sabato 17 aprile 2010

VENDOLA: «Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione».
Repubblica — 19 marzo 1985 pagina 4

IL GAY DELLA FGCI

di STEFANO MALATESTA



ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".

Repubblica 16.4.10
Il congresso si svolge a bordo di una nave, da Savona a Palma di Maiorca
E ora la psicanalisi se ne va in crociera
di Luciana Sica

Umberto Galimberti: "Sembra un viaggio in quella terra confusa che oggi è la psicoterapia, in balìa dell´instabilità di cui il mare è una bella metafora"

Il nostro mare affettivo: la psicoterapia come viaggio»: titolo brillante per un congresso. Tanto più se si tiene in crociera. E parlare degli itinerari dell´anima e nel frattempo andare per mare sarà anche vista come un´idea mediatica, ma non sembra neppure così malvagia. Perché l´impressione è un´altra, se diversi terapeuti escono da cenacoli ristretti, e si mostrano per quello che sono: "veri" e variamente attrezzati ad affrontare il dolore, senza disdegnare la dimensione del piacere. È su una nave - da oggi a martedì prossimo - che la Federazione italiana delle associazioni di psicoterapia ha scelto di tenere il quarto appuntamento congressuale. Salpa da Savona, per attraccare a Barcellona, Palma di Maiorca, Ajaccio: alla fine le adesioni sono state circa 400 (familiari compresi).
L´idea è venuta alla presidente della Federazione, Patrizia Moselli, che difende la metafora legata al mare, assai più del possibile effetto di risonanza che neppure la fa inorridire: «Il viaggio rappresenta il "percorso" della psicoterapia, un´avventura interiore dalle rotte imprevedibili, l´apertura di nuovi orizzonti mentali». Nessun sopracciglio sollevato, nessun timore di facili battute? No, dice la Moselli: «La nostra è un´associazione di associazioni, con una visione non unica ma unitaria della psicoterapia. Tutti hanno trovato interessante creare uno spazio vitale per un confronto aperto tra modelli teorici e clinici diversi. E poi, perché dovremmo infastidirci, se si parla di noi?».
È vero che qui non si tratta di psicoanalisti più o meno "classici", anzi per la maggior parte dei loro diretti concorrenti: post-cognitivisti, o anche terapeuti della famiglia e della bioenergetica, comunque rappresentanti di approcci ben riconoscibili (cognitivo, corporeo, integrato, analitico-dinamico, sistemico, umanistico). In più si è sempre coltivato il sospetto che anche tra queste scuole ci sia una certa competizione - visto che il mercato della psiche non è poi un´astrazione. Ora invece si ritrovano a navigare nelle acque del Mediterraneo.
Umberto Galimberti, outsider del congresso anche se ospite di gran fama, ha un suo punto di vista di segno comunque problematico: «La crociera a me sembra un viaggio in quella terra confusa che è oggi la psicoterapia, in balia dell´instabilità di cui il mare è una bella metafora. Approderà su qualche terra sicura? Penso di no perché, come già ci avvertiva Eraclito: "Per quanto tu cammini e percorra ogni strada, non raggiungerai mai i confini dell´anima, tanto è profondo il suo logos"».
Domattina Galimberti terrà una relazione su «Il viaggio della psicoanalisi-psicoterapia: dalle origini romantiche all´età della tecnica», estranea all´intonazione delle solite litanie: «Nello scenario contemporaneo, dominato dall´efficienza e dalla funzionalità, l´anima - che si alimenta anche di ciò che razionale non è - soffre. E allora: o il ricorso agli psicofarmaci, o il cammino più arduo della conoscenza di sé che avviene anche attraverso una rivisitazione delle proprie idee. Senza un loro vaglio critico, non è consentito comprendere il mondo in cui viviamo e i suoi rapidi cambiamenti... Ad esempio, non è il caso di pensare che oltre all´"inconscio pulsionale" di cui ci ha parlato Freud si sia formato un "inconscio tecnologico", che a nostra insaputa ci governa e di cui le varie scuole di psicoterapia ancora non si occupano?».
Cinque giorni di interventi, workshop, lectures, sessioni parallele. Con un finale a sorpresa: una video intervista con Zygmunt Bauman (a cura di Rodolfo De Bernart), legata al dibattito conclusivo sul tema del narcisismo nell´era post-moderna della liquidità dov´è proprio la dimensione dell´intimità - il "reciproco coinvolgimento" - a rischiare il naufragio.

l’Unità 17.4.10
Vendola star tra i delegati «Parlare alla società civile per preparare l’alternativa»
Nichi Vendola, al congresso dell’Arci «gioca in casa», torna tra gente che conosce. La sinistra dice «si deve aprire alla società civile» e trovare un’alternativa che «parli alla pancia del paese» Fischi per la ministra Meloni
di M. GE.

«Compagno Bersani, così non ce la facciamo, i partiti hanno esaurito la loro funzione, dobbiamo aprirci alla società civile, siamo come quel contadino che vuole un gran raccolto anche se non lo merita e finge di non vedere che il terreno è deserto». Promemoria per un «lavoro possibile da fare insieme», lo chiama Nichi Vendola, che al congresso Arci gioca in casa («l'Arci è stato uno dei luoghi della mia formazione») e approfitta per dire qui, applauditissimo, la «sua» nel momento di burrasca. Titolo: «Rifondazione della politica, necessaria vista l'inadeguatezza di quello che c'è». Sinistra e Libertà, come il Pd. Dice «noi», Nichi, intende «sinistra».
PARTITA DI POKER
Ma va giù duro con il «compagno Bersani», che della platea Arci è stato ospite giovedì. «Berlusconi parla alla pancia del paese, la tua alternativa no», gli dice a brutto muso.
Che alle porte ci possano essere nuove elezioni, lo convince poco. Quella è una «partita di poker» tutta nel centrodestra. E indica solo che «è ripresa convorticosità l'infinita transizione della politica italiana».
La sinistra per ora resta “un rebus”. Perciò «dalla crisi del centrodestra, per ora, esce solo un paese spostato verso la parte più reazionaria e xenofoba», la sua lettura. Mentre «con Bersani una parte del centrosinistra si ostina a non capire la portata di una sconfitta non solo elettorale ma culturale».
E d’altra parte: «Non sconfiggeremo il berlusconismo cercando un antiberlusconi che non c'è e se ci fosse gli assomiglierebbe terribilmente».
I sondaggi sul suo nome? «Di solito in quelli perdo, mi devo preoccupare?». La soluzione, per ora, è di di lungo periodo. «Seminare» la sinistra, dice Nichi. Che è “grande passione e non la critica alla destra perché non mantiene quello che promette”. E “nessuna genuflessione”, davanti alla Chiesa o ai poteri fori.
APPLAUSI
La platea apprezza e si spella le mani. Qualcuno storce la bocca: «Per ora è retorica». Ma spera che non lo resti a lungo. «Tirare fuori le unghie», suggerisce don Luigi Ciotti. Quale sia il nemico da combattere l’ha ricordato il messaggio ai partecipanti della ministra Giorgia Meloni. Fischiato sonoramente dalla platea.
Dice che la situazione in Italia è più «rosea» di come la vede l'Arci. Che il «disastro» potrebbe persino essere «provvidenziale». E spiega la sua ricetta è tutta a base di sarte, falegnami, calzolai, tradizione. Quanto alla «formazione». Privilegiare l'uguaglianza formativa, spiega, è stato un errore.

l’Unità 17.4.10
L’esecutivo di Berlusconi invia messaggio di solidarità a Ratzinger sullo scandalo pedofilia
L’Avvenire paragona le notizie sui preti accusati al piano nazista di Goebbels contro la Chiesa
Il governo difende il Papa: abusi, campagna diffamatoria
Messaggi di auguri a Benedetto XVI per il suo compleanno. Il governo italiano ne approfitta per esprimere solidarietà a Ratzinger per la «campagna diffamatoria» sul caso pedofilia. Oggi il Papa a Malta.
di Roberto Monteforte

«Papa Benedetto XVI è sofferente per gli scandali di pedofilia nella Chiesa, ma tuttavia è sereno». Lo riferisce alla vigilia della visita papale a Malta il nunzio apostolico, monsignor monsignor Tommaso
Caputo che oggi pomeriggio accoglierà il pontefice a La Valletta. Proprio il tema degli abusi sessuali peserà su questa visita nell’isola mediterranea nel 1950 ̊ anniversario del naufragio dell’apostolo Paolo. Quella della pedofilia è una macchia che la Chiesa di Malta ha già iniziato ad affrontare seguendo le indicazioni fornite dal pontefice nella sua lettera ai cattolici d’Irlanda.
IL COMPLEANNO
Ieri per Papa Benedetto XVI è stata una giornata particolare: ha compiuto 83 anni e da tutto il mondo gli sono arrivati attestati di stima e solidarietà. Sobrio il Quirinale che ha espresso «profonda considerazione per il suo alto magistero», fuori misura quello del Consiglio dei Ministri che non si è limitato al semplice augurio di buon compleanno. Con un irrituale comunicato ufficiale diffuso al termine della riunione il Governo ha voluto «confermare la solidarietà» al Pontefice per «la inqualificabile campagna diffamatoria contro la Chiesa e il Papa». Berlusconi cerca di cavalcare l’onda della solidarietà al pontefice. Più sfumati e riguardosi i messaggi delle altre istituzioni. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini sottolinea l’«altissima missione spirituale» del pontefice e la sua «instancabile opera di testimonianza della fede» che «sono fonte di ispirazione e di impegno per tutti ad operare per la promozione della pace e della giustizia». La «semplicità dei comportamenti» e l’invito ad «essere sempre disponibili verso i bisognosi» conclude Fini «costituisce una sicura difesa a tutela dei diritti inviolabili dell`uomo, essendo per tutti laici e credenti un saldo riferimento».
Il presidente del Senato, Renato Schifani sottolinea «l’alto e coraggioso magistero di Benedetto XVI, la sua testimonianza lungimirante che guarda con serenità al passato e non ha paura del futuro». Anche l’Udc,con il segretario Cesa associa gli auguri per il compleanno del pontefice alla «solidarietà per l’indegna campagna di denigrazione in atto».
LA POLEMICA
Chi interviene a gamba tesa sullo scandalo dei preti pedofili è l’Avvenire. Per rispondere alle bordate polemiche di chi chiama in causa le responsabilità della Chiesa e dello stesso pontefice spara ad alzo zero pubblicando un articolo del sociologo Massimo Introvigne che mette in relazione gli attacchi di oggi con la campagna orchestrata negli anni ’30 dal ministro della propaganda nazista Goebbels che agitò lo scandalo dei «preti pedofili» per «screditare la Chiesa cattolica». Ieri come oggi, per l’Avvenire. La strategia sarebbe quella di partire da «eventi reali», ma «sistematicamente distorti» ed ampliati ad arte per creare «un panico morale'». Per Introvigne il tentativo di «squalificare la Chiesa cattolica su scala internazionale tramite le accuse di immoralità e pedofilia ai sacerdoti non riuscirà».
L’OSSERVATORE ROMANO
«I fatti gli danno ragione» scrive sull’Osservatore Romano Lucetta Scaraffia. «Oggi il Papa si trova in un momento di forza» aggiunge nel suo editoriale dedicato al compleanno del pontefice. Perché denunce e polemiche confermano la severità, il rigore e l’ intransigenza di Ratzinger nell’affrontare questi temi. «La tempesta farà pulizia nei ranghi della Chiesa, spezzerà connivenze» e permetterà soprattutto a Benedetto XVI è la sua previsione di proseguire libero da un pesante fardello di colpe e silenzi per quella strada che ha indicato fin dal primo giorno del suo pontificato».

l’Unità 17.4.10
Conversazione con Lawrence Grech
«Vittime dei frati nell’orfanotrofio. Ora vogliamo giustizia»
Dieci ex ospiti dell’istituto San Giuseppe da adulti hanno trovato la forza di denunciare «Aspettiamo di essere ricevuti dal Papa»
di Charlot Zhara

Lawrence Grech è segnato da anni di dolore per gli abusi subiti nell'orfanotrofio di San Giuseppe a Santa Venera. Cominciarono negli anni 80, ma li denunciò solo nel luglio 2003, da adulto.
Ci spiega che decise di fare denuncia quando un addetto dell’istituto trovò uno dei frati della Società Missionaria di San Paolo, Charles Pulis, a letto con uno degli orfanelli. «Quando sono tornato a Malta dall’Australia racconta Grech io e mia moglie siamo andati come volontari nell’Istituto di San Giuseppe, perché ci aveva invitato pro-
prio quel sacerdote che mi abusò, Padre Pulis». Eppure, quando il frate e il ragazzino furono sorpresi in una situazione inequivoca, nessuno degli altri impiegati voleva credere all’evidenza: «Quel ragazzo mente, non abbiamo mai visto cose simili da Padre Pulis».
Anche dai frati la stessa reazione. Quando Grech raccontò degli antichi abusi reagirono increduli: «Mi hanno detto che era impossibile, che non mi credevano, che proprio io che ero così amico di quel frate...». Allora Grech decise di parlare con gli altri orfani di San Giuseppe, e si creò un gruppo di cinque persone intenzionato a chiedere giustizia.
Prima, era il settembre del 2003, parlarono del loro caso alla Curia maltese. Fu aperta un’indagine, ma non ci fu nessuna conclusione: «La Curia ha solo raccolto informazioni su ogni caso specifico lamentato Grech ha sentito individualmente ognuno di noi. Poi non abbiamo avuto alcuna notizia». A parte quella del trasferimento in Perù di un frate. Sanzione minima, adottata solo quando quel caso era ormai diventato pubblico.
A questo punto Grech e il suo gruppo denunciarono il caso alla polizia. «Ci ha interrogati tutti, ma anche qui le indagini non sono proseguite. Tanto che da un certo momento in poi gli investigatori hanno cominciato a rifiutarsi di parlare con noi. Per questo ho deciso di avvicinare un conduttore televisivo». Dopo quel servizio in tv e la pubblicazione di diversi articoli, altri quattro ex-orfani di San Giuseppe si sono fatti avanti denunciando abusi.
I quattro frati denunciati dalle dieci vittime di San Giuseppe sono padre Charles Pulis, padre Victor Scerri (ancora ricercato dalla polizia canadese di Ontario per molestie sessuali a bambini avvenute in Canada negli anni ‘80), frate Joseph Bonnett e padre Conrad Sciberras. Quest’ultimo non ha aspettato neanche la formalizzazione del processo, ed è fuggito in Italia. La polizia maltese non ha cercato di rintracciarlo, accusa Grech: «Non hanno contattato le autorità italiane per chiederne l’estradizione».
I processi vanno avanti con difficoltà ormai da sette anni. Nemmeno per il primo dei casi la sentenza sembra vicina: «Ormai ho perso la speranza di vederlo concluso dice esasperato Grech ecco perché ho deciso di parlare di nuovo con la stampa».
Dopo l’incontro di martedì scorso con l’arcivescovo di Malta e Gozo, Paul Cremona, Grech e le dieci vittime degli abusi sessuali dei preti maltesi, ora aspettano di essere ricevuti dal Papa durante la sua visita nell’isola.

