E il vincitore, salvo sorprese al momento imprevedibili, è sempre lui, il governatore della Puglia, nonostante non abbia la maggioranza assoluta, perché Ferrero ha perso un pezzo per strada, quel Claudio Grassi (ex cossuttiano)che a sera dice che non deve esserci «un veto» su Vendola.
Non è uno scontro di leadership, questo congresso che certifica il declino di quella di Bertinotti, a cui viene riservato un tiepido applauso condito con qualche fischio. Quel che è interessante è la mutazione genetica del Prc. Diviso tra chi (Ferrero e i suoi sostenitori) si affida al dipietrismo e non offre nessuna sponda al Pd, e chi (Vendola e gli altri dirigenti di quella componente) dice no al giustizialismo, non chiude la porta al Partito Democratico e vuole dimostrare che la sinistra, questa volta, è in grado di governare. Questa Rifondazione spaccata quasi a metà non si unisce neanche sui fischi a Fini, che invia un messaggio. In compenso l'applauso a Togliatti, che appare in un video, è più bipartisan.
Dunque Ferrero sceglie Di Pietro: «Esiste o no una questione morale?». E l'ex deputato Maurizio Acerbo che illustra la sua mozione è ancora più esplicito: «Abbiamo fatto bene ad andare a piazza Navona». Sul Pd, poi, c'è un muro di sbarramento. Non va bene in nessuna versione, neanche nella «variante D'Alema», dice Ferrero. Di più, Acerbo dal palco si rivolge a Bettini, che siede in prima fila, per chiedere conto a lui e al Partito Democratico di Ottaviano Del Turco. Nei dintorni dell'altra metà di Rifondazione il clima è ben diverso. Gennaro Migliore storce il naso di fronte al dipietrismo e dice: «Io sono garantista ». Vendola è netto: «Per me il no al giustizialismo è una pregiudiziale. La questione morale? Berlinguer e Togliatti non c'entrano un cavolo. Il giustizialismo è l'opposto del comunismo». E dal palco spiega che è per la questione sociale che bisogna «scendere in piazza: non c'è bisogno di volgarità ma di politica».
Anche sul rapporto con il Pd la differenza è marcata: per Vendola «la contesa deve essere senza scontri né anatemi». La linea non è quella di Acerbo che chiede di «battere questo Partito Democratico». Anche perché, ironizza Vendola, «che dovremmo fare, uscire dalla giunta in Emilia Romagna? ». Piuttosto bisognerebbe riflettere su «certe intemperanze improduttive della sinistra radicale» della scorsa stagione del governo prodiano. Non è un caso se Bettini non nasconde le sue preferenze: «Meglio Vendola». E allora sarà pur vero, come dice Bertinotti, che «quel che importa è che vinca Nichi, perché poi la linea politica si aggiusta e si modifica ». Ma è anche vero che ieri, a Chianciano, c'erano due Prc.
M.T.M.

Repubblica 25.7.08
Rifondazione, al congresso è subito scontro
Vendola in pole position per la leadership. La mozione Ferrero si spacca
Scintille tra i due antagonisti anche su Di Pietro. La platea fischia Fini e Schifani
di Umberto Rosso


CHIANCIANO - Vendola apre. Ferrero alza il tiro. E Nichi si arrabbia, «non sono disposto ai pasticci». Però nel tormentato gioco dell´oca del Prc qualcosa si muove. Perché se nella prima giornata di congresso fra i due carissimi nemici è sempre muro contro muro, la mozione dell´ex ministro rischia di perdere il pezzo guidato da Claudio Grassi, che annuncia «non si possono mettere veti su Vendola segretario». Finisce così che in nottata i delegati di Ferrero e quelli di Grassi si riuniscono separatamente. Esultano le truppe bertinottiane, dopo la spaccatura nel fronte avversario, «Nichi è ad un passo dalla conquista della leadership». Salta anche la conferenza stampa che Ferrero puntava a convocare per rispondere a Vendola che in sostanza al partito propone: proverò a fare il segretario di tutti, con un accordo di programma di un anno, e poi liberi tutti. Non cita più la costituente della sinistra, bestia nera dei suoi avversari interni, con disappunto però di Claudio Fava, leader di Sd. Grassi dà lo stop alla conferenza stampa, «ma siamo matti, una controrelazione fuori dal palco non mi sta bene».
Dunque, baci e abbracci a beneficio delle telecamere ma, dietro le quinte, è gelo vero fra il governatore e l´ex ministro. Che si arrabbia quando il presidente della Puglia scomunica il liberismo del Pd ma anche le «intemperanze improduttive della sinistra radicale». Ferrero ci vede un siluro al suo ruolo nel governo Prodi, e quando il candidato segretario finisce di parlare sibila un velenoso «è la prima volta che qualcuno di Rifondazione mi attacca da destra per come ho fatto il ministro». E la polemica tracima e si allarga a Di Pietro, piazza Navona e il giustizialismo. «Guarda tu - mastica amaro Vendola - se ci dobbiamo ridurre a finire a rimorchio di Tonino. Ma che c´entra lui con il comunismo? Uno che vuol prendere le impronte ai bimbi rom». L´accusa a Ferrero insomma è di voler viaggiare al seguito dell´ondata antipolitica dell´ex pm. Quegli altri però rivendicano. Lo fa Maurizio Acerbo, portavoce della mozione I, «ebbene sì, a piazza Navona ci siamo andati e abbiamo fatto bene», e poi prende di mira Goffredo Bettini che in prima fila ascolta, unico politico non Cosa rossa venuto al congresso. «Al coordinatore del Pd chiediamo: dopo l´arresto di Del Turco, esiste anche per voi una questione morale?». Franco Giordano, segretario dimissionario, è deluso, «schemi vecchi, con cadute di stile». Bettini nasconde l´imbarazzo dietro un sorriso, poi spiegherà «le distanze politiche col Prc restano grandi, però stiamo a vedere». Ma ci pensa Ferrero a rilanciare il feeling con Di Pietro, «una questione morale in questo paese esiste o no, ce lo dica Vendola», con una successiva stoccata a quella che, secondo l´ex ministro, sarebbe la strada immaginata dai bertinottiani: un rapporto con il Pd de-veltronizzato. «Una variabile D´Alema nel Pd non esiste - sostiene Ferrero - sul terreno sociale la sua linea è la stessa di Veltroni, subalterna agli interessi dei padroni».
I 650 delegati fanno il tifo e si dividono. Si ritrovano uniti nei fischi a Fini e Schifani che hanno spedito messaggi di buon lavoro ai congressisti, anche perché i saluti arrivano dopo l´omaggio alla memoria del comandante partigiano Giovanni Pesce, che nel video sfila accanto a Palmiro Togliatti. E qui, invece, sono grandi applausi. Bipartisan.

il Riformista 25.7.08
Rifondazione al via le assise
Bella ciao e falce e martello al congresso
la nuova sinistra di Vendola è rosso antico
di Alessandro De Angelis