L'Osservatore Romano 17.4.10
Su strade diverse da quelle del mondo
La libertà del Papa
di Lucetta Scaraffia

Adifferenza di quanto si legge su molti giornali che, nell'imminenza del quinto anniversario di pontificato di Benedetto XVI, lo raffigurano come debole e attaccato da ogni parte, oppure come un anziano teologo che non sa comprendere il mondo di oggi, a differenza di chi ne chiede, con scritte sui muri o sui manifesti, delle impensabili dimissioni, sono convinta che per Papa Ratzinger questa ricorrenza coincida con un momento di forza. Perché le denunce e le polemiche danno ragione alla severità da lui sempre manifestata nei confronti dei preti colpevoli di abusi sessuali su minori, al suo atteggiamento intransigente nei confronti dei mali che affliggono la Chiesa e che egli stesso ha denunciato, prima di diventare successore di Pietro, con chiare e pubbliche parole.
Questo momento di crisi, infatti, segna l'indubbia sconfitta di chi ha sempre sostenuto che il silenzio serviva a proteggere l'istituzione, di chi pensava che accettare il male fosse inevitabile in una realtà di deboli esseri umani, di chi ha preferito far finta di non vedere e non sapere. La tempesta farà pulizia nei ranghi della Chiesa, spezzerà connivenze e aiuterà il Papa a costruire quella comunità di "angeli" che si augurava qualche giorno fa, sapendo certo che si tratta di una speranza umanamente impossibile da realizzare, ma ben consapevole che bisogna proporsi un modello alto a cui aspirare per potere andare avanti e migliorare. La bufera permetterà soprattutto a Benedetto XVI di proseguire libero da un pesante fardello di colpe e silenzi per quella strada che ha indicato fin dal primo giorno del suo pontificato: una strada difficile e in salita verso un miglioramento continuo, del clero e dei fedeli.
Nel suo apostolato il Papa chiede sempre di più e sembra spostare sempre più in alto l'asticella, senza accontentarsi di contare la folla dei fedeli che lo applaudono in piazza San Pietro o di constatare la ripresa delle sue parole da parte degli organi di informazione. Anzi, sembra che di ciò non si curi - e forse è anche per questo che i media si irritano - mentre è chiaro che gli importa soprattutto di guidare la Chiesa in avanti, verso una purificazione spirituale continua. È esclusivamente su tale piano che si muovono le sue parole e le sue spiegazioni dei testi sacri, è solo a questo livello che diventa eloquente il suo sguardo dolce, profondo e sempre attento.
In sostanza, a Benedetto XVI interessa solo fare bene il Papa, cioè la guida spirituale dei cattolici. Ed è questo che disturba tanto il mondo e i potenti padroni dell'informazione e della politica: il fatto che così evidentemente li consideri irrilevanti davanti all'esigenza di meditare e spiegare le parole di Gesù. "Non ci risponde, non parla di noi" continuano a protestare, e intanto non sanno ascoltare quello che dice, non sanno capire che nelle sue parole c'è sempre una risposta a quello che accade, ma spostata su un piano più alto. In una società dove vince sempre la volgarizzazione, la spiegazione più facile e quindi anche più grossolana, il Papa si propone come una frattura, una diversità per molti insostenibile.
La sua forza si rivela in questa capacità di seguire altri tempi, di muoversi su strade diverse da quelle del mondo. Per farlo bisogna essere veramente forti, bisogna saper vedere con molta chiarezza quello che accade, bisogna soprattutto saper reggere la solitudine. Benedetto XVI ne ha la capacità intellettuale e la forza spirituale e psicologica. Solo così può farci luce, può tracciare il cammino a una Chiesa purificata e libera, come sta facendo e farà. Si legge che oggi ci sono fedeli i quali, delusi dopo gli scandali degli abusi sessuali, lasciano la Chiesa. Questo, al contrario, è proprio il momento di entrare, di scommettere sul fatto evidente che Gesù non abbandona la sua sposa e che i mali non prevarranno. Grazie anche al nostro Papa Benedetto.

Repubblica “17.4.10
Il premier mi vuole zittire ma sui clan non tacerò mai"
di Roberto Saviano

"Assurdo preferire il silenzio il premier si scusi con le vittime"
Lo scrittore: non so se Mondadori è ancora adatta a me
"Sono accuse che sento da anni. Per gli Schiavone anzi sarei io il vero camorrista"
"Destra e sinistra non c´entrano. Io continuerò a parlare anche agli elettori del Pdl"

Presidente Silvio Berlusconi, le scrivo dopo che in una conferenza stampa tenuta da lei a Palazzo Chigi sono stato accusato, anzi il mio libro è stato accusato di essere responsabile di "supporto promozionale alle cosche". Non sono accuse nuove. Mi vengono rivolte da anni: si fermi un momento a pensare a cosa le sue parole significano. A quanti cronisti, operatori sociali, a quanti avvocati, giudici, magistrati, a quanti narratori, registi, ma anche a quanti cittadini che da anni, in certe parti d´Italia, trovano la forza di raccontare, di esporsi, di opporsi, pensi a quanti hanno rischiato e stanno tutt´ora rischiando, eppure vengono accusati di essere fiancheggiatori delle organizzazioni criminali per il solo volerne parlare. Perché per lei è meglio non dire.
è meglio la narrativa del silenzio. Del visto e taciuto. Del lasciar fare alle polizie ai tribunali come se le mafie fossero cosa loro. Affari loro. E le mafie vogliono esattamente che i loro affari siano cosa loro, Cosa nostra appunto è un´espressione ancor prima di divenire il nome di un´organizzazione.
Io credo che solo e unicamente la verità serva a dare dignità a un Paese. Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine o da chi commette il crimine?
Il ruolo della ‘ndrangheta, della camorra, di Cosa nostra è determinato dal suo volume d´affari - cento miliardi di euro all´anno di profitto - un volume d´affari che supera di gran lunga le più granitiche aziende italiane. Questo può non esser detto? Lei stesso ha presentato un dato che parla del sequestro alle mafie per un valore pari a dieci miliardi di euro. Questo significa che sono gli scrittori ad inventare? Ad esagerare? A commettere crimine con la loro parola? Perché? Michele Greco il boss di Cosa Nostra morto in carcere al processo contro di lui si difese dicendo che "era tutta colpa de Il Padrino" se in Sicilia venivano istruiti processi contro la mafia. Nicola Schiavone, il padre dei boss Francesco Schiavone e Walter Schiavone, dinanzi alle telecamere ha ribadito che la camorra era nella testa di chi scriveva di camorra, che il fenomeno era solo legato al crimine di strada e che io stesso ero il vero camorrista che scriveva di queste storie quando raccontava che la camorra era impresa, cemento, rifiuti, politica.
Per i clan che in questi anni si sono visti raccontare, la parola ha rappresentato sempre un affronto perché rendeva di tutti informazioni e comportamenti che volevano restassero di pochi. Perché quando la parola rende cittadinanza universale a quelli che prima erano considerati argomenti particolari, lontani, per pochi, è in quell´istante che sta chiamando un intervento di tutti, un impegno di molti, una decisione che non riguarda più solo addetti ai lavori e cronisti di nera. Le ricordo le parole di Paolo Borsellino in ricordo di Giovanni Falcone pronunciate poco prima che lui stesso fosse ammazzato. «La lotta alla mafia è il primo problema da risolvere … non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolga tutti e specialmente le giovani generazioni le spinga a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale della indifferenza della contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo mi disse: la gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l´appoggio morale dà al lavoro dei giudici, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze».
Il silenzio è ciò che vogliono. Vogliono che tutto si riduca a un problema tra guardie e ladri. Ma non è così. E´ mostrando, facendo vedere, che si ha la possibilità di avere un contrasto. Lo stesso Piano Caserta che il suo governo ha attuato è partito perché è stata accesa la luce sull´organizzazione dei casalesi prima nota solo agli addetti ai lavori e a chi subiva i suoi ricatti.
Eppure la sua non è un´accusa nuova. Anche molte personalità del centrosinistra campano, quando uscì il libro, dissero che avevo diffamato il rinascimento napoletano, che mi ero fatto pubblicità, che la mia era semplicemente un´insana voglia di apparire. Quando c´è un incendio si lascia fuggire chi ha appiccato le fiamme e si dà la colpa a chi ha dato l´allarme? Guardando a chi ha pagato con la vita la lotta per la verità, trovo assurdo e sconfortante pensare che il silenzio sia l´unica strada raccomandabile. Eppure, Presidente, avrebbe potuto dire molte cose per dimostrare l´impegno antimafia degli italiani. Avrebbe potuto raccontare che l´Italia è il paese con la migliore legislazione antimafia del mondo. Avrebbe potuto ricordare di come noi italiani offriamo il know-how dell´antimafia a mezzo mondo. Le organizzazioni criminali in questa fase di crisi generalizzata si stanno infiltrando nei sistemi finanziari ed economici dell´occidente e oggi gli esperti italiani vengono chiamati a dare informazioni per aiutare i governi a combattere le organizzazioni criminali di ogni genealogia. E´ drammatico - e ne siamo consapevoli in molti - essere etichettati mafiosi ogni volta che un italiano supera i confini della sua terra. Certo che lo è. Ma non è con il silenzio che mostriamo di essere diversi e migliori.
Diffondendo il valore della responsabilità, del coraggio del dire, del valore della denuncia, della forza dell´accusa, possiamo cambiare le cose.
Accusare chi racconta il potere della criminalità organizzata di fare cattiva pubblicità al paese non è un modo per migliorare l´immagine italiana quanto piuttosto per isolare chi lo fa. Raccontare è il modo per innescare il cambiamento. Questa è l´unica strada per dimostrare che siamo il paese di Giovanni Falcone, di Don Peppe Diana, e non il paese di Totò Riina e di Schiavone Sandokan. Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare. Credo semplicemente che ci sia un movimento culturale e morale al quale aspirare. Io continuerò a parlare a tutti, qualunque sarà il credo politico, anche e soprattutto ai suoi elettori, Presidente: molti di loro, credo, saranno rimasti sbigottiti ed indignati dalle sue parole. Chiedo ai suoi elettori, chiedo agli elettori del Pdl di aiutarla a smentire le sue parole. E´ l´unico modo per ridare la giusta direzione alla lotta alla mafia. Chiederei di porgere le sue scuse non a me - che ormai ci sono abituato - ma ai parenti delle vittime di tutti coloro che sono caduti raccontando. Io sono un autore che ha pubblicato i suoi libri per Mondadori e Einaudi, entrambe case editrici di proprietà della sua famiglia. Ho sempre pensato che la storia partita da molto lontano della Mondadori fosse pienamente in linea per accettare un tipo di narrazione come la mia, pensavo che avesse gli strumenti per convalidare anche posizioni forti, correnti di pensiero diverse. Dopo le sue parole non so se sarà più così. E non so se lo sarà per tutti gli autori che si sono occupati di mafie esponendo loro stessi e che Mondadori e Einaudi in questi anni hanno pubblicato. La cosa che farò sarà incontrare le persone nella casa editrice che in questi anni hanno lavorato con me, donne e uomini che hanno creduto nelle mie parole e sono riuscite a far arrivare le mie storie al grande pubblico. Persone che hanno spesso dovuto difendersi dall´accusa di essere editor, uffici stampa, dirigenti, "comprati". E che invece fino ad ora hanno svolto un grande lavoro. E´ da loro che voglio risposte.
Una cosa è certa: io, come molti altri, continueremo a raccontare. Userò la parola come un modo per condividere, per aggiustare il mondo, per capire. Sono nato, caro Presidente, in una terra meravigliosa e purtroppo devastata, la cui bellezza però continua a darmi forza per sognare la possibilità di una Italia diversa. Una Italia che può cambiare solo se il sud può cambiare. Lo giuro Presidente, anche a nome degli italiani che considerano i propri morti tutti coloro che sono caduti combattendo le organizzazioni criminali, che non ci sarà giorno in cui taceremo. Questo lo prometto. A voce alta.
©2010 Roberto Saviano / Agenzia Santachiara

venerdì 16 aprile 2010

AGI Roma, 13 apr. - Tutto quello che c'e' da sapere sulla 'pillola abortiva' RU486 utilizzata fino ad oggi da milioni di donne in molti paesi del mondo: cos'e', come funziona, quali le modalita' di somministrazione, gli effetti collaterali, le complicazioni, i confronti statistici, ma anche i rapporti con la legge 194, l'iter che l'ha introdotta negli ospedali. Quindi la documentazione necessaria per accedere all'uso della tecnica farmacologica d'interruzione di gravidanza entro le prime sette settimane. E' quanto contiene il libro di due ginecologi, Carlo Flamigni e Corrado Melega, 'RU486 - Non tutte le streghe sono state bruciate', per le edizioni 'L'asino d'oro' di Matteo Fago e Lorenzo Fagioli, che da giovedi' sara' in libreria. Dedicato "provocatoriamente ai membri del Consiglio Superiore di Sanita' che ha deciso l'obbligo di ricovero per le donne", si legge in una nota, il libro e' diretto "agli operatori sanitari e a tutte le donne, per fare chiarezza su un tema troppo spesso discusso in termini ideologici e troppo poco spiegato in termini scientifici. La RU486, a differenza della 'pillola del giorno dopo', che rientra nella contraccezione di emergenza, e' in realta' una sigla del mifepristone, molecola chimica in grado di neutralizzare il progesterone, l'ormone protettore della gravidanza, interrompendone la prosecuzione. Per l'aborto e' poi necessaria - precisa la nota - anche una prostaglandina (misoprostolo), che provoca l'espulsione del feto". Per la prima volta, dunque, "si spiega - affermano i due ginecologi, Flamigni e Melega - come sia possibile interrompere una gravidanza entro le prime sette settimane, non andando in sala operatoria, ma assumendo due farmaci. Una pratica accettata da tempo in tutto il resto dell'Europa e solo di recente anche in Italia, nonostante i tentativi della Chiesa di impedire e di ostacolare in tutti i modi la libera scelta del cittadino". Il libro riporta poi il protocollo "pilota" della Regione Emilia Romagna ed offre un'ampia visuale sull'intera problematica. "L'aborto farmacologico non e' una panacea - scrivono i due medici - se vivessimo in un Paese normale la RU486 sarebbe molto semplicemente considerata un mezzo alternativo a quelli gia' esistenti. C'e' da chiedersi perche' ci sia un cosi' pervicace accanimento. In effetti, crediamo che il vero bersaglio sia la legge 194, da trent'anni sottoposta ad ogni genere di attacco. Noi consideriamo l'introduzione della RU486 un passo avanti in nome della laicita' dello Stato, nel pieno rispetto della legge 194 che auspica l'uso di tecniche piu' moderne e piu' rispettose dell'integrita' fisica e psichica della donna". (AGI) Red/Pat

Adnkronos 8.4.10
Aborto: tutto quello che c'e' da sapere sulla RU486 in un libro del ginecologo Flamigni
Scritto a quattro mani con Corrado Melega esce il 15 aprile per i tipi de 'L'Asino d'oro'

Roma, 8 apr. () - Per la prima volta in poco più di 200 pagine, ecco tutto quello che bisogna sapere sulla RU486, la cosiddetta “pillola abortiva”. Lo spiega: 'RU486 Non tutte le streghe sono state bruciate', il nuovo libro dei ginecologi Carlo Flamigni e Corrado Melega, in uscita in tutta Italia il 15 aprile 2010 per i tipi de “L’asino d’oro edizioni” di Matteo Fago e Lorenzo Fagioli. Il volume si rivolge agli operatori sanitari e a tutte le donne, per fare chiarezza su un tema troppo spesso discusso in termini ideologici e troppo poco spiegato in termini scientifici.
Flamigni e Melega spiegano non solo cos’è, come funziona, le modalità di somministrazione, gli effetti collaterali, le complicazioni, i confronti statistici, ma anche i rapporti con la legge 194, l’iter che l’ha introdotta negli ospedali italiani. E a conclusione, la documentazione necessaria per accedere all’uso di questa tecnica farmacologica di interruzione di gravidanza, entro le prime sette settimane, “utilizzata fino ad oggi da milioni di donne” in molti paesi dell’Europa e del mondo, tra i quali gli Stati Uniti e la Cina.
“Per la prima volta - affermano Flamigni e Melega, i quali dedicano il libro ai membri del Consiglio Superiore di Sanità, in polemica con la recente decisione di stabilire l’obbligo del ricovero ospedaliero della donna in caso di uso della RU486 - si spiega come sia possibile interrompere una gravidanza entro le prime sette settimane, non andando in sala operatoria, ma assumendo due farmaci. Una pratica accettata da tempo in tutto il resto dell’Europa e solo di recente anche in Italia, nonostante i tentativi della Chiesa di impedire e di ostacolare in tutti i modi la libera scelta del cittadino”.
“L’aborto farmacologico non è una panacea - scrivono i due medici -, se vivessimo in un Paese normale la RU486 sarebbe molto semplicemente considerata un mezzo alternativo a quelli già esistenti. C’è da chiedersi perché ci sia un così pervicace accanimento. In effetti, crediamo che il vero bersaglio sia la legge 194, da trent’anni sottoposta ad ogni genere di attacco. Noi consideriamo l’introduzione della RU486 un passo avanti in nome della laicità dello Stato, nel pieno rispetto della legge 194 che auspica l’uso di tecniche più moderne e più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna''.
(Clt/Gs/Adnkronos)

Ansa 14.4.10
ABORTO: RU486;UN LIBRO SCRITTO DA 2 GINECOLOGI SPIEGA COS'E' FLAMIGNI E MELEGA, DEDICATO A MEMBRI CONSIGLIO SUPERIORE SANITA' ROMA

(ANSA) - ROMA, 14 APR - Che cos'é la pillola Ru486, come funziona, le modalità di somministrazione, gli effetti collaterali, le complicazioni, i confronti statistici, ma anche i rapporti con la legge 194, l'iter che l'ha introdotta negli ospedali italiani. Sono questi i contenuti del libro "RU486 Non tutte le streghe sono state bruciate", scritto a quattro mani dai ginecologi Carlo Flamigni e Corrado Melega e dedicato ai membri del Consiglio Superiore di Sanità che hanno espresso il parere che prevede l'obbligo di ricovero per le donne che decidono di abortire con la RU486. Edito da 'L'asino d'orò edizioni il volume sarà nelle librerie da domani, 15 aprile, e si rivolge agli operatori sanitari e a tutte le donne, per fare chiarezza "su un tema troppo spesso discusso in termini ideologici - si legge - ma troppo poco spiegato in termini scientifici". Non solo: nel libro si elenca la documentazione necessaria per accedere all' uso di questa tecnica farmacologica di interruzione di gravidanza "utilizzata - spiegano Flamigni e Melega - fino ad oggi da milioni di donne". "Per la prima volta - affermano - si spiega come sia possibile interrompere una gravidanza entro le prime sette settimane, non andando in sala operatoria, ma assumendo due farmaci. Una pratica accettata da tempo negli Stati Uniti, in Cina e in parte dell'Europa e solo di recente anche in Italia, nonostante i tentativi della Chiesa di impedire e di ostacolare in tutti i modi la libera scelta del cittadino". E concludono: "se vivessimo in un Paese normale la RU486 sarebbe molto semplicemente considerata un mezzo alternativo a quelli già esistenti. C'é da chiedersi perché ci sia un così pervicace accanimento. In effetti, crediamo che il vero bersaglio sia la legge 194, da trent'anni sottoposta ad ogni genere di attacco. Noi consideriamo l'introduzione della RU486 un passo avanti in nome della laicità dello Stato, nel pieno rispetto della legge 194 che auspica l'uso di tecniche più moderne e più rispettose dell'integrità fisica e psichica della donna". (ANSA).

Ansa 9.4.10
Torna in libreria dopo 40 anni “Istinto di morte e conoscenza”

A quarant'anni dalla prima pubblicazione, torna in libreria in una nuova veste curata da L'Asino d'Oro, uno dei volumi fondamentali della teoria della nascita, 'Istinto di morte e conoscenza' di Massimo Fagioli.
Opera su cui si fonda una prassi di psicoterapia di gruppo detta Analisi Collettiva, il libro, arricchito ora da un'appendice inedita a firma dello stesso Fagioli, affronta varie tematiche: dalle cause della pazzia all'origine e allo sviluppo della psiche, passando per le scoperte scientifiche sull'identità umana preverbale, fino ad arrivare alla teorizzazione della cosiddetta 'pulsione di annullamento' e all'interpretazione della dimensione onirica.
E poi la distinzione tra frustrazione e aggressione, identità e identificazione, desiderio e bramosia, rifiuto e negazione, tutti concetti rigorosamente riferiti però ad una realtà concreta, che entrano così a far parte del lessico di una nuova teoria psicodinamica a partire dagli anni Settanta.
Un vero e proprio vocabolario della psichiatria di cui è prevista, a breve, anche la pubblicazione in Germania.(ANSA).

VENDOLA: «Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione».
Repubblica — 19 marzo 1985 pagina 4

IL GAY DELLA FGCI

di STEFANO MALATESTA



ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".

Repubblica 16.4.10
Il congresso si svolge a bordo di una nave, da Savona a Palma di Maiorca
E ora la psicanalisi se ne va in crociera
di Luciana Sica

Umberto Galimberti: "Sembra un viaggio in quella terra confusa che oggi è la psicoterapia, in balìa dell´instabilità di cui il mare è una bella metafora"

Il nostro mare affettivo: la psicoterapia come viaggio»: titolo brillante per un congresso. Tanto più se si tiene in crociera. E parlare degli itinerari dell´anima e nel frattempo andare per mare sarà anche vista come un´idea mediatica, ma non sembra neppure così malvagia. Perché l´impressione è un´altra, se diversi terapeuti escono da cenacoli ristretti, e si mostrano per quello che sono: "veri" e variamente attrezzati ad affrontare il dolore, senza disdegnare la dimensione del piacere. È su una nave - da oggi a martedì prossimo - che la Federazione italiana delle associazioni di psicoterapia ha scelto di tenere il quarto appuntamento congressuale. Salpa da Savona, per attraccare a Barcellona, Palma di Maiorca, Ajaccio: alla fine le adesioni sono state circa 400 (familiari compresi).
L´idea è venuta alla presidente della Federazione, Patrizia Moselli, che difende la metafora legata al mare, assai più del possibile effetto di risonanza che neppure la fa inorridire: «Il viaggio rappresenta il "percorso" della psicoterapia, un´avventura interiore dalle rotte imprevedibili, l´apertura di nuovi orizzonti mentali». Nessun sopracciglio sollevato, nessun timore di facili battute? No, dice la Moselli: «La nostra è un´associazione di associazioni, con una visione non unica ma unitaria della psicoterapia. Tutti hanno trovato interessante creare uno spazio vitale per un confronto aperto tra modelli teorici e clinici diversi. E poi, perché dovremmo infastidirci, se si parla di noi?».
È vero che qui non si tratta di psicoanalisti più o meno "classici", anzi per la maggior parte dei loro diretti concorrenti: post-cognitivisti, o anche terapeuti della famiglia e della bioenergetica, comunque rappresentanti di approcci ben riconoscibili (cognitivo, corporeo, integrato, analitico-dinamico, sistemico, umanistico). In più si è sempre coltivato il sospetto che anche tra queste scuole ci sia una certa competizione - visto che il mercato della psiche non è poi un´astrazione. Ora invece si ritrovano a navigare nelle acque del Mediterraneo.
Umberto Galimberti, outsider del congresso anche se ospite di gran fama, ha un suo punto di vista di segno comunque problematico: «La crociera a me sembra un viaggio in quella terra confusa che è oggi la psicoterapia, in balia dell´instabilità di cui il mare è una bella metafora. Approderà su qualche terra sicura? Penso di no perché, come già ci avvertiva Eraclito: "Per quanto tu cammini e percorra ogni strada, non raggiungerai mai i confini dell´anima, tanto è profondo il suo logos"».
Domattina Galimberti terrà una relazione su «Il viaggio della psicoanalisi-psicoterapia: dalle origini romantiche all´età della tecnica», estranea all´intonazione delle solite litanie: «Nello scenario contemporaneo, dominato dall´efficienza e dalla funzionalità, l´anima - che si alimenta anche di ciò che razionale non è - soffre. E allora: o il ricorso agli psicofarmaci, o il cammino più arduo della conoscenza di sé che avviene anche attraverso una rivisitazione delle proprie idee. Senza un loro vaglio critico, non è consentito comprendere il mondo in cui viviamo e i suoi rapidi cambiamenti... Ad esempio, non è il caso di pensare che oltre all´"inconscio pulsionale" di cui ci ha parlato Freud si sia formato un "inconscio tecnologico", che a nostra insaputa ci governa e di cui le varie scuole di psicoterapia ancora non si occupano?».
Cinque giorni di interventi, workshop, lectures, sessioni parallele. Con un finale a sorpresa: una video intervista con Zygmunt Bauman (a cura di Rodolfo De Bernart), legata al dibattito conclusivo sul tema del narcisismo nell´era post-moderna della liquidità dov´è proprio la dimensione dell´intimità - il "reciproco coinvolgimento" - a rischiare il naufragio.

Repubblica 16.4.10
Si uccise anche la donna amata dallo scrittore
Quel suicidio sulla scia di Pavese

TORINO. Era la «donna venuta di marzo», lo «screziato sorriso», la destinataria delle poesie di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi e della dedica de La luna e i falò: «For C. / Ripeness is all», "la maturità è tutto". L´attrice americana Constance Dowling, bella e sensuale, fu l´ultima tormentata passione di Cesare Pavese. Che si uccise anche e soprattutto per quell´amore breve e perduto, nella notte fra il 26 e 27 agosto del 1950. "Connie", sposatasi con un produttore, se ne sarebbe andata a 49 anni a Los Angeles, nel 1969, ufficialmente per le conseguenze di una malattia. La verità, invece, è un´altra. L´ha scoperta Lawrence G. Smith, ex banchiere a New York, che adesso si occupa di letteratura e che ha scritto un saggio interessante e documentato, Cesare Pavese and America. Life, Love and Literature, pubblicato dalla University of Massachusetts Press. «Pavese e Connie sono uniti dal medesimo tragico epilogo delle loro esistenze», dice. Perché, spiega ancora, «anche la Dowling si suicidò. Lo fece come Pavese, con le stesse modalità: una massiccia dose di sonniferi».
In questi giorni a Torino, dove ha partecipato a un convegno del Centro studi "Gozzano e Pavese" diretto da Mariarosa Masoero, che sta digitalizzando tutte le opere e le carte del letterato di Santo Stefano Belbo, lo studioso racconta di essere venuto a conoscenza della fine di Connie da Jonathan Shaw, figlio di Doris Dowling, sorella di Constance. Lo ha incontrato in una maniera rocambolesca. Aveva saputo che Jonathan voleva vendere delle lettere, dei libri e dei soggetti cinematografici pavesiani, in possesso di sua madre e di Constance. Shaw, però, stava per partire per Rio de Janeiro, dove vive. Smith è riuscito a raggiungerlo, Jonathan aveva già le valigie in mano. Ha acquistato le carte e, chiacchierando con lui, ha saputo come era morta l´attrice della quale Pavese si era innamorato all´inizio del 1950. La circostanza gli è stata poi confermata da uno dei due figli di Constance.
Non si sa perché Connie si sia tolta la vita. E nemmeno se abbia pensato a Pavese ingerendo i sonniferi. Quando lesse sui giornali che lui si era ammazzato, avrebbe esclamato: «Non sapevo che fosse uno scrittore così famoso!». Certo è che il destino ha voluto che quell´amore lacerato, venisse suggellato dallo stesso finale drammatico per chi lo aveva vissuto.

Venerdì di Repubblica, 16 aprile 2010
Con l'arrivo di Ipazia, giustizia è fatta (in sala)
Finalmente il 23 aprile arriva anche in Italia AGORA, il film di Alejandro Amenábar sulla morte annunciata della filosofa Ipazia. Il ritardo è grave e sospetto. Soprattutto perché potremo vederlo soltanto "dopo" le ultime elezioni... Amenábar è bravo come sempre, quando inquadra uomini piccoli come formiche che, in nome di diverse religioni, distruggono ogni sapere e si uccidono tra loro. Il pensiero religioso sull'anima, da due millenni, si realizza nella strage dei corpi. E delle menti. Nel caso di Ipazia, in più, c'è stata l'insopportabile realtà che fosse una donna. Da cancellare dal mondo degli uomini e dalla memoria della storia. Perché le donne, lo diceva san Paolo, devono stare in silenzio.
Paolo Izzo / e-mail

Faccio volentieri pubblicità al film di Amenábar. Non credo che sia distribuito con ritardo per ragioni elettorali. Ma non c'è dubbio che la polemica antireligiosa (nel senso di antidogmatica) del film sia molto poco sintonica con il clima politico e culturale del Paese. E sia malsopportata dai vecchi poteri clericali e dai "cristiani rinati" della Lega, che sono le nuove Guardie svizzere.
Michele Serra
Versione originale della lettera:

Ipazia che parla delle donne di oggi
Finalmente il 23 aprile arriva anche in Italia AGORA, il film di Alejandro Amenábar sulla cronaca della morte annunciata della filosofa Ipazia. Il ritardo è grave e sospetto. Soprattutto perché potremo vederlo soltanto "dopo" le ultime elezioni... Amenábar è bravo come sempre, quando inquadra uomini piccoli come formiche che, in nome di diverse religioni, devastano la Biblioteca alessandrina, distruggono ogni sapere e si uccidono tra loro, in un pianeta che diventa sempre più bello... man mano che ce ne si allontana. Quando il silenzio cresce. Quando la mente non è più affollata da astratte dispute su presunti dèi, ma torna a pensare senza credere. La mente di Ipazia, le sue idee, erano lì: lontane dal mondo delle formiche nere, in tenace, meravigliata osservazione di stelle erranti e movimenti rotazioni rivoluzioni. Sogno di bambina, sete di conoscenza di donna. Questo il significato di AGORA, ma il senso, a voler cercarlo, è anche un altro: che Ipazia sia stata uccisa perché donna, da quelli che la odiavano in quanto tale, libera e indipendente, identità e immagine, vitalità e fantasia. E da quelli che dicevano di amarla... Dai secoli dei secoli, la guerra di religione è la norma per imporre un dogma; il pensiero religioso sull'anima, da due millenni, si realizza nella strage dei corpi. E delle menti. Nel caso di Ipazia, in più, c'è stata l'insopportabile realtà che fosse una donna. Da fare a pezzi, annullare, cancellare dal mondo degli uomini e dalla memoria della storia. Perché le donne, lo diceva san Paolo, devono stare in silenzio. Cioè: non esistere.
Paolo Izzo
Roma, 2 aprile 2010
paolo@paoloizzo.net

il Fatto 15.4.10
Vaticano allo sbando
Dalle gaffes di Bertone all’incapacità di gestire gli scandali, la Santa Sede è senza leadership
di Marco Politi

Il governo di un miliardo e duecento milioni di fedeli esige
un contatto costante