Chianciano. Parte Bella ciao , mentre il maxischermo proietta le immagini che ricordano Giovanni Pesce, comandante partigiano e gappista durante la guerra di Spagna. Un applauso - quasi liberatorio - rompe il caos calmo che ha segnato la prima giornata del congresso di Rifondazione iniziato ieri a Chianciano. Tutti in piedi, poi, quando compare un'altra figura storica della Resistenza, Enrico Boldrini, il mitico comandante Bulow. Il gran finale sono i fischi al messaggio di saluto mandato dal presidente della Camera Fini. Qualcuno urla: «Ora e sempre resistenza». Bertinotti, seduto tra i delegati, è di ghiaccio. 
Rifondazione è allo sbando. Si potrebbe dire: abbiamo un grande futuro alle spalle. Ma anche il genere nostalgia è sottotono. Basta respirare l'aria - quasi da vacanze termali - nel parco di fronte al Palamontepaschi dove si svolge l'assise comunista. Il caos c'è: quelli di Ferrero parlano di un congresso che ricorda la peggiore Dc. «Si rende conto che Vendola ha vinto grazie alle tessere di Eboli, Castellamare di Stabia, Portici?» dice un delegato di Mantova. Un suo compagno aggiunge: «A Cosenza la Sinistra arcobaleno ha preso 2.600 voti. Sa quanti sono stati gli iscritti a Rifondazione? 2.900. E lì ha stravinto Vendola». Ma il caos del lutto (post sconfitta) è calmo: nessuno parla di scissione, anzi si respira, tra i militanti, la voglia di restare assieme. Arrivano i dirigenti, nell'indifferenza dei più: Folena, abbronzatissimo e scarpe da barca, se la ride. Giordano stringe qualche mano, ma cammina solitario. Tortorella è di scuola: giacca, cravatta e una sola battuta: «Speriamo bene». Migliore, in versione "vasa vasa", dispensa baci alle delegate campane. Ferrero si vede quando incrocia Bertinotti e nemmeno si salutano. 
La star - inseguita dai taccuini - è Claudio Grassi. Arriva col codazzo, ha il sorriso adrenalinico di chi si sta giocando una partita poker. È lui che può determinare l'esito del congresso: ex cossuttiano, sta con Ferrero ma non ne condivide le parole d'ordine come «partito sociale», che tanto piace agli ex di Democrazia proletaria. Parla la lingua del Pci, da cui viene: Vendola non gli piace, ma lo considera il meno peggio di tutti. Con i suoi potrebbe dargli la maggioranza ma vuole svuotargli la linea. Nichi lo sa. I fedelissimi del governatore ostentano i muscoli: «Al comitato politico di domenica una parte si asterrà perché vuole andare con Diliberto. A quel punto eleggiamo Nichi a maggioranza» dicono. Ma Vendola prova a mediare.
Quando prende la parola si capisce che vuole volare altissimo. Dipinge scenari apocalittici: «Non abbiamo perso solo le elezioni. Abbiamo perso un intero abbecedario civile, un universo di simboli, persino la cognizione di ciò che è giusto e ingiusto». Sceglie il terreno di scontro: «La solitudine operaia è il prodotto finale della scientifica frantumazione di corpi sociali che crepano di liberismo. È la solitudine di chi trova più consolazione nella cocaina che nel sindacato». Parla di destra come di «una gigantesca fabbrica di paure». Punta l'indice sul governo Prodi: «Tra governo e paese reale c'è stato un cortocircuito». Indica la mission del suo partito: «Bisogna costruire una vasta e ricca mobilitazione permanente, una opposizione plurale, civile e sociale alle destre. È il primo compito di Rifondazione». Nei fatti Vendola stende un tappeto rosso a Grassi. Non nomina mai la costituente di sinistra che era il cuore della sua mozione. Attacca il Pd: «Si è congedato da destra dalle culture politiche del Novecento». Ma lascia uno spiraglio: «Nessuno sconto, nessun anatema». Torna di moda anche il comunismo che qualche tempo fa - dentro Rifondazione - era stato declassato a «tendenza culturale»: «Il comunismo - dice Vendola - è un cammino impervio che dovremmo imparare a seminare senza la fretta di guadagnare il raccolto». Rassicura sulla falce e martello: «Io non voglio sciogliere il mio partito. Voglio che viva, ma perché viva deve essere fedele al suo nome. Fedele al compito di rifondare se stesso, un'idea del mondo, una pratica di trasformazione». Praticamente: indietro tutta.
Si riparte così: falce e martello alle prossime europee e parole d'ordine antiche. A microfoni spenti i vendoliani la mettono in prosa: «Portiamo a casa il segretario, poi si vede». Bettini, in prima fila, incassa il risultato. Rispetto a D'Alema che su Vendola aveva scommesso, eccome, afferma: «Ci sono distanze molto grandi sia sulla lettura delle ragioni della sconfitta sia sulle prospettive da dare alle forze progressiste e democratiche». Ma un cuneo, nella mozione Ferrero, Vendola forse l'ha insinuato. L'ex ministro lo boccia tout court: «Non vedo svolte di linea politica». Più sfumato Grassi: «Ho apprezzato che non abbia parlato della costituente. Mancano però parole chiare sul rilancio di Rifondazione». Da oggi, si tratta. Il goodbye Lenin è rimandato.

l’Unità 25.7.08
L’allarme di Amnesty: l’Italia discrimina i rom
Il ministro dell’Interno: tutto falso. Ma in Europa Barrot attende il rapporto di Maroni


AMNESTY INTERNATIONAL ha inviato una lettera ai ministri europei dell’Interno e della Giustizia, riuniti ieri a Bruxelles, per condannare «gli atti di discriminazione nei confronti delle comunità rom in Italia, culminati nella raccolta di informazioni sull’origine etnica e la religione, nonché in quella delle impronte digitali, anche di minori».
Nicolas Beger, direttore dell’Ufficio di Amnesty International presso l’Unione europea condanna la scelta dei censimenti: anche avendo esteso la raccolta delle impronte a tutta la popolazione italiana a partire dal 2010 «non cambia nulla se nel frattempo il censimento dei rom continua». Impronte, ma non solo. L’allarme di Amnesty tira in ballo anche le responsabilità della politica: «L’azione delle autorità si è sviluppata in un clima di virulenta retorica anti-rom da parte di esponenti politici nazionali e locali. Raramente gli autori sono stati chiamati a rispondere delle proprie dichiarazioni xenofobe, le quali hanno contribuito ad alimentare e legittimare atti di violenza da parte dei cittadini». Conclude Beger: «Dobbiamo essere chiari: stiamo assistendo a una caccia alle streghe presentata come una serie di “misure di sicurezza”. Quello che è certo è che ora in Italia c’è un effettivo problema di sicurezza: quella dei rom». Per questo Amnesty chiede, tra le altre cose di «riesaminare lo stato d’emergenza e gli atti e le misure derivanti dalla sua adozione, per garantirne la compatibilità col diritto internazionale ed europeo».
La denuncia non scuote il ministro dell’Interno Roberto Maroni, a Bruxelles con i colleghi europei, usa le vie spicce: «È tutto falso. Avete letto l’ordinanza? Si parla di Rom? Si parla di impronte digitali? No. Allora di cosa stiamo parlando? È ora di finirla con le falsità».
Gianni Pittella, presidente della delegazione italiana nel Pse, chiarisce: «Grazie alla nostra azione che ha condotto ad un duro richiamo del Parlamento europeo, ora nelle circolari emanate ieri dal Viminale non si parla più di impronte per i minori di 6 anni se non in casi eccezionali, e per tutti i minori di 14 anni viene prevista la necessità di autorizzazione della procura e del Tribunale dei minori». Intanto il commissario Ue alla Giustizia, libertà e sicurezza, Jacques Barrot, ha ribadito che entro la fine del mese attende il rapporto del ministro dell’Interno italiano.
Intanto ieri è iniziata da Roma la visita degli esperti dell’Osce nei campi rom del nostro Paese. Andrzej Mirga, consigliere anziano per le tematiche rom, ha chiarito: «L’obiettivo della visita consiste nella volontà di lavorare insieme con le autorità italiane per porre le linee guida con cui affrontare la questione della sicurezza in linea con le raccomandazioni europee».

l’Unità 25.7.08
Università. Protestano i rettori: «Così peggiora la ricerca e si impedisce l’accesso in ruolo ai giovani»