Inaccettabile in qualsiasi paese civile l’equazione omosessualità-pedofilia, fatta dal cardinale Bertone, è soprattutto segno di caos inquietante che regna nella cabina di comando della Chiesa cattolica. L’impressione è che la Santa Sede, celebrata per la sua millenaria sapienza diplomatica, abbia smarrito la bussola di un esercizio efficace del potere e del rapporto con l’opinione pubblica. Non da oggi la deriva si manifesta in un papato, segnato da cicliche crisi, ma tanto più è stupefacente nel momento attuale.
L’OMERTÀ. Fermo immagine, per un attimo. Dalla sua elezione Benedetto XVI (lasciamo da parte le pagine grigie degli anni Ottanta) è impegnato in un’opera difficile di pulizia nelle incrostazioni di omertà, insabbiamenti e sistematica disattenzione verso le vittime da parte dell’istituzione ecclesiastica. Esplosi gli scandali di Irlanda e Germania, e dopo la scoperta del colpevole ostruzionismo attuato anche in Vaticano nei decenni passati, Ratzinger sta tenendo la barra su una strategia che prevede trasparenza, rigore, ascolto delle vittime, punizione dei colpevoli e loro deferimento ai tribunali statali. Nella Lettera agli Irlandesi ha fatto un coraggioso mea culpa: “In nome della Chiesa esprimo vergogna e rimorso”. E’ una missione di lunga lena, per certi aspetti rischiosa poiché tocca le strutture portanti dell’istituzione ecclesiastica e il suo funzionamento per secoli interi. E’ un traguardo, che richiede altro lavoro: nuove istruzioni, l’apertura dei vecchi dossier, un controllo costante sulle diocesi, il superamento delle ambiguità contenute nelle recenti Linee-guida dove (a ben leggere) la denuncia dei preti-predatori alle autorità civili è obbligatoria solo negli Stati dove già ora è imposta dalla legge. Dunque in Italia tutto resta affidato all’umore dei singoli presuli!
NEL CAOS. E cosa succede in Vaticano mentre Ratzinger è impegnato in questo lavoro di Sisifo? Ognuno va per conto suo. Servirebbe un efficace lavoro di squadra per rendere concreta la strategia papale e convincere l’opinione pubblica. E invece trionfa l’estemporaneità, l’improvvisazione, una raffinata abilità di aprire nuovi fronti di conflitto. Ha cominciato il predicatore pontificio Cantalamessa a citare l’infelice “lettera di un amico ebreo” per proporre un’oscena equiparazione fra le critiche rivolte alla Chiesa per gli abusi sessuali e l’antisemitismo nazista. Risultato: il furore del mondo ebraico. Poi interviene il decano del collegio cardinalizio, Sodano, bollando di “chiacchiericcio” le rivelazioni dei media. Chiacchiericcio? E’ stata forse la stampa ecclesiastica a informare i lettori che centinaia di bambini sordomuti erano stuprati da un prete? Chiacchiericcio le inchieste, che hanno spinto il pontefice a accelerare la marcia verso la tolleranza zero? Risultato: due terzi degli italiani criticano l’operato della Chiesa e del Papa. Quindi nei sacri palazzi viene intonata la litania del vittimismo (che Ratzinger ha accuratamente evitato nella lettera agli Irlandesi) e dell’aggressione al cattolicesimo. Risultato: tre quinti degli americani dissentono, un quarto dei tedeschi pensa di lasciare la Chiesa cattolica, mentre la casa natale di Ratzinger viene deturpata da scritte che non sono antipapali, ma nella loro brutalità esprimono una furia montante contro l’istituzione ecclesiastica: “Fottetevi per conto vostro”, c’è scritto. E dovrebbe far riflettere sull’urgenza dell’opera di “purificazione”, cui richiamano da giorni il portavoce papale Lombardi e il cardinale Bagnasco (in questo esatti interpreti della linea di Benedetto XVI). Come se non bastasse, nel pieno di una crisi di credibilità senza pari per la Chiesa in epoca contemporanea, il Segretario di Stato Bertone apre un nuovo fronte con l’effetto di scatenare oltre l’indignazione delle organizzazioni omosessuali (e di milioni di gay cattolici) la condanna del governo del filo-cattolico Sarkozy, la ripulsa bipartisan dei cileni compresi i democristiani, l’asciutta smentita persino dell’associazione degli psichiatri cattolici italiani: “Non c’è nessun legame tra pedofilia e omosessualità”.
LA SANTA SEDE. Sbalorditi i diplomatici accreditati presso la Santa Sede e gli osservatori di cose vaticane si chiedono come tutto ciò sia possibile. Sarebbe preferibile, al limite, che simili dissonanze fossero frutto – come a volte accadeva in passato – di scontri interni alla Curia tra linee politiche e religiose differenti. Ma la realtà è più banale, sconsolatamente. Manca ai vertici della Chiesa – non da oggi – una guida coordinatrice ferma che sappia cogliere costantemente il polso dell’opinione pubblica, tenere presente il quadro della situazione geopolitica, concentrare gli sforzi della macchina curiale sull’obiettivo primario. Continua a mancare chi sia in grado di consigliare il Papa che non basta un intervento o un documento ben calibrato per soddisfare una tantum bisogni ed emergenze prodotte da una crisi. Il governo di un miliardo e duecento milioni di fedeli non è “definibile” a tavolino come un trattato teologico. Esige una leadership ininterrotta e un contatto costante con le proprie comunità e la società contemporanea. Non è questione di tecnica della comunicazione, come spesso si sente. E’ un problema di s-coordinamento del governo, che accompagna il pontificato dai primi suoi passi. Papa Ratzinger, impegnato nella battaglia che più gli sta a cuore, ne è tragicamente la vittima. Ma in ultima analisi la responsabilità dell’organizzazione della leadership ricade su di lui.

il Fatto 15.4.10
Aprite gli archivi
Segreto pontificio da abolire
di Paolo Flores d’Arcais

Negli ultimi tre decenni, la Chiesa gerarchica di Papa Wojtyla e di Papa Ratzinger ha denunciato a polizia e magistratura i casi di pedofilia ecclesiastica di cui veniva a conoscenza? Questa è l’unica domanda da porre, se si vuole affrontare davvero il “chi” delle responsabilità per la tragedia di decine di migliaia di bambini violentati da sacerdoti cattolici. Una domanda che in Italia nessuno avanza (lo ha fatto solo questa testata), ma che all’estero arriverà perfino in alcuni tribunali, visto che negli Usa esiste un reato assai grave che si chiama “ostruzione di giustizia”. La risposta alla domanda è purtroppo un rotondo no. La Chiesa di Wojtyla e di Ratzinger non ha mai denunciato al “braccio secolare” i delitti di pedofilia che avvenivano tra i suoi pastori. L’altro ieri la sala stampa vaticana ha spiegato che fin dal 2003 esistevano procedure operative mai rese pubbliche e attribuibili all’allora cardinal Ratzinger, riassunte in un testo di “linee guida” messo online sul sito ufficiale della Santa Sede, secondo cui “si deve sempre seguire la legge civile per quanto riguarda la denuncia dei crimini alle appropriate autorità”. La maggior parte dei quotidiani semplifica in un apologetico: si denunci sempre alle autorità civili! Le cose non stanno così. Le “linee guida” sono un testo anonimo e privo di data, scritto in inglese. Testo non solo segreto (“mai reso pubblico”) ma evidentemente informale e rivolto al massimo a una o più diocesi di lingua inglese. I paesi che impongono a chi non sia pubblico ufficiale di denunciare un reato di cui venisse a conoscenza non sono molti (ancor meno se il reato è prescritto). Il Vaticano riesce così a far credere – senza una vera e propria menzogna – di aver sempre denunciato i preti pedofili alle autorità statali. Siamo agli antipodi del “il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal maligno” che leggiamo nel Vangelo (Matteo 5,37). E soprattutto: nessuna
denuncia è mai stata fatta. Se quel documento fosse stato davvero operativo, la vera notizia sarebbe che da sette anni tutti i vescovi del mondo disobbediscono al Papa e al suo Prefetto della Congregazione per la difesa della Fede. Uno scoop da premio Pulitzer. Credenti e non credenti aspettano perciò l’unica azione necessaria: che il “segreto pontificio” venga abrogato e sostituito con “motu proprio” dall’obbligo di denunciare sempre il prete pedofilo (anche quando per la legge è solo facoltativo) e che gli archivi vengano consegnati alla magistratura. Il resto è ipocrisia.

il Fatto 15.4.10
Lo scandalo
Malta aspetta il Papa e il vescovo incontra le vittime degli abusi

Benedetto XVI prepara il suo viaggio a Malta previsto per il prossimo sabato. E ieri sette vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti hanno incontrato mons. Paul Cremona, arcivescovo de La Valletta, cui hanno consegnato una lettera indirizzata a Papa Ratzinger. La Chiesa maltese ha istituito una commissione per investigare sulle accuse di pedofilia nel 1999, e in questi ultimi 11 anni sono emersi diversi casi a carico di almeno 45 sacerdoti. Le vittime hanno chiesto ancora una volta la possibilità di incontrare Benedetto XVI. “Sia la Chiesa sia la società devono discutere profondamente il fenomeno della pedofilia. Solo così il problema può essere ridotto e sconfitto”, ha detto l’Arcivescovo di Malta, mons. Paolo Cremona, parlando alla televisione di Stato dopo che ieri notte ha avuto un incontro con sette delle vittime che hanno subito abusi da preti pedofili negli anni ‘80 quando frequentavano un orfanotrofio. “Questi uomini hanno fatto bene a raccontare quello che hanno subito e a parlare con la stampa. Per la Chiesa, questi casi sono umilianti, perché la gente deve avere fiducia nei sacerdoti”, ha spiegato mons. Cremona.

il Fatto 15.4.10
Jeff Anderson: “Tutti i processi ai preti pedofili portano a Roma”
Parla l’avvocato che ha informato il New York Times sul caso Murphy
di Alessandra Cardinale

“Tutti i processi portano a Roma. E Roma deve agire”. Schietto, anche quando si parla di faccende private, Jeff Anderson è l’avvocato che ha fornito al New York Times i documenti sul caso di Lawrence Murphy, il prete pedofilo di Milwaukee, chiamando in causa anche Papa Benedetto XVI. Dal suo studio legale nel cuore di St. Paul in Minnesota ha difeso centinaia di vittime di abusi sessuali, di “survivors” come li chiama lui. Mentre attende il verdetto della Corte Suprema di Washington che deve giudicare sull’ammissibilità della discussione in un tribunale federale del caso di un prete nell’Oregon, l’“avvocato del diavolo” – come amano definirlo i suoi nemici – lavora contemporaneamente ad altri fascicoli, “ogni giorno ci arrivano testimonianze nuove”, dice. Ex ateo, ora vicino alla Chiesa Luterana, padre di sei figli avuti da due matrimoni e che, ci tiene a specificare, “sono tutti cresciuti nelle parrocchie di quartiere”, Anderson liquida le insinuazioni che lo vorrebbero legato a sedicenti movimenti sionisti conun“nonnesonulla”ea quelli che lo accusano di essere uno spietato businessman risponde secco, “non lo faccio per i soldi”.
Avvocato Anderson, la sua prima causa contro la Chiesa cattolica risale al 1983. Da allora ha portato nei tribunali americani centinaia di casi di preti pedofili. Cosa la motiva ad andare avanti?
Dal 1983 lavoro con la stessa abnegazione a ciascun caso che decido di difendere. Sono oltre 200 le cause che ho intentato contro preti, vescovi e cardinali e, di certo, non smetterò ora. Dopo aver visto le ferite dei bambini abusati sessualmente da persone di cui si fidavano ciecamente e dopo aver assistito ai perduranti tentativi di insabbiamento da parte di molti nel clero non mi tiro indietro. L’obiettivo principale del mio lavoro è quello di difendere i minori, tentando nel mio piccolo di regalargli una speranza e di proteggere altri ragazzi da eventuali abusi a cui potrebbero essere sottoposti.
Sono in molti a considerarla un uomo di affari che ha finora guadagnato oltre 60 milioni di dollari strappati alle diocesi americane. Lei come risponde?
Rispondo sempre allo stesso modo a queste basse insinuazioni: non lo faccio per soldi. Ma perché alcuni devono pagare per le sofferenze inflitte a degli innocenti. Punto.
Com’è arrivato in possesso dei documenti pubblicati dal New York Times?
Negli Usa è possibile obbligare l’arcidiocesi a produrre le documentazioni necessarie perché un procedimento civile non venga arrestato. Questo, in sostanza, è quello che ho fatto. Non è una procedura facile né veloce. Abbiamo infatti impiegato circa due anni per ottenere quei documenti, che ho poi deciso di inviare al New York Times perché l’opinione pubblica ne fosse informata.
Pensava di suscitare tutta questa attenzione mediatica?
Francamente no. Non mi aspettavo una tale copertura da parte dei media. Ma ritengo che sia un bene nonostante possa provocare nelle vittime degli inevitabili traumi; l’opinione pubblica deve venire a conoscenza della verità e diventare consapevole dei danni che alcuni religiosi hanno arrecato a centinaia di bambini.
Prima ha detto di aver visto molto spesso membri del clero insabbiare e coprire il reato di pedofilia. Cosa intendeva dire?
Lavoro sui casi di pedofilia dal 1983 e ogni volta gli appartenenti al clero hanno sempre lo stesso identico atteggiamento di fronte a queste tragedie, vale a dire vogliono a tutti i costi mantenere tutto segreto al fine non di proteggere le vittime ma la propria reputazione. Su 200 cause intentate contro la Chiesa, le volte che preti, vescovi o cardinali hanno collaborato possono contarsi sul palmo di una mano. La tendenza generale è di voler nascondere gli abusi.
Alcuni ritengono che lei abbia legami con il movimento sionista.
Guardi, non ne so nulla. Tra l’altro i figli del mio primo matrimonio sono cattolici mentre gli altri tre avuti con la mia attuale moglie frequentano la Chiesa Luterana. Vorrei fosse chiaro che la mia battaglia in favore delle vittime di abusi sessuali non ha niente a che vedere con la religione o altre ideologie. E tengo anche a precisare che non c’è niente di personale contro Papa Benedetto XVI. Il mio obiettivo da 25 anni è sempre lo stesso: difendere al meglio le vittime, tentare di far sì che non si ripetano tali tragedie e obbligare la Chiesa a prendere delle misure efficaci e tempestive nei confronti dei colpevoli.
Ha mai ricevuto minacce o pressioni?
Sì, ricevo alcune minacce via mail. Forse un paio al giorno ma in compenso ogni giorno ne ricevo centinaia di sostegno e di incitamento a continuare.
Qual è il suo obiettivo? Crede davvero di riuscire a trascinare in un’aula di tribunale il Papa?
Voglio che il Vaticano sviluppi un’efficace e tempestiva politica di protezione nei confronti dei minori. Tutti i processi portano a Roma. Ed è a Roma che vanno cambiate le carte in tavola. Mi riferisco a tutta la legislatura del diritto canonico che prevede il ricorso al silenzio per evitare scandali che possano mettere in difficoltà l’istituzione Chiesa e lo stesso Stato del Vaticano. Ripeto non ce l’ho con questo Papa ma con la struttura giuridico-legislativa che presiede. Non penso che l’attuale Papa sia meglio o peggio del suo predecessore, Giovanni Paolo II e come lui tutti gli altri. Tutti hanno agito sotto la stessa copertura giuridica, a mio avviso antiquata e, nello specifico degli abusi sessuali, totalmente irresponsabile.
Avvocato Anderson, perché soltanto ora le sue accuse arrivano fino a Roma? Perché non prima visto che lei si occupa da anni di questa tipologia di reati?
Non è vero. Nel 2002 abbiamo fatto causa al Vaticano. Dunque, non è la prima volta. Probabilmente ora se ne parla con più tranquillità e l’opinione pubblica sembra sia più interessata al problema. Nel passato sono riuscito a far testimoniare tre cardinali e dozzine di vescovi. Questi non sono dettagli ma grandi passi avanti da non trascurare.
Lei è ateo?
Lo sono stato per anni. E’ difficile mantenere la fede dopo tutto quello che si vede. Ma da tempo mi sono riconciliato con la religione.

il Fatto 15.4.10
Don Stefano Rocca
Lecce, sospetti di abusi sessuali sul prete dalla doppia vita
di Antonio Massari

Dal pulpito della sua chiesa, don Stefano, invitava la popolazione di Ugento a rompere il muro dell’omertà. La domenica esortava i fedeli a fornire elementi utili per le indagini. Parliamo dell’inchiesta su un omicidio eccellente, compiuto in Salento, la notte tra il 14 e 15 giugno 2008: l’omicidio di Peppino Basile, consigliere comunale e provinciale dell’Idv, ammazzato con 22 coltellate. Ora, però, è proprio su don Stefano Rocca che l’omertà dovrebbe cadere, se è vero quanto sostiene la Procura di Lecce, che lo indaga per molestie – secondo le testimonianze raccolte – a sfondo sessuale. Le indagini sono in corso. La presunzione d’innocenza, soprattutto in questi casi, è d’obbligo. Ma i ragazzi molestati, adesso maggiorenni, a giudicare dal fascicolo d’indagine, sono almeno tre. E si tratterebbe di molestie piuttosto dure. I sospetti su don Stefano, nell’ipotesi investigativa, sono confortati da parecchie intercettazioni telefoniche. Le conversazioni captate, e registrate dagli inquirenti, pur non dimostrando reati, testimoniano che il parroco di Ugento avrebbe avuto una sorta di “doppia vita”. E la vicenda sta scatenando – come sempre accade in questi casi – un feroce dibattito nel paese. Una parte del quale sostiene che le molestie non siano mai esistite. Al contrario: la vicenda sarebbe stata montata ad arte – non dagli inquirenti, ma da esposti e denunce a volte anonime – proprio per punire don Stefano del suo interessamento sul caso Basile.
La procura però, per quanto ci è dato sapere, ha agito con la massima cautela e fonda le accuse su una pluralità di indizi e testimonianze. D’altronde, è proprio dall’omicidio Basile che bisogna partire, per ricostruire questa storia. L’indagine su don Stefano, infatti, è una costola dell’inchiesta sulla morte del consigliere Idv. Ascoltati dagli inquirenti, alcuni testimoni, iniziano a fornire indicazioni sulle presunte molestie perpetrate dal parroco. Tra denunce, esposti e testimonianze, la posizione di don Stefano si aggrava e la procura apre un fascicolo su di lui. Sul parroco – o meglio: sulle sue testimonianze per il caso Basile – già un anno fa, il procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, aveva espresso pubblicamente delle perplessità. “Don Stefano Rocca è risultato esposto perché ha fatto credere di sapere cose che, in realtà, non sapeva”, disse Motta al Corriere del Mezzogiorno. E aggiunse: “Anche lui, poi, non si sottrae all’atteggiamento di chi sa e non parla o di chi comunque non sa”. Qualche dubbio sull’atteggiamento del parroco, nella vicenda Basile, era quindi ampiamente sorto durante le indagini che portarono, poi, all’arresto due persone: Vittorio Colitti e l’omonimo nipote che, all’epoca dei fatti, era minorenne. Il punto è che l’indagine sulle molestie, che oggi riguarda don Stefano, inizia a gettare una strana ombra anche sul delitto Basile. Nell’inchiesta – che vede indagati i due Colitti, uno dei quali già rinviato a giudizio – c’è un punto sfuggente: resta ancora misterioso il movente.
Nei giorni scorsi, in merito all’accusa di molestie, don Stefano ha chiesto di essere ascoltato alla procura. Dal Palazzo di Giustizia, però, non è giunta nessuna richiesta. Per il momento, quindi, il parroco non sarà interrogato. Nessun segnale, per ora, neanche dalla Curia. Anche se, sul fenomeno dei preti pedofili in Puglia (nel caso di don Stefano, però, non si hanno evidenze di molestie su minori) giorni fa era intervenuto l’ex numero uno della conferenza episcopale pugliese, nonché ex vescovo di Lecce, monsignor Francesco Ruppi: “In Puglia, negli ultimi anni, su più di milleottocento preti, non contiamo più d’una decina di casi”. Non sappiamo se sia anche il caso di don Stefano Rocca, che per il momento è coinvolto solo nella fase delle indagini preliminari, ma è certo che la vicenda lascerà il segno nella cittadina di Ugento, già sconvolta pochi anni fa dall’omicidio di Basile. Una vicenda nella quale, la figura del parroco, pareva quella di un impegnato ricercatore di giustizia. Una figura oggi drammaticamente capovolta.

Repubblica 15.4.10
Benedetto XVI ha fallito i cattolici perdono la fiducia
di Hans Küng

negli anni 1962-1965 Joseph Ratzinger – oggi Benedetto XVI – ed io eravamo i due più giovani teologi del Concilio. Oggi siamo i più anziani, e i soli ancora in piena attività. Ho sempre inteso il mio impegno teologico come un servizio alla Chiesa. Per questo, mosso da preoccupazione per la crisi di fiducia in cui versa questa nostra Chiesa, la più profonda che si ricordi dai tempi della Riforma ad oggi, mi rivolgo a voi, in occasione del quinto anniversario dell´elezione di papa Benedetto al soglio pontificio, con una lettera aperta. È questo infatti l´unico mezzo di cui dispongo per mettermi in contatto con voi.
Avevo apprezzato molto a suo tempo l´invito di papa Benedetto, che malgrado la mia posizione critica nei suoi riguardi mi accordò, poco dopo l´inizio del suo pontificato, un colloquio di quattro ore, che si svolse in modo amichevole. Ne avevo tratto la speranza che Joseph Ratzinger, già mio collega all´università di Tübingen, avrebbe trovato comunque la via verso un ulteriore rinnovamento della Chiesa e un´intesa ecumenica, nello spirito del Concilio Vaticano II.
Purtroppo le mie speranze, così come quelle di tante e tanti credenti che vivono con impegno la fede cattolica, non si sono avverate; ho avuto modo di farlo sapere più di una volta a papa Benedetto nella corrispondenza che ho avuto con lui.
Indubbiamente egli non ha mai mancato di adempiere con scrupolo agli impegni quotidiani del papato, e inoltre ci ha fatto dono di tre giovevoli encicliche sulla fede, la speranza e l´amore. Ma a fronte della maggiore sfida del nostro tempo il suo pontificato si dimostra ogni giorno di più come un´ulteriore occasione perduta, per non aver saputo cogliere una serie di opportunità:
- È mancato il ravvicinamento alle Chiese evangeliche, non considerate neppure come Chiese nel senso proprio del termine: da qui l´impossiblità di un riconoscimento delle sue autorità e della celebrazione comune dell´Eucaristia.
- È mancata la continuità del dialogo con gli ebrei: il papa ha reintrodotto l´uso preconciliare della preghiera per l´illuminazione degli ebrei; ha accolto nella Chiesa alcuni vescovi notoriamente scismatici e antisemiti; sostiene la beatificazione di Pio XII; e prende in seria considerazione l´ebraismo solo in quanto radice storica del cristianesimo, e non già come comunità di fede che tuttora persegue il proprio cammino di salvezza. In tutto il mondo gli ebrei hanno espresso sdegno per le parole del Predicatore della Casa Pontificia, che in occasione della liturgia del venerdì santo ha paragonato le critiche rivolte al papa alle persecuzioni antisemite.
- Con i musulmani si è mancato di portare avanti un dialogo improntato alla fiducia. Sintomatico in questo senso è il discorso pronunciato dal papa a Ratisbona: mal consigliato, Benedetto XVI ha dato dell´islam un´immagine caricaturale, descrivendolo come una religione disumana e violenta e alimentando così la diffidenza tra i musulmani.
- È mancata la riconciliazione con i nativi dell´America Latina: in tutta serietà, il papa ha sostenuto che quei popoli colonizzati «anelassero» ad accogliere la religione dei conquistatori europei.
- Non si è colta l´opportunità di venire in aiuto alle popolazioni dell´Africa nella lotta contro la sovrappopolazione e l´AIDS, assecondando la contraccezione e l´uso del preservativo.
- Non si è colta l´opportunità di riconciliarsi con la scienza moderna, riconoscendo senza ambiguità la teoria dell´evoluzione e aderendo, seppure con le debite differenziazioni, alle nuove prospettive della ricerca, ad esempio sulle cellule staminali.
- Si è mancato di adottare infine, all´interno stesso del Vaticano, lo spirito del Concilio Vaticano II come bussola di orientamento della Chiesa cattolica, portando avanti le sue riforme.
Quest´ultimo punto, stimatissimi vescovi, riveste un´importanza cruciale. Questo papa non ha mai smesso di relativizzare i testi del Concilio, interpretandoli in senso regressivo e contrario allo spirito dei Padri conciliari, e giungendo addirittura a contrapporsi espressamente al Concilio ecumenico, il quale rappresenta, in base al diritto canonico, l´autorità suprema della Chiesa cattolica:
- ha accolto nella Chiesa cattolica, senza precondizione alcuna, i vescovi tradizionalisti della Fraternità di S. Pio X, ordinati illegalmente al di fuori della Chiesa cattolica, che hanno ricusato il Concilio su alcuni dei suoi punti essenziali;
- ha promosso con ogni mezzo la messa medievale tridentina, e occasionalmente celebra egli stesso l´Eucaristia in latino, volgendo le spalle ai fedeli;
- non realizza l´intesa con la Chiesa anglicana prevista nei documenti ecumenici ufficiali (ARCIC), ma cerca invece di attirare i preti anglicani sposati verso la Chiesa cattolica romana rinunciando all´obbligo del celibato.
- ha potenziato, a livello mondiale, le forze anticonciliari all´interno della Chiesa attraverso la nomina di alti responsabili anticonciliari (ad es.: Segreteria di Stato, Congregazione per la Liturgia) e di vescovi reazionari.
Papa Benedetto XVI sembra allontanarsi sempre più dalla grande maggioranza del popolo della Chiesa, il quale peraltro è già di per sé portato a disinteressarsi di quanto avviene a Roma, e nel migliore dei casi si identifica con la propria parrocchia o con il vescovo locale.
So bene che anche molti di voi soffrono di questa situazione: la politica anticonciliare del papa ha il pieno appoggio della Curia romana, che cerca di soffocare le critiche nell´episcopato e in seno alla Chiesa, e di screditare i dissenzienti con ogni mezzo. A Roma si cerca di accreditare, con rinnovate esibizioni di sfarzo barocco e manifestazioni di grande impatto mediatico, l´immagine di una Chiesa forte, con un «vicario di Cristo» assolutista, che riunisce nelle proprie mani i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Ma la politica di restaurazione di Benedetto XVI è fallita. Le sue pubbliche apparizioni, i suoi viaggi, i suoi documenti non sono serviti a influenzare nel senso della dottrina romana le idee della maggioranza dei cattolici su varie questioni controverse, e in particolare sulla morale sessuale. Neppure i suoi incontri con i giovani, in larga misura membri di gruppi carismatici di orientamento conservatore, hanno potuto frenare le defezioni dalla Chiesa, o incrementare le vocazioni al sacerdozio.
Nella vostra qualità di vescovi voi siete certo i primi a risentire dolorosamente dalla rinuncia di decine di migliaia di sacerdoti, che dall´epoca del Concilio ad oggi si sono dimessi dai loro incarichi soprattutto a causa della legge sul celibato. Il problema delle nuove leve non riguarda solo i preti ma anche gli ordini religiosi, le suore, i laici consacrati: il decremento è sia quantitativo che qualitativo. La rassegnazione e la frustrazione si diffondono tra il clero, e soprattutto tra i suoi esponenti più attivi; tanti si sentono abbandonati nel loro disagio, e soffrono a causa della Chiesa. In molte delle vostre diocesi è verosimilmente in aumento il numero delle chiese deserte, dei seminari e dei presbiteri vuoti. In molti Paesi, col preteso di una riforma ecclesiastica, si decide l´accorpamento di molte parrocchie, spesso contro la loro volontà, per costituire gigantesche «unità pastorali» affidate a un piccolo numero di preti oberati da un carico eccessivo di lavoro.
E da ultimo, ai tanti segnali della crisi in atto viene ad aggiungersi lo spaventoso scandalo degli abusi commessi da membri del clero su migliaia di bambini e adolescenti, negli Stati Uniti, in Irlanda, in Germania e altrove; e a tutto questo si accompagna una crisi di leadership, una crisi di fiducia senza precedenti. Non si può sottacere il fatto che il sistema mondiale di occultamento degli abusi sessuali del clero rispondesse alle disposizioni della Congregazione romana per la Dottrina della fede (guidata tra il 1981 e il 2005 dal cardinale Ratzinger), che fin dal pontificato di Giovanni Paolo II raccoglieva, nel più rigoroso segreto, la documentazione su questi casi. In data 18 maggio 2001 Joseph Ratzinger diramò a tutti i vescovi una lettera dai toni solenni sui delitti più gravi («Epistula de delictis gravioribus»), imponendo nel caso di abusi il «secretum pontificium», la cui violazione è punita dalla la Chiesa con severe sanzioni. E´ dunque a ragione che molti hanno chiesto un personale «mea culpa» al prefetto di allora, oggi papa Benedetto XVI. Il quale però non ha colto per farlo l´occasione della settimana santa, ma al contrario ha fatto attestare «urbi et orbi», la domenica di Pasqua, la sua innocenza al cardinale decano.
Per la Chiesa cattolica le conseguenze di tutti gli scandali emersi sono devastanti, come hanno confermato alcuni dei suoi maggiori esponenti. Il sospetto generalizzato colpisce ormai indiscriminatamente innumerevoli educatori e pastori di grande impegno e di condotta ineccepibile. Sta a voi, stimatissimi vescovi, chiedervi quale sarà il futuro delle vostre diocesi e quello della nostra Chiesa. Non è mia intenzione proporvi qui un programma di riforme. L´ho già fatto più d´una volta, sia prima che dopo il Concilio. Mi limiterò invece a sottoporvi qui sei proposte, condivise - ne sono convinto - da milioni di cattolici che non hanno voce.
1. Non tacete. Il silenzio a fronte di tanti gravissimi abusi vi rende corresponsabili. Al contrario, ogni qualvolta ritenete che determinate leggi, disposizioni o misure abbiano effetti controproducenti, dovreste dichiararlo pubblicamente. Non scrivete lettere a Roma per fare atto di sottomissione e devozione, ma per esigere riforme!
2. Ponete mano a iniziative riformatrici. Tanti, nella Chiesa e nell´episcopato, si lamentano di Roma, senza però mai prendere un´iniziativa. Ma se oggi in questa o quella diocesi o comunità i parrocchiani disertano la messa, se l´opera pastorale risulta inefficace, se manca l´apertura verso i problemi e i mali del mondo, se la cooperazione ecumenica si riduce a un minimo, non si possono scaricare tutte le colpe su Roma. Tutti, dal vescovo al prete o al laico, devono impegnarsi per il rinnovamento della Chiesa nel proprio ambiente di vita, piccolo o grande che sia. Molte cose straordinarie, nelle comunità e più in generale in seno alla Chiesa, sono nate dall´iniziativa di singole persone o di piccoli gruppi. Spetta a voi, nella vostra qualità di vescovi, il compito di promuovere e sostenere simili iniziative, così come quello di rispondere, soprattutto in questo momento, alle giustificate lagnanze dei fedeli.
3. Agire collegialmente. Il Concilio ha decretato, dopo un focoso dibattito e contro la tenace opposizione curiale, la collegialità dei papi e dei vescovi, in analogia alla storia degli apostoli: lo stesso Pietro non agiva al di fuori del collegio degli apostoli. Ma nel periodo post-conciliare il papa e la curia hanno ignorato questa fondamentale decisione conciliare. Fin da quando, a soli due anni dal Concilio e senza alcuna consultazione con l´episcopato, Paolo VI promulgò un´enciclica in difesa della discussa legge sul celibato, la politica e il magistero pontificio ripresero a funzionare secondo il vecchio stile non collegiale. Nella stessa liturgia il papa si presenta come un autocrate, davanti al quale i vescovi, dei quali volentieri si circonda, figurano come comparse senza diritti e senza voce. Perciò, stimatissimi vescovi, non dovreste agire solo individualmente, bensì in comune con altri vescovi, con i preti, con le donne e gli uomini che formano il popolo della Chiesa.
4. L´obbedienza assoluta si deve solo a Dio. Voi tutti, al momento della solenne consacrazione alla dignità episcopale, avete giurato obbedienza incondizionata al papa. Tuttavia sapete anche che l´obbedienza assoluta è dovuta non già al papa, ma soltanto a Dio. Perciò non dovete vedere in quel giuramento a un ostacolo tale da impedirvi di dire la verità sull´attuale crisi della Chiesa, della vostra diocesi e del vostro Paese. Seguite l´esempio dell´apostolo Paolo, che si oppose a Pietro «a viso aperto, perché evidentemente aveva torto» (Gal. 2,11). Può essere legittimo fare pressione sulle autorità romane, in uno spirito di fratellanza cristiana, laddove queste non aderiscano allo spirito del Vangelo e della loro missione. Numerosi traguardi - come l´uso delle lingue nazionali nella liturgia, le nuove disposizioni sui matrimoni misti, l´adesione alla tolleranza, alla democrazia, ai diritti umani, all´intesa ecumenica e molti altri ancora hanno potuto essere raggiunti soltanto grazie a una costante e tenace pressione dal basso.
5. Perseguire soluzioni regionali: il Vaticano si mostra spesso sordo alle giustificate richieste dei vescovi, dei preti e dei laici. Ragione di più per puntare con intelligenza a soluzioni regionali. Come ben sapete, un problema particolarmente delicato è costituito dalla legge sul celibato, una norma di origine medievale, la quale a ragione è ora messa in discussione a livello mondiale nel contesto dello scandalo suscitato dagli abusi. Un cambiamento in contrapposizione con Roma appare pressoché impossibile; ma non per questo si è condannati alla passività. Un prete che dopo seria riflessione abbia maturato l´intenzione di sposarsi non dovrebbe essere costretto a dimettersi automaticamente dal suo incarico, se potesse contare sul sostegno del suo vescovo e della sua comunità. Una singola Conferenza episcopale potrebbe aprire la strada procedendo a una soluzione regionale. Meglio sarebbe tuttavia mirare a una soluzione globale per la Chiesa nel suo insieme. Perciò si chieda la convocazione di un Concilio: se per arrivare alla riforma liturgica, alla libertà religiosa, all´ecumenismo e al dialogo interreligioso c´è stato bisogno di un Concilio, lo stesso vale oggi a fronte dei problemi che si pongono in termini tanto drammatici. Un secolo prima della Riforma, il Concilio di Costanza aveva deciso la convocazione di un concilio ogni cinque anni: decisione che fu però disattesa dalla Curia romana, la quale anche oggi farà indubbiamente di tutto per evitare un concilio dal quale non può che temere una limitazione dei propri poteri. È responsabilità di tutti voi riuscire a far passare la proposta di un concilio, o quanto meno di un´assemblea episcopale rappresentativa.
Questo, a fronte di una Chiesa in crisi, è l´appello che rivolgo a voi, stimatissimi vescovi: vi invito a gettare sulla bilancia il peso della vostra autorità episcopale, rivalutata dal Concilio. Nella difficile situazione che stiamo vivendo, gli occhi del mondo sono rivolti a voi. Innumerevoli sono i cattolici che hanno perso la fiducia nella loro Chiesa; e il solo modo per contribuire a ripristinarla è quello di affrontare onestamente e apertamente i problemi, per adottare le riforme che ne conseguono. Chiedo a voi, nel più totale rispetto, di fare la vostra parte, ove possibile in collaborazione con altri vescovi, ma se necessario anche soli, con apostolica «franchezza» (At 4,29.31). Date un segno di speranza ai vostri fedeli, date una prospettiva alla nostra Chiesa.
Vi saluto nella comunione della fede cristiana.