«Il Paese deve sapere che con tale misura, se mantenuta e non modificata, si determinerà una condizione finanziaria del tutto incontrollabile e ingestibile, con effetti dirompenti per gli atenei». Queste il duro giudizio della Assemblea della Conferenza dei rettori (Crui) sulla manovra finanziaria predisposta dal Governo e appena votato dalla Camera dei Deputati.
In una nota diffusa al termine della riunione, la Crui «ribadisce la valutazione fortemente negativà al provvedimento». «Il decreto 112 - si legge in una nota - renderà sempre più difficile l'ingresso nei ruoli di giovani di valore; peggiorerà il livello di funzionalità delle Università, anche come conseguenza dell'ulteriore mortificazione delle condizioni retributive del personale tecnico e amministrativo; diventerà sempre più difficile se non impossibile reggere alla concorrenza/collaborazione in atto a livello internazionale; si annullerà di fatto il fondamento stesso dell'autonomia universitaria, come definita negli anni '90, basata sulla gestione responsabile dei budget». I rettori affrontano anche il tema della trasformazione degli Atenei in fondazioni: «D'altra parte evidente che, in un simile contesto, perde qualsiasi credibilità anche la proposta, che andrebbe in ogni caso ben altrimenti approfondita e verificata nelle sue implicazioni e nella sua effettiva attuabilità, di trasformare le università in fondazioni».

l’Unità 25.7.08
Stupidi nazi, il vostro idolo è ebreo!
di Alberto Crespi


Il ragazzo si esibisce e conquista le falangi naziste. Poi lui capirà cosa devono aspettarsi gli ebrei e proverà a convincerli inutilmente
Il film del grande regista è del 2000 Ci sono voluti otto anni per trovare una distribuzione. Non è
il suo migliore ma...

PRIMEFILM È di Herzog e basterebbe. Ma «Invincibile» è insieme una pagina di storia molto triste e un monito per quanti non vogliono ascoltare le cassandre. Torniamo in Germania, tra camicie grige e un ragazzo fortissimo che diventa il loro modello...

Ci saranno stati davvero, negli shtetl ebrei dell’Europa centrale, dei profeti inascoltati che all’alba degli anni 30 arringavano le folle gridando: «Stiamo attenti, fratelli, perché quelli ci odiano e ci metteranno nei forni». Ci saranno stati, e saranno stati presi per matti. Qualche anno fa un film come Train de vie ha raccontato una storia simile, ma trattandosi di una fiaba avveniva il miracolo: lo scemo del paese veniva ascoltato e gli ebrei, travestiti da tedeschi, montavano tutti su un treno che li portava verso la salvezza. Invece Zishe Breitbart, il protagonista del film Invincibile di Werner Herzog, è un personaggio storico e come tale non viene creduto. Il suo destino è quello delle Cassandre: morire giovane, e lasciare il proprio popolo nei guai.
Invincibile è un film che Werner Herzog, il grande regista tedesco di Aguirre e di Fitzcarraldo, ha diretto nel 2000. L’anno successivo, il 2001, venne presentato alla Mostra di Venezia, ma il Lido non fu passaporto sufficiente per una tempestiva distribuzione in Italia. Esce oggi, in piena estate, distribuito dalla Ripley. Non è il capolavoro di Herzog, che da un po’ di anni è assai più convincente quando dirige documentari, piuttosto che nei film di finzione. Ma merita un’occhiata per la storia che racconta. Storia che andiamo, ora, a riassumere.
Nella Germania a cavallo fra il 1932 e il 1933, mentre il nazismo uscito vincitore dalle elezioni si insedia e comincia a «macinare», un giovanotto grande come una montagna arriva a Berlino da un villaggio ai confini con la Polonia. Si chiama Zishe Breitbart, è il fabbro del paese, ha poco più di vent’anni ed è dotato di forza sovrumana. Al paesello, è diventato famoso atterrando il forzuto di un circo in tournée. A Berlino lo aspetta il leggendario Erik Jan Hanussen, un bizzarro impresario e illusionista che sogna di fondare, sotto l’egida del Fuhrer, il Ministero delle Arti Occulte. Sotto la guida di Hanussen, Zishe comincia ad esibirsi nei locali di Berlino davanti a gruppi adoranti di SA. Diventa ben presto la «bestia bionda» per eccellenza, un novello Sigfrido, il prototipo del maschio ariano che il nazismo si accinge ad imporre come modello a tutta la gioventù del Reich millenario. Questa è la storia del film, ed è Storia, con la «s» maiuscola. Sia Zishe che Hanussen sono personaggi autentici (il secondo era già stato immortalato, nel film omonimo, dall’ungherese Istvan Szabo: lo interpretava Klaus Maria Brandauer). Piccolo dettaglio: sia il forzuto che il veggente erano ebrei.
Il vero nome di Hanussen era Steinschneider. Questi due campioni della propaganda hitleriana appartenevano al popolo che Hitler voleva distruggere. Hanussen, che era pappa e ciccia con i nazisti e che grazie alle sue conoscenze aveva potuto «predire» l’incendio del Reichstag, venne assassinato all’inizio del 1933: sapeva troppe cose, oltre ad essere un ebreo. Zishe, invece, fu - come dicevamo - un profeta inascoltato. Nel film lo vediamo tornare al suo villaggio e ammonire gli anziani sui pericoli che corrono; ma quelli lo deridono. Figurarsi se i tedeschi ce l’hanno con noi, gli dicono: semmai è dai russi che dobbiamo guardarci. Nel film, Zishe muore in modo stupido: di tetano, per una banalissima ferita che si infligge da solo durante una prova di forza. La sua parola rimane lettera morta: nel giro di pochi anni si farà carne e sangue, e sappiamo bene come.
Lo Zishe di Herzog ricorda molto un altro «idiota saggio» del suo cinema, il misterioso Kaspar Hauser dell’Enigma, uno dei suoi film più belli. Sono folli che sembrano sbucare all’improvviso da un’altra dimensione, portatori di un verbo che l’umanità non è ancora pronta a capire. Peccato che il film non abbia quella forza e quel mistero. Forse avrete notato che, raccontandovi la trama, vi abbiamo svelato l’identità ebrea di Zishe e del suo mentore solo nell’ultima riga del capoverso. Come diceva Godard, il racconto di una trama è il gesto critico primario, implica già un giudizio sul film. Herzog non può che dichiarare l’ebraismo dei personaggi fin dalla prima inquadratura, che vede Zishe sfottuto in una locanda da alcuni «gentili» molto maleducati e molto rozzi. In fondo il problema del film è tutto lì: il suo fascino sta nell’enunciazione del suo assunto, e lo svolgimento non può che risultare inferiore. Ciò non toglie che il film sia, anche oggi, un grande monito: siamo ancora circondati da Cassandre e forse, a volte, sarebbe bene ascoltarle, se non altro perché sotto le mura di Troia i coturnati achei, con i loro cavalli di legno traditori, sono sempre in agguato.
Zishe è il culturista finlandese Jouko Ahola, un non attore che non ha il pathos di altri «dilettanti» herzoghiani. Hanussen è l’inglese Tim Roth. Il film più «tedesco» degli ultimi anni ha attori che vengono da mezza Europa. Un segno dei tempi che non sempre è sinonimo di grande cinema.

l’Unità 25.7.08
Pianeta Terra, 49 luoghi dove il boia colpisce ancora
di Elena Doni


La punizione di uccidere chi ha ucciso è incomparabilmente più grande del delitto stesso
L’omicidio in base a una sentenza è incomparabilmente più atroce che non l’omicidio del malfattore
L’idiota, Fëdor Mikhailovic Dostoevskij

IL RAPPORTO Col premio all’«abolizionista» Prodi, ecco le cifre per il 2007: decresce il numero dei Paesi ma, macabro paradosso, aumentano le esecuzioni. Cina in testa. E, in Iran e Arabia, cresce la spettacolarizzazione di questa barbarie