il Fatto 15.4.10
Stati Uniti. Record suicidi nell’esercito

Dall'invasione dell'Afghanistan sino all’estate scorsa, l’esercito americano ha avuto 761 uomini caduti in combattimento. Nello stesso periodo, 817 militari hanno perso la vita suicidandosi. È quanto denuncia la rivista “Time”. Il fenomeno, in costante aumento negli ultimi 5 anni, è divenuto il problema più grave delle Forze armate Usa.

Repubblica 15.4.10
Sartre
Così è tramontato il mito di Sartre intellettuale impegnato
di Michela Marzano

L´engagément
Le parole e l´azione
"La guerra mi ha insegnato l´importanza dell´impegno", afferma nel ´45 durante la famosa conferenza "L´esistenzialismo è un umanismo", l´atto di nascita del movimento filosofico
Gli intellettuali devono contribuire a produrre determinati cambiamenti nella società che li circonda. "Le parole sono azione", scrive, e per lottare contro il "male" si deve agire

Trent´anni fa moriva il padre dell´esistenzialismo, il filosofo diventato un simbolo del rapporto tra cultura e politica che oggi non esiste più

È strano. Il trentesimo anniversario della scomparsa del grande filosofo Jean-Paul Sartre sta suscitando, in Francia, un entusiasmo piuttosto tiepido. Sorprendere soprattutto se si pensa al trionfo con cui sono stati invece festeggiati, lo scorso gennaio, i cinquant´anni della morte di Albert Camus. Radicale e anticonformista, il filosofo di Saint Germain resta il simbolo dell´impegno intellettuale, il maître à penser di tutta una generazione di filosofi. Resta colui che, avendo rifiutato prima la legion d´honneur, poi il premio Nobel, ha incarnato fino in fondo la volontà di non lasciarsi strumentalizzare dal potere e quindi trasformarsi in un´istituzione. Eppure quale eredità ha lasciato il suo pensiero filosofico? Chi, oggi, può ancora dirsi veramente sartriano?
All´indomani della Seconda Guerra Mondiale, e per più di trent´anni, Sartre combatte tutte le battaglie ideologiche: dalla critica all´imperialismo occidentale, ai viaggi in Unione Sovietica, a Cuba e in Cina, passando per la rivolta degli studenti e degli operai nel 1968, il filosofo francese non smette mai di prendere posizione. Per lui, essere un intellettuale significa scendere in campo e impegnarsi in prima persona, senza mai rinchiudersi in una torre di avorio. «La guerra mi ha insegnato l´importanza dell´impegno», afferma nel 1945, durante la famosa conferenza L´esistenzialismo è un umanismo. Pubblicato l´anno seguente, il testo del suo intervento rappresenta l´atto di nascita dell´esistenzialismo francese. L´umanismo, deriso nella Nausea, viene definitivamente riabilitato, insieme alla necessità, per ogni intellettuale, di assumersi la responsabilità delle proprie scelte. L´uomo non è più soltanto "condannato ad essere libero" e ad essere consapevole che "l´esistenza precede l´essenza", ma è anche condannato all´engagément. L´impegno non è una scelta. È un dato di fatto. È parte essenziale della condizione umana. La neutralità assiologica non esiste. Il rifiuto di scegliere è, di per sé, una scelta.
Prendendo le distanze dal materialismo, secondo cui l´uomo è il mero frutto della realtà socio-economica in cui vive, Sartre postula la necessità della scelta: una scelta assoluta e fragile al tempo stesso. Ognuno di noi deve costruire quotidianamente la propria esistenza, rifiutando le norme che vengono dall´esterno, per diventare attore della propria vita. Anche se la libertà di scelta rimane nei limiti della "fattualità", cioè del mondo, siamo noi che decidiamo di noi stessi. Solo i vigliacchi o i mascalzoni possono negare la profonda responsabilità che li lega a tutti gli altri uomini: «Quelli che nasconderanno a sé stessi, seriamente o con scuse deterministe, la loro totale libertà, io li chiamerò vigliacchi; gli altri che cercheranno di mostrare che la loro esistenza è necessaria, mentre essa è la contingenza stessa dell´apparizione dell´uomo sulla terra, io li chiamerò mascalzoni».
Per lottare contro l´assurdità della vita, si deve accettare che il destino umano sia fatto di libertà e di responsabilità e che, per essere pienamente liberi e responsabili, ci si debba assumere il rischio dell´errore. Gli intellettuali non devono cedere alla "tentazione dell´irresponsabilità" e devono invece contribuire a produrre determinati cambiamenti nella società che li circonda. "Le parole sono azione". E per lottare contro il "male" si deve agire. Poco importa se si sbaglia. Poco importa, al limite, il sacrifico individuale. L´uomo appartiene alla collettività. Nel nome del "gruppo" tutto è possibile: contro l´inerzia delle istituzioni, il gruppo "libera gli uomini dall´alterità". È per questo che, per Sartre, si deve uscire dall´incertezza piccolo-borghese di un moralismo tormentato à la Camus, per assumere fino in fondo la "libertà come necessità".
Cosa resta, tuttavia, dell´umanismo quando anche la presenza dell´altro diventa un ostacolo che si deve poter superare? Cosa resta, più generalmente, dell´engagément intellettuale quando la realtà contraddice le ideologie? Anche se, per anni, gli intellettuali francesi hanno preferito "aver torto" con Sartre piuttosto che "aver ragione" con Raymond Aron o Albert Camus, la storia ha sconfitto Sartre. La "fine delle ideologie", che Camus aveva preconizzato, ha seppellito il mito dell´intellettuale impegnato capace di incarnare l´universale per contrapporsi alle contingenze storiche. Nemmeno Camus, però, aveva previsto il vuoto che riempie oggi la sfera dei dibattiti pubblici. Gli intellettuali hanno definitivamente abdicato: alcuni sono tornati ad abitare le torri d´avorio; altri sono scesi a patti con il potere o con il mondo dello spettacolo.
Anche se l´eredità di Sartre è scomoda, occorre evitare di seppellirla definitivamente. La necessità, per ciascuno di noi, di trovare il proprio cammino verso la libertà resta un monito valido ancora oggi. Esattamente come l´invito agli intellettuali a impegnarsi con coraggio nel mondo in cui vivono. La filosofia e la letteratura non sono un mero esercizio di stile. La scrittura e la parola devono coinvolgere tutta l´umanità. Se ognuno è ontologicamente responsabile del mondo in cui vive, però, è anche responsabile delle conseguenze contingenti delle proprie prese di posizione.
Camus diceva che, se fosse stato costretto a scegliere tra la "giustizia" e "sua madre", avrebbe scelto, senza esitare, sua madre. Nel suo caso, però, non si trattava di abdicazione o di moralismo. Si trattava di una raccomandazione agli intellettuali almeno altrettanto importante quanto i moniti di Sartre: impegnarsi non vuol dire solo difendere l´universale, ma anche occuparsi della sorte dei singoli individui; l´engagément non è solo attivismo ideologico, ma consiste anche nel prendere sul serio l´estrema fragilità della condizione umana. L´umanismo esistenziale non è forse anche questo?

Repubblica 15.4.10
I luoghi di una stagione filosofica e letteraria
Quella Parigi ormai sparita
di Francesco Merlo

Rue Dauphine
Non esiste più, abbattuta nel 1991, l´ultima cave dell´esistenzialismo, dove cantava Juliette Greco. E non esiste più nemmeno la fortezza operaia della Renault di Billancourt, che il filosofo occupò nel maggio del ´68

Coltivato come fosse un luogo di richiamo, di intrattenimento intellettuale e di rifugio sentimentale, Sartre non è più letto da nessuno né tantomeno studiato, ma è molto "visitato". Alla Gallimard, sul boulevard Raspail, i suoi libri sono cadaveri, assopiti come mummie, ma per capire la filosofia dell´esistenza è sufficiente passeggiare nella rue Bonaparte e sospirare al numero 47 dove è morto e dove, goffo e strabico come tutti coloro che vedono troppo o che stravedono, era vissuto nel disordine con la mamma alsaziana quando già era l´intellettuale più popolare del secolo e i feticisti si disputavano la pipa con l´impronta dei denti dimenticata su un tavolo del "Deux magots".
Non è vero che i luoghi definiscono le identità, ma non è solo l´industria del souvenir a farci credere che alla "Brasserie Lipp" i bicchieri di birra cantino "Rive gauche à Paris / adieu mon pays / adieu le jazz , adieu la nuit". L´ultima cave dell´esistenzialismo, il "Tabou" di rue Dauphine, fu abbattuta nel 1991: una scaletta di pietra, la pista dove Juliette Greco si esibiva con La rue des Blancs-Manteaux che Sartre aveva scritto per lei, Camus ballava il boogie e Boris Vian suonava la tromba. Ora c´è un albergo, ma le guide di Parigi si ostinano a consigliare un pellegrinaggio alla cave che non c´è. Anche la fortezza operaia della Renault di Billancourt che Sartre occupò nel maggio del ‘68 non esiste più. Eppure andandoci coltivi ancora l´illusione di infilarti in un pensiero rivoluzionario. E rivedi i fantasmi di Stalin dinanzi alla vecchia sede di Les temps modernes: «Sono rimasto per quattro anni molto vicino ai comunisti anche se le mie idee non erano le loro, e loro lo sapevano. E ho mentito, anche se "mentire" è parola troppo grossa, perché ho detto sull´Urss cose amabili che non pensavo... Anche dopo la morte di Stalin, io non sapevo che cosa era un gulag». Tutti viaggiamo con occhi cimiteriali, non vogliamo perderci tra i vivi abitanti di una città viva ma ritrovarci tra i suoi morti, dedurre le loro identità dalle facciate degli edifici che abitarono. Come a Istanbul Pamuk fa ritrovare il turista smarrito nella "turchità" del bianco e nero e della nostalgia dei padri, così Sartre è un farmaco contro l´avventura di perdersi in un "Café de Flore" affollato e ostile, scomodamente seduti davanti a un uovo fritto pagato carissimo che però, grazie a Queneau, Simone de Beauvoir e Giacometti, diventa l´uovo fritto dell´esistenzialismo, l´illusione di giocarti tutto nell´azzardo di un incontro, nella scommessa di un amore. Persino le bizzarrie delle fenomenologia di Husserl ti accolgono come vampate di passione all´ingresso dell´Ècole normale supérieure in rue d´Ulm, un edificio austero e un decoro napoleonico che Sartre, Aron e Nizan erano fieri di disprezzare.
Ma sono tutti falsi luoghi, perché neppure sulla tomba al cimitero di Montparnasse c´è la lapide che sta in fondo a Le parole: «Un uomo fatto di tutti gli uomini, tutti lo valgono, li vale tutti». Eppure, come fossero pagine della Ragion dialettica, affronti le salsicce lionesi, di cui andava ghiotto, pensando di mangiare l´exprit e ti senti ignorante se non sai che alla "Closerie des lilas", davanti a una choucroute, Aron gli disse di non amare né gli americani né i sovietici «ma se ci fosse una guerra starei con gli americani», e Sartre gli rispose che anche lui non li amava «ma se ci fosse una guerra starei con i comunisti».
È nevrotico l´anniversario di Sartre, è un itinerario di motti e di aforismi in un città che è bellissima in aprile, persino più bella di allora: «Parigi fu il nostro vincolo, ci volevamo bene in mezzo alle folle di questa città grigia, sotto i cieli leggeri delle sue primavere».

Repubblica 15.4.10
Da Togliatti al Sessantotto
I rapporti, non sempre facili, con la sinistra italiana
di Filippo Ceccarelli

Freddezza
Ai tempi del "migliore" il Pci era passato da critiche pesanti a una grande considerazione per l´autore della "Nausea". Poi negli anni Settanta ancora freddezza per la firma all´appello "contro la repressione"

Occhiali rotondi con stanghette sottili, capelli bianchi e lisci. In quel gran presepe del comunismo italiano che sono I funerali di Togliatti (1972) Jean-Paul Sartre è riconoscibile nella folla proprio al fianco dell´autore, Renato Guttuso; poco più avanti si vede Elio Vittorini, alle loro spalle Angela Davis. Alle esequie del capo del Pci l´intellettuale principe di tutti gli intellettuali partecipò effettivamente con la de Beauvoir. A Roma scese come sempre all´hotel Nazionale e a piazza Montecitorio consegnò a Maria Antonietta Macciocchi dieci cartelle destinate all´Unità su "Il mio amico Togliatti". L´anno seguente, il 1965, uno dei primi Oscar Mondadori fu La nausea e vendette 190 mila copie. Nell´arco di un quindicennio i comunisti italiani avevano fatto a tempo a trattarlo come un degenerato, pronto a «compiacersi della pederastia e dell´onanismo», e poi a difenderlo dai suoi stessi e dai loro stessi – e un po´ rozzi – compagni del Pcf.
Sartre adorava l´Italia: ma forse più come un luogo di vacanza che di impegno. Così come gli italiani, specie quelli appartenenti al ceto dei colti, erano sospettosi e sia pure sottovoce lo ritenevano "illeggibile". C´era un po´ d´antipatia, forse pure d´invidia. I giovani erano senz´altro meglio disposti. Il celebre bandito Casaroli si è poi definito "a modo mio" un seguace di Sartre. Mentre con più pacifici esiti ha confessato Carlo Freccero di aver messo da parte l´idea di farsi prete dopo la lettura de L´età della ragione.
Nell´estate del 1960, lasciata Simon a Parigi, Jean-Paul se ne venne allegramente a Capri con uno schianto di giovane studentessa franco-tunisina. E tuttavia: «Sulle cose del sesso – proclamò una volta Moravia – gli italiani non hanno bisogno di prendere lezioni da Sartre». A Roma lo portavano a mangiare il fritto vegetale della signora Andreina dalle parti di Campo de´ fiori; a Milano era trattato con tutti i riguardi al "Giamaica". All´ospitalità, con qualche inevitabile semplificazione, si può dire che provvedeva il Pci. Ma forse anche questa cortese attenzione rivelava un qualche retropensiero precauzionale – specie dopo il Sessantotto, essendo Sartre già entrato come immancabile antipasto nel menu ideologico di quella stagione, vedi gli ameni versi di Giuliano Zincone: «Morale sessuale più elastica./ All´ora del Tet/ si conversa di Sartre, di Gramsci, di Gobetti.../ Nei baretti/ il whisky di malto si versa».
Berlinguer fu molto meno amichevole di Togliatti; e adesso non è per ridurre la grande storia delle idee a beghe personali, ma nel 1977 Sartre mollò a lui e a tutto il Pci un bel ceffone, e in un momento davvero molto delicato, firmando assieme a tanti altri suoi illustri connazionali un "Manifesto contro la repressione", quest´ultima secondo loro determinatasi ai danni di alcuni giovani militanti bolognesi per via dell´accordo tra comunisti e Dc. Al che: «Ribellarsi è giusto – commentò laconico Lucio Colletti – ma invecchiare bene è anche importante».
Molto più complesso che ripercorrere il rapporto tra Sartre e l´Italia è indovinare che cosa il filosofo della libertà abbia lasciato in un paese in cui comanda ora il Popolo della Libertà. E tra enfasi e oleografia, la tentazione è di azzardare la sintesi quasi blasfema di una dottrina più che defunta, scarnificata. E dunque, come angostura, o come coriandoli: protagonismo mediatico, fumo di sigarette, culto del rifiuto, individualismo anche generoso, ma capriccioso, e l´appello, i salotti, la guerra al luogo comune, un pezzetto di Saviano, un assaggio di Sgarbi, una goccia di Manifesto, una stilla di Pannella, un bimbo che guarda I funerali di Togliatti e chiede: «Mamma, chi sono tutti quelli lì?».

Repubblica 15.4.10
Anni di piombo
"L'errore storico di Mitterrand"
di Anais Ginori

Un´opera curata da Marc Lazar esamina il periodo del terrorismo italiano. E rivede molti dei pregiudizi che hanno portato gli intellettuali francesi a posizioni come quella sul "caso Battisti"

La giusta distanza, sugli Anni di Piombo. Tra Italia e Francia, due nazioni e due modi completamente differenti di guardare a quel tragico periodo della nostra storia recente. L´asticella è fissata decisamente in alto. Eppure: «Penso che sia finalmente arrivato il momento di dare la parola alla Storia».
Marc Lazar, professore a Sciences Po e alla Luiss, dov´è Presidente della School of Government, è il curatore di L´Italie des années de plomb, appena pubblicato in Francia dell´editore Autrement, in uscita presso Rizzoli nel prossimo autunno. Il tentativo è quello di costruire tra i due Paesi una memoria condivisa sul terrorismo. Di mezzo c´è la "Dottrina Mitterrand", che permise a decine di ex terroristi di trovare rifugio e protezione Oltralpe, e scatena ancora oggi scontri diplomatici e ideologici. «Ma il cambio generazionale tra gli studiosi permette un approccio meno drammatico e ideologico» è la speranza di Lazar, insieme a Marie-Anne Matard-Bonucci curatore della raccolta che comprende contributi di testimoni dell´epoca come il consigliere di Mitterrand, Jean Musitelli, Anna Bravo e Luigi Manconi, i procuratori Gian Carlo Caselli e Armando Spataro, e storici, spesso giovani, come Guido Panvini, Julien Hage, Sophie Whanich.
Professor Lazar, i casi di Paolo Persichetti e di Cesare Battisti hanno improvvisamente riaperto un conflitto diplomatico che si pensava relegato al passato. Davvero è possibile trovare una sintesi storica?
«Questo libro italo-francese vorrebbe essere un contributo alla stesura della nuova storia degli Anni di Piombo, in verità appena iniziata. Da argomento ricorrente di polemiche, questo periodo sta finalmente diventando materia di studio per gli storici. È un percorso classico: dopo trenta o quaranta anni, gli eventi traumatici possono essere osservati in modo più equilibrato, esplorando temi in parte trascurati. Per gli Anni di Piombo, la Storia si basa soprattutto sul lavoro, spesso eccellente, realizzato quasi a caldo da specialisti di scienze sociali e politiche, da commissioni parlamentari, inchieste giudiziarie, e poi dall´apertura, ancora incompleta, di alcuni archivi. Il volume che pubblichiamo prende spunto anche dagli studi di giovani storici portatori di un approccio più distaccato».
Nel libro lei riprende la definizione "guerra civile a bassa intensità", molto amata da alcuni intellettuali francesi.
«In Italia parole come "terrorismo" o "Strage di Stato", hanno significati pesanti e conseguenze politiche. Ho voluto affrontare anche l´idea della "guerra civile a bassa intensità", inventata successivamente agli Anni di Piombo, per capire come mai quest´espressione si è diffusa così facilmente in alcune frange dell´opinione pubblica italiana e ancor di più francese, dove ha attecchito in modo prepotente. Da noi è servita a chi voleva giustificare i militanti di estrema sinistra che partecipavano alla lotta armata. Ho invece cercato di dimostrare che è un´espressione totalmente fuori luogo, sbagliata e non condivisa dalla schiacciante maggioranza dei protagonisti dei fatti dell´epoca».
Eppure in Francia questa rappresentazione del terrorismo italiano gode ancora di buona stampa e illustri portavoce.
«Spero che questo libro venga letto, discusso e commentato in Francia come in Italia. I malintesi franco-italiani sono dovuti a una ricostruzione molto ideologica e unilaterale degli eventi, cominciata negli anni Settanta. Abbiamo analizzato la lettura che danno certi intellettuali e esponenti socialisti francesi della contestazione italiana degli anni Settanta, molto influenzata dai militanti italiani che avevano scelto la lotta armata e si sono poi trasferiti Oltralpe. Ritengo che ci sia stato, da parte francese, un fraintendimento sul sistema politico italiano, sulla Dc e sul Pci. Inoltre, ci sono anche molti equivoci sulle vere ragioni che hanno portato in clandestinità una parte dell´estrema sinistra, sulla repressione dello Stato e sulla reazione della giustizia italiana».
La "Dottrina Mitterrand" è anche il frutto di questo equivoco?
«Un primo accesso, ancorché parziale, agli archivi del presidente Mitterrand, e la raccolta di diverse testimonianze, ci permettono di inquadrarla meglio. In realtà, non ha mai avuto alcun valore giuridico. Negli 1981, quando Mitterrand venne eletto e molti terroristi italiani decisero di trasferirsi in Francia, ci furono divergenze tra i rispettivi vertici dello Stato. Nell´orientamento del presidente francese pesarono anche le sollecitazioni di Bettino Craxi che, tra il 1983 e il 1984, temeva che il ritorno in Italia dei condannati per lotta armata avrebbe ricostituito il fronte della "fermezza" tra Dc, repubblicani e partito comunista».
Gli ultimi presidenti francesi si sono comportati in modo diverso e spesso contraddittorio sulle richieste di estradizione dei rifugiati italiani.
«La "Dottrina Mitterrand" non è un testo scritto e univoco. In realtà, è composta da alcune esternazioni pubbliche del presidente e dal blocco delle estradizioni, nient´altro. L´obiettivo iniziale era il reinserimento degli italiani, a due condizioni: la rinuncia alla lotta armata e il non aver commesso crimini di sangue. Il rispetto di quest´ultima condizione è cambiato nel tempo a seconda delle pressioni dell´Italia e delle mutazioni interne alla politica francese. Dopo Mitterrand non c´è più stata una linea omogenea nei confronti degli italiani rifugiati in Francia. Con Jacques Chirac e Nicolas Sarkozy le decisioni sono state prese caso per caso, a seconda dell´umore del momento».
Nella raccolta che ha pubblicato si parla anche di amnistia. Mitterrand decise di perdonare alcuni ex terroristi degli anni Settanta. Crede ci possa essere un paragone con l´Italia?
«La Francia non può permettersi di dare lezioni all´Italia sul ricorso all´amnistia. Penso che oggi l´unico obiettivo degli storici, italiani e francesi, debba essere quello di comprendere e di spiegare la complessità degli Anni di Piombo».

Repubblica 15.4.10
Le Brigate rosse e i loro fiancheggiatori
Raccolte le analisi dello storico Angelo Ventura, che fu ferito dai terroristi
di Benedetta Tobagi

Le tesi dello studioso risalgono agli anni Ottanta. Sono anche una fonte per ricostruire le reazioni del mondo intellettuale di fronte alla violenza armata

Negli anni Settanta Angelo Ventura insegna all´ateneo di Padova, feudo dell´Autonomia operaia organizzata di Toni Negri. Violenze, pestaggi e intimidazioni sono all´ordine del giorno e la città tutta è scossa da reiterate esplosioni di guerriglia urbana, le "notti di fuochi". Ventura appartiene a una tradizione culturale laica, riformista, nutrita di antifascismo democratico: l´opposto del radicalismo rivoluzionario dei terroristi. È tra i professori che si oppongono alle violenze e intimidazioni degli "autonomi", con gravi conseguenze: Petter e Longo sono oggetto di feroci pestaggi, Riondato è ferito a colpi di pistola. Stessa sorte tocca a Ventura. Del terrorismo, dunque, non è un osservatore neutro. Cita De Sanctis: "la vita è maestra della storia" e impone allo studioso domande urgenti. «Faccio il professore di storia, studiare i meccanismi della sopraffazione e del fanatismo rientra tra i miei compiti».
Per una storia del terrorismo italiano (Donzelli, pagg. 179, euro 26), ripropone cinque saggi pubblicati tra il 1980 e l´84, opere che oggi sono esse stesse documento, fonti primarie per la ricostruzione delle reazioni del mondo intellettuale al terrorismo, così come per una storia delle interpretazioni del fenomeno. Al tempo stesso, pur a tanti anni di distanza, offrono spunti per proseguire in una ricerca storica che in Italia è ancora in fase embrionale.
Già nell´80 Ventura traccia le linee guida per un´analisi del terrorismo di sinistra a partire dal contesto e i modelli internazionali della lotta armata. Non trascura i fattori materiali, politici, sociali, ma individua un nodo essenziale per la comprensione della diffusione e virulenza del terrorismo rosso nello studio delle sue radici ideologiche. Affronta i nessi tra movimenti di protesta e terrorismo, tema controverso con cui molti storici sono tuttora riluttanti a confrontarsi, senza mai cadere nella generica demonizzazione del ‘68: distingue le prime forme di lotta e contestazione studentesca dalle teorizzazioni dei gruppi leninisti-operaisti. Ne Il problema delle origini del terrorismo di sinistra (pubblicato nell´ottima serie di studi dell´Istituto Cattaneo) ricostruisce i legami personali, operativi e ideologici tra i Gap di Feltrinelli, Potere Operaio e le neonate Brigate Rosse, la "prima generazione" del terrorismo, che tra il 1969 e il ´73 teorizza la strategia della lotta e dell´insurrezione armata, basandosi sullo studio di documenti e pubblicazioni dei gruppi stessi (e fa davvero impressione rileggerli), incrociata con risultanze giudiziarie. PotOp e poi la galassia di gruppi dell´Autonomia operaia organizzata nati dopo il suo scioglimento nel 1973 hanno un ruolo cruciale nello sviluppo della lotta armata. Enfatizza le affinità ideologiche tra Autonomia e Br, derubricando i contrasti tattici e personali come tecniche per occultare l´alleanza strategica tra i due soggetti (in linea con l´ipotesi accusatoria sostenuta da Pietro Calogero, alla base del processo "7 aprile"). È questo il punto più controverso dell´interpretazione di Ventura, che qui va oltre ciò che è strettamente documentabile e documentato. I processi hanno fatto cadere le imputazioni dei leader "autonomi" per insurrezione armata e partecipazione alle Br. Le polemiche sul "7 aprile" non devono però occultare (come troppo spesso avviene) alcuni dati storicamente rilevanti: molti gruppi dell´Autonomia, oltre a predicare l´insurrezione e la violenza antisistema, si dotarono di strutture illegali ed ebbero contatti con i terroristi; molti militanti dalle frange più bellicose entrarono nelle bande armate o costituirono gruppi di fuoco autonomi. Anche senza condividere la sua tesi, l´analisi di Ventura offre dunque elementi importanti per affrontare il terrorismo diffuso di fine anni Settanta e il tema spinoso delle "aree di contiguità" in cui i terroristi trovarono tolleranza, consenso, appoggi. Le polemiche sul "7 aprile" come "processo alle idee" rendono ardua una riflessione articolata sulle responsabilità (e irresponsabilità) non già penali, ma politiche e culturali, dei leader dell´Autonomia organizzata, tema che ritorna ne La responsabilità degli intellettuali.
Non solo Autonomia: Padova è un epicentro del terrorismo di destra. Nell´82 Ventura è tra i primi a occuparsi di quel filone culturale del radicalismo di destra che ha espresso il terrorismo nero e lo stragismo. Si sofferma sulla sua radice mistico-esoterica, che è stata anche terreno d´incontro con la massoneria deviata. Proprio al problema storico dei poteri occulti in Italia è dedicato l´ultimo saggio: organizzazioni eversive, loggia P2, criminalità organizzata. Con la crescita della democrazia, cresce la tentazione dei gruppi di potere a operare in forme coperte per conseguire i propri fini, eludendo le leggi e la volontà della maggioranza. Ventura indica una direzione di ricerca a tutt´oggi pressoché inesplorata: un´altra sollecitazione da raccogliere.