È spaventoso constatare quanto è facile in tanti paesi perdere la vita, senza colpa o per una piccola colpa, per mano del governo o del potere religioso. Può succedere nei democraticissimi Stati Uniti come nel paradiso tropicale delle Bahamas o nella culla di una civiltà millenaria come l’Egitto. Può succedere, per l’esattezza, in 49 stati: a volte dopo un regolamentare processo nel quale l’imputato ha avuto modo di difendersi ma – come sanno tutti gli appassionati di cinema che hanno visto magari le tre versioni de La parola ai giurati – questo non esclude affatto che si verifichino errori giudiziari anche in America. Succede molto più spesso in paesi che hanno governi autoritari o dove la religione, alleata coi governi, impone di punire con la morte quelle che ai nostri occhi europei, invece, sono trasgressioni e non crimini: l’adulterio, l’omosessualità, la bestemmia.
E fa paura vedere quanto poco vale la vita umana agli occhi del potere, quanto irregolari sono i processi, quanto poco osservate sono le procedute, quanto crudeli sono le detenzioni e quanto oscena è la spettacolarizzazione delle sentenze capitali.
Salvo poi scoprire che in Uzbekistan, paese asiatico niente affatto lodevole dal punto di vista del rispetto dei diritti umani, un sondaggio ha stabilito che il 92% della popolazione è contrarissimo alla pena di morte.
L’occasione per fare il punto della situazione è stata la presentazione del Rapporto 2008 sulla pena di morte nel mondo e la consegna a Romano Prodi del premio «L’abolizionista dell’anno». L’uno curato, l’altro promosso da Nessuno tocchi Caino. Il premio è stato conferito a Prodi perché nel dicembre scorso da presidente del Consiglio, ha portato al successo all’Assemblea Generale dell’Onu la Risoluzione per la moratoria delle esecuzioni capitali. «Non è stato solo merito mio – si è schermito Prodi – è stato un successo ottenuto facendo un gioco di squadra al quale molti hanno partecipato. Al Palazzo di vetro avevamo avuto delusioni in passato – causate, ebbene sì, anche da alcuni paesi europei – questa volta invece c’è stata una notevole ampiezza di consensi. Quello per una moratoria generale della pena di morte è un cammino irreversibile».
Un filo di speranza viene anche dalle cifre: i paesi che mantengono la pena capitale sono oggi 49, mentre nel 2006 erano 51 e nel 2005 ben 54. Ciò nonostante è aumentato il numero delle esecuzioni capitali nel mondo: sono state almeno 5.851 nel 2007, 216 più dell’anno precedente.
Cifre forse sottostimate perché molti paesi non forniscono dati ufficiali e in alcuni casi il numero dei condannati a morte è addirittura segreto di Stato. I tre paesi che con più frequenza fanno lavorare il boia sono Cina, Iran e Arabia Saudita. Per la Cina il rapporto di Nessuno tocchi Caino parla di almeno 5000 sentenze eseguite, forse un migliaio meno dell’anno precedente, prima che venisse attribuito alla Corte Suprema del Popolo il potere esclusivo di approvare le condanne a morte. Una decisione che probabilmente ha indotto i tribunali cinesi a una maggiore prudenza nell’emettere sentenze capitali.
Secondo in questa orribile classifica è l’Iran, dove almeno 355 persone sono state messe a morte nel 2007, mentre nel 2008 le esecuzioni di cui si è avuto notizia sono state 127. Le ultime tre sono state eseguite pochissimi giorni fa (la notizia è del 23 luglio): tre uomini sono state impiccati per uno stupro avvenuto tre anni fa. In Iran vengono puniti con la pena di morte l’omicidio, lo stupro, la rapina a mano armata, il traffico di droga e l’adulterio. Con la lapidazione, in quest’ultimo caso. Contro questa pena crudele si batte una coraggiosa minoranza guidata da una giornalista iraniana, Asieh Amini che nel 2006, insieme con un gruppo di avvocati, ha lanciato la campagna «Mai più lapidazione». Coraggiosi, quelli che si battono per l’abolizione di questa pratica arcaica, perché sanno a cosa vanno incontro: nel marzo 2007 Asieh Amini e l’avvocata Shadi Sadr erano tra le 33 persone arrestate per aver preso parte a una marcia di protesta, con l’accusa di «azioni contro la sicurezza dello Stato».
Le 166 esecuzioni avvenute nel 2007 in Arabia Saudita (il numero più alto al mondo in rapporto alla popolazione), nei cortili fuori le moschee più frequentate dopo la preghiera del venerdì, riguardavano per i due terzi immigrati poveri provenienti dal Medio Oriente, dall’Asia e dall’Africa. Tra i condannati erano almeno tre minorenni, incluso un quindicenne per un reato commesso quando aveva 13 anni.
Sia in Iran che in Arabia Saudita c’è addirittura una spettacolarizzazione della pena capitale: con forte gradimento della folla, si dice. Dalle rare fotografie che circolano sul web si vede da qualche giorno una decapitazione alla Mecca: un uomo inginocchiato, mani e piedi legati, e dietro di lui il boia con la scimitarra alzata. Altre fotografie arrivano dall’Iran e mostrano donne conficcate in una buca fino al punto vita o alle spalle, che piegano la testa sotto una grandine di pietre. Che secondo il codice penale iraniano non devono essere così grandi da uccidere con uno o due colpi ma non così piccole «da non poter essere definite pietre».
In attesa di una sentenza d’appello, che si spera commuterà quella di primo grado, è da qualche mese un giovane afghano, studente di giornalismo, Sayed Perwiz Kambakhsh, condannato a morte per blasfemia con l’accusa di aver diffuso un testo tratto da internet sui diritti delle donne. La battaglia per la salvezza di Kambakhsh è condotta dal fratello Sayed Yaqub Ibrahimi, giornalista, che è stato di recente nel nostro paese, invitato dall’Unione Cronisti Italiani: è probabile che l’accusa e l’arresto di Sayed Perwiz siano una vendetta trasversale contro di lui, che aveva svelato traffici illeciti di un signore della guerra.
Lo stesso Ibrahimi si rende conto di quanto è difficile aiutare il fratello. Da una parte l’attenzione internazionale e le raccolte di firme per la salvezza di Kambakhsh sono importanti, dall’altra, in Afghanistan come in molti altri paesi dove è in vigore la pena capitale, bisogna stare attenti a non compiere azioni che, se percepite come indebita ingerenza, non fanno altro che rafforzare i conservatori. E la pena di morte.

l’Unità 25.7.08
Quando la vita si fa crudele dittatura
di Sergio Bartolommei, Dipartimento di Filosofia, Università di Pisa, Consulta di Bioetica, Pisa