Agenzia Radicale 9.4.10
L’«Istinto» di Massimo Fagioli. Quaranta anni dopo
Intervista a Massimo Fagioli
di Paolo Izzo


Quarant’anni fa veniva pubblicato per la prima volta “Istinto di morte e conoscenza”, il rivoluzionario capolavoro di Massimo Fagioli (cui seguirono presto, nel 1974 e nel 1980, tre libri altrettanto importanti per la definizione della teoria fagioliana: “La marionetta e il burattino”, “Teoria della nascita e castrazione umana”, “Bambino donna e trasformazione dell’uomo”). Da quel lontano 1970, il libro con le scoperte dello psichiatra marchigiano sulla realtà umana, dalla “pulsione di annullamento” alla “fantasia di sparizione” alla sanità della nascita, è stato venduto in migliaia di copie, con ben dodici ristampe.
Tanto che ormai il lavoro di Fagioli è conosciuto e riconosciuto come “Teoria della nascita”. Dopo quarant’anni, la nuova casa editrice L’Asino d’Oro ripropone in grande stile il primo volume dello psichiatra dell’Analisi collettiva, che non ne ha cambiato nemmeno una virgola, aggiungendovi soltanto una breve appendice, intitolata “La violenza invisibile”. In questa lunga conversazione con Massimo Fagioli, siamo partiti da questa riedizione straordinaria di “Istinto di morte e conoscenza”, in libreria da oggi.

Professor Fagioli, la sua Teoria è immutata e immutabile. Segno che ha funzionato e che funziona. Soprattutto nella sua prassi di “cura per la guarigione” della malattia mentale, attraverso l’interpretazione dei sogni.

I cardini rimangono sempre fantasia di sparizione, pulsione di annullamento e negazione, che impostano tutte le possibilità e la realtà della cura attraverso l’interpretazione dei sogni. Se non c’è questo e invece c’è la cretineria di un Freud che dice che i sogni sono desideri, non si farà mai assolutamente nulla. Il problema era scoprire la negazione, cioè la deformazione delle immagini nel sogno: questa elaborazione nel passaggio tra veglia e sonno, per cui la cosa percepita viene deformata in senso negativo. L’interpretazione dei sogni è questo. Il desiderio invece no, perché conduce alla tragedia del ’68, che diceva di voler liberare il desiderio dalla repressione e che così l’uomo avrebbe raggiunto la felicità. Pura cretineria.

Scoprire la negazione. Nessuno ci aveva mai pensato?

Perché la negazione si può scoprire se si scopre la pulsione di annullamento, che si può scoprire se si scopre la Teoria della nascita. Allora si può interpretare la negazione che porta a una alterazione della realtà, che va dalla “diffamazione”, ovvero credere che uno è brutto e cattivo e invece non lo è, alla schizofrenia di chi ammazza perché pensa che nell’altro ci sia Satana. La matrice di tutto sta nella percezione delirante: il malato è convinto che quello è Satana e quindi lo ammazza; cioè “vedrebbe dentro” l’apparenza del corpo. Lo studio della percezione delirante: altra cosa che nella vecchia psicoanalisi non esiste.

Quarant’anni dopo “Istinto” che cosa è cambiato?

E’ cambiata la storia. Quarant’anni fa c’era il comunismo, che non era stato messo in crisi nemmeno dai fatti del 1956, con Krusciov e la destalinizzazione. In realtà la crisi del comunismo poteva arrivare, ma non era stata vista e forse l’aveva realizzata soltanto Giolitti, che se ne andò… Poi, anche la Chiesa cattolica era diversa: adesso è particolarmente feroce, in particolare sulla identità delle donne, sulla sessualità. Ma a quei tempi era meno feroce, si occupava meno di queste faccende. Sono tanti i movimenti storici, insomma.

Dell’impianto teorico di “Istinto di morte e conoscenza” non è cambiato niente, ma una novità importantissima c’è stata, lei lo afferma spesso, con l’arrivo della Analisi collettiva, con la trasformazione cioè della sua “Teoria della nascita” in una prassi psicoterapeutica. Questo fa la differenza con il 1970?

Come dico sempre e come ho detto anche da poco a “la Repubblica”, non sono io che ho fatto l’Analisi collettiva. Qui c’è da osservare il movimento, chiamiamolo pure popolare, che è l’arrivo di centinaia e migliaia di persone che chiedevano, guarda caso, proprio l’interpretazione dei sogni. Un movimento di massa cui ho risposto, nel senso che non sono scappato. Né per paura, né per impotenza, né tanto meno per mantenere l’identità di studio, segretaria, appuntamenti fissi e onorario individuale. C’è stata la mia risposta a una massa di persone anonime, che io non conoscevo, di cui tuttora non so nemmeno nome e cognome. La ricerca cioè di un rapporto interumano pulito, diretto, per quello che è: non ci si confronta per l’identità sociale, professionale, ma per quella realtà umana che è dialettica tra due identità. Chiaramente io propongo che la mia sia sana e l’altra malata, oppure negante. E questa è la dialettica della cura della psicosi, oppure della formazione di una persona che non è psicotica, ma deve “formare” la propria identità umana. E questa cosa, dopo 35 anni, indubbiamente è riuscita.

Non soltanto è riuscita ma si è anche contrapposta all’idea che il movimento di massa sia sempre, se non terrificante, quantomeno ingestibile…

Perché esisteva soltanto la possibilità di starsene sul lettino a cercare il ricordo cosciente delle cose dimenticate. Per cui stavano lì ore e ore, venti venticinque anni, come hanno confessato Bertolucci e Woody Allen nei loro film, a cercare quello che gli era successo a cinque sei anni di età. Perché c’era l’affermazione categorica che i sogni non erano direttamente interpretabili, cioè che i sogni non avevano linguaggio: erano soltanto ricordi coscienti deformati dalla censura del superio. Questo era il concetto freudiano. Da lì, allora, il mio rifiuto radicale, totale: perché la montatura che fecero su Freud era propria truffaldina. Quello non aveva pensato né scoperto assolutamente niente!

Anche se le radici affondano in suoi scritti precedenti, sulla “percezione delirante” e la “psicoterapia di gruppo”, “Istinto” arrivò all’inizio di anni molto difficili.

Negli anni 60 era cominciato tutto un movimento che doveva sfociare nel grandissimo fuoco di paglia del ’68: c’era, da Marcuse a Foucault, questa strana ideologia di liberare gli istinti e tutto si sarebbe risolto. Una stupidità che non capisco: solo un ubriaco potrebbe sostenere una cosa del genere. Invece io ho sostenuto che ci debba essere la ricerca dell’identità umana. Da sempre, mi viene da dire da tremila e cinquemila anni, si è tenuto fuori il pensiero senza coscienza, che al contrario rappresenta un terzo di vita, cioè 33 anni su 100, come se non fosse realtà umana, come se ci fosse l’idea terribile che andare a dormire, addormentarsi è come morire, perché non c’è pensiero. Nessuna filosofia s’è mai occupata di quel terzo di vita. Soltanto dopo la Rivoluzione francese, ai primi dell’Ottocento, si cominciò a dire che il pensiero senza coscienza c’è, però è inconoscibile! Su questo si è basata tutta la Storia: voler fare una liberazione umana, una emancipazione senza cercare una identità umana che comprendesse anche la realtà e la dinamica fra veglia e sonno. Io dico che se questa non è una fatuità schizofrenica, che cos’è? Invece io sostengo che si deve realizzare un’identità; il principio del piacere verrà dopo. Se non c’è identità, il principio del piacere è ammazzare il prossimo; è quello del maniaco sessuale che prova piacere ammazzando.

Veniamo alla politica?

Stavo rileggendo la risposta che ho dato ad Alessandra Longo su “la Repubblica” di ieri. Il giorno prima la giornalista mi aveva accusato un po’ di essere un “menagramo”, perché chi viene con me andrebbe a finire male politicamente. La Longo correttamente ha pubblicato la mia risposta, in cui confermo invece che Emma Bonino a Roma ha preso un milione e trecentomila voti, più del 50 per cento. Altro che “menagramo”!

Nella risposta a “la Repubblica” risalta ancora una volta la sua distanza netta dal catto-comunismo, che risale appunto ai tempi di “Istinto”…

Lì mi devo un po’ correggere, perché tutto forse risale anche a dieci anni prima, a quegli scritti sulla percezione delirante di cui accennavi tu.

Come si lega il rifiuto del catto-comunismo con le sue scoperte sulla nascita umana? Cioè: per scoprire la fantasia di sparizione, per ideare la sua Teoria è stato necessario rifiutare sia il cattolicesimo, sia il comunismo (e di qui forse l’interessamento dei Radicali). Mi spiega perché?

L’ho sempre saputo e pensato, ma la verbalizzazione è avvenuta soltanto negli ultimi tempi. Perché, sintetizzando, è noto dalla storia che l’inizio del Cristianesimo parte proprio con l’attacco ai sogni, a quello che doveva essere rimasto a Roma della cultura etrusca, che aveva una impostazione di divinazione, di auguri, di aruspici. La prima cosa che fanno con i concili di Ankara del 312 e di Nicea del 325 è di condannare quello che c’era di “etrusco” e in particolare l’interpretazione dei sogni. La cosa viene confermata da sant’Agostino che dice che i sogni esistono e sono mandati da Dio, ma anche dal diavolo e siccome non si può stabilire chi li mandi, allora vanno eliminati, condannati. Così, sotto Teodosio, gli interpreti dei sogni vengono proprio condannati a morte. Questo, dopo l’anno Mille, si svilupperà con la caccia alle streghe e agli eretici, bruciati perché avevano un pensiero originale che non obbediva alla bibbia, ai vangeli, ai dettami della curia, cosa che succede anche oggi. Qui è da osservare che non dicono che non esiste l’inconscio, ma che esso è il male e quindi va combattuto. Ma non dice che non esiste.

Il comunismo invece?

Dopo l’Illuminismo, in cui ugualmente c’era l’idea che il pensiero senza coscienza fosse inconoscibile (“anima spirituale”, eredità di Platone), accade qualcosa soprattutto nel leninismo, ma già a partire da Marx, che annunciava il suo fallimento sulla realtà umana nella famosa “Lettera al padre” del 10 novembre 1837. Nel 1923, dopo la libertà e la rivoluzione sessuale raccontate dalla Kollontaj, Lenin procede con una dura repressione, con la scusa dalla crisi economica, e il comunismo diventa ultra-razionale. Questo porterà poi alla grande potenza di Stalin. In quel periodo viene fuori che tutto ciò che non è coscienza, tutto ciò che non è ragione, prassi positivistica in rapporto soltanto con la realtà materiale, non esiste! Non è più come con la Chiesa cattolica che dice che va combattuto: dice proprio che non esiste, cioè arriva all’annullamento totale. E forse questa è una violenza invisibile molto maggiore di quella della Chiesa cattolica. Perché significa non doversi occupare assolutamente di realtà umana. Significa che non si afferra che la trasformazione non è trasformare il mondo: la trasformazione è quel movimento che passa dalla veglia al sonno (e forse anche dal sonno alla veglia), quando scompaiono veglia, coscienza, comportamento e linguaggio articolato, però il pensiero resta. Al mattino, dopo sette otto ore di sonno, ritorna quell’altro pensiero. E’ qui che bisogna trovare la parola “trasformazione”: allora si trova anche la possibilità di cura, attraverso la trasformazione di immagini, di forme di pensiero, che però contengono una negazione, cioè che non sono rappresentazione della realtà percepita.

Nella fascetta della nuova edizione del suo libro si legge “Il sogno è un pensiero per immagini. Un pensiero non cosciente la cui comprensione può portare ad una ulteriore realizzazione dell’essere umano”…

Appunto. La cosa importante è capire che il pensiero del sonno non è un mondo oscuro di orchi, di streghe, di diavolerie terrificanti. No! E’ un pensiero che si esprime mediante immagini senza linguaggio articolato, che se è malato è basato sulla negazione, sull’orrore, sull’impostazione di distruggere. Se invece è sano, parla, racconta. Tutto sta poi a comprendere questo linguaggio silenzioso. E universale.

Che lei lega alla nascita umana…

E’ lì che parte la trasformazione! Ed ecco l’idea, di cui la Chiesa non vuole sentir parlare perché è darwiniana al cento per cento: il feto non ha vita, è dimostrato anche scientificamente. Ha esistenza. Con il venire alla luce, con questo stimolo dell’ambiente fuori dall’utero e dall’acqua in cui non respira, ma in particolare con il rapporto con la luce, nasce l’essere umano. Comincia la capacità di immaginare e quindi è il feto è trasformato completamente in essere umano, anche se il corpo è più o meno lo stesso. La vera trasformazione è che compare il pensiero e che esso compare dalla realtà biologica! La Chiesa non lo accetterà mai, perché il pensiero deve venire dall’anima, dallo spirito santo, da Dio.

In una recente intervista, Barbara Palombelli ha detto che il suo è un libro fondamentale e che lo dovrebbero leggere tutte le mamme.

Sì, “fondamentale per il rapporto mamma-figlio”. Certo: perché le mamme devono sapere che il figlio ha nascita e identità. Non è identità adulta, non ha la parola, non cammina, però è un’identità. E’ una identità di pensiero. Mentre nella cultura millenaria il bambino al massimo è un animale. Con il conseguente, terribile, battesimo dei cattolici, come se il neonato fosse una bestia che soltanto loro rendono umano. Anche questo le mamme devono sapere: che quella è tutta una violenza, neanche tanto invisibile.

Rapporto mamma figlio, ma poi rapporto uomo donna.

Da qualche tempo, da una decina di anni, abbiamo cominciato a leggere la parola “diverso” in modo nuovo. Quella parola l’ho legata al primo anno, anno e mezzo, di vita senza comportamento, senza parola e cammino. Per cui è un pensiero nascosto, fatto solo di immagini. Che quindi è diverso dalla nostra realtà di adulti… E’ qualcosa che si ricrea nel sonno veglia: la veglia è l’adulto e il sonno è quel primo anno di vita. Dunque c’è una realtà “diversa”, non animale, dentro di noi e questa realtà scatta dopo, quando a due, tre anni cominciamo a vedere la differenza tra il bambino e la bambina… E nel rapporto uomo donna ognuno è diverso dall’altro, non uguale! C’è una uguaglianza di fondo che è l’essere umani. Siamo esseri umani. Però siamo diversi ed è dialettica tra due identità diverse. E questo mi pare abbastanza interessante anche contro il razzismo: le razze non esistono, ma il colore della pelle può essere diverso. E anche lì è una dialettica tra esseri umani, però diversi.

Di fondo l’uguaglianza della nascita…

E la diversità nella formazione dell’identità… Ecco perché poi non sono d’accordo con il comunismo. Perché il comunismo toglie questa diversità dell’età adulta. Per rendere tutti uguali, ma in maniera esterna, formale.

C’era già in Freud, che sosteneva che tutti sono perversi dalla nascita e poi hanno una sessualità incerta, una bisessualità di fondo. Dopo ci si è messa l’antipsichiatria a dire che siamo tutti matti. E nel frattempo il comunismo aveva detto che dovevamo essere tutti uguali, indossare la stessa giacchetta grigia…

Ma è la Bibbia! È il peccato originale, ribadito fino a oggi dalla Chiesa. Il peccato è originale è animalità, perversione, malattia mentale. La matrice è la credenza nel peccato originale.

Mi viene da concludere che la sua vera eresia sia stata quella di mettere l’uguaglianza all’inizio della vita umana, nella nascita, mentre per gli altri è un fine: uguaglianza, ma come omologazione, normalizzazione. Per lei l’uguaglianza della nascita è il punto di partenza.

Esatto. E ognuno poi realizza la propria identità umana come gli pare, nella massima libertà, nella massima diversità.