Sono giorni concitati e drammatici per le cronache bioetiche del nostro Paese. Al Nord un corpo che aveva ospitato una persona di nome Eluana Englaro, scomparsa insieme alla sua coscienza 16 anni fa dopo un incidente stradale, sta per essere trasferito da una casa di cura a un Hospice dopo che sarà stato disattivato il sondino naso-gastrico che lo alimenta artificialmente. Con l’esaurirsi delle funzioni dell’involucro corporeo, alla morte biografica di Eluana - la morte della possibilità di raccontarsi, di mettersi in relazione e di dare un senso alla sua propria vita - seguirà così anche quella organica e anagrafica. Solo allora, e grazie a due storiche sentenze giudiziarie, si avrà il riconoscimento delle sue volontà: quelle che aveva espresso quando, ignara della sua sorte futura, era capace di pronunciarsi su cosa per lei sarebbe stata dignità del vivere e del morire nell’ipotesi di poter piombare un giorno nel buio dello stato vegetativo permanente (SVP) in cui purtroppo poi le accadde effettivamente di entrare.
Al Sud un neonato di tre mesi, Davide Marasco, nato il 28 aprile scorso a Foggia e protagonista di un caso assurto alle cronache nazionali, è morto dopo essere stato sottoposto a rianimazione e dialisi forzate nel tentativo di farlo sopravvivere. Davide era affetto da sindrome di Potter e presentava un quadro clinico caratterizzato da mancanza dei reni, inadeguato sviluppo degli ureteri, della vescica e dei polmoni, malformazioni intestinali e rettali.
Sia lo SVP che la sopravvivenza di neonati colpiti da patologie incompatibili con la vita sono, paradossalmente, nuove condizioni del morire rese possibili dall’avvento delle tecnologie di rianimazione e sostegno vitale. Fino a qualche decennio fa il corso ’naturale’ delle cose avrebbe portato alla morte quasi istantanea i protagonisti di queste due tragiche vicende. Oggi il loro destino dipende in gran parte dalle nostre decisioni e dalla nostra responsabilità.
Sia nel caso di Eluana che in quello di Davide si è optato per soluzioni vitalistiche, pensando che il miglior interesse dei due fosse di prolungarla, la vita, il più possibile, in nome della sua sacralità. Il paternalismo medico è venuto in soccorso del vitalismo. Nel caso della Englaro si sono moltiplicate anche in queste ultime ore una serie di (irrispettose) pressioni - politiche, accademiche, religiose - affinché il padre-tutore non la faccia morire come ella desiderava e come due Tribunali della Repubblica hanno giudicato lecito autorizzare a fare.
Nel caso di Davide è bastato che i genitori manifestassero una titubanza nel dare il consenso alle cure intensive che subito il bimbo è stato sottratto alla loro potestà e affidato al primario degli Ospedali Riuniti di Foggia per essere sottoposto a rianimazione e dialisi. Prigionieri forse dell’alone positivo e di mistero che circonda la parola "vita", si fatica a misurarsi con l’idea che ci siano situazioni in cui vivere è un disvalore o un’oppressione, o perché il vivere è ridotto alle sofferenze e agli accanimenti di quella che non è terapia ma devastante e coatta sperimentazione medica (Davide), o perché le condizioni della vita sono divenute radicalmente incompatibili con le idee di dignità personale nutrite nel corso dell’esistenza cosciente (Eluana).
È difficile però scalfire lo zelo dei vitalisti. Essi non si accorgono che l’astratta ideologia cui aderiscono - "la Vita è sacra" - può rivelarsi crudele nelle situazioni in cui, applicandola con fanatica coerenza, genera solo una inutile e penosa sospensione del morire. Incapace in questi casi di garantire un miglioramento delle condizioni di salute, il vitalismo si rivela spesso veicolo dei danni provocati da un interventismo medico fine a se stesso. Ciò che fa apparire l’uno e l’altro “giusti” è che sembrano la soluzione più semplice e ovvia, optando per la quale sembra di essere meno in gioco con le nostre responsabilità.

Corriere della Sera 25.7.08
Il biologo Edoardo Boncinelli interpreta alcuni passi dell'opera alla luce delle teorie evoluzionistiche e delle scoperte più recenti
Embriologia celeste. Come Dante intuì lo sviluppo dell'uomo
Il mondo poetico della Divina Commedia sorprende per la coerenza scientifica
di Edoardo Boncinelli


Verso la fine del decimo canto del Purgatorio la poesia di Dante si eleva d'un balzo a vette vertiginose di potenza espressiva e immaginativa. «O superbi cristian», esclama il poeta rivolto ad alcuni peccatori che stanno espiando la loro cattiva condotta sulla terra, ma apostrofando in realtà tutto il genere umano, «non v'accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l'angelica farfalla?» In una sorta di embriologia celeste, Dante crede di individuare nell'aspetto di ciascuno di noi una fase del nostro sviluppo biologico- spirituale: il corpo con il quale abbiamo vissuto e viviamo tutta la vita non rappresenta altro che una sorta di nostro stato larvale. Da questa larva («verme») si svilupperà dopo la morte una sorta di celeste «farfalla», che svolerà al cospetto del Creatore, per ricevere il premio o la punizione meritati in vita: «l'angelica farfalla» dice il poeta infatti «che vola a la giustizia sanza schermi».
Il nostro sente la necessità di ribadire subito dopo tale concetto, poiché prosegue chiedendosi di che cosa mai noi uomini meniamo tanto vanto, essendo «quasi entomata in difetto, / sì come vermo in cui formazion falla ». Saremmo per lui quindi solo insetti («entomata » alla greca, ma con un po' di fantasia) ancora non completati («in difetto»), cioè una sorta di larva («vermo») nella quale è ancora assente («falla») la maturazione finale.
Un'immagine stupenda e indimenticabile, questa, presente alla mia mente fino dai tempi della scuola media, per merito della professoressa di allora, religiosissima e amante della poesia, che ce la citò come esempio di grande poesia e di sublime creatività. Di tale immagine non mi sono potuto non ricordare quando, più di trent'anni dopo, mi sono occupato attivamente dei geni che controllano lo sviluppo del corpo, che sono incredibilmente gli stessi sia per il nostro che per quello degli insetti! Tutta la storia della scoperta dei geni «architetto», quelli che controllano la disposizione delle varie parti del corpo nello sviluppo di tutti gli animali che hanno una testa e una coda, dalle meduse in su, è cominciata proprio con un insetto, il moscerino dell'aceto Drosophila melanogaster.
E' stato questo piccolo insetto infatti che ci ha permesso di scoprirli. Ed è stata la susseguente scoperta che gli stessi geni controllano anche lo sviluppo embrionale di tutti i vertebrati, compresi i mammiferi e l'uomo, che ci ha fatto toccare con mano la straordinaria unità dei viventi, anche superiore a quello che poteva intravedere la grande fantasia poetica di Dante. Tutti stentarono a credere, nel 1985, che la meccanica molecolare del nostro sviluppo embrionale fosse essenzialmente la stessa di quella di un piccolo insetto, o di un vermetto elementare costituito di mille cellule in tutto, ma è così.
Questo non è l'unico passo della Commedia in cui Dante si occupa di sviluppo. Per esempio, sempre nel Purgatorio, nel XXV canto, il sommo poeta espone le teorie allora correnti su come si forma il nostro corpo e come questo si incontri poi con il nostro intelletto e la nostra anima. Dice Dante, per bocca del poeta Stazio, che il sangue più perfetto dell'uomo, quello che si trova nel centro del cuore e che non va a giro nelle vene, «prende nel core a tutte membra umane / virtute informativa » e comincia a trasformarsi in seme. Poi «ancor digesto», cioè maturato, il sangue-seme «scende ov'è più bello / tacer che dire; e quindi poscia geme / sovr'altrui sangue in natural vasello».
«Ivi s'accoglie l'uno e l'altro insieme», e a seguito dell'unione dei due sangui, quello maschile e quello femminile, «comincia ad operare / coagulando prima, e poi avviva / ciò che per sua matera fé constare». L'anima vegetativa che ne deriva «imprende» poi «ad organar le posse ond'è semente» (meravigliosa espressione!), come in una pianta, ma molto più che in una pianta, perché quella è «in tanto differente, / che questa è in via e quella è già a riva». Come dire che mentre lo sviluppo della pianta arriva solo fino a un certo punto, quello dell'uomo va molto oltre. «Or si spiega, or si distende» tutta la forza informativa primigenia del seme che riesce così a organizzare con precisione ed efficienza le diverse parti del corpo con le loro funzioni.
Il bello, ovviamente, deve ancora venire. «Ma come d'animal divegna fante, / non vedi tu ancor», dice infatti Stazio a Dante, chiaramente riferendosi al passaggio del nascituro da un puro stato animale-vegetativo a uno pienamente umano. Ciò avviene perché «sì tosto come al feto / l'articular del cerebro è perfetto, // lo motor primo a lui si volge lieto / sovra tant'arte di natura, e spira / spirito novo, di vertù repleto, // che ciò che trova attivo quivi, tira / in sua sustanzia, e fassi un'alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira ». Non appena il cervello è sufficientemente sbozzato, il Signore rivolge lo sguardo a questo nuovo corpo, allietandosi per il compimento di tanta meraviglia («si volge lieto sovra tant'arte di natura») e vi infonde («spira ») l'anima («spirito nuovo, di vertù repleto »). Questa attrae, attiva e assimila a sé («tira in sua sustanzia») tutto ciò che trova «e fassi un'alma sola». Questa anima adesso, finalmente unificata con tutte le altre facoltà materiali, intellettuali e spirituali, «vive» pienamente e acquista infine la facoltà di riflettere su se stessa («sé in sé rigira»). Nasce così anche la coscienza di sé. Lo sviluppo si è completato e il nuovo essere ha la possibilità, almeno potenziale, di andare autonomamente per il mondo.
Dante è grande per la sua sensibilità, per le sue capacità espressive, per la grande fantasia delle sue costruzioni, per la sua dottrina e sommamente per la capacità di fondere tutto questo in un corpo poetico vivente. Con capacità e impegno. Fino al punto da edificare tutto un mondo poetico parallelo a quello reale, ma non disgiunto da quello e dalle sue complicazioni.
In questa impresa, il quotidiano bruco diviene veramente angelica farfalla.

Corriere della Sera 25.7.08
Festival a Ravenna. Il Divino Alighieri e la sua modernità


Poesia, musica e danza. L'arte per riflettere sulla visione, perché l'uomo si perde se non impara a vedere meglio se stesso e la vita. Torna con questo scopo «Dante09», il festival per tipi danteschi diretto da Davide Rondoni, in programma a Ravenna dal 3 al 7 settembre. Cinque appuntamenti in piazza del Popolo per riscoprire l'attualità del grande poeta. Nella terza edizione, nomi noti della cultura e dello spettacolo analizzeranno la Visione nell'arte, nella teologia e nella bellezza femminile quale fonte ispiratrice. Non mancheranno momenti di riflessione sulla genetica nel dibattito «Sorprendere l'inizio della vita» (venerdì 5, ore 18, piazza del Popolo). Scienza, bioetica e diritto saranno al centro delle riflessioni di Edoardo Boncinelli, editorialista del «Corriere della Sera» e professore di Biologia e Genetica dell'università Vita-Salute San Raffaele di Milano, e di Eleonora Porcu, docente all'università di Bologna.

Repubblica 25.7.08
Quei libri dati alle fiamme
Germania, un volume ricorda i 94 scrittori ebrei cancellati nel ‘33
Tornano gli autori bruciati dai nazisti
di Paola Sorge


Nei roghi finirono firme come Mann Joseph Roth Remarque, Zweig ma anche nomi che Hitler riuscì a far dimenticare Ecco le loro storie
Degli intellettuali perseguitati molti emigrarono ma non riuscirono più a scrivere
Tra loro Armin T. Wegner: lo si credeva morto e invece visse fino al 1978 a Positano

Tutto doveva esser fatto rapidamente, con la velocità del vento. L´ordine perentorio di bruciare gli scritti di autori ebrei «in occasione della vergognosa campagna diffamatoria del mondo ebraico contro la Germania», non proveniva da Goebbels o da Hitler, ma dal novello ufficio stampa e propaganda dell´associazione studentesca tedesca che in meno di un mese, dal 12 aprile al 10 maggio del 1933, organizzò alacremente e sistematicamente il rogo dei libri proibiti non solo a Berlino ma in ogni città universitaria della Germania. Gli studenti dovevano innanzitutto «ripulire» i propri scaffali, quelli di parenti e conoscenti e poi quelli di tutte le librerie possibili; il rogo sulle pubbliche piazze doveva essere reclamizzato e promosso a dovere, possibilmente con testi di propaganda «contro il distruttivo spirito ebraico» redatti da scrittori compiacenti. Non mancava nemmeno una sorta di manifesto studentesco con 12 tesi aberranti tra cui quella che recitava: «L´ebreo che scrive in tedesco, mente».
Ed infine ecco le fiamme alte 10, 12 metri che la notte di mercoledì 10 maggio illuminarono l´Opernplatz a Berlino, gremita di folla che assisteva allo spettacolo. E nessuno che protestava. C´era Goebbels attorniato dalle SA in soprabito chiaro che contemplò a lungo l´incendio e poi annunciò «la fine dell´epoca di un eccessivo intellettualismo ebreo». Erich Kaestner vide i suoi libri gettati alle fiamme mentre qualcuno faceva il suo nome e urlava «contro la decadenza e il degrado morale!» e che da allora, da beniamino del pubblico divenne «persona non gradita». Kaestner fu uno dei pochi scrittori della lista nera che rimase in patria come «cronista», forse perché gli mancava il coraggio di emigrare. Altri si tolsero la vita o vennero uccisi in un lager, oppure andarono all´estero, il più delle volte senza mezzi e senza possibilità di pubblicare le loro opere. E quando dopo la fine della guerra tornarono in patria, non trovarono la Germania di prima, non si sentirono più «a casa»: il pubblico li aveva irrimediabilmente dimenticati.
Eppure nella Repubblica di Weimar avevano tutti goduto di una notevole notorietà. Ernst Glaeser, ad esempio, con Classe 1902, un ritratto della sua generazione ancor oggi più che godibile, aveva suscitato l´entusiasmo di Hemingway; Edlef Koeppen era diventato notissimo nel ‘28 con il suo romanzo Bollettino di guerra; un certo seguito lo avevano avuto anche gli anarchici ribelli come Rudolf Geist che scrisse migliaia di pagine e alla fine andò di porta in porta a vendere cartoline con le sue poesie; c´erano i comunisti «di cuore», senza la tessera di partito ma sempre dalla parte dei deboli e degli oppressi come Oskar Maria Graf o come Egon Erwin Kisch, straordinario reporter e corrispondente di guerra che andò in esilio in Messico e morì nel ‘48; grande risonanza avevano avuto i cronisti della cultura ebraica in Germania come Georg Hermann, ucciso a Auschwitz nel ‘43 e biografi di talento come Franz Blei, re dei caffè viennesi, autore di quel Bestiarum Literaricum definito da Kafka «la letteratura mondiale in mutande».
La loro storia e quella di tutti i 94 scrittori tedeschi i cui libri furono dati alle fiamme 75 anni fa, assieme a quelli di 37 autori stranieri, sono raccontate in un libro prezioso, per molti versi stupefacente: Il libro dei libri bruciati (Volker Weidermann: Das Buch der verbrannten Buecher, ed. Kiepenheuer & Witsch, pagg. 255) Stupefacente perché l´appassionata e appassionante ricerca fatta dall´autore del volume su internet e nelle librerie antiquarie ha portato alla scoperta di opere di notevole valore da allora dimenticate a causa del rogo dei libri. Prezioso perché contiene le storie inedite, spesso tragiche e inquietanti di tutti gli intellettuali perseguitati dal regime nazista e perché rende giustizia agli scrittori dimenticati o ignorati ai quali viene dato molto più spazio che a quelli celebri. Senza questo libro l´obiettivo dei nazisti di cancellare per sempre dalla memoria i nomi di tanti autori ebrei sarebbe stato quasi raggiunto, osserva giustamente l´autore del libro nella sua introduzione.
«Non si faccia illusioni. L´inferno è al governo», scrisse Josef Roth già nel febbraio del ‘33 all´amico Stefan Zweig che faticava a credere di essere diventato uno degli scrittori più odiati in Germania. I suoi libri erano stati dati alle fiamme assieme a quelli di Werfel, di Schnitzel, di Wassermann, di Klaus Mann, ma lui, lo scrittore di lingua tedesca più letto nel mondo, era convinto di essere stato scambiato con Arnold Zweig, comunista militante odiato dal regime. Cercò compromessi, sperò che la follia collettiva avesse termine rapidamente. Roth al contrario aveva capito immediatamente che la loro vita professionale e materiale era annientata. Alla fine entrambi andarono in esilio e entrambi vi persero la vita: Roth morì in un ospedale di Parigi nel ‘39, Zweig tre anni dopo si tolse la vita in Brasile.
Coinvolgenti e di estremo interesse sono le storie di tutti gli scrittori sinora dimenticati a causa del rogo: sconcertante quella di Armin T. Wegner che dopo la guerra era stato dato per morto e che invece visse sino al 1978 a Positano dove si era trasferito nel ‘36. Autore di un avventuroso e fascinoso libro di viaggi, Al crocevia dei mondi del 1930, moralista e nemico della guerra, scrisse nell´aprile del ‘33 una lettera aperta a Hitler in cui con incredibile ingenuità spiegava al Führer perché la Germania avesse bisogno degli ebrei e perché gli ebrei amassero tanto la Germania. In realtà non aveva nessuna voglia di lasciare la sua patria: «Andar via è come morire» ripeteva. Ma la Gestapo lo mise in carcere, lo torturò, lo mandò nel lager di Oranienburg da dove riuscì a fuggire. A Positano stava ogni giorno alla scrivania davanti a una pila di fogli bianchi. Non riuscì mai più a scrivere un rigo.
Con il grandioso romanzo satirico Solneman l´invisibile del 1914, tenuto in gran conto da Thomas Mann, lo scrittore Alexander Moritz Frey riscosse il suo primo grande successo; ebbe però per sua disgrazia, anche un altro ammiratore, Adolf Hitler, suo compagno di reggimento nella prima guerra mondiale. Il futuro Führer mostrava molto interesse per le sue opere e cercò inutilmente di mettersi in contatto con lui, ma Frey lo evitava accuratamente: lui era rigorosamente contro ogni odio di razza, contro ogni fanatismo, contro i militari. «Voglio, voglio, voglio dire la verità, voglio dire: i militari e la guerra sono la più ridicola, vergognosa, stupida cattiveria del mondo», afferma alla fine del racconto delle sue esperienze di guerra, uscito nel ‘29 e giudicato dai critici addirittura superiore al celebre All´ovest niente di nuovo di Remarque. Nel ‘33 le SA gli distrussero casa e Frey lasciò la Germania senza soldi, senza la possibilità di pubblicare i suoi lavori, senza più cittadinanza; in Svizzera trovò il sostegno e l´aiuto di Thomas Mann. Morì a Basilea nel 1957, povero e dimenticato.
Certamente il più fortunato di tutti fu Erich Maria Remarque. La notte del rogo lui, che si trovava al sicuro in Ticino, sentì per radio, con lo scrittore Emil Ludwig, il crepitio delle fiamme e i discorsi esaltati dei gerarchi nazisti. Era stato uno dei primi a emigrare: il 29 gennaio, alla vigilia della presa di potere di Hitler, aveva fatto una corsa non stop, a bordo della sua Lancia, da Berlino a Porto Ronco. Sapeva bene di essere il nemico numero uno dei nazisti a causa del suo celeberrimo romanzo che prometteva «la verità sulla guerra». All´ovest niente di nuovo - il libro tedesco di maggior successo del XX secolo, 20 milioni di copie vendute, da cui trassero il film - , dopo aver dato adito a una serie di infiammati dibattiti, era stato boicottato in tutti i modi dai nazisti: parlava di miseria infinita, di noia, di mancanza di senso della prima guerra mondiale, della morte ben poco eroica dei soldati. Un libro più che pericoloso per i seguaci di Hitler che non riuscirono a impedirne lo strepitoso successo.
Remarque scelse il silenzio, si dichiarò estraneo alla politica, ma intanto continuava a scrivere sul destino degli emigranti e sui campi di concentramento anche durante il suo leggendario soggiorno negli Stati Uniti dove divenne uno degli scrittori e sceneggiatori più amati dagli americani. Nonostante questo, chi legge i suoi diari scopre un uomo irrimediabilmente depresso e pieno di paure. Paura della scrivania, del lavoro, della solitudine.

Repubblica 25.7.08
Un saggio sull’amore nel ‘700
Cicisbei. Lui, lei e il cavalier servente
di Benedetta Craveri


Accompagnare assiduamente una donna sposata era una pratica diffusa. Specchio di un costume e di una morale
Un prodotto della società d’Antico Regime, che scompare nell’800
Un’indagine che investe il tema dell’identità nazionale italiana
Parini, Goldoni e Alfieri criticano aspramente il fenomeno

«Non vi ho parlato dei cicisbei. È la cosa più ridicola che un popolo stupido abbia potuto inventare: sono degli innamorati senza speranza, delle vittime che sacrificano la loro libertà alla dama che hanno scelto». Il popolo stupido di cui Montesquieu, in visita nella penisola nel 1728, si prendeva gioco era ovviamente quello italiano, ma il grande pensatore francese che si preparava a scrivere L´Esprit des lois non era certo il solo viaggiatore straniero a ravvisare nel cicisbeismo un tratto distintivo del costume del nostro paese. E numerosi erano anche gli italiani - pensiamo a scrittori come Parini, Goldoni, Alfieri, o pittori come Pietro Longhi o Giandomenico Tiepolo - che nel corso del secolo avrebbero stigmatizzato il fenomeno. Ma ammesso e non concesso che esso costituisse davvero una anomalia italiana in che cosa consisteva esattamente e quali erano le ragioni che le avevano consentito di mettere radice nel Bel Paese e prosperarvi per tutto il Settecento?
A questi interrogativi si propone oggi di rispondere, sul filo di una ricerca storica attenta a studiare tanto la realtà del costume quanto le sue rappresentazioni, l´importante studio di Roberto Bizzocchi, Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia (Laterza, pagg. 361, euro 20). Una ricerca di carattere necessariamente indiziario poiché ha per oggetto una relazione di coppia - quella della dama e del suo cicisbeo - che si svolgeva alla luce del sole e su cui le testimonianze e i commenti abbondano, ma la cui natura intima e privata rimaneva invece accuratamente occultata, costringendo lo storico a procedere per ipotesi.
Neologismo entrato in uso nel primo decennio del Settecento, il termine cicisbeo designava infatti l´accompagnatore ufficiale di una dama sposata di cui fungeva, con il pieno assenso del marito, da cavalier servente. Il suo compito consisteva nel passare con lei molte ore al giorno, nello scortarla al teatro, al ballo, in società, nel dimostrarle fedeltà, nel prodigarsi in tutti i modi per risultarle gradito, ma questo "servizio" doveva essere improntato alla più assoluta castità o, quantomeno, lasciarlo credere. Ora è vero che nelle società d´Antico Regime il matrimonio aristocratico non presupponeva un´intesa sentimentale e consentiva ai coniugi di condurre una vita indipendente; è vero che già un secolo prima la civiltà francese aveva fatto della galanteria un obbligo mondano, come è ugualmente vero che "questa delicata simulazione dell´amore" poteva servire da schermo a sentimenti più reali, ma solo in Italia questi vari fattori si erano saldati in un rapporto istituzionale che implicava ufficialità e durata.
Bizzocchi mostra bene come a determinare questa "eccezione" italiana siano state ragioni economiche, sociali e culturali di diversa natura, riconducibili tutte allo specifico contesto storico della penisola. La prima novità del suo studio è proprio quella di mostrare, sulla base di una ampia documentazione, il carattere nazionale del cicisbeismo, solitamente considerato una peculiarità veneziana e genovese. E se per tutto il corso del Settecento l´usanza si diffondeva nelle maggiori città italiane ciò era dovuto in primo luogo alla sua capacità di conciliare l´esigenza di rinnovamento che accomunava le élites del paese agli imperativi della tradizione.
Il cicisbeismo si spiega senza dubbio alla luce di una nuova volontà di libertà della società italiana che si apre progressivamente alla cultura dei Lumi e, ispirandosi al modello francese, inaugura una socievolezza, una "conversazione" come si diceva allora per metonimia, incentrata sulla presenza femminile. Ma questa rivoluzione che apriva improvvisamente al gentil sesso le porte del carcere domestico era troppo radicale per non richiedere degli accorgimenti. A differenza di quanto avveniva in Francia dove le dame del bel mondo sfarfalleggiavano anche sole da un salotto all´altro, le loro sorelle italiane non potevano uscire di casa senza la scorta di un accompagnatore che, scelto con il beneplacito del marito, aveva il compito di vigilare su di loro. Di qui, rileva Bizzochi, quella "doppia anima del cicisbeismo, fra controllo e libertà", che avrebbe dato origine a un compromesso destinato a indignare i benpensanti - "e tuto xe causa la libertà", commenta sconsolato un personaggio dei Rusteghi di Goldoni! - fino ad assurgere, nella Histoire des Républiques italiennes du moyen âge (1807-1818) dell´illustre storico ginevrino Sismondi, a simbolo del lassismo e della decadenza morale degli italiani.
Eppure, come ben spiega Bizzocchi, la pratica del cicisbeismo non assolveva solo alle nuove esigenze del gentil sesso. Era anche una risposta al problema del celibato maschile che nel ceto nobiliare poteva riguardare anche il cinquanta per cento degli uomini adulti. Finalizzata a preservare l´integrità del patrimonio familiare a favore del figlio primogenito, la norma del maggiorascato metteva in effetti in circolazione molti giovani senza prospettive matrimoniali per i quali il cicisbeismo fungeva da utile surrogato, consentendo loro di intrattenere una relazione femminile privilegiata, di trovare accoglienza in una casa ospitale, di ricoprire un ruolo riconosciuto in società. E se, all´interno dell´ambito domestico della dama che era chiamato a servire, il cicisbeo svolgeva un compito sussidiario a quello del marito, questo legame consentiva altresì, alla stregua dei veri e propri matrimoni, ad allargare la cerchia delle solidarietà e delle relazioni interfamiliari in vista di una più ampia strategia sociale su scala cittadina.
La parte più interessante del libro è, tuttavia, quella che si propone di indagare la natura della relazione privata che si dissimulava dietro i comportamenti rigidamente codificati di una commedia mondana di cui gli stessi osservatori contemporanei denunciavano l´ipocrisia. In effetti, come escludere una possibilità di coinvolgimento affettivo, sentimentale, erotico, da parte di uomini e donne abituati a passare gran parte della loro vita insieme? Bizzochi cerca di trovare una risposta analizzando, sulla falsariga di un nutrito corpus di testi autobiografici e di carteggi editi ed inediti, alcuni casi di cicisbeismo a Bergamo, Venezia, Lucca, Firenze, Milano, Torino. Nelle storie che egli ricostruisce ci imbattiamo in personalità celebri come Alfieri, Beccaria, i fratelli Verri, o in figure femminili di cui non avevamo notizia ma che appartengono a famiglie importanti.
Autentiche tranches de vie che ci coinvolgono come romanzi - straordinaria quella di Pietro Verri nel ruolo di cicisbeo innamorato -, gli episodi passati al vaglio da Bizzocchi mostrano bene come il cicisbeismo potesse all´occorrenza aprirsi a tutte le esperienze della vita - l´amore, il dono di sé, la gelosia, la fedeltà, il tradimento, l´abbandono. E se nessuna di queste storie ci fornisce la prova provata dell´esistenza di una relazione sessuale, ciò dimostra che il sentimento del pudore era, all´epoca, molto diverso dal nostro.
Il cicisbeismo sarebbe scomparso con la fine della società d´Antico Regime e l´Ottocento avrebbe perseguito un idea dell´amore e del matrimonio incompatibili con il pittoresco compromesso raggiunto da un´Italia provinciale e arretrata eppure desiderosa di recuperare il tempo perduto. Ma non sarebbero state certo le donne a beneficare del cambiamento.

il Riformista 25.7.08
Padellaro vs. il Colle, Colombo con lui Invece Concita...



Non un semplice disagio. Ma «il nostro forte disagio». In questi termini, nel suo editoriale di ieri, Antonio Padellaro ha riassunto lo stato d'animo dell'Unità di fronte alla firma apposta dal capo dello Stato in calce al lodo Alfano. La promulgazione non è andata proprio giù al giornale di Gramsci, avaro di pacche sulla spalla del Fassino tirato in ballo da Tavaroli, prodigo di denunce nei confronti di Giorgio Napolitano. Già, denunce. Perché, sostiene Padellaro, la promulgazione del lodo Alfano ha dato il via libera a una norma che rende quattro cittadini «più uguali degli altri». Quando promulga una legge il presidente della Repubblica «non esprime un'opinione personale», ma significa che «ne ha verificato la legittimità costituzionale». E il lodo Alfano, secondo il Colle, «corrisponde ai rilievi formulati dalla corte costituzionale nel 2004, quella che sancì l'incostituzionalità» del lodo Schifani. Segue appello: «Se ci rivolgiamo a Napolitano è perché in questi difficili anni ha saputo esercitare la sua alta funzione in modo ineccepibile», ma sappiamo che sono numerosi gli italiani che giudicano il lodo come un grave strappo al principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge».
«Sto col direttore». Fin qui Padellaro. E Furio Colombo? «Fermi restando i sentimenti di stima e amicizia che mi legano a questo capo dello Stato - dice l'ex direttore - ci sono delle cose che vanno dette chiaramente. Quindi, sono perfettamente d'accordo con i rilievi mossi da Padellaro nel suo editoriale». Anche l'ipotesi referendaria sollevata da Di Pietro non lascia indifferente il deputato del Pd: «Lasciare che siano i cittadini a decidere non fa mai male». 
L'imbarazzo del Pd. Visto che disagio genera ulteriore disagio, dentro il Pd l'editoriale dell'Unità qualche imbarazzo l'ha creato. Non a caso Walter Veltroni, in un attimo di pausa dagli attacchi alla legge votata dal centrodestra, è intervenuto nella querelle. Giusto per mettere a verbale la sua convinzione che «il presidente Napolitano in tutta la vicenda ha svolto con il consueto equilibrio il suo compito in una fase certamente non facile». E la firma alla legge? «Un atto dovuto», ha chiarito il segretario. Un messaggio alla suocera (Di Pietro) perché anche la nuora (Padellaro) intendesse. Morale? Le ultime uscite dell'Unità sono piaciute poco allo stato maggiore del partito. Che aspetta, con un mix tra timore e trepidazione, il cambio della guardia. Un autorevole dirigente del Pd cui non fa difetto l'ironia, dopo aver letto l'editoriale di Padellaro di ieri, se la rideva citando il titolo della rubrica della De Gregorio sul settimanale femminile di Repubblica: «Invece, Concita...». 
Quella vecchia raccolta. Nella redazione del quotidiano, che si era stretta attorno al direttore dopo l'intervista di Concita De Gregorio a "Prima comunicazione", qualche mugugno del giorno dopo per l'editoriale di Padellaro sul Colle c'è stato. Non a caso, proprio ieri, qualcuno ha tirato fuori una storia. Pare che tempo fa l'Unità avesse intenzione di raccogliere in un volumetto tutti gli articoli pubblicati da Napolitano sul giornale che fu di Gramsci. Non se ne fece nulla proprio perché dal Quirinale lasciarono cadere la proposta.

il Riformista Lettere 25.7.08
Scomuniche


Caro direttore, un mio vecchio compagno di scuola teneva appesa in salotto la scomunica del nonno, reo di aver assistito, in altri tempi, a una irriverente rappresentazione teatrale in quel di Rimini. Il fatto mi è tornato in mente leggendo dei provvedimenti che monsignor Nosiglia, vescovo di Vicenza, prenderà nei confronti di chi assisterà alle illecite celebrazioni di Sguotti e Milingo. Ringrazio, tramite il Riformista, il vescovo per la possibilità, di questi tempi rara, di farsi scomunicare, ma mi chiedo come sia tecnicamente possibile oggi prendere un tale provvedimento senza calpestare la privacy o l'articolo 19 della Costituzione. Escludendo l'auto-denuncia presso la curia, faranno pedinare i presenti dalle guardie svizzere?

Roberto Martina e-mail